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RUBRICHE RECENSIONI LIVE INTERVISTE NUMERO 46 | PRIMAVERA 2014 | COPIA GRATUITA | WWW.BEAUTIFULFREAKS.ORG

Beautiful Freaks 46

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NUMERO 46 | PRIMAVERA 2014 | COPIA GRATUITA | WWW.BEAUTIFULFREAKS.ORG

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Sommario

BEAUTIFUL FREAKSSito web: www.beautifulfreaks.org E-mail: [email protected] Twitter: http://twitter.com/bf_mag Facebook: http://www.facebook.com/beautifulfreaksmagWikiFreaks: www.beautifulfreaks.org/wikifreaks E-mail: [email protected]

Direttore editoriale: Andrea PiazzaCaporedattore: Agostino MelilloDirettore responsabile: Mario De GregorioRedazione: Maruska Pesce, Marco Petrelli, Fabrizio Papitto, Piergiorgio Castaldi, Pablo Sfirri, Luca James, Bernando Mattioni, Marco Mazzinga, Anthony Ettorre, Lorenzo Briotti, Rubby.Hanno collaborato: Plasma, Alberto Sartore, Ciceruacchio, Alessandro Grimaldi Ferraro, G. Montag, Vincenzo Pugliano, Alesiton, Faber Pallotta, Marco Balzola. Un ringraziamento particolare a Marco M. Le illustrazioni e i fumetti sono di Aenis (www.aenisart.com)

Beautiful Freaks è una testata edita da Associazione Culturale Hallercaul, registrazione al Roc n° 22995

LE RECENSIONI

Nevica Su Quattropuntozero | Yumma Re | Tempelhof | The Zen Circus | Mai Mai Mai | Zocaffe | Eternal Keys | The New Mendicants | L’Orchestrina | Virgo | ThreeLakes & the Flatland Eagles | Arancioni Meccanici | Seventeen At This Time | General Stratocuster And The Marshals | I Nastri | Il Malrovescio | Corni Petar | Guitar Ray & The Gambers | Edoardo Cremonese | Hjaltalín | Le Chiavi Del Faro | Les Fleurs Des Maladives | Neko At Stella | The Sleeping Tree | Molotoy | Nicola Pisu | Pazma | Freak Opera | Marco Sforza e L’Orchestrina Separé | Yugo In Incognito | Pip Blom | Facciascura | Lou Tapage | Homesick Suni & The Red Shades | Der Noir ||| Calvino | Margareth | Cream Pie | Hlmnsra | Matta-Clast | Call Me Platypus //

INTERVISTE 5 Bad Apple Sons

7 Katres

9 Petralana

CONCERTI 11 Teardo & Bargeld

RECENSIONI 12 Full Length

30 EP

RUBRICHE 34 L’opinione dell’incompetente

35 Trentatre giri di piacere

36 Chi l’ha visti?

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TE LO TRADUCO IN UN’ALTRA LINGUA, COSì CI CAPIAMO MEGLIO?

“Il nuovo album è disponibile in scaricamento-libero su flusso di dati”. Quante volte ci è ca-pitato di sentire una frase così? Mai. L’ultima e più recente ondata di anglofonizzazione della nostra lingua è solo l’ultimo fortino crollato che ci dà la certezza di essere un pò indietro rispetto ai tempi in cui viviamo. Perché la lingua italiana è ed è rimasta la lingua della mu-sica lirica, del teatro, del Rinascimento, ma non della modernità economico-tecnocentrica. L’eccellenza culturale di un florido passato oggi è ai margini di una società globale econo-mico-centrica, in cui l’inglese semplificato (quello che Jean-Paul Nerriere chiama “globish”) è, per adesso, il codice universale. Ma non voglio certo spingermi fra le sabbie mobili della retorica nazionalista… Si scherza spesso e volentieri sui francesi e il loro vezzo di voler tradurre per forza ogni cosa. Lecture en continu (streaming), Téléchargement (download), Ordinateur (computer), paiement à la séance (pay-per-view), non sono un cieco conservato-rismo linguistico, ma la testimonianza di progredire, di gettare una continuità fra la storia culturale nazionale e le nuove frontiere, allargate negli ultimi decenni soprattutto dalle nuove tecnologie informatiche.

Una lingua presta le sue parole a seconda dei casi in modo che esse stesse diventino ferme certezze senza ambiguità. Ne presta alle scienze e alla medicina di modo che diventino vo-caboli tecnici o all’arte affinchè alcune parole rimangano impresse nei confini d’influenza culturale ed esse stesse assumano un valore quasi epico. Di una lingua è ormai evidente il suo preponderante uso commerciale, giustamente chiamato “slogan” o tradotto “grido di guerra”, che è diventato ormai indice internazionale; quest’ultimo per esempio è calcolato dal T-index, un indice che combina diversi parametri per evincere quanto vale economica-mente una lingua nel mercato digitale. Questo ovviamente coinvolge tutti. Da qualche tem-po diversi motori di ricerca provano infatti a suggerisci la parola seguente alla prima che abbiamo scritto; questo regolarizza e uniforma il nostro vocabolario personale senza procu-rare emicranie ai motori di ricerca che altrimenti dovrebbero interpretare i voli pindarici che scriviamo nelle barre di ricerca. Lo studio delle nuove pseudolingue quali possiamo definire i “linguaggi” di programmazione invece ci fanno comunicare con i calcolatori (ve lo traduco in un’altra lingua, computer, così ci capiamo meglio). E questo uso si estende più in generale anche nella matematica, la filosofia o anche la psicanalisi dove si utilizza, come omaggio, la lingua che sta facendo da traino in quel momento, nel determinato settore. Di questi usi di una lingua a mio avviso l’arte è l’unico veicolo storico e culturale della stessa. L’arte che vie-ne usata ad esempio nelle scuole per farci rimanere impresso l’utilizzo pratico di una lingua e il naufragar non m’è stato tanto dolce in questo mare. Forse sarà stato un caso personale ma abbiamo imparato a memoria forme e neologismi senza considerare che un giorno sa-remmo stati noi a doverne creare. È l’arte che si deve fare bandiera di un rinnovamento con appunto nuove forme e neologismi se ce n’è bisogno, che non deve piegare la lingua ad un mashup (mischione?), melting pot (minestrone), un pot-pourri (stufato di carne e verdura) esclusivamente in nome del Dio denaro.

