23
L’intervista di storia orale e le sue rappresentazioni E se chiedi con pazienza e tieni a freno la curiosità, forse riesci a farti dire quello che affermano di sapere, anche se la sua accuratezza è qualcosa che devi appurare per conto tuo. (Elizabeth Strout, Abide with Me, 2007) "Perché vuoi conoscere Miss Jane?" disse Mary. "Insegno storia,” dissi. “Sono sicuro che la storia della vita mi può aiutare farla capire meglio ai miei studenti." "Che c’è che non va nei libri che hai già?” disse Mary. "In quei libri Miss Jane non c’è,” dissi io. (Ernest J. Gaines, The Autobiography of Miss Jane Pittman, 1971) I. Incontri 1 Torniamo alla citazione da Washington Irving con cui comincia questo libro: Diedrich Knickerbocker e le sue ricerche antiquarie fra le famiglie olandesi tradizionali che paragonava ad antichi volume da sfogliare “con lo zelo di un topo di biblioteca.” Come sappiamo, le persone non sono libri, non si possono studiare come libri, e non si possono nemmeno mettere nei libri. C’è una relazione complicata tra le persone, le storie che raccontano, e i libri che leggiamo, che studiamo, e che scriviamo. Per ragionarci sopra, dobbiamo inoltrarci in un territorio relativamente inesplorato che sta all’incrocio fra storia, antropologia, linguistica e letteratura. Il nome di questo territorio è storia orale: una narrazione dialogica che ha per argomento il passato e che scaturisce dall’incontro fa un soggetto che chiamerò narratore e un altro soggetto che chiamerò ricercatore, generalmente mediato da un registratore o da un taccuino: l’incontro fra Diedrich Knickerbocker e le famiglie olandesi, il colloquio fra il “curatore” del libro di Gaines e Miss Jane Pittman. Oppure, l’inizio di Little Big Man, il classico western di William Penn (1970): l’incontro fra uno storico e un reduce della

04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Allesandro Portelli

Citation preview

Page 1: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

L’intervista di storia orale e le sue rappresentazioni

E se chiedi con pazienza e tieni a freno la curiosità, forse riesci a farti dire quello che affermano di sapere, anche se la sua accuratezza è qualcosa che devi appurare per conto tuo.

(Elizabeth Strout, Abide with Me, 2007)

"Perché vuoi conoscere Miss Jane?" disse Mary."Insegno storia,” dissi. “Sono sicuro che la storia della vita mi può aiutare farla capire

meglio ai miei studenti.""Che c’è che non va nei libri che hai già?” disse Mary."In quei libri Miss Jane non c’è,” dissi io.

(Ernest J. Gaines, The Autobiography of Miss Jane Pittman, 1971)

I. Incontri1

Torniamo alla citazione da Washington Irving con cui comincia questo libro: Diedrich

Knickerbocker e le sue ricerche antiquarie fra le famiglie olandesi tradizionali che paragonava ad antichi volume da sfogliare “con lo zelo di un topo di biblioteca.” Come sappiamo, le persone non sono libri, non si possono studiare come libri, e non si possono nemmeno mettere nei libri. C’è una relazione complicata tra le persone, le storie che raccontano, e i libri che leggiamo, che studiamo, e che scriviamo.

Per ragionarci sopra, dobbiamo inoltrarci in un territorio relativamente inesplorato che sta all’incrocio fra storia, antropologia, linguistica e letteratura. Il nome di questo territorio è storia orale: una narrazione dialogica che ha per argomento il passato e che scaturisce dall’incontro fa un soggetto che chiamerò narratore e un altro soggetto che chiamerò ricercatore, generalmente mediato da un registratore o da un taccuino: l’incontro fra Diedrich Knickerbocker e le famiglie olandesi, il colloquio fra il “curatore” del libro di Gaines e Miss Jane Pittman. Oppure, l’inizio di Little Big Man, il classico western di William Penn (1970): l’incontro fra uno storico e un reduce della battaglia del Little Big Horn, ai lati di un tavolo su cui campeggia un registratore.

Mr. Crabb. Mi chiamo Jack Crabb e sono il solo bianco sopravvissuto alla battaglia del Little Big Horn, meglio nota col nome di Ultima Difesa di Custer.

Intervistatore. Ehm, Mr. Crabb, a me interessa più il modo di vita dei primitivi che – vanterie su Custer.

Mr. Crabb. Vanterie? Mi sta dando del bugiardo?Intervistatore. No, è solo che io mi interesso della vita degli indiani e non di – come

dire - avventure.Mr. Crabb. E secondo lei la battaglia del Little Big Horn sarebbe un’avventura? Intervistatore. Il Little Big Horn non è un esempio tipico degli incontri fra bianchi e indiani, Mr. Crabb.2

Naturalmente, questa è commedia. Non tutti gli antropologi sono così ridicoli, e non tutti gli “informatori” così irritabili. Tuttavia, gli incontri sul campo sono spesso davvero difficili e

Page 2: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

conflittuali: quello che al ricercatore “interessa” sentire non coincide necessariamente con quello che il narratore ha voglia di raccontare. In questo dialogo, per esempio, ilo ricercatore è interessato al “tipico”, mentre il narratore vuole parlare di ciò che lo rende “unico” – il solo sopravvissuto del Little Big Horn.

D’altra parte, Jack Crabb ritiene che la sua storia vada raccontata proprio perché è parte di un evento storico. Al di là delle differenze, entrambi sono alla ricerca di una relazione fra la vita ed esperienza individuale, e di un più vasto contesto storico o culturale. Questo terreno condiviso, la contestualizzazione dell’unico, definisce la differenza fra raccontare storie (storytelling) e raccontare storia (history-telling).3

Per capire meglio questa distinzione, ascoltiamo una descrizione dello storytelling all’interno di un’intervista di storia orale. La narratrice, Annie Napier, è un’autista di scuolabus, ex operaia, attivista comunitaria, moglie di minatore disabile, di Harlan County, Kentucky.

Napier. Vedi, a quei tempi (back then) non avevamo la TV, non avevamo la radio, eccetera, e la sera quando fava buio ti dovevi chiudere dentro a causa dei serpenti.

Portelli. Ce ne sono tanti?Napier. Già. Qui abbiamo serpenti a sonagli e copperheads, ma la sera rientravamo in

casa e accendevamo il fuoco nel camino e mammà e papa si mettevano lì e ci raccontavano storie di quando erano piccoli. E storie che i loro genitori gli avevano raccontato di quando erano piccoli loro. E quando, quando vai a vedere, è tutto vero (it’s all fact). E’ da qui che è cominciato tutto questo raccontare storie (that’s where the storytelling started from). Ed è vero, era vero fin dall’inizio.

