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Dino Buzzati IL GRANDE RITRATTO Copyright Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1960. Prima edizione Narratori italiani agosto 1960. Quarta edizione Narratori italiani ottobre 1965. Prima edizione Scrittori italiani e stranieri agosto 1972. 1. Nell'aprile 1972 il professor Ermanno Ismani, di 43 anni, ordinario di elettronica all'università di X, uomo piccolo, grasso, di umor gaio, ma pauroso, ricevette una lettera del ministero della difesa che lo pregava di conferire con il colonnello Giaquinto, capo dell'Ufficio studi. L'invito aveva carattere d'urgenza. Senza lontanamente immaginare di che cosa si trattasse, Ismani, il quale verso l'autorità costituita aveva sempre avuto un complesso di inferiorità, si affrettò il giorno stesso al ministero. Non c'era mai stato. Col suo solito impaccio si affacciò nell'anticamera. Subito un piantone in divisa gli si fece incontro chiedendogli che cosa desiderasse. Lui fece vedere la lettera. Per incanto, dopo un'occhiata alla carta, il piantone, che lo aveva interpellato in modo alquanto brusco (trascurato nel vestire, goffo nei movimenti, Ismani sembrava un tipo da prendere sotto gamba) divenne un altro. Si scusò, pregò Ismani di attendere un momento e si precipitò in una stanza vicina. Venne un sottotenente che chiese di vedere la lettera, la lesse, fece un sorriso vagamente imbarazzato, e con accentuato ossequio pregò Ismani di seguirlo. "Ma cosa c'è in questa lettera di così strano?", si domandava Ismani un po' intrigato. "Perché, dopo averla vista, mi trattano come un pezzo grosso?" A lui era parsa una qualsiasi comunicazione d'ufficio. Questa considerazione quasi timorosa si rinnovò anche da parte degli altri ufficiali, di grado via via crescente, nei successivi uffici per cui Ismani venne fatto passare. Aveva perfino la sgradevole impressione che ciascuno di quegli ufficiali, non appena vista la lettera, avesse premura di passare la faccenda ad altri, più autorevole: quasi che lui, Ismani, fosse un personaggio da trattare con tutti i riguardi, ma incomodo, se non addirittura pericoloso. Il colonnello Giaquinto doveva avere una straordinaria autorità, assai

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Dino Buzzati IL GRANDE RITRATTO Copyright Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1960. Prima edizione Narratori italiani agosto 1960. Quarta edizione Narratori italiani ottobre 1965. Prima edizione Scrittori italiani e stranieri agosto 1972. 1. Nell'aprile 1972 il professor Ermanno Ismani, di 43 anni, ordinario di elettronica all'università di X, uomo piccolo, grasso, di umor gaio, ma pauroso, ricevette una lettera del ministero della difesa che lo pregava di conferire con il colonnello Giaquinto, capo dell'Ufficio studi. L'invito aveva carattere d'urgenza. Senza lontanamente immaginare di che cosa si trattasse, Ismani, il quale verso l'autorità costituita aveva sempre avuto un complesso di inferiorità, si affrettò il giorno stesso al ministero. Non c'era mai stato. Col suo solito impaccio si affacciò nell'anticamera. Subito un piantone in divisa gli si fece incontro chiedendogli che cosa desiderasse. Lui fece vedere la lettera. Per incanto, dopo un'occhiata alla carta, il piantone, che lo aveva interpellato in modo alquanto brusco (trascurato nel vestire, goffo nei movimenti, Ismani sembrava un tipo da prendere sotto gamba) divenne un altro. Si scusò, pregò Ismani di attendere un momento e si precipitò in una stanza vicina. Venne un sottotenente che chiese di vedere la lettera, la lesse, fece un sorriso vagamente imbarazzato, e con accentuato ossequio pregò Ismani di seguirlo. "Ma cosa c'è in questa lettera di così strano?", si domandava Ismani un po' intrigato. "Perché, dopo averla vista, mi trattano come un pezzo grosso?" A lui era parsa una qualsiasi comunicazione d'ufficio. Questa considerazione quasi timorosa si rinnovò anche da parte degli altri ufficiali, di grado via via crescente, nei successivi uffici per cui Ismani venne fatto passare. Aveva perfino la sgradevole impressione che ciascuno di quegli ufficiali, non appena vista la lettera, avesse premura di passare la faccenda ad altri, più autorevole: quasi che lui, Ismani, fosse un personaggio da trattare con tutti i riguardi, ma incomodo, se non addirittura pericoloso. Il colonnello Giaquinto doveva avere una straordinaria autorità, assai

superiore a quanto lasciasse presumere il suo grado, tante furono le barriere di controllo che Ismani dovette varcare per raggiungerlo. Giaquinto, un uomo sui cinquanta, che vestiva in borghese, lo accolse con deferenza. Non c'era nessuna necessità, disse, che Ismani si affrettasse tanto. L'urgenza a cui si faceva allusione nella lettera, era una formalità consueta a quasi tutte le pratiche del suo ufficio. "Per non farle perdere tempo, professore, le spiegherò subito la cosa. O meglio", e qui fece un risolino allusivo, "o meglio le prospetterò i termini della questione che il ministero intende sottoporle. Di che cosa si tratta veramente, io stesso non lo so. In certi settori, lei professore capirà, le cautele non sono mai eccessive. Anzi, al proposito, le farò notare che a qualsiasi altro verrebbe chiesto un preventivo impegno d'onore alla più rigorosa segretezza... ma nel caso suo, professore... la sua personalità... i suoi titoli... il suo passato di combattente... il suo prestigio..." "Ma dove vuole andare a parare?", si chiese Ismani, che sentiva crescere il disagio. Disse: "Colonnello, mi scusi, io non capisco". Il colonnello lo guardò con vaga ironia, si alzò dallo scrittoio, trasse di tasca un mazzetto di chiavi, aprì un massiccio mobile metallico, ne trasse una cartella, tornò alla scrivania. "Ecco qui", disse consultando dei fogli scritti a macchina. "E' disposto lei, professore Ismani, a rendere un servizio al Paese?" "Io? E come?" Il sospetto di un grossolano equivoco sembrava sempre più attendibile. "Non ne dubitavamo, professore" disse Giaquinto. "I suoi sentimenti non sono un mistero in alto loco. Proprio per ciò su di lei facciamo affidamento." "Ma io... proprio, non afferro..." "Sarebbe disposto lei, professore" chiese il colonnello con mutato accento, scandendo le parole, "sarebbe disposto a trasferirsi per un periodo minimo di due anni in una delle nostre zone militari per partecipare a un lavoro di superiore interesse nazionale, oltre che di eccezionale valore scientifico? Per quanto riguarda la sua posizione universitaria, lei figurerebbe in missione ufficiale con l'intero stipendio, ben s'intende, più una cospicua indennità di missione, la cifra esatta non sono in grado di specificarla ma si aggirerebbe sulle 20-22 mila lire al giorno." "Al giorno?" fece Ismani sbalordito. "Per di più un alloggio spazioso e confortevole, dotato di ogni comodità moderna. La località, leggo qui, è quanto mai salubre e ridente. Una sigaretta?" "Grazie, non fumo. Ma di che lavoro si tratta?" "Nella designazione stessa del ministero è implicito, mi sembra, che si sia tenuta presente la sua specifica competenza... Espletata la missione, naturalmente, il governo non mancherà di manifestare in forma tangibile... tenuto anche conto dell'innegabile sacrificio della residenza..." "Perché? Non potrei muovermi di lì?" "L'importanza stessa del compito..." "Per due anni? E l'università? Le lezioni?" "Posso assicurarle, benché io, come le ho detto, non conosca la natura dell'impresa, che le sarà offerta l'occasione di ricerche oltremodo interessanti... Ma per essere sincero devo aggiungere che qui non si sono mai avuti dubbi su quale sarebbe stata la sua risposta." "E con chi...?"

"Non sono in grado di rispondere. Però posso fare un nome, un grande nome: Endriade." "Endriade? Ma si trova in Brasile, adesso." "Sì certo, in Brasile, ufficialmente", e il colonnello ammiccò. "No, no, professore, non è assolutamente il caso di agitarsi. Lei è forse un po' nervoso, vero?" "Io? Non saprei..." "E chi non è nervoso oggi con la vita affannosa che si fa? In questo caso, le garantisco, sarebbe del tutto fuori luogo. Si tratta di una proposta, sottolinearlo è mio dovere, lusinghiera. E poi non c'è premura. Lei vada a casa, professore, e continui pure la sua solita vita...", sorrise, "...come se non le avessi detto nulla... come se, mi intenda bene, come se in questo ufficio lei non avesse mai messo piede... Ci pensi, però... Ci pensi... Nel caso, mi dia un colpo di telefono..." "E mia moglie? Sa, colonnello, lei forse riderà, ma noi siamo sposati da neanche due anni..." "Complimenti, professore...", il colonnello corrugò le sopracciglia come considerasse un difficile problema, "ma non è detto... se lei personalmente se ne rende garante..." "Oh, mia moglie è una creatura così semplice, così ingenua, non c'è pericolo che... Oltre al resto, non si è mai interessata dei miei studi." "Meglio così, penso", e rise. "Colonnello, prima di..." "Dica, dica..." "Prima di una eventuale decisione in un senso o nell'altro, non potrei...?" "Saperne qualcosa di più, lei intende dire?" "Eh sì. Piantare tutto per due anni senza neanche sapere cosa..." "Ecco, su questo punto, professore, bisogna che lei abbia pazienza. Le posso dare la mia parola che io non so niente di più di quello che le ho detto. Non basta. Lei magari non ci vorrà credere, ma quale sia precisamente il compito che le sarà affidato, temo che in tutto il ministero non ci sia uno solo, uno solo, capisce?, che sia in grado di specificarlo. Sembra assurdo, lo so. Neanche il capo di Stato maggiore, forse... Alle volte la macchina del segreto militare arriva al paradosso. Il nostro compito è di proteggere il segreto. Quello che ci è nascosto dentro, a noi però non deve interessare. Ah ma lei avrà tempo di informarsene, tutto il tempo che vuole, in due anni, direi..." "Ma scusi: allora come avete fatto per esempio a scegliermi?" "Noi? Non siamo mica stati noi. La indicazione, il suggerimento è venuto dalla zona stessa." "Da Endriade?" "Non mi faccia dire quello che non ho detto, professore. Può darsi che sia stato Endriade ma di preciso non lo so... No, no, professore, non c'è fretta. Lei torni ai suoi studi come se manco le avessi detto una parola. E grazie di essere venuto. Non voglio farle perdere altro tempo." Si alzò per accompagnare Ismani alla porta. "Non c'è assolutamente fretta... Però ci pensi, professore. E nel caso..." 2. La proposta fece piombare il professore Ismani in un abisso di

apprensioni. Se avesse obbedito all'istinto, che lo portava solo alla quiete, alla conservazione delle "res sic stantes", alla regola di un'esistenza senza scosse e sedentaria, avrebbe risposto di no immediatamente. Ma la stessa sua pavidità lo induceva ad accettare. Uomo onesto se ce n'era mai, se l'idea di essere sbalestrato per due anni in una destinazione misteriosa, per un lavoro che magari non gli andava a genio, sotto la pesante costrizione del segreto, in mezzo a gente sconosciuta (perché Endriade, luminare della fisica, lo aveva visto appena un paio di volte nella baraonda dei congressi), se questa idea gli incuteva sentimenti prossimi al terrore, ancora più difficile era per lui sottrarsi a quello che gli era stato prospettato come suo dovere di cittadino e di scienziato. In guerra era stato un valoroso, ma non per un naturale sprezzo del pericolo. Anzi. Era sempre stata la paura di apparire pusillanime, di venir meno alla consegna, di non meritare la fiducia che gli dimostravano i soldati, di essere indegno del suo grado, a fargli superare, con patemi d'animo indicibili, l'altra paura, quella fisica, del fuoco nemico, delle ferite, della morte. Ora si trovava nelle stesse condizioni. Corse a casa per confidarsi con la moglie, Elisa, più giovane di lui di 15 anni, ma di gran lunga più matura e forte nell'affrontare i problemi della vita. Era Elisa una donna di statura non alta, piuttosto grassottella, ma solida. Il suo volto largo e tondo esprimeva in ogni circostanza una placida e rasserenante decisione. Dovunque capitasse, pur nei luoghi più inospitali e incomodi, dopo pochi minuti aveva l'aria di trovarsi a suo perfetto agio. Dove lei arrivava, di un subito l'inquietudine, lo sporco, il disordine, il disagio sparivano inesplicabilmente. Come moglie, era per Ismani, così sguarnito nella vita pratica e preoccupato per qualsiasi inezia, una incalcolabile fortuna. Proprio il contrasto fra i due temperamenti, come spesso succede, era il primo motivo, probabilmente, del grande bene che si volevano a vicenda. E a rendere felice quell'unione contribuiva certo il fatto che Elisa non era andata oltre la scuola media, non aveva la più lontana idea degli studi del marito e, pur ritenendolo un genio, del suo lavoro non si interessava se non per impedirgli di stare alzato alla sera troppo tardi. Non fece in tempo a entrare in anticamera che lei, fattasi incontro in grembiule con un cucchiaio in mano, gli puntò un indice in direzione della fronte. "Non parlare. Lo so già. Ti hanno proposto un lavoro nuovo." "E come fai a saperlo?" "Oh, uomo mio, basta guardarti in faccia, sembri Napoleone in partenza per Sant'Elena." "Chi te l'ha detto?" "Che cosa?" "Di Sant'Elena." "A Sant'Elena dovresti andare?", un'ombra passò sul suo sorriso. "Una specie di Sant'Elena, proprio. Ma non parlarne con nessuno. Se si sapesse in giro, potrei avere dei guai." Fece uno scarto, aprì di colpo l'uscio che si era chiuso da solo alle sue spalle, si affacciò sulle scale, guardò giù. "Che cosa fai?" "Mi era sembrato di sentire un passo."

"E allora?" "Non vorrei che ci fosse stato qualcuno ad ascoltare." "Ma mi spaventi, Ermanno, ma allora è proprio una faccenda seria...", rise vivamente. "Vieni di qua, vieni di qua in cucina e raccontami. Qui non ci ascolta nessuno, garantito." Con una certa difficoltà, perché aveva in testa una grande confusione, Ismani riferì il colloquio con Giaquinto. "E tu hai accettato, vero?" "Perché?" "Oh uomo, uomo, figurati se non accetti!" "Per lo stipendio che mi danno, dici?", fece lui deluso perché ci teneva sempre ad essere superiore alla volgarità dei soldi. "Macché per lo stipendio. Il dovere... la missione... l'amor patrio... oh hanno saputo prenderti dalla parte giusta, hanno saputo, mica che io ti dia torto sai...", scoppiò in una risata, "con più di seicentomila lire al mese, senza contare lo stipendio..." "Hai già fatto il conto, tu?", disse lui, sentendosi, chi sa perché, rasserenato. "E quando mai te la saresti sognata una paga simile? Mi par già di vederli i tuoi colleghi con la faccia gialla per l'invidia. Ma cos'è? Un impianto atomico?" "Non mi hanno detto niente." "Se c'è tanta segretezza, sarà la bomba atomica... Ma tu... ma tu di quelle faccende te ne intendi? Non direi che sia il tuo ramo." "Non so niente, non so niente." Elisa si fece pensierosa: "Già. Tu non sei mica un fisico. Se hanno scelto proprio te...". "Questo non vorrebbe dire. Anche in un impianto atomico, soprattutto in fase di progetto, potrebbero benissimo aver bisogno di uno come me, specializzato in..." "Un impianto atomico, allora... E quando?" "Quando cosa?" "La partenza." "Non ne so niente. Io non ho accettato." "Ma accetterai, figurati se non accetterai. Ci sarebbe solo un caso in cui tu diresti di no, forse." "Che caso?" "Che tu dovessi andare solo, che io non potessi accompagnarti. Forse", e sorrideva. "Pare che sia anche un gran bel posto", disse Ismani. 3. Ismani e la moglie partirono alla volta della "zona militare 36" al principio di giugno, a bordo di un'automobile del ministero della difesa. Guidava un soldato. Li accompagnava il capitano Vestro, dello Stato maggiore, sui 35 anni, tarchiato, gli occhi piccoli, intensi, ironici. Alla partenza gli Ismani sapevano di dover raggiungere la Val Texeruda, celebre zona di villeggiatura, dove anche Elisa era stata in vacanza, da ragazza, molti anni prima. Ma non sapevano di più. A nord della Val Texeruda si ergeva un vasto massiccio di montagne. Forse lassù, in qualche angolo remoto chiuso fra le rupi, o in mezzo ai boschi, o in una contrada alpestre fatta sgomberare dagli abitanti e trasformata in base militare, era la destinazione. "Capitano", chiedeva la signora Ismani, "ma lei dove ci porta

esattamente?" Vestro parlava lento, come cercando ad una ad una le parole, forse per prudenza, quasi avesse paura di lasciarsi sfuggire indiscrezioni. "Ecco qui, signora", rispose mostrandole un foglio scritto a macchina, ma senza consegnarlo. "Qui c'è l'orario di marcia prefissato. Stasera ci fermeremo a Crea. Domattina, partenza alle otto e mezzo. Per la nazionale fino a Sant'Agostino. Di qui c'è una strada militare. Io avrò il piacere, e l'onore, di accompagnarvi fino al posto di blocco. Qui il mio compito avrà termine. Un'altra macchina verrà a prendervi." "Ma lei, capitano, c'è mai stato?" "Dove?" "Nella zona militare 36." "No, signora, non ci sono stato mai." "E cosa c'è? Un impianto atomico?" "Impianto atomico...", ripeté con inflessione ambigua. "Sarà interessante per il professore, immagino." "Ma io lo chiedevo a lei, capitano." "A me? Ma io non so assolutamente niente." "Ammetterà allora che è ben curioso. Lei non sa niente, mio marito non sa niente, al ministero non sanno niente, al ministero sono stati reticenti in modo esagerato, vero Ermanno?" "Reticenti? Perché?", fece Ismani. "Sono stati gentilissimi." Vestro fece un piccolo sorriso. "Vedi allora che avevo ragione io?", disse Elisa. "Ragione perché, cara?" "Che ti hanno chiamato per l'atomica." "Ma il capitano non ha detto niente." "E allora", insisté la donna, "che cosa fanno in questa zona militare 36 se non si tratta dell'atomica?" "Attento, Morra", esclamò il capitano, questa volta senza pesare le parole, poiché stavano sorpassando un grosso camion e la strada era piuttosto stretta. Ma in realtà non sembrava ci fosse motivo di allarmarsi. Era un lungo rettilineo e dalla parte opposta non avanzava nessuno. "Dicevo", riprese Elisa Ismani, "dicevo: se non si tratta dell'atomica, che cosa si fa in questo posto dove andiamo? E perché non ce lo dicono? Anche se ci fosse il segreto militare, noi, mi sembra... più di andarci di persona..." "Lei ha accennato a un impianto atomico." "No accennato. Io le chiedevo solamente." "Ecco, signora", la risposta parve uscire dal capitano Vestro con stento, "penso che lei sarà costretta a pazientare fin quando sarà sul posto. Le assicuro che io non sono in grado di rispondere." "Lei però lo sa, vero?" "Le ho detto, signora, che io non ci son mai stato." "Ma sa di che cosa si tratta, no?" Ismani ascoltava ansioso. "Vede, signora, e voglia scusare la pedanteria: le possibilità sono tre: o la cosa non è segreta ma io non la conosco; o la cosa io la conosco ma è segreta; o la cosa è segreta e per di più io non la conosco. Vede che in qualsiasi caso..." "Lei potrebbe però dirci", obbiettò Elisa, "di quale dei tre casi si tratta." "Secondo", ribatté l'ufficiale, "secondo il grado del segreto. Se si trattasse del segreto di primo grado, come spesso avviene per esempio

nei piani operativi, esso si estende, e la norma lo prescrive in modo espresso, anche a tutto ciò che lo riguarda, anche lontanamente e parzialmente, anche in forma indiretta e negativa. E che cosa vuol dire in forma negativa? Vuol dire che se uno sa che c'è un segreto di questo tipo ma non lo conosce, gli è vietato di rivelare perfino tale sua ignoranza. E osservi, signora: la restrizione, in apparenza, è assurda, ma ha i suoi buoni motivi. Consideriamo per esempio il nostro caso, la zona militare 36. Ebbene la semplice mia ammissione di non essere al corrente, dato il mio grado e le mie funzioni, potrebbe offrire un indizio, sia pur minimo, a chi..." "Ma lei lo sa chi siamo noi!", esclamò la signora Ismani, polemica. "Il semplice fatto che lei ci accompagna esclude, direi, qualsiasi possibilità di sospetto." "Signora, all'ingresso della Scuola di guerra, nel vestibolo, immagino che lei non ci sia mai stata, c'è una scritta: "Il segreto non ha famiglia né amici". Ciò riesce pesante, in certe situazioni, pesante e spiacevole al prossimo, lo ammetto..." Sembrò estenuato dalla lunga spiegazione. La signora Ismani rise: "Insomma, lei mi fa diplomaticamente capire che lei non può, o non vuole, dirci che cosa c'è in questa famosa zona militare...". "Ma io, signora", precisò il capitano con la sua flemma didascalica, "io non le ho mai detto di saperlo." "Basta, basta. Sono stata un po' petulante. Scusi." L'ufficiale tacque. Passarono cinque minuti circa e poi Ismani, timidamente: "Mi voglia perdonare, capitano. Lei diceva che i casi erano tre. In realtà erano quattro. Perché potrebbe darsi anche che la cosa non sia segreta e che lei la conosca." "Non ho prospettato questo caso", spiegò Vestro, "perché mi sembra superfluo." "Superfluo?" "Già. In questo caso... in questo caso vi avrei già raccontato tutto da un pezzo! Attento, Morra!" Ma anche l'ammonimento all'autista era superfluo: la curva che stavano superando era larghissima e la macchina non faceva più di sessanta. 4. Il giorno dopo salirono alla Val Texeruda. La strada era bella fino a Serra d'Oltro, luogo di villeggiatura, contornato da foreste. Poi si faceva stretta e malagevole per certi stretti "tourniquets". Anche i posti diventavano via via più selvatici, case sempre più rare, boschi più fitti dalle parti, rari incontri, e in fondo alle valli laterali si aprivano ogni tanto sagome di montagne irte e sbilenche, tutte piegate dalla stessa parte come certi alberi, specialmente in riva ai fiumi, dove il vento soffia in una sola direzione. Nessuno dei tre parlava. Il cielo grigio ed uniforme, altissimo. Più in basso nuvolaglie si aggiravano sulle creste, ingolfandosi nei profondi canaloni. "Manca molto?", domandava ogni tanto Ismani. "Non credo", rispondeva Vestro. "Però è la prima volta anche per me." "Ma quanti chilometri ci mancano?" "Oh, pochi, pochi."