editoriale

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Con simpatia prendo ad esempio l’ondata rap in Italia inizio anni ‘90 e lo stereotipo del rapper che ci ha infarciti di termini come “brò” e altri “slang” cercando di trasportare qui una cultura di base che alla fine non era nostra. Un modo di parlare su cui è stato ironizzato molto, proprio per questo motivo. A tal proposito, fa riflettere il vedere che molti dei tanto scimmiottati rapper italiani ora cantano totalmente in italiano, fermo restando che a sentir-ne qualcuno si direbbe che abbiano passato tutta la loro adolescenza nel ghetto a fumare erba e “scuoti il tuo sedere, pollastrella!!”.

Questa deriva anglofona però la posso capire ed è lecita nel mondo delle etichette domi-nanti (major) e dei programmi-che-basano-l’interesse-della-propria-offerta-televisiva-sulle-esibizioni-e-connesse-emozioni-e-ansie-da-prestazione-di-nuove-promesse-di-un’attività-a-caso-specialmente-canto-e-ballo-per-mammà (talent show). Il loro obiettivo è di sfruttare l’onda digitale per poter uniformare il mercato seguendo un T-Index qualsiasi e accaparrarsi le grazie di quanti più adolescenti possibile nel mondo. Del resto, parliamoci chiaro, storica-mente è l’adolescente che spende soldi senza raziocinio. Perplime invece sentire di gruppi indipendenti per esempio italiani che cantano in inglese. Ora le ragioni possono essere due: in primis il provincialismo di un gruppo. A furia di sentir dire in giro che scrivere canzoni in inglese è più facile, suona meglio e compagnia cantante, sfornano questi testi basilari con pronunce dialettali che ne minano il lavoro già dal primo ascolto. Il vocabolario è per forza di cose limitato rispetto alla lingua madre e va ad abbas-sare anche il livello della stessa lingua che ti ospita.In seconda battuta, tolto l’ostacolo della lingua, perchè l’artista in questione decida di non puntare su di pubblico italiano sfruttando i canali digitali per proporre il suo lavoro all’este-ro. L’idea non è malvagia sia perchè l’italiano digitale soffre di digital divide (connotazione economica quindi non la traduco e c’è anche un certo imbarazzo nel proporre alcune tradu-zioni) rispetto all’estero, essendo più restio a comprare album che ascolta su internet; sia perchè magari il proprio repertorio prevede generi folk stranieri come certi tipi di country, difficili a tradursi senza scadere nel ridicolo.Nell’arte a mio vedere, in questo periodo di diffusione digitale del proprio creato, vedo so-prattutto la musica prestarsi a questa contaminazione linguistica che sarebbe anche lecita se al tempo stesso evolva la propria lingua al passo con i tempi. Nella letteratura, anche indipendente, e nel cinema si cercano di salvaguardare le versioni originali proponendo al massimo dei sottotitoli scritti, in quel caso l’arte cerca di fare da salvaguardia della propria lingua. Mi chiedo perchè nella musica questo succeda meno, mi chiedo perchè eravamo parolieri della nostra lingua mentre ora non più, mi chiedo perchè devo tradurvi qualche parola in un’altra lingua per capirci meglio. Andrea Piazza

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Parlando di voi, molti hanno individuato derivazioni che riconducono a delle radici culturali con cui sembrate avere un rapporto di continuità. Vi sentite parte di questa continuità o forse il vostro messaggio nasce da una frattura che vi separa da ciò che è stato detto, fatto e suonato finora?

D. Istituiamo un confronto tra questo disco ed il nostro primo lavoro (l’omonimo Bad Apple Sons, 2010). Il disco precedente aveva un taglio post-punk che richiamava le atmosfere dell’onda malata della new wave europea e americana: Birthday Party, il primo Nick Cave, Einstürzende Neubauten, The Cure. Facemmo nostra quella lezione ed il debutto discografico che ne conseguì rispecchiava quel tipo di cultura ma, al tempo stesso, era un prodotto di pancia, nel quale tentammo di mettere su disco quello spirito grezzo che ci sembrava così convincente nei nostri concerti. Ora le cose sono cambiate. I nostri ascolti, pur rimanendo all’ombra di una certa venerazione per quei miti, sono andati verso generi nuovi e contaminati. Eravamo un po’ stanchi dei paragoni, perciò nella composizione di questo album abbiamo cercato di scartare le canzoni più derivative,

cercando di dar vita ad una concezione più nostra. Questo album è figlio di un processo creativo molto più razionale.A. Anche lo spazio che lasciamo alle improvvisazioni nei nostri concerti è più ragionato. Cerchiamo di comunicare la forza dell’improvvisazione in schemi prestabiliti, le parti vanno ad assommarsi seguendo delle linee guida ma tenendo anche conto di una componente emozionale da cui non vogliamo distaccarci.

