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366 aprile giugno 2015 Ernesto De Martino. Un’etnopsichiatria della crisi e del riscatto a cura di Roberto Beneduce e Simona Taliani Ernesto De Martino. Un’etnopsichiatria della crisi e del riscatto 3 Giordana Charuty “Occorre ridiscendere agli inferi.” Follia e storia tra De Martino e Foucault 15 Marcello Massenzio Senso della storia e domesticità del mondo 39 Tatiana Silla L’antropologia politica di Ernesto De Martino 61 Pietro Angelini Sogno e civiltà. Notizie sull’ultimo lavoro di De Martino 79 Dorothy Louise Zinn Tradurre Ernesto De Martino, dal travaglio al trascendimento 105 Piccolo archivio fotografico della crisi e del riscatto 114 Roberto Beneduce Angoscia e volontà di storia 149 Gino Satta “Fra una raffica e l’altra.” Il regno della miseria e la vita culturale degli oppressi 185 Simona Taliani Immagini del caos. La vita psichica dei subalterni 197

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prime pagine degli articoli del fascicolo di "aut aut", 366, 2015, dal titolo "Ernesto De Martino. Un'etnopsichiatria della crisi e del riscatto"

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366aprilegiugno 2015

Ernesto De Martino. Un’etnopsichiatria della crisi e del riscattoa cura di Roberto Beneduce e Simona Taliani

Ernesto De Martino. Un’etnopsichiatria della crisi e del riscatto 3

Giordana Charuty “Occorre ridiscendere agli inferi.” Follia e storia tra De Martino e Foucault 15

Marcello Massenzio Senso della storia e domesticità del mondo 39

Tatiana Silla L’antropologia politica di Ernesto De Martino 61

Pietro Angelini Sogno e civiltà. Notizie sull’ultimo lavoro di De Martino 79

Dorothy Louise Zinn Tradurre Ernesto De Martino, dal travaglio al trascendimento 105

Piccolo archivio fotografico della crisi e del riscatto 114

Roberto Beneduce Angoscia e volontà di storia 149Gino Satta “Fra una raffica e l’altra.” Il regno della

miseria e la vita culturale degli oppressi 185Simona Taliani Immagini del caos. La vita

psichica dei subalterni 197

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951

direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, [email protected]), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. !i"ek

per proposte di pubblicazione: [email protected] fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.r.l.via Melzo 9, 20129 Milano www.ilsaggiatore.com

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Finito di stampare nel giugno 2015

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Ernesto De Martino. Un’etnopsichiatria della crisi e del riscatto

Dal mondo magico alla scrittura del disastroA cinquant’anni dalla sua morte, l’opera di Ernesto De Martino continua a suscitare reazioni, interpretazioni divergenti, nuovi sentieri di riflessione.

La traduzione francese di La fine del mondo e quella inglese di Sud e magia, previste nei prossimi mesi presso prestigiose ca-se editrici,1 segnala il costante richiamo che la sua opera eserci-ta al di là dei confini italiani. L’interesse attuale per gli scritti di De Martino segnala però anche la densità di un pensiero che re-siste a ogni facile classificazione accademica, scardina gli stecca-ti disciplinari e introduce in modo pionieristico nel campo delle scienze sociali la consapevolezza che per studiare certi fenome-ni l’antropologo ha bisogno di intrecciare modelli e saperi diver-si (la storia, la filosofia, la psichiatria, in primo luogo), pena il ri-dursi a esporre meri elenchi di fatti o pure speculazioni.2

Interrogando luoghi e ambiti teorici differenti attraverso un prisma di concetti diventati poi celebri (la “crisi della presen-za”, l’esperienza della “storia non decisa”, il “cattivo passato che ritorna”, la “destorificazione istituzionale”, la “potenza del ne-gativo”, lo “scandalo dell’incontro etnografico”), il suo metodo

1. La traduzione francese di La fine del mondo è a cura di G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio (EHESS, Paris), quella inglese di Sud e magia è di D.L. Zinn (Magic. A Theory from the South, University of Chicago Press, Chicago 2015, per la versione cartacea, e HAU Books, Chicago 2015, per quella digitale).

2. Cfr. E. De Martino, Lineamenti di etnometapsichica, “Problemi di metapsichica”, 1, 1942, p. 113.

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storico-comparativo non ha esitato a confrontare sul tema delle “patrie esistenziali” l’aborigeno achilpa (il quale si lascia morire quando privo del palo rituale che riscattava il camminare e orien-tava il suo peregrinare)3 con l’anziano calabrese che, in un altro continente, in un’altra relazione con gli uomini e il tempo, preci-pita in un “incubo intollerabile” quando perde di vista il riferi-mento che fa suo il suo mondo (il profilo di un campanile), il so-lo che conosca e al quale sente di appartenere.

Nello stesso orizzonte di considerazioni, il delirio di fine del mondo di un giovane contadino di Berna diventa per noi mate-ria bonne-à-penser la relazione fra apocalisse collettiva (la guer-ra) e apocalisse privata. Descritto dagli psichiatri Storch e Ku-lenkampff come un uomo che sino al momento del ricovero era stato “sempre tranquillo, solitario e un po’ primitivo”, il suo sin-tomo si fa scrittura del disastro, assumendosi il compito di ricor-dare quel caos di morti e rovine inghiottito dall’oblio. Ed è la storia stessa, gli eventi di quel tempo di lutti e di caos, a passa-re ormai nel delirio: “La malattia […] ebbe inizio quando un ae-reo militare precipitò […] e si ritenne responsabile dell’abbatti-mento. Non poté più dormire, andava vagando, in preda a cre-scente angoscia. Specialmente si angosciava della prossima fine del mondo”.4

È in virtù di questo stesso metodo che nell’opera pubblicata qualche anno prima, La terra del rimorso, il corpo della taranta-ta metteva in scena ferite e desideri analoghi a quelli dei protago-nisti del vudu, del bori o dello zar, diventando il teatro vivente di memorie, traumi o conflitti indicibili.

Una tale insaziabile curiosità e passione per il confronto fra

3. “Piantare il palo […] significa iterare il centro del mondo […]. Con ciò il luogo ‘nuovo’ è sottratto alla sua angosciante storicità, alla sua rischiosa caoticità” (Id., Il mondo magico, Bollati Boringhieri, Torino 1973, p. 270).

4. “Alla domanda che cosa pensa con la parola ‘crollo’ (Untergang), il malato risponde: Quando gli uomini non sono al loro giusto posto […]. Il mondo di prima non c’è più […]. La gente non è più al giusto posto, e così pure le cose, le case, le strade” (si tratta delle pa-role di Storch e Kulenkampff, accuratamente riportate da De Martino nelle diverse stesure di queste note; E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi cul-turali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977, p. 194 sgg.).

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“istituti culturali” così diversi, sebbene nata da un differen-te taglio metodologico, la troviamo forse solo in Aby Warburg, quando confronta il rituale del serpente e le danze degli indiani pueblo (Nuovo Messico) con le figure del mito greco o il testo medievale in cui san Paolo appare invulnerabile al morso della vipera.5

Figure di morte, di crisi e di riscatto, di dolore e di cura, si in-contrano così all’ombra di una “destorificazione” capace di tra-sformare persino i sintomi in “valori”,6 e di una cultura il cui senso sembra stare soprattutto nella sua capacità di lottare con-tro “i momenti critici dell’esistenza”: quando la presenza è chia-mata a scegliere e a decidere.7

L’attenzione alla storicità e ai linguaggi del soffrire è l’antidoto che De Martino userà contro la presunzione delle categorie dia-gnostiche della psichiatria o la pretesa della Daseinsanalyse di pre-scindere, “sia pure temporaneamente, dai giudizi relativi alla sani-tà e alla malattia”.8 Lo stesso antidoto servirà a misurare valore e limiti delle “tecniche culturali di difesa”. Le considerazioni sull’al-ternativa ermeneutica tra dolore sincero e rischio psicopatologico nel pianto funebre lucano, o quelle sull’ambivalenza come espres-sione di “conflitti storici non risolti”,9 annunciano già per intero le promesse di un’etnopsichiatria il cui interesse sta anche nel modo ostinato con cui l’esperienza della sofferenza e le strategie per go-vernarla sono ricondotte all’ordito della storia, ai suoi strappi, ai suoi fili assenti. Ma con un intento ulteriore: costruire un discor-so sulla memoria, su quella traumatica in particolare (“il cattivo passato che non vuole passare”, “la storia non decisa”), nel quale due grammatiche distinte, due autonome temporalità, troveranno

5. A. Warburg, Il rituale del serpente (1988), trad. di G. Carchia e F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1998, pp. 58-59.

6. E. De Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, introduzione e cura di M. Massenzio, Argo, Lecce 2005, p. 125.