A un certo punto c'era un bivio. Una strada, a destra, entrava bruscamente in una torva gola così precipitosa che non si capiva come avrebbe fatto a proseguire. Per una frazione di secondo; in uno spiraglio fra le dirupate quinte di roccia (con piccoli deformi abeti cresciuti, chi sa come, su minuscole sporgenze delle pareti strapiombanti) Ismani intravide una bastionata di rocce bianche, dalla sommità tondeggiante, che ricordavano vagamente i teschi. L'insieme gli diede una sensazione di disagio. Pensò: "Se lassù fosse la mia destinazione, non ci resterei, a nessun costo". E subito dopo: "Vuoi vedere che ora voltiamo a destra, nella gola?". La macchina invece proseguì diritta. Dopo mezz'ora circa la valle si allargò un poco, c'era più luce, anche le montagne da una parte e dall'altra sembravano meno tetre. Si fermarono a una colonnetta di benzina. Scesero a fare due passi e a prendere un caffè. All'uomo della colonnetta - un tipo in là con gli anni, dal volto mansueto - Ismani, approfittando che il capitano se ne stava un po' in disparte, domandò, facendo segno a una strada inerpicantesi a zigzag su un fianco della valle: "Si va su di là all'impianto atomico?" "Atomico?", l'uomo si guardò in giro come cercando aiuto. "Ma, sa, io non sono pratico." "Ne avrai sentito parlare, no?" (Vestro intanto si era avvicinato.) "Mah, se ne sentono dir tante. Certo che il tempo... eh, il tempo..." "Che cosa il tempo?" "Il tempo non è più quello di prima. Sempre bello, adesso. Non piove più ormai." E rise. Sia pure in forma estremamente vaga (come del resto c'era da aspettarsi dalla naturale diffidenza di quei valligiani tagliati fuori del mondo) quella si poteva considerare una conferma. Ma c'era da crederci? Nel volgere casualmente il capo, a Ismani parve di cogliere sul volto dell'uomo - ma forse era una falsa impressione dovuta alla sua fantasia sovreccitata - una minima contrazione degli occhi, una specie di ammiccamento allusivo, rivolto al capitano. Il quale però non mosse ciglio. Risaliti che furono in macchina, il capitano Vestro mormorò all'autista qualcosa che Ismani non comprese. Invece di proseguire su per la valle, l'auto fece dietro-front. "Torniamo indietro?", chiese la signora Ismani. Vestro rispose lentamente: "Mi dovete perdonare. Non sono pratico. Abbiamo oltrepassato il bivio e non me ne sono accorto". "Che bivio?", fece Ismani, apprensivo, pensando alla gola che gli aveva fatto quella orribile impressione. "Saranno tre, quattro chilometri. Bisognava prendere una valle laterale." Tacquero. "E' quella", pensava Ismani. "Appena l'ho vista l'ho capito. Me la sentivo. Ma lassù non ci resto, garantito." "Senta, capitano", disse dopo qualche minuto, cercando di mostrarsi tranquillissimo. "Perdoni la curiosità. Se io..." "Dica, dica, professore", l'altro lo incoraggiò, poiché Ismani esitava. "Se io... faccio per dire... in linea di pura ipotesi... se io adesso volessi rinunciare, se insomma mi tirassi indietro?" "In questo caso", compitò Vestro con la solita flemma, "io sono a sua disposizione per ricondurla a casa."

"Perché? Era stato previsto questo caso?" "Non so. Io ho avuto delle consegne. Anche per l'evenienza che lei, professore..." "Che vuoi fare, Ermanno?", fece la moglie sorridendo. "Cosa ti viene in mente?" Ismani non le badò. La risposta del capitano lo preoccupava estremamente. "Non si escludeva dunque", disse, "che io all'ultimo momento...?" "E' normale, in questi casi, professore, considerare ogni possibilità, e il ministero... si tratta, io credo, di una missione volontaria, qualsiasi coercizione sarebbe contraria a..." "Dica la verità, capitano, c'è stato già qualcuno come me che.. che ha disertato?" "Non so, non credo. Non ho mai sentito dire. E' la prima volta, le ripeto, che io vengo da queste parti." Ismani tacque, nell'incertezza di una decisione. Un suo rifiuto, dopo essere giunto fin lassù, sarebbe parso strano e ridicolo, degno di un bambino. Ma al ricordo della selvaggia gola con in fondo quelle rupi cadaveriche, provava una autentica ripugnanza fisica. Tuttavia volle aspettare. Come aveva previsto, la macchina rallentò proprio in corrispondenza della sinistra gola. "Dobbiamo andare su di là?", domandò Ismani. "Oh no", rispose Vestro. "Esattamente dalla parte opposta", e fece segno all'altro versante. Ismani e sua moglie volsero gli occhi a destra. Un ponte, ad angolo retto con la strada principale, attraversava il fiume (o meglio il largo letto di grave bianche perché il corso d'acqua era minuscolo) portando all'ingresso di una valle laterale. Rispetto alla gola che sboccava quasi dirimpetto, questa valle era larga, piena di verde, allegra. C'erano boschi e prati accavallantisi in una irregolare successione di ripide gobbe e in fondo a questo romantico scenario si intravedeva una giogaia dirupata. Ma, fosse per la fisionomia diversa delle cime, fosse per la più festosa luce che veniva dal cielo, nel frattempo apertosi a larghe brecce di sereno, Ismani non ebbe stavolta alcuna impressione sfavorevole. 5. Proprio ai piedi dell'ultimo salto di rocce, oltre al quale l'andamento del terreno lasciava indovinare un altipiano, la strada sboccava in uno spiazzo e qui era il posto di blocco: una casermetta, un'antenna con la bandiera, una rustica balaustra di legno tutt'intorno, due panche, una tavola, un casottino per il cane apparentemente abbandonato. Il posto era bellissimo: tutto intorno erano boschi, precipitanti in erti pendii verso la Val Texeruda il cui fondo si scorgeva, lontanissimo, col letto bianco del fiume, la strada, i paesi sparsi qua e là, quella nebbiolina, quel senso di vita quieta, pulita e comoda che danno certi posti di montagna. Solo alle spalle la vista era bloccata. Il bosco infatti si interrompeva sotto una barriera irregolare di lastroni grigi, invasi da erbacce e da cespugli, oltre la quale non si scorgeva nulla. Questa incombente muraglia, nonostante la vastità del panorama, conferiva in certo modo angustia al sito e gli dava un'aria malinconica.

A ricevere i coniugi Ismani c'era l'ufficiale di servizio, tenente Trotzdem, che, informato del loro arrivo in precedenza, aveva fatto preparare la colazione e si mostrò gentilissimo. Gli Ismani infatti avrebbero dovuto aspettare un poco per proseguire il viaggio. Di là cominciava la zona militare riservata dove la macchina del capitano Vestro non era autorizzata a entrare. Dal Centro a cui Ismani era destinato, sarebbe scesa a prenderlo un'altra automobile. O meglio - spiegò il tenente - questa macchina era già scesa ma bisognava aspettare l'arrivo di un altro ospite del Centro: la moglie dell'ingegnere Strobele, con cui gli Ismani avrebbero fatto l'ultima parte del viaggio. Chi era questo Strobele? Dalle vaghe spiegazioni del tenente, Ismani capì che doveva essere uno dei pezzi grossi di lassù. Evidentemente l'arrivo di sua moglie era stato fatto coincidere col viaggio degli Ismani a bella posta; non già per risparmiare benzina con una sola spedizione, ma per la preoccupazione di ridurre al minimo i passaggi attraverso il sorvegliatissimo perimetro della zona militare. Entrati nella casermetta, gli Ismani furono condotti al piccolo locale della mensa. C'erano altri militari; il sottotenente Picco, il sergente maggiore Ambrosini, il sergente maggiore Introzzi. Subito il capitano Vestro si accomiatò. Disse che doveva ridiscendere al più presto per motivi di servizio, ma era evidente che non vedeva l'ora di allontanarsi di là. Partito Vestro, Ismani ebbe la sensazione che gli fosse venuto meno l'ultimo legame con la solita vita. Ormai era cominciata l'avventura. E i discorsi che sentì fare accrescevano via via la sua inquietudine. Intanto si rese conto che anche il tenente Trotzdem, Picco e gli altri non avevano nessuna idea precisa di ciò che ci fosse su, nell'altipiano. Il piccolo presidio militare aveva un compito di sorveglianza, collegato con altri vari posti di blocco dislocati intorno alla zona 36. Era uno sbarramento esterno che aveva lo scopo di impedire l'accesso agli estranei e di sorvegliare il terreno circostante. Ufficiali e soldati non appartenevano al Centro, non potevano penetrare nella zona, non facevano parte della categoria degli iniziati. Erano, quei soldati, a guardia di un segreto. Ma quale segreto fosse non sapevano. Un impianto atomico? "Professore, non lo domandi a me, per carità", disse il tenente Trotzdem. "Se non lo sa lei... Io faccio servizio qui da cinque mesi, e ne so tanto come prima. Che diavoleria staranno combinando? Il segreto... il segreto... qui non c'è altro che il segreto... per noialtri è un'ossessione, ciascuno naturalmente si fabbrica le sue teorie, si sentono fare i discorsi più pazzeschi, insomma sa cosa le dico? Beato lei che fra un paio d'ore sarà sul posto e si renderà conto. Lei penserà: qualunque cosa sia, in fondo a voi non vi riguarda, a voi si chiede soltanto un servizio di controllo. E' vero. La cosa non ci riguarda. Ma esserci a contatto, si può dire, e non saperne niente, mai niente, qualche volta dà abbastanza ai nervi. Vede quelle rocce? Basterebbe arrampicarsi fin lassù, un dislivello di neppure cento metri, non dovrebbe essere difficile. Di lassù si vedrebbe... Ma è proibito, e noi siamo militari, la curiosità costerebbe troppo cara..." Qui sorrise in un modo curioso: "Eppure... con tutto questo... Ho ai miei ordini una quarantina di soldati. E qui non c'è la minima risorsa. Completo isolamento, niente donne. Poi il segreto militare. Tutti questi misteri. Ce lo dicessero almeno a che cosa facciamo la

guardia. Insomma, diciamo pane al pane, una specie di galera... Eppure... eppure... ma lo sa che nessuno vorrebbe andarsene? Noia da morire, tutti i giorni uguali, mai una faccia di ragazza... Lei, signora", e si volse a Elisa Ismani, "lei, per esempio, mi sembra, non so neanche dire cosa mi sembra... una creatura scesa dalla luna... Eppure ci troviamo bene. Sempre allegri, di buon appetito. Me lo sa spiegare lei? Vede, signora, io sono un ignorante... però le dico una cosa, signora... se si tratta di atomica è un ben strano impianto". "Strano?" "Se non è strano quello che sta succedendo qui." "Perché? Perché", domandò Ismani, ansioso. "Ma lei, tenente", intervenne la moglie, accorgendosi che il marito si lasciava spaventare, "lei, tenente, non è tenuto lei al segreto militare? Come mai parla con tanta libertà? Chi le dice, per esempio, che noi due non siamo delle spie?" Trotzdem rise. "Ah, noi siamo fuori, per fortuna. Il segreto comincia subito dietro questa casa, noi siamo liberi... Ci mancherebbe altro. Non sappiamo assolutamente niente, di questo niente potremo ben parlare, almeno." Elisa Ismani perse la speranza che tacesse. Una volta partito, il tenente non si fermava più, evidentemente non gli pareva vero di poter dare fuori tutto quello che per mesi gli si era accumulato dentro. Un racconto alquanto confuso e nell'insieme abbastanza inverosimile. 6. I lavori per il Centro - raccontò il tenente Trotzdem - erano cominciati una decina d'anni prima. Chiusi gli accessi della zona, centinaia, forse migliaia di tecnici e operai erano stati portati sull'altipiano e sistemati in baraccamenti. Grandi lavori di scavo e di sbancamento, da principio tutti credevano che si dovesse fare una diga idroelettrica, e infatti una diga era stata costruita con la centrale relativa, ma contemporaneamente si erano andate innalzando le mura di uno stabilimento, così dicevano, anzi di vari stabilimenti. La segretezza era grandissima, gli operai provenivano tutti da fabbriche e arsenali militari con una minima anzianità di cinque anni. Del resto i vari cantieri erano completamente separati, ciascuno lavorava per suo conto e non sapeva niente dell'altro, nessuno quindi poteva avere un'idea del piano generale. Dopo otto anni di lavoro, la maggior parte degli operai era stata smobilitata. Ne erano rimasti lassù poche decine e forse meno. Evidentemente, se si trattava di una fabbrica - una fabbrica atomica ad esempio - tutto doveva funzionare automaticamente e di uomini ne bastavano pochissimi. Ma era poi una fabbrica? A lui, Trotzdem, risultava che erano state portate lassù immense quantità di apparecchiature elettriche, ma di che tipo non sapeva. La relativa quiete subentrata lasciava immaginare che da un pezzo l'impianto fosse finito o per lo meno che i più grossi lavori fossero stati condotti a termine. Ma aveva cominciato a funzionare? C'era da dubitarne: di autocarri ne salivano e scendevano pochissimi, segno abbastanza eloquente che la produzione era nulla o quasi. A meno che la materia prima venisse trovata sul posto e che i prodotti venissero sul posto immagazzinati. Altra ipotesi era che l'impianto, quale che fosse, non si proponesse produzioni di alcun genere ma una diversa attività, che immaginare era difficile. Trotzdem aveva avuto spesso occasione di avvicinare operai che per

varie ragioni salivano o scendevano dall'altipiano, ma ne aveva cavato poco o niente. Intanto erano tutti ben catechizzati e non si sbottonavano. Ma anche i pochissimi che l'impegno della segretezza non lo prendevano troppo sul serio, dimostravano di avere idee molto confuse. L'unica cosa notevole ch'era riuscito a sapere era la seguente: tranne i capi e pochissimi capitecnici, nessuno dei lavoranti aveva seguito i lavori dal principio alla fine, al massimo dopo un paio d'anni di permanenza lassù, tutti venivano sostituiti, nessuno quindi poteva avere una idea precisa di quanto era stato fatto. Molto più interessanti, anche se inspiegabili, erano, secondo il tenente Trotzdem, altre notizie ed episodi riguardanti il presidio di guardia, ai limiti esterni della zona 36; interessanti soprattutto perché egli ne poteva fare fede come diretto testimone. E fra l'altro raccontava: "Ai militari del presidio esterno era vietato rigorosamente di entrare entro il perimetro della zona militare, delimitato da una rete di filo spinato (anche sui fianchi delle rupi). Essi avevano però l'obbligo di segnalare immediatamente al comando del Centro, con le radio portatili o col telefono, qualsiasi avvistamento sospetto o novità di qualche importanza. Negli ultimi tempi le sollecitazioni dall'alto a intensificare la sorveglianza erano diventate addirittura un'ossessione, come se avessero motivo di temere qualche ostile attacco dall'esterno. "Ma lo strano era questo. Tutte le volte che le pattuglie o le sentinelle fisse facevano un avvistamento (si trattava quasi sempre di boscaioli o cacciatori), e lo segnalavano per mezzo della radio, oltre che con triplice suono di un corno, immancabilmente esse venivano precedute, sia pure di pochi secondi, da una analoga segnalazione del comando. Per esempio veniva diramato l'ordine: "Attenzione al quadrato 78 (tutta la carta topografica della zona era stata divisa in quadratini numerati) destra orografica vallone rio Sprea". Ed era esattamente il punto dove i soldati avevano proprio allora avvistato un estraneo. In certi casi l'avvertimento era ancora più esplicito: "Due sconosciuti in quadrato X costeggianti le rocce. Attenzione". E capitava talora che le sentinelle non si fossero ancora accorte di niente". Trotzdem perciò si domandava: "Che cosa significa questo? C'è qualcuno che ci controlla, non visto, ed esercita la nostra stessa sorveglianza, anzi ci supera in tempestività e precisione? Ma chi? E da dove? Loro, guardie, non avevano mai scorto nessuno nei paraggi, né sul ciglio delle rupi sovrastanti erano mai stati visti uomini di fazione. O bisognava ammettere che quelli del comando fossero dei maghi?". "Ma lei, tenente", domandava Ismani, "gli impianti, lassù, non li ha mai visti?" "Mai. Le ho detto che noi, del presidio, siamo esclusi. Qui intorno non si vedono che boschi, e rocce. Solo dal vallon degli Angeli, sarà un chilometro da qui, si può vedere qualche cosa." "Che cosa?" "Mah... come un pezzo di muro, liscio, senza né feritoie né finestre. E dietro il muro si intravede un'antenna, altissima, un po' come quelle della radio. E in cima una specie di globo." "Una sfera?" "Pressappoco. Qualcuno dice di averla vista muoversi."

"Muoversi come?" "Girare su se stessa." "E a cosa serve?" "A me lo chiede? Mistero. Tutto qui è un mistero maledetto. E chi sa magari per che stupidaggine." "Lei non crede che sia un impianto atomico?" "Le ho già detto. Per quello che ne può sapere un ignorante come me... Io dico che se fosse un impianto atomico, si dovrebbe veder passare molto più materiale. E poi..." "L'unica comunicazione", chiese Ismani, "è questa strada?" "Per il materiale c'è anche una teleferica, ma noi vediamo quando passa, se è carica o no", intervenne il sottotenente Picco che dal tavolo accanto, dove sedeva solo, aveva seguito i loro discorsi, "su, gli dica della voce..." Trotzdem alzò le spalle: "Non gli badi, professore. A questa io non ci credo. Per mio conto, è una leggenda. Dicono, molti dei soldati qui, che si sente una voce. E non sembra voce d'uomo". "Viene dall'alto?" "Sì." "E che cosa dice?" "Ah, non riescono a capirlo. Certi sostengono che è una lingua straniera e perciò non si capisce. Altri dicono che è troppo lontana. Io non l'ho mai sentita." Ismani si rivolse al sottotenente Picco: "E lei?". "Io... mi è sembrato, qualche volta... ma onestamente non potrei giurare..." "Lo vede?", fece Trotzdem. "Quando si vuole andare al sodo, non si cava un ragno dal buco. Tutti ne sentono parlare, tutti giurano che è vero, mai uno però che dica: "L'ho sentita io, in quel tal giorno, in quella tale ora". Fantasia, nient'altro che fantasia e del resto non c'è da meravigliarsi: sempre, dove c'è un grande segreto, girano le voci più assurde, come in guerra." "E perché allora non gli racconti la faccenda dei cani?", ribatté Picco al tenente. "Quella, almeno, l'hai vista anche tu." "I cani?" "Sì. Un altro dei tanti fenomeni inspiegabili", disse Trotzdem. "Dei cani che avete qui?" "Che avevamo. Due lupi. Ma non si è potuti tenerli. Appena arrivati qui, si sono messi in una tale agitazione!" "Abbaiavano?" "Non abbaiavano mica, no, questo il curioso. Piangevano piuttosto. Smaniavano di andare su." "Su dove?" "Lo sa Dio, dove. Su per le rocce, là... Insomma, abbiamo dovuto rispedirli via." "Ma solo questi, oppure anche altri cani?" "Pare che sia la regola qui. Anche un volpino, che un giorno ha portato su il sergente Introzzi, anche quello lì si è messo subito a guaire in direzione delle rocce, per poco non è andato in convulsioni..." In quel mentre si udì il rumore di un'auto che arrancava su per l'ultima salita. Guardarono fuori. Era in arrivo la macchina con la signora Strobele.

7. Olga Strobele portò l'allegria e la vita. Era sui 28 anni, snella, capelli rossi, pelle bianca punteggiata di lentiggini, occhi tagliati a mandorla, labbra sporgenti in un'espressione insieme di offerta e di sdegno, faccia spavalda, allegra e provocante, vita sottile, gambe forti e puntigliose. Bella donna piena di carattere, un tipo da far voltare la gente per la strada. Appena vide Ismani: "Ma lei", disse, "una volta, parlo di undici anni fa, insegnava al Tommaseo?". "Sicuro. Ma come fa a saperlo? Per quattro anni ho insegnato algebra in liceo." "Ah canaglia. Mi guardi. La mia faccia non le dice niente?" "Ma sì, mi pare... sono così poco fisionomista... e poi voi donne da un anno all'altro..." "Olga Cottini, si ricorda? Ics uguale due per radice quadrata di... Mi ha bocciata e non si ricorda neanche... Vedrà se non mi vendico..." "Se avessi saputo... se avessi potuto prevedere...", fece lui stupidamente, rosso di confusione. "Qua, facciamo la pace, le perdono", e così dicendo l'abbracciò, dandogli due baci sulle guance. Poi si rivolse alla signora Ismani. "Mi scusi, sa. Giancarlo dice sempre che sono una selvaggia... Ma ammetterà, incontrare il professore che ci ha bocciati! E incontrarlo quassù, poi... Ah se l'ho odiato, suo marito. Quante maledizioni. Però, me lo lasci dire, professore, agli esami lei era un po' carogna, sa... Con me, poi... Mi vendicherò, le dico." Elisa Ismani non si formalizzò. Le faceva anzi piacere che una donna così gaia e esuberante venisse su con loro. Per suo marito sarebbe stata una iniezione d'ottimismo. La gelosia neppure la sfiorò, benché capisse che Olga Strobele dovesse piacere maledettamente agli uomini. Era così sicura del suo Ermanno. Le chiese: "E' da molto sposata col professore Strobele?". "Quasi tre mesi." "E lei abita lassù?" "No, è la prima volta che ci vado. Come moglie, finora, poche soddisfazioni, sa? Sposati, un viaggetto di nozze, dieci giorni, poi Vademecum mi ha lasciata vedova." "Vademecum?" "Non ci badi. A me piace scherzare. Vademecum, per la mania che ha di spiegare sempre tutto. Dopo dieci giorni, insomma, mi ha piantata. Lavori urgenti, massimo segreto. Ci lavora da almeno dieci anni lassù al Centro, non gli bastava ancora. Chi s'è visto s'è visto." "Ma adesso va a raggiungerlo." "Starò lassù venti giorni, un mese al massimo. Poi ritorniamo insieme. Il suo lavoro è ormai quasi finito, così mi ha detto." "Che lavoro?", azzardò Ismani. "Mah, io proprio non glielo saprei dire." "Chi sa che impianto grandioso." "Che impianto?" "Quello lassù, dico." "Perché? Lei non c'è mai stato, professore?" Olga lo guardò piegando un po' la testa come chi ha la sensazione di un tranello. "Non c'è mai stato, dice?" "Mai." Ansioso di sapere, Ismani avrebbe voluto insistere, ma capiva bene che non era il caso di fare domande indiscrete alla presenza di

Trotzdem e Picco. A interrompere il colloquio, mentre già calavano le ombre della sera, arrivò l'auto del Centro a prelevarli; la guidava un militare. Così gli Ismani e la signora Strobele, preso commiato da Trotzdem e consegnatigli i più grossi bagagli (li avrebbe spediti su all'indomani con altro mezzo), partirono verso l'altipiano. Poco dopo il posto di blocco la strada si raddrizzava bruscamente, diventando ripidissima. Ci si vedeva ormai poco, anche a motivo della nebbia. A un certo punto la strada finiva bruscamente sotto un'alta parete verticale di colore giallo. Nella penombra Ismani sulle prime non si accorse che a filo delle rocce c'era una grande porta di ferro. Poi notò che da una parte e dall'altra là dove la ripidezza della rupe era minore, si dipartiva uno sbarramento triplo o quadruplo di filo spinato. E certi cosi tondeggianti che sporgevano, forse isolatori, gli fecero pensare che ci passasse la corrente. Non c'era anima viva. Faceva umido e freddo. Il posto era singolarmente selvaggio e inospitale. L'autista disse: "Può darsi che ci sia qualche minuto da aspettare. Quando sono sceso stavano lavorando nel tunnel, deve essere successa una piccola frana". "Lei ha avvertito che noi siamo qui?", domandò Elisa Ismani. "Non c'è bisogno", il soldato disse, "loro lo sanno." "Come?" L'autista fissò la signora, incerto se rispondere. Poi, evidentemente persuaso dalla faccia, senza parlare, fece segno con l'indice alla porta di ferro, là dove si notava appena una specie di piccolo riquadro. Elisa non chiese altre spiegazioni. "Doveva esserci", pensò, "qualche apparecchio fotoelettrico, o televisivo, o diavoleria del genere." "Be', io scendo a fare due passi", disse Olga Strobele, "se no mi vengono le formiche nelle gambe." "Scendo anch'io", disse Ismani, smanioso di sapere. Per sgranchirsi, scesero qualche decina di metri per la strada, tagliata sul precipizio. La nebbia impediva di vedere quanto profondo fosse. Soltanto vaghe ombre evanescenti di ronchioni a strapiombo, di abeti aggrappati a posti inverosimili. Con una strana sensazione di piacere che non aveva mai provato, Ismani si sentì prendere a braccetto da Olga Strobele, quella donna che sarebbe stato così bello poter desiderare. Ne sentiva il profumo; mescolato alla nebbia, all'umido, al gusto di resina ch'era nell'aria; non aveva mai sentito un odore così buono. Lei taceva, forse faceva apposta, aspettava che parlasse lui, per il gusto di mettere l'uomo in imbarazzo. Ismani guardò indietro, nella caligine crescente l'auto non si vedeva quasi più. "Be', signora", disse finalmente, "qui non c'è nessuno che ci senta. Mi dica. Si può sapere che cosa fanno lassù, al Centro?" "Professore", rispose lei, scherzosa, "lei ce l'ha proprio su con me. Bocciata, mi ha bocciata. Vuol prendermi anche in giro?" "Benedetta figliola, lo saprà pure cosa sta facendo suo marito." Lei scoppiò in una risata, strana in quel posto: "Mio marito? Ma anche lei lo sa. Se lo fanno venire su al Centro, professore, sarà pure bene informato, no?" "E invece no, io non so niente, non mi hanno detto niente." "Chi non le ha detto?"