Spoken word, grido, melodia… al vostro cantante piace mischiare.

D. Clemente (Biancalani) ha un’attenzione maniacale per i testi. Sia per la linea melodica, la prosodia, la metrica, sia per i significati che i suoi testi affrontano. Presta particolare attenzione al fattore onomatopeico; gli piace giocare con il suono delle parole e con il modo in cui possono intrecciarsi con gli altri strumenti. C’è un vero e proprio studio dietro. Ad esempio per il testo di The Holiest, ci sono voluti anni di riscrittura prima di arrivare alla stesura definitiva.A. Esatto. The Holiest è nata nel periodo in cui abbiamo provato a scrivere in italiano, per poi fare ritorno all’inglese.

BAD APPLE SONSSiamo a Firenze, seduti al bar di lettere e filosofia, è il primo giorno di primavera e facciamo quattro chiacchiere con David Matteini e Andrea Cuccaro, rispettivamente chitarra e basso dei Bad Apple Sons, a proposito del loro secondo album, My Dear No Fear.

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INTERVISTE RUBRICHERECENSIONILIVE

I significati dei suoi testi hanno a che fare con situazioni estreme, personaggi estremi. Nel primo disco ogni canzone parlava delle perversioni dell’animo umano, i soggetti erano l’erotomane, il sadico… Sono testi belli, anche da leggere. Ed il fatto che distribuiamo i nostri testi ai concerti è un modo per ricordare a tutti la nostra esigenza di far comprendere il nostro messaggio.

Due parole sul primo singolo estratto, Tempest Party?

D. Abbiamo realizzato un video di Tempest Party per il quale dobbiamo ringraziare Andrea Rapallini (regia), Riccardo Gardin (montaggio), e la Monkey Wrench. È stata una bellissima sorpresa, perché Andrea, Riccardo ed i loro colleghi si sono rivelati davvero professionali. La magia del video sta nella regia e nel montaggio e crediamo che sia perfettamente in linea con lo spirito del brano, con la sua potenza e con quell’oscuro senso di inquietudine incarnato dal testo. [Il video è stato anche in prima pagina, tra gli altri, su repubblica.it e rollingstonemagazine.it].

My Dear No Fear. Sembra un titolo rassicurante…

D. Questo è un disco di contrasti. I pezzi del disco arrivano ad un punto di saturazione senza però esplodere mai. C’è un’opposizione paradossale tra oscurità esplosiva e compostezza. Per questo ci sembrava che il titolo My Dear No Fear, un motto un po’ naive, esprimesse questa capacità di sopravvivere anche al peggiore dei conflitti. A me piace vedere questo disco anche in una chiave positiva di redenzione personale, dopo tutte le tensioni che abbiamo sofferto in questi anni. Anche la stessa Stop Shaking Rope è un pezzo claustrofobico, malato, ma che si risolve su un pedale di archi che ne conserva una sospensione quasi positiva. E poi il titolo dell’album spacca, ci piace anche graficamente.

Quanto è stato importante il lavoro di Paolo Mauri per questo disco?

A. Paolo è stato semplicemente fondamentale, in tutte le fasi, nel lavoro di composizione, pre-, post- e produzione. Ci ha aiutato a creare un suono discografico che non avevamo, partendo dal nostro sound live. Ci ha imposto un disciplina, sia umana che sonora. Ci ha detto da subito che andare in studio è un lavoro: artistico ma soprattutto un lavoro. Siamo riusciti a scremare il superfluo, mettendo da parte la democrazia all’interno del gruppo e ragionando nell’ottica di migliorare il pezzo. Questa è una cosa che consigliamo a chi vuole mettersi a produrre un disco sul serio: mettete da parte gli individualismi e pensate a ciò di cui ha veramente bisogno la vostra band.

Siete nel roster di Chic Paguro: una nuova realtà nella musica indipendente italiana?

D. Il nostro album e Driftwood di King of the Opera sono le prime produzioni di Chic Paguro, un collettivo di autopromozione composto da musicisti che hanno un legame di amicizia e di stima reciproca. Il nome nasce proprio dall’immagine di un paguro che esce dalla conchiglia, che potrebbe essere una metafora della scena locale. E poi è chic, il ché non guasta mai [ride]. Oltre ai sopracitati ci sono Unepassante, Tribuna Ludu e Kill the Nice Guy. È una rete di interscambio di competenze per promuovere la nostra musica anche al di fuori della scena toscana, un progetto dove uniamo le nostre forze per creare tutto ciò che può servire ad un gruppo: un sito, la promozione, la grafica etc. Infatti ai concerti dei nostri gruppi c’è sempre un banchetto Chic Paguro, dove facciamo promozione della musica del nostro catalogo. Info sul sito chicpaguro.net.

Sul sito www.badapplesons.com è possibile scaricare gratuitamente un brano del loro album.