Annie Napier descrive una cultura di storytelling: la trasmissione orale dei racconti all’interno della famiglia e della comunità, “raggomitolata,” come direbbe Diedrich Knickerbocker, nelle sue case di tronchi in cima alla montagna. Ma la sua descrizione diventa un atto di history-telling, o, se vogliamo, meta-storytelling: un racconto sul raccontare. Almeno tre elementi indicano questo spostamento:

- inquadra i racconti storicamente collocandoli nel tempo (back then) e rivendicandone l’attendibilità referenziale (it’s all fact). In questo modo, rappresenta lo storytelling come una pratica storica, fondata su determinate condizioni di vita che esistevano nel passato;

- combina le diverse storie, che venivano raccontate aneddoticamente e separatamente, in una narrazione complessiva e unificante;

- proietta i racconti oltre il cerchio della sua famiglia e comunità parlandone a un estraneo (talmente estraneo che si spaventa quando sente che ci sono i serpenti!).

Lo history-telling, come la cosiddetta “storia di vita” (life history) è una forma narrativa che non esiste in natura. Come dice il protagonista di Dessa Rose di Sherley Anne Williams, “non è che Dorcas si sia messa lì a raccontare alla gente la storia della sua vita " (146); o, come dice il narratore nel romanzo di Thomas Berger da cui è tratto Little Big Man (1964), "senza la mia funzione catalitica queste straordinarie memorie non avrebbero mai visto la luce del giorno." (p. ix).4

Questo tipo di racconti è, di fatto, il prodotto dell’intervento di un ascoltatore e “interrogatore” specializzato, uno storico orale con un suo progetto, che dà inizio all’incontro e crea lo spazio narrativo per un narratore che ha una storia da raccontare ma che non la racconterebbe in quel modo in un altro contesto o a un altro destinatario. Annie Napier non parlerebbe così, in queste

Page 3: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

parole, se non ci fossi io a intervistarla; e userebbe parole diverse se fosse intervistata da un’altra persona. “Ogni intervista documentata,” scrive C. Vann Woodward, “ha due autori: la persona che fa le domande e la persona che risponde.” Al che io aggiungerei solo che, una volta avviato il dialogo, la distinzione fra queste due funzioni non è mai rigida e assoluta.5

I soggetti dell’intervista condividono dunque uno spazio narrativo, e anche uno spazio fisico, ed è questo che rende l’intervista possibile. Ma ciò che la rende significativa è che c’è ancora uno spazio fra loro, occupato e rappresentato dal registratore o dal taccuino. Un’intervista sul campo è in primo luogo un confronto con la differenza, con l’alterità. Dice Dennis Tedlock:

Il dialogo antropologico crea un mondo, o una comprensione della differenza fra due mondi, che esiste fra persone che quando hanno cominciato la loro conversazione erano indefinitamente lontane in ogni genere di modi. Questa intermedietà (betweenness ) del mondo del dialogo è quello che dobbiamo tenere sempre davanti a noi.6

Tedlock osserva che dialogo significa parlare fra, parlare oltre (speaking across). Allo stesso

modo, inter\vista significa guardare fra –uno scambio di sguardi.7 Si parla sempre di empatia e fiducia fra intervistato e intervistatore, ma alla fine quello che rende significativa la storia orale è lo sforzo di condurre un dialogo fra e oltre le differenze: è il caso dell’intervista con Ms. Julia Cowans, analizzata nel terzo capitolo di questo libro8: il suo “Non mi fido di te,”, il suo “ci sarà sempre un confine” segnalano che proprio la distanza, la separazione sono l’argomento di questo dialogo fra una donna americana, nera, proletaria, battista, e un uomo, italiano, di classe media, cattolico\agnostico. Per parlare del confine che esiste tra noi, deve impegnarsi a parlare oltre il confine: con un unico gesto, traccia la linea e la scavalca, trasformando l’intervista in uno spazio utopico, un esperimento di uguaglianza in cui due soggetti, separati da gerarchie sociali e culturali, mettono in campo la disuguaglianza e la azzerano temporaneamente per farne il terreno implicito del loro scambio.

Non tutti gli esperimenti riescono. A volte la distanza e il conflitto dei reciproci ordini del giorno finisce per ridurre al silenzio uno dei due soggetti. Il ricercatore, come in Little Big Man, può non avere rispetto per l’ordine del giorno del narratore; il narratore può essere posseduto da un impulso narrativo così idiosincratico da non agganciare mai l’ascolto del ricercatore. Perciò è necessario tenere conto del fatto che l’intervista è un’esperienza di apprendimento: il ricercatore può avere una sfilza di lauree e il narratore può essere analfabeta, ma è il narratore che possiede la conoscenza di cui andiamo in cerca, abbiamo tutto da guadagnare se stiamo a sentire.

In Appalachia sussiste una radicata insofferenza e sospetto nei confronti di visitatori come missionari, agitatori, assistenti sociali, sociologi e antropologi. Per troppo tempo, gli appalachiani sono stati trattati come montanari (hillbillies) tanti e ignoranti che dovevano essere studiati, istruiti e civilizzati. Il risentimento è sfociato a volte in vera e propria violenza.9 Dopo diversi anni di lavoro nella regione, ho chiesto a Mildred Shackleford – minatrice e poeta di Harlan – come mai sembrava che io non avessi nessun problema del genere. Che cosa stavo facendo di giusto? Lei mi diede due risposte: la mia distanza geografica (non venivo da NewYork o da Chicago, i luoghi del potere e del preconcetto); e la mia ignoranza:

Se venivi dal Galles e lavoravi in miniera e venivi a Harlan County e parlavi alla gente del lavoro in miniera, non avrebbero problemi. Anzi cercherebbero di aiutare. Ma tu non stai cercando di influenzare la gente o altro. Cerchi solo di raccogliere un po’ di conoscenza o di venire a sapere delle cose o farti raccontare delle storie, e alla gente questo non dà fastidio.10

Page 4: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

Cioè: i minatori del Galles, dove la sicurezza in miniera è più avanzata che negli Stati Uiti, avrebbero qualcosa da insegnare, e la gente li starebbe a sentire; ma io ho solo da imparare, sono io che ascolto, e loro che insegnano a me. Infatti Mildred Shackleford e Julia Cowans mi hanno parlato perché ho riconosciuto che erano loro a controllare il dialogo: la storia orale, e in genere il lavoro sul campo, differisce dalle scienze naturali perché è un’osservazione reciproca fra soggetti umani che non amano essere studiati o osservati come se fossero libri o fenomeni naturali. I ricercatori che sanno domandare con pazienza e tenere a freno la loro curiosità sono spesso inaspettatamente ricompensati.

A Harlan avevo cercato William Jint, reduce dal Vietnam, perché speravo che me ne parlasse. Sapevo però che non amava parlarne in presenza di sua madre, perché i nervi di lei erano toppo fragili. Così, nel corso dell’intervista gli chiesi di passaggio se aveva fatto i servizio militare, mi disse di no, e passai ad altro. Ma lui sapeva che io sapevo, e apprezzava il fatto che non avevo insistito; perciò, più tardi, mi prese da parte e, seduti in macchina sotto un drammatico temporale, mi raccontò la sua guerra.