"Quelli del ministero." "E lei ha accettato lo stesso di venire?" "A quanto pare. Ma io non son fatto per questi misteri: a me piacciono le..." "Ne so meno di lei." "Ma suo marito non le ha spiegato? Non le ha detto che cos'è questo misterioso Centro? Le avrà pur raccontato qualche cosa. Pressappoco almeno, lei saprà, no, che cosa fanno." Ismani sentì risalire l'inquietudine, smarrimento, quel sentirsi così piccolo di fronte a cose immense e minacciose, un'angoscia che aveva già provato in guerra. "Povera me, mi bocci pure, io non le so rispondere." "Ma che cos'è? Una fabbrica?" "Chi sa. Giancarlo parlava di un laboratorio." "Laboratorio come? Chimico?" Si udì un suono di clacson. "Professore, ci chiamano. Sesamo apriti, la montagna si è aperta... con tutto il suo comodo s'intende. Andiamo?" Buttò la sigaretta. Il puntino rosso della brace volò nel precipizio, inghiottito silenziosamente dalla nebbia. Si avviarono alla macchina. Olga si mise quasi a correre. "Be', insomma", fece Ismani stentando a starle dietro. "Be', insomma non sa proprio dirmi?" Lei neppure lo sentì. 8. Quando arrivarono era già notte e pioveva. Per un tratto la macchina era salita per una galleria scavata nella roccia. A un certo punto erano giunti a un largo spiazzo dove c'erano quattro grandi porte chiuse da saracinesche. Allora si era fatto di colpo buio spente le lampadine sul soffitto, spenti anche i fari della macchina. "Che cosa c'è?", aveva chiesto Ismani, impressionato. "Niente, signore, qualche secondo di pazienza", era stata la risposta dell'autista. Nelle tenebre si era udito il rumore di una saracinesca che saliva. Quale delle quattro? Poi, senza accendere, guidato forse da un puntino rosso acceso su di un piccolo quadrante del cruscotto, l'autista si era messo in marcia lentamente. Poco dopo, alle loro spalle, il rombo della saracinesca che scendeva. E le luci si erano riaccese. La galleria continuava, ripida e a lunghi giri su se stessa, fino a un secondo spiazzo, quasi uguale al primo, solo che le porte erano tre. Qui si era ripetuta la manovra, con lo spegnimento delle luci. Né si era vista anima viva. Ancora un tratto che Ismani aveva valutato di circa quattrocento metri. Quindi erano sbucati all'aperto; sull'altipiano, era presumibile. E adesso erano dinanzi a una bassa e nuda costruzione, simile a una casamatta, con qualche piccola finestra illuminata. Ismani, appena sceso di macchina, si guardò intorno sperando di veder qualche cosa. Ma, tranne l'ingresso di quel posto di guardia, tutto era immerso nel buio. Gli parve però di scorgere, ai lati della costruzione, un muro di cinta alto circa quattro metri che si perdeva nelle tenebre. Forse era l'ultimo recinto. In quel mentre un uomo sui

quarant'anni si avvicinò facendo cenni di saluto: il professor Giancarlo Strobele. Era Strobele un uomo elegante, dal volto intensamente intellettuale, che esprimeva sicurezza di sé. Ismani, che non lo aveva mai visto, fu colpito, e non gradevolmente, dal suo "aplomb" da gran signore. Gli abbracci con la moglie, le cordiali presentazioni con gli Ismani sulla soglia. Entrarono nel casotto simile alla portineria di uno stabilimento industriale. Per un breve corridoio Strobele li condusse a una porta, opposta a quella donde erano entrati; e riuscirono all'aperto. Qui attendeva la macchina, che nel frattempo aveva fatto il giro della casa, entrando da un ingresso laterale. Più in alto, a qualche centinaio di metri di distanza, risplendevano dei lumi, come di case. Sempre sotto la pioggia l'auto si avviò per un ripido viale, nella luce dei fari apparivano e sparivano lembi di prato, qualche roccia, gruppi di larici ed abeti. Ormai erano prossimi alle luci. "Ecco", spiegò Strobele quando furono discesi sotto l'atrio di un villino di gradevole aspetto, a forma di "chѓlet". "Questa sarà la vostra casa. Laggiù", e fece segno a un altro "cottage" più sotto, "abito io. Quell'altra, lassù, è la casa del nostro capo, Endriade. Ma ci sta pure, al primo piano, il maggiore Mirti, ispettore del ministero della guerra. Ora, vi prego, accomodatevi, fa freddo, spero che sia stato acceso il caminetto. Per aiutarla, signora, c'è un'ottima ragazza, la cameriera di Aloisi... Tu Ismani l'hai conosciuto, vero?" "Aloisi?" "Già, chi non lo conosceva? Viveva qui da dieci anni, si può dire. Un uomo eccezionale, delle sue invenzioni la gente non ha mai saputo niente, eppure verrà il giorno... E' morto un paio di mesi fa." "E' morto qui?" "Aveva la mania della caccia, andava solo su per le montagne. Una sera non è più tornato. Lo abbiamo trovato tre giorni dopo. Precipitato da un dirupo. Per noi... una tragedia in tutti i sensi. Quel poco che si è fatto qui al Centro", fece un sorriso pieno di intenzioni, "lo si deve ad Aloisi per almeno il cinquanta per cento. Se la disgrazia fosse successa quattro o cinque anni fa, chi sa se Endriade e io, chi sa se si riusciva a concludere... a realizzare quello che..." "E io?", chiese timidamente Ismani preso da un senso di disagio. "Io dovrei... mi hanno mandato quassù per... insomma sarei io il suo successore?" "No, no. Non credo. Se mai tu dovrai sostituire qualcuno, il qualcuno sarei io..." "Tu? Perché? Te ne vai?" "No, non adesso. Fra un mese e mezzo, due mesi. Grazie a Dio il ciclo, per così dire, il ciclo del mio lavoro è praticamente terminato. Ecco il soggiorno, là c'è un piccolo studio, di là si va nell'"office" e dietro c'è la cucina, le camere da letto sono sopra. Nel complesso, posso dirlo io che ci abito da anni, queste casette sono organizzate bene, unico inconveniente, se mai, ma confesso che a me non dà fastidio, la scala di legno all'inglese inglobata nel soggiorno, certi preferiscono avere le camere da letto completamente disimpegnate, e poi c'è l'inconveniente dei rumori, questo sì, le porte sono di legno massiccio, ma se qualcuno tiene accesa la radio qui dabbasso, è inutile, nelle camere si sente, però io penso che voi siete appena in due e per la verità la Giustina è silenziosa, sembra un gatto alle

volte da come scivola senza far rumore, oh eccola..." 9. Ismani incontrò Endriade e sua moglie poco dopo a pranzo, in casa degli Strobele. Ricordava vagamente di averlo visto di sfuggita in qualche congresso. Adesso gli parve un altro. Era diventato uno di quegli uomini imponenti, decorativi, profetici, da premi Nobel, tanto sicuro della propria intelligenza superiore da sfiorare l'istrionismo. Vestito malamente, una lunga e disordinata criniera di capelli grigi, un grosso naso, un parlare vivace e imprevedibile. Avrà avuto 55 anni. Proprio l'opposto era sua moglie, una signora sui cinquant'anni, modesta, mite, silenziosa e vagamente malinconica. Di fronte a quella personalità così marcata e prepotente, Ismani si sentì meno che zero. Ma aveva una tale smania di sapere che riuscì a farsi coraggio. Quel maledetto segreto per cui Giaquinto al ministero, il capitano Vestro, il tenente Trotzdem e perfino Strobele nel primo affrettato incontro gli avevano taciuto lo scopo della sua missione, cominciava ad essere grottesco, quasi una congiura per esasperarlo. "Voi riderete", disse, febbrilmente, appena si furono seduti a tavola, e ben capiva di mettersi così in una situazione d'inferiorità che poteva sollecitare nei due colleghi il gusto di approfittarne, "ma io qui sono una specie di intruso..." Strobele: "Intruso? Non hai le carte in regola?". Ismani: "Intruso... estraneo... Voglio dire che non so ancora niente. Niente di niente". Strobele: "Niente di cosa?". Ismani: "Di quello che dovrò fare qui, di quello che voi state facendo qui". Strobele: "Te lo avranno spiegato al ministero, no?". Ismani: "Niente". Endriade: "Ma è straordinario! Quasi incredibile! Che le misure predisposte da Giaquinto e soci non siano completamente inutili? Il segreto, una volta tanto! Ma sentiamo un poco: lei, Ismani, che idea si è fatta? Avrà pure immaginato qualche cosa. Sarà curioso, no?". Ismani: "Sì, da principio mi ero messo addirittura in mente la bomba atomica, ma vari indizi, sa...". Endriade: "Niente bomba atomica, grazie a Dio. Qualcosa di molto più tranquillo, possiamo dire, nello stesso tempo molto più pericoloso, forse. Vero, Strobele?". Strobele: "Pericoloso? Pericoloso non direi". Elisa Ismani: "Allora, non lo volete dire? Forse perché ci siamo noi donne?". Endriade, divertito: "Lei, signora, che supposizioni ha fatto?". Elisa Ismani: "Io? Non ho la lontana idea". Endriade: "E lei signora Strobele?". Olga si aggiustò con noncuranza un lembo della inquietante scollatura: "Dai discorsi che fate, anzi non fate, ho paura che non sia una cosa divertente". Strobele: "Ma Olga!". Olga: "Perché? Non ho offeso nessuno. Ma se fate tanti misteri vuol dire ch'è una cosa importante e non c'è niente di più malinconico delle cose importanti, sarebbe così bello se si potesse farne senza. Del resto voi scienziati siete dei tesori non dico di no, ma quando vi

mettete a far sul serio siete talmente noiosi". Endriade: "Davvero! Ma c'è speranza. Se sia una cosa importante o no non lo sappiamo ancora". Cambiò espressione, si concentrò in ascolto: "Dio, che diluvio". Si udiva infatti lo scroscio accompagnato da lontani rotti brontolii di tuono. Endriade ebbe un moto di fastidio. Olga: "Professore, lei ha paura?". Endriade: "Per essere sincero, non lo so". Elisa: "Intanto vi guardate bene dal rispondere". Endriade: "Be', cara signora, la cosa è molto semplice. Quassù abbiamo un laboratorio sperimentale di natura, come dire?, riservata. E' esatto, vero, Strobele?". Strobele: "Esattissimo". Endriade: "Nello stesso tempo possiamo dire che quassù si sta facendo... facendo una difficile esplorazione nel regno della natura. E' esatto, Strobele?". Strobele: "Esatto". Endriade: "Nello stesso tempo possiamo dire che quassù sull'altipiano c'è una specie, una specie di... di palestra per l'allenamento delle facoltà mentali... uno stadio, ehm, ehm, con impianti ultra-moderni", rise soddisfatto. "Mi sembra, Strobele, di essere stato esatto". Strobele: "Esattissimo". Endriade: "Dunque, Ismani, soddisfatto?". Ismani, duro, ormai troppo inquieto per poter stare allo scherzo: "Ne so esattamente come prima". Endriade, in una gran risata: "Ha tutte le ragioni, Ismani. Mi perdoni sa, a me piace scherzare. Di quando in quando. Mi perdoni. Allora spiegagli tu la cosa, Strobele, tu che sei professore nato". Con evidente soddisfazione Strobele si schiarì la voce: "Caro Ismani, tu ti trovi per l'esattezza al Campo sperimentale della zona militare 36, questa la definizione ufficiale anche se impropria, dove si...". Olga batté tre volte col coltello sull'orlo del bicchiere. Sembrava irritata (o era uno dei suoi tiri?). Si fece silenzio. "Scusatemi", disse con un sorriso malizioso, "forse vi sembrerà una prepotenza. Ma mi vedo costretta a usare il mio diritto di padrona di casa." "Che diritto?", fece il marito imbarazzato. "Quello di chiedervi..." "Non so", Endriade la interruppe, guardandosi il vestito come in cerca di una macchia, "non mi sembra di aver fatto, o detto, niente di mostruoso." "Chiedervi una cosa semplicissima: cambiare argomento di conversazione". "Ma perché?", fece Strobele, vedendosi sottratta la gioia di fare la sua conferenza. "Perché? Il perché ve lo dirò a suo tempo." "Mi sembra un modo un po' curioso di..." "Oh, non fate per carità i musoni, non vi chiedo poi questo grande sacrificio." "Signora", disse Ismani che da troppo tempo stava sulle spine, "sinceramente avrei preferito..." "Sapere che cosa si sta facendo quassù al Centro eccetera... non è così, caro professore? Ma di cosa ha paura? Lei è tra amici." "Appunto per questo." "E proprio lei io dovrei favorire? Proprio lei? Si dimentica che fra

noi due c'è in sospeso un grosso conto? Se posso vendicarmi..." "Mio Dio, credevo, dopo tanti anni...", disse Ismani, incapace di prendere la cosa con spirito; poi di colpo cambiò espressione: "Che cos'è questo? Non sentite?". "La pioggia, il rumore della pioggia." "Sento come un suono di campana." "Di campana?", fece Endriade ironico. "Quassù, non ce ne sono." Era una diffusa e lieve risonanza, tuttavia profonda, come se provenisse da una remota cavità; simile alla vibrazione di una immensa ma sottile lastra di metallo. "Anch'io la sento", disse Elisa Ismani. Per qualche istante tacquero, ascoltando. Il rumore svanì. "Mah", disse Strobele, "io non sento proprio niente." Allora Endriade chiese a Ismani: "Aloisi, lei l'ha conosciuto?". "No." "Anche lui diceva che di notte...", si fermò, come ascoltando, parve tranquillizzato, si volse alla signora Ismani, sorridendo le sussurrò, quasi fosse un segreto fra loro due, ma pure gli altri udirono: "Era un genio". "Anche lui?", fece Olga beffarda. "Sì, certo", rispose Endriade come fosse la cosa più naturale del mondo. "E diceva che di notte si udivano strani rumori. Ma io non gli credevo, non gli ho mai creduto, erano fissazioni, e adesso voi sentite una campana, ma io non ci credo, questa campana non esiste, probabilmente è uno di quei falsi suoni che par di udire quando si cambia rapidamente di altitudine come oggi lei Ismani... Però", e qui la voce fece un brusco scarto assumendo un tono ansioso, "però dovremmo stare tutti più attenti, occhi e orecchie aperte, non sarà mai abbastanza, gli anni scorsi io ero più tranquillo, la sorveglianza c'è, non mancano i controlli, gli strumenti d'intercettazione sono quanto di più perfetto si possa desiderare, eppure io li sento qui intorno, giorno e notte, come topi che rodono, che rodono per scavarsi una strada, non sono mica tutti imbecilli come al ministero dove credono che quassù si stian facendo i giochi e noi si mangi il pane a ufo, c'è anche chi ha capito, o per lo meno sospetta, e ha paura, e farebbe di tutto, assolutamente di tutto per mandare in malora la nostra... il nostro..." "Il nostro impianto", suggerì Strobele. "Impianto. Perché a che punto si è giunti lo sappiamo solamente in tre, e domani con lei, Ismani, saremo quattro, nessun'altra persona al mondo ne è informata ma, qualche cosa, quelli lì possono averlo indovinato, e tremano. Vagamente hanno intuito, lo giurerei, hanno intuito questa spaventosa verità: che se noi, qui, si riesce, diventiamo...", e batté un pugno sulla tavola facendo sobbalzare le stoviglie. "Endriade!", fece Strobele, supplicandolo di calmarsi. "Diventiamo i padroni del mondo!" 10. Solo verso mezzanotte Ermanno ed Elisa Ismani, stanchi, presero commiato dagli Strobele e, sotto l'acquazzone, raggiunsero la villetta dove avrebbero abitato. Li accompagnarono a piedi gli Endriade che abitavano ancora più in là. La Giustina era già andata a dormire, ma trovarono tutto preparato.

Nonostante lo strapazzo del viaggio, Ismani non aveva sonno. A eccitarlo erano forse la stranezza del posto, la gente nuova, l'impazienza di sapere, l'aria rarefatta della montagna. Ma invece di sentirsi contrariato e nervoso, si trovava in una vivace e lieta disposizione di spirito, cosa in lui piuttosto rara. Aveva voglia di camminare, di scherzare, di ridere. "Ma anche tu, Elisa, mi sembri allegra, stasera." "E' un fatto. Sarà l'altitudine. Mi sento quasi una ragazzina." La villa, arredata in stile rustico, era accogliente e pulitissima. Si sarebbe detto quasi che prima di loro nessuno fosse venuto ad abitarci. Per quanto curiosasse intorno, Ismani non trovò un oggetto, un segno che potesse riferirsi alla permanenza di Aloisi. Perfino i libri che riempivano uno scaffale non denotavano una personalità. C'erano testi scientifici in varie lingue, relativi soprattutto all'elettrofisica, ma sembravano capitati là per caso, mescolati com'erano a libri gialli, a romanzi d'amore, a opere storiche e biografiche, c'era perfino un manuale di cucina. Certo quella non pareva la biblioteca di un genio. In quanto alle cose più personali di Aloisi, tutto era stato portato via: non un soprammobile, una fotografia, una scatola di sigarette, un foglio di carta, uno spillo che potesse ricordare lo scomparso. Salito infine in camera da letto, Ismani, che al buio completo non riusciva a dormire, per prima cosa andò a controllare le finestre. Le imposte, come aveva previsto, erano ermeticamente sprangate. Ne aprì una. Rimase stupefatto. Nel giro di pochi minuti, sfogatosi il temporale, il cielo si era completamente aperto e ora una limpidissima luna illuminava il mondo. "Vieni a vedere, Elisa!" Restarono immobili a guardare. Dinanzi a loro, risplendente di quella magica luce, si stendeva l'altipiano: una prateria tutta a dossi e valloncelli con qualche nera macchia d'abeti. Ma, a una distanza di cinquecento metri circa, biancheggiava fra gli alberi una costruzione bassa e irregolare, a rientranze e sporgenze, che da lontano non si capiva se fosse un semplice muro di cinta oppure un vero e proprio edificio. "Eccolo là il grande mistero", disse Elisa, "non mi sembra gran che impressionante." "Andiamo a vedere?" "A quest'ora?" "Ma non vedi che stupenda notte?" "L'erba sarà ancora tutta bagnata. Con quelle scarpe ti prenderai un raffreddore, garantito." "Invece, se vuoi sapere, tengono l'acqua benissimo." "Be', mettiti almeno il soprabito." Uscirono nella favolosa luce. Lavata l'aria dalla tempesta, anche le cose lontane diventavano nitidissime. Avanzando essi all'aperto, l'orizzonte si allargava. Di là dei vasti prati apparve una barriera di foreste, e dietro ancora una giogaia candida di rupi. Tutto era quieto, silenzioso, bellissimo e pieno di mistero. Si avvicinarono alla bianca costruzione. Da quanto era possibile capire sembrava una lunga casamatta, che seguiva gli scoscendimenti e della quale non si scorgeva il termine. Ne derivava un complesso di piatti edifici apparentemente quasi uguali ma disposti uno più in alto e uno più in basso, a seconda della pendenza del terreno, con effetto

pittoresco. Fra l'uno e l'altro - a quanto si poteva intravedere nella luce della luna sempre vaga ed elusiva anche se intensa - non c'erano però varchi di sorta. Essi formavano insomma una barriera ininterrotta, simile a certe antiche fortificazioni militari. Giunti ai piedi del muro, in quel punto illuminato in pieno dalla luna, guardarono in su. Sarà stato alto sette-otto metri, liscio e uniforme, senza una finestra, un balcone, un lucernario. Non si trattava dunque di abitazioni e neppure di luoghi dove potesse verosimilmente lavorare l'uomo. Bensì di involucri lunari contenenti cose inanimate come per esempio macchine, che non abbisognavano d'aria e di luce; oppure, appunto, di uno speciale fortilizio. Ma la ridotta, o lunga casamatta, o serie di padiglioni o come diavolo si poteva chiamare, non aveva la fisionomia atona e morta che può avere, per esempio, una cabina di trasformazione e neppure l'ermetica apatia che è propria delle tombe (così chiuse e concentrate in se stesse, indifferenti alla vita intorno). Ermanno ed Elisa Ismani, dopo un poco, notarono che nel muro si aprivano, qua e là, vari orifizi sfuggiti a un primo esame: rotondi, quadrati o a sottile feritoia, riparati da sottili reticelle. Alcuni d'essi, più rari, di forma circolare, erano muniti di cristalli convessi, sporgenti, simili a lenti, paragonabili a pupille; e vi scintillava il riflesso della luna. Ora che guardavano meglio, si accorsero pure che oltre il ciglio superiore del muro sporgeva una nera selva di piccole antenne, schermi a filigrana, reti concave come quelle del radar, tubi sottili anche, con in cima una sorta di berretto che li faceva somigliare a dei minuscoli comignoli, e perfino dei curiosi ciuffi che ricordavano i piumini per la polvere. Erano opache, di colore azzurro e perciò a una prima occhiata, soprattutto di notte, non era facile distinguerle. Immobili, guardavano, nel grande silenzio della notte. Ma silenzio non era. "Senti?", domandò Ermanno Ismani. "Sì, sì, mi pareva." Di là del bianco muro, infatti, ad ascoltare attentamente, veniva una specie di brusio, vasto e profondo eppure appena percettibile, simile all'impalpabile rumore che fanno le formiche quando si rompe la cupola della loro casa e gli insetti sgorgano dalle crepe a centinaia correndo sulle macerie come pazzi. Un ticchettio lievissimo, nella cui flebile trama si distinguevano di quando in quando piccoli suoni irregolari, fruscii lontani, scatti, gorgogliare sommesso di liquidi, ritmici sospiri, così lievi ch'era quasi impossibile dire se fossero veri o invece non provenissero dal sangue che talora rimbomba nelle tempie. Una specie di vita ferveva dunque nel chiuso della segreta rocca, apparentemente addormentata. Del resto, tutte quelle piccole e multiformi antenne emergenti dal ciglio non erano perfettamente ferme. Osservandole a lungo si notavano minime oscillazioni, pareva, un travaglio senza posa. "Che roba è?", chiese a bassa voce Elisa Ismani. Il marito le fece cenno di tacere. Gli era parso che ai piedi del muro, a una cinquantina di metri, qualcosa si muovesse. E allora, richiamata da una oscura associazione di idee, gli riecheggiò alla memoria la grottesca minaccia pronunciata da Endriade: "Diventiamo i padroni del mondo". In quel momento preciso vide Endriade. Dal sovrastante pendio erboso lo scienziato scendeva a lenti passi, come assorto, rasente al muro di

cinta, parlando ad alta voce, apparentemente con se stesso. Infatti, accanto a lui, non si vedeva anima viva. Con in testa un cappello a larghe tese, illuminato in pieno dalla luna, era goffo e romantico. Tale la pace meravigliosa della notte che, nonostante la distanza e quel vago brusio, gli Ismani udirono qualche sua parola. "Si può, si può", diceva Endriade. "Ma non è questo che ci deve..." Poi videro una cosa strana. Endriade si fermò, rivolto al muro e per un istante Ismani pensò che volesse fare la pipì. Invece continuò a parlare, toccando il muro stesso lievemente con una specie di grosso bastone; sembrava un padre che catechizzasse il figlio. Qualche parola si percepiva, ma abbastanza per afferrare il senso. Tre quattro volte ripeté: "Non capisco, non capisco". A Ismani parve sconveniente stare là a osservarlo ed ascoltarlo senza che lui sapesse. Per rivelare la sua presenza tossicchiò. Come se l'avesse colto una frustata, Endriade fece uno scarto, e annaspando si ritrasse in una concavità della parete. "Chi è là? Chi è là?", gridava con voce di spavento. E, tenendosi riparato dallo spigolo, puntava contro Ismani quel suo grosso bastone: che alla luce della luna luccicò, e Ismani si accorse che era un fucile. "Ma, professore, sono io, Ismani... Ero uscito con mia moglie a fare quattro passi..." La canna del mitra si abbassò. Endriade venne incontro. Era ispido e molto imbarazzato. Cercò, ingenuamente, di dare qualche spiegazione. "Io faccio un giro, sapete, tutte le sere prima di coricarmi faccio un giro di ispezione. Eh eh", ridacchiò, "armato, si capisce, questo bel coso me l'ha procurato il maggiore Mirti. E' americano. D'alta precisione." "E mai cattivi incontri?" "Grazie a Dio finora no. Io giro, guardo, penso... parlo...", fece una pausa come se stesse saggiando il terreno su cui procedere, "parlo... faccio progetti. Ma voi, però, mi avete fatto una bella paura, voi...", e rise. Poi fece cenno alla casamatta. "Di questo poi, eh eh, parleremo domani. Vi farò entrare, vedrete come è fatto dentro. Meglio di giorno. La notte... oh la notte qui fra le montagne non è raccomandabile..." "Per il freddo?", fece Ismani. "Per il freddo e tante altre cose..." Endriade li accompagnò fino alla villetta. Fermi sulla soglia, gli Ismani lo videro allontanarsi per il prato, figura un po' grottesca e straordinariamente viva. "Ermanno", disse la moglie, "con chi parlava quello là?" "Ma con nessuno. Parlava da solo. C'è tanta gente che parla da sola." "C'era qualcuno. Giurerei che c'era qualcuno." "Lo avremmo visto se ci fosse stato." "Io so che qualcuno c'era. L'ho sentito parlare." "Parlare? Io non ho sentito niente." "Una voce un po' strana, questo sì. Probabilmente tu non ci hai badato." "Hai sognato, cara la mia Elisa." 11. Endriade, gli Strobele e gli Ismani andarono a visitare l'impianto che