Bernardo Mattioni

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KATRES

Innanzitutto bentornata a Catania… sei nata qui, sei cresciuta a Napoli e vivi a Roma adesso, quanto hanno influenzato queste tue radici del sud la tua crescita musicale?

Katres: moltissimo come dicevo anche prima durante lo showcase… il sud, questi due vulcani, queste due città piene di storia e di passione mi hanno sempre ispirata moltissimo, infatti tutte le mie canzoni le ho scritte tra Napoli e Catania, giusto qualcosa delle ultime ho scribacchiato a Roma però tutto il mio repertorio è nato tra queste due città… (le cito uno dei suoi intensissimi pezzi dedicato proprio alla città siciliana, Madre Terra)

Tu vanti numerose partecipazioni a festival e premi prestigiosi, che devo dire ultimamente nell’ambiente musicale alternativo sono un po’ snobbati e che invece per te sono stati molto importanti…

Katres: Si, diciamo che ce ne sono moltissimi, quindi tocca stare lì a cercare i migliori, quelli che abbia un senso fare, io ho fatto Musicultura, il Premio Bianca D’Aponte, un premio dedicato alle cantautrici donne, molto quotato e importante e che funziona molto bene, il Premio Bindi, L’Artista

che non c’era… in questi premi in giuria c’erano personaggi abbastanza importanti, che comunque non hanno più le possibilità di produrre perché magari il mercato è cambiato però comunque ti possono dare consigli molto preziosi.

A livello di esperienza ti lasciano qualcosa?

Katres: Si assolutamente, conosci moltissima gente, ti trovi a dover fare una performance sul

palco che comunque quella è, devi tentare di fare il “perfect” subito ed è bello, quando poi sei lì ti dimentichi pure della competizione… io li ho sempre vissuti in maniera molto positiva.

Così dovrebbe essere, ma ciò implica molta intelligenza (che non tutti hanno)… invece parliamo del tuo primo singolo “Coiffeur” uscito nel 2012 e poi seguito dall’album l’anno dopo, come mai?

Katres: Si, perché un po’ la storia di The Voice ha rallentato un po’ tutto, non dovevo farlo uscire a ridosso del programma ma subito dopo perché eravamo bloccati da contratti, quindi questa cosa ha rallentato l’uscita del disco che alla fine è uscito un anno dopo.

Teresa Capuano (in arte Katres)…Voce delicata, racconta scorci di vita normale trasmettendo pura emozione… dalle sue dita che accarezzano una timida chitarra esce un suono caldo, “nudo”, testimone del mondo che Katres racconta e che la vede protagonista. Un incontro piacevolissimo, un live molto intenso e tanti sorrisi, quello della gente accorsa qui numerosa per salutare, abbracciare e fotografare Teresa, la loro Teresa che qui ha trascorso l’infanzia. Avendo ascoltato più volte le canzoni di questa straordinaria autrice non potevo che trovarmi di fronte ad una donna altrettanto straordinaria… ironica, affettuosa e molto intelligente. Un enorme piacere assistere ad un live così intimo e speciale… ci incontriamo alla fine dello showcase per fare quattro chiacchiere, e li ho avuto il piacere di conoscere meglio una grande cantautrice, un animo artistico notevole e di enorme spessore morale… non vi resta che farvi un po’ i fatti nostri e curiosare in quella piacevole chiacchierata:

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Tu sei molto ironica e scrivi in un modo molto emozionante, intenso, ma in questo periodo trascorso tra il singolo e l’album non è cambiato nulla? Cioè non c’è stata nemmeno una cosa che avresti voluto diversa?

Katres: Siccome questa fase l’ho passata prima di fare il disco, cioè prima di arrivare alla conclusione di fare questo disco “nudo”, perché è composto solo da chitarre e alcuni piccoli accorgimenti… dicevo, prima di arrivare a questa conclusione ho fatto svariati esperimenti, anche affidandomi ad arrangiatori, però non ero mai soddisfatta del risultato, tutti questi arrangiamenti non facevano altro che snaturarmi e alla fine ho detto basta, il disco come ce l’ho in testa io, come lo voglio io lo posso fare solo io e quindi ho preso in mano la direzione artistica del disco ed è venuto insomma come lo volevo, quindi sono molto soddisfatta.

Ti chiedo una cosa che già ti hanno chiesto, ma che mi incuriosisce moltissimo… ritrovo nel logo del tuo nome, nel nome del disco, in questo momento addosso a te queste farfalle, quindi cosa rappresentano?

Katres: Queste farfalle… a parte la definizione che mi ha dato Piergiorgio (Piergiorgio Farfaglia, musicista che ha collaborato con lei durante le registrazioni dell’album) definendomi una “farfalla a valvole”, poi c’è anche un piccolo video su internet di alcune riprese fatte in studio e c’era sempre una farfalla ovunque che mi ha accompagnato durante tutta la registrazione dell’album. Questa farfallina bianca che volava… insomma mi piace molto…

Carinissimo questo aneddoto… quindi adesso sei in giro per l’Italia, stai promuovendo il tuo primo disco (anche se sembra incredibile è appena il primo disco). Ti aspetta qualche avvenimento importante oltre alle presentazioni…

Katres: Si, c’è questo evento importante che si svolgerà il �ottobre al Teatro di Tor Bella Monica a Roma, in cui ci saranno moltissimi altri artisti tra cui Mariella Nava, Grazia De Michele, Roberto

Angelini e altri cantautori emergenti come me, Erika Boschiero, Piji…

Invece se i nostri lettori ti volessero cercare in rete, ti trovano?

