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I TESTIMONI DELL’ARCHITETTURACOLLANA DIRETTA DA CARLO OLMO ED EDOARDO PICCCOLI
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Sommario
9 IntroduzioneDIANE GHIRARDO
13 Per una storia dell’architettura non autarchicaMICHELA ROSSO
23 Un’acropoli invisibile
33 Forse Eisenman
45 Presenze e assenze
55 Curvi sotto il peso del tempo e della storia
65 A proposito dell’architettura del Sud-ovest
77 Lo spazio dell’identità nel Pueblo di Los Angeles
95 Disperatamente cercando un centro a downtown Los Angeles
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DIANE GHIRARDO
DOPO IL SOGNOArchitettura e città nell’America di oggi
A cura di MICHELA ROSSO
UMBERTO ALLEMANDI & C.TORINO ˜ LONDRA ˜ VENEZIA ˜ NEW YORK
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INTRODUZIONE
Itesti riuniti in questo libro sono stati scritti tra il 1989e il 2007 e trattano di diversi argomenti relativi
all’architettura e alla città negli Stati Uniti, in particolare Los Angeles. Tutti i testi sono stati scrittiseguendo richieste specifiche dei diversi editori. Così, ad esempio, «Casabella» mi chiese di affrontare i caratteri dell’architettura di Eisenman e di interrogarmisulle reali qualità della sua produzione architettonica. Il Getty mi propose di parlare del luogo d’origine di Los Angeles e delle sue trasformazioni nel tempo finoalla fine degli anni novanta del XX secolo. «Lotus» erainteressata al rapporto tra Luis Barragán e i suoi seguacinel Sud-ovest americano, mentre «Rassegna» mi chiese,alle soglie del XXI secolo, di pensare a quello che sarebbestato il futuro prossimo dell’architettura. Nelle traduzioni che qui presento non ho cambiato nullarispetto ai testi originari, anche se avrei potuto, oggi,aggiungere alcune considerazioni, o eliminare alcuni passi, e forse inquadrare in modo diverso alcune questioni. Nell’insieme, tutti i saggi segnalano una curiosità, quelladel chiedersi come le cose sono diventate ciò che sono, e una volontà ostinata di interrogare il passato, e perciòanche il presente, in modo diverso dal solito.
DIANE GHIRARDO
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RINGRAZIAMENTI
La pubblicazione di questo libro non ha a che farecon un lavoro solo mio, ma con una fitta rete
di amicizie che mi ha sostenuto in modi diversi. Due persone hanno lavorato più del dovuto per correggere il mio italiano. Innanzitutto, ValentinoSani, il quale ormai capisce ciò che vorrei dire ancheprima che io l’abbia detto, avendo rivisto tanti dei mieitesti e discusso con me con insolito entusiasmo e acutezzaargomenti diversi, dal Rinascimento in avanti, sullapolitica degli spazi e sulla costruzione della storia; e Michela Rosso, che non solo ha promosso questo libropresso l’editore Allemandi, offrendomi la sua amicizia e la sua collaborazione, ma ha anche discusso con megli argomenti trattati e, insieme ad Edoardo Piccoli, mi ha dato un prezioso aiuto nella loro messa a punto: a tutti e due porgo i miei sinceri ringraziamenti. Tra coloro che anche hanno collaborato con amicizia,ma anche oltre i limiti dell’amicizia, vi sono EleonoraLupini, Elisabetta Vasumi Roveri e Silvia Villani. Un prezioso aiuto è stato fornito da Claudia Paraschivnel lavoro grafico sulle piante qui riprodotte. L’architettoVittorio Fava è stato un valente compagno nelle visite a tanti edifici del Novecento, e Cecilia Baratta Bellelli è stata generosa ed entusiasta nel visitare luoghi strani
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e nel discutere i problemi della città e della società.Dovrei anche ricordare altri amici che sono stati i mieicompagni intellettuali negli ultimi anni, discutendodell’architettura, degli spazi, e della storia con vivacità e preziosa amicizia: Michelangelo Caberletti, SerenellaCrivellati, Anna Esposito, Sandy Fischbein, JohnPollini, Claudio Scaranari, Thomas Spiegelhalter e Marida Talamona.
Per una storia dell’architetturanon autarchica MICHELA ROSSO
Isette saggi qui presentati, scritti tra il 1989 e il 2007, scatu-riscono da interessi legati a eventi recenti dell’architettura e
della città americana: per il loro alto coefficiente di contem-poraneità, appartengono a quel territorio della letteratura ar-chitettonica situato al confine tra storia e critica. In tre di es-si, lo sfondo è offerto dalla città di Los Angeles, dove DianeGhirardo ha vissuto e lavorato per ventiquattro anni, comeprofessore di Teoria e storia dell’architettura alla Universityof Southern California.
L’oggetto indagato è quindi doppiamente vicino, nel tem-po come nello spazio. Nonostante ciò, il luogo comune percui la storia più recente, più vicina a noi, sarebbe più diffici-le da studiare, perché maggiormente ribelle a uno studio se-reno, non sembra intaccare il lavoro di questa studiosa, per laquale alcuni quartieri e luoghi della metropoli californiana,così come le attuali condizioni di produzione e promozionedell’architettura contemporanea, sono di volta in volta l’oc-casione per una critica serrata ai valori e ai rapporti economi-ci, politici e sociali che sostanziano lo spazio architettonico eurbano e alle retoriche attraverso le quali tali valori e rappor-ti vengono riaffermati, conservati e perpetuati.
La contiguità temporale non preoccupa Ghirardo, per cuisembrerebbe che ogni storia, anche quella più remota, sia sto-ria contemporanea, come i suoi lavori sulla città fascista e delNew Deal1 o quelli recenti sugli spazi delle donne nell’Italiadel Rinascimento2 dimostrano ampiamente. Questi ultimi
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meritano una particolare attenzione: in essi Ghirardo offreun’analisi alternativa della città e dell’architettura basata sul-la suddivisione spaziale per sessi, sulle consuetudini e i com-portamenti delle persone nello spazio, concentrandola sullepolitiche mirate al controllo spaziale delle donne. Una parterilevante della ricerca di Ghirardo si colloca infatti nel filonedegli studi di genere3, nati negli anni settanta del XX secolonegli Stati Uniti e in Europa, dall’esigenza di garantire visi-bilità alle donne, ma anche di scriverne da un punto di vistafemminile, come tentativo «di smascherare e denunciare il ca-rattere di parzialità, incompletezza e artificialità delle narra-zioni dominanti e [….] di non rinunciare alla possibilità dienunciare proposizioni che fossero in qualche modo “vere”relativamente al passato delle donne»4. Si tratta di una pro-spettiva inconsueta nell’attuale panorama della storia dell’ar-chitettura e dell’urbanistica italiana. Mentre infatti anche nelnostro paese è sorto un parallelo filone di studi in questo set-tore5, il lavoro degli storici dell’architettura e dell’urbanisticaitaliani sembra esserne rimasto del tutto ai margini, conti-nuando a considerare edifici e spazi urbani come portatori divalori neutrali e universali dal punto di vista sessuale e igno-rando sistematicamente come gli spazi si organizzino anchein base ai generi. L’attenzione di Ghirardo alla storia dal pun-to di vista delle minoranze (di genere, etniche, razziali) e deigruppi culturalmente e sessualmente svantaggiati (donne, pro-fessionisti non occidentali), va inoltre collocato entro la cor-nice multiculturale della società statunitense, dove profondisquilibri sociali e vivaci movimenti d’opposizione hanno ac-centuato la sensibilità verso le differenze - razziali come cul-turali - e alimentato, più di quanto sia accaduto in Europa, ein particolare in Italia, questo campo di studi.
Dall’inizio degli anni ottanta il lavoro di Diane Ghirardosegue una linea coerente, vicina alle parallele ricerche di stu-diosi e critici dell’architettura e della città come di Mike Da-
vis, Margaret Crawford, Kenneth Frampton, Eve Blau. Trai libri che forse meglio esemplificano il suo percorso di ricer-ca vi è la raccolta di scritti Out of Site. A Social Criticism of Ar-chitecture, pubblicato nel 1991, dove molte delle «ossessioni»che si ritroveranno nei suoi lavori successivi sono già annun-ciate con singolare chiarezza e trasparenza metodologica6. Pri-mi fra tutti, i problemi della falsa autonomia dell’architettu-ra, della responsabilità sociale degli architetti, del ruolo dellacritica disciplinare nelle scelte che danno forma all’ambientecostruito e, in definitiva, del rapporto tra architettura, profes-sione architettonica e grande pubblico.
Merita ricordare che Ghirardo è stata la seconda donna e laprima storica dell’architettura a rivestire la carica di presidentedell’associazione North American Schools of Architecture,che riunisce tutte le Facoltà di architettura statunitensi e ca-nadesi. Nel 2002 è stata selezionata per far parte del NationalArchitectural Accreditation Board come uno dei tre rappre-sentanti delle scuole di architettura americane responsabili del-la supervisione e dell’accreditamento delle Facoltà di archi-tettura statunitensi, la prima storica dell’architettura a rico-prire questo ruolo. Ha così affiancato alla sua attività di stu-diosa una serie d’incarichi accademici e responsabilità istitu-zionali dove la sua identità di storica ha trovato riscontro inun impegno diretto e concreto nella costruzione dei criteri chedefiniscono i contenuti e le forme dell’educazione architetto-nica e della formazione professionale.
In ognuno di questi saggi Ghirardo narra una storia diver-sa a partire dalle preoccupazioni, dalle domande poste dal pre-sente. Da un lato traducendo queste domande in questioni in-terpretative che intende domandare al passato, dall’altro usan-do il passato, più o meno recente, come terreno dal quale con-durre la sua interpretazione del presente.
In Un’acropoli invisibile è messo a fuoco il rapporto tra le ar-
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chitetture costruite e le politiche culturali delle istituzioni checommissionano progetti architettonici: nella lettura di Ghi-rardo l’architettura di Richard Meier appare come specchiod’una strategia tesa ad affermare un’idea non problematica enon conflittuale di cultura, come dato acquisito, incontro-vertibile, incontaminato e puro. Ma la riflessione di questastudiosa si estende anche al ruolo del museo nella società con-temporanea. Sulla collina di Santa Monica, nelle sale delGetty Museum, ibrido tra tempio dell’arte e nuovo centrocommerciale della cultura, la storia dell’arte è presentata e tra-smessa dal punto di vista della cultura dominante: a essereesaltate sono le qualità formali dell’opera, decontestualizzatae neutralizzata, liberata da qualsiasi contenuto politico e ad-domesticata per l’uso e il consumo d’un pubblico che si vuo-le sempre più vasto e passivo, lungo la linea d’una costanteestetizzazione degli oggetti che punta sul loro valore esclusi-vamente figurativo e sulla straordinarietà e la spettacolarità del«mai visto prima». Una riflessione che oltre a introdurre ilcomplesso problema del rapporto tra cultura dominante e al-tre culture, stimola altrettante prese di posizione a propositodell’attuale mondo della produzione culturale e in particola-re sul florido mercato dei libri e delle mostre d’arte e d’archi-tettura e sui criteri che ne guidano la concezione.
In Lo spazio dell’identità nel Pueblo di Los Angeles l’autrice mo-stra come i progetti di conservazione dell’architettura sianofinalizzati a costruire egemonie e a esercitare il controllo so-ciale attraverso lo spazio, cancellando, falsificando e riscri-vendo le storie d’intere parti di città. Nel racconto di come ilnucleo più antico di Los Angeles vede nel corso dei secoli mu-tare il proprio volto, Ghirardo mostra quanto la storia dellospazio urbano e architettonico s’intrecci inestricabilmente aiconflitti sull’identità e sulla memoria e come, più in generale,ogni progetto di conservazione sia il risultato problematico,negoziato e conflittuale di amnesie, rimozioni e distruzioni
della memoria, oltre che di reinvenzioni del passato7. Un pro-blema reso ancor più attuale dalle recenti vicende riguardan-ti una delle arterie centrali di Los Angeles, a qualche centi-naio di metri dal Pueblo, dove grandi concentrazioni del ca-pitale finanziario e immobiliare stanno promuovendo una tra-sformazione che ambisce a rendere nuovamente centrale e vi-brante di vita un quartiere oggi desolato (cfr. Disperatamentecercando un centro a downtown Los Angeles). L’analisi impietosadi Ghirardo mostra come queste politiche seguano la ten-denza storica a distruggere un tessuto urbano carico di signi-ficati simbolici affidando all’architettura d’autore il compitodi rivitalizzare d’un colpo, con un solo gesto, una parte di cittàin cui i valori delle minoranze sono stati sistematicamente can-cellati a vantaggio d’una ristretta oligarchia. Il ripetersi deifallimenti causati dalle politiche che nell’arco di cin-quant’anni si sono susseguite in questo luogo, qui sintetica-mente ricostruite con straordinaria chiarezza, non sembra averinsegnato alcunché alle élites che oggi appoggiano un talecambiamento, né tanto meno agli architetti che ne sono il prin-cipale intermediario: per Ghirardo la conoscenza della storiadi questo luogo rimane una preziosa e indispensabile tracciaper committenti e progettisti, che, ciononostante, si ostinanoa ignorarla.
Quali valori associamo all’architettura? A chi spetta il giu-dizio su questi valori? Che cos’è importante salvare del nostropatrimonio architettonico? In Curvi sotto il peso del tempo e del-la storia Ghirardo tenta di rispondere a questi interrogativi, af-frontando i criteri che guidano le politiche di conservazionedell’architettura e suggerendo che il punto d’osservazione e lavoce di chi abita le case e vive lo spazio della città sia più im-portante di quello degli addetti al settore, critici o accademi-ci, tecnici o politici. Ghirardo sottolinea la necessità d’inclu-dere nel giudizio la capacità che edifici e spazi hanno di rive-lare chi siamo e come abitiamo: i comportamenti e i modelli
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di vita, a suo giudizio, sono più importanti di categorie este-tiche, talvolta insondabili, che assegnano il valore di capola-voro a un edificio.
Nel suo libro di maggior successo editoriale, Architecture af-ter Modernism, pubblicato nel 1996, tradotto in francese, po-lacco, coreano, cinese e portoghese, e in gran parte dedicatoal tema delle architetture dello spazio pubblico, la responsa-bilità del critico e dello storico è giocata anche sul piano del-la promozione di alcuni filoni della più recente produzionearchitettonica: le predilezioni dell’autrice vanno oltre che al-le categorie minoritarie e culturalmente svantaggiate della pro-fessione, al recupero di alcune figure meno trattate dalle sto-rie dell’architettura, lontane dai riflettori della scena mediati-ca per le quali la professione s’identifica con la messa a pun-to di un mestiere quasi artigianale o si contraddistingue peruna particolare sensibilità alle storie e alle geografie locali (cfr.A proposito dell’architettura del Sud-ovest )8.
Un argomento ulteriormente ripreso in Presenze e assenze,dove l’assenza, o la marginalità, dell’architettura di qualitànelle riviste più prestigiose del settore, il mancato riconosci-mento di alcuni progetti meritevoli d’attenzione destinati a ri-manere nell’ombra, riflette con singolare trasparenza la cir-colarità dei meccanismi che regolano la formulazione del giu-dizio su cosa sia buona o cattiva architettura oggi. La defini-zione dei valori architettonici e i modi in cui la reputazionedegli architetti viene costruita, sono così, di volta in volta, af-fidati alle dichiarazioni di un’élite professionale e accademi-ca che, prendendo le distanze dall’uomo della strada, procla-ma la propria indiscussa (e indiscutibile) posizione di supe-riorità intellettuale. Ghirardo nota il tono compiaciuto checontraddistingue queste dichiarazioni («è un bene che i taxi-sti di Cincinnati fatichino a trovare la porta d’ingresso del-l’Aronoff Center for Design and Art») e sottolinea quantoquest’atteggiamento sia il principale responsabile dell’attua-
le morte dell’architettura, sempre più incapace di rispondereai problemi urgenti della società contemporanea.
Che cosa accomuna questi scritti? Per l’autrice, l’architet-tura è innanzitutto una produzione culturale e in quanto ta-le, non può vantare una propria autonomia: è qui che lo sto-rico dell’architettura non può permettersi di essere autarchi-co, deve vestire i panni del sociologo, avvalersi delle categorieinterpretative del geografo urbano, prendere in prestito glistrumenti dell’antropologo culturale. Inoltre, per Ghirardo lastoria è lo scenario di altre, innumerevoli, storie: l’architettu-ra è dappertutto, le nostre vite sono vite architettoniche. Perquesto motivo, una storia e una critica dell’architettura auto-referenziale, che si limiti all’uso di categorie e linguaggi pro-pri della disciplina, è una storia monca, incapace di spiegarele ragioni profonde dei fenomeni. L’apertura del lavoro diDiane Ghirardo alle altre scienze sociali insegna che uno sto-rico dell’architettura dovrebbe emanciparsi dai discorsi inter-ni alla disciplina, poiché non è detto che tutte le storie che lointeressano debbano necessariamente avere l’etichetta di sto-rie architettoniche: l’architettura fa da sfondo ad altre storie,dando corpo, ad esempio, alle identità di gruppi sociali e diminoranze, alle politiche culturali d’istituzioni, alle strategiedi rappresentazione d’imprese e di Stati. Come questi rap-porti e valori si traducano in spazi urbani e forme architetto-niche, è ciò che indaga Ghirardo nel suo lavoro di storica.
Lungo tutta la produzione critica e storica di quest’autriceè rintracciabile una preoccupazione ricorrente che la condu-ce a respingere ogni critica dell’architettura che sia puramen-te formalista. Un tema già presente in uno dei suoi primi ar-ticoli, Architecture of Deceit, pubblicato nella rivista della Fa-coltà di architettura di Yale nel 1984, dove nel clima cultura-le dei primi anni ottanta, dominato dai revisionismi storio-grafici che decretano la «morte dell’architettura moderna» e
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alimentano un generale disincanto rispetto ai valori operatividella storia, la mistificazione e la dissimulazione tipici del di-scorso postmoderno sull’architettura vengono messi in lucecon singolare chiarezza. Per Diane Ghirardo, separare l’ar-chitettura dalle contaminazioni con il mondo reale non aiutaa ricostruirne i complessi meccanismi di produzione: l’anali-si formale, nel riproporre l’architettura come linguaggio au-tonomo e autoreferenziale, non fa che trasformarla in un «og-getto essenzialmente inoffensivo, fatto per essere consumato e,in definitiva inutile». Qui Ghirardo affronta il problema del-la selezione dei capolavori, dei valori architettonici e dell’ar-bitrarietà del giudizio estetico, e nota come ciò che è buona ecattiva architettura sia appannaggio d’una ristretta cerchia dicritici e storici; il loro giudizio, basato su categorie estetichedifficilmente oggettivabili e verificabili, «più opache di quan-to essi stessi siano disposti a riconoscere», evita di affrontaretutte le questioni sostanziali che l’architettura costruita mettein gioco, i rapporti di potere, i privilegi e le disuguaglianze tragruppi sociali, il razzismo, lo sfruttamento e la manipolazio-ne dei valori della terra, i costi dell’abitazione, il problema deisenza tetto… Chi costruisce, per chi, a quale prezzo? Questele domande che la professione non osa porsi e che vengono ur-gentemente riproposte all’attenzione dall’autrice9. Un temache riaffiora in un saggio più recente, dove Ghirardo, met-tendo in questione la legittimità scientifica di critiche forma-liste condotte da storici, critici e architetti sull’edificio dellaCasa del Fascio a Como, fa notare ancora una volta come«considerare l’architettura una serie di rebus geometrici o ma-tematici non aiuti a capire l’edificio nella sua complessità»:molte sono le domande a cui quelle analisi non consentono didare risposta. Poiché l’architettura del capolavoro di Terragninon è sovrastorica, non trascende la storia, l’autrice scrive: «ri-muovere il fascio dalla Casa del Fascio la depriva della suaparticolarità storica, della sua compiuta agenda politica (…)
Lontano da un esercizio estetico vuoto, le scelte formali diTerragni derivavano da significati specifici resi evidenti dal-le immagini che legano programmi politici e artistici di mo-dernizzazione»10.
Oggetto, sin dalla prima mostra commemorativa del 1949,di diversi e talora opposti interessi operativi da parte di ar-chitetti e di storici, Terragni introduce a un altro tema caro aquest’autrice: l’opacità e l’ambiguità che contraddistinguonouna certa letteratura architettonica contemporanea. Non è in-fatti un caso che, quando si tratta di scegliere il lavoro di unarchitetto in grado di esemplificare al massimo l’attuale di-stanza che separa il dibattito alto sull’architettura dalle idee edai bisogni della gente comune, la scelta cada su Peter Eisen-man (cfr. Forse Eisenman e Assenze e presenze), figura per cer-ti versi vicina al celebre architetto lombardo, qui ritratto co-me camaleontico «impresario dell’architettura» in grado dicostruire un’immagine di sé in costante mutamento e funzio-nale alle esigenze del suo pubblico, «desideroso di abbraccia-re l’estetica dell’avanguardia occupando i margini della cul-tura e […] simultaneamente godendo di tutti i benefici del-l’essere un’icona culturale al centro». In questo quadro le stra-tegie di legittimazione e d’immagine di uno degli architettipiù acclamati dell’attuale scenario internazionale vengonosvelate in tutta la loro artificiosità, mettendone in luce il ca-rattere essenzialmente conformista e conservatore.
Oltre a offrire uno spaccato poco rassicurante dell’architet-tura e della città contemporanea dai contorni sorprendente-mente nitidi, a suggerire agli storici dell’architettura e dellacittà possibili e nuovi itinerari di ricerca nella direzione di unastoria militante e impegnata oggi sempre più rara e meno pra-ticata, questa collezione di saggi riapre con urgenza il pro-blema dell’utilità della storia e della responsabilità dello sto-rico, del suo ruolo pubblico, della sua possibile incidenza sul-le decisioni che riguardano l’ambiente costruito.
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Un’acropoli invisibile
Èpossibile per l’architettura scindere se stessa dalla filoso-fia e dalle finalità istituzionali del suo committente, quel-
le che di fatto ne costituiscono la raison d’être? Inoltre, ancorapiù importante, deve farlo? A Los Angeles, gli imperativi isti-tuzionali del Getty Trust sono dissimulati nelle diafane pa-stoie di inappuntabili e indiscusse verità culturali ed econo-miche, così che l’ente si ritrova costantemente impegnato inun sottile gioco sospeso fra trasparenza e opacità, apparentiaperture e accorte reticenze. Incaricato di ideare il nuovo cen-tro del Getty Trust per i suoi sette programmi operativi, l’ar-chitetto Richard Meier ha concepito un progetto che eviden-zia le modalità di questo gioco con infallibile, ma forse trop-po letterale, precisione.