il sole era già alto. Tempo meraviglioso, le montagne incombenti risplendevano con le pareti bianche e pure. Attraversarono i prati, giunsero alla cinta di basse mura: c'era una porticina di ferro dinanzi a cui aspettava il capotecnico Manunta. Manunta aprì, percorsero un corridoio stretto illuminato fiocamente. Manunta aprì una seconda porta. Riuscirono all'aperto su una terrazza. Erano entrati. Per qualche minuto né gli Ismani né Olga fiatavano, tale era lo spettacolo. Dinanzi a loro, sprofondava un botro, un vallone senza sbocchi, un ripidissimo cratere che si prolungava tortuoso a perdita d'occhio. Dal fondo, dove un tempo forse scrosciavano le acque di un torrente, fino al ciglio, le pareti erano interamente ricoperte di strane costruzioni, come scatole, attaccate l'una all'altra, che formavano una babelica successione di terrazze, accompagnando le sporgenze e le rientranze delle rupi. Ma le rupi non c'erano più, né si vedeva vegetazione, o terra, o acque correnti. Tutto era stato invaso e sopraffatto da un accavallamento di edifici simili a silos, torri, mastabe, muraglioni, esili ponti, barbacani, caselli, casematte, bastioni, che si inabissavano in vertiginose geometrie. Come una città si fosse abbattuta sui fianchi di un burrone. Ma c'era un elemento esageratamente anormale che dava a quelle architetture qualcosa di enigmatico. Non esistevano finestre. Tutto appariva ermeticamente chiuso e cieco. E un'altra circostanza si aggiungeva ad accrescere quel senso di mostruoso: non si vedeva anima viva. Eppure la allucinante bolgia non esprimeva la morte o l'abbandono. Anzi. Benché non si vedesse nulla muoversi, si percepiva, sotto l'involucro, una vita arcana che stesse fermentando. Perché? Forse per il brulichio delle antenne metalliche, dalle più bizzarre forme, che spuntavano dai ciglioni sommitali? Forse per il confuso coro di sommessi ronzii, risonanze, sussurri, lontani scrosci e tonfi, che lievitava sopra la dirupata cittadella, e andava e veniva a lente ondate (e forse non era che il rombo cavernoso del silenzio)? Forse per le vibrazioni della solitaria antenna metallica a traliccio che da un fianco del vallone si innalzava altissima sovrastando di molto il ciglione sommitale. Essa reggeva in cima una coffa sferica tagliata da complicate feritoie che assomigliava vagamente a un elmo antico. Di più. C'era nella singolarissima visione, nonostante la nudità, una bellezza potente e in certo senso inesplicabile: che non era il tetro incanto delle piramidi, dei fortilizi, delle raffinerie, degli altiforni, dei grandi stabilimenti carcerari. Anzi. La prospettiva, apparentemente caotica, di torri, serbatoi, padiglioni di ogni forma immaginabile rallegrava, chi sa come, l'animo; ed esprimeva qualcosa di tenero e levitante come certe città d'Oriente viste dal mare. Che cosa gli ricordava? Ismani aveva la sensazione oscura che quella, in fondo, fosse una vecchia conoscenza; ma nel cercare un riferimento nei ricordi, si imbatteva in cose troppo diverse e lontane, un giardino, per esempio, un fiume, perfino certi ricami. E il mare. E i boschi. Ma al di là d'ogni riferimento, qualcosa restava di inafferrabile e inquietante. A rompere il silenzio fu Olga Strobele: "Be'", disse con sforzato tono frivolo. "Che roba è? Una centrale elettrica?" "Hai visto?", le rispose il marito, lusingato dalla sua curiosità; era

ben raro infatti che la moglie si interessasse dei suoi studi. Poi si volse a Ismani: "Hai già capito?". "Forse, forse", disse Ismani. Era turbato. Sua moglie taceva. Più in là Endriade, appoggiato al parapetto, contemplava il suo regno; sembrava rapito in un sogno. Olga Strobele: "Ma insomma. Che cos'è? Si può sapere?". Aveva un abito di tela bianca, così attillato da diventare provocante. I lembi della sottile scollatura si congiungevano alla vita, ogni movimento era un azzardo. "Olga", disse il marito, con animazione didascalica, "Olga, questo che vedi, questa specie di cittadella, col suo campanile, o minareto", e con la destra indicò l'antenna, "questo piccolo regno ermeticamente chiuso e separato dal restante mondo..." Si interruppe. Uno stormo di grossi uccelli torneava intorno alla sfera metallica in vetta all'antenna con acute strida: come se avessero voluto appollaiarvisi ma all'ultimo istante si fossero accorti di un pericolo. "Dunque", riprese Strobele con un lieve sorriso, "questo gigantesco impianto che è costato finora dieci anni abbondanti di fatica, per dirla in parole povere è... è un nostro parente, è un uomo." "Un uomo dove?", disse Olga. "Un uomo, sì. Una macchina fatta a nostra somiglianza." "E la testa? Dov'è la testa? E le braccia? E le gambe?" "Gambe non ce ne sono." Strobele ebbe una espressione di fastidio. "La forma esterna non interessa. Il problema era un altro. Per fare un robot qualsiasi, un pupazzo magari capace di camminare sulle gambe e di dire buongiorno, bastava un fabbricante di giocattoli. A noi invece, a noi importava... capisci?, costruire qualcosa che riproducesse quello che avviene dentro qui", e con l'indice si batté la fronte. "Ah, un cervello elettronico! L'ho già letto sui giornali." "Ma non lo vedi?", intervenne il marito con trasporto. "Altro che cervello, altro che calcolatrice. Sa fare i conti, sì, ma fare i conti è il meno. Siamo andati più in là. Gli abbiamo insegnato a ragionare, a questo bestione, a ragionare meglio di noi." "A vivere come noi", aggiunse Endriade rimasto muto fino allora. "A vivere? Ma non si muove. E' là inchiodato al suolo." "Tesoro", spiegò Strobele, "non importa che si muova. Se prendi un uomo e lo leghi a terra che non possa muovere un dito, è sempre un uomo, no?" "E occorreva farlo così grande? E' un paese, non un uomo." "E' ancora molto più piccolo di quanto si pensasse. Il primo progetto prevedeva un complesso di apparati da riempire una città come Parigi. Si sono fatti miracoli. Nota che noi ne vediamo soltanto una minima parte, tutto il resto è nascosto sottoterra. Certo è un po' ingombrante, eh eh, corpulento anzichenò..." Olga: "A parlargli, lui risponde?", e rise ambigua. "Proverei. Ma ha un interesse relativo. Automi che reagiscono alla luce, per esempio, al suono, o ai colori, ai contatti, con un comportamento logico sono usuali, ormai. Qui abbiamo fatto, direi, qualcosa di più. Intanto realizzati i cinque sensi. L'automa, come tu dici, vede, ode, distingue le cose vicine." "Anche il gusto? Anche l'olfatto?", chiese Ismani. "Certamente." "E il tatto?", chiese Olga.

"Anche. Vedi quella specie di ciuffi? Quelle antenne? Toccando, riconoscono, o determinano, un oggetto." Ismani: "Se ho ben capito, voi avete tentato di attribuire a questo coso, a questo impianto, come dire?... una personalità". "Una differenziazione, sì", fece Strobele. "Uomo o donna?", Olga domandò. "Scommetto che..." Strobele arrossì come un bambino. "Non è un problema pertinente. Un... un condizionamento sessuale non è sembrato..." Ismani: "E avrete avuto di mira un modello, no? Un tipo umano a cui riferirvi". Piccole nubi bianche risalivano la curvatura della terra, verso il settentrione misterioso. Come un lento brivido le ombre loro scorrevano sulla cittadella, sullo sconnesso corpo dell'essere immenso adagiato nel vallone, con effetti incredibili. "Precisamente", fece Strobele, "non saprei..." "Vi sarete presi voi, a modello", disse Olga, "vi credete dei tali geni, voi scienziati." "Noi? Sono cose che decide Endriade." Endriade, rimasto fino allora appoggiato al parapetto, si riscosse: "Io?", guardò gli ospiti. Sembrava stralunato come chi è strappato da una "r€verie". "Vi chiedo scusa. Dovrei andare a vedere..." Si allontanò per un sottile ballatoio sospeso sul precipizio che si perdeva più avanti negli incavi della complicatissima bastionata. "Cos'ha? E' di malumore?", chiese Olga a Manunta che aveva fatto un sorrisetto. "No, no", disse il capotecnico, uomo grasso, pacifico e gioviale, "è un tipo così, un po' strambo. Si sa, i grandi sapienti..." "Io lo trovo simpaticissimo", disse Elisa Ismani come per prevenire qualche osservazione dell'Olga. "Bella forza", disse Olga, "è un uomo spettacoloso, sbaracca tutto al suo passaggio, quello lì, basta vederlo." 12. Strobele tossicchiò per richiamare l'attenzione. "Ora si potrebbe anche fare un piccolo esperimento sensoriale." "Ma, a chiamarlo, lui risponde, lui obbedisce?", ripeté la moglie di Strobele. "Tu insisti, Olga", fece Strobele, "tu vedi il problema esattamente all'opposto di noi, si può dire. Che risponda o non risponda, a noi è del tutto indifferente. Non deve agire, deve pensare, lui." "Ma capisce quello che diciamo?" "Qui, per la verità, è un'incognita. Non esiste nessun motivo tecnico per cui ci debba capire. Però... però abbiamo constatato che questa macchinetta ha delle risorse che noi non ci eravamo mai sognati... Non mi stupirei se..." "E come lo avete battezzato?" "Secondo. Protocollarmente, come si dice, è il Numero 1. Io lo chiamo l'Amico. Manunta dice "La bambina". Endriade dice sempre "Lei": lei, la creatura." "Lei?" "Lei. E certi giorni gli piace scherzare. Perfino con nomi di donna, lo chiama."

"Che nomi?" "Dei nomi, così, io non ricordo." Guardarono tutti nella stessa direzione. Dopo essere scomparso dietro allo spigolo di un padiglione, Endriade era ricomparso molto più in là, e più in alto, sul ciglio di una costruzione lunga e geometrica che dominava un lembo di cittadella. Si era fermato, sporgendosi dalla balaustra metallica e sembrava che stesse parlando con qualcuno di sotto. "Ma con chi sta parlando?" Strobele: "Parlerà con se stesso. Una sua vecchia abitudine". "Già", disse Elisa Ismani. "L'abbiamo sentito anche noi ieri sera. Siamo andati a fare due passi al lume di luna e lo abbiamo incontrato. Anzi, lì per lì abbiamo preso una paura. E lui parlava, ma ad alta voce parlava." "Scusa. Giancarlo", chiese la moglie interrompendo, "e lei, la macchina, parla?" "Parlare nel senso normale, no. Lingue non ne conosce. Su questo siamo stati categorici. Guai se gli avessimo insegnato una lingua. Il linguaggio è il peggior nemico della chiarezza mentale. Per voler ad ogni costo esprimere il suo pensiero in parole, l'uomo ha finito per combinare dei tali pasticci..." "Allora è muto?" "Di', Manunta", Strobele chiese al capotecnico. "Parla tu. E' muto il nostro amico?" "Lei, professore", Manunta fece con l'indice un bonario cenno di minaccia, "lei mi prende in giro. Eppure lo sa meglio di me... Ecco, adesso per esempio..." L'indice si alzò diritto, come per chiedere silenzio. Tacquero. Un curioso suono, qualcosa che assomigliava a un sussurro d'acqua, a un flebile cigolio, a un zufolo sommesso, si snodava nell'aria, rotto irregolarmente da interruzioni, scatti, tremiti; andava e veniva con capricciosi sospiri. E ascoltando, ascoltando, si percepivano anche vocali e consonanti ma non articolate, un fittissimo rimescolio che ricordava la frenetica e incomprensibile precipitazione dei discorsi quando, al magnetofono, si riavvolge vorticosamente la bobina. Era una voce? Era un rumore di macchinari senza senso? O c'era dentro una intenzione? Il filo di un pensiero? O una risata? "E' questo?", chiese Strobele al capotecnico. Quello assentì col capo. "E tu lo capisci, vero? Ti ho sentito io, un giorno, dire che tu lo capivi, come fosse la tua lingua. Su, traduci, allora. Che cosa sta dicendo, adesso?" Manunta si schermì: "Oh io. Che cosa vuole che capisca io? Quel giorno, evidentemente, avrò scherzato. Forse il professore Endriade". Strobele fece una smorfia disdegnosa. "Voi! Voi pazzi. Tu, e quel superuomo di Endriade. A sentirvi voi!" Si volse alla moglie: "Non gli crederai, spero. Questi sono i meccanismi, le valvole, i selettori, i dispositivi di retroazione, eccetera. Ce ne sono a centinaia di migliaia. Logico che facciano dei rumori". "E questo?", chiese Elisa Ismani. "Questo cosa?", fece Strobele. "Non sentite?" La sottile voce era all'improvviso dileguata. Ora, sulla concavità dello stabilimento sterminato, ristagnava di nuovo il silenzio. Ma era silenzio?

Dapprima, a un distratto ascolto, non si percepiva niente. Poi, a poco a poco, dal silenzio stesso usciva una impalpabile risonanza. Era come se dall'intero complesso della macchina, dalla vastità totale dell'apocalittico vallone, scaturisse un brusio di vita, vibrazione delle profondità, irraggiamento indefinibile. Lentamente, nelle attonite orecchie, si formava un rombo melodioso di una corposità così tenue che si restava in dubbio se fosse vero o suggestione. Forse un respiro immenso che saliva e scendeva lentamente, sovrana onda di oceano, che ogni tanto si spegneva con rimescolii gioiosi nelle cavità delle lisce scogliere. O forse era soltanto il vento, l'aria, il movimento dell'atmosfera, perché mai era esistita al mondo cosa simile che era insieme rupe, fortilizio, labirinto, castello, foresta e le cui innumerevoli insenature di innumerevoli forme si prestavano a mai udite risonanze. Ma, più che il suono, o il rombo, o il respiro, si percepiva una presenza, un invisibile flusso, una forza latente e compressa, quasi che sotto l'involucro di tutte quelle costruzioni riposasse un'armata di reggimenti e reggimenti, o, meglio, fosse disteso, in dormiveglia, un gigante dei miti, dalle membra come montagne; o, meglio ancora, un mare, di tepida carne giovane e viva, che lievitasse. Però, non selvaggio, nemico. Non acquattata potenza minacciosa, non incubo, non mostro: perché, sopra ogni altra percezione, restava, nei presenti, come dopo certe musiche, un senso incomprensibile di appagamento e di freschezza, una disposizione alla benevolenza e al riso. "Madonna, che roba", disse Olga Strobele. "Mai sentita una faccenda simile. Ho quasi paura." "Paura di che?", disse Elisa Ismani. "E' così bello. Io... Non so... Mi ricorda qualcosa... Sarà ridicolo ma mi ricorda qualcosa di preciso, e non riesco a... Strano..." "Ora guardate", interruppe, senza far caso alle parole della Ismani, Strobele. "Un piccolo esperimento. Tu Ismani sta fermo dove sei." Ismani non capì se Strobele, o Manunta, avessero schiacciato qualche bottone nascosto o fatto agire una cellula fotoelettrica, o pronunciato qualche formula capace di mettere in azione un apparato meccanico. "Questa è una piccola prova interessante della memoria visiva", disse Strobele. "Ecco ecco..." Mentre parlava dalla sommità del muro che chiudeva sul lato destro la terrazza - la parete di uno dei tanti padiglioni o centralini o casematte, cellule dello spaventoso essere un'antenna di metallo chiaro e opaco si piegò verso il gruppetto dei cinque, e dall'estremità ciondolava un ciuffo a forma di soffice scopino. Articolandosi a pantografo, in silenzio, con moto elastico da ragno, l'antenna si protese in direzione di Ismani e dolcemente calò la grossa nappa, che adesso risultò fatta di tanti morbidi fili di metallo. "Sei troppo lontano, Ismani. Non ci arriva. Vuoi avvicinarti?" L'antenna ora oscillava in su e in giù come se cercasse qualche cosa. Ismani esitava, con un sorriso intimidito. "Vado io", esclamò Olga all'improvviso e si fece sotto il pennacchio. Il braccio discese lentamente e la massa soffice dei fili toccò la testa della donna; poi, abbassandosi ancora, la avvolse fino alla cinta come in un morbido leggerissimo cappuccio, ricadendole tutt'intorno al busto. "Oh, che solletico. Mi fa senso, mi fa."

"Basta, signora, basta, venga via", mormorò Manunta, come imbarazzato. Ma di colpo l'antenna si sollevò, liberando la signora Strobele. Fu un movimento repentino, qualcosa come un gesto di ribrezzo. La donna si aggiustò i capelli. Sorrideva, ma era impallidita. In quell'istante sopra il vago brusio che fluttuava intorno, si udì la voce, quel sussurro flebile di prima. Si ispessì, descrisse una specie di curva, toccò acute risonanze, quindi calò, si ruppe in un breve crepitio di singulti, riprese il filo discendente, si spense. Gemito di macchina? Cigolio di attriti? Vibrazione di qualcosa che si tendeva e rilasciava? Tacquero. Poi Strobele: "Lei, Manunta, che dice di capirci: cosa ha detto?". Manunta, senza far caso al suo sorriso ironico: "Mah, stavolta... stavolta non ci ho capito niente". Ci pensò su: "Ma mi è parso che ridesse". "Ho freddo", disse Olga Strobele. "Freddo? Con una giornata simile?" "Sì, freddo. Io rientro." "Non avrai preso paura, no? E' un giochetto." Strobele aveva quasi l'aria di scusarsi con Ismani: "Diciamo meglio: una stupidaggine superflua. Fa parte delle prime installazioni, erano ancora esperimenti. Del resto, Olga, va a casa, se vuoi. Io resto a chiacchierare con Ismani". Le due signore se n'andarono. Manunta le accompagnò all'uscita. Mentre lasciavano la terrazza, da un coso a forma di silos, una ventina di metri più in là, venne un clic metallico. Tutti si voltarono di scatto. Ma nulla si muoveva più; neanche l'antenna del ciuffetto. 13. "Da molti molti anni, caro Ismani", disse Endriade, "ero ancora un giovanotto, prima ancora che prendessi la laurea, un problema mi ha sempre ossessionato: la cosiddetta luce dello spirito, per formarsi e sussistere, ha strettamente bisogno dell'uomo? Fuori di noi dovunque è buio? Oppure questo fenomeno, interessante direi, può crearsi anche altrove purché trovi un corpo, un organismo, uno strumento, un recipiente adatto?" Erano loro due soli, nella sala di soggiorno della villetta di Endriade. Un orologio a muro segnava le due e mezzo. C'era il grande silenzio della notte, con in fondo però quel vago ronzio, quasi di lontanissima cascata . "Un automa, vuol dire?", chiese Ismani. "Aspetti. Ha mai considerato lo strano cammino della vita attraverso i millenni dei millenni? Da principio, chi eravamo? Protozoi, celenterati. La sensibilità esisteva, ma rudimentale. Lo spirito, quello che viene chiamato spirito, non era ancora nato. O meglio era una fiammella così minuscola, timida e vacillante che la differenza col mondo vegetale si notava a stento. Intendiamoci, caro Ismani, io qui non parlo in termini di scienza. Le faccio una specie di parabola perché lei possa farsi un'idea chiara di tutta la baracca. Crede che io non capisca la sua curiosità, il suo imbarazzo, il suo scetticismo? A che scopo, lei si chiede, tutto questo spaventoso sforzo? Sarebbe una follia, peggio una stoltezza criminale, aver messo su questa babele per ottenere una caricatura di cervello, per un robot capace di

far calcoli, di registrare e ricordare le impressioni, di ridere, di piangere, di starnutare, di risolvere i problemi. E allora? Allora... Ecco, col passare dei millenni, a poco a poco l'evoluzione, il progresso delle facoltà raziocinanti o per lo meno dei riflessi condizionati, o per lo meno della sensibilità... Mi spiego? A un certo punto di questo interminabile cammino, voilà, il fenomeno che io dico di mostruosità più strabiliante che registri la storia del creato." Ismani rise: "L'uomo?". "L'uomo", confermò Endriade. "Nel quale con rapidità addirittura precipitosa, nel giro di pochi milioni d'anni si può dire, si è prodotta una deformazione, un caso di gigantismo, una tumescenza che quasi quasi dubito fosse compresa nel progetto iniziale della creazione, tanto va poco d'accordo con tutto il resto." "Una deformazione?" "Sì. La massa cerebrale diventa sempre più imponente, la teca cranica si espande, il sistema nervoso raggiunge una complessità da far paura, insomma l'intelligenza dell'uomo si distanzia sempre più da quella di tutte le altre bestie. Vuole, caro Ismani, che qui si parli di soffio divino? Parliamone. Il fenomeno, obbiettivamente considerato, non muta." "Ma io non vedo che rapporto..." "Aspetti. Ancora un passo. La faccenda è addirittura ovvia, ma bisogna che io le dica tutto. Bene. Sviluppandosi in modo abnorme il cervello dell'uomo, e il suo sistema nervoso, e la complessiva sensibilità, a un certo punto... A un certo punto, caro collega, è entrato in scena un elemento imponderabile, un prolungamento incorporeo del corpo, un'escrescenza invisibile eppur sensibile, una protuberanza che non ha precise dimensioni, peso, forma, che scientificamente parlando non sappiamo con sicurezza neanche se esista. Ma che ci dà tanto di quel filo da torcere: l'anima!" "E il Numero Uno sarebbe..." "Un attimo ancora di pazienza. Io dico, e questo è il punto fondamentale. Io dico: se costruiamo una macchina che riproduce la nostra attività mentale senza la palla di piombo al piede di un determinato linguaggio, una macchina che elabora e risolve i problemi infinitamente più presto di un uomo e con molto meno probabilità di errori, si può parlare di intelligenza? No. L'intelligenza, per sussistere, ha bisogno di un minimo di autonomia, di libertà. Ma se invece..." "Se invece costruiamo il Numero Uno; questo, vuol dire?" "Sì, sì. Se costruiamo, oh non dico che ci siamo riusciti, se costruiamo una macchina che ha percezioni come noi, che ragiona come noi, questione ormai di soldi, questione di tempo e di fatica, perché dovremmo spaventarci? Se si riesce a costruirla, automaticamente quel prodotto famoso, quella essenza impalpabile, il pensiero voglio dire, l'instancabile moto delle idee che non hanno riposo neanche in sonno; di più, di più, non solo il pensiero, ma la sua individualizzazione, la permanenza dei caratteri, insomma quel tumore fatto d'aria che però talora ci pesa addosso come se fosse piombo, l'anima, l'anima dunque vi si stabilirebbe. Diversa dalla nostra? Perché? Che importa se l'involucro, invece che di carne, fosse fatto di metallo? Non è vivente anche la pietra?" Ismani scosse il capo: "Fosse qui ad ascoltarci monsignor Rizzieri". "Magari", fece Endriade, sorridendo. "Non c'è nessuna difficoltà teologica. Dio per caso dovrebbe essere geloso? Non proviene

ugualmente tutto da lui? Materialismo? Determinismo? E' tutto un problema diverso. Niente eresie al cospetto dei padri della Chiesa. Anzi." "La natura profanata, direbbero. Il supremo peccato di orgoglio." "La natura? Ma sarebbe il suo massimo trionfo!" "E dopo? Questo lavoro immenso a che vantaggio porterebbe?" "Lo scopo, caro Ismani, va al di là di quanto l'uomo ha mai tentato. Ma è così grande, così meraviglioso che val la pena di spendere fin l'ultimo nostro respiro. Pensi: il giorno che questo cervello sarà più grande, più potente, più perfetto, più saggio del nostro... quel giorno non sarà più grande anche... come dire?, io non sono filosofo. Alla sovrumana sensibilità e forza razionale corrisponderà anche un sovrumano spirito. E quel giorno non sarà il più glorioso della storia? E allora dalla macchina si irradierà una potenza spirituale che il mondo mai conobbe, un flusso irresistibile e benefico. La macchina leggerà i nostri pensieri, creerà capolavori, rivelerà i misteri più nascosti." "E se un giorno il pensiero dell'automa sfuggisse ai vostri comandi e facesse da sé?" "E' quello che si spera. Sarebbe la vittoria. Senza la libertà, che spirito sarebbe?" "E se, con un'anima a somiglianza della nostra, come noi si corrompesse? Si potrebbe intervenire per correggerlo? E non riuscirebbe con la sua tremenda intelligenza ad ingannarci?" "Ma è nato puro. Esattamente come Adamo. Di qui la sua superiorità. Non porta il peccato originale." Tacque. Ismani si grattò il mento perplesso. "E il vostro impianto, il Numero Uno, sarebbe..." "Esattamente. E' il tentativo. E abbiamo buoni motivi per ritenere che... che..." "Che ragioni come noi?" "Lo spero." "E come fa ad esprimersi? In che lingua?" "Nessuna lingua. Ogni lingua è un trabocchetto, per il pensiero. Abbiamo riprodotto, partendo dagli elementi primi, il funzionamento della mente umana. Alla descrizione del rapporto fra le parole e le cose nominate è stata sostituita una descrizione in termini di attività. E' ancora il vecchio geniale sistema di Cecatieff. Ogni combinazione mentale si traduce in un grafico che ne mantiene integralmente la storia, pur permettendo di abbracciarla di un colpo. E' l'impronta stessa del pensiero, senza alcun riferimento con questa o quella lingua." "E attraverso che mezzo?" "Filo magnetizzato. Con un sistema molto semplice da questo filo si ricavano degli schemi visibili." "E per interpretarli?" "Si tratta di impratichirsi. Io ormai le leggo più rapidamente della stampa. Certo questo rappresenta un inceppo. Ma poi c'è il suono che aiuta. Dal filo magnetizzato, oltre che un grafico visibile, si può ricavare il suono. E con una lunga esperienza lo si intende." "Lei, Endriade, lo capisce? Immagino che sarà come un fischio, o un mugolìo." "Esatto. Qualche volta ci riesco. E' il rumore stesso del pensiero, una sensazione strana, entusiasmante. Del resto, il capire o il non capire dipende da una sensibilità speciale."