Katres: C’è una pagina facebook che si chiama Katres.music e poi tre giorni fa è nato il mio primo fan club i “Katresnauti” e poi su YouTube basta scrivere e esce di tutto…e il sito www.katres.it .

Per il prossimo album cosa ci dobbiamo aspettare? Cambiamenti?

Katres: Per il prossimo disco i brani sono un po’ diversi da questi, la matrice è sempre la stessa nel senso che comunque molti brani sono ironici, questa verve la porto sempre dietro, anche negli altri brani. E’ un disco dove sicuramente voglio utilizzare delle sonorità diverse, questo ci tenevo fosse proprio molto legnoso… invece nel prossimo sento anche dei suoni più elettrici.

Speriamo presto… quanto ci farai aspettare?Katres: Speriamo l’anno prossimo già di poter confezionare qualcosa…

Ultima cosa che faccio sempre… ti lascio circa tre righe di anarchia, saluta, ringrazia, fai quello che vuoi…

Katres: Allora voglio salutare i Katresnauti innanzitutto perché sono un gruppo di ragazzi veramente fantastici, mi seguono ai concerti, mi sostengono tantissimo… sono fantastici! Quindi saluto loro in primis perché sono l’ultima cosa che mi è successa e sono molto contenta di questo… saluto la mia amata Sicilia che oggi mi ha ospitato con molto calore, credevo di trovarmi sola e invece mi sono trovata circondata da moltissime persone e ne sono felicissima… e ringrazio te…

Katres sta presentando il suo piccolo gioiello “Farfalla a valvole” in giro per l’Italia e io vi consiglio di andare ad assistere ad un suo live… non potrete che rimanerne ammaliati.

Maruska Pesce

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PETRALANAUn intervista con Tommaso Massimo e Marco Gallenga, rispettivamente voce/chitarra e violino dei Petralana, subito dopo il live di presentazione del loro nuovo album A che ora arriva il DJ, presso lo Spazio Alfieri di Firenze.

Il singolo (del quale è stato girato anche un video) è la title track A che ora arriva il DJ?: è una canzone commiserativa? Ironica? Ci si può scherzare sopra ma è una situazione reale… Che vi sentite di dire in proposito?

T. Ora un po’ meno, perché abbiamo acquistato credibilità, ma è sicuramente una situazione che abbiamo vissuto in passato. La canzone è uno scherzo portato all’eccesso per riderci sopra. Crediamo che in giro ci sia poca capacità di prestare attenzione ad un interlocutore e molta voglia di distrarsi senza pensare, in maniera pura e totale. Secondo noi, ci si può divertire anche ascoltando…M. …e suonando. Dalla mia esperienza come insegnante di musica con i bambini, ti dico che già da piccoli capiscono la differenza tra suonare e giocare, il fascino della musica. Forse dovremmo cercare di recuperare quel rapporto fatto di entrambe le cose.

I testi dei brani non inseguono viaggi fantastici, né fantasie artificiali. Quanto parlano di voi le vostre canzoni? Cosa è per voi Firenze nella stesura di questi pezzi?

T. Nei testi non perseguiamo esigenze liriche. I testi sono fatti di parole di tutti i giorni ma credo anche che nella stesura di un brano non si possa fare uso di un realismo estremo. Mi piace scrivere di qualcosa che io ho vissuto e rielaborato. Non posso parlare come un telegiornale, ma mi piace raccontare anche di un ragazzo che va al lavoro, senza usare giri di parole che debbano avere chissà quale appeal sull’immaginazione di chi ascolta. Rifuggo l’astrazione. Firenze infine conta moltissimo, anche se forse io stesso non mi rendo

conto di quanto sia importante questa immagine per me.

Che opinione vi siete fatti della scena fiorentina? C’è una coesione, una direzione comune, una cooperazione tra i vari protagonisti?

M. La scena fiorentina è ricchissima e si compone di moltissime realtà diverse. C’è gente che tecnicamente avrebbe molto da dire ma sono pochi i palchi dove farlo. È difficile uscire dalle mura della città. Ci sono dieci locali per suonare, ma già spingersi fino a Prato est è un problema, non c’è più quella volontà di avventurarsi per scoprire qualcosa di nuovo.

E del cantautorato italiano, che rimane una delle forze trainanti della musica italiana indipendente?

M. Come tutte le cose una volta il cantautorato era considerato un bene da difendere difeso, c’era un’industria che lavorava... Ora tutto è più diluito, in una sorta di globalizzazione del gusto. La parola indipendente ora è più valida dal punto di vista etico che economico, fai come ti pare

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INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE

dici quello che ti pare senza essere pilotato da nessuno. L’artista deve fare quello che vuole. Il primo album che facemmo (Oggi cadono le foglie, NdR) era più folk, mentre questo nuovo album è più rock. Prima eravamo Deandreiani di ferro, ora abbiamo cercato di dimenticare quella lezione, semplicemente perché ci va di farlo. Il risultato del fatto che non ci sia più un’industria è che non si mangia più di musica, però ora puoi essere totalmente indipendente. La nostra musica è tutta vera. T. Siamo così. Più musica gira meglio è, però l’album va difeso. Fare un disco è il nostro calcetto e il nostro divertimento. Vorremmo sfruttare la massima diffusione offerta dai mezzi tecnologici. Non ci poniamo limiti, ma anche la dimensione locale è importante. Lo Spazio Alfieri è una bella realtà, ma la dimensione locale rimane importante, come la cucina, l’acqua e i vini. Ma naturalmente non devi suonare per rimanere nel tuo quartiere. Uscire dalle mura è una sfida difficile. La SIAE è una tassa a cui non sempre si riesce a far fronte e i locali non hanno colpa perché i costi sono veramente alti. Una volta ci facevano le feste nei locali, ora non si fa più… la gente veniva e si divertiva. Ormai ci sono troppe leggi che rendono il culo della gente ancora più pesante.