Portelli. Ma ha mai preso parte ad azioni, dove ti è toccato di ammazzare qualcuno?Jint. Altro che [...] di quanti ne ho ammazzati ho perso il conto.Portelli. Ce n’è qualcuno che ti ricordi di più? Jint. Qualcuno. Ma in genere, durante l’addestramento, non puoi bloccare tutto ma

riesci a bloccare il pensiero, a eliminarlo mentre lo fai. Dopo le prime volte che uccidi per così dire diventa un po’ più facile, non è che arrivi al punto che ci provi gusto ma è più facile tirare il grilletto, tagliare una gola, o quello che è, insomma. E spegni tutto. Per restare vivo, capisci. Fai il meglio che puoi e quello che ti hanno addestrato a fare. Ecco.

Portelli. Sopravvivenza.Jint. Sopravvivenza. […] Portelli. Ma è vero che strappavano I denti, le orecchi, pezzi dei corpi dei nemici?Jint. Un bel po’.Portelli. E tu l’hai fatto?Jint. Sì. L’ho fatto. Ci sono parecchi episodi quando abbiamo preso dei prigionieri… e

io c’ero, ma non ci ho preso parte, ma comunque l’abbiamo tagliuzzato, sfrondato...Portelli. Sfrondato, come?Jint. Preso il coltello, tagliate le palle, tirate fuori, una botta sulle budella, infilate in

bocca, fatte inghiottire. Tagliate le orecchie, e tagliate le costole dalla spina dorsale, strappate via dalla carne, e loro erano vivi, tortura, pesante, capito? Questo l’ho fatto. Ma non mi piaceva, per niente. Non mi piace neanche adesso. Tante volte tornado a casa avevo gli incubi…

II. Trascrizioni

Abbiamo detto che ci vuole un ascoltatore specializzato per mettere in moto il processo di history-telling; ci vuole uno scrittore\scrivente specializzato, spesso la stessa persona, per completarlo. Il ruolo del ricercatore come co-autore comincia sul campo, e continua nella trasformazione della performance dialogica orale in un testo scritto: trascrizione, redazione, pubblicazione, analisi.

Page 5: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

La storia orale è oggi pienamente consapevole dei problemi che si pongono nel passaggio da una performance orale a un testo scritto. Ogni storico ha le proprie soluzioni, ma tutti hanno gli stessi problemi: la poetica e la politica della storia orale si reggono sullo specifico riconoscimento della formazione dialogico della fonte e del testo. La storiografia basata sulle fonti orali è una forma di scrittura, ma non può dimenticarsi delle sue origini orali; è un testo, ma non può dimenticarsi di essere nata come performance. Per questo, gli storici orali citano molto più ampiamente le parole delle loro fonti, e ne mantengono il più possibile la sintassi e lo stile; quando è possibile, indicano nome e cognome dei narratori, in modo da riconoscerli come autori dei loro racconti, responsabili delle loro parole, e da includere la loro soggettività, la loro immaginazione, la loro arte verbale nel tessuto stesso di un testo dialogico, in cui la voce dello storico è solo una, e non necessariamente la più autorevole. La qualità orale, dialogica, immaginativa di queste narrazioni non è un’impurità di cui liberarsi alla ricerca dei puri fatti, ma è un fatto storico a sua volta, sia pure di altro tipo.

Per questo, la storia orale tratta il racconto sia come referenza che come auto-referenza. La questione dell’attendibilità referenziale delle fonti orali ha dominato a lungo il dibattito; qui, vorrei solo fare un cenno a due pratiche discorsive che sono adiacenti alla storia orale in quanto entrambe si fondano su narrazioni dialogiche: la psicoanalisi e il romanzo poliziesco.

In In the Last Analysis, un romanzo poliziesco di Amanda Cross (pseudonimo di Carolyn Heilbrun, un’importante critica e storica femminista della letteratura), un personaggio – uno psicanalista che parla a una detective dilettante - propone una distinzione forse troppo schematica ma comunque utile: “La registrazione su nastro di un’analisi, per esempio – cominciò – sarebbe totalmente priva di significato, o comunque di un significato importante, per una persona non addestrata ad analizzarla…Per l’analista, non è importante se qualcosa è veramente accaduto o se l’evento sia solo una fantasia del paziente. Per l’analista, non c’è una differenza essenziale. Per il poliziotto, naturalmente, c’è tutta la differenza del mondo.”11 Un critico letterario decostruzionista potrebbe forse riconoscersi nello psicanalista, e uno storico positivista potrebbe identificarsi con la polizia. Uno storico orale, d’altra parte, deve lavorare contemporaneamente su entrambi i piani e, soprattutto, sullo spazio intermedio.

Per questo, la storia orale differisce da quelle scritture nel campo delle scienze sociali che cercano di attribuirsi autorità facendo scomparire la funzione del ricercatore nella formazione delle fonti, come se queste fossero nate da sole anziché formarsi nell’incontro dialogico. Questa è una conseguenza tanto della qualità tendenzialmente monologica dei testi scritti, quanto della convenzioni che rinviano al concetto romantico dell’unicità dell’autore (o dello scienziato), al privilegio della ricerca archivistica in cui le fonti preesistono alla ricerca, e al feticcio di un’oggettività che qui viene messa in scena, paradossalmente, sopprimendo una parte essenziale dei dati. Come scrive Denis Tedlock: “Quelli che creano documenti scritti sulla base di discorsi registrati hanno una forte tendenza a lasciarsi trascinare dalla corrente monologica della scrittura.”12

Per ricondurre la scienze umane a un modello astratto delle scienze naturali, “in cui non è comunque possibile nessun rapporto dialogico" (Tedlock), le performance dialogiche sono così ricondotte a una specie di “manoscritto ritrovato” che si finge esistente, come i diari di diedrich Knickerbocker o come i documenti d’archivio, nella stessa immutabile forma già di prima di essere “raccolto” o “reperito” e che continuerà a ripetere esattamente le stesse parole a chiunque si trovi a interrogarlo. Una narrazione intersoggettiva viene rappresentata come oggettiva “testimonianza” fingendo che sia stata emessa senza un contesto e un interlocutore empirici. E’ il caso delle interviste che intercalano il film Reds di Warren Beatty (1981), ma anche delle interviste sulla Shoah dell’archivio Fortunoff di Yale: i narratori parlano su uno sfondo interamente nero e senza un interlocutore visibile, in modo da suggerire una memoria che esiste indipendentemente dal

Page 6: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

dialogo o, addirittura, una memoria che “separa [il narratore] dagli altri” al punto da rendere ogni dialogo virtualmente impossibile.13

III. Frontiere

Che cosa accade quando si cerca di dare una rappresentazione letteraria di questi eventi narrativi? Una generazione prima della nascita di Washington Irving, narrazioni dialogiche fondate su interviste erano già diffuse e popolari negli Stati Uniti. Il primo secolo dell’autobiografia afroamericana, infatti, si fonda quasi interamente su interviste trascritte e su opere in collaborazione: i resoconti dei rattati indiani, le prime autobiografie afroamericane e, più tardi, le prime storie di vite indiane.14

Come sappiamo, è proprio a causa di questa origine dialogica che generazioni di storici hanno potuto permettersi di ignorare le testimonianze degli ex schiavi come fonti storiche: dato che le parole sulla pagina erano state scritte da una persona diversa dal protagonista del racconto, questo non poteva essere preso in considerazione come una vera e propria autobiografia, attendibile e autorevole. Storici e critici letterari hanno a lungo cercato in tutti i modi di identificare “la vera autorità autoriale”15 e di riscattare l’“autentica”, incontaminata voce dello schiavo dalla spuria presenza dell’interlocutore e amanuense senza il quale comunque quella “voce” non sarebbe mai arrivata fino a noi.