Con una dotazione di parecchi miliardi di dollari, i pro-venti dei quali da spendersi per «la diffusione della conoscen-za artistica e generale», durante gli anni ottanta il J. Paul GettyTrust («The Trust» o «The Getty» per gli amici, allo stessomodo in cui il magnate Donald Trump è noto come «TheDonald») è rapidamente diventato il giocatore di punta sulloscacchiere artistico internazionale. Oltre alla possibilità disborsare somme inverosimili per acquisire opere d’arte (comei 57 milioni di dollari che si stima siano stati elargiti per gli«Iris» di Vincent van Gogh nel marzo del 1990), il Trust si èanche mosso in modo aggressivo nella concessione di fondi aenti, soggetti singoli e pubblicazioni, nella collezione di do-cumenti, archivi e libri, nonché nella formazione e informa-
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1 DIANE GHIRARDO, Building New Communities: New Deal America & Fasci-st Italy, Princeton (N.J.) 1989 (trad. it.: Le Città Nuove nell’Italia fascista e nel-l’America del New Deal, Latina 2003).2 DIANE GHIRARDO, The Topography of Prostitution in Renaissance Ferrara, in«Journal of the Society of Architectural Historians», dicembre 2001, pp. 402-431; tradotto e integrato in ID. La topografia della prostituzione nella Ferrara rina-scimentale, in «Anecdota», 2003, pp. 21-83.3 Si vedano in proposito anche i seguenti lavori, DIANE GHIRARDO, Virtual-ly Visibile, in «Thresholds», 19, 1999, pp. 37-43; Women in Space: How Archi-tectural History Erases Women, in IAIN BORDEN e JANE RENDELL (a cura di),Intersections: Architectural History and Critical Theory, Londra 2000, pp. 170-200; Cherchez la femme: Where are the Women in Architectural Studies? in KATE-RINA RUEDI, SARAH WIGGLESWORTH, e DUNCAN MCCORQUODALE (acura di), Desiring Practices: Architecture Gender and the Interdisciplinare, Londra1996, pp. 156-173.4 SILVIA ROSA, Un supplemento dal nome poco cospicuo. Linguaggio, genere e studi sto-rici, in «Storica», 20-21, 2001, p. 65.5 Si vedano a titolo esemplificativo i lavori di RAFFAELLA SARTI, Vita di casa.Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna, Roma-Bari 1999 e la rivista «Ge-nesis. Rivista della società italiana delle storiche».6 DIANE GHIRARDO, Introduction, in ID. (a cura di), Out of Site. A Social Cri-ticism of Architecture, Seattle 1991, pp. 9-16.7 Si veda a tale proposito NORMAN M. KLEIN, The History of Forgetting. LosAngeles and the Erasure of Memory, Londra - New York 1997. 8 Ho discusso l’impostazione culturale di Architecture after Modernism, in pa-rallelo al libro di WILLIAM J. CURTIS, Modern Architecture Since 1900, in MI-CHELA ROSSO, La storia dell’architettura del XX secolo tra sintesi comprensive, divul-gazione del sapere e nuova storia operativa: note su alcuni testi recenti, in «Zodiac», 21,luglio-dicembre 1999, pp. 68-85.9 DIANE GHIRARDO, Architecture of Deceit, in «Perspecta», 21, autunno 1984,pp. 110-115.10 ID., Terragni e gli storici: vicende nella tipologia e nella politica della Casa del Fasciodi Como, in GIORGIO CIUCCI (a cura di), Giuseppe Terragni. Opera Completa,Milano 1996, pp. 257-266.
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li, poiché alla fin fine convergono entrambi sugli obiettivi esugli assunti di base.
Nonostante il tipo di struttura amministrativa, di persona-le e di consiglio di amministrazione di cui si avvale (per nonparlare dei profitti), che provengono in massa dalle stanze delpotere economico dell’America, il Getty alimenta un’imma-gine molto diversa di sé. Una schematica mappa di Los An-geles prodotta dal Trust offre un’indicazione eloquente dellasua visione del mondo: proprio come i cartografi del tardoMedioevo identificavano le città unicamente in base alle lorosedi religiose e ai monumenti, così Los Angeles, secondo ilGetty, è costituita solo da un pugno di università, di college edi istituzioni artistiche. Una visione anacronistica mai cosìevidente come nella scelta del sito stesso: una sorta di eremosulle alture di Santa Monica, che si affaccia, ma da una di-stanza remota, su Los Angeles. Il Trust ha risolutamente ac-cantonato altri siti che sarebbero stati immersi in tutta una se-rie di luoghi e di contesti: il Conservation Institute in un ma-gazzino di Marina del Rey, il museo in una falsa villa pom-peiana che sovrasta Malibu, la biblioteca in un altro magaz-zino, l’Art History Information Program (AHIP) e il GettyCenter for the History of Art and the Humanities (da nonconfondersi con il nuovo complesso del Getty Center, ogget-to di questo saggio) situati in un palazzo di uffici sopra la Fir-st Federal Bank di Santa Monica. E così, stretto com’è nel tes-suto della città, il Trust non è in grado di mettere sotto unacampana di vetro i vari studiosi e visitatori internazionali cheospita, mantenendoli separati dalle urgenze che affliggono ipoveri e i senzatetto di Los Angeles, soggetti visibili ovun-que, poiché vivono alle fermate d’autobus e negli androni deipalazzi accanto agli uffici del Getty. Benché il lavoro di ri-cerca sia del tutto staccato dall’ambiente circostante, le perso-ne che lo svolgono non possono fare a meno di prendervi con-tatto, quando entrano o escono dagli uffici, o semplicemente
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zione artistica: in sostanza, praticamente in tutte le aree del sa-pere e della pedagogia accademica associate alle «arti»1. E quiemerge la prima delle numerose tendenze contraddittorie chelacerano il Getty, poiché, malgrado l’idea di accogliere tuttele arti, in realtà l’istituzione si concentra sull’arte europea oc-cidentale classica e postclassica, fino al 1900, mentre tutto ilresto viene largamente ignorato2.
Sino al completamento, previsto nel 1995, del complessodi quasi centomila metri quadrati progettato da Meier, ilTrust condurrà le sue ramificate attività dai grattacieli dellaCentury City, costruiti con il denaro di Mellon. Qui, suilotti dove un tempo sorgevano i vecchi studios della Twen-tieth Century Fox (la destinazione preferita dei bianchi chefuggivano dalla downtown dopo la rivolta dei neri del quar-tiere di Watts del 1965), la finzione di una collettività di so-li bianchi è tenuta in piedi da società di investimento, com-pagnie di brokeraggio, studi legali, imprese assicurative ebanche, per ironia della sorte una variante di ciò che un tem-po mostravano le vecchie pellicole hollywoodiane girate ne-gli stessi luoghi. Quale colosso per eccellenza dell’arte in for-ma di impresa, il Trust, con un consiglio di amministrazio-ne i cui membri provengono da questo stesso vicinato, è riu-scito a rendersi di fatto indistinguibile dal contesto, più espli-citamente imprenditoriale e finanziario, che lo circonda.Una variazione sul tema rispetto alla Century City si ha spo-standosi alla nuova sede inerpicata sulle colline di Santa Mo-nica: qui prende corpo la fantasia di un mondo fuori dalmondo reale, dedicato alle istanze «alte» della vita - le arti,per l’appunto -, un mondo che le preoccupazioni mondanedella metropoli che brulica ai suoi piedi lasciano inconta-minato. Non sorprende che questi due leitmotiv - la diffusio-ne della conoscenza artistica e generale e il dedicarsi alle co-se «alte» della vita - entrino in aperto conflitto l’uno con l’al-tro, anche se le differenze sono più apparenti che sostanzia-
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del museo consentono (ma non richiedono necessariamente)di muoversi fra intero ed esterno e fra i differenti livelli.
La relativa ampiezza e spaziosità del museo contrastano conl’ingombro rigidamente circolare del Center, il centro di stu-di sull’arte dove i ricercatori in visita, la biblioteca e gli archi-vi hanno il loro spazio appartato. L’ubicazione nel sito e laforma circolare della pianta degli edifici esprimono chiara-mente il carattere privato, introverso, delle attività che vi sisvolgono all’interno. Gli edifici privati, che saranno rivesticon pannelli in acciaio inossidabile sabbiato, fiancheggeran-no gli edifici del museo, rivestiti in pietra, con lucernari e unafenestrazione data da aperture ridotte. L’aspetto esterno gene-ra così un delicato equilibrio fra serena atemporalità e auste-ra modernità.
In tutt’altra veste si presentano gli interni. La galleria ideal-mente modernista è un cubo bianco privo del benché mini-mo accenno che possa interferire con l’arte. Pur se dal XVIII
secolo il museo ha generalmente isolato i propri oggetti dal re-sto del mondo, in atmosfere ovattate più comunemente asso-ciate ai luoghi di culto, il Getty mira a rifarsi a un modelloancora precedente3. John Walsh, l’attuale direttore, del mu-seo pare intenzionato a ricreare interni aristocratici, con boise-ries regali e carte da parati in tessuto, nei quali esporre le ope-re, ricordando così all’intellighenzia in visita le origini elitariedi questi oggetti.
Una simile scelta non è affatto fuori luogo. Nelle sue colle-zioni, mostre e studi sull’arte, il Getty, all’interno dei suoi con-fini istituzionali, incarna la storia dell’arte borghese: il pas-saggio da svago esclusivo di un’oziosa aristocrazia alla sua ap-propriazione borghese e conseguente diffusione di massa4. Ilpresupposto della necessità di un surplus economico peremancipare l’individuo dalla lotta quotidiana per la soprav-vivenza ha conferito all’arte il suo status aristocratico e l’ha re-sa appetibile quale indice della capacità di collezionare, com-
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guardando fuori dalla finestra. È precisamente questo il pro-blema che il sito in cima alla vetta consente al Trust di supe-rare. I parcheggi ai piedi della collina (concessi da vicini dicasa ansiosi di preservare in questo modo la loro preziosa pri-vacy) e il tram automatizzato che controllerà l’accesso delpubblico rendono il luogo esclusivo e remoto. Non ci saran-no mai degli homeless sul Getty Center Drive a deturparnel’idilliaco paesaggio.
Ma la missione del Getty di impegnarsi nella «diffusionedell’arte» richiama obiettivi contraddittori. Almeno un terzodel progetto architettonico di Meier è dedicato al museo perle collezioni prenovecentesche, provenienti dall’Europa occi-dentale, di dipinti, disegni, sculture, manoscritti miniati, ar-redi, arti decorative e fotografie (non vi è rappresentato alcunfotografo vivente). Queste collezioni saranno rese fruibili alpubblico, unitamente ai caffè e ai punti vendita di gadget chefanno parte del pacchetto standard offerto dai musei di oggi.Dei sette programmi operativi del Trust, solo il museo è di na-tura pubblica, mentre tutti gli altri sono decisamente privati.
Dovendo affrontare l’articolazione del dualismo fra pub-blico e privato, Meier ha compiuto varie scelte cruciali. Gliedifici si allineano su due assi spostati approssimativamentedi 22,5 gradi, con l’edificio pubblico e il museo lungo un as-se e gli edifici non pubblici disposti sull’altro. Al termine del-la salita percorsa in tram, i visitatori si ritroveranno di frontealla rotonda del museo. Il Trust e gli altri programmi sono leg-germente arretrati sulla sinistra, le strutture per la ricerca, gliarchivi e la biblioteca del Getty Center si trovano a un livellopiù basso sulla destra. Meier sottolinea le finalità pubblichedel museo distribuendo le gallerie e gli spazi annessi lungo unaserie di padiglioni che si dipartono dalla rotonda: l’area per leesposizioni temporanee è creata da alcuni cubi ruotati e quel-la per le permanenti si trova nei padiglioni allineati assial-mente. Analogamente, gli schemi di scorrimento all’interno
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no modellato la produzione artistica e culturale di un’esiguaporzione di mondo secondo uno standard di qualità indi-scusso e indiscutibile, al quale tutto il resto deve rapportarsicome unità di misura. Coloro che acquistano, studiano oespongono questi manufatti rivendicano a sé l’autorità del tut-to arbitraria di escluderne o svalutarne altri, salvo poi riap-propriarsi di quelli in un primo momento disprezzati (ne so-no un esempio le opere di postimpressionisti come Vincentvan Gogh). Queste premesse che stanno alla base del Trust(e di gran parte di analoghe istituzioni degli Stati Uniti e del-l’Europa occidentale) ne fanno un’istituzione davvero moltoproblematica.
Qui la cultura non è presentata come un terreno determi-nato da classi, gruppi etnici, genere o nazioni, ma come qual-cosa di definito, assoluto, puro. In questo senso il Getty ri-chiama alla mente i mondi idealizzati del passato ricreati aDisneyland: Main Street Usa, ad esempio, ripulita di ognitraccia di povertà, delle persone che vivono in strada, delle lot-te di classe, etniche o razziali, e persino del lavoro e della pro-duzione industriale. Allo stesso modo, l’arte conservata co-me una reliquia in istituzioni del tipo del Getty risulta fatal-mente come qualcosa di remoto rispetto al mondo reale. Ilpunto di riferimento negativo contro il quale la cultura defi-nisce se stessa è ciò che viene definito popolare, di medio o bas-so livello intellettuale. Anziché considerare l’arte e la culturaalla stregua di prodotti vivi nati dalle collettività, dalle lottesociali, qui sono semplicemente presentate come un feticcioborghese nel quale più l’oggetto dell’attenzione artistica è in-significante (come gli iris), più sale il valore dell’opera e mag-giore è l’enfasi posta sulle qualità formali come misura del-l’arte, a escludere altre possibilità. Benché il Getty non sia re-sponsabile dell’aver teorizzato questi atteggiamenti nei con-fronti di un certo tipo di manufatti, è responsabile della loropropagazione: si sarebbe preferito avere un’istituzione impe-
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missionare ed esibire. In particolare, l’inutilità dell’arte e delriconoscimento estetico che le è associato (il futile sfarzo delricco in contrasto con il mondo produttivo borghese) è anda-ta a costituire uno dei simboli più eloquenti di uno status ele-vato. Con il museo, il Getty deve evitare di ritrovarsi infilza-to nei corni di un dilemma, perché se la sua missione è quel-la di diffondere la cultura europea occidentale la assolve consuccesso, se invece vuole che l’arte sia resa popolare al di là deisuoi fruitori «legittimi», allora l’efficacia di questi manufattiquale oppio destinato alle élites è tutta da discutersi5. L’isti-tuzione deve perciò trovare un delicato equilibrio che consentadi rendere l’arte e la cultura disponibili non solo agli «eletti»e, d’altra parte, elevare (accentuandone il carattere esclusivo)il livello di discussione sull’arte e sulla cultura. La funzionepubblica deve così conciliare il museo tradizionale quale tem-pio dell’arte con la sua più recente vocazione di shopping cen-ter culturale, con originali d’autore alle pareti e riproduzionipiù economiche in vendita nel bookshop.
Nella società contemporanea, gli individui sono valutati so-prattutto in base alla loro capacità di spesa e di consumo: ca-tegoria nella quale il Getty vince il primo premio. Il Trust rie-sce a realizzare gli imperativi di un’aristocrazia culturale edeconomica allestendo una struttura dal gusto impeccabile,mantenendola fuori dalla portata delle masse e, infine, ge-stendo entità tali di capitale economico che nessun altro sog-getto riuscirebbe a mobilitare. Con mezzi strabilianti a di-sposizione, il Getty confina le sue collezioni, le sue attività ac-cademiche e le sue pubblicazioni a questioni da lungo tempoconsacrate dalle élites europee e americane quale culmine del-la civiltà occidentale classica e postclassica. Le grandi colle-zioni sono state messe insieme, nel passato come oggi, graziea smanie da collezionismo, furti ed esborsi enormi, e sono di-venute accessibili al grande pubblico solo da due secoli a que-sta parte6. I gruppi dominanti di questa cultura egemone han-
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Questo saggio è apparso originariamente, con lievi differenze, in «Architec-tural Review», giugno 1990, e in questa forma in DIANE GHIRARDO (a curadi), Out of Site. A Social Criticism of Architecture, Seattle 1991, pp. 120-128. 1 La maggior parte dei dettagli sulle attività del Trust derivano da resocontiannuali, pamphlet e bollettini trimestrali. Benché il prezzo del dipinto di VanGogh rimanga segreto, l’ultima cifra nota era 57 milioni.2 Alcuni membri dello staff del Getty hanno richiamato la mia attenzione sul-le attività del Getty Center, uno dei programmi operativi del Trust, che ha fat-to qualche incursione nelle arti del XX secolo. La maggior parte delle sue atti-vità si concentra comunque su periodi precedenti il 1900.3 Per una discussione più approfondita sugli spazi per le esposizioni artistiche,cfr. BRIAN O’DOHERTY, Inside the White Cube. The Ideology of the Gallery Spa-ce, San Francisco - Santa Monica 1986.4 JOSEPH RYKWERT, The Cult of the Museum from the Treasure House to the Tem-ple, in «Museos Estelares, A & V Monografias de Arquitectura y Vivienda»18, 1989; HELMUT SELING, The Genesis of the Museum, in «Architectural Re-view», 141, febbraio 1967, pp. 103-114.5 PIERRE BOURDIEU ha intrapreso un’ampia ed esauriente analisi sociologicadi queste e altre questioni in La Distinction, Critique sociale du jugement, Parigi1979 (ed. americana Distinction: A Social Critique of the Judgment of Taste, Cam-bridge (Mass.) 1984; ed. it., La distinzione: critica sociale del gusto, Bologna 1983).6 Devo questa notazione a RYKWERT, The Cult of the Museum cit., p. 81.
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gnata anziché così distaccata, un’istituzione che problema-tizzasse l’idea di cultura e di arte invece di farne un reliquia-rio. Data l’egemonia di questi obiettivi, è considerato troglo-dita chiedere in che modo un’arte di questo tipo possa arric-chire o migliorare. Ma una cosa è studiare e apprezzare i ma-nufatti artistici del passato, tutt’altra renderli dei feticci.
In conclusione, malgrado alcune scelte che attenuano leg-germente la tensione tra le istanze in conflitto, il peso dell’isti-tuzione si è rivelato eccessivo, quanto meno per Meier. L’arteda studiare e da esporre qui, mentre da una parte è apparen-temente disponibile alle masse, dall’altra è chiaramente desti-nata a quella che si ritiene essere una minoranza particolar-mente dotata, il cui senso estetico o acume critico la distinguedal resto del mondo: è così che, si sottolinea implicitamente,le cose dovrebbero essere. Per sua definizione, il museo in ge-nerale neutralizza e decontestualizza i manufatti, in questomodo perpetuando istituzionalmente un unico atteggiamen-to dominante e una determinata estetica, privilegiando la for-ma e ponendo lo sguardo distaccato dell’esteta al di sopra ditutto. L’architettura che consente questo non può che esserecomplice dell’impresa nel suo insieme. Sembra dunque cheil progetto di Meier per il Getty sia destinato a esaltare lo sta-tus di privilegio dell’opera artistica dell’Europa occidentale.Pur con tutte le sue linee visive, il Getty Center sarà invisibi-le, rimarrà un’acropoli, un bastione per la cultura europea oc-cidentale bianca trapiantata sulla sponda del Pacifico.
(Traduzione di Giuliana Olivero)
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Forse Eisenman
1. Nel 1989, le celebrazioni per l’inaugurazione del WexnerCenter di Peter Eisenman, nella città di Columbus (Ohio),hanno superato, per l’enfasi con cui si sono svolte, altre inau-gurazioni di edifici del XX secolo, probabilmente migliori diquello di Eisenman. Tanto per fare qualche esempio, edificicome il Salk Institute di Louis Kahn, la Staatsgalerie di Ja-mes Stirling, o qualsiasi architettura di Le Corbusier, Miesvan der Rohe, Aldo Rossi o Richard Meier, furono celebraticon festeggiamenti molto più modesti. La combinazione dicelebrazioni spettacolari per un edificio interessante, ma nonspettacolare, ci aiuta a comprendere i pericoli cui si va incon-tro quando si parla dell’opera di Eisenman: infatti, egli è co-sì abile nell’arte dell’auto-promozione del suo lavoro che i suoiedifici e il suo personaggio si mescolano inestricabilmente.L’idea che lega la fama personale alla quantità di opere pro-dotte risulta qui completamente distorta, in quanto Eisenmanha costruito pochissime architetture; tuttavia il suo nome, ilsuo volto e i suoi progetti decorano regolarmente le copertinee le pagine di tante pubblicazioni: da quelle di architettura aquelle distribuite sugli aerei.
Ho colto il primo segnale del futuro successo di Peter Ei-senman diciassette anni fa, durante un’afosa notte romanamentre si cenava insieme al ristorante Piperno di Roma. Al-lora si discuteva animatamente sul rapporto politica-architet-tura. Parlando della Casa del Fascio di Giuseppe Terragni,ad esempio, Eisenman insisteva che l’edificio si poteva com-
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gli aspetti pratici della quotidianità. Imperturbato dalle con-venzioni, dalla storia e dai luoghi comuni su come vive la gen-te, egli lavorava per un’architettura pura e incontaminata, chetrascendesse la realtà. Le sue «Cardboard Houses» (Case dicartone) si fondavano sulla progressione di passaggi matema-tici e geometrici, e sostituivano così la progettazione raziona-le con quella intuitiva. Le sue «Cardboard Houses», dicevaEisenman, erano architetture anche se non costruite; la mag-gioranza rientrava in questo ultimo gruppo. Nel 1978 Eisen-man seguì il progetto di Cannaregio a Venezia; qui i colorisimboleggiavano cose (oro per il misticismo dell’alchimista,rosso per il martirio di Giordano Bruno), mentre la magliadel progetto non realizzato di Le Corbusier per l’Ospedaledi Venezia veniva sovrapposta al disegno irregolare del tessu-to veneziano. Due anni più tardi, si inventarono e si sovrap-posero altre linee immaginarie - la maglia di Mercatore, i mu-ri settecenteschi e i limiti urbani ottocenteschi - che insiemegenerarono l’edificio residenziale dell’IBA su Friedrichstras-se, proprio accanto al muro di Berlino.
2. Dalla sua prima metodologia - che si fondava sull’operalinguistica piuttosto che sugli studi politici di Noam Chom-sky - Eisenman si spostò rapidamente da un amour de voyage al-l’altro: l’idea di scavo, il cubo di Bool, l’anello di Moebius, ilDna, la graduazione, o qualcosa che assomiglia a strisce difettuccine cotte e casualmente ammonticchiate nel ColumbusConvention Center; ciascuno di questi elementi promettevadi regalare struttura, ordine e diversità ai suoi progetti. Con-venientemente, questi «amori» rimpiazzavano un metodo ra-zionale, visto che nell’opera di Eisenman è sempre mancataun’immaginazione creativa. Allo stesso modo come le suestringenti metodologie progettuali hanno dato forma ai suoiprogetti, così le sue magistrali relazioni pubbliche hanno da-to forma alla sua persona pubblica.