Sento alcuni dei pezzi (in particolare mi riferisco a un pensiero di te) sembra che ci sia anche la voglia di digerire anche altri cibi, magari provenienti da altre tradizioni musicali.

L’ispirazione non si scrive a tavolino. Filtriamo. Abbiamo fatto un viaggio in Marocco io ed il violinista, durante il quale ci è capitato di ascoltare musica del posto (si riferiscono alla Gnawa, NdR). Tre anni dopo è venuto un assolo nel disco che ricordava quella cosa. Le esperienze si sedimentano e si esprimono con il tempo. Come il nuovo disco ci siamo sganciati da una tradizione perché ne sentivamo l’esigenza.

Che necessità c’è dietro un disco come il vostro?

La volontà è quella di lasciare una traccia. Il disco ti fa migliorare come musicista, crea collante. È una cosa che rimane e, a fronte della fatica, rimani sempre contento di averla fatto. È uno sforzo per noi stessi, per affermarci, non solo come musicisti.

Bernardo Mattioni

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INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHEINTERVISTE

Teho Teardo & Blixa Bargeld

Un festival di musica avant-garde in una chiesa evangelica metodista. Puoi già sentire che c’è qualcosa di strano in tutto questo. Arriviamo davanti ai portoni della chiesa in anticipo, non avendo i biglietti, e già una folla s’accalcava impaziente. Dopo più di un’ora di spintoni, minacce di morte ai vicini che tentano di saltare la fila e occhiatacce al truce tizio della security che tenta di placare la folla con la sola forza della sua laconicità de borgata, siamo dentro. L’ambiente è bianco e scarno, come s’addice all’estetica metodista, un crocefisso rosso troneggia su tutti noi, pigiati e al buio. C’è addirittura un bancone dove servono birra, che dà un effetto tra lo straniato e il sorprendente (evidentemente il dio evangelico apprezza il rock’n’roll).Teutonicamente puntuale, Blixa Bargeld sale di fronte all’altare, livido e nerovestito come al solito, seguito da Teardo e da una violoncellista che sembra temerlo come il diavolo. L’impressione, in effetti, è quella di un prete folle che officia una messa demoniaca di fronte agli occhi terrorizzati di blasfemia degli astanti. L’acustica è pessima, purtroppo, e le eco delle strida bargeldiane d’ordinanza si perdono tra colonne, volte e absidi, come se uno stormo di fantasmi stesse fluendo tra il pubblico, sussurrando oscenità all’orecchio di ciascuno. Teho Teardo è ipnotico, armato di Jaguar e synth oscilla ininterrottamente sulle note essenziali e raffinate delle sue composizioni. Still Smiling viene presentato praticamente nella sua interezza, tra pezzi dolcemente malinconici e momenti più inquietanti e dissonanti, sottolineati da un pugno di luci fredde e fioche che raramente bucano il buio della chiesa. A quanto pare, il titolo dell’album deriverebbe da una lunga e pericolosa degenza in ospedale dello stesso Bargeld, fortunatamente risoltasi al meglio (per lui, ma anche per noi, suvvia). Ed è lui il mattatore della serata: parla col pubblico, racconta l’ispirazione nascosta sotto ogni canzone, scherza, fa battute, sembra addirittura meno minaccioso del solito sotto il ciuffo unto e il panciotto color inchiostro. Come suonerebbe un certo electropop raffinato tra le mani di un geniale sound designer e un leggendario distruttore d’armonia (com’è il buon Blixa con i suoi grandissimi Einstürzende Neubauten) potete scoprirlo ascoltando alcuni dei brani più belli, come Defenestrazioni, Come up and See Me e Alone with the Moon. L’ingresso di una sezione d’archi verso il finale dello spettacolo amplifica il paradossale mix di sacro e profano, o meglio, di celestiale e infernale che pervade l’intera performance. Teho Teardo è grande e Blixa Bargeld è il suo profeta, hanno scritto; beh, lunga vita ai folli e ai profeti che tentano ancora di salvare la musica dal baratro del mercato. Tutti noi vivremo per sempre/Sempre e in eterno/Potremo volare/Berremo miele, vino e miele, ambrosia/A colazione mangeremo nuvole/Dormiremo a fondo sulla luna (Defenestrazioni). Marco Petrelli

Live @ CHORDE Festival, Roma 1/02/2014

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INTERVISTE RUBRICHERECENSIONILIVEINTERVISTERUBRICHERECENSIONILIVE

RECENSIONINevica Su QuattropuntozeroI DIARI MISERABILI DI SAMUEL GEREMIA HOGANDisco Dada Records, 2013