Ma testi diversi, generati da modi di produzione diversi, possiedono diversi tipi di attendibilità e rispondono a differenti criteri di giudizio. Invece di escluderli perché non rispondono

1 “The Oral History Interview and Its Literary Representations,” RSA. Rivista di studi angloamericani, X, 12 (2000), 22-55

2 Trascrivo e ritraduco direttamente dal dialogo originale. Tutte le traduzioni dall’inglese sono mie. 3 Per una definizione di “history-telling” rinvio al mio “Oral History as genre”, in The Battle of Valle Giulia.

Oral History and the Art of Dialogue, Madison, Wisconsin, 1997, 3-23.4 Sherley Anne Williams, Dessa Rose, (1986), New York, Berkley Books, 1987, p. 146; Thomas Berger, Little

Big Man, New York, Dial Press, 1964, p. ix5 C. Vann Woodward, in Charles T. Davis and Henry Louis Gates, Jr., eds., The Slave’s Narrative, Oxford and

New York, Oxford University Press, 1985, p. 6. Rinvio anche a “C’è sempre un confine,” in questo volume; e "Deep Exchange: Roles and Gazes in Multivocal and Multilateral Interviewing," in The Battle of Valle Giulia, pp. 24-39, 72-78.

6 Dennis Tedlock, The Spoken Word and the Work of Interpretation, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1983, p. 323

7 Rinvio al mio “Research as an Experiment in Equality”, in The Death of Luigi Trastulli and other Stories, Albany, N.Y., State University of New York Press, 1991, pp. 29-44.

8 9 Si veda il film documentario di Elizabeth Barret, Stranger with a Camera (Appalshop, Whitesburg, Ky.,

2000); o il testo teatrale di Jo Carson, Preacher with a Horse to Ride (1993).10 Mildred Shackleford, 1950, minatrice; int. New Market, Tenn., 11.2.1990. 11 Amanda Cross, In the Last Analysis, (1964), New York, Avon, 1966, 52-3.12 D. Tedlock, The Spoken Word, 288, p. 2

13 “Auschwitz sta lì, fissa e immutabile, ma avvolta nella pelle impervia della memoria che si segrega dal ‘me’ presente”; “quest’esperienza, ci puoi convivere – è come un dolore fisso,, non dimentichi mai, non te ne liberi mai, ma impari a conviverci. Ed è quello che ti separa dagli altri”: Lawrence L. Langer, Holocaust Testimonies. The ruins of memory, New Haven and London, Yale University Press, 1991, p. 5, 35.

14 Constance Rourke, Roots of American Culture, New York, Harcourt Brace, 1931; William L. Andrews, To Tell a Free Story. The First century of Afro-American Autobiography: 1760-1860, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 1986; Arnold Krupat, For Those Who Come After. A Study of Native American Autobiography, Berkeley, University of California Press, 1985

15 James Olney, “’I Was Born’: Slave Narratives, Their Status as Autobiographies and Literature”, in Davis e Gates, The Slave’s Narrative, p. 173, n. 14

Page 7: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

al principio dell’autor\ità personale e testuale unica e indivisa – peraltro, messe in discussione ampiamente dalla critica post-strutturalista – faremmo meglio piuttosto a individuare la loro origine dialogica, il loro essere tra, come fondazione di un’autorità diversa. Arnold Krupat legge le autobiografie composte in collaborazione fra narratori orali nativi americani e bianchi che fungono da traduttori, interpreti, trascrittori, compilatori, curatori, proprio come “tentativi congiunti” di realizzare una “originale composizione biculturale”: “il risultato non solo di un faccia a faccia fra due individui ma anche, come direbbe Frederic Jameson, il faccia a faccia fra due distinte forme sociali e modi di produzione… un incontro collettivo oltre che individuale.”16 Basta guardare le immagini che accompagnano, per esempio, l’autobiografia di Yellow Wolf : da un lato il narratore indiano; un ascoltatore\scrittore bianco dall’altro; e in mezzo, come il registratore in Little Big Man, l’interprete, incarnazione della intermedietà, della betweenness di cui parla Tedlock. Questo, dice Krupat, è “il terreno in cui due culture si sono incontrate,” cioè “l’equivalente testuale della frontiera”: non un pranzo di gala, ma un confine diseguale, segnato da guerra e genocidio. Non a caso, nota ancora Krupat, i narratori di queste storie sono sconfitti, come Yellow Wolf or Black Elk, o prigionieri come Black Hawk o Geronimo.

Anche le autobiografie degli schiavi sono un prodotto biculturale - l’equivalente testuale, forse, della miscegenation, un illecito incontro in cui il “sangue” bianco e nero si mischiano, con orrore di chi ha interesse a evitare ogni contatto fra le “razze” e fra i loro discorsi. Anche qui, non si tratta di un incontro fra uguali: come gli indiani, i narratori neri sono schiavi o, al meglio, cittadini di seconda classe. Ma, se davvero l’intervista è un esperimento di uguaglianza, la scena di questi incontri è quella in cui uno dei vincitori ascolta gli sconfitti, o un appartenente alla cultura dei padroni ascolta soggetti che fuori di quel contesto non avrebbero diritto né di parlare né di essere ascoltati.

Se riconosciamo l’ibridazione come molteplicità e complessità anziché come impurità e contaminazione, sorge una serie di questioni affascinanti. Quando lo schiavo John Marrant e il Reverendo W. Aldridge compongono il loro libro, è Marrant che parla attraverso Aldridge, o è Aldridge che “si scrive” addosso a Marrant, usandolo come materiale per un desiderio frustrato di scrittura - come quella “elegante… giovane signora” che “affida alla carta” il racconto di Albert Ukasaw Gronniosaw “per sua privata soddisfazione”? 17 O sono forse le due cose insieme, i servi neri prigionieri e i signori e signore bianchi che si usano a vicenda, in uno scambio reciproco per quanto disuguale? E se è così, chi manipola chi? Fino a che punto i curatori bianchi manipolano le parole dei narratori schiavi, e fino a che punto i servi neri manipolano le aspettative e la credulità degli ascoltatori bianchi?

Allora, invece di cercare un'impossibile autorità individuale, faremo meglio a leggere questi testi come il terreno contestato di un altro tipo di autenticità – un’autenticità di dialogo e tensione, di cooperazione antagonista che continuamente riarticola i rapporti di potere.