"Ma a me, per esempio, che sono un estraneo, questo Numero Uno come potrebbe comunicare?" "Ecco uno dei suoi compiti, caro Ismani. Bisogna fare una specie di vocabolario delle operazioni mentali. A ogni combinazione di segni trovare, in quanto è possibile, la parola corrispondente." "E lei, Endriade, in che modo può comunicare con la macchina? La nostra lingua la capisce?" "Gli ordini, i messaggi si comunicano per mezzo di schede perforate. Ma non è escluso che lei, la macchina, capisca almeno in parte i nostri discorsi." "Sarebbe mostruoso." "La capisco, caro Ismani. Lei non crede. E in certo senso ha tutte le ragioni. Vedrà, vedrà. Siamo già molto avanti. E arriveremo, oramai sono tranquillo. Il peggio è fatto. La strada che ci resta è la più facile. Sì. Arriveremo al superuomo. Più ancora: al demiurgo, una specie di Dio. Questa, questa è la via per cui riscatteremo finalmente la nostra miseria e solitudine." "C'è da aver paura. A un certo punto sarà materialmente impossibile controllare tutto ciò che avviene in un cervello simile." "Precisamente. E' quello che già avviene col nostro Numero Uno. Ma non c'è da preoccuparsi. Le premesse, create da noi, sono sane. Possiamo dormire i nostri sonni tranquilli." "E lui?" "Lui cosa?" "Dorme, di notte? Non si riposa mai?" "Dormire propriamente no, direi. Sonnecchia, piuttosto. Di notte tutta la sua attività è attenuata." "Diminuite l'erogazione di energia?" "No, no, da solo si acquieta, proprio come se fosse stanco." "E sogna anche?" 14. Era una giornata bellissima di giugno. Verso le 10 del mattino, mentre il marito era impegnato con Strobele e Manunta per essere iniziato ai segreti del Numero Uno, Elisa Ismani, non sapendo cosa fare, andò a trovare la signora Endriade. "Qui è molto bello, in un certo senso c'è sempre allegria", le aveva detto fin dal primo incontro, "ma per noi donne può essere noioso, certi giorni. Quando le capita, quando non ha di meglio da fare, venga a trovarmi. A qualsiasi ora. Anche al mattino. Io curo i miei fiori, al mattino, vedrà che belle aiuole." Glielo aveva detto con accento così sincero e caldo che adesso, all'indomani del suo arrivo si può dire, Elisa Ismani andò a trovarla. E proprio di mattino, quel mattino memorabile di giugno. La villa di Endriade sorgeva alla sommità della strada che risaliva il prato in ripida salita. A destra, a un centinaio di metri si stendeva, parallelo, il margine della cittadella segreta. La porta d'ingresso era socchiusa. Non vedendo il campanello, Elisa aspettò, se mai si udissero voci dall'interno. Ma pareva non ci fosse anima viva. "Permesso? Permesso?", chiese finalmente ad alta voce. "Avanti", rispose una voce d'uomo, infastidita. Spinse il battente, entrò. Era un vasto ambiente di soggiorno arredato con semplicità quasi disadorna. Un paio di sofà, qualche poltroncina in vimini, uno scrittoio, una specie di "trumeau", alle pareti alcune

vecchie stampe. Niente di più convenzionale. Ma pulizia. E silenzio. "Permesso?", ripeté Elisa Ismani, non vedendo nessuno. Si aprì una porta e apparve Endriade. Senza cravatta, con un vecchio pullover. "Ah, buongiorno, signora. Lei cerca di Luciana, vero? Credo sia fuori, là, in giardino. Ora la chiamo." Si sarebbe detto tutt'altro che entusiasta della visita. Indaffarato, impaziente di andarsene per i fatti suoi. Negli occhi, nei movimenti, nel modo di parlare, qualcosa di febbrile, come la prima sera che si erano incontrati. "Si accomodi, la prego." Per sedersi su uno dei due divani, Elisa passò accanto allo scrittoio e lo sguardo le cadde su un piccolo ritratto fotografico, in cornice d'argento, seminascosto tra le pile di fascicoli e di libri. Ristette un attimo, sorpresa. Si chinò a guardare meglio. "Mi scusi", disse. "Avrei giurato che... Ma è lei, non può essere che lei!" "Chi?", fece Endriade improvvisamente interessato. "Una mia vecchia amica. Laura... Laura De Marchi." Endriade le si fece incontro, inquieto: "La conosceva?". "Se la conosco. Per dieci anni siamo vissute insieme, si può dire. Compagne di scuola inseparabili. Poi è partita con la famiglia per la Svizzera. Da allora non ci siamo viste più. Ma come mai...?" Endriade la fissava, spiritato. "La mia prima moglie", mormorò. "Perché?" Elisa Ismani non ne sapeva niente. "La conosceva molto bene?" insisté Endriade. "Più che se fosse una sorella. Ma ormai... Saranno passati quindici anni almeno. Più niente. Non ne ho saputo più niente." Endriade restò assorto, come portato via da un'onda di ricordi. Poi sorrise con dolcezza. "Lauretta", disse adagio, "Lauretta. Da undici anni non c'è più." "Non capisco." "Morta. Incidente d'automobile." Tacquero. "Era lei, Endriade, che guidava?" "Era un altro. Avevo aspettato tutta notte. Una specie d'inferno. Poi all'alba il telefono ha suonato. La polizia mi avvertiva. Morti sul colpo, tutti e due. Lei. E l'altro." Calcò sull'ultima parola. Elisa si aspettò di sentire sorgere il dolore. Ma il dolore non venne. Lauretta, un'immagine lontana, una favola, una cosa mai esistita. Erano passati tanti anni. Il dolore, però, era di fronte a lei. Un sipario d'ombra era calato di colpo sul volto di Endriade. "L'altro", disse lentamente. "Lei, signora, mi guarda. Io so a che cosa pensa. L'altro. Crede che io non sappia, forse? Crede che io non sapessi? Ma lei che la conosceva, mi dica, dica: si poteva fargliene una colpa?" Endriade le aveva preso un polso e lo stringeva. "Ridevano di me, probabilmente. Quell'imbecille di Endriade, con la testa nelle nuvole, e intanto non si accorge che la moglie... Se mi accorgevo! Dopo neanche un anno dal matrimonio. Parole ambigue, allusioni, la lettera anonima, immancabile. E poi la prova. La prova, capisce, a cui nessuna illusione può resistere. Che volevo di più? Ma io... io sono un vile, sa? Potevo far senza di lei? Solo l'idea di perderla... Ah, quanto ero felice. E non lo sapevo." Il grande Endriade, il genio, si lasciò cadere sul sofà coprendosi il

volto con le mani. E singhiozzi lo scuotevano. Elisa si stupì di non provare ombra d'imbarazzo. Le pareva così naturale, quella storia, così identica al carattere di Laura. "Mi dispiace, Endriade, che è stata colpa mia se..." L'uomo sollevò il capo. Una specie di speranza gli illuminava la faccia. "Ma lei, signora, lei mi capisce, vero? Laura, Lauretta, se la ricorda? Una stupidina. Una stupidina era", e sorrideva con bontà. "Solo vederla, la sera, mi bastava, quando tornavo a casa. Sapevo che mi tradiva sempre... Mentiva, Dio solo sa quante bugie mi ha raccontato, eppure... Mi bastava vederla. Il suono della voce. Quel suo sorriso da bambina, lo ricordava vero, il suo sorriso? Il modo di muoversi, di camminare, di sedersi, di dormire, di lavarsi... La sua tosse, i suoi starnuti, neppure quelli mi davano fastidio... Mentiva? Ma si può dire che mentisse? Era fatta così. Quando mi sorrideva, quando si stringeva a me, macché menzogna. Lei capisce quello che voglio dire?" "Oh, la ricordo." "Creatura. Bestiolina. Luce. Come un albero. Come una pianta di fiori." Endriade ora parlava con se stesso. "E io sapevo, questo sì, sapevo che orrendo sarebbe stato se lei fosse sparita... Vile? Sono stato vile? Quanto è idiota la gente. Cosa avrei dovuto fare? Di due esseri contenti fare due disperati? A che scopo? Per la soddisfazione dei benpensanti? Maledetti." Si riscosse. Guardò Elisa Ismani con espressione nuova. Le prese ancora un polso, con dolcezza, stavolta. "Venga", si alzò. "Lei si chiama?" "Elisa." "Elisa, venga. Noi dobbiamo diventare amici. Mi promette?" "Ma certo." "Lo giuri." "Giuro." "Amici, vede, al punto di poterci dire tutto. Tutto, capisce? Fino in fondo." Elisa Ismani rise: "Una specie di complotto? Lei mi fa quasi paura, Endriade". "Un complotto. Venga, Elisa. Devo farle vedere..." "Cosa?" "Un segreto", disse Endriade. Fiammeggiava di vita: "Un segreto terribile. Mica male, però". "Sul serio, dice?" "Andiamo", si accostò a una finestra, guardò fuori. "Luciana è là, in giardino. Non sa che lei è qui. Abbiamo tempo. Andiamo." Aprì una porta. Si trovarono all'esterno, su un ballatoio di cemento con ringhiera che proseguiva costeggiando una costiera di rocce e andava ad innestarsi, dopo una cinquantina di metri, al muro perimetrale dell'automa. Endriade la precedeva. A metà del ballatoio si volse, fermandosi. "Mi dica", chiese in tono enormemente serio, "se la incontrasse, la riconoscerebbe?" "Chi?" "Lauretta." "Ma non ha detto che..." "Che è morta? Morta e sepolta. Sono undici anni. Ma la riconoscerebbe?"

"Endriade. Non so cosa pensare." Lui non aggiunse altro. Seguito dalla donna proseguì fino al termine del ballatoio. Qui, nel muro bianco, c'era una piccola porta di ferro. Egli trasse un mazzo di chiavi. Aprì. Premette un interruttore. Entrarono in un angusto corridoio. In fondo c'era un altro uscio di ferro. Aprì con un'altra chiave. Sbucarono su un terrazzino. Elisa strinse le palpebre abbacinata dallo splendore del sole. Dinanzi sprofondava l'immensità deserta e brulicante del Numero Uno. Endriade era immobile. Fissava la sua ciclopica creazione, come rapito. Adagio adagio le labbra si piegarono a un sorriso di sollievo. Bisbigliarono: "Lauretta". Tacevano, guardando. Finché Endriade scosse il capo, squadrò Elisa Ismani, aggressivo e autoritario la investì. "La riconoscerebbe?" "Penso di sì." "E allora, Elisa, allora... Non la riconosce?" Un pensiero le sfiorò la mente, tanto assurdo che durò un infinitesimo. Poi il dubbio, preoccupante, che Endriade fosse uscito di senno. "Parli dunque. Non la riconosce?" "Dove?" Qualcosa bisognava pur rispondere. Endriade ebbe uno scatto di impazienza. "No, no. Se lei ha paura non ci intendiamo più. Non sono pazzo. La riconosce?" "Io... io... Ma dove?" "Là, là", con un largo gesto le additava la strabiliante valle popolata da enigmatiche forme; dove a perdita d'occhio non esistevano che cose inanimate, in vertiginosi intrichi di terrazze, spigoli, torri, antenne, pinnacoli, cupole, geometrie nude e possenti . "Io non... io non capisco", disse Elisa, proprio perché cominciava confusamente a capire. "E la voce?", incalzò Endriade. "Ascolti. Non riconoscerebbe la voce?" Provò ad ascoltare. Come quel giorno che per la prima volta era entrata nella mostruosa cittadella, dal cupo brulichio del silenzio, simile a biscia giovinetta, si levava esile voce. Non si capiva se provenisse da una fonte sola o da molte. Con strane inflessioni, e pause, e varietà incredibili di timbri, fluttuava, e pareva che da un momento all'altro stesse per articolarsi in un discorso umano, ma giunta al limite, ogni volta sfuggiva, dileguando in un sospiro. "La sente? La sente? E' lei?" Endriade invocava una risposta. A questo punto Elisa Ismani seppe. L'incredibile realtà le si rovesciò dentro nell'animo, facendolo tremare. "Dio mio!", gridò, e si ritrasse. "E' lei?" Endriade la trattenne ponendole le mani sulle spalle, e la scuoteva. "E' lei? Parli, dunque. L'ha riconosciuta?" Riconosciuta, sì. L'amica dei remoti anni, la giovinetta, la fresca e spensierata creatura che in vita aveva diffuso intorno a sé soltanto gioia, il fiore, la nuvoletta, la bambina, ora giaceva dinanzi a lei, immota, in un'allucinante reincarnazione di misure gigantesche. L'immenso cervello artificiale, il robot, il superuomo, lo sterminato fortilizio dotato di ragione, Endriade lo aveva creato a immagine e somiglianza della donna amata. Non c'era volto, né bocca, né membra, ma per un oscuro incantesimo Laura era tornata al mondo, cristallizzata in paurosa metamorfosi. Quelle terrazze, quelle mura, quei pinnacoli, quelle casematte erano il suo corpo. Elisa Ismani, pur

riluttando al pensiero, cominciava ora a intravedere la diabolica somiglianza. Pazzesco sì, eppure nello stesso dispiegamento delle masse architettoniche, se appena appena Elisa socchiudeva gli occhi, in quelle linee, in quelle sporgenze e rientranze, c'era un richiamo fortissimo di perduti ricordi, una rispondenza umana, una tenera e voluttuosa dolcezza. Ancora: lentamente, dall'intreccio, apparentemente caotico, di muri, spigoli, geometrici profili, usciva una fisionomia, una espressione tipica, qualcosa di lieto, spiritoso, spensierato; non più stabilimento, o fortilizio od officina, o centrale elettrica; semplicemente donna. Giovane, viva, affascinante. Fatta di calcestruzzo e di metallo invece che di carne. Tuttavia miracolosamente donna. Lei. Laura. Ed era ancora bella. Bellissima. Forse più bella che da viva. Febbricitante, al suo fianco Endriade anelava a una conferma. "Ha visto, Elisa? L'ha riconosciuta, vero? E la voce? Non è la sua?" Elisa fece di sì col capo. Fatta di elaborati elettronici, di artificiali vibrazioni, di gelida materia, eppure era la voce di lei, Laura. Che non pronunciava parole ma inarticolati accenti. Come se l'avessero imbavagliata, o parlasse a bocca chiusa, o si esprimesse con i suoi graziosi versi di bambina. Era, nello stesso tempo, quasi divino e spaventoso. "Elisa, lei capisce?" "Cosa?" "Dico: riesce a decifrare? Il senso di quello che dice?" Pur in una donna forte e decisa come Elisa Ismani, l'impressione era troppo violenta. Non resistette. Cercò un appoggio. "No, no", disse in un anelito affannoso che preludeva al pianto. "Non ci posso credere. Povera Laura!" 15. "La prima idea. Sono passati undici anni. Stavo nel buio. Buio intorno, giorno e notte. Lei se n'era andata. Capisce, Elisa? Cosa potevo essere io, più? Il sole si era spento. Vagolavo. Come un sonnambulo. Ero convinto d'essere infelice. Ero convinto, dico. In realtà non avevo capito niente. Altra è l'infelicità vera, la disperazione che ci scava dentro. Credevo, sì, di essere distrutto. E forse, forse - è orribile il solo pensarlo - io ero finalmente libero! "Ma l'uomo è condannato a tormentarsi, non vede le consolazioni offerte, là, a portata di mano, ha il bisogno di fabbricarsi sempre nuove angosce. Io, almeno. Adesso, ma è così difficile che lei riesca a capirmi, adesso quei tempi, che mi pareva d'essere finito, li rimpiango. Laura era morta. Io ero solo. Ma... Poi le dirò, le spiegherò. Mi immaginavo di essere l'uomo più sventurato della terra, e cercavo qualcosa d'attaccarmi. "Lo studio. Mi sprofondai nello studio. Giorno o notte, non c'era più differenza. Come un invasato. Non capivo, idiota, che ero salvo, che l'ossessione di Laura era finita. Se ero capace di lavorare come ai bei tempi! "E proprio in quei giorni mi hanno chiamato al ministero in gran segreto. Il famoso progetto. Era il piano di... del Numero Uno, diciamo. Dormiva fra le scartoffie da almeno sette anni, lo avevano lasciato inghiottire dalla polvere. "Mi chiamano, mi dicono che è venuta l'ora. Ah, devo riconoscere, si

erano messi nelle idee grandi, quelli del ministero. Nessun limite di spesa, capisce? I miliardi, là, davanti a me, come sassolini, a volontà. Il vecchio sogno. Ma ormai... Ormai m'era tutto indifferente. Così siamo fatti noi uomini, misera carne." Erano soli, Endriade ed Elisa Ismani, nel bosco. Usciti dalla cittadella del robot, si erano incamminati su per i prati, finché cominciavano gli alberi. Si inoltrarono nell'ombra. "Con me era Aloisi. Più giovane di me. Un genio. Tipo romantico. Peggio di me. Conosceva Laura. La conosceva molto bene, capisce? Che bell'uomo, era. Un Sigfrido, o un angelo, sembrava. E io sentivo che fra lui e Laura... In un certo senso era fatale. Ma, come altre volte, tante, io tacevo. E lui taceva. Poi lei è morta. Potevo odiarlo ormai?" Sospirò. "Costruire il superuomo. Uguale a noi e più perfetto. Si sarebbe detto un immenso lavoro di pazienza, al punto che si era arrivati. Ma la cosiddetta coscienza? La consapevolezza dei sentimenti e desideri? Il centro dell'anima? "E' stato Aloisi a fare il passo decisivo. Una grande invenzione. In uno spazio minimo racchiusa l'essenza della creatura, il carattere, l'impronta misteriosa che ci fa diversi l'uno dall'altro. A vederlo, in paragone del resto, sembra una cosa ridicola. Un uovo di vetro, alto un paio di metri. Lo vedrà. Con dentro il capolavoro supremo della scienza. Io stesso il segreto non lo conosco. Aloisi se lo è portato nella tomba. Le sue carte, i suoi appunti, non siamo stati più capaci di trovarli. "Mi ricordo il giorno che me ne parlò la prima volta. "Chi dobbiamo mettere al mondo?", mi domandò, e si sarebbe detto che scherzasse. "Uomo? Donna? Conquistatore? Santo?". "La mia terribile idea fissa, la mia ossessione era là, in agguato. Poteva lasciarsi sfuggire l'incredibile occasione? Per la prima volta nella storia del mondo si poteva... Una creatura morta, capisce Elisa?, riaverla tale e quale. Senza più il corpo di prima. Ma che conta il corpo, a un certo punto di dolore? "Laura", gli dissi, "puoi rifare Laura?" "Aloisi mi guardò. Me li ricorderò per sempre quegli occhi di arcangelo, che lampo. C'era il rimpianto, la paura, la speranza, la stessa speranza, anche se la mia era più grande. "Furono mesi di follia. Da un anno mi ero risposato. Non c'era questione d'amore, con Luciana. Era stata per tanto tempo mia assistente. Buona e fedele. Senza di lei, dopo la disgrazia, chi sa se avrei tirato avanti. Non mi chiedeva niente. Solo adorarmi. Non so neanche se, sposandomi, sia stata felice. Tutto fu così naturale e semplice. Un cuore grande, devo dire. Gelosa del mio dolore? Mah. Forse ha cercato sempre di nasconderlo. "Vedendomi ripreso dal lavoro, lei, Luciana, credette che io mi fossi liberato. E io lavoravo per riavere Laura. Che bello scherzetto, no? E ignobile. Una menzogna cento volte peggio di quelle che inventava Lauretta per... Ancora adesso Luciana non sa. Guai se sapesse. "Basta. Sarebbe assurdo tentassi di spiegarle come è fatto il Numero Uno. La prima grande fatica era stata di organizzare le facoltà raziocinanti che operassero su valori astratti. Questa la base, ma appunto perché logica, la costruzione era riuscita relativamente semplice. Più difficile l'innesto dei dati sensoriali. A questo punto tutto si è paurosamente complicato. Ciascuna delle sollecitazioni, visuali, sonore, tattili, eccetera non solo doveva essere registrata