7. Non è privo di interesse che l’autore includa fra questi momenti anche lo stare del-lo schiavo davanti al padrone…

8. Id., La fine del mondo, cit., p. 169.9. “La risoluzione non presa, la storia non decisa ritorna sotto forma di comportamen-

to ambivalente […]. L’ambivalenza precede dalla repressione, la repressione dal rischio di non esserci nella storia” (Id., Storia e metastoria, cit., p. 115).

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“Occorre ridiscendere agli inferi” Follia e storia in De Martino e Foucault

GIORDANA CHARUTY

De Martino ha appena ultimato la scrit-tura della Terra del rimorso e già apre il nuovo cantiere che ci è giunto incom-

piuto e in un’edizione postuma, poco più di dieci anni dopo la sua morte, con il titolo La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977).

Quali inquietudini concettuali, quali esitazioni percorrono gli anni che separano le ricerche sui relitti di una specificità religio-sa dell’Italia meridionale dall’indagine su quegli immaginari apo-calittici che non sembrano avere alcun rapporto con un’alteri-tà propria della società italiana, e schiudono orizzonti completa-mente diversi?

Molti dei paradigmi utilizzati in Occidente per elaborare un sapere delle differenze sono stati convocati in un’opera costruita in buona parte negli interstizi delle discipline dominanti. Le pri-me ricerche del militante politico hanno rapporto con una scien-za del governo che gli ha permesso di riconoscere la distinzione tra il sociale e il culturale.1 Al contrario, il comparativismo che organizza tanto Morte e pianto rituale quanto La terra del rimor-so è in parte sorretto da quel paradigma degli ultimi operante in

1. G. Charuty, Ernesto De Martino: Les vies antérieures d’un anthropologue, Éditions Parenthèses, Marseille-Aix-en-Provence 2009, pp. 263-344; trad. di A. Talamonti, Ernesto De Martino: le precedenti vite di un antropologo, Franco Angeli, Milano 2010; Id., Le mo-ment néoréaliste de l’anthropologie démartinienne, “L’Homme”, 195-196, 2010, pp. 247-282.

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quello che è stato definito come il “lutto etnografico”.2 Ciò no-nostante nessuno dei libri che De Martino pubblica fra il 1958 e il 1961 è costruito come una monografia. Ogni ricerca si dà la profondità storica e lo spazio di una comparazione necessa-ri e messi al servizio di un’idea dominante: si avrà la nozione di “presenza” e di “crisi della presenza” in Morte e pianto rituale (1958), quella di “formazione di compromesso” in Sud e magia (1959), quella infine di “simbolismo mitico-rituale” nella Terra del rimorso (1961). Allo stesso modo gli strumenti concettuali, forgiati passo dopo passo per descrivere ciò che chiameremmo oggi l’attività “semiotica”, gli permettono di riconoscere la stori-cità del rapporto con se stessi e con gli altri, così come la dimen-sione politica che presiede alle costruzioni della soggettività.

Più in particolare, La terra del rimorso porta a compimen-to un’analisi dinamica della “tessitura simbolica” che fonda il ri-to in azione, di cui non rende giustizia l’espressione oggi datata di “simbolismo mitico-rituale”. Tradotta in termini contempora-nei, si tratta di un regime di senso che associa la parte linguisti-ca dell’espressione (il mito) a una parte emotiva (il rito), alla qua-le sono riconosciute tre proprietà essenziali: la dimensione fittizia di ciò che “causa” il reale (necessità antropologica e non espressio-ne di irrazionalità) e conferisce all’azione rituale il suo carattere al-lucinatorio; la dimensione essenzialmente metaforica, se si designa con questo termine lo spostamento del senso attraverso una plura-lità di supporti; infine, l’apertura verso un’altra temporalità.

Come caratterizzare allora il progetto di una “etnologia rifor-mata” perseguito in La fine del mondo, dove sono messe in risal-to maniere diverse di costruire il tempo e di essere nel mondo? A partire da un ritorno ai dossier conservati negli archivi, l’edizio-ne francese in corso di pubblicazione intende proporre una ver-sione parziale ma, speriamo, più coerente con un’ambizione an-

2. Le nozioni di “sapere delle differenze” e di “paradigma degli ultimi” sono state proposte e analizzate da D. Fabre, D’une ethnologie romantique, in D. Fabre, J.M. Pri-vat (a cura di), Savoirs romantiques. Une naissance de l’ethnologie, Presses universitaires de Nancy, Nancy 2010, pp. 5-75. L’espressione “lutto etnografico” è di Claude Reichler.

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tropologica che ci sembra più che mai attuale, e che l’edizione attualmente disponibile rende difficile riconoscere.3

Il primo problema è certo quello riguardante la costruzione del testo.

In una fase iniziale del progetto, solo la rilettura del caso ormai famoso del “contadino di Berna” doveva aprire un primo capito-lo, Mundus, centrato sulle società antiche e sui loro modi di costru-zione simbolica del “mondo”: come potevano affiorare, nell’espe-rienza delirante di crollo del mondo di un giovane contadino sviz-zero durante la Seconda guerra mondiale, i frammenti sconnessi di quelle configurazioni caratteristiche delle antiche società agricole?4 Una domanda che sembra coerente con l’ipotesi storicista sull’esi-stenza di forme di follia tipiche non tanto di una cultura particola-re quanto di grandi raggruppamenti di civiltà e di momenti di rot-tura storica, come nel caso della decolonizzazione africana.

Tuttavia, se si prende come guida Apocalissi culturali e apoca-lissi psicopatologiche, articolo pubblicato poco prima della sua morte,5 bisogna modificare la struttura complessiva – formalmente conservata dalla curatrice – per aprire l’indagine con un dossier at-tualmente relegato come “epilogo”, ossia l’esperienza contempora-nea della fine di un mondo storico che De Martino decifra, da cli-nico della cultura, tanto nella creazione artistica quanto nella pa-rola dei pazienti degli ospedali psichiatrici, dalla fine del XIX seco-lo: un’omologia che permette di comprendere il termine “apoca-lisse” utilizzato per qualificare sia le opere di creazione letteraria o plastica sia il loro contrario, le produzioni deliranti.

Fra il primo progetto e l’ultimo assetto del libro immagina-to che sarebbe stato poi pubblicato postumo, De Martino ha di

3. Per una prima presentazione di questo lavoro di traduzione, cfr. G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio, Un livre fantôme à reconstruire en le traduisant, “La ricerca folklorica”, 67-68, 2014, pp. 151-159.

4. E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977, pp. 194-211. Il caso è ripreso da V. Crapanzano, Orizzonti dell’immaginario. Per un’antropologia filosofica e letteraria, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 248-292.

5. E. De Martino, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, “Nuovi Argomen-ti”, 69-71, 1964, pp. 105-141.

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Senso della storia e domesticità del mondo

MARCELLO MASSENZIO

1. La fine del mondo: un laboratorio di ricercaLa pubblicazione postuma dell’opera incompiuta di Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali,1 non ha finora ottenuto in Italia tutta l’attenzione che meritava soprattutto da parte degli etnologi, degli storici delle religioni e degli antropologi. Si tratta più che di un testo inteso in senso classico, di un affascinante laboratorio di ricerca, straor-dinariamente ricco di fermenti e di stimoli intellettuali, portatore di novità di ordine epistemologico e metodologico, i cui segnali premonitori sono disseminati in tutto l’arco dell’attività scientifica dell’autore.

Nella ricezione critica ha finito per prevalere la tendenza a considerare La fine del mondo come una sorta di corpo estra-neo rispetto alla produzione demartiniana più nota e ritenuta più “rappresentativa”, identificata con la cosiddetta “trilogia meridionalista” composta da Morte e pianto rituale, Sud e ma-gia e La terra del rimorso.2 Secondo l’opinione più accreditata, De Martino, abbandonate le ricerche di taglio compiutamen-te storico concernenti le culture subalterne del Mezzogiorno d’Italia, avrebbe impresso una direzione del tutto diversa al-

1. E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977.

2. Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Einaudi, Tori-no 1958; Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1959; La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il Saggiatore, Milano 1961.

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la propria ricerca, dedicandosi all’analisi dei fondamenti onto-logici della cultura, al di fuori di ogni determinazione storica.3

Questo tipo di valutazione ha contribuito a provocare la lunga eclisse dell’opera postuma: esaurita la prima edizione, La fine del mondo è divenuto un “libro fantasma”, introvabile in libreria; so-lo venticinque anni più tardi, nel 2002, l’editore Einaudi si è per-suaso della necessità di pubblicare una seconda edizione, a segui-to di un’ampia fase di ripensamento critico dell’opera di De Mar-tino e, in particolare, grazie alla riscoperta dell’importanza del suo pensiero filosofico e storico-religioso, profondamente radicato nella moderna cultura europea.4 L’edizione francese di La fine del mondo, patrocinata dall’École des hautes études en sciences socia-les, curata da Daniel Fabre, da Giordana Charuty e da me, com-porta la traduzione e la revisione critica del testo: la pubblicazio-ne, prevista per l’autunno 2015, può rappresentare una tappa si-gnificativa del processo di rivalutazione del testo demartiniano in-compiuto, ancora oggi in grado di prospettare nuovi orizzonti di ricerca e di stimolare la riflessione critica sul nostro presente.