Alcuni capitoli di Louisa Piquet, or, The Octoroon (1861) si presentano come una vera e propria intervista, con domande e risposte. Così, abbiamo accesso non solo alla storia della schiava afroamericana, ma anche all’immaginazione e alle aspettative dell’uomo bianco che la interroga, come un complesso gioco di specchi incrociati che riflettono i modi in cui entrambi si immaginano e si usano a vicenda. Come indica il titolo, la miscegenation è l’argomento del libro, ma ne è anche la forma: un personaggio di discendenza incerta, nera con la pelle chiara, nata da incontri sessuali

16 Arnold Krupat, For Those Who Come After, 31, 9.17 John Marrant, A Narrative of the Lord’s Wonderful Dealings with John Marrant, a Black… (1785); James

Albert Ukasaw Gronniosaw, A Narrative of the Most Remarkable Particulars in the Life of James Albert Gronniosaw, An African Prince (1770). Cfr. anche Andrews, To Tell a Free Story, p. 33; e Libri parlanti. Scritture afroatlantiche 1760-1833, a cura del Progetto Equiano dell’Università di Roma “La Sapienza”, Torino, Paravia Scriptoriun, 1999

Page 8: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

illeciti, raccontato con parole di incerta discendenza, parole nere attraverso una penna bianca, generate da un incontro interrazziale sul piano personale e testuale.

Il reverendo Mattison mira scandalizzare i lettori con gli orrori morali e sessuali della schiavitù; ma è a sua volta ossessionato dal corpo della schiava, e continua a fare domande intrusive, voyeuristiche, sulla sessualità e la violenza. Da parte sua, Louisa Piquet gestisce un abile gioco di svelamento e sottrazione, obbedienza e mascheramento. Racconta la sua storia per raccogliere i soldi necessari a comprare la libertà di sua madre: in un certo senso, si mette in vendita come testo così come era stata esposta alla vendita come corpo. Ma è lei a dirigere il gioco: rivela quando basta a mantenere l’attenzione e l’interesse del suo narratario empirico e dei lettori impliciti; ma racconta anche una storia di devozione filiale che Mattison, all’ansiosa ricerca di dettagli scabrosi, non riconosce neppure. E difende quello che può della propria intimità con quella che Mattison paternalisticamente chiama “una certa servile diffidenza”.18

Tuttavia, nel considerare i limiti e le ossessioni del reverendo Mattison, sarà bene ricordare che è lui ad esporsi al nostro sguardo critico lasciandoci intravedere parti del dialogo con Louise Piquet (e comunque si è interessato a lei abbastanza da starla a sentire). La maggior parte delle slave narratives, invece, sopprimono ogni traccia del dialogo, separando le parole dello schiavo da quelle del curatore, come a proteggersi figurativamente da un contatto contaminante: da una parte, la narrazione dello schiavo come monologo in prima persona; dall’altra, una cornice introduttiva che certifica l’esistenza del narratore, la verità del racconto, la fedeltà della trascrizione.

Il fine dichiarato di questa separazione è di rafforzare l’effetto di autenticità fattuale delle narrazioni nere o native, minimizzando l’interferenza visibile del curatore. Ma la separazione del racconto dalla cornice sopprime anche quel contatto fra alterità, quella (diseguale) collaborazione interrazziale da cui il testo ha avuto origine.

Ora, l’impatto con l’alterità era una pressante preoccupazione per un’America ancora alla ricerca della propria definizione. Non è un caso che negli anni dopo il 1830 coincidano la “età dell’oro” delle slave narratives abolizioniste, lo sviluppo dell’umorismo della frontiera, e le origini dell’”autobiografia” indiana: nell’arco di tre anni escono tre testi fondanti come l’autobiografia di Black Hawk (1833), la slave narrative abolizionista di Charles Ball (1836), e le Georgia Scenes di Augustus B. Longstreet (1835). Tutti e tre questi generi riguardano incontri con l’alterità; in tutti e tre, l’alterità ha la forma di un’oralità incorporata nello spazio della scrittura, ma segregata e rinchiusa in uno spazio discorsivo separato. Anche la forma tipica del racconto comico della frontiera è quella della cornice: un inizio ed eventualmente una conclusione detti da un narratore colto e istruito, che introduce e racchiude il racconto dialettale di un pioniere o di backwoodsman. Il gentiluomo e il pioniere, come il curatore bianco e il narratore indiano o nero, stanno dentro le stesse copertine, ma parlano uno dopo l’altro, quasi mai l’uno all’ altro. Nel racconto che dà i titolo a Georgia Scenes, le uniche parole che lo scrittore rivolge al frontiersman sono “Come back, you brute”, torna qui, animale!”19

Nell’umorismo della frontiera, tuttavia, il narratore colto della cornice non cerca di ripulire il linguaggio del backwoodsman per assimilarlo ai modelli della scrittura rispettabile, ma anzi accentua la differenza dialettale nell’atto stesso di riconoscerla: come dire che se nella nascente democrazia on è possibile far tacere l’uomo comune, è almeno possibile recintare la sua parola e mantenere il diritto di definirla e dominarla. 20 Non è mai lo scrittore che cerca il narratore dialettale, ma è sempre quest’ultimo che invade rumorosamente lo spazio della scrittura: invece di

18 Rev. H. Mattison, A. M., Louisa Piquet, the Octoroon. A Tale of Southern Slave Life (1861) in Collected Black Women’s Narratives, ed. Anton G. Barthelemy, New York, Oxford University Press, 1961, cap. 1.

19 Augustus B. Longstreet, Georgia Scenes (1835), Gloucester, Mass., Peter Smith, 1970, p. 320 Rinvio al mio Il testo e la voce. Oralità, letteratura e democrazia in America, Roma, manifestolibri, 1994,

p. 189-92.

Page 9: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

un narratore prigioniero, abbiamo un ascoltatore prigioniero, una captive audience messa nell’angolo e ridotta al silenzio da un narratore irrefrenabile: "Simon Wheeler mi mise all’angolo e mi bloccò con la sedia, popi si mise a sedere e snocciolò il monotono racconto che segue. "21

Eppure: è la presenza di questo ascoltatore involontario che permette ai narratori di raccontare. E saranno questi ascoltatori riluttanti a mettere per iscritto il racconto e permetterci di leggerlo. Per quanto ci si sforzi di esorcizzarlo, il dialogo resta la fondazione della storia.