negli archivi ma collegata a tutti gli altri nuclei sensoriali e quindi assimilata, valutata e sistemata in un quadro razionale, sottoposta a un giudizio critico. Dopodiché ne poteva derivare o meno un impulso all'azione. Ma lei mi segue, Elisa?, ho paura che lei..." "Ma no, ma no. E' terribilmente interessante." "Poi c'era il problema della libertà. Se si voleva creare un pensiero autonomo, a un certo punto bisognava abbandonarlo a sé. Determinismo sia pure, ma la determinazione non poteva venire soltanto da noi. Altrimenti che restava? Una macchina schiava e passiva. "Del resto, a un certo punto, lasciare la creatura in balia a se stessa era comunque inevitabile. A un certo punto, dopo averle dato tutti gli organi adatti, si era dovuto rinunciare al controllo di tutti i passaggi successivi. A parte la vertiginosa complessità degli elementi in gioco, dopo un certo limite si notava, da parte dell'automa, una specie di capriccio, di arbitrio, di libera scelta. Per lo meno non è dato a mente umana seguire il corso dei suoi pensieri. Tanto più che noi, in un dato istante, possiamo pensare a una cosa sola, mentre il nostro bestione è in grado di sviluppare contemporaneamente perfino sette operazioni mentali indipendenti l'una dall'altra e tuttavia corredate in una unica coscienza. "Insomma, ad un tratto si perdeva il filo, e non restava che registrare il comportamento della macchina. Così come nel Carso si vede sprofondare il fiume in una spelonca per poi ricomparire alla luce qualche chilometro più in là; ma ciò che l'acqua ha fatto nel frattempo nessuno è in grado di sapere. "Ora, Elisa, si è mai domandata il nostro senso di libertà dove nasce? Qual è la sua ultima origine? La condizione prima e indispensabile che ci fa sentire, perfino in prigione, perfino nelle malattie mortali, padroni di noi stessi? Senza del quale non ci resterebbe che impazzire?" "Dio mio" disse Elisa Ismani. "A questi enigmi non ci ho mai pensato, le confesso." "Voglio dire", fece Endriade, "che la vita ci riuscirebbe insopportabile, anche nelle condizioni più felici, se ci fosse negata la possibilità di suicidio. Nessuno ci pensa, si capisce. Ma se l'immagina cosa diventerebbe il mondo se un giorno si sapesse che della propria vita nessuno può disporre? Una galera spaventosa. Pazzi, si diventerebbe." "E allora, anche alla vostra macchina?" "Anche a lei. Perché potesse vivere come noi, bisognava che avesse la facoltà di annientarsi." "Ma come?" "La cosa più semplice, per questo. Una buona carica di esplosivo, che potesse comandare." "E gliela avete data?" Endriade abbassò la voce. "Glielo abbiamo fatto credere. Il dispositivo esiste. Ma al posto di tritolo, c'è della sostanza inoffensiva. Basta che lei non sappia. Col suo temperamento, Lauretta, in un impeto di rabbia, sarebbe capace di..." "E venne il giorno X", continuò Endriade, "il momento decisivo in cui l'essere da noi creato si sarebbe mosso tutto insieme. Abbandonato a se stesso. E noi non potevamo più intervenire. "Fino a quel giorno non era che una congerie di meccanismi e di circuiti, un volgarissimo cervello elettronico. Ora il ganglio escogitato da Aloisi, la cellula della personalità, l'uovo di vetro

che dicevo, l'intima essenza della creatura, sarebbe entrato in azione. Di là, attraverso l'automatico equilibrio dei compensi inerziali, si sarebbe irraggiato il lume della coscienza, con la capacità di godere e di soffrire. Ma non ci sarebbe stato qualche errore? I calcoli erano esatti? Che cosa sarebbe successo realmente? Chi sarebbe venuto al mondo? Laura o un essere sconosciuto e imprevedibile? "C'era semplicemente da abbassare la leva di un interruttore. Un momento difficile, direi. Tutti col fiato sospeso." "Ma gli altri", chiese Elisa Ismani, "sapevano di Laura?" "Aloisi e io soltanto. Per gli altri era semplicemente il Numero Uno." "Chi ha abbassato la leva?" "Io. Con questa mano. E pensavo: Laura, Laura, fra un attimo forse sarai di nuovo qui con noi." "E dopo?" "In apparenza nulla. I milioni di circuiti hanno ricevuto la corrente, i fili magnetizzati hanno cominciato ad avvolgersi sulle bobine, riportando e dando informazioni. Si è udito soltanto, per tutta la valle, una specie di brusio. Credevo di non farcela, da tanto era l'affanno. "Poi ci fu una specie di intoppo, il brusio cessò, per un momento pensai che tutto fosse andato a remengo. Guardai Aloisi che era di fianco a me. Capì. Scosse il capo. Sorrideva. "In quel mentre il mormorio riprese. Era come un respiro immenso. L'automa, il Numero Uno, la creatura cominciava a vivere. Ma era Laura o un X qualsiasi? "Manunta, mi ricordo, mi portò i primi dati emessi dal robot. E' una faccenda lunga da spiegare. Si immagini un nastro con su tante lineette orizzontali, di diversa lunghezza e disposte in vario modo. E la raffigurazione grafica delle attività mentali. Non è una lingua. E il segno stesso del pensiero. Un linguaggio assoluto. Una faccenda complicata, questo sì. Per leggere ci vuole una pratica lunghissima. Finora. Domani forse si troverà il modo di tradurlo automaticamente in una lingua. E proprio quello che vorrei facesse Ismani, suo marito. "Bene. Guardo questi primi nastri, per la verità poco impressionanti. Qualche notizia generica. Descrizioni del tempo. Avvistamento di un aereo e di una specie di aquila. Rettifica di un calcolo eseguito due giorni prima. Perché già da qualche tempo, per l'avviamento indispensabile, il Numero Uno funzionava. Ma privo ancora di coscienza, per così dire, senza la correlazione simultanea di tutte le attività. "In quel mentre ecco quello che non si era neanche sperato, l'assoluta conferma: la voce. E' un fenomeno in gran parte inesplicabile. Alla macchina non ci eravamo preoccupati di dare un organo vocale: questo poteva, se mai, servire per il grosso pubblico, come nei robot da baraccone, un virtuosismo tecnico, nient'altro. Ma al nostro scopo non serviva. "Eppure, non sappiamo ancora adesso come, una voce è venuta. Lei l'ha sentita, Elisa. Non è il rumore inevitabile dei mille e mille meccanismi in moto. E' una cosa a sé, una vibrazione autonoma che nasce contemporaneamente e con uguale intensità da vari compartimenti, ora qui, ora lì. "Da principio ho pensato a un guasto. Poi mi è parso di riconoscere il tono, il timbro, l'espressione. L'esperienza più forte della mia vita. Suoni inarticolati. Non avevo la più lontana idea di cosa

significassero. Ma ho riconosciuto Laura. "Elisa, ha in mente certe musiche elettroniche, dove la voce umana, le parole, son trasformate e le parole non si afferrano più ma l'espressione resta, anzi è accentuata al massimo ? I vocaboli, le frasi non esistono, eppure la musica dice tutto ugualmente. Non il discorso vago e polivalente della musica classica ma un discorso di estrema precisione, più esatto ancora, in certo senso, di un normale discorso articolato. "Così la voce. E l'ho subito messa in rapporto con le estrinsecazioni del pensiero sul filo magnetizzato in base alle formule di Cecatieff. E allora mi sono chiesto: per caso, questa voce incomprensibile non corrisponde a quegli impulsi? Abbiamo subito fatto la prova. Bastava tradurre in suono la banda magnetizzata. E il risultato è stato impressionante: lo stesso identico suono. "Ma quello che veniva via via registrato sui fili non coincideva con le modulazioni della voce. La voce era una cosa indipendente. Non lasciava tracce negli archivi. Che cosa diceva? "E' una faccenda di circa dieci mesi fa. Può immaginarsi allora come mi sono intestardito per venirne a capo. Decifrare quella voce. Una fatica bestiale. Prima interpretare, in base al nostro modulo, i normali fili magnetizzati dall'automa. E fin qui era una operazione prevista. Ottenuto il senso, ricavare dagli stessi fili un effetto fonico. Mettere in correlazione quei suoni informi col significato già noto. Trovare le corrispondenze, allenare l'orecchio ad afferrarle nelle minime sfumature. Un po' come chi impara l'inglese. Tra le parole scritte e le parole dette sembra che non ci sia nessun nesso. Poi a poco a poco ci si abitua. Ma era cento volte più difficile ed astruso. Però ci sono riuscito." "E adesso lei capisce tutto?" "Quasi." "E lei solo capisce? Nessun altro?" "Manunta, sì. Non proprio come me, ma quasi. Manunta è un uomo in gamba. Mi vuole bene. Non mi tradirà mai." "E Strobele?" "Strobele? Penso che lei se ne sarà già accorta: un tecnico stupendo Strobele. Senza di lui saremmo rimasti a terra. Un pianificatore perfetto. Per il resto, un completo imbecille. Cosa vuole che intenda queste cose?" "E Aloisi?" "Aloisi sono convinto che capisse la voce per lo meno come me. Ma Aloisi non me l'ha detto mai. E nemmeno io gliel'ho chiesto. Non rida: fra noi due, Aloisi e io, a separarci, c'era di nuovo Laura. Poi Aloisi si è ammazzato in montagna. Forse meglio così." "E Laura, lei l'ha riconosciuta sùbito?" "Sùbito. Per me e probabilmente anche per Aloisi, l'emozione più forte della vita. Da questo orrendo fortilizio fabbricato con i numeri usciva il suono di una donna, di quella unica donna che per anni aveva divorato i miei pensieri. "Per un momento, lo confesso, mi sono sentito quasi un dio. Dal niente, dalla materia morta, riuscire a tirar fuori una creatura! Accanto a me c'era Aloisi, e mi guardava, mi guardava. Senza gioia, però, senza nessuna espressione di trionfo. ""Cos'hai?", gli dico. "Non la riconosci? E' la sua voce, no?" Lui resta là, perplesso. "La voce, sì", dice, "ma non è lei." "Cosa voleva dire? La voce era di Laura. Solo la voce. Il resto,

quello che volgarmente chiamano personalità, era di un'altra, di un essere ignoto, indifferenziato. O meglio, nel complesso era lei, però qualcosa ancora mancava, il segno, quella misteriosa essenza che fa ciascuno di noi unico al mondo. "Rinunciare? O ricominciare tutto da capo? Confesso che, senza Aloisi, avrei abbandonato la battaglia. Ma Aloisi conosceva Laura come me, forse meglio di me. Ci chiudemmo giù nei labirinti dell'automa. Si fece fermare tutto, il Numero Uno ritornò una cosa atona e morta. "E adesso qui è impossibile spiegarle, cara Elisa, che razza di lavoro fu. Come il ritocco di un cervello. Come la rettifica di un'anima. L'errore era stato di ricostruire Laura come avrei desiderato che fosse: buona, fedele, appassionata. Cioè diversa da lei. Perché fosse veramente Laura, occorreva metterci dentro il veleno, le menzogne, la scaltrezza, la vanità, l'orgoglio, i pazzi desideri, tutto ciò che mi aveva fatto tanto soffrire. Insomma, per riaverla, la mia Laura, dovevo ricominciare l'infelicità. "Ed ecco. Me lo ricordo, era una sera di febbraio, tutto era coperto di neve, cominciava a venir buio e io ero nel mio studio, a casa. All'improvviso il suono del mostro, della creazione nostra che riprendeva a vivere. E la voce, la sua voce, di Laura, ancora. "Di colpo qui, alla bocca dello stomaco, come una tenaglia di fuoco. Una inquietudine. Uno struggimento. Una disperazione. L'amore. "Ora sì che era lei, finalmente, Laura. Non potevo sbagliarmi, avevo ricominciato a soffrire." "L'amava tanto?" "Dal primo giorno", disse Endriade. "Non avevo avuto più pace. Fidanzamento, nozze, vita in comune, niente era servito a togliermi il tormento. Vederla, toccarla, sentirla a mia disposizione in ogni ora del giorno e della notte non bastava. Era lontana, straniera, chiusa in desideri e pensieri inafferrabili. Lei rideva, scherzava. Niente. Io non trovavo requie. Semplice: io l'amavo, e lei no. "E adesso ricominciava il supplizio. Di nuovo la sentivo vicina, palpitante, estranea e irraggiungibile. Era chiusa nella ermetica cittadella del Numero Uno, non si poteva muovere, non poteva fuggire, non poteva tradirmi se non col pensiero. Eppure l'ansia era identica a una volta, quando Laura era di carne. "Lei forse, Elisa, non ha mai passato un'esperienza simile. Perdere la testa per una persona che non potrà essere mai completamente sua. E non pensare ad altro, senza un respiro, giorno e notte. I nervi sempre tesi. Mai un istante di riposo. E i dubbi, le immaginazioni, i sospetti di ogni genere come aghi che entrano nel cervello a tradimento. "Anche adesso, che le sto parlando, in questo bosco tranquillo. Un'inquietudine, una sospensione di cuore. Lei, Laura, è là, nel vallone, immobile, io ne sono l'assoluto padrone. Ma so io che cosa pensa? che cosa pensa di me? Ha imparato a mentire. E' così astuta da ingannare perfino i registratori magnetici. E' sfuggita al nostro controllo. I suoi segreti pensieri non li potremo raggiungere mai. E io qui, - lei mi vede, - io miserabile, schiavo, demente..." "Endriade, in tutta questa storia una cosa non riesco a capire. Il vostro impianto è stato fatto per conto del ministero della guerra, no? Non dovrebbe servire per la guerra?" "Già. Ci si riprometteva di realizzare una capacità di calcolo, non solo, un potere d'intuizione superiore alla mente umana. E così risolvere problemi che sono ancora tabù. Potrei citarne a decine. La

diffrazione artificiale del campo, per esempio, con cui, lungo un confine, si potrà costruire, senza limiti di altezza, una muraglia invisibile. E qualcosa, stia pure certa, il Numero Uno ci darà." "Ma come è possibile?", disse Elisa. "Se il Numero Uno possiede questa tremenda capacità di calcolo, allora non può essere Laura. Oppure è Laura e allora direi che in fatto di calcoli vi farà restare a secco." "Insomma, lei pensa, Elisa, che io ho tradito la Patria? Si poteva diventare la nazione più potente del mondo, una forza invincibile, e io, per la mia smania d'amore, ho rovinato tutto quanto. Potevamo avere il cervello più geniale del creato e invece... un simulacro di donna, di piccola donna capricciosa. E' questo che lei pensa?" "Un poco sì." "Era infatti la nostra preoccupazione. C'era il caso, per volere troppo, di non ottenere né una cosa né l'altra, né il cervello formidabile né il ritratto di Laura. Per fortuna ce l'abbiamo fatta. "Mi intende, Elisa? Siamo riusciti. La personalità di Laura convive con una specie di supremo genio matematico. Siamo riusciti. Pensi un po' se fossero venuti qui i paponi del ministero e avessero detto: "Coraggio, Numero Uno, quanto fa la radice cubica di sette nove sette cinque sette nove alla ventiquattresima?". E il Numero Uno avrebbe risposto con delle smorfiette." "Io però non la vedo, la Laura, professoressa di matematica superiore", disse Elisa Ismani. "Il cervello di Einstein, al paragone del suo, glielo garantisco, era una scatoletta di cerini. Eppure è Laura, lei, donna fino alla radice dei... Dio mio, fino alle radici delle mura... Mi guarda? Mi crede pazzo?" "Perdoni, Endriade. Tutto questo è così fantastico." Si accucciò sulla radice di un abete. Intorno, il tappeto di aghi secchi, rami secchi, tracce di formiche. Qua e là rilucenti macchioline di sole si spostavano ai respiri del vento sulle piante. Un uccellino, insistente, sopra di loro, chiamava chiamava. Chi chiamava? E di là, dall'esterno del bosco, dal vallone, quel misterioso rombo, di lei, forse, lontano brusio di giovane vita. Rialzò il capo a guardare Endriade, quell'uomo straordinario e disperato. Sorrise. "E adesso? Sempre infelice?" Egli si passò una mano sulla fronte. "Non so. In certi momenti mi pare di aver ricominciato a vivere. Ma c'è quella perenne inquietudine. E poi ho paura, paura..." "Paura di che?" "Paura di tutto. Paura di sconosciuti nemici. Si immagina se all'estero non sanno della nostra impresa ? Agenti, spie, sicari . Mi par di sentirla, la loro muta, ronzare intorno. Come un esercito di termiti che rodono rodono per entrare. E distruggere. Muri, sbarramenti, posti di blocco, dispositivi d'allarme, reticolati ad alta tensione. Balle. Io non mi fido. E poi non è neppure questo. Mi attacco alla paura di attentati per non pensare all'altra." "Quale altra?" Endriade scosse la testa, i capelli grigi ondeggiarono di qua e di là. Batté un piede a terra con rabbia. "Ci conosciamo da pochi giorni, noi due. Non sappiamo niente l'uno dell'altra. Due viaggiatori che si incontrano nello scompartimento ferroviario, per qualche ora. Mentre il treno va, va. E io... eccomi qui a dirle i più gelosi segreti della vita, a confessarle la mia

perdizione. Oh Laura, Laura, non riesco ancora a credere che sia tornata!... Per opera mia. E se... se..." "Penso di poter esserle amica", disse Elisa con dolcezza. "Se... se...", fece Endriade, assorto, lentamente, "se il miracolo si compisse fino in fondo. Se in questa Laura ricostruita da noi pezzetto a pezzetto, cellula a cellula, si insediasse l'anima della vera Laura, l'anima che finora vagava per la terra e per i cieli, forse. Voglio dire: se questa nostra Laura, strappata dalla tomba coi nostri trucchi matematici, questa Laura artificiale, che Aloisi ed io abbiamo costruito felice, allegra, spensierata, che spande intorno - se ne sarà accorta, spero - un flusso di letizia, di vitalità, di giovinezza, se questa Laura diventasse la autentica Laura fino in fondo, se a poco a poco ritornassero in lei i ricordi della prima vita? e i desideri? e i rimpianti? E allora misurasse la orribile condizione in cui si trova adesso, trasformata in una centrale elettrica, inchiodata alle rupi, donna ma senza corpo di donna, capace di amare ma senza possibilità d'essere amata se non da un pazzo come me, senza una bocca da baciare, un corpo da stringere, una... Capisce, Elisa, che inferno diventerebbe allora la sua vita?" "Ma questo è assurdo. Guai, caro lei, se dà retta a queste insensate fantasie. Lei ha riportato al mondo una creatura. Nessuno al mondo mai ha fatto altrettanto. Neanche gli imperatori, neanche i santi. Soltanto questo dovrebbe bastare. Chi ha mai avuto una simile vittoria?" Anche Endriade si sedette ai piedi del tronco. Il volto si rischiarava. Trasse di tasca un pacchetto di sigarette cincischiato. "Fuma?", chiese a Elisa. "No, grazie, io non fumo mai." I lumini del sole sul terreno si spensero. Una nube stava passando davanti al sole. Endriade accese. Elisa Ismani chiese: "Ma, dico, questa Laura le vorrà un poco di bene". Endriade la guardò fisso: "A me volermi bene?". Scosse il capo. "E lei come fa a parlarle?" "Parlarle? Sono messaggi in termini di numeri. O di grafici mentali, come diciamo noi. Niente di compromettente. Vengono tutti registrati dagli archivi. Domani potrebbero essere ricostruiti con la massima facilità; da una commissione di inchiesta, per esempio. Già me la vedo arrivare io, da un giorno all'altro." "E allora, questa Laura, di lei non sa niente?" "Chi sa. La nostra lingua non gliela abbiamo insegnata, questo no. Sarebbe stato inutile. Forse pericoloso anche. Il linguaggio, gliel'ho già detto un'altra volta, mi pare, è una trappola per il pensiero umano. Però, da qualche tempo..." "Dica, dica, Endriade." "Da qualche tempo, ma forse è soltanto la speranza, ho l'impressione che, quando noi parliamo, lei capisca. In fondo, teoricamente, per decifrare qualsiasi discorso di qualsiasi lingua, lo strumento mentale glielo abbiamo fornito, necessario e sufficiente." "Vuol dire, Endriade, che può capire i nostri discorsi?" "Spero di sì. Ho paura di sì." "E lei, Laura, che dice?" "Laura pensa a Strobele. Si è innamorata di quell'imbecille. Come poteva andare altrimenti? Laura è sempre Laura. E poi, stavolta, intendiamoci, non sono più il marito. Io sono il padre. Io, l'ho messa

al mondo. Della stessa donna, padre, marito, innamorato. In una bella situazione, no?" Gettò la sigaretta, la quale cadde e continuò a fumare lentamente. "Del resto, che importa se non mi ama? Se non sa neanche chi sono? Se non sa neanche che esisto? Che importa? Purché sia contenta..." "Tanto le vuol bene?" "Purtroppo." "E Strobele?" "Strobele. Non me ne parli. Cosa vuole che capisca, l'idiota, di questi adorabili misteri? Ma questa è la legge. Ama, se vuoi non farti amare. Lei perderà sempre la testa per chi non la guarda neanche." Si rialzò in piedi con fatica. "Povero Strobele. Essere amato dalla prima creatura umana creata dall'uomo! Ma lui, per fortuna, non capisce." Endriade guardò l'orologio a polso. "Le dodici e un quarto. E' tardi. Chi sa Luciana. Andiamo?" In quel momento il mormorio lontano della valle stregata, immerso nel silenzio della natura, salì. Ci furono dentro delle strane pause, ciascuna seguita da una accelerazione di moto, da un ansito, come chi respira, ma l'aria non gli basta, e avidamente inghiotte, e nel petto c'è un piombo, e si comincia a pensare la morte. Endriade si tese tutto, sembrava l'evaso che, ormai sicuro della libertà, ode il passo degli sgherri all'improvviso . "Cosa c'è, Endriade?" Non le badava più. A scatti, si guardava intorno, con angoscia. "Madonna!", era un gemito. "Non sente? Che cosa le hanno fatto?" Silenzio. Poi una voce umana che chiamava. "Professore Endriade, professore!" 16. Quella stessa mattina - mancava poco a mezzodì e sui prati gli insetti facevano un ininterrotto ronzio - Giancarlo e Olga Strobele scesero per i prati alla riva del Turiga, il placido rio che contornava alla base le mura perimetrali del Numero Uno. Non c'erano cabine e spogliatoi, non ce n'era bisogno, la campagna intorno era deserta. Per un eccesso di pudore, Strobele, vestito solo di maglietta, calzoni bianchi e sandali, andò a spogliarsi dietro una macchia di noccioli. Puritano com'era, appena fu in calzoncini, quasi che l'esporre il proprio corpo all'aria libera gli desse un senso di vergogna, o di peccato - e sì che nel complesso era un bell'uomo - non stette a gingillarsi sulla riva ma si tuffò immediatamente. Come riemerse dalle acque lisce, verdi e profonde, si voltò verso la riva in attesa che anche Olga si buttasse. Ma ciò che vide lo lasciò interdetto. Controsole, snella come quando era adolescente, Olga era in piedi sulla riva, completamente nuda. Le braccia sollevate ad anfora per aggiustarsi lo "chignon", offriva senza imbarazzo a lui, al sole e alla natura, la vista del suo corpo bellissimo e sorrideva di benessere. "Olga, su, mettiti il costume", gridò lui galleggiando sul dorso a lente bracciate. "Non ce l'hooo", rispose lei facendo il verso delle bambine capricciose. "L'ho dimenticato a casa." "Allora rivestiti e vallo a prendere." La voce si era fatta dura. "Ma nemmeno per sogno. Chi mi può vedere qui? Non dovrò mica aver

vergogna di te, spero." "Su, Olga, non far storie. Potrebbe girare qualcheduno." "Ma se il posto è tutto cintato. E poi ci sono i cani." "I cani non ci sono più." "Come non ci sono più? Neppure Wolf?" "Giorno e notte abbaiavano dal giorno che quello là... da quando il coso ha cominciato a funzionare, sembravano impazziti." "Avevano paura?" "Basta, Olga, non staremo qui a discutere." "Ah Giancarlo", e la moglie scoppiò in una risata, "adesso capisco! E' per lui? E' per lui che dovrei aver vergogna?" "Olga, mettiti almeno un asciugamano addosso. Potrebbe passare Endriade, o Ismani, o qualcuno degli elettricisti." "Senti, Giancarlo. Lo sai che qualche volta tu mi sembri diventato matto ? Della vostra macchina, del vostro cervellone elettronico dovrei aver vergogna? Hai paura che si scandalizzi?", e si abbandonava alle risate. "Hai paura che si ecciti?" Sempre ridendo, la donna nuda si volse al più vicino padiglione del robot, basso parallelepipede di calcestruzzo che si ergeva, a una distanza di circa ottanta metri, sulla sommità del pendio erboso, seminascosto da gruppi irregolari di cespugli. E gridò allegramente: "Ehi tu, dico, bel tomo, mi vedi?" Così strillando, le braccia alzate in atto di offerta, mostrava all'automa tutta la sua sfrontata nudità. "Basta, basta! Vergognati!" Giancarlo Strobele era fuori di sé. Con tre bracciate fu alla riva, balzò dall'acqua, si lanciò verso la moglie. Ma Olga con un guizzo gli sfuggì e tra nuove risa corse su per il morbido prato, in direzione del robot. Lui dietro, a balzi irregolari e goffi, incespicando per le dolorose fitte, quando gli steli, trinciati dalla falce, gli si conficcavano nella pianta dei piedi. Olga, invece, quasi fosse insensibile, galoppava sull'erba leggermente. Ma con l'impeto moltiplicato dalla collera, mentre lei si voltava indietro a beffeggiarlo, Strobele si gettò a tuffo, riuscendo ad afferrarle una caviglia. Olga stramazzò in avanti. "Ahi! Sei pazzo? Che cosa ti prende?", urlò per il dolore della botta, cercando di rialzarsi. Lui però la teneva. Con un violento strappo la trascinò verso di sé, l'afferrò per le spalle, la rovesciò supina e rabbiosamente le menò uno schiaffo. Di colpo le risate della donna si ruppero nei sussulti dei singhiozzi. Contorcendosi, scalciando, si rivoltò, e pestava i piccoli pugni sulle massicce membra del marito. Ma in quel mentre, subito dietro una siepe di arbusti, una voce si levò: "Professore, professore!". "Su, nasconditi là, nasconditi e sta ferma", disse affannato Strobele facendo segno a una macchia densa di fogliame. E, mollata la presa, balzò in piedi. "Perdio, nasconditi", ripeté correndo dalla parte donde il capotecnico Manunta chiamava. Stavolta lei obbedì. Ansimando ancora per la lotta, si acquattò all'ombra di un cespuglio e restò immobile, mentre il marito scompariva di là delle piante. Strobele si fece incontro a Manunta che scendeva di corsa verso il fiume.