2. Fine di mondi e fine del mondoOggi ci appare chiaro che La fine del mondo, pur segnando un punto di svolta nella ricerca dello studioso napoletano, non è scin-dibile dal complesso delle opere precedenti, anche da quelle che apparentemente sembrano essere le più distanti. Il primo fattore di continuità che ci preme rilevare risiede nell’interesse costante per il tema della fine, della disintegrazione di un universo cultu-rale, inteso come sistema di valori socialmente condiviso, posto a fondamento dell’agire collettivo: tema declinato in vari modi e analizzato da differenti punti di vista.

Si consideri, in questa prospettiva, La terra del rimorso, uno dei

3. Cfr. V. Lanternari, Fra storicismo e ontologismo. A proposito de “La fine del mondo”, “Studi storici”, 1, 1978, pp. 187-200.

4. Da segnalare in questa prospettiva: C. Gallini, M. Massenzio (a cura di), Ernesto De Martino nella cultura europea, Liguori, Napoli 1997; M. Massenzio (a cura di), Storia e me-tastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1995; G. Sasso, Ernesto De Mar-tino fra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli 2001.

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vertici della produzione storico-religiosa ed etnologica in ambi-to europeo, suscettibile di molteplici livelli di lettura. Com’è no-to, l’opera è il frutto di una ricerca etnografica incentrata sul feno-meno del tarantismo localizzato in Puglia; detto in estrema sintesi, si tratta di un complesso rituale a sfondo magico, volto a plasma-re culturalmente la crisi della “presenza umana nel mondo”, sca-tenata da concrete cause socio-economiche sulle quali siamo co-stretti a sorvolare in questa sede: la crisi si configura come pos-sessione da parte di un’entità sovrumana, che potrà essere espulsa grazie al ricorso all’orizzonte mitico-rituale. Il livello di analisi che in questa sede ci preme sottolineare riguarda la dissoluzione del-la valenza culturale del fenomeno: De Martino ha avuto modo di assistere, in “presa diretta”, sul terreno, al tarantismo in statu mo-riendi, alla sua disgregrazione in atto, dietro la quale si cela la fine di un mondo, quello della cultura contadina d’impronta magica dell’Italia del Sud, “altra” rispetto ai canoni del cattolicesimo uffi-ciale. Le scene che testimoniano di questo crepuscolo, la cui ana-lisi richiede l’apporto congiunto della storia delle religioni e della psichiatria, sono evocate con straordinario vigore:

Nella cappella si venivano via via adunando i tarantati salenti-ni, in grande maggioranza donne, facendo insorgere contem-poraneamente le loro crisi nell’angusto spazio della cappella […]. Le scene che vedevamo dall’alto della nostra tribuna ad audiendum Sacrum ci davano l’impressione delle pietruzze colo-rate di un caleidoscopio in frantumi, già atte a comporre figure geometriche ma ora non più: inerti abbandoni al suolo, agita-zioni psicomotorie incontrollate, atteggiamenti di depressione ansiosa, scatti di furore aggressivo, e ancora archi isterici, lenti spostamenti strisciando sul dorso, abbozzi di passi di danza, tentativi di preghiera, di canti, conati di vomito. […] Dominava questa disperata agitazione il grido stilizzato dei tarantati, il “grido della crisi”, un ahiiì variamente modulato, e che meglio si sarebbe detto un guaito che non un grido umano.5

5. E. De Martino, La terra del rimorso, cit., p. 111.

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L’antropologia politica di Ernesto De Martino

TATIANA SILLA

1. L’intellettuale in prima linea. L’antropologia “pubblica” di Ernesto De Martino

Senz’altro uno dei grossi meriti di De Martino è di aver legato, fin da subito, la sua riflessione teorica a un forte impegno politico e civile. Come sottolinea Annamaria Rivera, citando alcuni passi tratti dalle Note lucane, questo suo impegno civile “diviene nel corso del tempo una delle condizioni e delle modalità della sua stessa etnografia, la quale, per non rimanere ‘inerte’ storiografi-camente, deve farsi attraversare dalle ‘umane, dimenticate istorie’ di coloro ‘che erano considerati zulu e beduini’”.1 Il suo primo incontro con le “plebi rustiche” del Sud avviene negli anni della sua militanza politica in qualità di segretario della Federazione socialista a Bari nel 1947 e come commissario in quella di Lec-ce nel 1950, anno in cui aderirà al Partito comunista. Sebbene quell’incontro non fosse avvenuto “sul piano della ricerca sto-rica, ma su quello della lotta politica” fu grazie a quel bisogno “di trasformare il presente in una realtà migliore”2 che iniziò a delinearsi la volontà di conoscere meglio il presente per poterlo trasformare. In tale prospettiva “la stessa ricerca etnologica cominciò a configurarsi in una dimensione nuova”.3 Non c’era dunque bisogno di andare in un altro continente per occuparsi

1. A. Rivera, L’antropologia pubblica di De Martino, “Quaderni di storia, antropologia e scienze del linguaggio”, 17, 2013, p. 84.

2. E. De Martino, “Promesse e minacce dell’etnologia” (1953), in Furore Simbolo Va-lore, Feltrinelli, Milano 2002, p. 88.

3. Ivi, p. 89.

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di “formazioni culturali nate dall’esperienza di una radicale precarietà esistenziale e maturate nella lotta contro l’angoscia di mantenersi come persone davanti all’insorgere dei momenti critici dell’esistenza storica”.4 Come vedremo nel secondo pa-ragrafo, durante la stesura del libro sul mondo magico, quando si era occupato di varie popolazioni cosiddette primitive, De Martino aveva già operato un profondo confronto con le alterità culturali. Tuttavia, “bastava un viaggio di dieci ore, parte in treno e parte in auto, sino a raggiungere una terra che si stende a quat-trocento chilometri da Roma”5 per confrontarsi con la tragicità di un’umanità dimidiata, per toccare con mano la situazione di quei braccianti e contadini pugliesi e lucani che diventeranno l’oggetto della sua ricerca, “un oggetto che non è tale poiché fin dalle prime ricerche la relazione che egli istituisce con loro è gui-data da simpatia, compassione e solidarietà”.6 Questi sentimenti, che durante l’incontro etnografico investono sia lo studioso che l’uomo, saranno spesso accompagnati da “una tensione dramma-tica fra interesse scientifico e interesse etico-politico, fra storia da contemplare e storia da vivere e da fare”, da “una serie di brucianti umiliazioni” nel dover abbassare i suoi connazionali “a oggetti di ricerca scientifici, e quasi di esperimento”.7

L’incontro con la Rabata a Tricarico è l’occasione per De Mar-tino di mettere in discussione le certezze del mondo borghese di provenienza. Come in ogni incontro con l’alterità che si rispetti, nel momento in cui l’immagine della Rabata si riflette nello spec-chio dell’antropologo, quest’ultimo rimirandosi vede a sua vol-ta un’immagine di sé diversa che gli permette di comprendere se stesso e il suo compito istituzionale e disciplinare.

Dopo il mio incontro con gli uomini della Rabata, ho riflettuto che non c’era soltanto un problema loro, il problema della loro

4. Id., “Note di viaggio” (1953), in L’opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla spedizione etnologica in Lucania, a cura di C. Gallini, Argo, Lecce 1996, p. 96.

5. Ibidem. 6. A. Rivera, L’antropologia pubblica di De Martino, cit., p. 85.7. E. De Martino, “Note di viaggio”, cit., pp. 119 e 117.

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emancipazione, ma c’era anche il problema mio, il problema dell’intellettuale piccolo-borghese del Mezzogiorno, con una certa tradizione culturale e una certa “civiltà” assorbita nella scuola, e che si incontrava con questi uomini ed era costretto per ciò stesso a un esame di coscienza, a diventare per così dire l’etnologo di se stesso. […] Rendo grazie al quartiere rabatano e ai suoi uomini per avermi aiutato a capire meglio me stesso e il mio compito.8

Incontrandosi con la miseria estrema dei contadini della Rabata, con “esseri mantenuti a livello delle bestie malgrado la loro aspi-razione a essere uomini”, De Martino si sente pervaso da un pro- fondo senso di colpa: la colpa di essere un privilegiato, un “intellet-tuale piccolo-borghese del Mezzogiorno” che si trova infinitamen-te distante da tanta miseria e tanto degrado. Ma tale senso di colpa si trasforma subito in collera: una collera “storica”, “solennemente dispiegantesi dal fondo più autentico del proprio essere”.9 Ed è tale collera che permette di fondere entro un unico orizzonte la lotta condotta dall’intellettuale e la lotta dei contadini del Sud per la propria emancipazione.