IV. Rappresentazioni

Passiamo adesso a esaminare alcuni testi letterari contemporanei che usano l’intervista come procedimento strutturante. La maggior parte di questi testi si colloca ai margini del canone letterario in una tradizione letteraria come quella americana, che pure è attraversata da coppie interrazziali e interculturali (Natty Bumppo e Chingachgook, Ishmael e Queequeg, Huckleberry Finn e Jim, Ike McCaslin e Sam Fathers)22. In realtà, il contatto è sia evocato, sia esorcizzato: Natty Bumppo è stato allevato dai Delaware, e per questo insiste ossessivamente a dire che lui è “un uomo bianco senza nessun incrocio.” Anche Jack Crabb in Little Big Man, altra storia di convivenza di un bianco fra gli indiani, comincia dicendo: “Io sono un uomo bianco e non l’ho mai dimenticato, ma sono stato allevato dai Cheyenne fin da quando avevo dieci anni.”23

Ralph Fielding Snell, il narratore in cornice di Little Big Man, è molto diverso dall’ottuso antropologo che prende il suo posto nel film: è dotato di maggiore capacità di empatia, ed è un “uomo di lettere,” un professionista della scrittura, anziché un antropologo. Così come i personaggi vissuti fra gli indiani (Jack Crabb, Natty Bumppo) hanno sempre bisogno di ribadire la loro identità di bianchi, allo stesso modo autori che scrivono in contatto con l’oralità hanno bisogno di ribadire la loro distanza dalle fonti orali. Da qui, l’ambiguità con cui l’uomo di lettere Snell dà conto del suo rapporto col narratore orale Crabb: da un lato, se non fosse per Crabb, non avrebbe niente da scrivere; dall’altro, deve prendere le distanze dal contatto contaminante con un uomo di frontiera “ignorante”, “sboccato,” “cinico… rozzo, privo di riguardi e di scrupoli”24. Jack Crabb è cresciuto con gli indiani, ma resta un uomo bianco; Ralph Fielding Snell raccoglie un racconto orale ma resta un “uomo di lettere.” Nel corpo del testo, parlano uno alla volta: come Natty Bumppo e Jack Crabb, Little Big Man è davvero un libro senza un incrocio.

In The Autobiography of Miss Jane Pittman di Ernest Gaines troviamo la stessa separazione fra il racconto autobiografico di Miss Jane Pittman, un’ultracentenaria che ricorda la schiavitù, e la cornice in cui un “curatore” senza nome racconta come ha raccolto la sua storia. Tuttavia, come in molte delle cosiddette neo-slave narratives25 - romanzi contemporanei sulla memoria della schiavitù (Jubilee di Margaret Walzer, 1966; The Chaneysville Incident di David Bradley, 1981; Dessa Rose di Sherley Anne Williams, 1986), il rapporto fra cornice e racconto è diverso: non si tratta di un incontro con l’alterità, ma di un’esplorazione nelle radici e nell’identità del curatore, anche lui afroamericano. Il “curatore” intende “contaminare” i libri di storia con la voce di Miss Pittman, e attraverso lei con la presenza dei suoi antenati che ne sono stati fin qui ignorati.

Ernest Gaines, tuttavia, segue la convenzione che vuole che le voci siano separate: il “curatore” puà avere l’autorità di correggere i libri di storia solo se si presenta come uno storico

21 Mark Twain, “The celebrated Jumping Frog of Calaveras County,” 22 Rispettivamente, nella serie dei Leatherstocking Tales di James Fenimore Cooper, Moby Dick di Herman

Melville, The Adventures of Huckleberry Finn di Mark Twain, “The Bear” di William Faulkner.23 Th. Berger, Little Big Man, p. 1 24 Th. Berger, Little Big Man, p. xxi, 43925 Bernard Bell, The Afro-American Novel and Its Tradition, Amherst, University of Massachusetts Press,

1967; Annalucia Accardo, Il racconto della schiavitù negli Stati Uniti d’America, Roma, Bulzoni, 1996.

Page 10: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

professionale. Perciò trasforma il racconto di Miss Pittman in un monologo, tenendone fuori non solo la propria voce, ma anche quella di altri narratori collaterali. Miss Pittman è la sola che parla nel corpo del libro, ma non è la sola che parla nell’intervista: “anche se ho usato la voce di Miss Pittman per tutto il racconto,” spiega il “curatore”, tuttavia “in qualche momento sono state altre perone a portare avanti la storia per conto di lei,” quando lei era troppo stanca o aveva bisogno di testimoni che corroborassero il suo racconto. Un testo può avere un solo autore, un’autobiografia un solo narratore: in omaggio a questa convenzione, le altre voci scompaiono dal testo.26.

A causa di questa segregazione e soppressione di voci, molte cose vanno perdute. Non sappiamo se il racconto di Jane Pittman ha avuto qualche effetto sul curatore, né se raccontando la sua storia la stessa Miss Pittman cambia in qualche modo. Hanno imparato qualcosa? Sono usciti cambiati da questo incontro? Le culture orali e popolari – come per altro le discipline della storia orale, il folklore, l’antropologia – riconoscono che i racconti sono essi stessi eventi, e che quindi raccontare una storia o ascoltarla, o addirittura crearne una insieme, non può non avere conseguenze trasformative sul mondo “reale,” sulle persone coinvolte e sulle loro culture. In Miss Pittman o in Little Big Man non succede niente di simile: le storie sono raccontate, e dopo il racconto narratori e narratari sono esattamente come erano prima, salvo qualche informazione in più per i secondi. Per maggior comodità, anzi, entrambi i narratori muoiono subito dopo la fine dell’intervista, come se la loro utilità si fosse esaurita nel momento in cui la loro voce è fatta testo – e in modo da lasciare i narratari unici depositari del racconto. Se Miss Jane o Jack Crabb fossero ancora vivi (come per fortuna è il caso della maggior parte degli intervistati nelle ricerche di storia orale), potrebbero voler cambiare il racconto, o raccontare un’altra storia, o contestare l’uso che ne fanno i “curatori” e “uomini di lettere.” Ma un testo deve essere definitivo, e niente lo rende più definitivo della morte della fonte.

Per trovare una rappresentazione dell’intervista come esperienza vissuta anziché come mera occasione per la creazione di un testo monologico, dobbiamo allontanarci ancora di più dal centro del canone letterario e andare a cercare un romanzo regionale appalachiano, Oral History di Lee Smith (1983), o una storia horror gotica, Interview with the Vampire di Anne Rice (1973). In entrambi i casi, già il titolo suggerisce che il tema non sono tanto i contenuti della storia orale, quanto il suo processo: sono storie di alterità, ma anche storie del confronto con l’alterità, e del suo fallimento.

In Oral History, Jennifer a cercare i suoi quasi dimenticati parenti nelle montagne appalachiane per scrivere una tesina di storia per l’università. Ma la distanza generazionale, e la distanza fra cultura urbana e cultura rurale, si dimostrano infine insormontabili. Forse la storia che Jennifer incrocia è troppo personale, non abbastanza “storica” poter essere ascoltata e gestita oggettivamente. Così, noi leggiamo la storia attraverso i ricordi dei vari personaggi, ma Jennifer non riesce a raccoglierne i racconti, e non si rende neppure conto della loro esistenza.