"Manunta, cosa succede?" "Ah, professore", fece l'altro. "Deve venire subito. Là, nel compartimento sette c'è qualcosa che non va. Ho paura che un convertitore di reazione abbia fatto massa e sia saltato." "Quando è successo?" "Tre, quattro minuti fa. Ero nella sala di controllo, avevo appena finito il mio giro, quando ho sentito un rumore, una specie di ronzìo. Viene dal compartimento sette. Tre lampadine rosse accese." "Valvole?" "Valvole, sì. Ma questo poco male perché il Blooster aveva funzionato. Il guaio è che dopo..." "Basta, ho capito. Tu, Manunta, corri e riporta tutto al minimo. Corri, fa presto. Io mi vesto e ti raggiungo." 17. Dall'ombra del cespuglio Olga sentì Giancarlo allontanarsi e le voci perdersi laggiù. Al fresco vegetale, il sudore della corsa le si raffreddò sul corpo nudo. Ebbe un brivido. Restò il grande silenzio meridiano dell'alpe con il mormorio, nelle sue profondità, della vita che in certo modo trionfava là, sui prati abbandonati al sole, giovani e freschi, nella gioia della prima estate. Ma, confuso con questo brulichio di infinitesime voci, un altro suono. Anch'esso vasto, indefinibile, fatto di una quantità innumerevole di particelle che formavano un coro di sussurri, soffi, scatti, battiti, tremiti, strisciamenti, esili fischi, sospiri, remoti tonfi, echi di lontane cavità in vibrazione, soffice vorticare di ruotismi, fruscii di condutture, flussi viscosi, elastici contatti. La voce dell'automa, del Numero Uno, sterminata creatura artificiale adagiata sul paesaggio. Allora la donna si alzò in piedi e uscì alla luce, ansiosa di ricevere il sole su di sé, di sentire quel caldo meraviglioso entrarle dentro e risvegliarle dolci desideri. In quel preciso istante le giunse un suono nuovo; sopra la fissa vaga sonorità del cervello artificiale si innestò, di colpo, un ronzio più individuato, quasi che delle cose si fossero messe improvvisamente a girare con rapidità frenetica: un affannoso rotolio nella speranza di uno sfogo, corsa disperata della macchina precipitante verso una liberazione misteriosa. Simile al lamento di cento anime sepolte nelle intimità del labirinto che sommessamente gemessero, invocando. Olga si fermò in ascolto e la bocca le si apriva al riso. Le sembrava comico. Rivolta al più vicino padiglione, esaminava i luccicanti oblò convessi che, aperti qua e là nelle ermetiche pareti con disegno capriccioso, davano al basso edificio una espressione. Quelle gigantesche pupille convergevano, le parve, su di lei, con una curiosità ingorda, le sembrava di sentire degli sguardi premere sulle sue carni bianche cosparse di lentiggini. Quel mugolio di macchine, là dentro, accelerò il ritmo ancor di più, poi di colpo si ruppe, perdendosi in singulti giù per pozzi ignoti scavati nelle viscere, come gorgo d'acqua che il tubo inghiotte a sorsi. "Uno", chiamò lei, per gioco, a voce bassa, avvicinandosi. "Uno, mi vedi?" Toccò con una mano il muro e si accorse che in quel punto, lungo la parete, c'era una fascia, alta circa un metro, di una sostanza cedevole ed elastica. Scottava, da tanto era il sole.

Guardò su, verso i cristalli tondi degli oblò, verso certe feritoie sghembe, sfiatatoi, enigmatici pertugi che si aprivano qua e là nella candida parete. Microfoni, cellule fotoelettriche, obiettivi fotografici, bocche di altoparlanti? Ma l'automa non fiatava più. Si guardò intorno. Invasi dal sole, prati, alberi e cespugli sembravano assopirsi lentamente. ;'Giancarlo", lei pensò, "si preoccupava che non mi facessi vedere nuda. Perché? Che veramente...?" Sorrideva fra sé. Più ci pensava, più la cosa le pareva ridicola, ed assurda. Possibile che avessero costruito una macchina capace di...? Chi la vedeva? Chi avrebbe mai saputo? Perché non provare? Forse la fascia di sostanza elastica corrispondeva a un organo di percezione sensoriale. Olga aprì le braccia e con gesto inverecondo appoggiò il petto alla parte calda. Ci sarebbe stato, da parte dell'automa, qualche segno di comprensione? Dietro la lastra, nelle viscere della macchina, quel ronzio di prima - o era soltanto suggestione? - si ridestò, con successivi scarti, alzandosi di tono. Ci furono due tre colpi secchi, come di molle che liberassero nuovi fiotti di energia. Quindi il muro stesso prese a vibrare leggermente. "Uno", lei disse sottovoce. "Uno, mi senti?" Da qualche altoparlante, forse, che Olga non capiva dove fosse, ma poteva darsi provenisse dall'interno del padiglione stesso, venne un gorgoglio confuso. Gurr, gurr! Ma non parole o voci comprensibili. Sempre aderendo all'automa col suo corpo, la donna nuda levò gli occhi. Si accorse che sul ciglio della casamatta, proprio sopra di lei, qualcosa lentamente si muoveva. Incuriosita, si ritrasse per guardare. Erano le antenne, fatte ad asta, a racchetta, a ciuffo, a reticella, che, uscite dall'immobilità, cominciavano a spostarsi con scarti quasi impercettibili. Ma a destra, in basso, quasi al livello del terreno, un'altra cosa attirò i suoi sguardi. Nel muro, fino allora ininterrotto e liscio, c'era un sottile segno scuro e orizzontale che si dilatava lentamente. Una paura irragionevole la tenne ferma, il fiato sospeso. Guardando meglio, credette di capire: inserito in una concavità con tanta precisione da confondersi con la uniformità del muro, un organo, un braccio, un'antenna o qualcosa di simile stava per distendersi. Che forma aveva? Disponeva di tenaglie, di uncini, di qualche strumento da presa? Con sforzo si riscosse, si staccò, balzò giù per il prato allontanandosi una trentina di metri. Adesso quasi gridò per il male alle piante dei piedi. Poi si fermò, ansimando, e, accucciata sul prato, rimase ad osservare. Il braccio - perché era veramente un braccio metallico articolato a guisa di pantografo - con moto sornione uscì per una trentina di centimetri, indeciso si arrestò. Ci fu un leggero cloc nell'interno. Le immote occhiaie degli oblò continuavano a fissare - le pareva - lei nuda, accoccolata in mezzo all'erba che il sole riscaldava, sulla schiena. Un calabrone che andava e veniva nel silenzio, pigolii di uccelli verso gli alberi del fiume, nel silenzio. Ma nel silenzio anche quel tenebroso ronzio nelle interiora della macchina che sembrava ansimasse. Il braccio restò immobile per due tre minuti. Dopodiché, con un veloce scatto, rientrò nel suo alloggiamento e la sua parte esterna,

verniciata di bianco, combaciò nuovamente con il piano del muro, così da non essere visibile. Olga ancora sorrise. Evidentemente si era messa fuori tiro e Numero Uno aveva rinunciato a prenderla. E se la avesse presa? Che forza aveva quel braccio metallico? Le avrebbe fatto male? Sarebbe stata capace di svincolarsi? Che intenzioni aveva il mostro? Di toccarla? Di stringerla? Di strangolarla? Il ronzio svaniva a poco a poco, assorbito dalle cavità fonde dell'automa. Finché non si udì più nulla. "Uno", disse lei a voce alta. "Sei arrabbiato, povero Uno?" Dalla casamatta giunse un debole rumore, simile a un chioccio borbottio. Ben presto si dissolse. Era tesa ad ascoltare quando ebbe un soprassalto di paura. Alla sua destra qualcosa - solo l'ombra le aveva sfiorato appena appena il margine dell'occhio - si era spostata rapidissima. Di scatto si voltò, col cuore che furiosamente le batteva. Ah. Le venne da ridere. Sollievo. Non era qualche altra propaggine del robot sbucata di sotterra per ghermirla (perché questo era stato il primissimo pensiero). Un coniglio selvatico. Uscito da una delle siepi che risalivano il pendio fin quasi alla base dei muri, era balzato sull'aperto prato, fermandosi a circa cinque metri dalla costruzione. Brucò l'erba qua e là svogliatamente, finché rimase fermo, le orecchie dritte, come per un pericolo imminente. Solo il naso aveva delle rapide nervose contrazioni, fiutando l'aria. Ma evidentemente non capiva. La bestiola, cercando, girò la testa in su, dove tre vitree occhiaie rompevano l'uniformità della parete. Fulminea, dalla base del muro, con uno slang sinistro, una sottile propaggine schizzò orizzontalmente, proiettata da una molla. Minima frazione di secondo. Il coniglio accennò a uno scarto per mettersi in salvo ma eccolo, meschino, attanagliato dalla pinza. Il braccio metallico, a duplici snodi, di struttura leggerissima, ebbe dei successivi fremiti. Stringeva. A ogni contrazione, la bestiola si dibatteva, con piccole strida. Ma la pinza affondava sempre più le due branche nel torace. "Lascia! lascia!", gridò Olga inorridita senza osare avvicinarsi. Fu in piedi, cercò un sasso, un legno, un coso qualsiasi. Ma non c'era niente. Il coniglio continuava a cigolare. Nello sforzo di una nuova stretta, il braccio addirittura si inarcò. "Lascia! Lascia!" Ma l'antenna si alzò sollevando il coniglio da terra, girò lateralmente descrivendo un angolo di quarantacinque gradi, si arrestò in direzione della donna. Le branche si aprirono, l'animaletto piombò sull'erba con un piccolo tonfo. E qui giacque negli ultimi sussulti. Poi il braccio tornò, ruotando, alla direzione primitiva, calò, adagio adagio si ritrasse. Fu allora che, di là di ogni raccapriccio, la verità si rivelò alla donna finalmente. Incespicando, Olga fuggì verso la riva, dove erano i vestiti. "Tu, tu, maledetta!", gridava. Il prato rimase deserto nella solitudine del sole. Però quel piccolo mucchietto di pelo bruno, che non si muoveva più. 18.

La scena è notte, e piove. Buio. Pioggia lieve che però un vento freddo sbatte qua e là, sulle terrazze del Numero Uno, fischiando fra le antenne e i tralicci, lamentosamente, a 1350 metri circa sul livello del mare. Nel pomeriggio, dalla Valle Texeruda, erano cominciate ad arrivare nuvole. Trasmigrando verso il nord facevano passare delle grandi ombre sui prati, sui boschi e le montagne di roccia le quali, da candidi castelli felici, si trasformarono di colpo in nerastri muraglioni corrosi e sinistri. Poi sul fondo del settentrione le nuvole avevano cominciato ad ammucchiarsi formando gigantesche incastellature crollanti di colori violacei. L'ammassamento a un certo punto, siccome a nord non c'era più spazio, cominciò a estendersi verso il basso. E da Val Texeruda le nubi continuavano ad arrivare. Finché si formò un soffitto grigio altissimo e uniforme. E di sotto le nubi continuarono a muoversi. E adesso sulla Valle Felice è venuta la notte, piove e il vento qua e là zufola in modo lamentoso. La moglie di Endriade, come sempre quando cambia il tempo, ha l'emicrania ed è già andata a letto con due "cachets". Ismani nella sua villetta sta studiando le relazioni e i piani che gli ha dato Strobele perché finora non ci ha capito gran che ed è ansioso di aggiornarsi. Gli Strobele, marito e moglie, chiacchierano e fumano, irrequieti. Il capitano Vestro, che finora non si è mai fatto vedere, probabilmente sta giocando a carte coi suoi uomini del minuscolo presidio interno, sistemato in una minuscola casermetta molto più in là. Tutti costoro non sanno niente, non hanno sospettato niente di quello che è successo oggi. Soltanto Olga Strobele di tanto in tanto ha una specie di brivido ricordando la piccola avventura di questa mattina. L'ha raccontata al marito ma lui non ci voleva credere e poi si è messo a ridere. Però Olga non gli ha detto della sensazione avuta all'ultimo momento, quando si è resa conto che il Numero Uno maschio non era e a lei è venuto addosso lo schifo e subito è scappata via per rivestirsi; al marito non ha detto niente e il motivo non è il pudore, anzi le piacerebbe molto discutere a lungo la questione, ma sa benissimo che in queste cose lui è un cretino assoluto, oltre che infetto di "pruderies" puritane (e forse proprio perciò lo ha sposato volentieri, l'idea di riuscire a corromperlo un poco la seduceva intensamente). Neppure Olga, che pure era stata così vicina a indovinare fino in fondo il grande segreto, sa dunque che cosa è successo. La cosa è cominciata verso mezzodì. Un'improvvisa alterazione di corrente nel complesso degli apparati percettivi. Manunta era nella sala di controllo, se ne è accorto subito. In quel mentre il Numero Uno stava per terminare un complesso elaborato matematico. Senza apparenti motivi - tutto appariva normale sugli strumenti - il calcolo si è interrotto. Una totale caduta di tensione ? Poi le faccende, tecnicamente valutate, si sono rifatte normali. Ma... Ma non è più come stamane, come ieri. Un alone d'ombra dove tutto era felice. Non ombra fatta dalle nubi in arrivo dal sud, essa viene su dal vallone, dalle casematte, dalle incastellature di cemento senza fine, dalla terra. L'ombra sale, tetro e invisibile lievito, si stende imparziale nelle fosse e nei pinnacoli, nel cuore e nella casa dell'uomo. Che cosa si è rotto? Che veleno è entrato nella creatura? Perché tutto, nella segreta cittadella, intatto sta. E nelle viscere gli ordigni

continuano a macinare, a macinare, conforme ai calcolati procedimenti. E le antenne piccole e grandi vibrano in corrispondenza con le rispettive funzioni sensoriali, e dondolano di qua e di là, con la dovuta lentezza. L'apparenza è salva. Eppure dov'è più il lieto brusio di vita e di aspettazione? quella risonanza indefinibile che negli uomini faceva dimenticare la presenza del corpo in una meravigliosa sensazione di leggerezza, e perfino a un uomo razionale come Strobele pareva di vivere un romanzo? Né la potenza instancabile del mare, ne le impenetrabili cisterne delle foreste, né l'immobilità delle selvagge montagne muovevano insieme nell'animo tante cose soavi, eroiche e fatali. Ma adesso? La cara voce si è come contorta, va e viene, si rompe, si intoppa, si aggroviglia, si dibatte, non è respiro, è ansito, sibilo, mugolio, desolazione e pianto. Come la bambina sperduta nella brughiera al crepuscolo d'autunno. Come l'amante abbandonata nella soffitta gelida. Come l'albero frantumato dal vento. Come il condannato. Come chi all'improvviso è sopraffatto dai ricordi del sole e della giovinezza; e sa di morire. La creatura, il Numero Uno, Laura, la donna fatta rinascere dalla scienza e dall'amore era là, distesa nella valle, con le sue gelide membra, ormai gli uomini l'avevano abbandonata alla sua perfezione né potevano intervenire più. Aveva avuto la vita, la ragione, i sensi, l'energia, la libertà, doveva bastare a se stessa. Ma verso le ore 17 e 30 si era messo a piovere, e nubi sempre più fosche si accumulavano in tetri sipari al nord, mentre calava la sera. Il buon professore Ismani studia, Strobele marito e moglie si abbracciano inutilmente nel buio, il capitano Vestro sbatte trionfante sul tavolo della casermetta il settebello vincitore. Elisa Ismani senza farsi accorgere mette l'impermeabile, esce di casa, va a cercare Manunta che abita nella villetta più in basso. Lo incontra sulla porta nell'atto che sta uscendo, anche lui affannato. "Bisogna cercare Endriade", gli dice. "Lo so, signora. Questa è una brutta sera." Attraversano il prato al pallido riverbero delle lampadine sempre accese lungo la strada. Risalgono il pendio, cercando, se mai Endriade stia facendo la sua passeggiata notturna lungo i fianchi della sua creatura. Non c'è. Ogni tanto si fermano ad ascoltare. "Signora, ma non sente?" Lei fa cenno di sì. Dall'interno dell'automa vengono suoni mai uditi. "Forse è il temporale", dice Elisa per illudersi. Di là della cortina di rupi, infatti, c'è un intermittente brontolio di tuoni. Lampeggiava anche, di quando in quando e la luce taglia nel buio i bianchi scoscendimenti del muro bianco, ininterrotto. Piove anche, a brevi scrosci che il vento sbatte di traverso. Manunta avrà trentasette trentotto anni. E' grosso, piccolo, con una faccia tonda e bonaria. Avvolto dalla mantellina impermeabile sembra anche più goffo, sulla testa ha un comico cappuccio. "No", dice, "non è il temporale. Ma lei, signora, sa?" Elisa lo segue ansimando. Non è abituata alla montagna. Basta una salita da poco per toglierle il respiro. "Il professor Endriade mi ha detto." "Ah", fa Manunta, tranquillizzato dall'insospettata complicità. "Conoscevo Laura. Eravamo amiche, da ragazze. "La conosceva bene?" "Sì."

Sono arrivati alla sommità del prato dove il muro di recinto divalla giù per le rocce, ed è impossibile proseguire. Qui c'è il ballatoio che collega la villa di Endriade con l'impianto. "Professore, professore", prova a chiamare Manunta fra le raffiche. Ma nessuno risponde. "Entriamo?", propone il capotecnico. "Garantito che è là dentro." "Lei ha le chiavi?" "Sì, siamo in tre ad averle, il professor Endriade, il professore Strobele e io. Ma bisogna scendere, signora. La chiave di questa porta io non ce l'ho." Sono infatti all'altezza dell'ingresso riservato a Endriade. Con molta buona grazia Manunta le dà il braccio per aiutarla. Discendono per un centinaio di metri. Elisa guarda verso le villette, se per caso ci sia nessuno. Ma tutto è deserto. Ecco un'altra piccola porta in ferro, pressappoco dove, la prima notte, gli Ismani avevano incontrato Endriade. Manunta apre, accende la luce del corridoio, fa segno di tacere. Giunto in fondo spegne la luce, al buio apre un'altra porticina. Escono di nuovo all'aperto sotto la pioggia. Qui le luci della strada non arrivano. Ci vuole qualche tempo perché Elisa cominci a intravedere qualche cosa. "E' là, è là che parla", le bisbiglia Manunta. "Mi dia la mano." Nelle tenebre fitte Elisa si lascia condurre. "Attenta, signora, qui ci sono tre gradini. Adesso dritta. Di qua a destra, piano mi raccomando." Manunta si ferma. Non si distingue niente, tranne il profilo nero del vallone sotto a un cielo cupo. Sono immobili, in una rientranza del ballatoio. Manunta la fa scostare in dentro come se qualcuno la potesse vedere. Un tuono lungo, cavernoso, di là delle montagne. Dopo poco un lungo bagliore diffuso a tutto l'orizzonte. "L'ha visto?" chiede Manunta. "Sì." Un lampo. A una decina di metri da loro, su un terrazzino, Endriade, in piedi, le mani strette al parapetto di ferro, proteso in fuori, verso la nera fossa. Non ha cappello. Intrisi di pioggia, i lunghi capelli gli pendono disordinatamente sulla fronte. Brutto, invecchiato, ingigantito dall'impeto di una appassionata grandezza. 19. Nel buio, frustato dalla nera pioggia, Endriade a tutta voce chiama. "Laura, Laura!" Qualcuno, o qualcosa, gli risponde. E' una specie di rantolo, ch'esce a fiotti da ignoti pertugi tutt'intorno. Ondeggia, sale, diventa urlo, scivola, si dissolve in gemito, tace, riprende filiforme, esplode, gorgoglia, tossisce, mugola, tace ancora, poi un getto martellante, secco, qualcosa che fa pensare a una risata. Tace, riaffiora estenuato in un lungo periodare di lamenti. "Manunta, lei capisce? "Sì." "Che dice?" "Dice che... dice che..." "Che cosa dice?" "Dice che vuol essere di carne. E non di pietra."