I Diari Miserabili di Samuel Geremia Hoogan, la nuova fatica di Nevica Su Quattropuntozero, al secolo Gianluca Lo Presti musicista e produttore livornese, attivo ormai da diversi anni è, diciamolo subito, un album interessante e complesso. Interessante per le sonorità decise, urticanti, venate di elettronica, in bilico tra post punk, synth pop e shoegaze che rendono i brani, cantati in italiano, strazianti e cupi, immersi in atmosfere nere e corrosive. Complesso perché I Diari è un concept album, dolorosamente biografico, un racconto che non si dipana attraverso una narrazione lineare, ma che si espande per frammenti, riflessioni, ricordi, immagini potenziate dalla musica incalzante e avvolgente. È quasi un delirante flusso di coscienza, un soliloquio spezzato e interrotto sulla

crisi di un’identità, sullo smarrimento, sulle scelte compiute, sulla carne, sulla felicità e sulla verità, se ne esiste una. Il linguaggio di Nevica Su Quattropuntozero è criptico, a volte surreale, ma rende perfettamente il disagio della verifica interiore che ci presenta. La sua voce ricorda in alcuni momenti quella di Battiato, con un timbro cantilenante, quasi salmodiante, così a volte l’impronta dei CSI e di Giovanni Lindo Ferretti pare eccessiva, ma sono piccole pecche. Gli influssi di Afterhours, Scisma, Moltheni sono ben presenti nel lavoro di Lo Presti (e d’altra questi artisti rappresentano forse il meglio della produzione new wave e rock italiana di questi ultimi anni), tuttavia la natura intimista e profonda dei testi e la capacità dell’autore di reinterpretare la tradizione dell’indie italico fanno de I diari un lavoro originale e inconsueto anche nell’ambito delle produzioni indipendenti della penisola. Diversi sono i pezzi da ricordare dall’iniziale Promiscuità, acida e oscura, L’amputazione, disperata e incalzante con il suo climax dirompente, Incolume, una pioggia di elettricità e tastiere. Ma una menzione particolare merita Ailin, distorta e industriale, che chiude alla grande il disco. [ 7,5/10 ] • VINCENZO PUGLIANO

Yumma ReSING SINGMonochrome Records, 2013

Parlare di questo disco senza sviscerarne i contenuti risulterebbe limitante, vista la portata dell’opera di fronte a cui ci troviamo. “I should remove the brilliant lights and all would be more true”. È una dichiarazione di esistenza, la determinazione della weltanschauung propria di una vita vera, quella che trasuda Autumn Song, opening track del secondo disco della band campana. Un melting pot che non rinnega un salto nel trip hop, ovvero in quelle radici che diedero il via alla produzione musicale degli Yumma Re, già a partire da Rotten Meat, terza traccia dell’album: coro di un’umanità spersonalizzata e violenta, vittima di stupri e “pigs” (chi vuol capire, capisca). Proprio questa traccia, forse, risulta meno attuale, caratterizzata nel finale da voci distorte e drum machines sfacciatamente

scolastiche. Ma il mezzo passo falso si diluisce immediatamente con il terzinato e suadente incedere di My Blues, una sinfonia notturna che ricorda le scappatelle orchestrali dei Silverchair in Diorama coniugandole nel milieu tipico del blues. World music e dream pop irrompono prepontemente in Sudamerica e La Reina De L’Aldea. Il lavoro di orchestrazione su cui si intersecano sonorità classiche ed innovative è davvero degno di nota. Si cambia spesso atmosfera, ma tutto è coerentemente parte di un corpus unico. La quasi pinkfloydiana I Have A Gun dimostra ancora una volta la potenza della Yumma Re-parola, così (im)personale, così grave, così nebulosa, così concreta. You Let Me Down ricorda sonorità contingenti ai Tears for Fears, o a qualcosa di New Romantic, finché non entra lo scroscio di chitarra a spezzare la tensione. Tutte le suggestioni che ogni brano porta con sé chiaramente, non si esauriscono in un paio di paragoni da rivista. Il lavoro ed il risultato convogliati in questo album sono molto più profondi ed originali di quanto non possa emergere da una lettura che tenga in considerazione dei riferimenti culturali del genere, digeriti e rielaborati in maniera personalissima. Moon lascia intravedere ancora un gioco delle parti liquido, quasi come se si suonasse dal vivo, fatto di interventi centellinati, ancora una volta, inzuppati di trip-hop. Sing Sing Ballad è l’ultimo probabile omaggio alla foto di copertina, il palazzo dove cominciò la storia dei cinque membri della band (tre di loro sono fratelli). Bene, vi ho raccontato l’alfa e l’omega di questo album. Ma la musica non è un film, anzi, si ascolta meglio se si sa anche come va a finire. E questo Sing Sing, che sia un invito o una prigione, inizia bene e finisce ancora meglio. [ 8/10 ] • BERNARDO MATTIONI