Jennifer ha portato con sé gli strumenti della ricerca, taccuino e registratore, ma anche gli stereotipi e l’arroganza dell’accademia. Vede i suoi parenti come “gente (folk) colorita, interessante”, che vive “nella pittoresca casa ancestrale”, e le interessa più cercare di verificare positivamente l’esistenza di un fantasma in una casa abbandonata che ascoltare i racconti che spiegano come mai il fantasma esiste e che significa. Eppure la sua mera presenza mette in moto le

26 Questo approccio multivocale è frequente nelle narrazioni indiane. Era l’usanza che altre persone aiutassero i narratori a raccontare la propria storia, verificandola e integrandola con dettagli e informazioni ulteriori. Tuttavia, questa multivocalità sparisce nella loro rappresentazione scritta: basta pensare a Black Elk Speaks (New York, W. Morrow, 1932), scritto da John G. Neihardt come se a parlare fosse solo il protagonista e non anche altri co-narratori di supporto.. L’unico libro che faccia buon uso di questa modalità di storytelling multivocale è l’autobiografia di Yellow Wolf scritta da Lucullus Virgil McWhorter (Yellow Wolf: His Own Story, 1940, Caldwell, Idaho, The Caxton Printers, 1991), in cui i contributi dei narratori collaterali vengono riconosciuti e valorizzati.

Page 11: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

memorie di chi la circonda: non la riconoscono come ascoltatrice e non le raccontano niente, ma rievocano il passato in un mosaico di silenziosi monologhi interiori. Quando le dicono “non tornare più qui con quella cosa” (il registratore), Jennifer se ne va in lacrime; ma infine si riprende, e spiega tutto con l’aiuto degli stereotipi che si era portata dietro fin dall’inizio: “Sono gente davvero molto primitiva, una specie di tribù legata alla terra. Battute rozze e istinti animali – il rovescio della medaglia del pastorale”. Non tornerà più. 27.

Anche Interview with the Vampire comincia con gli strumenti del mestiere: “Ma quanto nastro hai?”, chiede il vampiro: “Abbastanza per la storia di una vita?”. All’inizio, il “ragazzo” senza nome che conduce l’intervista cerca di comportarsi professionalmente, fa domande puntuali, non accetta la visione di sé dell’intervistato (“Mi interessa davvero molto sentire perché lei crede questa cosa, perché…”). Molto presto, però, il narratore prende il controllo dello spazio narrativo: “’No’, disse il vampiro, bruscamente. ‘Non possiamo cominciare così. Sei pronto a registrare?’” Come Simon Wheeler nella storia di Mark Twain, il vampiro Lestat ha una storia da raccontare, e il ragazzo col suo registratore gli servono solo da captive audience e da tramiti con il mondo: “’Non mi voglio perdere questa occasione. Per me è più importante di quello che tu puoi capire adesso.’”

Anne Rice, tuttavia, conosce bene il reciproco gioco di seduzione che regge l’intervista, e aggiunge un nuovo giro di vita alla figura della captive audience. Anziché cancellare la presenza dell’intervistatore e lasciare semplicemente spazio al monologo del protagonista, ci guida attraverso il processo in cui l’intervistatore è gradualmente risucchiato nel mondo dell’intervistato (capovolgendo l’occasionale senso di colpa del ricercatore come “vampiro”). A mano a mano, il ragazzo è “quasi ipnotizzato”, i riflessi si rallentano, è “congelato” e “raggomitolato” in posizione quasi prenatale e, anche se si ricorda di girare faticosamente la cassetta, è infine ridotto al silenzio.28

Alla fine, quando il flusso della voce del vampiro si arresta, si scuote dal suo torpore e chiede: “Fammi diventare un vampiro adesso!”. Il nastro continua a scorrere, ma l’intervista è finita: il ricercatore si è trasformato nell’oggetto della sua ricerca.

La figura del narratore prigioniero ritorna nella sua forma tradizionale negli ultimi due testi che voglio esaminare. The Confessions of Nat Turner di William Styron è costruito su un’intervista autentica: il racconto reso in carcere da Nat Turner, leader di un’insurrezione di schiavi a Southampton, Virginia, nel 1831, raccolto da un certo T. R. Gray e pubblicato come “confessioni” di Nat Turner. Styron comincia con l’incontro fra i due, ma rovescia i ruoli: il punto di vista è quello di Nat che osserva Gray, e “trascrive”il suo trascrittore al punto che la scrittura di Gray sembra quasi prigioniera della voce autorevole dello schiavo carcerato.

Qui non è questione di progetto narrativo condiviso: l’incontro è rappresentato e vissuto come conflitto, al massimo come negoziato fra avversari. Anche le parole sono contestate: Quando Nat dice che intende “confessare,” Gray pensa che voglia confessare le sue colpe, mentre Nat intende biblicamente “Confessa, ché tutti popoli sappiano. Confessa, ché le tue azioni siano note a tutti gli uomini. Sarà lui a servirsi di Gray perché, trascrivendo il suo messaggio, lo trasmetta al mondo intero. Ma quando Gray gli rilegge la propria trascrizione delle sue parole, Nat si sente come “svuotato di ogni energia”: la sua voce si è trasformata in un testo altrui, e il Nat che il mondo conoscerà sarà quello ricostruito da Gray.

E infatti, gli ultimi capitoli del libro di Styron, violentemente attaccati da tutta la critica afroamericana, si basano proprio sullo scritto di Gray. Leggendogli la sua trascrizione, Gray fa due domande a Nat: perché non è stato capace di uccidere il suo padrone, e perché la sola persona che ha ucciso personalmente sia stata una ragazza bianca. Styron le fa sue, e da qui parte per immaginare un Nat Turner ambivalente verso un padrone tutto sommato non malvagio, e verso la

27 Lee Smith, Oral History. A Novel, New York, Ballantine, pp. 6, 8, 29128 Anne Rice, Interview with the Vampire (1976), New York, Ballantine, 1977, pp. 95, 127, 149

Page 12: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

propria attrazione per una donna bianca. Il testo di Styron, dunque, è la continuazione e il culmine del testo in cui Gray fissa la sua versione della voce di Nat.

Una degli scrittori afroamericani che reagirono criticamente a The Confessions of Nat Turner è Sherley Anne Williams, autrice a sua volta di una neo-slave narrative, Dessa Rose, che è anche una complessa, allusiva risposta implicita al libro di Styron.

In primo luogo, Sherley Anne Williams rovescia il rapporto fra cornice e testo. Il prologo e l’epilogo, infatti, non sono scritti da un curatore o da uno storico, ma detti nel flusso di coscienza dell’eroina nera, Dessa Rose. La situazione narrativa, poi, è chiaramente modellata su quella di Styron: Dessa Rose, leader di una ribellione di schiavi, è interrogata\intervistata in carcere da uno scrittore, Adam Nehemiah, che sta lavorando a un libro sulla prevenzione e il controllo delle rivolte degli schiavi.