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prendere a pieno nei suoi diversi significati senza fare alcunriferimento al fascismo. Eisenman considerava assolutamen-te irrilevante, per comprendere qualunque architettura, qual-siasi commento che non fosse di natura formale.
Separare l’architettura dalle contaminazioni del mondo rea-le è stata una costante nel lavoro di Eisenman; solo così egli èriuscito a fare di se stesso una figura culturale di risonanza in-ternazionale. Quattro sono gli ingredienti fondamentali chespiegano il successo di Eisenman: l’abilità di intrappolare nelsuo recinto un gran numero di architetti, teorici dell’architet-tura, critici e storici, per costruire la «mistica eisenmaniana»;far credere che i suoi progetti documentino le ambiguità e leincertezze della nostra era; un’infallibile abilità a evitare diprendere una posizione inequivoca su questioni scottanti; e,infine, la sua enfasi sull’autonomia formale, di modo che i suoiprogetti possano offendere visivamente, esteticamente, espe-rienzialmente, giammai politicamente. Ciascun ingredientesi trova in dosi diverse in tutte le attività di Eisenman: dallaprogettazione architettonica, alle pubblicazioni, alle appari-zioni in pubblico.
Eisenman ha imparato l’arte di conquistarsi un posto sottoi riflettori dal «maestro stesso», Philip Johnson, a cui compe-te il dubbio onore di aver raggiunto un successo ancora mag-giore, e ancor meno proporzionato al proprio talento, al pun-to di aver superato (senza averle mai rinnegate) la macchia del-le sue giovanili simpatie naziste. Eisenman non è il solo erededi questa tradizione: se lui è un astuto Svengali [manipolato-re, N.d.t.] dell’architettura, Daniel Libeskind è il sinistro Ra-sputin di ancor meno cantieri andati in porto. Ciò che distin-gue Einsenman è la sua efficace opera di seduzione degli in-tellettuali, seduzione che non è riuscita ad altri eroi mediatici.
Nei primi anni della sua carriera, l’opera di Eisenman sifondava sull’elaborazione di un linguaggio autonomo e auto-referente, che ignorava le particolarità del sito per non citare
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durante I primi anni settanta Eisenman riuscì a far fruttare unridottissimo portfolio di progetti e un gran numero di amici-zie, fondando a New York l’Institute for Architecture andUrban Studies. Per dieci d’anni, mentre progettava all’incir-ca una piccola casa all’anno, spinse il proprio nome nelle pri-me fila della comunità architettonica, pubblicando articolisulla propria rivista trimestrale «Oppositions», sul propriomensile «Skyline», e gestendo una regolare serie di avveni-menti all’Institute. Ma sebbene la sua reputazione come im-presario dell’architettura fosse allo zenit, gli bruciavano le frec-ciate di chi lo accusava di costruire soltanto architetture di car-ta. Nei primi anni ottanta, abbandonò l’Institute e si mise insocietà con Jack Robertson «per sporcarsi e fare pratica», co-me disse egli stesso. Nei primi anni novanta, fondò un secon-do istituto, Any, che serve una nuova generazione di teorici earchitetti, e che pubblica anche libri e riviste.
Con tutto questo, Eisenman è stato tanto abile da fabbri-carsi un nuovo personaggio per ogni occasione, camuffandoquello vecchio. A una conferenza sul postmoderno, nell’au-tunno del 1989, davanti a un pubblico di critici letterari, teo-rici e filosofi, Eisenman si presentava come uno fra tanti, pron-to a sudare e a rimboccarsi le maniche, e costruire nel mondoreale che stava fuori. Un paio di settimane più tardi, davantia un pubblico di architetti, si presentava come un teorico, co-me un filosofo che interpretava l’ethos della cultura contem-poranea, parlando di Jacques (Derrida) e di Fredric (Jame-son). Chiaramente elusivo, in ciascun caso Eisenman avevamodellato un personaggio ritagliato sulle esperienze del suopubblico, e quindi poco vulnerabile davanti a eventuali at-tacchi.
Anni di simposi, conferenze e pubblicazioni per celebrarel’opera di tanti architetti hanno alla fine ripagato, quandoquesti stessi architetti hanno occupato poltrone nelle giurie deiconcorsi, potendo così aiutare Eisenman a ottenere le sue pri-
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Più di qualsiasi altro suo compagno di strada, la premi-nenza di Eisenman si fonda sulla sua incredibile abilità nonsolo nel promuovere la propria causa con ineguagliabile astu-zia, ma anche nel convincere gli altri a spingerlo a occupareuna posizione di preminenza. Raramente un edificio è statoinaugurato allo stesso modo del Wexner Center a Columbus(Ohio), dove l’anziano statista dell’architettura Philip John-son si è unito con alcune delle più brillanti leve della giovanegenerazione - Charles Gwathmey, Michael Graves, RichardMeier, Harry Cobb - per non citare i rappresentanti del co-siddetto circolo dell’avanguardia delle arti, come Laurie An-derson, il Kronos Quartet, e Twyla Tharp. Tutti erano lì arendere omaggio al primo importante progetto di Eisenmannegli Stati Uniti, che fu presentato nudo, senza opere d’arteche distraessero dalla contemplazione dell’edificio.
Il recente catalogo sui suoi progetti di «scavo urbano», pub-blicato dal Canadian Center for Architecture di Montréal,comprende anche la discussione avvenuta a una tavola roton-da su Eisenman, con Jean-Louis Cohen, Michael Hays,Alan Balfour, Yve-Alain Bois e, naturalmente, Eisenmanstesso1. Con le buone e con le cattive, Eisenman ha attratto uneclettico ed eterogeneo gruppo di critici, membri appartenentiall’élite culturale, per scrivere del suo lavoro, da Mario Gan-delsonas a Kurt Forster, da Michael Hays a Kenneth Framp-ton, da Fredric Jameson a Jacques Derrida. Ciascuno parte-cipa al gran gioco delle relazioni pubbliche di cui Eisenmanè il burattinaio, una cortina di fumo efficace quanto il meto-do progettuale che egli adotta per dissimulare il suo approc-cio un poco monotono nel fare architettura.
3. Il concetto che meglio descrive le varie attività di Eisenmanè quello del gioco, un gioco con il duplice obiettivo di vince-re e di non finire mai. Con un sagace talento per lo spettaco-lo, più vicino a Phileas Taylor Barnum che a Walt Disney,
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dute, oppure le divisioni astratte della mappa di Mercatore, aloro volta da intendersi come critiche dell’umanesimo e del-l’antropocentrismo2. Tuttavia, per il visitatore, l’esperienza delWexner non è né un’avventura in poesia, né fredda logica,quanto piuttosto un’irritazione e una frustrazione - reazionidifficilmente destinate a procurare molti clienti. Più comicoche lussuoso, l’edificio si fonda sulla martellante insistenza de-gli assi e delle maglie, che finiscono con l’impossessarsi anchedei dettagli dei bagni.
Forse perché non si avverte mai la sensazione che a lui piac-cia passeggiare per, o vivere nell’architettura, e tanto menoche gli piacciano le tattilità dei materiali con cui lavora, stadi fatto che Eisenman catalizza l’attenzione della critica piùsu se stesso che non sull’analisi dei propri edifici. Una voltaandò a vedere le tombe etrusche a Cerveteri ma, invece di vi-sitarle, si risparmiò la fatica comperando le cartoline. La sem-plice astrazione dei suoi progetti - anche se giocosamente ri-vestiti da una retorica di fratture, dislocazioni e decostruzio-ni - ripete insistentemente che non vi è gioia nella costruzio-ne, e neppure passione o poesia negli spazi e nei materiali, eneppure un senso di fisicità, e tanto meno un desiderio dicreare luoghi che possano emozionare i visitatori, intellet-tualmente o in altro modo. La sorpresa che ci prende nel ve-dere un pilastro appeso (che sta a indicare una delle tante ma-glie e assi che controllano questo progetto) o una serie di pas-saggi adiacenti ma diversi, si esaurisce presto, come pure lacomplessità data da maglie sovrapposte, alcune delle quali inombra, un gioco che indica riflessi e realtà. Consumati que-sti artifici, rimane ben poco oltre agli interni, sovraffollati epoco luminosi.
4. Più recentemente, nel progetto per Friedrichstrasse a Berli-no, Eisenman stilizza il profilo strano e sfaccettato di un grat-tacielo urbano, partendo dall’anello di Moebius. Il grattacie-
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me importanti commesse di costruzione, il Wexner Center inOhio e le abitazioni IBA a Berlino, due edifici che hanno va-rato la sua fama di teorico praticante, offrendogli una primaoccasione di dare corpo alle sue idee sulla progettazione, la co-struzione e il mondo contemporaneo. Sopratutto, vincere ilconcorso del Wexner (1982) è stata per lui una gran bella no-tizia: il progetto di Eisenman (con Trotto and Bean) sconfis-se concorrenti con un curriculum di progetti ben più farcito,ma che al concorso avevano presentato proposte banali. Mapiù che altro, ciò evidenziava i difetti dei concorsi a inviti:stanche e riciclate idee di levigati uffici professionali. Dopoanni durante i quali aveva scritto e pubblicato soltanto picco-li preziosi edifici, Eisenman poteva ora vedere realizzate e co-struite le sue teorie sul mondo contemporaneo.
Il progetto del Wexner, con i suoi angoli acuti, le sue dia-gonali, gli spazi interstiziali, e gran parte del volume nasco-sto sotto terra, non possedeva la monumentalità degli altri pro-getti concorrenti, ma semplicemente collegava due edifici esi-stenti. Due assi, intersecandosi, indicano questo collegamen-to, mentre le loro maglie e superfici vetrate danno sprint aquello che altrimenti sarebbe un passaggio abbastanza nor-male tra due strutture. Rimane difficile capire perché Eisen-man abbia indicato come causa causans la sovrapposizione dielementi come la maglia di Mercatore, l’asse dello stadio uni-versitario, le rotte del FAA (Federal Aviation Authority) e al-tre astrazioni, come coordinate per questi assi, e quindi comegeneratrici ideali del progetto.
Con questo progetto complicato, anzi troppo complicatoe quindi troppo deterministico, Eisenman esprime la teorianota come «decostruzione», anche se lui lo considera una «ri-velazione» di quanto è represso e nascosto. Per Eisenman, de-stabilizzare, decentrare, decostruire, o spostare le tradizionaligerarchie o le condizioni repressive, equivale a recuperare co-se come le suddivisioni dei terreni preesistenti e poi andate per-
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Solo con il tempo ho capito il punto di vista di Eisenman,che si fonda sul desiderio di abbracciare l’estetica dell’avan-guardia occupando i margini della cultura come provocanteespressione di indipendenza, e, simultaneamente, godendo ditutti i benefici dell’essere un’icona culturale al centro. Questaera, aggiungerei, anche l’ambizione di Giuseppe Terragni, edi altri architetti dell’epoca: progettare architetture modernee di avanguardia, occupando quindi i margini della cultura,ma svolgere anche il ruolo di architetti di Stato, affinché si di-chiarasse il Razionalismo quale architettura ufficiale del fa-scismo, e occupando quindi il pieno centro.
Oggi, come fare questo? Stare in eterno equilibrio con unpiede su ciascun lato della staccionata, senza lasciarsi impa-lare, è possibile soltanto nell’illusorio mondo del formalismo,dove le avventure dell’apparenza sostituiscono le questionistrutturali. L’architettura di Eisenman, che si fonda esplici-tamente sulla sintesi di intuizioni tratte da discipline come lacritica letteraria e la filologia, resiste bene all’idea di prende-re posizione. Gran parte degli scritti di esponenti decostru-zionisti - in gran parte teorici auto-proclamati e afflitti da sno-bismo - soffrono pensando che il linguaggio sia tristementepiù interessante di quanti lo usano, o dell’architettura, o diquanti ogni giorno usano gli edifici.
In questo senso, la teoria sostituisce il coinvolgimento nel-la realtà politica, oppure, se riferita all’architettura, il costruireche si confronta con la vita quotidiana. Il formalismo di Ei-senman è in altre parole una vera e propria suppressio veri, cioèuna manovra ideologica il cui scopo è spostare l’attenzionedagli altri fattori che hanno a che vedere con la produzionedi un edificio, per garantire la sopravvivenza di una nozionedell’architettura che trascenda la storia, le circostanze socia-li e la politica. Tra le altre cose, questa è anche la classica po-sizione elitaria dell’architettura: senza sforzo alcuno, nostal-gicamente si rammentano i giorni di quando l’architettura
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lo promette di aggiungere varietà allo skyline berlinese (oltre aviolare gli attuali limiti in altezza), ma il resto dell’iniziativanon garantisce altrettanta generosità: con il suo pacchetto stan-dard di ristoranti, negozi, uffici, boutique, bagni termali, dro-ghieri di delikatessen, cinema e rivenditori di video, questo diBerlino è semplicemente un ennesimo complesso speculativopolifunzionale. Soltanto la sua posizione nella città e il suoprofilo sono diversi dallo shopping mall regionale «Joyland»,aperto di recente nel rurale mondo delle Marche. La vana ri-cerca di un elemento sovversivo, di una posizione chiara, po-ne con insistenza le domande: dov’è andata la critica cultura-le? dove sono i commenti ironici sui difetti della cultura con-temporanea che tempestano i saggi e i discorsi di Eisenman?dov’è la coraggiosa ribellione dell’avanguardia?
Nonostante l’arcana corrispondenza del progetto di Frie-drichstrasse con lo shopping center, Eisenman dice di fonda-re i suoi progetti sulla critica dell’architettura contemporanea.La nostra cultura, recita Eisenman, guarda troppo alla tradi-zione e troppo poco al futuro, ed è sopraffatta da desideri diun’architettura senza tempo, piena di significati e verità. Lasua risposta è un’architettura della dissimulazione, artificiale,senza origine e senza fine, arbitraria e priva di significati, cri-tica quindi nei confronti della cultura contemporanea. Dalpunto di vista costruttivo, il singolare contributo di Eisenmanè di spingere l’involucro edilizio sempre più oltre: le sue for-me sono ben riconoscibili e, come testimoniano i costruttoridel Wexner, le loro energie costruttive sono state messe a du-ra prova come non mai. Anche se è difficile comprendere ilcome, ci viene detto che questa architettura - che non è no-stalgica, guarda avanti, è arbitraria e quindi autonoma - va ol-tre ogni altra possibile architettura, adottando una posizionecritica verso la cultura contemporanea. Ma qui, come accadea troppi critici e architetti americani, qui si confonde il com-plicato con il critico.
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li da affrontare a livello interpersonale, e faremmo volentieri ameno di vederle esplose alla scala di un grattacielo.
Ma in fin dei conti, la cosa più sconcertante di Eisenmannon è la sua continua auto-promozione, né i suoi edifici chesono moderatamente buoni; è il suo successo nell’appropriar-si della nozione di radicalismo. Un’intera generazione di nuo-vi architetti e studiosi (e sicuramente un intero gruppo di cri-tici e teorici auto-eletti) si sta attualmente formando dando cre-dito al programma avanzato da Eisenman, secondo cui oggiessere radicali significa progettare forme complicate, o parla-re e scrivere in modo incomprensibile alla stragrande mag-gioranza delle persone. Catturati da apparentemente profon-de e dense disquisizioni sull’architettura, non si accorgono chetroppo spesso questo oscuro frasario nasconde un’assolutaconfusione. Insomma, per gli architetti che seguono Eisen-man, la rete dei poteri su cui poggia l’intera industria delle co-struzioni (quelle che dovrebbero guarire tutti i problemi del-la deindustrializzazione e della disoccupazione, come Berlu-sconi attualmente promette per l’Italia) rimarrà a questo pun-to del tutto sconosciuta, e incontestata.
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era un affare da gentlemen piuttosto che una professione, diquando il campo era libero dalle classi inferiori, oppure, Dioce ne salvi, dalle donne.
Visto che in alcuni luoghi oggi è più difficile manifestarele proprie antipatie su questioni di classe e di sesso di quantonon lo fosse una ventina di anni fa, il ruolo preminente unavolta giocato dagli architetti può essere replicato solo tramiteun comportamento deciso. Una soluzione è assumere una po-sizione teorica esclusivista, come ha fatto Eisenman; se fun-ziona, questa diventa status. È la stessa strategia seguita damolti accademici contemporanei, che hanno visto il loro pre-stigio erodersi nell’arco degli ultimi cent’anni: la loro rispo-sta è arroccarsi entro le proprie mura di oscurantismo, in-comprensibili e disinteressati a tutto quanto non faccia capoa un ristretto gruppo di iniziati. Questa strategia permette agliaccademici - e agli architetti - di auto-definirsi giocatori chelottano contro gli altri spettatori del mondo. Agli altri loro di-fetti, va aggiunta la cecità: non si sono ancora accorti che lapartita oggi si gioca in uno stadio del tutto diverso.
Ma sopra ogni cosa, queste manovre assicurano la persi-stenza dei consolidati rapporti di potere, attraverso il sempli-ce espediente che questi non vengono mai citati o considera-ti. Il dissenso è confinato entro un circolo così ristretto di scel-te formali, che non si può lanciare alcuna sfida, neppure sul-le questioni più banali. Il dissenso estetico mima il compor-tamento delle élites politiche, e le forme, nel caso di Eisenman,mascherano un arrogante controllo su tutto, dalle grandi nar-rative sull’autonomia a quelle di critica culturale. In momen-ti diversi della sua carriera, Eisenman ha addirittura ammes-so che la sua architettura è una forma di terapia, attraverso laquale egli respinge i suoi demoni personali come fossero uni-versali. Di fatto, si viene invitati a partecipare alle sue nevro-si, e ad accettare i suoi edifici come giuste risposte. Per granparte di tutti noi, le altrui nevrosi sono già abbastanza diffici-
Questo saggio è apparso originariamente in ???????????????????????
1 JEAN-FRANÇOIS BÉDARD (a cura di), Cities of Artificial Excavation. The Workof Peter Eisenman. 1978-1988, Montreal - New York 1994.2 PETER EISENMAN, Moving Arrows, Eros and Other Errors: An Architecture ofAbsence, Londra 1986.
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Presenze e assenze
Che cosa determina la fama di certi edifici, anche quan-do questi sono afflitti da gravi problemi, e che cosa de-
termina invece il silenzio intorno ad altri edifici di grande pre-gio, e ben maggiore integrità fisica?
La questione si è presentata mentre a Los Angeles visitavola casa Schindler, in una giornata piovosa di gennaio. Unabatteria di secchi in posizioni strategiche raccoglieva l’acquache pioveva da numerose perdite nel tetto, e né i camini acce-si, né la calca di persone presenti erano sufficienti a vincere unfreddo da far gelare le ossa. Evidentemente, la fama di questoedificio si era costruita ignorando dei problemi piuttosto seri.Dato che non riesco a trovare alcuna concreta giustificazionea questo fatto nei concetti di licenza poetica e di «genio soli-tario», cercherò ora di far riferimento direttamente alla pro-duzione architettonica, utilizzando un edificio come stru-mento per verificare come i rapporti di potere presenti nellasocietà si riproducono nell’architettura, e quali siano i mec-canismi che rendono possibile questa riproduzione1.
L’edificio di cui voglio discutere è il Knickerbocker, che sitrova nel quartiere di Bushwick a Brooklyn, New York. Inlarga parte abbandonato dopo le rivolte urbane del 1978, ilquartiere è diventato una mecca per afroamericani e migran-ti provenienti dai Caraibi, in particolare dalla RepubblicaDomenicana. Dato che a Brooklyn manca il relativo benes-sere del Queens, e il conseguente atteggiamento NIMBY [acro-nimo per «Not in My Backyard», «non nel mio cortile», Ndt],
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il percorso classico: ha mandato il progetto alle riviste più im-portanti del settore. «Architecture», «Architectural Record»e «Progressive Architecture» hanno pubblicato ciascuna unabreve segnalazione (una pagina o meno), descrivendola comeun buon esempio di progetto «socialmente utile» e poco più;l’edificio è stato poi citato nelle pagine del «New York Times»dedicate al mercato immobiliare2. Kirschenfeld ha anche ten-tato di interessare i più influenti critici newyorkesi, Paul Gold-berger e Herbert Muschamp, sperando che questi potesseroparlare più diffusamente del suo progetto nel «Times». En-trambi lo hanno completamente ignorato, e Goldberger (cheadesso lavora per «The New Yorker»), in una memorabile ri-sposta, ha affermato di essere in quel momento interessato aproblemi più di critica «culturale» che non architettonica.
Ma quali sono i casi di «critica culturale» di cui si sarebbeoccupato di recente Goldberger? Ad esempio, a pochi gior-ni di distanza dall’apertura ufficiale del Knickerbocker, nel-l’autunno 1996, egli era in un gruppo di architetti e critici dichiara fama che si sono dati appuntamento per l’inaugura-zione dell’Aronoff Center of Design and Art di Peter Ei-senman all’Università di Cincinnati. La videoregistrazionedell’avvenimento, in parte poi trasmessa in televisione al«Charlie Rose Show», è assolutamente comica: una rassegnaquasi da manuale dei riti associati con il culto dell’arte e de-gli artisti. Questa riunione di luminari dell’architettura è sta-ta evidentemente orchestrata in modo da certificare l’impor-tanza dell’edificio. Il fatto che la «grandezza» di un’opera pos-sa essere in qualche misura associata a rapporti di censo e diamicizia è emerso esplicitamente dalle parole di Goldberger,quando questi affermò che il gruppo si era riunito almeno inparte perché tutti potevano dirsi «amici di Peter» (Peter’sfriends). Architetti celebri, presidi di facoltà, critici: tutti fini-vano con il trasferire una parte del proprio prestigio cultura-le all’edificio e al suo architetto.
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nel quartiere abbondano le realizzazioni di edilizia residen-ziale a basso costo, e il Knickerbocker ne è uno degli esempipiù recenti.
Inaugurato nel 1995 e progettato da Architrope, un picco-lo studio di New York, il Knickerbocker è un edificio resi-denziale di monocamere destinate agli homeless e a veterani af-flitti da malattie mentali. L’edificio contiene 44 unità abitati-ve per singoli e 4 per coppie, e offre un’ampia gamma di spa-zi per servizi, tra cui un centro medico per la supervisione del-le terapie, una sala da pranzo collettiva, persino una bibliote-ca. Ogni appartamento ha il suo bagno privato, l’angolo cot-tura, ed è dotato di arredi disegnati dagli architetti. I soffittisono lievemente più alti - circa 15 cm - del minimo richiesto.Anche se piccole, le unità appaiono calde e luminose.