Sebbene De Martino, come molti altri intellettuali, subì una fascinazione per l’Unione Sovietica, come luogo mitologico dal quale si sarebbe poi dipanato il filo rosso della rivoluzione e del-la giustizia sociale, il suo rapporto con il marxismo, sia dal pun-to di vista teorico che politico, non fu sempre facile – un aspetto, questo, su cui torneremo alla fine. Un atteggiamento di presa di distanza dal marxismo è già presente in alcuni suoi scritti antece-denti il 1956, anno in cui deciderà di non rinnovare più la tesse-ra del Pci. Del resto, un pensatore del suo calibro che era riusci-to a rielaborare in maniera critica e fruttuosa lo storicismo, allar-gandone la prospettiva storica al fine di includere al suo interno i cosiddetti popoli primitivi, non avrebbe potuto accettare supi-namente la teoria marxista né tantomeno il diktat di un parti-

8. Id., “Note lucane” (1950), in Furore Simbolo Valore, cit., p. 132 sgg.9. Ibidem.

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79aut aut, 366, 2015, 79-103

Sogno e civiltà. Notizie sull’ultimo lavoro di De Martino

PIETRO ANGELINI

Nell’autunno del 1966 comparve nelle li-brerie un volume con un titolo abba-stanza insolito per gli studiosi italia-

ni del tempo: Il sogno e le civiltà umane. L’editore era Later-za, la collana l’autorevole “Biblioteca di cultura moderna”, che in quegli anni attraversava un’interessante fase di rilancio; ma la sovrabbondanza di autori, addirittura tredici, e l’assenza in copertina del nome di un curatore, lasciava intendere che non si trattava né di una monografia né di un’antologia, bensì del-la tradizionale quanto doverosa raccolta degli atti di un conve-gno – una formula che anche allora suscitava più sospetti che appetiti. Fu questo sicuramente uno dei motivi per cui il tito-lo, malgrado l’evidente novità che apportava al ventaglio delle scienze sociali, passò pressoché inosservato. Ma se il potenzia-le acquirente avesse letto con attenzione il risvolto di copertina, una frase, una scintilla lo avrebbe forse scosso: “La cura del vo-lume”, diceva l’editore, “è forse l’ultimo lavoro di Ernesto De Martino, che aveva già compiuto la scelta e la revisione dei te-sti, quando inattesa sopraggiunse la malattia e la sua dolorosa scomparsa”.

Sfuggiva in questo modo, al potenziale lettore, l’occasione di guardare al sogno – un oggetto di studio monopolizzato dal-la psicoanalisi e dalla critica letteraria – in una prospettiva fi-nalmente non etnocentrica; e di allargare e ispessire il concetto stesso di sogno, non più inteso come un’esperienza privata da

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condividere soltanto con un medico o un soggetto compiacen-te, ma come un istituto in grado di condizionare scelte culturali e destini collettivi: un fenomeno multiforme, dall’ampio alone semantico, che comprende oltre ai sogni comunemente intesi anche esperienze oniroidi come i viaggi estatici e le apparizio-ni, e che proprio quando viene colto nella sua dimensione col-lettiva si svela come una lingua che varia da cultura a cultura. Era del resto questo l’intento del convegno tenutosi quattro an-ni prima della pubblicazione di questi atti nella prestigiosa se-de dell’abbazia di Royaumont: un convegno ad altissimo livel-lo, che chiamava a raccolta un fitto stuolo di esperti di diverse aree e discipline con il dichiarato obiettivo di strappare l’ogget-to-sogno dall’isolamento delle ricerche specialistiche. De Mar-tino, che aveva già interpretato, fin dagli anni quaranta, il so-gno come un “istituto magico” che procedeva da un concetto non occidentale di realtà (da cui il conflitto con Croce), aveva continuato in vari modi a riflettere sul problema, in particola-re soffermandosi sul nesso mito/sogno, sulla specificità dei so-gni paranormali, e negli ultimi tempi, nell’ambito delle ricer-che per La fine del mondo, allo scopo di stabilire una distinzio-ne tra delirio psicopatologico e sogno profetico.1 Nessuno co-me lui, in Italia, si presentava nelle vesti di “diretto interessato” a un’operazione che tendeva, per la prima volta in modo siste-matico, alla de-naturalizzazione di un fenomeno che rischiava allo stesso tempo, con le applicazioni della psicoanalisi, di per-dere ogni contatto con il terreno della storia.

Come è che, allora, il nome di De Martino compariva nel-la pubblicazione solo di straforo? È a questa prima legittima domanda che dobbiamo, innanzitutto, trovare una risposta.

1. Il sogno come istituto magico (12 pp. dattiloscritte di De Martino) si trova nel faldo-ne 3 (cartella 59) dell’Archivio: appunti sul nesso sogno/mito si trovano invece nel faldone 4 (cartella 15). Il faldone 24 comprende gli scritti inediti relativi alla parapsicologia. Tutti e tre i faldoni sono consultabili online sul sito dell’Associazione internazionale Ernesto De Martino. Gli appunti sui deliri di crollo del mondo e sulle apocalissi dei movimenti profe-tici si trovano nel I e nel III capitolo della Fine del mondo curata da C. Gallini (Einaudi, To-rino 1977, nuova edizione 2002).

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Risposta che ci viene, almeno in parte, dalle carte conservate nell’Archivio.2

Partiamo dal convegno. Anzitutto, le carte ci forniscono un’infor-mazione che il libro stranamente non ci dà (l’edizione italiana, lo diciamo una volta per tutte, lascia parecchio a desiderare): il pro-motore dell’iniziativa fu Marcel Leibovici, che seguì tutti i lavori nella fase preparatoria. Solo col passare dei mesi il testimone pas-serà, come vedremo, a Gustav Von Grunebaum. Leibovici aveva pubblicato nel 1959 un importante volume uscito nella prestigiosa collezione “Sources Orientales” delle Éditions de Seuil: Les songes et leur interprétation. Si trattava di una vasta panoramica delle oni-rologie orientali, costruita su monografie redatte da esperti delle diverse aree – dall’Egitto antico al Giappone moderno – secondo un disegno tracciato da Anne-Marie Esnoul e dallo stesso Leibo-vici. L’intento di questo illustre esperto di divinazioni babilonesi3 era abbastanza evidente: compiere un passo ulteriore, allargando il quadro all’Occidente e alle “civiltà primitive”, e soprattutto

2. Nel faldone 26 (non ancora consultabile online) dell’Archivio si trova una cartella – che da qui in avanti chiameremo 26.3 – contenente una parte dei carteggi intercorsi prima e dopo il convegno, un intervento di De Martino per una delle riunioni preliminari, e qual-che appunto sparso – sempre di pugno di De Martino per l’ordinamento dei contributi in vista della pubblicazione in volume. Più dettagliatamente la cartella contiene i seguenti do-cumenti: trentanove lettere ricevute da De Martino (sei di Leibovici, diciannove di Gru-nebaum, tre di Servadio, due di Musatti, una di Garrett, due di Paci, tre di Dillon, una del Saggiatore, una di Laterza, due di Molinari); sette veline di lettere spedite da De Martino (una a Leibovici, cinque a Grunebaum, una a Paci); una copia di lettera spedita da Serva-dio a Grunebaum, una copia di lettera spedita da Vito Laterza a Grunebaum; due bozze di lettere (una a Grunebaum e una a Leibovici); sei pagine dattiloscritte (da attribuire a De Martino) contenenti due ordini del giorno e quattro elenchi di interventi; undici pagine scritte in parte a macchina e in parte a mano con le relazioni di De Martino, di Leibovici e di Grunebaum presentate nel corso della riunione preliminare; un ritaglio di giornale (è la recensione del libro Man and Time di J.B. Priestley comparsa sull’“Observer” nel 1964); un estratto di Servadio (Sogno normale e sogno paranormale, “Annali di Neuropsichiatria e Psicoanalisi”, 1, 1961); due circolari del Near Eastern Center; una cartella con il depliant del programma definitivo del convegno e i papers degli interventi di Caillois, Bremer, De-ment, Servadio, Cahen, Marjasch, Ebon, Zambrano, Bastide, La Barre, Eggan, Hallowell, Brelich, Eliade, Oppenheim, Fahd, Lecerf, Corbin, Rahman, Maier, Millàn e Paci.

3. Nato nel 1913, docente presso la Facoltà di teologia e storia dell’Università di Mon-treal, Leibovici pubblicherà nel 1968 il fondamentale La divination in 2 voll., Puf, Paris, in collaborazione con A. Coquot. Un suo contributo sulla religione babilonese compare in AA.VV., Geni, angeli, demoni, Edizioni Mediterranee, Roma 1994.