Tutta questa parte del romanzo si fonda sulla tensione tra la voce femminile nera di Dessa e la scrittura maschile bianca e padronale, che scrive su di lei tanto con la penna quanto con la frusta che le segna il corpo e con il marchio che le incide la lettera R nelle parti intime.29 Anche qui, comunque, l’intervista è un processo di trasformazione. Nehemiah cerca delle informazioni specifiche, ma a Dessa interessa raccontare la propria storia, soprattutto a se stessa, per ricostruire il senso del proprio passato.30 Come le domande del reverendo Mattison a Louise Piquet, anche quelle di Nehemiah a Dessa rivelano un’incapacità di riconoscere l’agenzia e la soggettività della schiava. Gradualmente, tuttavia, si convince di starsi conquistando un poco della sua fiducia; in realtà, sta succedendo il contrario: sono le difese di Nehemiah a indebolirsi e, come il ragazzo in Interview with the Vampire, viene a poco a poco catturato nella ragnatela del discorso di lei. Dessa si nasconde dietro silenzi, evasione, un’espressione “vuota”, e ne approfitta per essere lei a studiare lui e strappargli informazioni. D’altra parte, Dessa è a sua volta incuriosita dal processo dell’intervista (“Ma tu scrivi quello che dico io? E perché?”), e dal suono delle proprie parole che Nehemiah le rilegge (“Davvero ho detto questo?”).31 Arriva infine a vedere negli incontri con Nehemiah almeno un’interruzione ella monotonia del carcere ma, soprattutto, uno spazio narrativo che le viene offerto. Quando, dopo settimane di silenzio, comincia a parlare, è sorpresa dal suono della propria voce: “presa dal suo stesso flusso, si ascoltò e proseguì.” Il fallimento del dialogo interpersonale lascia il posto a un monologo così intenso che Nehemiah ne è catturato e sedotto: “la sua voce prevalse sulla mia.”32 Finché, quando vuole farla spogliare per leggere dal marchio sul suo corpo la sua identità, cerca di riappropriarsene in nome della scrittura: “La conosco… L’ho messa nel mio libro.”

Tutto questo, tuttavia, non nasconde una curiosa aporia. La prima sezione del romanzo comincia con quella sembra la voce di Dessa ma in realtà è la trascrizione di Nehemiah: “Eppure ricordava la scena molto vividamente, mentre ricostruiva il racconto della negra decifrando gli appunti che aveva buttato giù in fretta, e lo ricostruiva nel suo diario come se lo ricordasse parola per parola.” La sintassi, il lessico, la fonetica di Dessa, dunque, sono essenzialmente un Black English filtrato attraverso l’orecchio e la memoria di un osservatore bianco. Williams ci ciede di credere che quest’ultimo sia capace di una resa talmente accurata da essere indistinguibile dalla voce di Lei – cosa ovviamente non plausibile, a meno che non attribuiamo a Nehemiah (per altri versi così poso percettivo) una capacità di memoria totale, una altissima competenza filologica e, soprattutto, un appassionato desiderio di rispettare non solo quello che Dessa dice ma anche come lo dice.

29 Sherley Anne Williams, Dessa Rose, p. 30 Annalucia Accardo , Il racconto della schiavitù, p. 15331 Sherley Anne Williams, Dessa Rose, p. 40.32 Sherley Anne Williams, Dessa Rose, pp. 51, 55, 31.

Page 13: 04. L'Intervista e Le Sue Rappresentazioni

E comunque: come fa a sapere che il nome del compagno di Dessa si scrive Kain e non Cain, o Cane? C’è una sola persona che conosce l’esatta ortografia di questo nome: non Nehemiah, che lo sente solo oralmente; non Dessa, che non scrive; ma solo il narratore onnisciente e, attraverso questa figura, l’autrice. Chi è, allora, responsabile di queste parole? Dessa, che le ha dette? Nehemiah, che le trascrive? Il narratore onnisciente che sta alle spalle di Nehemiah e descrive la scena, e riassume il resto del racconto di Dessa? O Sherley Anne Williams, che li immagina tutti?

Di fatto, Nehemiah, il narratore onnisciente e l’autrice hanno una cosa in comune: scrivono. Nella tensione fra la voce di Dessa e la scrittura di Nehemiah, Sherley Anne Williams si trova sullo stesso versante di Nehemiah. Infine, è lei che la mette “nel suo libro.”

Dopo una sezione centrale raccontata in terza persona da un narratore onnisciente, la contraddizione riemerge nella terza sezione e nell’epilogo, detti da Dessa a un ascoltatore adulto che lei chiama “figlio mio” e “caro.” Non è la prima volta che racconta ai propri discendenti; ma questa volta è diversa. Come i genitori di Annie Napier, aveva raccontato episodi e aneddoti, a seconda delle occasioni e delle richieste; stavolta, come nell’intervista di Annie Napier con me, racconta la sua vita tutta intera, tutta in una volta, in ordine cronologico, a un ascoltatore che la trascrive. In altre parole, passa dallo storytelling allo history-telling.

Questa conclusione, però, è ideologicamente inaccettabile per l’autrice. Nella prefazione, Williams scrive che la scrittura ha spesso “tradito” gli afroamericani, e non fa niente per prepararci a un altro tipo di scrittura, a un trascrittore che non sia un traditore. Ma se il destino di Dessa è di finire comunque in qualche libro, è la scrittura che trionfa sulla voce. Williams cerca di districarsi da questa contraddizione affermando nelle ultime righe del libro che in realtà tutto questo è stato scritto, fin dalla prima riga, dalla stessa Dessa Rose:

Ecco perché l’ho scritto, perché lo faccio ridire a questo figliolo. Non mi scorderò mai di quando Nemi cercava di leggermi, sapendo che mi ero messa nelle sue mani. Questo, almeno, i figli lo hanno sentito direttamente dalle nostre labbra.33

Dessa Rose scrive, come Huckleberry Finn, dunque. Ma che Huck scriva lo sappiamo fin

dalla prima pagina; che Dessa ha scritto lo veniamo a sapere all’ultima riga, e non ci convince. Le parti raccontate in prima persona sono indiscutibilmente una rappresentazione scritta, anche fonetica, di una performance orale; e nessuno scrive così, tanto meno una persona cresciuta in una cultura orale. La fedeltà al suono delle parole è l’obbligo di ricercatori e studiosi che riferiscono parole altrui; ma gli scriventi popolari non cercano di riprodurre la propria oralità, bensì di creare la propria scrittura. Più un testo si presenta come un parlato, più è un rappresentazione letteraria, o letterata. Solo una scrittrice come la Alice Walker di The Color Purple può immaginarsi che la semianalfabeta Celie non dica ma scriva “Ah” invece di “I”.

Il libro si presenta come una lotta fra la voce di Dessa e la scrittura padronale della frusta e della penna. Ma al di là di questa opposizione sta lo iato fra la “donna di lettere” Sherley Anne Williams e il suo personaggio. Williams si trova sullo stesso lato di Nehemiah, e non può tollerare né la vicinanza col suo nemico ancestrale, né la distanza dalla sua antenata ideale. La differenza fra Dessa e Nehemiah, come quella fra Jennifer e i suoi antenati appalachiani viventi, è insormontabile; ma la distanza fra Sherley Anne Williams e Dessa, come quella fra il ragazzo e il vampiro, è insopportabile. O Williams diventa Dessa, e scrive nella voce di Dessa, o Dessa diventa Williams, e parla nelle lettere di Sherley Anne. L’unico modo per evitare che Dessa sia messa nel libro di qualcun altro è di fingere che il libro sia il suo.

33 Sherley Anne Williams, Dessa Rose, 260, corsivo nel testo