Sia internamente che all’esterno, il Knickerbocker offre unaqualità davvero notevole, ben più di quanto ci si potrebbeaspettare dal suo costo, di 1.200 dollari per metro quadrato.Il responsabile del progetto, Jonathan Kirschenfeld dello stu-dio Architrope, è riuscito a evitare che il suo edificio avesseun aspetto «istituzionale», e lo ha invece inserito nel vicinatocome una qualsiasi casa per appartamenti in mattoni, rife-rendosi a questa tipologia senza esserne vincolato. Come persottolineare il carattere residenziale del tutto, un piccolo vo-lume a forma di casa monofamiliare fuoriesce al centro dellafacciata; la muratura in mattoni è ben curata, con rientri mo-dulari per le aperture - che sono dotate di architravi e cornicidi un bel cemento bianco -, il che conferisce all’edificio un to-no decisamente elegante. Kirschenfeld è riuscito a superarepositivamente ogni ostacolo, ogni problema; e, in sintesi, conquesta architettura egli riesce a dare dignità a un tipo edilizioche molto sovente non ne ha proprio, tutto ciò a dispetto delbudget davvero ridotto e di un quadro normativo particolar-mente complesso.
Per far conoscere la propria opera, Kirschenfeld ha seguito
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sura obiettiva di qualità, del pensiero o della produzione pro-fessionale. In modo assolutamente chiaro, questo gruppoesclude ciò che non rientra in certi parametri - il che ci ri-porta alla mancanza d’interesse di Goldberger per ilKnickerbocker: l’edificio non «rientrava» nella sua defini-zione di «cultura».
Eppure, in base a valutazioni del tutto convenzionali, que-sto edificio avrebbe dovuto ricevere attenzione: non solo è sta-to costruito nei tempi previsti e rispettando il budget, ma rie-sce anche a rispondere in modo acuto e raffinato a molti deiproblemi economici, funzionali, contestuali e sociali solleva-ti dal programma; così, sotto tutti i punti di vista, si pone co-me un modello per chiunque altro si dovrà misurare con ana-loghi progetti di SRO (Single-Room-Occupancy) per i piùdiversi tipi di utenza. Come se non bastasse, i due soci di Ar-chitrope, Andrew Bartle e Jonathan Kirschenfeld, godonodel genere di conoscenze che spesso garantiscono un ricono-scimento. Entrambi si sono laureati a Princeton, entrambihanno passato negli anni settanta un periodo all’Institute forArchitecture and Urban Studies, e entrambi dirigono di tan-to in tanto dei laboratori di progettazione in importanti uni-versità del Nord-est americano. Architrope è stato un finali-sta al prestigioso Premio Palladio nel 1991, si è guadagnatodei premi della New York Art Commission nel 1993 e 1996,oltre che una Distinguished Architecture Citation da partedella sezione di New York dell’American Institute of Ar-chitects nel 1991.
Come possiamo allora spiegare la relativa assenza di noti-zie su questo edificio? Le forze all’opera in un qualsiasi setto-re della produzione culturale sono complesse, e si intreccianoin modo diverso a seconda dei casi. Senza uno studio moltopiù esteso, non è possibile trarre considerazioni generali con-vincenti. Tuttavia, io ritengo che sia comunque il caso di af-frontare alcuni punti chiave delle politiche del riconoscimen-
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Credo che, di fronte a queste manifestazioni di esclusivi-smo e autoproclamata superiorità, non tutti i membri del pub-blico televisivo siano in possesso delle conoscenze necessarieper capire che lo status culturale dell’opera e del suo progetti-sta sono alla fin fine un fatto arbitrario, e un riflesso dell’in-tensità con cui le autorità investono il proprio capitale cultu-rale nella produzione di determinati oggetti. Senza contareche il trasferimento di status all’opera da parte delle autorità,rafforza a sua volta il prestigio di queste ultime, e il loro sta-tuto di élite autodefinitasi tale.
Ma quali sono i valori a cui si sottoscrive in queste occa-sioni? Nel caso dell’Aronoff, ciò che più colpisce, in moltidegli interventi, è lo spregio per il pubblico. Eisenman, adesempio, ha definito Walter Benjamin «un filosofo tedesco,ignoto alla maggior parte di voi che mi ascoltate». SanfordKwinter ha osservato che la «gente interessante, gli intellet-tuali, ammirano [questo] edificio». David Childs ha affer-mato che era un «bene» che i tassisti di Cincinnati avesse-ro difficoltà a trovare la porta d’ingresso dell’edificio. Il fat-to che la gente normale non riuscisse a trovare l’ingresso, rin-carò Eisenman, si contrapponeva alla «cultura sedentaria»,e avrebbe contribuito «riportare il corpo al centro del rap-porto tra occhio e mente» («bring[ing] the body back intothe mind-eye relationship»). Al di là del generale disprezzoper le persone «normali», i valori espressi collettivamente eindividualmente da questo gruppo si rivelano essere spessodegli stereotipi: «dare uno scossone alle cose», realizzare «unnuovo tipo di casa», «far collassare il classicismo», «adotta-re un pensiero architettonico a scala infrastrutturale»... Ciòche è stupefacente, data la vacuità e persino l’incoerenza digran parte della discussione, è che gruppi del genere sianostati in grado di convincere così tanti della propria superio-rità culturale. L’ingresso in questa fortunata cerchia non èovviamente basato in modo prevalente su una qualsiasi mi-
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plesso e profondamente criminale, la cui vera natura gli sfug-ge, però, fino all’ultimo.
Starete certo pensando ad altri film dove i protagonisti soc-combono al male, ma il punto è che si tratta, nella maggiorparte dei casi, di personaggi appartenenti alla classe media, senon a quelle più elevate. La loro caduta risulta appagante edrammatica proprio in quanto cadono dall’alto. Si tratta difilm e di personaggi in cui gli spettatori possono più facil-mente identificarsi. At Close Range, con le sue figure non ste-reotipate e appartenenti alle classi più umili, non offre appigliper una facile immedesimazione nei personaggi.
Il parallelo tra questa vicenda e quella della KnickerbockerResidence mi pare ovvio, al pari della lista di fattori che pos-sono aver agito come «prestigio negativo» per questo ottimoprogetto. Innanzitutto, pesa negativamente la sua colloca-zione a Bushwick; e il fatto che sia destinato a essere abitatoda frange marginali della società - un proletariato di senzacasa, veterani e malati di mente - non fa che sigillarne il de-stino di edificio destinato a rimanere semisconosciuto. Laquestione di come affrontare i bisogni di popolazioni pococonsiderate socialmente è percepita come profondamente fa-stidiosa, non solo all’interno della professione architettonica,ma da parte della società nel suo insieme. Sia gli homeless, siai malati mentali sono stigmatizzati nell’America contempo-ranea: malcompresi, demonizzati e marginalizzati, a questidue gruppi è di fatto impedita una partecipazione piena allavita sociale. Le comunità locali non sollecitano le agenzie diservizi sociali affinché sviluppino dei programmi per questigruppi, né chiedono che siano realizzati i relativi servizi neipropri quartieri.
Per l’establishment dell’architettura così come è costituitoal giorno d’oggi, questo genere di committenza, e le zone de-gradate a cui invariabilmente fa riferimento, non è degno diessere pubblicizzato, né «coltivato» come una futura fonte di
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to in architettura, e intendo avvicinarmi al problema parten-do da un esempio in un settore diverso della produzione cul-turale: il cinema.
Nel maggio del 1986 mi capitò di vedere quello che riten-go essere uno dei migliori film degli anni ottanta. At CloseRange (A distanza ravvicinata)3 pareva avere tutti i numeri peressere un successo: ottimo cast, tra cui Sean Penn e Chri-stopher Walken, trama avvincente tratta da fatti realmente ac-caduti, regia di prim’ordine e persino una canzone firmata daMadonna come colonna sonora. Eppure, fu ritirato dalla cir-colazione dopo poche settimane. Nessun critico si prese a cuo-re il compito di promuoverlo: il film di fatto scomparve, sen-za essere un successo di pubblico né di critica.
Che il film sarebbe durato poco era ovvio fin dalla primavolta che lo vidi (per questo, tornai altre due volte in rapidasuccessione a rivederlo). Forse, visto il suo radicamento nel-la vita reale, il dolore e l’orrore risultavano troppo devastan-ti, tanto più se paragonati ai fasulli bagni di sangue dei thril-ler da multisala. Il regista, tra l’altro, non ha tentato di psi-canalizzare i protagonisti o di spiegare il loro comportamen-to, il che ha accentuato il carattere crudo e scioccante dellescene finali. Il personaggio di Walken finisce con essere lapersonificazione della «banalità del male» definita da Han-nah Arendt.
E tuttavia, il pubblico americano raramente rifiuta un filmper il suo contenuto eccessivo di violenza. Io credo che in que-sto caso il problema consistesse nel suo essere ambientato nel-la classe operaia; una working class, però, che non ha né i mo-di stereotipati dei personaggi di David Mamet, né la rabbiacupa di quelli di Sam Peckinpah. Senza batter ciglio e sen-za sentimentalismi, il film mostra il comportamento sfaccia-to di un gruppo di giovanotti piuttosto antipatici, i cui cri-mini da due soldi sembrano essere poco più che delle brava-te, mentre poco alla volta vengono attirati in un mondo com-
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l’architetto, in questa fine di XX secolo, nella ricerca di solu-zioni per i problemi più urgenti della nostra società?
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lavoro; meno interessanti ancora sono le istituzioni non pro-fit che in genere finanziano e gestiscono queste attività.
Quando si arriva al dunque, l’architettura oggi è una que-stione estremamente elitaria, e le principali commissioni pub-bliche e private provengono da gruppi molto ristretti. A cau-sa delle loro aspirazioni politiche e sociali, molti dei più im-portanti professionisti americani - Gehry, Eisenman, Graves,Pei, Pelli, Meier, e altri - non investono il proprio prestigio, ilproprio capitale simbolico, in progetti per gli homeless o i ma-lati mentali; il loro obiettivo professionale impone loro di ri-volgersi alla cultura e al gusto di strati molto diversi della po-polazione. La conseguenza è che il progettare questo tipo diservizi trasgredisce alle premesse fondamentali dell’architet-tura con la «A» maiuscola, e anche se alcuni professionisti il-luminati vedono una certa nobiltà in questo tipo di progetti,non possono aspettarsi un gran ritorno, in termini di celebrità.Gli architetti che si occupano in modo prevalente di edificiresidenziali a basso costo o di Single-Room-Occupancy(SRO) sono riconosciuti come professionisti impegnati e so-cialmente responsabili, ma non sono mai invitati - né lo sonoi loro edifici - a far parte della ristretta gerarchia delle star. An-che se io mi rifiuto di ammettere che un museo o una biblio-teca sia di per sé un progetto di maggior valore che un SRO,voglio qui richiamare l’attenzione sul diffuso disinteresse amettere in discussione queste gerarchie, che finiscono con ilrelegare i progetti residenziali per i poveri o i malati tra gli in-carichi meno favorevoli della professione architettonica. Varilevato, peraltro, che questa bassa considerazione non è unatto senza conseguenze: in quanto meccanismo per la ripro-duzione del potere dei più privilegiati, essa finisce con il ri-durre le risorse architettoniche (oltre ad altri generi di risorse)a disposizione dei gruppi più depressi.
C’è bisogno che io aggiunga che questo atteggiamento è re-sponsabile dello scarsissimo peso che ha la professione del-
Questo saggio è apparso originariamente con il titolo The Absence of Presence,in «Harvard Design Magazine», 2, estate 1997.1 L’autore che ha esplorato questi problemi in modo più persuasivo è PIERRE
BOURDIEU, soprattutto in La Distinction, Critique sociale du jugement, Parigi 1979(ed. americana Distinction: A Social Critique of the Judgment of Taste, Cambrid-ge (Mass.) 1984; ed. it., La distinzione: critica sociale del gusto, Bologna 1983) maanche in The Forms of Capital, in JOHN G. RICHARDSON (a cura di), Hand-book of Theory and Research for the Sociology of Education, New York, GreenwoodPress, 1996, p. 241-258, e in The Logic of Practice, Cambridge, Polity Press 1990(ed. it., Ragioni pratiche, Bologna 1995).2 «Progressive Architecture», agosto 1972, p. 76, «Architecture», gennaio1993, p. 91, «Architectural Record», gennaio 1996, p. 92; Housing in Brooklynfor Mentally Ill Veterans, in «The New York Times», 24 settembre 1995.3 At Close Range, regia di James Foley, 1985 (ed. it., A distanza ravvicinata,1986).
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Curvi sotto il peso del tempo e della storia
Quale sarà il futuro dell’architettura europea nel XXI se-colo? Come studiosa di storia, piuttosto che astrologa o
sensitiva, sono restia ad azzardare profezie su un futuro che staper arrivare, e mi sento più a mio agio rovistando nel passatoo nell’ancora più problematico presente. Ma perché porsi que-sta domanda? E, soprattutto, perché porla a chi è incline a ge-remiadi e visione apocalittiche, in particolare in un’epoca incui anche le più prudenti esortazioni a un comportamento re-sponsabile a favore di progetti a lungo termine vengono rego-larmente ignorate per preferire lucrose prospettive a breve ter-mine? Negli ultimi due mesi, mentre riflettevo sull’argomen-to alla ricerca di risposte, mi si è presentata invece una serie diinterrogativi sempre più incalzanti. Se è mi difficile fare con-getture sul futuro senza sembrare apocalittica, è perché sonoprofondamente delusa dall’incapacità dimostrata dagli ar-chitetti di concepire la loro funzione come qualcosa che vadaoltre la perfetta articolazione di oggetti eleganti, con qualcheconcessione al contesto, ai servizi di pubblica utilità, ecc., unatteggiamento che appare sempre più anacronistico alla finedel II millennio d. C. Così, da storica, comincio andando in-dietro nel tempo.
Come si immaginarono il mondo del XX secolo i nostri pre-decessori, e che cosa possiamo imparare da loro nel nostro ten-tativo di prevedere il secolo che ci attende? All’inizio del No-vecento, quali furono i pensatori che predissero le due guerremondiali, i micidiali strumenti di distruzione, i genocidi si-
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eventi umani. Secondo Bely questi edifici erano i muti testi-moni delle trasformazioni che minacciavano di fagocitare lesocietà che le avevano prodotte. In questo caso, gli edifici so-pravissero alla rivoluzione e a tutto quello che seguì. Anchese Bely profetizzò con sagacia l’imminente conflagrazione,non riuscì tuttavia a dare corpo al suo presagio più di quantofu in grado di fare Adams circa 15 anni prima, quando ri-fletteva sconsolatamente sull’Esposizione di Parigi. Oggi pos-siamo immaginare alcuni degli ingredienti della catastroficatrasformazione del XXI secolo, ma come è successo per il se-colo scorso, la sua entità ci sfuggirà fino a quando non si ab-batterà su di noi.
Per chi sarà costruita l’architettura europea del XXI secolo?La complessità della questione mi è apparsa chiaramente men-tre meditavo sull’argomento in un lungo soggiorno estivo aSydney, in Australia, dove ogni mattina alle 7 Rai Interna-tional tiene informati gli italiani che vivono o viaggiano all’e-stero sugli eventi della madrepatria. La Rai intratteneva quo-tidianamente il suo pubblico con lo spettacolo di natanti che,pur solcando il mare, non si meritano certo di essere conside-rate vere imbarcazioni, e che riversavano sulle coste della Si-cilia e dell’Italia meridionale il loro carico di uomini dispera-ti in cerca di quel lavoro e quel futuro negati loro nelle patriedel Nord Africa. Lungo la costa adriatica della penisola, in-tere famiglie di albanesi, in fuga dalla terza operazione di ge-nocidio da parte dei serbi in meno di dieci anni, barcollavanoa terra da ogni tipo di imbarcazione il cui equipaggio a voltelanciava in mare bambini di pochi anni per distrarre l’atten-zione della Guardia Costiera italiana che li inseguiva. La fol-la accalcata nei campi di accoglienza che disseminano la co-stiera italiana nei rari spazi lasciati liberi da Fininvest, Calta-girone, Marchini e altri, non potendo sfuggire al controllo del-la polizia, aspettava l’espulsione verso i paesi d’origine.
Nella sconcertante e difficile situazione politica ed econo-
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stematici in Germania, dall’Estremo Oriente all’Armenia,alla Turchia e alla ex Jugoslavia, e le frequenti diaspore del se-colo che sta concludendosi? Non mi viene in mente nessunoche sia riuscito a immaginare interamente queste immani tra-gedie umane, ma certo alcuni di loro andarono incontro alnuovo secolo con pesanti presagi. In The Education of HenryAdams, l’intellettuale americano Henry Adams, che visitò lagrande Esposizione di Parigi del 1900, riconobbe le incredi-bili forze sprigionate dai macchinari esposti nel Padiglionedelle Macchine ed espresse i suoi timori. Sull’esempio del li-bro che aveva scritto sulle forze della storia che avevano por-tato alla costruzione delle spettacolari cattedrali del Medioe-vo francese (Mont Saint-Michel e Chartres), meditò sullenuove forze introdotte dalle macchine che vedeva muoversi epulsare davanti a lui. Egli poteva riconoscere un cambia-mento, ma non un progresso, e pur essendo incapace di im-maginare le strade che quel cambiamento avrebbe preso, con-getturò che invece di unire le comunità, com’era successo nelMedioevo con la devozione alla Vergine, queste nuove forzeavrebbero provocato conflitti intestini allontanando gli uo-mini invece di avvicinarli, con conseguenze potenzialmenteterribili. Con il suo «historical neck broken» (collo da stori-co fratturato), Adams salutò l’avvento della prima guerramondiale come la logica conseguenza della tendenza che ave-va già identificato a Parigi nel 1900.
A San Pietroburgo, il simbolista russo Andrei Bely pre-sagì il mare di sangue che stava per abbattersi sulla Russia, laterribile conseguenza dell’incursione di Pietro il Grande nel-l’Occidente mediante la costruzione di San Pietroburgo e ilsuccessivo ritiro da parte di Caterina la Grande. Di fronte agliimponenti edifici classici della San Pietroburgo del XVIII se-colo (molti dei quali furono progettati da architetti italiani),Bely descrisse le cariatidi che li cingevano e che, aggettanti dal-le facciate, sembravano protese sul tempo e sul dramma degli
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Nella sconvolgente potenza distruttiva del XX secolo, checosa hanno fatto gli architetti, che cosa hanno realizzato conle loro architetture? Purtroppo, il bilancio non è positivo, poi-ché nella trasformazione del paesaggio gli architetti sono sta-ti gli intermediari di potenti forze politiche ed economiche,anche se troppo spesso in modo estremamente negativo. Pen-siamo alle periferie degradate di molte città italiane, ad esem-pio, allo spreco irrazionale e distruttivo di terre coltivabili, eai chilometri di cemento riversati lungo le coste del paese, iltutto per soddisfare il desiderio di molti italiani di possederedue o tre case (in città, al mare e in montagna). In modo esa-sperante, l’Europa ha seguito l’esempio degli Stati Uniti perquel che riguarda l’illimitato uso di spazi e luoghi, come se lescorte di terreni, acqua e materiali fossero infinite. Sono con-sapevole del fatto che molta di questa attività edificatrice haesteso a un segmento più ampio di popolazione benefici cheuna volta erano privilegio di un ristretto gruppo, ma questasalutare attività non deve necessariamente essere realizzata neimodi così dannosi e distruttivi tipici del XX secolo.
La distruzione, tuttavia, sembra essere l’inevitabile prolo-go allo sviluppo; nel XX secolo cambiamento ha significatodistruzione massiccia per fare posto a nuove costruzioni. Ilsingolare, doloroso rapporto fra distruzione e creazione era untema centrale già nell’Eneide di Virgilio, espresso al meglio nelpunto in cui Enea si trova ad affrontare le decisione se ucci-dere Turno, il suo nemico, oppure trattarlo con magnanimitàrisparmiandogli la vita. Enea sa perfettamente che, per crea-re a Roma una nuova Troia che sostituisca quella distrutta da-gli Achei, devono essere eliminate le ultime vestigia del vec-chio ordine sulla penisola italiana, e ogni cosa che possa mi-nacciare quello nuovo, e quindi anche lo sventurato Turno,che lo ha contrastato e potrebbe farlo ancora in futuro. NelFaust di Goethe il protagonista giunge alla stessa conclusionequando intraprende il suo vasto progetto di modernizzazio-
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mica dell’Africa settentrionale e sub-sahariana, e della costaorientale del mare Adriatico, le prospettive per la maggior par-te della popolazione sono talmente oscure che il rischio di mor-te su imbarcazione inaffidabili o l’arresto e l’espulsione sem-brano un prezzo minore da pagare paragonato a una mortelenta nel proprio paese. Le luci sfavillanti dell’Italia, instan-cabilmente diffuse dalle onde della TV spazzatura di Berlu-sconi, esercitano su queste popolazioni in pericolo un poteredi attrazione tanto forte quanto quello esercitato dal Colosseoe San Pietro sui turisti americani del Midwest. Tuttavia è pro-prio Berlusconi, insieme ad altri gruppi di destra, che si op-pone al loro arrivo in Italia, preferendo invece tenere per sé ibenefici del moderno sviluppo italiano ed erigere una barrie-ra contro questi immigranti indesiderati, pur sfruttando i lo-ro sogni per vendere i propri prodotti.
Quale sarà l’impatto di questa gente sull’Europa e in par-ticolare sull’Italia del XXI secolo? Storicamente esclusi dai be-nefici dell’industrializzazione per motivi di classe, razza o et-nia, rimarranno nelle loro patrie o raggiungeranno l’Italia inun modo o nell’altro? La seconda alternativa è la più proba-bile, ma quale impatto avranno sul paesaggio urbano? In chemodo trasformeranno le tradizioni di edificazione urbana,quali visioni che portano con sé modificheranno l’Italia? Equale sarà la reazione degli italiani? All’inizio del XX secolo,una pericolosa miscela di nazionalismo/razzismo/internazio-nalizzazione e di paura del modernismo e della cultura po-polare di massa, che minacciava di sovvertire le gerarchie dipotere basate su razza, classe e sesso, confluirono in un pro-gramma politico fascista le cui conseguenze sono ben note. Lastessa potente miscela si sta ricreando in Italia, alimentata daimass media, da uno standard di vita in continua crescita, e daun antico rifiuto ad affrontare il passato fascista. L’attuale go-verno di sinistra [il governo D’Alema, 1999 ???, n.d.r.] sarà so-lo un incidente sulla strada verso un’egemonia di destra?