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Tradurre Ernesto De Martino, dal travaglio al trascendimento

DOROTHY LOUISE ZINN

Mi dispiace, ma qualcuno qui […], qual-cuno a cui devo assolutamente presta-re ascolto, mi ha detto che è troppo

lungo e troppo vecchio.” Così è stata liquidata a sorpresa, a dieci giorni promessi dalla firma di un contratto, la possibilità di pub-blicare l’edizione inglese della Terra del rimorso presso una no-ta casa editrice anglofona specializzata in opere antropologiche. Questo dopo aver investito non poco tempo nel cercare delle ri-sposte a un elenco esteso di quesiti da parte della casa editrice, passo necessario per spianare la strada a un accordo di pubbli-cazione. Ho replicato alla sentenza dell’editore con una e-mail in cui ho espresso rammarico per una decisione basata su dei crite-ri che, se negli anni settanta fossero stati ugualmente applicati, avrebbe ostacolato la pubblicazione in inglese dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, opera che si sarebbe potuta ben de-finire “troppo lunga e troppo vecchia”. Altro che De Martino! Eppure Gramsci ha cambiato la faccia dell’antropologia anglofo-na, così come ha influenzato tante altre discipline affini.

Si trattava del secondo di tre tentativi nell’arco di quasi un de-cennio, tutti andati male all’ultimo momento, prima di riuscire a trovare una collocazione presso la Free Association Books1 di Lon-

1. E. De Martino, The Land of Remorse. A Study of Southern Italian Tarantism, trad. e note scientifiche a cura di D.L. Zinn, Free Association Books, London 2005 (ed. orig. La terra del rimorso, il Saggiatore, Milano 1961).

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dra, grazie al sostegno dell’antropologo-psicoanalista Anthony Molino. Un paio di anni prima avevo intrapreso il primo contat-to presso una casa editrice americana, munita dell’endorsement di George Marcus per una collana con cui aveva avuto a che fare. A dispetto dell’entusiasmo mostrato dalla senior editor, la negoziazio-ne era andata avanti un po’ lentamente nel corso di parecchi mesi; aveva subìto poi un’improvvisa e fattiva accelerazione quando ave-vo incontrato di persona la senior editor della collana in uno dei miei ritorni a casa. In quell’occasione avevamo preso degli accor-di, e subito dopo avevo ricevuto una prima bozza del contratto da presentare agli eredi De Martino. Dopo qualche settimana, però, era arrivato un messaggio annunciando che la collana era terminata, e quindi non avrebbero potuto più accogliere il libro, e che la stes-sa editor serbava delle insicurezze rispetto al proprio posto di lavo-ro. Fra questo tentativo e il secondo, ho dovuto prendere parecchio tempo per metabolizzare la delusione. Altrettanto tempo è passa-to prima di intavolare una trattativa con una terza casa editrice, ma avrei dovuto tener conto del vecchio detto “Non c’è due sen-za tre”. Dopo un accordo sui preliminari, e con il contratto in dirit-tura d’arrivo, la terza casa editrice ha ritirato il suo interesse per la pubblicazione senza ulteriori spiegazioni. Dovevo a malincuore am-mettere a me stessa che l’impresa di pubblicare la traduzione di De Martino sembrava vittima proprio di un classico colpo di jettatu-ra, e mi chiedevo cosa ne avrebbe detto il nostro studioso in merito.

Sapevo dall’inizio che le case editrici anglofone sono general-mente un po’ restie a pubblicare delle traduzioni, ma credevo fortemente nel progetto e nella necessità di portare De Martino all’attenzione del mondo antropologico, come solo una traduzio-ne in inglese avrebbe potuto fare. Avrebbe permesso la circola-zione di De Martino tra i colleghi della tradizione anglo-america-na, ma avrebbe anche aperto un accesso all’opera di De Martino in quelle realtà nazionali in cui si parlano lingue meno conosciu-te e nelle quali si guarda all’inglese come lingua franca.

Aveva ben osservato Maria Minicuci2 che l’ignoranza rispet-

2. M. Minicuci, Antropologi e Mezzogiorno, “Meridiana”, 47-48, 2003, pp. 139-174.

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to a De Martino nel mondo antropologico anglofono rientrava in un contesto più ampio di mancato dialogo tra le due tradi-zioni scientifiche, durato fino a tempi recenti, e che nello speci-fico investiva la ricerca antropologica condotta nel Mezzogior-no d’Italia, al punto che De Martino pareva totalmente scono-sciuto persino tra gli anglofoni che conoscevano la lingua italia-na. L’idea di tradurre La terra del rimorso mi era venuta dopo aver letto alcune sue opere e verso la fine del mio percorso di dottorato. Le conversazioni in antropologia correnti ai tempi dei miei studi negli Stati Uniti parlavano molto della riflessività, del-la pratica, di performance, della riscoperta della storia. E di ege-monia gramsciana. Tutti questi temi, e altri ancora, li ho ritrova-ti già presenti in De Martino, uno scrittore che era scomparso trent’anni prima. A parte la questione del linguaggio, sulla quale mi soffermerò più innanzi, non si è trattato per me di una lettura facile, in quanto mi mancava la formazione classica di una buo-na parte dei colleghi italiani, soprattutto della generazione a cui apparteneva De Martino. Sono rimasta, ciononostante, profon-damente colpita dalla profondità del suo lavoro e dalla bellezza della sua scrittura.

George Saunders aveva scritto su De Martino diversi importanti saggi,3 ma non era riuscito a stimolare l’interesse oltre a un certo punto iniziale. Credo che questo esito sia stato alquanto inevitabile, perché ai colleghi anglofoni non poteva bastare un riassunto, la descrizione di un’opera o di un concetto demartiniano da parte di Saunders: avrebbero voluto poter leggere qualche lavoro scritto direttamente da De Martino, qualche cosa di più ampio, e solo così si sarebbero potuti avvicinare al suo pensiero. Ero pure in contatto con George, il quale mi disse che alcuni colleghi italiani lo avevano

3. G.R. Saunders, Contemporary Italian Cultural Anthropology, “Annual Review of Anthropology”, 13, 1984, pp. 447-466; Id., “Critical Ethnocentrism” and the Ethnology of Ernesto De Martino, “American Anthropologist”, 4, 1993, pp. 875-893; Id., The Crisis of Presence in Italian Pentecostal Conversion, “American Ethnologist”, 2, 1995, pp. 324-340; Id., The Magic of the South: Popular Religion and Elite Catholicism in Italian Ethnology, in J. Schneider (a cura di), Italy’s “Southern Question”: Orientalism in One Country, Berg, Oxford 1998, pp. 177-202.

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Piccolo archivio fotografico della crisi e del riscatto

Archivio 1950-1960

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1. Spedizioni scientifiche in LucaniaSan Costantino Albanese: immagine molto significativa che esemplifica il lavoro della spe-dizione documentaria condotta dal 15 maggio al 4 giugno 1957 in Lucania da Ernesto De Martino e la sua équipe, poi descritta nel libro Sud e magia. La maciara racconta la sua esperienza e gli studiosi prendono nota, chi registra e chi scrive, secondo il proprio interes-se scientifico (medico, psicologico, antropologico). Fotografia di Ando Gilardi #andogilar-di, fotografo dell’équipe. Lucania, 1957 (Fototeca Gilardi).

“È da qualche tempo che sto organizzando in Lucania spedizioni scientifiche per lo stu-dio della vita dei contadini lucani e del loro mondo culturale […]. Abbiamo il nostro pro-gramma, i nostri itinerari, i nostri questionari. Incideremo i canti popolari e sorprende-remo nell’obiettivo fotografico ambienti, situazioni e persone […]. E di ritorno in città comunicheremo a tutti ciò che abbiamo visto e ascoltato: in una serie di conferenze sce-neggiate, di articoli per quotidiani e periodici, in opuscoli a carattere divulgativo e in un’o-pera a carattere scientifico renderemo pubblico questo dimenticato regno degli stracci, fa-remo conoscere a tutti le storie che si consumano senza orizzonte di memoria storica nel segreto dei focolari domestici […]. Io penso che intorno a queste spedizioni organizza-te dovrebbero raccogliersi gli intellettuali italiani, a qualunque categoria essi appartengo-no, narratori, pittori, soggettisti, registi, folcloristi, storici, medici, maestri ecc. Il nuovo re-alismo, il nuovo umanesimo, manca, per quel che mi sembra, di questa esperienza in pro-fondità, e spedizioni di questo genere costituiscono un’occasione unica per formarsela, e per colmare quella distanza tra popolo e intellettuali che Gramsci segnalava come uno dei caratteri salienti della nostra cultura nazionale” (E. De Martino, Una spedizione etnologi-ca studierà scientificamente la vita delle popolazioni contadine del Mezzogiorno. Importanti sviluppi della iniziativa Zavattini, “Il Rinnovamento d’Italia”, 1 settembre 1952; ora in Id., L’opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla spedizione etnologica in Lucania, a cura di C. Gallini, Argo, Lecce 1996).

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Vogliamo ringraziare, per l’autorizzazione a riprodurre le foto-grafie qui riportate, Carmela Biscaglia, direttrice del Centro di documentazione “Rocco Scotellaro e la Basilicata del secondo dopoguerra” (Tricarico, Matera), Vera De Martino e Valentino Avvisati per le fotografie tratte da La terra del rimorso, la Fototeca Gilardi (Milano), la redazione di “Noi Donne”, e Ciro Quaranta, che ha partecipato a tutte le fasi della ricerca.