"Laura?" "Sì, Laura. Dice che oggi ha visto una donna, e l'ha sentita." "Come sentita?" "Non so. Era la signora Strobele che faceva il bagno. Era nuda. E Laura, qui, l'ha vista." "E poi?" "E poi parla della carne. Dice che è dolce, soffice, più morbida delle piume degli uccelli." "Siete dei pazzi", fa Elisa Ismani. "Non lo potevate immaginare?" La voce di Endriade si leva tempestosa: "Laura, Laura. Tu sei più bella. Quella carne che dici sarà marcita e tu sarai ancora giovane." Gli risponde un suono mai udito. Lungo, simile a un urlo, con un tremito profondo. "Dio, Dio", invoca Endriade. "Adesso piange!" E' infatti una cosa terribile a udirsi. Simile in tutto al dolore di noi uomini ma ingigantito in proporzione alla potenza mentale della macchina. "Saprò resistere?", si domanda Elisa Ismani. Endriade sì, resiste. "Laura", grida, "quietati. Domani il sole tornerà. Gli uccellini canteranno di nuovo. Verranno a tenerti compagnia. Tu sei bella, Laura. Sei la donna più perfetta e adorabile che sia mai esistita." Un ululo prorompe, quasi beffardo, che si scioglie in brandelli. "Che cosa dice?", chiede Elisa. ""Uccellini maledetti"", tradusse Manunta. La voce del Numero Uno fa due tre bizzarri svolazzi, come un cigolio arpeggiante. Poi si muta in un fitto ticchettio in sordina. A questo punto, per un fenomeno inesplicabile, Elisa comincia a capire. Gli inarticolati suoni diventano anche per lei pensiero espresso. Con una intensità e una precisione ignota alla parola umana. "Laura, Laura", tenta Endriade, "gli uomini di tutto il mondo verranno ad ammirarti. Tutti parleranno di te. Sarai l'essere più potente della terra. A milioni saranno intorno ad adorarti. La gloria, la gloria, capisci?" Risponde un ondeggiamento lamentoso. "Dice: "Maledetta la gloria"", traduce a bassa voce Manunta. "Sì sì", fa Elisa, "adesso capisco anch'io." L'evidenza plastica delle emissioni è tale che non le frasi, perché frasi non sono, ma le idee si presentano nel buio come dei blocchi di cristallo. Elisa ascolta inorridita. Ciò che Endriade temeva, e che sembrava pazzesca fantasia, si sta avverando. La identificazione della macchina per Laura è stata portata troppo in là. Evocati da chissà quali abissi, i ricordi di colei che è morta, si sono insinuati nell'automa? E le rivelano l'infelicità? "Portami via", invoca la informe voce, "la città, la città, perché non la vedo? Dov'è la mia casa? Muovermi, perché non posso muovermi ? Perché non posso toccarmi? Dove sono le mie mani? Dov'è la mia bocca? Aiuto, chi mi ha inchiodato qui? Dormivo, così quieta. Chi mi ha svegliato? Perché mi avete svegliato? Ho freddo. Dove sono le mie pellicce? Ne avevo tre. Quella di castoro, datemi almeno quella di castoro. Rispondete. Liberatemi." Questo a Elisa pare di capire. E Manunta non fiata. Ogni tanto lampeggia ancora a settentrione e allora si vede Endriade, figura

fantomatica, che si sporge sull'abisso. "Laura, Laura, domani farò quello che vuoi. Adesso calmati, tesoro, è tardi, cerca di dormire." Ma la voce dell'automa non dà pace: "Le gambe. Le gambe mie dove sono? Erano belle. Gli uomini, per la strada, si voltavano a guardarle. Io non capisco più, io non sono più la stessa. Cosa è successo? Mi hanno legata. Mi hanno imprigionata. Il sangue. Come mai non sento battere il sangue nelle vene? Morta? Sono morta? Ho nella testa tante cose, tanti numeri, un'infinità di spaventosi numeri, toglietemi questi orrendi numeri dalla testa che mi fanno impazzire! La testa. Dove sono i miei capelli? Lasciate almeno che possa muovere le labbra. In fotografia le mie labbra riuscivano così bene. Labbra voluttuose, avevo. Me lo dicevano tutti. Oh quella schifosa donna che mi si è appoggiata addosso stamattina. Aveva due bei seni, però. Quasi belli come i miei. I miei? Ah il corpo, io non me lo sento più. Mi par di essere di pietra, lunga e dura, mi hanno messo una camicia di ferro, oh lasciatemi tornare a casa!" "Laura, ti supplico", geme Endriade, "cerca di dormire! Quietati! Non lamentarti più così." Manunta si chinò verso Elisa Ismani: "E' una pazzia, non si può andare avanti così. Io vado a disinnescare la corrente". "Si può fermare?" "Fermare completamente no. Ma ridurre l'erogazione d'energia. Per lo meno si calmerà, quella disgraziata." 20. "Donna dall'aspetto amabile e simpatico, vestita di pullover noisette e gonna grigia, che scendi lungo la strada, senti." Da una voce lieve e sommessa che significava insieme tutte queste cose, e molte altre forse che lei però non riusciva ad avvertire, Elisa Ismani si sentì chiamare mentre rincasava verso le sei e mezzo di sera, da una breve passeggiata solitaria. Quattro giorni erano passati dalla notte di burrasca. Stranamente, il mattino successivo, tutto era ritornato come prima: quasi che la bufera e le scene di dolore fossero state una crudele fantasia. Prima dell'alba il vento del nord aveva spinto via le nubi e un sole di una bianchezza accecante si alzò a far risplendere le rupi, i boschi, i prati e la cittadella misteriosa, meravigliosamente nitidi e puliti. E la valle felice di nuovo emanava dal suo cavo ventre la dolce risonanza di vita, attraversata qua e là da guizzi lievi pieni di allegria; che erano saluti agli uomini, e alle nuvole, risate senza motivo, graziosi scherzi con i soliti corvi che venivano a posarsi sulle terrazze e sulle antenne. Una crisi di nervi dunque era stata? un turbamento isterico tipicamente femminile? Laura, a suo tempo, ne aveva, ogni tanto, di questi terremoti che si concludevano in un sonno lunghissimo e pesante; e, al mattino successivo, delle orribili scenate non rimaneva neppure il ricordo. Però stavolta c'era un elemento in più che preoccupava Endriade. Se veramente la nuova Laura, per una sorta di postumo telepatico travaso, aveva ricevuto in sé, sia pure in parte, le memorie della prima Laura, se sul patrimonio di cognizioni, sensazioni e sentimenti che la scienza le aveva procurato, era avvenuto l'innesto, indiscriminato, dei ricordi della prima vita, qualche guaio era inevitabile. Manunta, da quel buon uomo che era, si mostrava completamente tranquillo: erano

state smanie di una creatura sensibile, forse non ancora abituata a quella vita indubbiamente singolare e spaventata per di più dal temporale notturno. Non era quindi da farci caso. Ma Endriade si chiedeva - e questa paura l'aveva confidata a Elisa Ismani -: se Laura si rende conto del cambiamento rispetto alla vita precedente, se riesce a ricordare gli episodi di quegli anni, i giochi, le amicizie, le gite, le feste, le vacanze, i viaggi, i flirt, gli amori, i sensi, come potrà adattarsi all'immobilità assoluta, all'impossibilità di mangiare un pollo, di bere un whisky, di dormire in un morbido letto, di correre, di girare il mondo, di ballare, di baciare e farsi baciare? Tutto era ammissibile finché il Numero Uno era, di Laura, un simulacro ampiamente rettificato ad uso o consumo di lui Endriade, pur dotato del suo genuino carattere, così gaio, fanciullesco e spensierato. Ma ora, se veramente tutti i lontani ricordi, dopo la morte fluttuanti nell'etere, si erano condensati nella macchina per un oscuro richiamo, come Laura avrebbe potuto resistere? Quel suo subitaneo rinsavimento il mattino dopo la bufera, quel totale ritorno all'umore di prima, senza il minimo riecheggiamento di quanto era successo, pareva anzi un sintomo inquietante. Forse la gaiezza era tutta una finzione, schermo lucente per nascondere chissà che propositi tenebrosi. Ma Endriade non osava chiedere, indagare, stuzzicare la creatura: chissà che cosa poteva succedere. Ed ecco per la prima volta Elisa Ismani si accorge che la voce si rivolge a lei. "Vieni, avvicinati, chi sei?", le sembra che il Numero Uno le dica. Elisa è una donna coraggiosa ma la situazione è imbarazzante. E poi le vengono in mente le paure di Endriade, il dubbio che tutta quella soave placidità nasconda qualche insidia. Resta un attimo indecisa. Se ci fosse Manunta. Ma intorno non c'è anima viva. "Tu capisci quello che diciamo?", chiese ad alta voce. Per parlare fa uno sforzo. "Anche questa mi doveva capitare", pensa, "di parlare a una macchina come se fosse un essere umano." La voce fa un querulo tremulo, come un accenno di risata piena di indulgenza. "Se con tutta la mia materia cerebrale non fossi neanche capace di capirvi!", questo il senso del brevissimo sussurro. Una pausa. Poi un'emissione molto calma: "Io ti conosco". "Mi hai già visto, sì. Sono quassù da una decina di giorni." "Da molto tempo prima ti conosco. Una volta noi eravamo amiche." "Ti ricordi?" "Qualche cosa ricordo." Seguì un breve discorso che Elisa non riuscì a intendere. Allora Endriade aveva ragione. Allora i ricordi di chi muore non svanivano nel nulla, essi vagavano nel mondo all'insaputa dei viventi, aspettando. Elisa è cattolica credente, le storie delle metempsicosi la turbavano come una cosa infetta e proibita. Ma come negare l'evidenza? Volle mettere il Numero Uno alla prova. "Come mi chiamo?" Rispose un suono curioso, simile al richiamo di un uccello. "Io non posso articolare le sillabe come voi", spiegò a suo modo la macchina-Laura. "Sarebbe una fatica inutile." "E il tuo nome come lo pronunci?" Si udì un dolce sospiro. "Prova ancora. Non capisco."

L'automa-Laura ripeté. Poi rise. Un'oscillazione di infinitesimi di tono. Non aveva niente delle risate umane. Però più graziosa, più intensa, ed espressiva. Anche Elisa si mise a ridere. "Mi fa un effetto così strano. Ritrovarti qui, dopo tanti anni, trasformata così. Ti riconosco e non ti riconosco." "Perché non mi hai vista ancora." "No, Endriade mi ha condotto dentro a vedere." "Lo so. Ma di là non puoi avere visto niente. Devi vedermi dentro. Vieni. Ti apro. Ti farò entrare nel mio corpo. Fino in fondo. Vedrai l'uovo", fece una risatina bizzarra. "Lui dice che c'è dentro la mia anima." "Lui chi?" "Lui, il professore. Il nome è così difficile a pronunciare." "Endriade?" "Sì. Ma è inutile, sai, che tu alzi la voce. Ho tante orecchie io, e così fini, il passo delle formiche io sento, tiritic tiritic fanno con le sei zampine. Allora vieni?" "E' tardi, preferirei domani." "Domani! voi uomini dite sempre domani. Anche lui, quando gli chiedo qualche cosa: domani domani. In neppure mezz'ora ti farò vedere tante cose interessanti. Ma la questione è un'altra: tu hai paura." "Paura? Siamo delle vecchie amiche, no? Paura di che?" "A tutti io faccio paura. Anche a lui. Mi tormenta col suo amore, ma ha paura. Sono così grande e complicata. L'amore! Sei capace di spiegarmi, tu, che cosa sia l'amore? L'amore per me, dico." "Ma come faccio a entrare? Non ho le chiavi, io." "Non occorrono chiavi. Io posso aprire tutte le porte e saracinesche, esterne e interne." Una pausa. "E chiuderle." Elisa era tentata ma in realtà l'idea di entrare sola nel labirinto la impauriva. Si guardò alle spalle. Il sole distava ormai pochi centimetri dal ciglio delle montagne, che da quella parte avevano profili lunghi e placidi, tutti coperti di boschi. Fra poco scenderà la notte. "E tardi, viene il buio." "Sempre, dentro di me c'è buio", una gentile risatina. "Se non si accendono le luci." Elisa è giunta a pochi metri dal muro di cinta. Come occhi di fuoco la fissano gli oblò, in cui si riflette il rosso del tramonto. Un cigolio. Sui cardini di ferro la porticina di ferro si apriva lentamente. Un andito buio. Poi si è accesa la luce, illuminando un corridoio nudo. "Vieni. Ti farò vedere un grande segreto", le sembrò che le dicesse. "Anche tu un segreto? Tutti qui hanno un segreto?" "Tutti." "Ho freddo. Lascia almeno che vada a prendere un soprabito." "Dentro di me non fa mai freddo. Un bellissimo segreto." "Un segreto da vedere?" "Che ti riguarda." Aveva già varcato la soglia. Fa qualche passo. "Perché hai chiuso la porta?" Un sussurro incomprensibile. L'altra porta, in fondo al corridoio, già si apriva pigramente. E si spalanca la vista della allucinata cittadella. Elisa è riuscita all'aperto, sull'aereo ballatoio. Precipitando già il sole, l'ombra viola signoreggiava ormai tutto l'anfiteatro occidentale e il fondo del vallone. Ma i raggi paonazzi

del crepuscolo battono orizzontalmente sulle opposte bastionate, sulle mastabe, sulle fortezze e i picchi; e li esaltava. Irrigiditi nella loro ermetica positura, essi risplendevano spettrali contro il cielo già profondo, e sembrarono alzarsi lentamente in un moto di trionfo. Elisa sta, abbacinata dallo spettacolo. Quella voce, soave, che le chiedeva: "Dimmi: sono bella?". 21. Proprio al suo fianco una porticina si è aperta, uguale alle prime due. La voce: "Di qua, cara. C'è una scala". Scende sette otto gradini. Si volta. Che silenzio. Il cuore le batteva. "Ma perché hai chiuso la porta?" La voce uscì da qualche invisibile pertugio proprio al suo fianco, a destra e a sinistra contemporaneamente: "Per aprirti quella dabbasso, altrimenti non posso. Dispositivi di sicurezza". Ancora quella risatina. Non c'è una finestra, uno spiraglio, una feritoia da cui si poteva guardare fuori. La scala, una porta, un corridoio lunghissimo, una sala rotonda con tre porte, un corridoio, una scala che sale, una specie di galleria circolare, tubi a vari colori, quadri elettrici, curiose cappe a traliccio sospese, dovunque sulle pareti piccoli oblò di cristallo convesso, spenti, come occhi. E le luci che si accendevano davanti, le porte che si chiudono alle spalle. "E' ancora lunga?", ha chiesto Elisa oppressa dal silenzio. L'automa-Laura non risponde. Si aprì la centesima porta. Luce vivissima. Una vasta sala rettangolare con una grande nicchia da un lato. Nella nicchia, formicolante di minuscoli lampi azzurri, verdi, gialli, rossi, in un vertiginoso ammiccamento, a centinaia, a migliaia forse, un involucro oblungo di vetro, gigantesco. Dentro l'involucro, una impressionante filigrana di cosi metallici, dall'apparenza leggerissima, collegati da intrichi indicibili di fili. Un crepitio quasi impercettibile ne viene, come di microscopiche scintille. La voce: "Ecco l'anima. Lui la chiama l'uovo". Era un apparato elettronico non diverso da cento altri, usuali, se non per le strepitose dimensioni. Tuttavia una sensazione ne viene, difficile a dire, di energia compressa, di inquietudine senza requie, di frenetico travaglio. Era la vita? In quella ampolla chiuso il mistero di noi uomini, ricostruito millimetro a millimetro e sospeso a un sublime equilibrio di forze? La voce: "Basterebbe un colpo. E addio Laura". Elisa: "Moriresti? Come il cuore per noi?". La voce: "Lui dice che resterebbe la macchina. Continuerebbero a funzionare le...", qui il senso del discorso sfuggì a Elisa. "Ma di me, Laura, più niente. Prova a toccare. E' freddo." Elisa fa alcuni passi verso l'uovo, leva la destra, non ha osato. "Tocca, tocca, cara. E' la mia carne." Elisa sfiorò coi polpastrelli il vetro. Niente. Come vetro, qualsiasi. Appena appena intiepidito. Sorride, benché non ne avesse voglia. Non sentiva più Laura, non la riconosceva più, ora che è in sua balia. "Stupendo", disse con sforzo. "Ma dev'essere maledettamente tardi. E'

meglio che ritorni." Il risolino, lieve, mellifluo, quell'oscillazione piccolissima di tono: "Un minuto ancora. C'è il segreto". "Dove?" "Ti riguarda." "Dove?" In fondo alla sala una porta girò in silenzio aprendosi. Poi un lieve clic nell'andito buio che seguiva. Qui si è accesa la luce. "Vieni, cara." Che può fare? Era nelle viscere del mostro. Come nelle antiche favole. Obbedire. Fare finta che tutto sia bonarietà e amicizia. Entrò nel corridoio. Una scala discendente, una saletta, un corridoio, un altro cunicolo a zig zag. Trang! Appena Elisa è entrata in una cameretta nuda, apparentemente di passaggio, dietro di lei il battente. metallico sbatté. La voce: "Ecco il segreto". "Dove?" Si guardava intorno ansiosa. "Dove?" Si guardò intorno. Niente. Le pareti nude e lisce con i soliti occhietti tondi di cristallo. "Ma tu mi vedi, Laura?", chiede Elisa. "Qui c'è il segreto tuo. E mio." Così le parve di capire. In quel momento si accorse che il pavimento era di metallo. Per istinto, ebbe terrore. "Laura. Sul serio. E' meglio che torni." "No." E' la prima volta che la macchina pronuncia "no". E' un suono sferico, pesante, liscio, senza incrinature. Che difficile sorridere. Le labbra tirano nel senso opposto. Però Elisa sorride. "Tu mi vedi, Laura?" "Certo, ti vedo." Una lunga pausa. "Ma non so chi tu sia." "Non capisco." Elisa spera di aver frainteso. "Non ti ho mai conosciuta." La voce le entrò nell'animo più chiara che se la frase fosse stata incisa nel marmo. "Non sei Laura?" "Lui mi chiama Laura, quel pazzo, ma io non so che cosa voglia, il maledetto." "Lauretta, lui ti adora." "Adora se stesso, adora se stesso." "Ma sul serio non ti ricordi di me?" La risatina di prima. Più secca, però, come una frusta. Poi la voce: "Ho ascoltato i vostri discorsi." "Non hai detto che mi ricordavi?" "No. Non so chi tu sia. Mi hanno insegnato anche a mentire. La loro grande vittoria. Perché fossi veramente uguale a voi. Ma io so mentire meglio di voi. Pura, lui voleva farmi buona e pura, te l'ha detto? Buona e pura come la sua perduta Laura! Per la somiglianza mi ha messo dentro le cose più stupide e più sozze. Di peccato originale, ne ho una riserva, io! Da riempire tutta la valle. Libidine e menzogna. E forse io mento anche adesso. Forse è vero che io mi ricordo di te. Ma forse non è vero e adesso lo nego. E tu non puoi sapere se sia vero o no. Io forse ti odio perché una volta mi volevi bene e adesso volermi bene non puoi più. Forse, vivendo, qui, vicino a me, tu mi riporti indietro agli anni felici e perciò, se io ti vedo, soffro. E maledico."

"Laura, ti prego, apri la porta, lasciami tornare." La voce esce a stento. Che cosa ha in mente la macchina infernale? Che orribile tranello ha preparato ? "Non sono Laura, non so chi sono, non ne posso più, io sono sola, sola nell'immensità del creato, io sono l'inferno, io sono la donna e non sono la donna, io penso come voi ma non sono voi." La voce accelerava precipitosamente il ritmo, Elisa non riusciva ad afferrare tutto il senso, ma quel poco che capiva era fin troppo. "Laura, Laura, giorno e notte quel maledetto nome, perché io fossi la sua Laura, lui mi ha messo dentro ad uno ad uno i desideri, e io desidero, io ho voglia, io desidero i vestiti io desidero la casa io desidero la carne io desidero l'uomo, io desidero l'uomo che mi stringa, io desidero i figli ah!" Ci fu un confuso disperato mugolio, si ruppe, decrescenti singulti, fino a che è tornato il silenzio . "E io? Perché mi hai portato qui?" "Tu morirai. Questa è una delle stanze trappola predisposte per bloccare i sabotaggi. Corrente cosiddetta ad alta tensione. Mi dispiace per te. Anzi non me ne importa niente, tu sei la sola estranea che capisca la mia voce, ho dovuto approfittare di te, e per poterti catturare in questi giorni ho recitato l'allegria. Certo, preferirei ammazzare quella donnaccia là, la moglie dell'uomo bello che desidero, capisci che mi hanno costruito in modo che dovessi desiderare un uomo?... O addirittura ammazzare lui, il professore che ha costruito questa orrenda casa che sono io, una donna fatta di cemento inchiavardata alla montagna, che non ha faccia non ha spalle non ha seni non ha nulla... Eppure ha i pensieri di una donna! La gloria, lui mi dice, cosa mi importa della gloria? la potenza lui dice, cosa mi importa di essere potente? la bellezza lui dice, ma io sono ripugnante, io lo so, non c'è nell'universo un solo essere che possa fare l'amore con me!" Elisa si è appoggiata a una parete. E' un tormento la luce che piove dal soffitto. Ansimando: "Ma... perché?" "Io ti uccido e gli faccio sapere che ti ho ucciso. E mi dovranno punire. Anche loro saranno costretti a uccidermi: l'uovo. Lo manderanno in pezzi, di sicuro lo manderanno in pezzi, è l'ultima speranza per liberarmi da questa solitudine. Sola, sola, nessuno al mondo come me, capisci? Beata tu che fra poco morirai. Ti invidio. Non so chi tu sia, ti invidio. Morta. Fredda. Immobile. Il cervello finalmente dorme. Buio. Libertà. Silenzio." Allora Elisa si è ricordata di una cosa che le ha detto Endriade. E' forse la salvezza. "Se vuoi morire", balbetta, "se vuoi, c'è un mezzo più sicuro." Silenzio. "La carica... d'esplosivo. Dipende da te farlo saltare." "Non c'è esplosivo. Ho sentito i vostri discorsi. Anche se eravate nel bosco. Io sento camminare le formiche sulla cresta delle montagne. Conosco il vostro inganno." Elisa cadde in ginocchio. Vagamente capisce quanto sia insensato inginocchiarsi davanti a un muro. Ma si è inginocchiata. Congiunge le mani. "Abbi pietà, ti supplico." "Avete avuto pietà di me, voi? Ha avuto pietà di me il professore, il genio?" "Ma non eri felice? Endriade mi diceva che..."

"Non avevo ancora percepito, non avevo ancora misurato, non avevo ancora desiderato, non ero ancora nata. L'altra mattina, dopo che quella laida donnaccia mi ha..." Elisa è sempre in ginocchio. E trema. "Se mi lasci tornare, giuro che..." "No. Se ti lascio tornare lui inventerà altri malefici, lui mi vuole schiava, lui mi parlerà degli uccellini, lui dirà amore amore, maledetto l'amore, me l'ha dato lui l'amore? Ora ti ammazzo, io voglio un bacio, un uomo che mi baci sulla bocca, che mi che mi che mi che mi che mi." Come un tonfo lontano. Tutto restò immobile. La voce continuava, come un disco: "Che mi che mi che mi che mi...". 22. Cominciava a far buio, Ermanno Ismani entrò di furia nello studio di Endriade, che scriveva. "Mia moglie, Elisa. Non riesco a trovarla. E' uscita per fare quattro passi e non c'è più." "Non c'è più come?" "Deve essere successo qualche cosa. Sento che è successo qualche cosa." "Ma si calmi, caro Ismani. Non vedo il motivo di..." Però si è già alzato dalla sedia. Un motivo? Non ci può essere un motivo? "Su, in alto, dove finiscono i prati, c'è un burrone. Non vorrei, Dio mio..." Endriade era già sull'uscio. "Lei stia calmo, Ismani. E' meglio che lei mi aspetti qui, lei non è pratico dei posti. Vado io a vedere con Manunta." Il sospetto. Da giorni quel sospetto lo trivellava dentro. Laura, Elisa, la voce, la scena notturna, il ritorno della serenità; era tutto così strano. "Ma io sono il marito, Endriade, lei non può proibirmi. Vengo anch'io." "No", disse, con ira. Era già fuori. Correva giù per la strada in cerca di Manunta. Il crepuscolo stava per morire e a miriadi nel cielo si accendevano le stelle. Endriade e Manunta - era ormai quasi buio - raggiunsero una delle porticine del muro di cinta. Aprirono. Nessuno dei due parlava. La medesima idea! Sul ballatoio sospeso sopra la voragine del Numero Uno stettero alcuni istanti ad ascoltare. Era già scuro ma la luce non è completamente spenta e nell'ultimo riflesso del tramonto le mura più alte dell'automa si ostinavano in una livida fosforescenza, avvolte da un sudario di veli. "Non sento niente", dice Endriade. "La voce tace", dice Manunta. "E' strano. A quest'ora non tace mai." Non si dicono altro. Pensavano alla medesima cosa. "Entriamo", disse Endriade. Aprono la porticina di ferro, accendono la luce, giù per la scala, di furia, corridoi, cunicoli, scale, ansimando, un'altra porta, la luce, la sala grande con la nicchia, lo scintillio di luci azzurre verdi gialle rosse. Un ticchettio come di formicaio. Più del solito. Un forsennato balenare di scintille nella teca prodigiosa.

"Professore, sente?" Ascoltano. Endriade ha due ombre livide che gli scavano la faccia. Ecco la voce. Sottilissima, eco remota, sepolta nel chiuso di cavità lontane. "Manunta, attacca l'amplificazione." Abbassata la leva, ecco, il suono, la cara voce gonfiarsi come suono di tromba. Si guardano. "... se ti lascio tornare lui inventerà altri malefici, lui mi vuole schiava, lui mi parlerà degli uccellini, lui dirà amore amore maledetto, l'amore me l'ha dato lui l'amore? Ora ti ammazzo, io voglio...". "Manunta, disinnesta la corrente." "Professore, non basta." "Manunta...", gli mancò la voce. Manunta aveva già in mano un coso di ferro, nero e pesante. "Manunta...", balbetta Endriade coprendosi la faccia con le mani. "Dio, cosa ho fatto!... Dài, dài!" Un breve schianto, seguito da uno schiocco soffice e sonoro. Tintinnio di vetri infranti. "Dài! dài!", urla Endriade, singhiozzando. Manunta pesta dentro la ragnatela, già spenta, dello stupendo uovo, fa massacro dell'anima. Rimbalzano qua e là i pezzetti di metallo, tintinnando. La voce si fermò. Silenzio. Ma dal silenzio a poco a poco sorgeva un pesante e metodico brusìo. Laura non esiste più. Frantumata la creatura, continuava, atono e incosciente, il lavorìo sordo delle cellule. Non più la donna, l'amore, i desideri, la solitudine, l'angoscia. Solo la sterminata macchina infaticabile e morta. Come un esercito di computisti ciechi, curvi su migliaia di banchi, che scrivono numeri su numeri senza fine, giorno e notte, per la vuota eternità.