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rappresentativo delle icone culturali e sociali della nostra era,come stadi, musei, aeroporti, centri commerciali, forse diver-si tipi di abitazione per ogni decennio, supermercati, distri-butori di benzina, fabbriche, biblioteche, i bombardieri fan-tasma americani, rampe di lancio di satelliti, portaerei, e me-no chiese di quanto si sarebbe voluto conservare nel XIX se-colo. Sarebbero meno interessati alle qualità individuali diogni singolo esempio che alla loro capacità di rivelare model-li e atteggiamenti. L’obiettivo non sarebbe di scegliere un ca-polavoro o di prendere decisioni basate sul gusto, ma di con-servare quelle caratteristiche dell’ambiente costruito che des-sero indicazioni su chi siamo e come viviamo. E non si limi-terebbero alla sola Europa, ma passerebbero in rassegna conocchio clinico il patrimonio edificato di tutte quelle culturenormalmente disdegnate (o colonizzate) dalle grandi poten-ze europee, ammettendo che un excursus storico ragionevoledovrebbe anche includere la produzione al di fuori dell’Eu-ropa continentale.
Se invece lo chiedessimo ai comuni cittadini, credo che lamaggior parte di loro vorrebbe salvare il proprio quartiere, oil quartiere in cui sono cresciuti, che probabilmente è già sta-to distrutto da tempo, o i luoghi pubblici preferiti dove pas-seggiano con le famiglie e con gli amici, che spesso sono l’e-redità di un secolo precedente che in qualche modo è sopra-vissuta alla devastazione del modernismo e del rinnovamen-to urbano. Dubito che sceglierebbero le poche preziose casepatrizie e gli altri «gioielli» così ammirati dagli architetti. For-se, queste riflessioni su che cosa sceglierebbero i singoli indi-vidui in culture diverse dovrebbero fornirci gli indizi per ca-pire dove concentrare la nostra attenzione nel XXI secolo: spa-zi dove la gente può vivere come meglio crede, pur rimanen-do parte della comunità; luoghi pubblici dove rilassarsi conle proprie famiglie o con altri senza essere costretti a costoseconsumazioni; luoghi semi-pubblici dove le persone più di-
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ne con l’aiuto di Mefistofele, come hanno fatto i titani di piùdubbio valore del XX secolo, come Hitler, Pol Pot, Stalin,Mao Tse-Tung. Per quel che riguarda l’ambiente edificato, inmodo più modesto, funzionari di governo come Robert Mo-ses a New York e icone dell’architettura come Le Corbusierpensarono di sventrare quartieri storici e intere città, ripla-smandoli secondo la loro visione di ordine e modernismo. Pervedere le conseguenze della loro visione, basta guardarsi at-torno nelle periferie delle principali città europee e statuniten-si, o nelle downtowns di molte città del Nord America. Que-sta riflessione mi porta a porre una domanda che potrebbecontribuire a delineare le questioni cui dovremmo dedicarcinel XXI secolo.
Mi chiedo, dunque, che cosa verrà distrutto nella freneticacorsa alla creazione per il XXI secolo? Che cosa dovremmo sal-vare di questo secolo, che cosa potremmo portare con noi nelsecolo a venire, e cosa potremmo lasciare dietro di noi? E an-cora, che cosa ci suggeriscono le nostre decisioni sulla naturadei nostri valori architettonici? Sicuramente le realizzazionimegalomani di persone come Robert Moses non devono es-sere conservate, ma che cosa considereremo di valore del se-colo che sta per finire? Dall’architetto o dal critico, ci si po-trebbe aspettare un elenco di edifici, belli o inusuali, proget-tati da Alvar Aalto, Luis Barragán, Giuseppe Terragni, Ta-dao Ando, Aldo Rossi, Frank Lloyd Wright, Ludwig Miesvan der Rohe, Otto Wagner, Jacobus J. P. Oud, o altri ar-chitetti della stessa statura. I valori rappresentati da questoelenco (come codificati in molti corsi di storia dell’architet-tura) includono la celebrazione del gioiello unico e origina-rio, dell’oggetto finemente lavorato, il capolavoro di un genioespresso in un unico progetto, e troppo spesso, i progetti perl’élite creati dall’élite.
Se, invece, dovessimo porre la stessa domanda ad archeo-logi o antropologi, essi preferirebbero salvare un campione
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A proposito dell’architettura del Sud-ovest
Sicuri nelle stanze di alabastrodove l’alba e il meriggio non li sfiorano,
dormono i miti membri della Resurrezionesotto travi di raso,
con un tetto di pietra.EMILY DICKINSON1
Citando l’amico e collega Ferdinand Bac, Luis Barragánuna volta commentò: «Mi sono limitato a far mia quel-
l’antica solidarietà che ci accomuna, la quale altro non è senon l’ambizione di esprimere con la materia un sentimentocomune ai tanti che cercano un legame con la natura, crean-do un luogo di riposo, di tranquillo diletto»2. Per Barragán,questo luogo di tranquillo piacere, inondato dai colori del-l’architettura «vernacolare» del natio Messico, poteva esseresoltanto un’architettura di muri alti e spessi in armonia con lanatura e la geografia circostante, l’architettura dei rumori del-l’acqua increspata dal vento, della luce afferrata e restituita inraggi penetranti o rifrazioni diffuse. Ed è la poesia e la sen-sualità di questa sua architettura tattile, espressa al meglio pro-prio nella sua abitazione privata (Tacubaya, Città del Messi-co, 1947) e mirabilmente illustrata - quantunque in manieraparziale - in lussuosi libri patinati, a catturare l’immagina-zione anche di chi non abbia mai visitato i suoi edifici. Giàalla fine degli anni settanta l’architettura di Barragán comin-ciò a rappresentare l’ideale cui dovevano tendere gli architet-ti del Sud-ovest nordamericano, eclissando il neocoloniale, lostile «case-study», lo stile mediterraneo e quello rustico di San-ta Fe. Di fatto, architetti diversi come Antoine Predock, Car-los Jiménez, Will Bruder, Emilio Ambasz e Mark Mack ri-conoscono Barragán come uno dei principali ispiratori dei lo-ro lavori.
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verse possono incontrarsi per studiare, lavorare, viaggiare egiocare. Certamente si preoccuperebbero di salvare quello cheresta del paesaggio «naturale», la flora, la fauna e la topogra-fia di zone ancora poco rovinate dall’opera dell’uomo, anchese ho buoni motivi per sospettare che senza azioni energicheresterà poco di tutto ciò alla fine del XXI secolo.
Chi avrà il potere di imporre trasformazioni, e quale sarà ilruolo degli architetti (e degli accademici)? Se ciò che ho sug-gerito finora può essere considerato un segnale significativo,molto di quello che la gente vuole nell’ambiente costruito nonsolo non è considerato importante nelle scuole di architettu-ra, ma è attivamente denigrato, e non è neppure oggetto di at-tenzione nelle pubblicazioni di architettura. Aumenterà il di-vario fra gli interessi degli architetti e il pubblico? Il vero pro-blema del XXI secolo quindi riguarda il potere: chi lo detiene,in nome di chi e con la partecipazione di chi; e, per quel cheriguarda l’architettura, nell’interesse di chi sarà creata l’ar-chitettura futura, per chi e in che modo sarà trasformato il ter-ritorio, e a quale prezzo?
Per rispondere a queste domande non ho più strumenti adisposizione di quanti ne avesse Henry Adams nel 1900 a Pa-rigi; nella Los Angeles del 1999, non mi sento più ottimistadi fronte alle forze del cambiamento sprigionate oggi di quan-to egli fosse di fronte a quelle identificate nel 1900. Se Adamspoté cercare una fonte di controispirazione nelle cattedrali eu-ropee, mi è difficile trovare un’architettura del XX secolo chepossa servire da trampolino per quella del prossimo.
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una delle prime e più efficaci prove di un’architettura ispira-ta alle tipologie del luogo e sensibile alle peculiarità del clima.
Come sono state modificate, arricchite o complicate le ideedi Barragán nell’architettura recentemente realizzata in Mes-sico e nella regione sud-occidentale degli Stati Uniti? Nono-stante il rifiuto che Barragán oppose ai dettami modernisti,gran parte dell’architettura in Messico e nel Sud-ovest statu-nitense deve alla tradizione da lui inaugurata almeno tantoquanto deve al modernismo e alle particolari situazioni cli-matiche e culturali. Anzi, uno dei punti di forza delle operemigliori portate a compimento in quest’area è la disponibilitàdimostrata dagli architetti, che hanno adattato il proprio lin-guaggio formale alle caratteristiche peculiari della località. Lepianure del Texas occidentale, ad esempio, sono assolate e ari-de: date le variazioni estreme che subisce la temperatura du-rante il giorno, si rende necessaria un’architettura che privile-gi la ventilazione incrociata e il raffreddamento per evapora-zione. Tipici di questa regione sono poi i granai di metalloondulato galvanizzato, che si fondono con un paesaggio piat-to apparentemente sconfinato, perennemente avvolto dalla fo-schia. La sede delle Holt Companies alle porte della città texa-na di San Antonio, progettata dallo studio Lake/Flato(1995), prevede un rivestimento esterno di metallo ondulatogalvanizzato proprio in omaggio a quei granai; ma gli inter-ni severi rimandano ai padiglioni delle Fiere mondiali in pie-no periodo modernista.
A Houston si costruivano case in metallo molto tempo pri-ma che Frank Gehry rivestisse di metallo galvanizzato la pro-pria abitazione privata di Santa Monica (1978). Già nel 1972Eugene Aubrey aveva adattato i rivestimenti in metallo dei vi-cini stabilimenti industriali ad abitazioni private nella zonadel West End; più recentemente, architetti come CameronArmstrong, Rob Civitello e Natalye Appel hanno introdot-to importanti modifiche a questo genere di costruzione, dal-
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A parte l’evidente richiamo che esercita, l’architettura diLuis Barragán è arrivata in un momento propizio nella sto-ria dell’architettura, destando attenzione a livello interna-zionale proprio quando più vistosa e sfacciata era l’influen-za del movimento postmoderno. La sua cromaticità elegan-te e le sue forme limpide offrivano un’alternativa allettantesia al postmodernismo, sia al Movimento moderno, che,quale espressione dell’avanzata costante del capitalismo, eraper Barragán altrettanto inaccettabile del funzionalismo edell’internazionalismo che imponeva. L’accento posto sul-le particolarità del luogo, della geografia e della natura e ilcoinvolgimento di tutti i sensi, non solo dell’occhio, costituìdunque una risposta al modernismo internazionale e al suocarattere, considerato da molti eccessivamente cerebrale e po-vero di connotazioni locali. Anche tramite l’attenta elabo-razione di una mistica poetica, Barragán ha esercitato sullegenerazioni di architetti più giovani un’influenza in largamisura formale, cioè proprio nell’ambito in cui la sua ar-chitettura era più riuscita (e paradossalmente molto simileall’architettura del Movimento moderno cui si opponevacon tanta inflessibilità).
Negli Stati del Sud-ovest il clima è grosso modo lo stessoche nel Messico settentrionale: caldo durante la maggior par-te dell’anno e umido lungo la costa del Golfo o secco nel Texasoccidentale, in zone del New Mexico e in Arizona; alpino nelresto della regione. La leggendaria avversione di Barragán perle sconfinate pareti di vetro del modernismo internazionaleera anche avversione per un modo di costruire che mostravaun’indifferenza totale verso il clima. I muri chiari e spessi e lepiccole finestre accortamente sistemate dei pueblo di NewMexico e Arizona erano una risposta collaudata alle condi-zioni particolari che comporta il costruire nel deserto, raffor-zata da Barragán con l’aggiunta di vasche e rigogliosi giardi-ni interni. La sua abitazione privata, così tanto pubblicata, fu
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zione per l’arte (1995), gli architetti hanno invece attinto di-rettamente alla scansione ritmica di toni barraganiani e bloc-chi dai colori audaci, tipici dell’Aldo Rossi prima maniera.Il ripristino curato da Longoria/Peter della rinomata chiesa escuola del Blessed Sacrament in una zona povera di Houstonmira alla conservazione dell’edificio secolare, ma aggiungeaule nuove e nuovi spazi collettivi, resi necessari dal forte in-cremento demografico della comunità ispanica. Benché in unprimo tempo il sacerdote cui era affidata volesse far demolirela costruzione firmata da Green e Briscoe, gli architetti han-no sottolineato l’opportunità di conservarla, per integrarla poinel nuovo complesso senza tramutare la facciata romanico-texana in un esempio di kitsch postmoderno. La leggera co-pertura a shed è progettata in modo tale da incanalare le fre-quenti brezze estive per mantenere fresco il complesso senzadover ricorrere all’aria condizionata. Come i pozzi di venti-lazione delle case di metallo di Houston, il tetto dà anche om-bra ai nuovi ambienti e rende praticabili tutto l’anno un piùalto numero di spazi esterni.
In un altro contesto climatico, quello della città di Santa Fenel New Mexico, l’architetto William F. Stern di Houstonha adattato l’architettura dei pueblo della stessa Santa Fe e delvicino Taos alla costruzione di una casa da realizzare sulla ci-ma di un erto pendio di montagna per sfruttare al meglio lospettacolare panorama che da lì si gode. Per affrontare questoclima alpino - fatto di giornate calde e secche e notti fresched’estate e, d’inverno, di mesi freddi e ventosi - Stern ha uti-lizzato le finestrelle e i muri spessi dei pueblo per rendere co-moda la dimora tutto l’anno, irrigando i padiglioni del giar-dino tramite cisterne che raccolgono l’acqua piovana e crean-do corti riparate e aree per cucinare all’aperto come se ne tro-vano appunto presso i pueblo dei dintorni.
Fra tutti, l’architetto che più si è ispirato a Barragán per for-me e colori è Ricardo Legorreta. Sin dai suoi primissimi pro-
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la quale è nata una nuova tipologia edilizia. In un clima do-ve tutto si tramuta in muffa nel giro di una notte, giova un ri-vestimento esterno come il galvalume (acciaio anti-ruggine zin-cato e alluminio), che non arrugginisce, resiste alle termiti enon necessita mai di tinteggiatura. Come nella sua abitazio-ne privata del West End (1993), Armstrong ha curato l’effi-cienza energetica delle sue case inserendo fra parete interna erivestimento metallico una sottile intercapedine che funge dacondizionatore d’aria e rinfresca l’abitazione di giorno, anchequando il metallo esterno è incandescente. In un ambiente piùridotto, la vicina casa Balinskas progettata da Natalye Appel(1992) unisce il metallo galvanizzato a un altro materiale eco-nomico molto usato nella zona, il calcestruzzo a blocchetti.L’efficienza termica di questo sistema di costruzione e la suacomprovata durevolezza, malgrado il difficile clima di Hou-ston, hanno reso queste robuste abitazioni rivestite di metallouno dei tipi edilizi più apprezzati della città, tanto che se necontano oltre un centinaio dislocate in vari quartieri e altre an-cora in fase di progettazione.
Per la realizzazione di casa Lasater, situata alle porte dellacittà texana di Fort Worth (1995), lo studio Lake/Flato hadovuto tener conto del clima affatto diverso delle praterie delSud, caratterizzate da estati umide e ventose e, in primavera ein autunno, da notevoli variazioni della temperatura diurna.L’abitazione si articola in padiglioni a un piano disposti in-torno a una serie di corti orientate in maniera tale da cattura-re le brezze frequenti; i padiglioni con muri di pietra che ospi-tano le stanze da letto sono incassati nel sito in pendenza persfruttare il potenziale di raffreddamento del terreno. Completal’accorta integrazione di un’architettura in un ambiente na-turale aspro una scelta di piante e alberi ombriferi autoctoni,resistenti alla siccità.
Per la ristrutturazione di una sala d’esposizione di automo-bili nel centro di San Antonio commissionata da una fonda-
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re i colori e la flora del deserto, creando al contempo una for-te presenza urbana. Gli edifici del Sud-ovest statunitense pro-gettati da Predock oppongono una robusta difesa al sole in-clemente con muri spessi rivestiti di pietra, interrotti da sotti-lissime schegge luminose provenienti dai lucernari, che offro-no meravigliose e variegate esperienze di luce. Predock inca-tena tra loro spazi con caratteri, risonanza, altezza, profonditàe dimensione differenti; dalle sezioni traspare il suo interessealtrettanto vivo per un’architettura che coinvolge tutto il cor-po, tutti i sensi. Quel che rende imprevedibile e avvincente isuoi lavori è la volontà di avvicinarsi pericolosamente e, a vol-te, di sconfinare nel kitsch attraverso l’uso di forme archetipi-che quali la piramide a gradini (Nelson Fine Arts), il tepee(Wyoming) o il drive in (EuroDisney). A differenza di Le-gorreta degli ultimi tempi, Predock non perde mai il controllodella situazione: parte dell’emozione nasce proprio dal viverepericolosamente.
L’architettura di Carlos Jiménez è quella anche più com-piutamente incarna la sensibilità estetica delle opere miglioridi Barragán e che meno le assomiglia dal punto di vista for-male. Il caldo intenso e l’umidità corrosiva di Houston, uni-ta a stretti limiti di budget, hanno portato Jiménez a far usodi strategie e materiali diversi. Benché il suo palazzo per uffi-ci e la scuola per il Museum of Fine Arts di Houston (1994)e lo Spencer Art Building in Massachusetts (1996) siano diuna chiarezza e di una raffinatezza rare, negli ultimi sedicianni Jiménez ha messo in pratica le proprie idee soprattuttoin una serie di progetti per abitazioni private, a cominciare daquello per la ristrutturazione e l’ampliamento della propriacasa e studio (1983). Le case Saito, Lott e Chadwick a Hou-ston rivelano tutte l’ispirazione complessa che l’architetto hatratto dal modernismo, da Barragán, dal natio Costa Rica e,fattore forse più importante di tutti, dalle particolarità del cli-ma e delle tradizioni architettoniche di Houston.
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getti, ad esempio quelli del suo studio privato e del CaminoReal Hotel di Città del Messico, le superfici intonacate conbrillanti colori rossi, arancioni e gialli - che incorniciavanospesso vasche d’acqua immota - rivelano il suo debito con Bar-ragán. Ma per una serie di alberghi in luoghi di villeggiaturaquali Cancún e Cabo San Lucas, Legorreta ha attinto ispi-razione da varie altre fonti. Tra i suoi lavori più riusciti figurail Camino Real Hotel di Ixtapa, dove le schiere sfalsate di stan-ze e piscine si inseriscono ingegnosamente nel fianco aspro del-la collina. I colori accesi e le ampie pareti intonacate sono duedelle costanti che contraddistinguono l’opera dell’architetto,orchestrate con sicurezza e con esito felice sopratutto nel pro-getto per la IBM di Solana vicino ad Arlington, nel Texas(1991). Legorreta, tuttavia, non ha considerato un problemail passato coloniale messicano, né ha lottato con le molteespressioni vernacolari messicane: il palazzo di uffici di Mon-terrey (1995) e la Biblioteca civica di San Antonio (1995) so-no due modeste e tranquille variazioni realizzate con bravurasu un tema interessante, ma decisamente allineato. In alcuniprogetti più recenti eseguiti in patria e nella cattedrale di Ma-nagua in Nicaragua, egli ha introdotto forme radicalmente di-verse: ma anziché complicare e arricchire l’architettura, pare-ti, spalle, linea del tetto, tessitura e colori sorprendentementeincompatibili finiscono per trasformarsi in un miscuglio ine-legante e, in ultima analisi, nient’affatto convincente.
Fin dai primi esperimenti con la costruzione in adobe ad Al-buquerque, nel New Mexico, l’architettura di Antoine Pre-dock si è contraddistinta per la particolare sensibilità alle sto-rie e alle geografie locali. Nel caso della Mesa Public Library(Los Alamos, New Mexico), tale atteggiamento ha com-portato l’integrazione dell’edificio nel terreno ondulato, pun-teggiato tuttavia da una verticale netta che imita la topografiacircostante; in altri casi, vedi quello del Nelson Fine ArtsComplex a Scottsdale (Arizona), ciò ha significato prende-
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fondi limitati - per non dire povertà - e poesia possono be-nissimo coesistere.
In tutto il primo e il secondo dopoguerra, il mondo dell’ar-chitettura dovette cimentarsi con gli imperativi del moderni-smo e Barragán fu uno dei tanti architetti e artisti che rifiuta-rono in parte o del tutto il Movimento moderno, soprattuttoper ragioni analoghe a quelle sopra esposte. Il rifugiarsi in unacontemplazione silenziosa, l’euforia tattile e la creazione diun’aura, di un mito riguardante se stesso in quanto artista e inquanto uomo non erano le uniche risposte possibili agli aspet-ti evidentemente problematici del modernismo e altri artistitrovarono un modo più proficuo di affrontarlo. Un paralleloilluminante della posizione assunta da Barragán è quello cheoffre il poeta spagnolo Federico García Lorca.
Come Barragán, anche quest’ultimo apparteneva a una fa-miglia ricca e d’alta posizione sociale e durante la giovinezzaanch’egli ebbe a che fare con il fermento delle tensioni politi-che e della rivoluzione. Nonostante i suoi stretti legami congli artisti più d’avanguardia del modernismo castigliano, lapoesia e il teatro di García Lorca nacquero nel crogiolo delmodernismo, ma gran parte della loro forza derivava dalla par-tecipazione profonda che legava l’artista alle tradizioni del suopaese, specie alla poesia e alla musica popolare. E quel cheGarcía Lorca celebrava non era la fuga dal mondo, ma il coin-volgimento: l’abbagliante energia e la ricchezza della sua poe-sia devono molto alla sua voluttuosa passione, alla sua impla-cabile sete di vita. Il grande talento di García Lorca, com’èanche nel caso di Aldo Rossi, risiedeva nel non aver mai per-so lo stupore quasi infantile di fronte al mondo, una giocositàespressa da García Lorca nelle sue poesie e da Rossi nei suoidisegni che, per quanto autentica, mascherava spesso un’inti-ma e diffusa malinconia. Nello stesso tempo García Lorca eraimpegnato in politica, anche se non quanto David Alfaro Si-queiros, bravissimo pittore messicano di murales, contempo-
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Jiménez ama palesemente cimentarsi con budget ridotti al-l’osso, facendo affidamento sulla propria ingegnosità per ti-rar fuori poesie di luce, spazio, tettonica e forma anche dai ma-teriali più umili. Insieme ai volumi limpidi e alle occasionalimacchie di colore brillante, mattoni, blocchetti di calcestruz-zo, metallo e cemento lucidato entrano così a far parte di unlinguaggio ingannevolmente semplice che, in ultima analisi,è assolutamente originale.