Un ringraziamento va anche a coloro che si sono resi dispo-nibili a incontrarci e scambiare con noi esperienze, lotte, infor-mazioni: Antonella Cazzato, Antonio Gagliardi, Ilir Taga (Cgil), Ivan Sagnet (Flai), il team di Emergency (Nardò, Lecce), Tony Laggetta e gli altri membri dell’associazione Calvario di Gesù Crocifisso. Un grazie particolare a Giovanna Stifani (Santa Maria al Bagno, Lecce).

Vogliamo esprimere la nostra riconoscenza anche a Sergio Tundo (Santa Maria al Bagno), e a Enza Leone, Enzo Pica, Enzo Gagliano, Filomena Leone, Antonia Mellone, Vincenzina Leone, Maria Grazia Rosselli, Teresa Bartolomeo, Maria Gagliardi (Gor-goglione, Matera), intervistati nell’ambito della ricerca sulle me-morie del tarantismo, l’affascino, la fattura e la medicina popolare, che hanno voluto condividere con noi materiali e ricordi sui quali stiamo ancora lavorando. [R.B., S.T.]

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Angoscia e volontà di storia

ROBERTO BENEDUCE

1. La redenzione del presente e “il filo che manca”“Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è l’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.”1

Benjamin faceva riferimento in questo passaggio all’urgenza di lottare contro le minacce di quegli anni (il fascismo in primo luo-go), ma le considerazioni espresse nelle Tesi di una filosofia della storia sembrano dialogare con molte delle preoccupazioni che ac-compagnano le riflessioni di De Martino sulle apocalissi culturali e psicopatologiche. La necessità di strappare il “patrimonio cultura-le” al destino di essere “strumento della classe dominante”, l’idea secondo cui lo “stato di emergenza” è per gli oppressi la regola e occorre un concetto di Storia che “corrisponda a questo fatto”, ri-echeggiano in molte pagine demartiniane (il vissuto di minaccia e di pericolo che sempre incombe sui subalterni, o il motivo della redenzione del passato, per esempio), suggerendo spunti preziosi per un’etnopsichiatria della “crisi” e del “riscatto” che faccia della vita psichica della storia il suo centro d’azione.

Nel riprendere il dossier demartiniano,2 i problemi con i qua-li egli si misurava non hanno cessato in questi anni di interro-

1. W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti (1955), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, p. 79.

2. Le ricerche, realizzate con Simona Taliani e Ciro Quaranta, hanno preso avvio nell’e-state del 2013 e comprendono una vasta area (Carmiano, Magliano, Santa Maria al Bagno e i campi di lavoro di Nardò nella provincia di Lecce; Gorgoglione, in provincia di Matera;

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garmi, testimoni di un metodo originale e di intuizioni quanto mai attuali per leggere le apocalissi del presente, le inquietudi-ni di chi spesso è definito “vulnerabile” anziché, semplicemen-te, “subalterno”, e le minacce che incombono oggi con la stessa forza con cui “l’oscura angoscia teogonica” incombeva oltre cin-quant’anni fa negli sguardi dei contadini pugliesi.3 È con il suo sguardo, le sue parole in testa, che ho deciso di tornare in quel-la “terra di Puglia e del Salento spaccata dal sole”, su quelle cre-te corrose oggi da altre inquietudini: sapendo di contrarre debi-ti che non saranno mai estinti nei confronti di chi mi ha raccon-tato il suo dolore e la sua speranza. E se De Martino considera-va i “vissuti psicopatologici”4 alla stregua di materiali etnografi-ci, oggi il suo gesto mi sembra ancora più necessario per cogliere il brusio di un sottosuolo5 che chiede di essere ascoltato. Ma tor-niamo alle piste demartiniane.

Nell’orizzonte dove andavano confluendo i poteri magici, le urla del pianto funebre, i mali della miseria, sta ora l’“ammalarsi psi-chico”, l’espressione più oscura del rischio di non esserci, e tale perché la separazione dal mondo culturale che deve nominarlo e curarlo sembra irrevocabile. Il progetto che in La fine del mondo lo spingerà ad avviare un confronto con altre apocalissi disegna un campo di ricerca quanto mai ampio, fra i cui obiettivi evoco

Grottaglie, in provincia di Taranto). I primi dati sono stati presentati al convegno “Archivi del futuro: il postcoloniale, l’Italia e il tempo a venire”, Padova, 18-20 febbraio 2015. Nume-rose le persone che mi hanno offerto il loro tempo e la loro disponibilità. Ma è a Ciro Ursel-li e Nora de Geronimo che ora penso e voglio ringraziare: i loro racconti e l’amicizia di sem-pre mi hanno permesso di ritrovare il filo di comuni ricordi e il senso di questa stessa ricerca.

3. E. De Martino, Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, “Società”, V, 1949, p. 435. Penso qui, in particolare, a quegli immigrati che “non sanno più che cosa so-no diventati” (A. Sayad, Naturels et naturalisés, “Actes de la recherche en sciences socia-les”, 99, 1993, p. 32), e che pur avendo ottenuto i loro feticci di carta, i loro permessi di soggiorno, continuano a sospettare di essere avvelenati dai propri connazionali o a sentir-si divorati da forze mistiche.

4. Cfr. anche E. De Martino, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, “Nuovi Argomenti”, 69-71, 1964, pp. 105-141.

5. Sull’uso di questo concetto, rinvio a R. Beneduce, Archeologie del trauma. Un’an-tropologia del sottosuolo, Laterza, Roma-Bari 2010; Id., Il rumore sordo del sottosuolo. Per un’antropologia postcoloniale, “aut aut”, 364, 2014, pp. 183-193.

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solo quello più direttamente connesso a queste considerazioni: il valore che egli assegna alla cultura nella lotta “contro l’ammalarsi della mente”, contro il rischio di non essere in “nessuna storia umana”. Per De Martino, “ogni civiltà magico-religiosa è […] al tempo stesso una terapia e una profilassi esistenziale (o culturale o storica) del rischio di non esserci nel mondo in quei momenti critici dell’esistere nei quali quella civiltà avverte che la storia sporge”.6 Si tratta di un pensiero non molto lontano dal giudizio che Eric de Rosny avrebbe espresso sulle tecniche dei guaritori africani (“l’esercizio stesso della cultura in una delle sue funzioni principali: la guarigione”).7

La malattia diventa così la porta d’ingresso per comprendere una cultura, le sue inquietudini e i suoi “istituti”, e misurare ciò che definisce il “sano”. È un obiettivo ambizioso, al cui interno lo studio del sintomo assume un profilo propriamente epistemo-logico: “In questa prospettiva acquista un valore euristico note-vole la utilizzazione dei vissuti psicopatologici”.8

Conosciamo la strategia che dagli anni di Naturalismo e stori-cismo nell’etnologia De Martino non cessa di seguire, e le lettu-re che vanno accumulandosi sul suo tavolo. Conosciamo i luo-ghi della ricerca, gli anni febbrili che lo vedono impegnato nel sindacato e nel promuovere le “spedizioni” in Lucania prima, in Salento poi, e le domande che avanzano in direzioni ogni volta nuove trovandolo però sempre ostile all’idea di ricondurre a una prospettiva economicistica l’analisi del mondo subalterno. D’al-tronde, la “cultura” per De Martino non è mai garanzia in sé: ne ha già scrutato il ripiegarsi verso orizzonti oscuri e inefficaci.

La nozione di “folklore progressivo” è rivelatrice dei modi in cui egli si misura con il problema della “cultura popolare” e il va-

6. E. De Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, introduzione e cura di M. Massenzio, Argo, Lecce 2005, p. 111.

7. E. de Rosny, Les yeux de ma chèvre, Plon, Paris 1981, p. 23.8. E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali,

a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 2002, p. 18. Il valore metodologico dell’analisi del-la malattia è già annunciato in Perdita della presenza e crisi del cordoglio (“Nuovi Argo-menti”, 30, 1958, pp. 49-92). Impossibile non pensare alle tesi formulate in quegli anni da Georges Canguilhem.