Di tutta la robusta architettura resistente alle condizionimeteorologiche che si ispira ai modi del Sud-ovest, l’esem-pio forse più interessante è quello offerto dalle case in adobedi Simone Swan, situate lungo le rive messicana e texana delRio Grande. Pur essendo discendenti dirette dei locali edi-fici in adobe, queste abitazioni sono anche strettamente lega-te all’opera di tutta una vita realizzata da Hassan Fathy permettere a disposizione dei meno abbienti alloggi economicie sostenibili, calibrati sulle condizioni climatiche del sito.Simone Swan, fondatore e direttore della Menil Foundation,progettista con Eugene Aubrey della prima casa di metallodi Houston (1972) e con Charles Moore di un’abitazioneprivata a Long Island (1975), lavorò al fianco di Fathy dal-la metà degli anni settanta fino alla sua scomparsa, nel 1990.Guida il progetto in adobe di Swan un’attenzione al paesag-gio geografico e culturale, ai materiali rinnovabili, all’effi-cienza energetica e, non ultimo, al contenimento della spe-sa: ad esempio, la casa in adobe di Ojinaga, a Chihuahua(Messico) è costata solo 118 dollari al metro quadrato, peruna spesa totale di circa 6.000 dollari, mentre i salari più al-ti fissati in Texas hanno portato il costo di un’abitazione dicirca 183 metri quadrati a poco più di 404 dollari al metroquadrato, per una somma complessiva di 74.000 dollari.Qui, forse più che in qualunque altro progetto, preoccupa-zioni di ordine ecologico, estetico e politico trovano una per-fetta fusione. Swan e Jiménez in particolare dimostrano che
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Lo spazio dell’identità nel Pueblo di Los Angeles
Nella sua discussione sulla memoria storica e sulla me-moria individuale in Civilization and its Discontents Sig-
mund Freud scriveva che «della memoria non si perde nien-te, tutto si può recuperare al momento giusto»1. Per Freud lamemoria era simile a una città antichissima, come Roma, do-ve solo pochi frammenti d’una lunghissima e ricca storia ar-chitettonica erano sopravissuti ai maltrattamenti del tempo edelle persone. «Immaginate - scriveva Freud - una situazio-ne in cui un semplice cambio di direzione ci consenta di ve-dere un diverso momento storico della città, una situazionein cui tutto, la storia d’oggi e quella di ieri, sia presente e re-cuperabile, come avviene nella memoria». Una tale prospet-tiva - aggiunse in un secondo tempo - «appare impossibile,dal momento che uno stesso spazio non può avere due con-tenuti diversi». Per chi lavora nel campo della conservazionee per chi scrive saggi di storia di architettura, quest’osserva-zione indica l’aporia principale di qualunque progetto diconservazione (oltre a sollevare tante altre domande): comesi sceglie tra ciò che rimane e ciò che si può distruggere? Qua-lunque scelta di conservazione tenta di fermare il tempo d’unedificio o di un’opera d’arte in un solo momento d’una sto-ria molto più complessa e ricca, selezionando e definendo,per tutti i tempi, uno e un solo significato. Mentre possiamoriconoscere la verità dell’osservazione di Freud, in questa di-scussione su Los Angeles voglio mostrare come i progetti diconservazione siano finalizzati a cancellare e travisare le sto-
Questo saggio è apparso originariamente in ???????????????????????
1 EMILY ELIZABETH DICKINSON, «Springfield Daily Republican», 1° marzo1862; Emily Dickinson. Tutte le poesie, a cura di Marisa Bulgheroni, Milano 1997.2 LUIS BARRAGÁN, Conceptos, p. 17; citato in LUIS E. CARRANZA, The Poe-try of Silence: Reification and Reflection in the Work of Luis Barragan, relazione ine-dita, 1998.
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raneo di Barragán, che guidò il primo, infruttuoso attentato aLev Trotzkij e che per la sua attività politica fu più volte ar-restato e lasciato a languire per lunghi periodi nelle carcerimessicane.
García Lorca, antifascista generoso, sfidò le convenzioni amolti livelli, in particolar modo nella politica sessuale nei ri-guardi di donne e omosessuali. A paragone del suo impegnopoetico e personale, per quanto eccentrico fosse, la decisionedi Barragán (simpatizzante fascista in gioventù e convinto spi-rito elitista per tutta la vita) di coltivare una serena autonomialontano dagli squallidi sobborghi e dalla quotidiana lotta perla sopravvivenza in cui si dibatte la maggioranza dei messi-cani, può esser vista solo come un privilegio borghese, perquanto splendida sia l’architettura da lui realizzata. A dire ilvero, la mistica abilmente congegnata del poeta contemplati-vo non fu l’unica posizione politica assunta da Barragán, ilquale sembra se ne sia servito anche per mascherare l’astutoricorso alla propria posizione sociale e artistica in una fittaopera di mecenatismo a favore di giovani architetti scelti, piùo meno come Philip Johnson ha fatto ad arte negli Stati Uni-ti e come a suo tempo fece in Italia Marcello Piacentini.
Forse la differenza più notevole fra l’arte di Barragán e l’ar-te di García Lorca - differenza che rende quest’ultima moltopiù coinvolgente - è l’assenza di passione nel primo, chiuso alsicuro nella sua stanza d’alabastro, e l’abbondanza di passio-ne e coinvolgimento nel secondo.
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periodo che i proprietari dei grandi ranchos, i dons messicani,arricchitisi attraverso il commercio della carne venduta ai mi-natori, iniziarono a investire denaro nei propri possedimenti,ma anche e soprattutto nella costruzione di nuovi edifici, co-me il Pico Hotel del 1869.
Ma la nuova ricchezza aveva un rovescio della medaglia:con i minatori venivano i giocatori, i banditi e le prostitute, econ questi, le risse, i disordini e le rapine. Gli yankees, trovan-do la zona del Pueblo meno attraente per le loro famiglie, co-minciarono a spostare il centro della città verso sud, lascian-do il nucleo antico a gruppi sempre più marginali, ai messi-cani, agli indigeni e ai negros giunti in California dopo la guer-ra civile. Con il passare degli anni, abbandonato dagli yankeese dai ceti più benestanti, il vecchio centro di Los Angeles eradestinato a spopolarsi e a diventare sempre più marginale ri-spetto al resto della città4.
Detto questo, vorrei aggiungere che talvolta lo spazio dellamarginalità finisce per essere uno spazio più libero; privo del-la densità e della pressione che contraddistinguono il centro,il margine diventa uno spazio più aperto di quanto non sia ilcentro5. Oltre a essere il nuovo bacino di raccolta della mino-ranza messicana, e quindi un luogo ai margini della vita siageografica sia sociale di Los Angeles, El Pueblo era destina-to a diventare presto la meta di altri due gruppi numerosi, gliitaliani e i cinesi, anch’essi minoranze marginali rispetto allavita della Los Angeles anglosassone. I primi iniziarono ad ar-rivare intorno al 1820 e a costruire alberghi, negozi e abita-zioni come la Casa Pelanconi (1855), o a trasformare le co-struzioni esistenti, come nel caso del vecchio adobe della fami-glia Avila (1818) da cui sorse l’Hotel Unità d’Italia. Nel 1907la minoranza italiana diede vita all’Italian Hall, dove una sa-la per riunioni trovava posto al di sopra di un negozio d’ali-mentari. Sin dall’inizio e fino a tutto il 1930, il centro italia-no di Los Angeles si trovava proprio nelle vicinanze del Pue-
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rie, costruendo nuove storie nella città e intrecciandole ai con-flitti sullo spazio e sull’identità.
Los Angeles nasce nel lontano 1781, in un luogo di cui an-cor oggi si sa poco o niente: le piene del Los Angeles Riverdistrussero il piccolo insediamento originario costringendo lapopolazione a ricostruire il paese in luoghi più sicuri per bendue volte nel giro di quarant’anni. Il luogo che oggi è ricono-scibile come il vecchio centro di Los Angeles è il terzo di que-sti insediamenti.
I cosiddetti pobladores, i coloni inviati dalla Spagna nellaCalifornia del Sud, erano un gruppo misto i cui membri ve-nivano definiti attraverso il sistema messicano delle caste - me-stizo, negro, mulatto, indio e spagnolo. In questa regione es-si si scontrarono con le pacifiche tribù indigene dei Gabrieli-nos, con cui, malgrado la violenza della prima colonizzazio-ne, vissero a lungo e contrassero anche numerosi matrimoni2.
Sin dall’inizio, quindi, la futura città di Los Angeles, cheallora si chiamava El Pueblo, era abitata da gruppi di razzediverse, un ricco melting pot destinato ad arricchirsi ulterior-mente nel corso dell’Ottocento, dopo la separazione dallaSpagna nel 1822, quando la California divenne una provin-cia indipendente del Messico3. A partire dal 1820, la città fumeta di nuovi flussi migratori provenienti dall’Europa e da-gli Stati Uniti, che tuttavia si mantennero abbastanza mode-sti fino agli anni quaranta dell’Ottocento.
Dopo la guerra tra il Messico e gli Stati Uniti, e la conse-guente cessione della California a questi ultimi, nel 1849, eb-be inizio la cosiddetta Gold Rush (corsa all’oro), seguita dauna fortissima ondata migratoria. Fu allora che, sotto la pres-sione di questi nuovi immigrati, El Pueblo cominciò a cam-biare volto, raddoppiando in breve tempo la sua popolazio-ne, che nel 1830 era di soli 770 residenti. Fu ancora in questo
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sa manutenzione. Visto dalla Los Angeles borghese e bene-stante come luogo di raccolta di criminalità e degrado, ElPueblo dovette affrontare il dramma della demolizione nelmomento in cui i residenti di Los Angeles approvarono lacostruzione d’una nuova stazione centrale finanziata da di-verse compagnie ferroviarie private dell’Ovest. Fu allora chel’intervento d’una donna innamorata della vita dei Califor-nios e di cose messicane arrestò il declino di questa parte diLos Angeles e diede inizio a una trasformazione del Puebloin mercato messicano. Al suo arrivo nella California delSud, Christine Sterling portava con sé immagini di un luo-go rimasto fermo ai tempi dei ranchos: le case bianche costruitein adobe, abbellite da fiori, ritagliate sullo sfondo di prati e dicieli blu. La città che trovò era invece un moderno centro ur-bano senz’alcuna traccia visibile del passato. Visitando ElPueblo nel 1926, Sterling ebbe una specie di choc e, lì per lì,decise d’intraprendere una trasformazione che avrebbe fattorivivere il passato di quel luogo: non potendo realizzare intutta Los Angeles l’immagine ideale di città che aveva inmente, decise di concentrarsi su El Pueblo7. A quel puntotrovò l’appoggio dell’editore Harry Chandler, proprietariodel «Los Angeles Times», desideroso di spostare la nuovastazione verso est, sul terreno occupato dai cinesi - l’attualeChinatown8. A muovere Chandler non erano particolarisentimenti nostalgici nei confronti di El Pueblo, ma motiviben più pragmatici: proprietario di numerosi lotti nei pressidel nucleo antico di Los Angeles, Chandler pensava che illoro valore sarebbe aumentato grazie alla presenza della nuo-va stazione. Ma l’evento che decise definitivamente il destinodel Pueblo aveva a che fare con ragioni ben più concrete: iterreni di Chinatown costavano molto meno di quelli delPueblo. La storia è più complicata se si scende nei dettagli.Sterling formò una società per gestire El Pueblo, e inventòun sistema perché questa potesse autofinanziarsi. Il primo
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blo. Contemporaneamente, i cinesi, sin dalla seconda metàdell’Ottocento impegnati nella costruzione della rete ferro-viaria, scelsero come proprio luogo d’elezione la Californiadel Sud e in particolare il Pueblo, avviando piccole attivitàcommerciali ovunque, inclusi gli opium dens e le case da gio-co. Fino agli anni cinquanta del Novecento gli imprenditoricinesi occupavano il vecchio Lugo Adobe (circa 1838) e men-tre gli italiani s’insediarono nel settore occidentale del Pueblo,i cinesi si concentrarono nella zona orientale, che da allora inpoi prese il nome di Chinatown.
La nuova ondata migratoria di messicani non è da confon-dere con quella dei ricchi rancheros giunti a Los Angeles nelcorso dell’Ottocento: essa includeva gruppi sociali più pove-ri, costituiti da operai e agricoltori. I messicani della classe deidons, e i loro rancheros, che avevano dominato Los Angeles dal1821 fino agli anni sessanta dell’Ottocento, verso la fine delsecolo erano ridotti a una percentuale molto bassa della po-polazione. Con la crescita della città e il conseguente aumen-to della domanda di manodopera, arrivarono nuove ondated’immigrazione messicana attratte dal lavoro agricolo e dal-l’industria leggera. I nuovi immigrati continuarono a con-centrarsi nelle vicinanze del Pueblo, occupando la zona nord-orientale. I tre gruppi d’immigrati non vivevano sempre in ar-monia tra loro; in particolare erano diffusi forti sentimenti an-ti-cinesi, alimentati anche dal razzismo degli anglosassoni, gliyankees. L’incidente più grave ebbe luogo nel 1871 in una fab-brica di legname, quando un gruppo di anglosassoni, a se-guito della morte di un bianco, sterminò quasi due dozzinedi cinesi6.
Nei primi tre decenni del nuovo secolo la città si sviluppòenormemente verso sud, prendendo le sembianze d’una me-tropoli. Nel frattempo, la decadenza di El Pueblo continua-va incessante, e molte delle case costruite in adobe collassava-no, mentre gli edifici in legno e mattoni risentivano della scar-
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Oltre ai cavalli, ai sombreros, alle trine, ai balli e alle serena-te, quella di Sterling era la visione di una società in cui la gen-te che contava non lavorava, e chi lavorava non contava. Nel-la sua idea del Pueblo non c’era spazio per una vita politica,non esistevano conflitti. Nella sua visione di lusso aristocrati-co e pax española, Sterling ignorava gli indigeni che lavorava-no per i ricchi indolenti, ignorava la storia dei colpi di stato edelle lotte armate che avevano caratterizzato quasi senza in-terruzione l’epoca dei dons.
La sua nostalgia per una storia perduta le consentì di can-cellare, come servendosi di un laser, la polvere e la sporciziadei vecchi edifici fino a figurarsi un passato ideale, scevro dicontraddizioni e di conflitti. In questa sua ricostruzione idea-le del Pueblo Sterling era consapevole dei privilegi sociali dicui godeva Pio Pico, l’ultimo dei dons, ma non del colore del-la pelle e della sua fisionomia, ereditate dalla sua nonna afri-cana. La sua immaginazione le impediva di vedere anche tut-ti gli altri gruppi etnici che popolavano El Pueblo, e la storiacosì come vi si era svolta realmente dopo l’abbandono deibianchi.
LA PAGEANTRY E LA VITA POLITICA DEL PUEBLO
All’inizio del Novecento, nuove ondate d’immigrati prove-nienti dal Messico e dall’Europa del sud, in particolare ita-liani, giunsero nel Pueblo. Intanto Los Angeles risentiva de-gli effetti della rivoluzione messicana del 1910-1917. E cosìmentre gli yankees, che avevano abbandonato il nucleo più an-tico di Los Angeles, si erano trasferiti verso sud, El Pueblodivenne ben presto la destinazione preferita di gruppi di anar-chici, comunisti, socialisti, wobblies (o IWW, InternationalWorkers of the World), tongs [società segrete di cinesi ameri-cani, n.d.t.], oltre a cinesi, italiani e messicani. Questi gruppiavevano trovato accoglienza presso la popolazione residentenegli edifici del Pueblo e nei suoi dintorni. Da quel momen-
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passo, nel 1929, fu il restauro dell’Avila Adobe (costruito nel1818), la pietra miliare del progetto che Sterling aveva im-maginato per El Pueblo, cioè la costruzione di un mercatomessicano provvisto di ristoranti, negozi e itinerari storici,che si sarebbe animato tutto l’anno secondo un calendario difeste tradizionali messicane.
È importante ricordare che quando Sterling diede inizio alsuo progetto, il movimento per la conservazione era appenaai suoi inizi negli Stati Uniti, e non esistevano criteri che neguidassero l’operato. Infatti, se nulla è dato sapere dei criteria cui s’ispirava, ancor più scarse sono le notizie su quanto siadavvero sopravvissuto del vecchio Avila Adobe, e degli altriedifici del vecchio Pueblo. Di certo, se non fosse stato per lei,questi ultimi probabilmente sarebbero tutti spariti. Ma l’en-tusiastico impegno di Sterling per la conservazione del Pue-blo non brillava certamente per sistematicità. A lei non inte-ressava la correttezza e l’attendibilità del restauro storico, dalmomento che ad animare il suo impegno era un’idea del tut-to personale della storia. La sua era una visione nostalgica delvecchio Pueblo arrestatasi ai tempi dei dons e dei rancheros, unPueblo popolato da uomini attraenti vestiti con abiti di lus-so, decorati di borchie d’argento e da señoritas avvolte in splen-dide mantillas che abitavano in grandi e magnifiche adobes. Co-sì, quasi in preda a un’estasi costante, nelle pagine del suo dia-rio Sterling scriveva:
La vita a Los Angeles prima degli statunitensi era un’esistenzaquasi ideale. La gente viveva in nome dell’amore, era tollerante,gentile, felice. Il denaro, abbondante, era usato unicamente per soddisfare le esi-genze di prima necessità. Gli uomini accudivano cavalli stupen-di. Le donne erano come fiori di seta e merletto. Di giorno si fa-cevano scampagnate sulle colline, la notte si ballava e s’intonava-no serenate, tutto era permeato di un’atmosfera fantastica, ovun-que regnava un senso di felicità autentica9.
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trollo di questa parte di città secondo una strategia completa-mente nuova. A chi vedeva di buon occhio il progetto di co-struire una stazione ferroviaria centrale come possibile volanodi sviluppo commerciale e industriale, l’idea che chi arrivavaa Los Angeles in treno si sarebbe trovato di fronte a manife-stazioni anarchiche, comuniste o sindacaliste, era inaccetta-bile. Il progetto di Sterling di trasformare El Pueblo in un cen-tro turistico, benché frutto delle sue immagini nostalgiche diun passato mai esistito, coincideva comunque con la neces-sità civica di trasformare lo spazio politicizzato del Pueblo, dineutralizzarlo con l’arrivo d’una massa di turisti che avrebbediluito, fino a farla scomparire, la presenza degli eventuali agi-tatori politici.
I messicani qui non sarebbero stati più i braccianti, mal sop-portati dagli Angelinos, ma negozianti vestiti come in una rap-presentazione in costume, interessati a mantenere l’ordine emeno propensi a intonare le canzoni rivoluzionarie tanto ama-te dalla classe operaia. I messicani, cioè, tornarono al Pueblonon come rivoluzionari, ferrovieri in sciopero, o agitatori po-litici, ma come figuranti in un tableau vivant di ristoranti, arti-giani e mercanti di kitsch, tutti sotto il controllo di Sterling edell’oligarchia di Los Angeles.
Questi meccanismi di controllo da parte delle élites del ca-pitale ormai sono ben noti. Il commercio e il marketing, in-sieme con la messa in scena di uno «spettacolo permanente»,fanno sì che l’energia della massa sia indirizzata al consumi-smo; così facendo, si rinforza il controllo dello spazio da par-te dell’autorità, proprio come accade nei centri commerciali enei parchi di divertimenti a tema. Sterling non poteva peròaver presente il modello dei parchi a tema del giorno d’oggi,o di Disneyland. I parenti lontani del suo progetto erano legrandi esposizioni della seconda metà dell’Ottocento e del pri-mo Novecento, dove villaggi africani, casbah marocchine e al-tri luoghi simulati, con tanto di indigeni nei loro vestiti pri-
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to in poi la plaza centrale del quartiere, la placita, era destina-ta a diventare il luogo delle manifestazioni pubbliche, a di-mostrazione della tendenza storica a negare gli spazi formalidel potere capitalistico, e a riaffermarli e ridefinirli come fo-rum di espressione politica popolare10. Questa situazione duròper un certo periodo.
Significativamente, nel 1910, il Consiglio comunale di LosAngeles approvò una legge che vietava la possibilità di par-lare in pubblico (in particolare, di argomenti politici) tranneche in un luogo: la plaza del Pueblo. L’intenzione era quelladi combattere l’azione di protesta radicale dei sindacalisti, inparticolare gli IWW (o wobblies), ma anche quella di limitarel’espressione politica a un luogo solo, più facile da controlla-re. Emarginata dai centri politici ed economici del potere siaspazialmente che socialmente, la placita era destinata a diven-tare il centro di resistenza politica della classe operaia, in granparte costituita da immigrati. Proprio qui, durante la rivolu-zione, i fratelli Magon fondarono la sede centrale del PartidoLiberal Mexicano, anche grazie all’aiuto di Emma Gold-man, intervenuta pubblicamente in loro difesa quando le au-torità statunitensi, desiderose di compiacere il governo messi-cano, avevano deciso di tenerli in stato di arresto fino alla fi-ne della guerra.
La fine della Rivoluzione non cancellò il ruolo politico delPueblo: negli anni venti e trenta il partito comunista, gli IWW,e il TUUL (Trade Union Unity League) continuarono a or-ganizzare manifestazioni e riunioni pubbliche nella placita.Con l’arrivo della grande depressione, la presenza di questeazioni radicali di protesta venne sempre meno tollerata dalleforze dell’ordine della città11.
Mentre in passato questi gruppi avevano riconquistato ElPueblo come spazio pubblico e politico nel momento stessoin cui questo veniva abbandonato dai bianchi, ora era pro-prio la comunità bianca di Los Angeles a rivendicare il con-
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pri espiatori per la società locale. A partire dal 1931, il go-verno statunitense e le amministrazioni locali espulsero un ter-zo dei messicani americani, molti dei quali erano a tutti gli ef-fetti cittadini degli Stati Uniti, essendo nati in California: fu-rono spediti con la forza in Messico, senza processo e senzaappello. Partirono dalla stazione della ferrovia Southern Pa-cific, proprio nei pressi del Pueblo13.
Durante la seconda guerra mondiale e nel dopoguerra, alPueblo tornò la tranquillità; malgrado la sua creazione pertutt’altri fini, la zona finì con il diventare un centro simboli-co della Los Angeles messicana, con tanto di famiglie che visi riunivano nel fine settimana. Vi si tenevano - e vi si tengo-no tutt’oggi - feste messicane come il Cinco de Mayo (festa del-l’indipendenza del Messico), la festa della benedizione deglianimali, il martedì grasso, e Las Posadas, celebrazione di 9 gior-ni che rievoca il viaggio della sacra famiglia a Betlemme. ElPueblo tornò a essere un centro di attività politica negli annisessanta e settanta, quando il movimento Chicano iniziò aconsiderarlo come un luogo simbolicamente importante, te-nendovi le proprie manifestazioni. A questo punto, in rispo-sta alla crescente tendenza a trattare El Pueblo come il centrosimbolico, e anche fisico, di un movimento integralista mes-sicano, la città di Los Angeles fece marcia indietro. Gli am-ministratori della città iniziarono a considerare la presenzamassiccia e crescente dei messicani come una minaccia al-l’ordine costituito E così, nel 1990, decisero di riportare nelPueblo gli «altri» abitanti storici della zona, gli italiani e i ci-nesi, per diluire l’influenza politica dei messicani attraversol’immissione di altri gruppi. Non sorprende che questa deci-sione abbia suscitato una forte risposta negativa da parte del-la comunità messicana, proprio nel momento in cui, per lasua notevole crescita numerica, essa iniziava a influire sulla vi-ta politica della città14.
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mitivi, avevano incantato milioni di persone, celebrando im-perialismo e colonialismo e rinforzando il dominio dell’Eu-ropa e degli Stati Uniti sui paesi in via di sviluppo12. A dif-ferenza di questi eventi effimeri, il progetto di Sterling si in-sediava per la prima volta in un luogo «originale», ed era de-stinato a essere permanente, non temporaneo.
Perché l’illusione fosse completa, dovevano essere elimina-te tutte le visioni alternative o discordanti. Entro un anno dal-l’apertura della nuova Olvera Street, gli italiani si erano tra-sferiti a nord di Broadway, concentrandosi vicino alla chiesadi San Pietro, e i cinesi in una zona intermedia tra quella ita-liana e El Pueblo. Quando i mercanti cinesi chiesero di re-staurare il vecchio Lugo Adobe, che avevano occupato peroltre cinquant’anni, Sterling si rifiutò: preferiva distruggerel’adobe piuttosto che lasciarlo nelle mani dei cinesi. Non vole-va che nel Pueblo le etnie fossero mescolate.
La convergenza tra l’attività politica e la storia dello spetta-colo folkloristico nel nuovo mercato è stata sia spaziale sia tem-porale. Il complesso, ribattezzato da Stirling «El Paseo de LosAngeles», veniva inaugurato nella Pasqua del 1930, con unospettacolo di balli folkloristici, con la popolazione vestita incostume, e in presenza dell’oligarchia e dei rappresentanti uf-ficiali della città. Appena una settimana dopo, la domenicadel 1° maggio, il partito comunista e l’associazione sindacaleTUUL organizzarono una grande manifestazione proprio nel-la Placita del Pueblo; vi parteciparono più di 10.000 perso-ne, mobilitate contro la disoccupazione e la brutalità della po-lizia (la polizia di Los Angeles era allora ben nota, come lo èstata anche più di recente, per essere violenta; arresti e bruta-lità hanno segnato le tante manifestazioni degli anni trenta, fi-no all’inizio della seconda guerra mondiale).
Durante la grande depressione degli anni trenta, mentre Ol-vera Street continuava a ospitare lo spettacolo di messicanitranquilli e sorridenti, i messicani-americani diventarono ca-
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attivo politicamente di tutti e tre: imprigionato ben sette vol-te, mandato in esilio in Cile, fu un comunista intransigente eun appassionato attivista lungo tutto l’arco della sua vita.S’impegnò con i repubblicani nella Spagna della guerra ci-vile degli anni trenta, e fu a capo del primo tentativo di assas-sinare Lev Trotskij in Messico.
L’artista ricevette la commissione per quest’opera nel 1932dal proprietario di una galleria d’arte contemporanea collo-cata al primo piano dell’Italian Hall. Una parte dell’affrescosarebbe stata visibile dall’Olvera Street, una parte da MainStreet; ma l’intera superficie risultava essere rivolta verso lanuova sede del comune di Los Angeles, in bella vista dell’uf-ficio del sindaco e della sede della polizia. Nel dipingere, Si-quieros lavorò con un gruppo di studenti di Los Angeles, ese-guendo però la parte centrale da solo e in segreto. Il titolo del-l’opera era «America Tropical», e la Sterling di certo s’im-maginava una celebrazione della vegetazione abbondante del-la California del sud, e della vita languida del vecchio Pue-blo. Quando il 9 ottobre 1932 il mural fu presentato al pub-blico, risultò essere tutt’altro. L’immagine mostrava una fore-sta spogliata e morente: sulla sinistra, un serpente, a destra, ri-voluzionari messicani che puntano le loro armi verso l’aqui-la imperialista statunitense, appollaiata sopra un peone indi-geno crocifisso circondato da simboli degli aztechi, e con untempio maya sullo sfondo.
La Sterling rimase sbigottita, e non solo lei: tutta la Los An-geles per bene e i politici ne furono inorriditi. Sterling ordinòche fosse immediatamente imbiancata la parte visibile da Ol-vera Street (quella con i cecchini messicani) e alla fine, nel1938, fece in modo che l’intera opera fosse coperta da una ma-no di bianco. Quando il mural fu riportato alla luce nel 1971,si trovò che i materiali sperimentali di Siquieros non avevanoresistito al tempo; e così l’opera fu coperta da una lamiera, cherimane tuttora. Nel 1988, il nuovo Centro di restauro del
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La politica dell’identità - etnica, femminista, gay o razzia-le - si basa su una teoria che porta i gruppi emarginati a insi-stere per essere riconosciuti; è un modo di resistenza all’op-pressione e ai tentativi di essere ridotti al silenzio e controlla-ti. Non è un caso che proprio quando questi gruppi comin-ciarono a insistere sulla propria identità politica - di fatto,quando l’autorità e l’egemonia maschile bianca fu sfidata - fula politica dell’identità a essere messa sotto accusa. Si è creatoallora un nuovo sistema di controllo, celato sotto l’idea di in-clusività e di verità storica: una narrazione appositamente ri-costruita dalle autorità, quanto lo era in precedenza quella diSterling. Una prova di questo nuovo controllo della storia sitrova nella sconosciuta vicenda di un’opera d’arte realizzatanel Pueblo negli anni trenta.
La storia del Pueblo s’incorpora in maniera irripetibile nel-l’edificio dell’Italian Hall, situata su Main Street, la stradacentrale di Los Angeles, a nord della strada centrale del Pue-blo, Olvera Street, e nel punto dove Sunset Boulevard iniziail suo percorso verso l’oceano Pacifico. Ha un passato comecentro culturale italiano, con un negozio di alimentari al pia-no terreno e uno spazio per riunioni di gruppo al primo pia-no, dove la polizia fece incursioni continue negli anni trenta,bastonando i manifestanti italiani, a volte inseguendoli persi-no sulle scale15. A questa storia complicata si deve aggiunge-re un altro elemento. Sopra l’Italian Hall, al secondo piano,si può oggi osservare un’incongrua aggiunta in lamiera on-dulata, dietro alla quale si nasconde una pittura a fresco, unmural, opera di uno dei grandi muralisti messicani, David Al-faro Siquieros16. Dipinto nel lontano 1932, è stato quasi da su-bito celato al pubblico, eppure è il fulcro di aspri conflitti sul-l’identità, e resta una rappresentazione unica nel Pueblo perla sua ricchezza e profondità storica.
Siqueiros, con José Orozco e Diego Rivera, fu un celebrepittore di pitture politiche a fresco, i murales. Ma lui fu il più
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deva: mettere sotto gli occhi di tutta Los Angeles la realtà de-gli eventi e il modo in cui erano interpretati dai messicani, efar sì che i messicani fossero fieri della propria storia. È un sim-bolo politico, che va visto così come fu dipinto, e non nasco-sto sotto le lamiere e le voci delle autorità, degli specialisti e de-gli storici dell’arte, che vedono soltanto i valori dell’arte defi-niti da loro stessi, e non quelli voluti dagli altri protagonistidella vicenda, artista compreso.
E così torniamo al discorso iniziale, sulla storia, sulle storie,su come vengono raccontate, proposte e soppresse. Ciò di cuiFreud non parlava era il potere e il suo ruolo nella figurazio-ne delle storie: quando disse che lo stesso spazio non può ave-re due contenuti diversi, non teneva conto del ruolo del pote-re nella decisione di eliminare alcune storie, controllando lospazio come controlla la storia, controllando la storia attra-verso lo spazio.
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Getty Center avviò una campagna di ricerche, scoprendo lacomposizione dei colori originali e ricostruendo l’immaginedel dipinto com’era al momento della sua realizzazione; in ac-cordo con le autorità cittadine, fu stabilito che non era possi-bile restaurare l’immagine, ma solo arrestarne il degrado.
In un convegno sul futuro del Pueblo organizzato dal Gettynel 1999, mi è stato chiesto di parlare della storia dell’area.Accettai, ma alla fine ho fatto una proposta: ho suggerito cheforse sarebbe il caso di rifare «America Tropical» con i colo-ri originali, cioè di ridipingere l’immagine esattamente com’e-ra. Ho inoltre suggerito che non spettava né alla città di LosAngeles né al Getty di decidere del futuro del mural, ma piut-tosto ai negozianti del Pueblo, le cui famiglie sono state nelPueblo fin dall’inizio, e più in generale alla comunità messi-cana di Los Angeles. Alla risposta inorridita del Getty e deirappresentanti del comune, che sostenevano che non si puòtoccare il lavoro della mano del maestro, io ho citato Siquie-ros stesso:
Nella mia opinione l’arte della pittura murale non può essere giu-dicata nella scala nazionale o internazionale attraverso i canonidell’arte del quadro portatile, delle tele dipinte, della pittura nel-la sua funzione di piacere personale, perché la nostra arte è un’ar-te pubblica, fatta per la massa, parla un linguaggio diverso, conun stile e una forma tutta sua17.
Come arte politica, dipinta in un momento di grande dif-ficoltà per la comunità messicana, «America Tropical» rap-presentò quella comunità in maniera definitiva, sofferman-dosi sull’influenza negativa degli Stati Uniti sui messicani at-traverso un atto d’accusa verso la politica della colonizzazio-ne europea nell’America del Nord e del Sud e i suoi effetti su-gli indigeni. Così com’è adesso, sbiadito fino quasi all’invi-sibilità, il mural non riesce a fare quello che Siquieros inten-
Questo saggio è apparso originariamente in ???????????????????????1 SIGMUND FREUD, Civilization and its Discontents, trad. James Strachey, NewYork 1963, pp. 17-18 (ed. or. Das Unbehagen in der Kultur, 1929; trad. it. La Ci-viltà e i suoi disagi, Torino 1971).2 WILLIAM W. ROBINSON, Los Angeles From the Days of the Pueblo. A Brief Hi-story and a Guide to the Plaza Area, introduzione di Doyce B. Nunis, Jr., NorthHollywood (Cal.) 1959), pp. 9-13. 3 Fin dalla sua fondazione, a El Pueblo sono stati attribuiti diversi nomi: Fe-lipe de Neve, che su commissione di Carlo III fondò l’insediamento nel 1781,lo chiamò «El Pueblo de la Reina de los Angeles sobre el Rio de la Porciún-cula», ma il frate francescano che lo accompagnava si riferiva ad esso con il no-me di «Nuestra Señora la Reina de Los Angeles de la Porciúncula». Ciò cheoggi viene chiamato El Pueblo si chiama anche Olvera Street, dal nome del-la strada principale allestita da Christine Sterling nel 1930, ma viene anchechiamato la Plaza, o la Placita, in particolare dalla comunità latino-americana.4 RICHARD GRISWOLD DEL CASTILLO, The Los Angeles Barrio, 1850-1890: ASocial History, Berkeley (Cal.) 1979, p. 23. 5 Per un’ulteriore discussione del rapporto margine-centro, si veda BELL
HOOKS, Choosing the Margin as a Space of Radical Openness, in Yearnings: Race,Gender and Cultural Politics, Londra 1989. 6 ROBINSON, Los Angeles cit., pp. 85-88.
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7 CHRISTINE STERLING, Olvera Street. El Pueblo de Nuestra Senora la Reina deLos Angeles. Its History and Restoration, Long Beach (Cal.), s.d., p. 6.8 WILLIAM ESTRADA, The Los Angeles Plaza: Myth, Memory, Symbol and theStruggle for Place in a Changing Metropolis, manoscritto inedito, 1997, p. 5. So-no riconoscente del grande aiuto prestatomi da William Estrada, sia per aver-mi dato il permesso di leggere due capitoli del suo testo, sia per aver discusso alungo con me la storia del Pueblo durante la primavera del 1998. 9 STERLING, Olvera Street cit., p. 7.10 DON PARSON, The Search for a Centre: the Recomposition of Race, Class andSpace in Los Angeles, in «Journal of Urban and Regional Research», 17, 2, giu-gno 1993, p. 238.11 ESTRADA, The Los Angeles Plaza cit., pp. 14-16.12 Dalla vasta bibliografia sulle esposizioni internazionali dell’Ottocento, sivede in particolare ZEYNEP CELIK e LEILA KINNEY, Ethnography and Exhibi-tionism at the Exposition Universelles, in «Assemblage», 13, dicembre 1990, pp.34-59.13 GLORIA E. MIRADA, The Mexican Immigrant Family: Economic and CulturalSurvival in Los Angeles, 1900-1945, in NORMAN M. KLEIN e MARTIN J. SCHIE-SL (a cura di), Twentieth Century Los Angeles: Power, Promotion and Social Con-flict, Claremont (Cal.) 1990, p. 51. 14 DON PARSON, Many Histories: Postmodern Politics in Los Angeles, in «Scien-ce as Culture», 12, 1991, pp. 416-417.15 Intervista a William Estrada, 24 marzo 1998.16 Un paio d’anni dopo la stesura di questo testo una copia dell’affresco, del-le medesime dimensioni dell’originale, è stata collocata di fronte alla parete dilamiera.17 «Tropical America»: The Siqueiros Mural, El Pueblo de Los Angeles HistoricMonument pamphlet, Los Angeles, s.d.
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Disperatamente cercando un centro a downtown Los Angeles
Agli inizi della mia carriera accademica, la rivista di ar-chitettura pubblicata dalla facoltà di architettura della
Yale University, «Perspecta», mi ha chiesto di scrivere un arti-colo sulla critica dell’architettura contemporanea. Il risultato èstato Architecture of Deceit, al cui interno uno dei miei argomentiprincipali affrontava il problema della critica di architettura co-me arte visiva, un’arte destinata ad affermare valori e principiben diversi da quelli dell’industria edilizia e del mercato im-mobiliare1. La strategia dei critici, e quindi anche dei profes-sori universitari e dei professionisti, era indirizzata a isolare l’ar-chitettura in quanto espressione artistica, o come forma dellamoda e della sensibilità, in modo da renderla indipendente dalmercato e dalle convenzioni dell’industria edilizia.
Cosi facendo, professionisti e critici collaboravano fra loronell’evitare alcuni dei problemi più rilevanti della nostra epo-ca: la segregazione e il razzismo, il costo delle case, gli sfratti ei senza tetto, la distruzione dell’ambiente, l’uso delle risorse, losfruttamento della natura, della gente, la distruzione in atto nelTerzo mondo, ecc. L’attenzione diretta a un’architettura con-cepita come arte, moda o sensibilità costituisce un modo diporre al centro dell’attenzione delle questioni innocue anzichéle vere domande sulla gestione del potere di costruzione (e di-struzione) dell’ambiente, su chi lo gestisce, come e in favore dichi. Per essere più precisa, né la moda, né l’arte, né la sensibi-lità influiscono sugli interessi finanziari, e quindi la critica cen-trata su questi argomenti tralascia volutamente gli aspetti im-
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Torniamo indietro di quasi duecento anni, al primo centrodi Los Angeles, El Pueblo, l’insediamento permanente fon-dato nel lontano 1818 da un gruppo misto di messicani, in-digeni, africani. La California diventò meno messicana e piùanglo-americana solo in anni successivi, dopo essere diventa-ta uno stato degli Stati Uniti nel 1849 e dopo essere stata pre-sa d’assalto dagli immigrati durante il Gold Rush (la corsa al-l’oro). Nel giro di pochi anni, il vecchio Pueblo, abitato daun insieme promiscuo di messicani, cinesi e italiani, quartie-re pieno di bordelli, di fumerie d’oppio clandestine, teatro diripetute risse con armi e coltelli - almeno così sosteneva la co-munità statunitense di Los Angeles - , si rivelò assai poco at-traente per gli immigrati anglo-americani con le loro famiglie,che miravano a condizioni di vita borghesi, meno turbolentee più rispettabili.
Il primo atto della politica urbanistica degli anglo-ameri-cani, durante gli anni ottanta del XIX secolo fu perciò lo spo-stamento del centro di Los Angeles verso sud, verso un nuo-vo centro avente per fulcro la Plaza Abaja, già progettata nel1866. Nel 1886, con il proliferare e il prosperare delle fami-glie borghesi che via via si trasferivano nei dintorni, il parcofu riorganizzato e chiamato Central Park.
Purtroppo, il parco veniva frequentato da persone non mol-to gradite dalla comunità circostante; nel 1911 fu quindi ri-disegnato, e nel 1918 gli venne dato il nome di Pershing Squa-re, con la speranza di farlo diventare un vero e proprio centrocittadino. Rimasto sempre un punto di riferimento per indi-vidui scarsamente tollerati dalla Los Angeles per bene - glialcolizzati, i senza tetto, i vagabondi, i disoccupati e, più tar-di, i drogati e i malati di mente cacciati dalle case di cura pervolere del governatore Ronald Reagan -, il parco continuò adestare preoccupazione lungo tutti gli anni trenta e quaranta.I fondi per attuare un cambiamento mancarono fino ai primianni cinquanta, quando nell’area venne costruito un garage
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portanti in favore di argomenti essenzialmente banali, benchéin grado di suscitare molto clamore.
Le mie tesi di 23 anni fa tengono tuttora; questa ricercaprende in considerazione i progetti per lo sviluppo - o meglio,redevelopment - di downtown Los Angeles, e le osservazioniavanzate sul «New York Times» non più dai critici di allora(Ada Louise Huxtable e Paul Goldberger), ma da quelli dioggi, come Nicolai Ouroussoff - la cui critica, peraltro, ri-calca sotto molti aspetti quella dei suoi predecessori. Comin-ciamo dal progetto per la Grand Avenue in downtown LosAngeles, concepito e messo in atto da Eli Broad, presidentedi una delle più grandi società di speculatori immobiliari, co-struttrice di sobborghi - subdivisions - in California e negli Usa,e dalla Related Corporation, la società che sta ora costruen-do a Ground Zero.
I criteri ispiratori di questo progetto sono illustrati moltochiaramente sul sito internet della società2. Qui si sostiene cheLos Angeles finalmente avrà un centro, che comprenderà unnuovo parco centrale, migliori strade e marciapiedi più lar-ghi, nuovi alberghi, negozi, ristoranti, torri residenziali, e in-fine diverse nuove opere di signature architecture - cioè, proget-ti prodotti dalle archistar, simili a quelli già oggi esistenti: ilMOCA (Museum of Contemporary Art) di Arata Isozaki(1983-1987), la cattedrale di Rafael Moneo (2002), la DisneyConcert Hall di Frank Gehry (1988-2003), il Cal Trans diThom Mayne (2004). Grand Avenue - insistono i promoto-ri - si traformerà negli Champs Elysées di Los Angeles; unacittà progettata per vivere 24 ore su 24, un’esplosione di vitaed energia, una mecca per il turismo internazionale.
Ma quanto sono belle queste idee! Per non parlare poi de-gli edifici ultra-moderni e accattivanti che vedete nel plastico!Ma... aspettate… Forse c’è qualcosa che abbiamo già sentitoin passato, qualcosa che risuona ed echeggia altri tempi, altridiscorsi.
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guardo a Grand Avenue. Ma non bastava, c’era ancora mol-to altro da fare. E così, durante gli anni cinquanta gli urbani-sti e gli architetti si sono mossi insieme alla municipalità percompiere vasti progetti di urban renewal, smantellando tutta lamaglia residenziale rimasta nella città per eliminare il degra-do, la criminalità, la sporcizia, in particolare nella zona diBunker Hill, ora riconcepita come nuovo centro, con gratta-cieli e «un cuore pulsante 24 ore su 24». Non che l’area man-casse di vitalità, solo che la gente che la rendeva così viva nonera quella che la Los Angeles per bene desiderava, ma inve-ce messicani, cinesi, vagabondi, alcolizzati, prostitute e altridiseredati. Quindi, largo ai bulldozer per radere al suolo tut-ta la zona, in particolare nei dintorni di Grand Avenue. Ri-sultato? Non un centro rivitalizzato ma un declino ancora piùprecipitoso. Per i successivi sessant’anni i palazzinari e i poli-tici, nonché gli architetti, hanno tentato disperatamente di ri-portare a downtown Los Angeles quella vivacità così decisa-mente eliminata in precedenza, a un costo elevatissimo. Cer-to, anche altri fattori hanno contributo al declino di downtown:il processo di suburbanizzazione iniziato con la costruzionedi Wilshire Boulevard, «Il miglio miracoloso» (The MiracleMile), durante gli anni trenta, la chiusura della rete di tra-sporto pubblico light rail a favore della costruzione di auto-strade sopraelevate promossa dal governo federale, il basso co-sto sia delle automobili sia della benzina, la fuga dei bianchidopo la ribellione dei neri nel quartiere di Watts nel 1965.Benché tutti questi elementi, singolarmente presi, abbianoavuto un ruolo significativo nello spopolamento di Down-town, è solo in unione con l’urban renewal che hanno potutoportare al fatale risultato finale.
Tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta, archi-tetti e politici decisero di favorire la costruzione di grattacielibasati sul modello newyorkese, in modo da attirare l’atten-zione delle grandi multinazionali e infondere così nuova vita
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sotterraneo: è la prima tappa di un rapido e decisivo declinointerrotto solo nel 1989, quando per il parco fu bandito unconcorso di progettazione (nota bene: la quarta grande ri-progettazione in cento anni).
Vincitore del concorso furono l’architetto messicano Ri-cardo Legorreta e il paesaggista Lauri Olin. Il loro parco fuinaugurato nel 1994, senza alcolizzati, vagabondi, senzatettoe altri personaggi marginali ma anche, al tempo stesso, senzale valanghe di turisti e di colletti bianchi previsti con grandeentusiasmo dagli urbanisti e dagli architetti. Oggi il parco ri-mane un costosissimo gioiello vuoto e verde nel centro di LosAngeles. Se pensiamo che uno dei cardini del progetto odier-no per Grand Avenue è un nuovo parco, viene da chiedersise i progettisti si siano mai interrogati sulle vicende di Per-shing Square e sui quattro progetti succedutisi in un arco ditempo così breve.