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“Fra una raffica e l’altra” Il regno della miseria e la vita culturale degli oppressi

GINO SATTA

Ernesto De Martino ha più volte sentito l’esigenza di presentare la propria attivi-tà di studioso nella forma compiuta di un

percorso dove ogni episodio rappresenta un avanzamento lungo un’unica linea di sviluppo che, se non progettata fin dal princi-pio, è però intelligibile a posteriori nella sua unitarietà e coeren-za. Riccardo Di Donato ci ha ripetutamente messi in guardia sul “depistaggio” operato nei confronti dei “demartinologi” da que-sti frammenti autobiografici, con i quali “negando e rinnegan-do persone, posizioni e tendenze frequentate e seguite nei prece-denti tratti del percorso, De Martino ha contribuito alla edifica-zione di una propria biografia intellettuale, sostanzialmente fal-sa o comunque, se si preferisce una eufemistica litote, non piena-mente vera, la cui progressiva demolizione ha occupato decenni di lavoro critico”.1

Il pluriennale lavoro condotto sugli archivi ha, in parte, ope-rato la “demolizione”, permettendo di colmare lacune, risiste-mare cronologie, rimediare a omissioni, ricostruire più comples-se genealogie, penetrare nel laboratorio dello studioso, riesami-nandone da vicino il lavoro tanto nei suoi aspetti teorico-meto-

1. R. Di Donato, Etnografia del tarantismo pugliese. Una lettura critica, in E. Imbriani (a cura di), Sud e nazione. Folklore e tradizione musicale nel Mezzogiorno d’Italia, Universi-tà del Salento, Lecce 2013, p. 411. Considerazioni simili erano già in R. Di Donato, I greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto De Martino, manifestolibri, Roma 1999.

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Il 22 giugno 2006 Giuseppe Casu muore nelServizio psichiatrico di diagnosi e cura di Ca -gliari, legato al letto, braccia e gambe, persette giorni di seguito fino alla morte. Quellamorte non silenziata, non negata, non giusti-ficata, ma indagata e assunta come limite in-valicabile dell’agire psichiatrico diventa ilpunto di avvio di un tumultuoso quanto diffi-cile cambiamento. Alla fine disvela e con-ferma la presenza di un conflitto innegabile.Diviene chiaro che è in atto uno scontro trapsichiatrie, tra differenti visioni, non solo neldipartimento di salute mentale, ma anchenella città, nella regione e nella stessa societàdegli psichiatri italiani.

Stefano Rossi (a cura di)

Il nodo della contenzioneDiritto, psichiatria e dignità dellapersonaEuro 16,00, 135x210 mm, pp. 399ISBN 978-88-7223-245-3

Questa pubblicazione trae origine dal conve-gno organizzato dal Dipartimento di Giuri-sprudenza dell’Università degli Studi di Ber-gamo nel febbraio 2014 dal titolo “Diritto,dignità della persona e psichiatria: il nododella contenzione”.

Interventi di:Antonio Amatulli, Stefania Borghetti, Giu-seppe Arconzo, Marco Azzalini, Pietro Bar-betta, Beatrice Catini, Peppe Dell’Acqua,Giandomenico Dodaro, Anna Lorenzetti, Mi-chele Massa, Luca Negrogno, Barbara Pez-zini, Giovanni Rossi, Stefano Rossi, NadineTabacchi, Lorenzo Toresini

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180 ARCHIVIO

CRITICODELLASALUTEMENTALE

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dologici quanto in quelli pratici e procedurali.2 La complessità – innegabile – dell’opera è stata così raddoppiata da quella di un apparato critico che ha prodotto una molteplicità di rifrazioni diverse del grande studioso, che sembrano andare anche oltre la duplicità o pluralità che lui stesso si attribuiva.3

Ma i frammenti di autobiografia intellettuale che De Martino ha disseminato nei suoi scritti possono ritenere un valore ulterio-re rispetto a quello filologico. Contribuiscono, infatti, a illuminare percorsi di senso e scelte culturali così come dovevano apparire (o, almeno, come voleva che apparissero) ai contemporanei, offrendo un punto di accesso privilegiato a questioni che – viste dall’oggi – rischiano di caricarsi di impropri significati “presentisti”.4

Partirò dunque proprio da uno di questi frammenti per tenta-re di mettere a fuoco un tema, non certo inesplorato, ma sul qua-le – proprio grazie al lavoro già compiuto da altri – mi sembra oggi possibile proporre qualche ulteriore riflessione: il rappor-to tra impegno politico ed etnografia, nella fase del lavoro di De Martino caratterizzata dal primo “incontro” con il mondo conta-dino meridionale, che Charuty ha definito “neorealista”.5

2. Non è qui possibile, in una nota, dare conto della mole di contributi che hanno am-pliato la nostra conoscenza della figura e dell’opera di Ernesto De Martino. Mi limiterò pertanto a fare riferimento solo ai testi che, in modo più o meno diretto, sono pertinenti ri-spetto agli argomenti trattati.

3. “Io sono due o più, non uno in rischio di essere nessuno in lotta per essere qualcuno” è la frase in epigrafe a G. Charuty, Ernesto De Martino. Le precedenti vite di un antropologo (2009), trad. di A. Talamonti, Franco Angeli, Milano 2010. Al De Martino “meridionalista”, cui Clara Gallini lamentava fosse stata indebitamente ridotta la memoria dello studioso nel de-cennio successivo alla scomparsa, si sono nel corso del tempo affiancati diversi altri De Mar-tino settoriali. Cfr. C. Gallini, “Introduzione”, in E. De Martino, La fine del mondo. Contribu-to all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977, pp. IX-XCIII.

4. Mi riferisco in particolare al tema del De Martino “precursore”, vuoi del postmo-dernismo in antropologia, vuoi della critica postcoloniale, vuoi di altre tendenze attuali de-gli studi. Vedi T. Hauschild, Il programma “postmoderno” e lo spirito demartiniano, in C. Gallini, M. Massenzio (a cura di), Ernesto De Martino nella cultura europea, Liguori, Na-poli 1997, pp. 75-80; E.G. Berrocal, The Post-colonialism of Ernesto De Martino: The Prin-ciple of Critical Ethnocentrism as a Failed Attempt to Reconstruct Ethnographic Authority, “History and Anthropology”, 2, 2009, pp. 123-138.

5. G. Charuty, Le moment néoréaliste de l’anthropologie démartinienne, “L’Homme”, 195-196, 2010, pp. 247-281. Il termine “incontro” ricorre continuamente negli scritti del periodo “meridionalista”, fino ad arrivare alle teorizzazioni sull’“incontro etnografico” nella Fine del mondo.

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Il testo in questione è quello di una conferenza tenuta a Fi-renze in un Giovedì del Vieusseux – nella primavera del 1951 – cui lo stesso autore intende dare “un andamento quasi autobio-grafico” per non smarrire “quella drammatica tensione fra pen-siero e vita a cui la mia generazione si è trovata esposta”.6 Il rac-conto si apre con l’evocazione delle “cospirazioni di tipo maz-ziniano” e delle visite al “vecchio Croce” presso villa Laterza a Bari che, mentre Levi “scopre Cristo fermo a Eboli”, impegna-no i giovani della piccola borghesia meridionale; narra il “lungo e avventuroso cammino” intrapreso dall’autore per prendere co-scienza dei limiti della diagnosi sulla crisi della nostra civiltà che era proposta in quei circoli intellettuali; si chiude con l’annun-cio – aggiunto a mano nel dattiloscritto – dell’intenzione di “or-ganizzare spedizioni in équipe” per raccogliere “materiale docu-mentario per un’opera sull’angoscia della storia”.7

Molti sarebbero gli spunti meritevoli di essere raccolti, ma noi ci limiteremo a uno: è la partecipazione al “processo di emanci-pazione reale [del] mondo contadino meridionale” – sostiene De Martino – a far “reagire” le tematiche dei lavori etnologici con l’e-sperienza, in modo che non poteva “restare senza effetto profon-do sulla mia opera di studioso”; per innescare la reazione sembra però anche essere necessaria la mediazione di un testo, il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, che permetta di riconoscere un’i-dentità, quella tra “il mondo storico dei contadini” e quello dei “popoli primitivi delle civiltà etnologiche”, tutt’altro che evidente.8

6. E. De Martino, L’opera a cui lavoro, a cura di C. Gallini, Argo, Lecce 1996, p. 11. Il testo è quello che apre e dà il titolo alla raccolta di documenti relativi alla “spedizione etnologica in Lucania” del 1952. Gallini ipotizza in un primo momento che la conferen-za sia collocabile intorno al 1950 (C. Gallini, La ricerca, la scrittura, in E. De Martino, No-te di campo, a cura di C. Gallini, Argo, Lecce 1995, p. 34), e in seguito – nella nota che ac-compagna il testo – che sia tenuta “presumibilmente nell’inverno-primavera 1952” (E. De Martino, L’opera a cui lavoro, cit., p. 10). Il sito Internet del Gabinetto scientifico letterario G.P. Vieusseux riferisce, invece, di una serie di conferenze tenute nel marzo-aprile 1951, L’opera a cui lavoro e i suoi rapporti con la vita d’oggi, cui avrebbe partecipato anche Erne-sto De Martino <http://goo.gl/JWsIGx> (consultato il 16 novembre 2014).