Los Angeles, dunque, si era spostata verso sud, ma il Pue-blo rimaneva comunque un problema, anche perché tra il1910 e il 1935 era diventato il centro di manifestazioni politi-che di radical-comunisti, disoccupati, rivoluzionari scappatidal Messico, tongs cinesi: diversi progetti furono messi in attoper diminuire il tasso di politicizzazione del quartiere, com-presa la sua trasformazione in un mercato messicano, con iproprietari travestiti da comparse di un grande spettacolo difolklore. E, come se non bastasse, durante gli anni quaranta,la nuova Hollywood Freeway, un’autostrada, venne proget-tata, sembra, proprio in modo da separare il Pueblo dalla LosAngeles «per bene», isolando i messicani, i cinesi, gli italianidella classe operaia che abitavano nei dintorni dell’antico in-sediamento. Questi progetti, insistevano i politici e i finan-ziatori, promettevano di trasformare e ripulire la downtown,rendendola più attraente per i borghesi, i colletti bianchi, iprofessionisti... quasi le stesse parole pronunciate oggi ri-
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ideali del movimento City Beautiful del tardo Ottocento, cioènella costruzione di un centro monumentale di edifici pub-blici aggregati attorno a un grande parco pubblico (il che ciriporta ai vari progetti per Pershing Square...). Ciò ha por-tato alla nascita di una serie di edifici non più ispirati all’ar-chitettura del classicismo ma a quella del Movimento moder-no, come ad esempio il Department of Water and Power diAdam C. Martin (1963-1964), o il Hall of Records di Ri-chard Neutra e Robert Alexander (1961-1962), un progettodavvero da dimenticare. L’idea era che si creasse un gran pra-to in mezzo a questa miscellanea di nuovi edifici, ognuno deiquali disposto al centro di un isolato e circondato da prati piùpiccoli. Evidentemente, si pensò che la presenza dell’erba inun mare di cemento e asfalto avrebbe potuto attirare la folla.Come tutte le idee concepite dall’oligarchia e sopra discusse,anche questa non andò a buon fine. Malgrado il fatto che lacittà goda di un clima mite per quasi tutto l’anno, l’assalto pre-visto della folla ai nuovi prati non si verificò.
La persona che più si era battuta per l’urban renewal duran-te gli anni cinquanta e per la costruzione di questo distretto diedifici pubblici, Dorothy «Buffy» Chandler, decise allora chela sua ultima, personale, mossa per far rivivere downtown LosAngeles sarebbe stata la costruzione di un Music Center(Welton Becket & Associates, 1964-1969) a cui avrebbe tral’altro dato il proprio nome (Dorothy Chandler Pavilion).Secondo i progetti pubblicitari della «L. A. Oligarchy»), an-che questa nuova funzione era destinata a resuscitare la città,ma l’operazione, comunque la si consideri, non ha goduto delsuccesso previsto: anche se la gente veniva a sentire i concerti- arrivando, parcheggiando, ascoltando e ripartendo -, la cittàviva 24 ore su 24, sette giorni su sette, restava un lontano mi-raggio.
Altrettanto avvenne con gli edifici costruiti successiva-mente: l’albergo Bonaventure (1974-1976), di John Portman,
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a Downtown L. A. L’impresa ebbe successo solo a metà. Ciòche senz’altro riuscì fu la costruzione dei grattacieli e l’affittodegli uffici, anche se poi, per evitare che quei noiosi pedoniinvadessero le strade, destinate solo alle automobili (secondoi migliori principi del Movimento moderno), al piano terre-no i grattacieli vennero accostati ai marciapiedi con nude su-perfici che racchiudevano garage multipiano, il tutto sotto lasorveglianza di guardie giurate e telecamere.
Malgrado i miliardi spesi e le molte promesse, la vita e la vi-talità rimasero effimere. Alle 17 gli uffici chiudevano e i col-letti bianchi tornavano alle loro case ben lontane dalla down-town, che veniva invasa da vagabondi, alcolizzati, prostitute,drogati e dagli operai di origine messicana e sudamericanache lavoravano nel vicino Garment District (distretto del-l’abbigliamento).
Avendo già distrutto tutti gli edifici che avevano ospitatoquesta «feccia», l’oligarchia di Los Angeles (la cosiddetta «L.A. Oligarchy») fu costretta a riunirsi nuovamente per trova-re un’altra soluzione.
Disposte sia in pianura che in collina, le due parti di LosAngeles fin dal tardo Ottocento erano collegate dalla AngelsFlight (1900), una funicolare che univa Bunker Hill con ilsottostante distretto contenente piccoli alberghi, vecchie ban-che, una fitta rete di piccoli negozi indirizzati alla comunitàispanica, il mercato ortofrutticolo, il distretto dei gioiellieri.L’idea brillante della «L. A. Oligarchy» fu di chiudere An-gels Flight onde evitare il transito della suddetta feccia dallazona bassa a quella alta. La soluzione si rivelò, questa volta,assai efficace. Ciononostante, molti degli esclusi riuscivanoancora ad arrivare alla zona alta a piedi, adoperando altri mez-zi e altre strade; oltretutto, qualcuno doveva pur pulire e oc-cuparsi di servire nei nuovi grattacieli.
Disperati, i membri della «L. A. Oligarchy» e gli archi-tetti hanno cercato un altro modello, trovandolo infine negli
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Roma, dove piazza di Spagna era sempre piena di gente e divita. Il risultato fu una scalinata (1989-90) basata su quelladella piazza romana (ma con l’aggiunta di scale mobili), po-sta alla base dell’enorme grattacielo rotondo. Dato che in ge-nere è semideserta, gli architetti hanno dovuto arrovellarsi alungo sul perché questa soluzione funzioni così bene a Romae per niente a Los Angeles.
L’ultima grande iniziativa prima del progetto per GrandAvenue fu il trasferimento della squadra losangelena dellaNBA, quella dei Lakers, dalla sua tradizionale sede nel belmezzo di Inglewood, storico e vivace sobborgo afro-america-no, a una località a sud di downtown, dotata di un nuovo pa-lasport (Staples Center, NBBJ Associates, 2000) e trasforma-ta in enclave bianca d’alto bordo.
Tutto questo ci conduce, di nuovo, al progetto per GrandAvenue. Ormai il quadro si compone di una storia di pro-getti di architettura e urbanistica abbastanza infelice, benchéguidata da alcuni dei più rinomati architetti e urbanisti, oltreche dal gruppo ristretto di miliardari che ha gestito la sorte diLos Angeles per quasi un secolo (tra cui Henry E. Hunting-ton, la famiglia Otis-Chandler del «Los Angeles Times», epiù recentemente, Eli Broad). Il susseguirsi di fallimenti ri-mane impressionante, così come impressiona il nuovo pro-getto, nel quale si ripetono tutti gli errori visti prima e a pro-posito del quale, come storico, sottoscrivo il nostro proverbioche chi non conosce la storia è condannato a ripeterne gli er-rori; nel caso di Los Angeles, ciò sembra ripetersi all’infini-to. Non è un caso che Eli Broad, principale promotore delprogetto di Grand Avenue, viva e lavori non nel downtown,ma al Westside, a Century City. In questo caso, è ovvio, citroviamo anche di fronte a una mancanza palese di compren-sione, argomento sul quale tornerò più tardi.
Per Grand Avenue, come nei progetti proposti in passato,la municipalità si dichiara pronta a finanziare le necessarie in-
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inteso come una città dentro la città, luogo di divertimento eattrazione per il turismo internazionale, e più tardi il nuovomuseo su Bunker Hill di Arata Isozaki, ideato con il com-pito di «accendere» la downtown con la tanto attesa presenzadi turisti appassionati d’arte. Arrivarono poi la Walt DisneyConcert Hall di Frank Gehry e la nuova cattedrale di Ra-fael Moneo, ma anche loro restano luoghi isolati e desolatiper gran parte del giorno. In ognuno di questi casi, si badibene, la città ha regalato proprietà, ha esteso esenzioni fisca-li, ha fornito le infrastrutture necessarie a suon di miliardi,pagati non dagli speculatori immobiliari ma dalle tasse e dal-le imposte raccolte a spese dei cittadini di Los Angeles e del-la California.
Il nuovo centro congressi (Los Angeles Convention Cen-ter, 1972, 1980, 1993; Charles Luckman Associates, PeiCobb Freed, e Gruen Associates) è un altro, ennesimo, esem-pio dei tentativi, comuni a molte città oltre a Los Angeles, dicavalcare l’onda della novità nel mondo del development. Ba-sta ricordare la stagione dei festival market places, luoghi dishopping tipicamente fabbricati dentro i vecchi porti marinicaduti in disuso. Quando non se ne poté più dei festival marketplaces, tutti iniziarono a puntare sui centri per congressi, indi-rizzati a catturare le grandi conventions e, di conseguenza, iltanto atteso turismo. Nel caso di Los Angeles, tuttavia, chipartecipava ai congressi non aveva nessun interesse a restarenella downtown dopo gli impegni congressuali; piuttosto, pre-feriva affittare una camera sul Westside, a Santa Monica o aLong Beach, località molto più vicine al mare e ben fornite dieccellenti ristoranti di ogni tipo di cucina.
Con il passare del tempo, nacquero idee sempre nuove esempre più banali. Harry Cobb, ex preside della Facoltà d’ar-chitettura a Harvard e socio di Ieoh Ming Pei, coprogettistadella tondeggiante Library Tower (1988-90), con il paesag-gista Lawrence Halprin pensò di ispirarsi niente meno che a
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bondi, all’industria leggera - e proprio lì è rimasta una partedi quello che una volta costituiva la storica maglia urbana diLos Angeles. Jacobs ci ha insegnato che per funzionare a tan-ti livelli e per tanti tipi diversi di persone, per avere quella vi-talità tanto voluta ma sempre sfuggente, una città necessita diuna miscela articolata di edifici vecchi e nuovi, di gruppi mi-sti di persone di tutti i tipi, di edifici dai diversi usi; mentre,tra le cose di cui sicuramente essa non ha bisogno, vi sono leingenti somme di denaro investite tutte in una volta, come, ap-punto, avviene nel caso di Grand Avenue.
La città, certo, cambia, ma cambia in meglio - suggerisceJacobs - quando cambia in sintonia col mutare dei suoi resi-denti e non seguendo gli interessi degli speculatori immobi-liari, incentrati su profitti dell’ordine del 300-400%. Questevalanghe di soldi uccidono quartieri e città intere invece dicrearne di nuove, e vanno sempre a beneficio dei palazzinaridel momento, come nel caso della Related Corporation, chepaga un affitto di 50 milioni di dollari per 99 anni sui terreni(di proprietà della città) di Grand Avenue. Con il risultatoche, tra cent’anni, quando l’effetto serra porterà la spiaggiadell’oceano Pacifico alle fondamenta dei grattacieli di BunkerHill, la città potrà forse chiedere un affitto pari a quello delmercato immobiliare.
Jacobs - vi ricordo - insiste su due punti cardine che il«triumvirato più uno» semplicemente ignora: 1) i progetti ur-banistici dovrebbero essere basati non su ideologie legate alsupposto funzionamento di una città ma su una profonda co-noscenza di come le città veramente funzionano; 2) il model-lo dovrebbe essere quello dei cambiamenti graduali anzichérapidi e dovuti a ingenti somme di dollari indirizzate princi-palmente ad arricchire le tasche di pochi.
Nel primo caso, i cambiamenti avvengono attraverso pic-cole azioni di molteplici attori nel tempo, mentre nel secondoè una manciata di attori a decidere in fretta e per tutti. Mi ri-
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frastrutture, garantendo inoltre esenzioni dalle tasse fino a qua-rant’anni a suon di miliardi di dollari, con il risultato di ripe-tere la stessa miscela di centro commerciale standardizzato dialto profilo, di passaggi pedonali, di spazi verdi, di grattacie-li e alberghi, coinvolgendo architetti di fama internazionale.Ma dato che i progettisti e gli speculatori immobiliari hannocapito che tutto questo da solo non basta, puntano in parti-colare sulla spettacolarità del progetto ottenuta attraverso ini-ziative architettoniche di avanguardia, nella speranza di atti-rare a downtown non solo i turisti ma anche gli angelenos, comenon sono riusciti a fare in passato.
Ammetto di aver ridotto all’osso la storia qui raccontata,perché le vicende furono in tutti i casi più complicate di quan-to qui riassunto. Comunque sia, pur ridotta all’essenziale, lastoria rimane uguale a se stessa attraverso un arco di tempo dicentocinquant’anni, un tempo segnato dalle stesse parole usa-te dagli architetti, dai politici e dagli urbanisti, e dagli stessirisultati.
La costosissima ricerca di un centro per Los Angeles, coni suoi risultati tanto elusivi quanto sbandierati, riprende ar-gomenti derivanti da alcuni presupposti della professione ar-chitettonica mai davvero indagati né sfidati, tratti dalle lezio-ni dei grandi maestri del Movimento moderno, quali Le Cor-busier, Ludwig Mies van der Rohe e altri ancora. Quasi mez-zo secolo fa, già Jane Jacobs aveva evidenziato tutti i proble-mi di questi progetti di urban redevelopment, sottolineando lacecità del cosiddetto «triumvirato più uno» (architetti/urba-nisti/politici, più i palazzinari) eletto a custode dell’interessepubblico, e lottando contro la distruzione del tessuto storicodelle città; non a caso, si era soffermata proprio sul caso diBunker Hill a Los Angeles3. Per fortuna, l’oligarchia e il«triumvirato» avevano deciso di non mettere le mani sulle zo-ne della città bassa lasciate ai messicani, ai poveri, ai vaga-
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downtown era stata progettata come recinto di contenimentocontro gli abitanti della parte bassa della città. Egli critica, in-fine, l’indifferenza blanda degli angelenos verso il succedersidei progetti per downtown. Con apparente coraggio, Ourous-soff domanda se l’oligarchia è pronta ad affrontare le linee difaglia sotto la superficie brillante di Bunker Hill, ovvero, nel-le sue parole, «la tensione tra il distretto di cultura e finanzasopra [Bunker] Hill e il vitale distretto latino a est di down-town».
Al riguardo, sono da notare due punti: 1) un architetto hala capacità di trasformare la città - si intende, quasi da solo; 2)il grande problema sociale da affrontare riguarda la tensionetra i due distretti: uno anglo-americano (cultura e finanza) euno latino (vitalità urbana).
Parliamo prima del secondo punto. Mi viene in mente unaconferenza tenuta insieme a un gruppo di critici e storici bian-chi del Sudafrica un paio d’anni fa, nel corso della quale que-sti criticavano l’epoca post-apartheid per la mancanza di un’i-dentità culturale chiara; questa osservazione, si noti, provie-ne da persone appartenenti a una razza che ha passato più diun secolo a tentare di fissare le identità razziali in tre catego-rie: bianca, colorata, nera. La mia risposta era che il feticciodell’identità culturale sembra preoccupare solo i bianchi, co-me già in passato, ma tanto più adesso che hanno perso pote-re. Farei notare sostanzialmente la stessa cosa a Ouroussoff: lacomunità latina non ha nessun interesse per la cultura «alta»di Bunker Hill; essa ha una propria cultura, i propri spazi, estrade piene di vita 24 ore su 24, e sembra contenta di lasciarele strade sterili di Bunker Hill agli anglos, cioè ai bianchi cheappaiono così soddisfatti di questi paesaggi urbani vuoti e va-ni da ricrearli all’infinito.
In effetti, mi pare che il progetto di Grand Avenue sia l’ul-timo respiro della cultura mandarina della Anglo Los Angeles,assediata da asiatici e sudamericani, con tutta la varietà delle
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cordo, a questo proposito, di un progetto ideato nei tardi an-ni ottanta per il redevelopment di Hollywood: un politico-ur-banista presentò il progetto a un gruppo di architetti, storicie urbanisti con entusiasmo, spiegando che i mutamenti a Hol-lywood erano già in atto, e gli yuppies e i negozi di alto profi-lo stavano sostituendo la popolazione di anziani e le botteghedi souvenir. Allora - gli ho chiesto - se il cambiamento è giàin atto, qual è la necessità di investire milioni di dollari di sov-venzioni pubbliche solo per accelerare il ritmo del cambia-mento? Questa domanda ha suscitato qualche imbarazzo enessuna risposta, perché l’unica risposta possibile era che sen-za i sussidi pubblici destinati a progetti di grande scala, nes-suno si arricchisce velocemente.
Arriviamo ora al ruolo della critica nella vicenda di GrandAvenue. Il critico d’architettura del «New York Times», Ni-colai Ouroussoff (emigrato a New York da Los Angeles, do-ve aveva collaborato con il «Los Angeles Times»), all’iniziodel 2007 ha lodato il progetto per Grand Avenue e, in parti-colare, l’operato di Frank Gehry; a suo dire, la Related Cor-poration avrebbe dovuto prestare più attenzione a Gehry, unarchitetto che egli ritiene in grado di proporre un progetto ri-solutivo per tutti i problemi della downtown4.
Ouroussof, come il «triumvirato più uno», celebra la visio-ne di un downtown di nuovo vitale, vivace e piena di gente, 24ore su 24 e sette giorni su sette. La recensione di Ouroussoff èun esempio eclatante del pensiero confuso che ho criticato 23anni fa nel mio articolo per «Perspecta». Nella sua recensio-ne Ouroussoff riconosce tutti gli errori messi in atto nei pro-getti per la downtown lungo il Novecento, comprese galleriesotterranee, svincoli autostradali, passaggi sopraelevati per pe-doni; egli critica inoltre i grattacieli di downtown, ritenendoligenerici quanto quelli di qualunque altra città americana, ericonoscendo pure che tutta l’urbanistica di Bunker Hill e
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mancate su di lei, visto che generazioni di vecchi (e giovani)uomini bianchi sono responsabili della creazione di questiproblemi e nessun’altra generazione di uomini vecchi e gio-vani bianchi è riuscita finora a risolverli. Fatto sta che Ou-roussoff non ha mai lottato per niente che non fosse lo stessotrito argomento in favore delle opere architettoniche delle vec-chie e bianche archistar maschili. Lui e la sua critica naviganoal di sopra del mondo degli speculatori edilizi, dei politici, de-gli accademici e dei professionisti. Così facendo, egli evita ditoccare le sfere del potere e della finanza, dove le decisioni ven-gono prese, lontane dalla partecipazione del pubblico, e do-ve il potere viene gestito solo per l’arricchimento di pochi.
Concludo con un esempio ricavato dagli anni in cui diri-gevo la rivista «Journal of Architectural Education». Nel lon-tano 1989 ho pubblicato due articoli sull’architettura dell’a-partheid sudafricana: uno trattava della high architecture, l’ar-chitettura elevata e colta degli architetti, e l’altro criticava l’as-senza di una presa di posizione degli architetti sui progetti daloro realizzati durante l’apartheid. Ho pubblicato i due artico-li per suscitare un dibattito ma nessuna lettera è, ahimè, per-venuta al riguardo. Un paio di anni dopo, però, ho pubbli-cato un testo molto critico su Le Corbusier e in questo casomi sono invece arrivate valanghe di lettere, perché - ovvia-mente - il maestro non si tocca. Le risposte e le mancate ri-sposte confermarono e confermano ancora oggi la mia intui-zione di tanti anni fa, e cioè che gli argomenti di cui ho par-lato prima, in particolare il dibattito sull’autorevolezza delmaestro, e sulla maestria delle forme, riscuotono molto più in-teresse in ambito architettonico dei temi della giustizia politi-ca e sociale.
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loro culture. Grand Avenue è l’ultimo baluardo contro le clas-si inferiori che gli anglos hanno cercato di respingere al di làdegli steccati per più di centotrent’anni. Mi spiace, ma Ou-roussoff, così come Eli Broad e gli altri «movers and shakers»dell’Anglo Los Angeles, proprio non capiscono: loro credonodi avere il compito di portare le masse della città bassa versouna cultura alta, come quella che si delinea per Grand Ave-nue.
La soluzione di Ouroussoff alla presunta tensione tra an-glos e latinos nella downtown - risposta che diventa anche un sug-gerimento per Frank Gehry - sarebbe di veder tornare Gehryall’utilizzo dei materiali provvisori, crudi e «popolari» dellesue prime opere architettoniche, e quindi, si intuisce, a unostile attraente per i latinos. Questo linguaggio, egli dice a Gehrye a noi, romperebbe il senso dell’esclusività del progetto perGrand Avenue. Ecco spuntare di nuovo il trionfo del lin-guaggio formale come soluzione di tutti i problemi, dimenti-cando gli stipendi bassi degli operai, i diritti negati a immi-grati senza documenti, le battaglie tra i sindacati di custodi ecamerieri da un lato e gli alberghi e gli uffici dall’altro... per-ché basta un linguaggio più popolare per colmare i vuoti ecalmare i disagi. Non appagato dell’aver riesumato un argo-mento tanto vecchio quanto riciclato, Ouroussof prestava at-tenzione a Jane Jacobs nel necrologio dell’aprile 2006 a lei de-dicato5. Dopo aver dichiarato di essere in accordo con RobertMoses nella storica definizione di «just a bunch of mothers»(«solo un gruppuscolo di mamme»), da lui data a Jacobs e alsuo gruppo di oppositori dei progetti di radere al suolo SoHoe il Greenwich Village West nei tardi anni cinquanta, Ou-roussof critica la Jacobs per non aver risolto: 1) il problemadella casa nei centri urbani statunitensi; 2) lo sprawl dei sob-borghi; 3) la dipendenza degli americani dalle automobili edal petrolio; 4) la gentrificazione.
Non mi sembra del tutto giusto far pesare queste soluzioni
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Questo saggio è apparso originariamente in ???????????????????????
1 DIANE GHIRARDO, The Architecture of Deceit, in «Perspecta», 21, autunno,1984, pp. 110-115; ripubblicato in KATE NESBIT (a cura di), ArchitecturalTheory 1965-95, New York 1996, pp. 380-386, e in ANDREW BALLANTYNE,What is Architecture?, Londra - New York 2002, pp. 63- 71.2 www.grandavenuecommittee.org3 JANE JACOBS, The Death and Life of Great American Cities, New York 1961.4 NICOLAI OUROUSSOFF, Corner of Art and Commerce in Los Angeles, in «TheNew York Times», Section 2, 28 gennaio 2007. Tra le altre discussioni del pro-getto, si veda ROBIN POGREBIN, Los Angeles with a Vision?, in «The New YorkTimes», Arts Section, 25 aprile 2006; ANDY FIXMER, Grand Avenue Plan willbe Shaped by Small Group, in «Los Angeles Business Journal», 16 agosto 2004.5 NICOLAI OUROUSSOFF, Outgrowing Jane Jacobs, in «The New York Times»,Section 4, 30 aprile 2006.
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