7. E. De Martino, L’opera a cui lavoro, cit., p. 18.8. Ivi, p. 16. Per un commento più esteso si rimanda a C. Gallini, La ricerca, la scrittu-

ra, cit. Sul riconoscimento del debito verso Levi per la scoperta del “mondo magico” dei

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Immagini del caos. La vita psichica dei subalterni1

SIMONA TALIANI

1. Transumanze“È da qualche tempo che sto organizzando in Lucania spedizioni scientifiche per lo studio della vita dei contadini lucani e del loro mondo culturale […]. E di ritorno in città comunicheremo a tutti ciò che abbiamo visto e ascoltato.”2

De Martino tornerà da queste prime spedizioni scientifiche con impressa nella memoria l’immagine del caos, quella che Be-lardinelli gli restituisce traducendo su tela “il senso di maligna provvisorietà, di tenebre fermentanti” della Ràbata di Tricarico.3 Terra lucana, scriverà De Martino, dove vivevano alcune miglia-ia di contadini, ma meglio si direbbe che contendevano “al caos le più elementari distinzioni dell’essere”.4 Suo intento era quello di raccogliere intellettuali e professionisti intorno a questa uma-

Questo lavoro nasce dalla ricerca etnografica condotta nei mesi di giugno, luglio e agosto 2014, insieme a Roberto Beneduce, all’interno del progetto “Il rovescio della migrazione. Un’analisi comparativa su tutela e diritto alla salute” (FEI 2013 PROG 105189), cofinanzia-to dall’Unione europea e dal ministero degli Interni. Ringrazio Ciro Quaranta per la sua presenza sul campo, al nostro fianco, e Yvan Sagnet, Ilir Taga, Antonella Cazzato, Antonio Gagliardi della Cgil di Lecce. Questo articolo è dedicato a Eleonora De Geronimi e Ciro Urselli (ci sono cose che non avrei immaginato senza di loro)

1. W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti (1955), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1981, p. 79.

2. E. De Martino, Una spedizione etnologica studierà scientificamente la vita delle popolazioni contadine del Mezzogiorno – Importanti sviluppi della iniziativa Zavattini, “Il Rinnovamento d’Italia”, 1, 1952; ora in Id., L’opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla spedizione etnologica in Lucania, a cura di C. Gallini, Argo, Lecce 1996. Sul termine “spedizione” Carpitella e De Martino ritorneranno nel documentario audiofonico La spedizione in Lucania di Ernesto De Martino.

3. E. De Martino, Furore Simbolo Valore (1962), Feltrinelli, Milano 2002, p. 119.4. Ibidem.

Tutto il patrimonio culturale che [il materialista storico] abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non può pensare senza orrore. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie. […] Il materialista storico […] considera come suo compito passare a contrappelo la storia.1

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nità declassata, per fondare, dall’incontro tra la povera gente e la classe egemonica dirigente, un nuovo realismo, il nuovo umane-simo. L’uomo nuovo.

Non ho l’esperienza necessaria per dire quanto queste spe-dizioni scientifiche abbiano trasformato intimamente il suo mo-do di fare ricerca e penso che solo chi lo ha visto lavorare sul campo possa aiutarci a comprendere le inquietudini di un uo-mo attraversato da un così angoscioso senso di colpa (storico, come ha lui stesso tenuto a precisare), che non ha cessato di in-terrogare nei suoi scritti. Provo però a immaginare quanto que-ste inchieste sulla miseria abbiano potuto contribuire a incre-mentare i suoi debiti viaggio dopo viaggio, incontro dopo in-contro. È Eugenio Imbriani che torna a riflettere sull’immen-so debito contratto da De Martino nei confronti della plebe ru-stica del Mezzogiorno, di quella gente povera che condivideva con lui non soltanto i frammenti di una vita intera – ricordi di un’ingiustizia subita e dolori di esperienze defunte –, ma l’inte-ra loro quotidianità, fatta di un “passato trascinato per una lun-ghezza infinita e in avanti”5 fin dentro le pieghe del presente. Ciò di cui parlavano, lui e loro, era insomma di un futuro che non arrivava mai.6

Quella che De Martino incontra è infatti la catastrofe del presente, che si estende e dilata sotto i suoi occhi. Questo per lui inedito rapporto di ricerca con i subalterni “finì con l’apparir[gli] non solo come inizio e stimolo della ricerca, ma addirittura come condizione fondamentale per la sua stes-sa possibilità”.7 Ma è proprio questo incontro violento con la storia – questo rapporto con la povera gente per fare una sto-ria del presente eticamente fondata – a costituire ciò che per il ricercatore fa debito, un debito a volte altrettanto avvelenato

5. F. Rosenzweig, La stella della redenzione (1921), trad. di G. Bonola, Vita e pensiero, Milano 2008, pp. 235-236.

6. C. Piot, Nostalgia for the Future. West Africa after the Cold War, University of Chica-go Press, Chicago-London 2010.

7. E. De Martino, Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, in R. Brienza (a cura di), Mondo popolare e magia in Lucania, Basilicata Editrice, Roma-Matera 1975, p. 59.

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quanto solo certi doni possono esserlo. Il suo e il nostro sen-so di colpa nasce (credo) da una lucida consapevolezza: il ricer-catore sa che dal “campo” torna prima o poi a casa. È asimme-trica, strutturalmente asimmetrica la situazione da cui origina l’incontro etnografico, che si fa sempre più scandaloso quanto più il ricercatore è padrone di andare e venire dal campo quan-do vuole, quante volte vuole; non così i suoi interlocutori. Non ignari della disparità del posto occupato nel mondo, alcuni di questi informatori privilegiati scrivono (o oggi telefonano) a ca-sa del ricercatore. Queste “chiamate” sono impregnate dell’am-bivalenza che connota l’esperienza di chi del “campo” si vuo-le presto o tardi liberare. Sono “chiamate” che vincolano il rap-porto, che non concedono tempo né all’oblio né alla comme-morazione: impediscono che la relazione impallidisca, richia-mano al dovere dell’essere presenti.

Quando l’équipe fece ritorno a Roma, ci raggiunse dopo pochi giorni un telegramma che ci fece sentire tutta la responsabilità della nostra indagine, ricordandoci nel modo più brutale che i tarantati erano non soltanto documenti di un’altra età, ma persone vive verso le quali avevamo dei doveri attuali. Nel telegramma si leggeva: “Carmela balla. Venite”.8

Non so dire se De Martino o qualcuno della sua équipe rispose al richiamo dei familiari di Carmela. I debiti si accumulano anche declinando gli inviti, lasciando inevasi quegli imperativi insistenti che a volte finiamo per avvertire quasi fastidiosi. “Venite” non è affatto una richiesta gentile, ma l’eco di un obbligo che può tradursi in rabbia ed esprimersi come insulto e recriminazione quando il silenzio del ricercatore è stato per l’appellante eloquente. È proprio Imbriani che ricorda l’accusa lanciata al professore e al suo gruppo da Assuntina, alias Maria di Nardò, nel corso di una trasmissione televisiva registrata a

8. E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il Saggiatore, Milano 1996, p. 93.

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distanza di vent’anni dal loro primo incontro (“quelli erano tutti infami, per me”).9 Non conosco le ragioni di queste acredini e dei profondi risentimenti che non sono sopiti nemmeno oggi, ma riconosco che al ricercatore rimane uno spazio angusto nel quale muoversi, prendere decisioni, agire nella storia. Sbaglia, si ritrae, non risponde, non si fa più sentire; gli altri, nel men-tre, continuano a vivere un presente trascinato in avanti come catastrofe annunciata.

A partire da queste premesse intendo ritornare in quella ter-ra del rimorso che è il Salento, con l’opera di De Martino sotto il braccio, per reinterrogare l’etnopsichiatria critica della migrazio-ne dalla prospettiva di coloro che sentono il fuoco, e non la noia, all’origine dei loro malesseri e dentro le pieghe dei loro peggiori incubi. Contraggo dunque nuovi debiti, provo a portarne il peso senza alcuna garanzia né di estinzione né di risarcimento; chie-dendomi, però, al contempo quale redenzione sia possibile oggi, in quelle terre di Puglia spaccate dal sole e dalla solitudine, dove l’uomo cammina sui lentischi e sulla creta, dove scricchiola e si cor-rode ogni pietra da secoli.

Che ne è oggi degli uomini e delle donne che continuano a re-spingere la sofferenza e a contendere al caos una forma seppur elementare di esistenza? Quali speranze prendono corpo dentro i casolari ormai in rovina ma dalle pietre sempre ben squadra-te; nei ruderi riadattati alla bell’e meglio come ricoveri di fortuna nei mesi estivi della raccolta? Chi abita nelle tende, tra le lamie-re, in mezzo a stracci e materassi, sotto gli ulivi maestosi di Pu-glia? Grovigli di bivacchi, rifugi, caravanserragli moderni, nuo-ve immagini di caos. Chi si mantiene umano in questi scenari che sembrano “la negazione della storia”10 e dove invece vivono alcu-ne centinaia di persone “storiche” e “intere”? Braccianti agrico-li stagionali, immigrati.

9. E. Imbriani, Persone intere. Su alcuni materiali dell’archivio di Ernesto De Martino, Coordinamento Siba, Editoria scientifica elettronica, Università del Salento, Lecce 2013, p. 419.

10. E. De Martino, Furore Simbolo Valore, cit., p. 119.