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TempelhofFROZEN DANCERS

Hell Yeah Recordings, 2013

Nuova intrigante proposta da parte dell’etichetta ferrarese Hell Yeah Recordings, i Tempelhof, ovvero Luciano Ermondi e Paolo Mazzacani, che, oltre dopo quattro anni dall’esordio con l’inglese Distraction e due ep per la Hell Yeah, producono questo Frozen Dancers, un album maturo, ricco di sfumature e stratificazioni, il risultato di un percorso di ricerca e sperimentazione nell’elettronica contemporanea. Nelle sue tracce convivono, infatti, stili e suggestioni diverse, dallo shoegaze al dubstep, dalla drum’n’bass alla wave oscura e industriale, che si scompongono e ricondensano in forme e sonorità downtempo, malinconiche, ma colme di vibrazioni ed energia. Suoni analogici, synth e tastiere anni ‘�0, bassi e batterie pulsanti formano una trama densa e coinvolgente sulla quale le melodie fluttuano verso territori onirici, distanti, colmi di groove e di densità scenica. All’ascolto, necessariamente attento e ripetuto, ci si accorge che il lavoro non è una giustapposizione di tendenze, ma un tessuto sonoro fatto di riverberi e ricami musicali che si rincorrono e sovrappongono. È tuttavia un lavoro in levare, di chiarimento degli spunti e delle influenze, che non toglie nulla alla forza evocativa dei pezzi e alla ricchezza dello sfondo musicale. E così la cavalcata iniziale Drake struggente, sognante nell’inseguirsi delle linee percussive, dei campionamenti di voci e accordi di chitarre. Siamo in territori nordici solo apparentemente algidi e distaccati. Emerge invece la componente più sentimentale di quest’approccio all’elettronica. E se Monday Is Black, rappresenta l’anima più oscura, inquieta del disco, potentemente wave, in Change navighiamo in luoghi più industriali, ossessivi e martellanti. Con Nothing On The Horizon gli spazi si ampliano, diventano più luminosi, e preparano all’orientamento ancora più evidente in Sinkin Nation e She Can’t Forgive molti vicini per atmosfere e impatto al cosidetto soul elettronico che va per la maggior in questo periodo. Più kraut e mitteleuropeo lo stile di The Dusk e soprattutto Skateboarding At Night, dove però il sogno diventa liquido, crepuscolare volgendo verso l’ambient. Frozen Dancers si chiude con Running Dogs sommessa e inquieta, con le sue tastiere e i campionamenti vocali. I Tempelhof ci offrono un ottimo lavoro, di portata internazionale che non può lasciare indifferenti all’ascolto [ 7,5/10 ] • VINCENZO PUGLIANO

The Zen CircusCANZONI CONTRO LA NATURA

La Tempesta Dischi, 2014

Il Circo torna in città. Dopo un 2013 “ognun per sé” dedicato ai rispettivi progetti solisti (Appino, realizzato in collaborazione con Giulio Favero ed eponimo vincitore della targa Tenco e l’interessantissimo La notte dei Lunghi Coltelli di Karim Qqru). Quest’anno di reclusione ha significato un’inversione nel metodo creativo al quale si sono attenuti i tre pisani fino ad oggi. Si passa dal parto di un disco ogni nove mesi di tour ad una riflessione in sala prove, più approfondita, fatta di programmazione, rielaborazione dei testi, sempre personali nelle melodie, ma anche glocali nelle tematiche, tra lo zeitgeist interno ai confini della Nostra Italica Nazione ed il particolare della vita quotidiana. “Questo disco è artigianato”, dichiarano gli Zen Circus, nato interamente dalle loro mani e menti, con l’intenzione di inscatolare l’energia e la naturalezza caratteristica dei loro live, operazione che evidentemente non era mai riuscita fino in fondo. Il fatto che i loro live siano una bomba è fuori da ogni discussione ma il tentativo di intavolare in questo album un discorso di cui non si fosse già parlato, invece, è un’operazione il cui buon esito è altalenante. Si parte con Viva, e credo che la totalità di un ipotetico pubblico interessato a questo album non possa esimersi dal dire “c’hai ragione Andre’…”, tranne magari qualche pentastellato, ascoltare per credere (ancora non fioccano le polemiche su twitter?). È un singolo perfetto, potente e coinvolgente, che parla di tutti i Viva che piacciono tanto al nostro popolo e dei quali agli Zen Circus non frega un bel niente. L’intensità cala in Postumia, seguita da Canzone contro la natura. La natura di cui si parla qui è quella “che fa davvero paura”, quella con cui ogni uomo è in contrasto, come sottolineano le parole del cameo di Giuseppe Ungaretti, riprese da un’intervista di Pasolini inserita nel finale della traccia. Vai vai vai! è una sorta di omaggio alla canzone folk, il cui tema di chitarra dalle tinte partenopee accompagna la breve storia di una disillusione. Il disco prosegue senza sussulti (eccezion fatta per la bestemmia censurata di Giorgio Canali in No Way), partendo come un fiume in piena da reminescenze punk-rock (mai così lontani i tempi del “ti ricordi gli Hüsker Du?”) per poi spandersi nel mare del songwriting. L’attitudine citazionista de l’anarchico e il generale, in cui la linea vocale ricalca la deandreiana il pescatore ne è la conferma. Il trio parla della proprio realtà, così vicina alla realtà di tutti noi. Non a caso l’io poetico slitta da personificazioni di caratteri allegorici (Dalì) per poi tornare in bocca allo stesso Appino (Sestri Levante). Niente di nuovo in generale, ma probabilmente il trio pisano sembra aver trovato una propria dimensione, fatta di immediatezza, di musica vera, dalla quale i suddetti non avvertono di doversi distaccare. E a gran parte delle persone che hanno imparato ad amarli andrà sicuramente bene così. [ 7/10 ] • BERNARDO MATTIONI

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Mai Mai Mai THETA Boring Machines, 2013

Progetto solista di Toni C., alter ego di Toni Cutrone, già membro degli Hiroshima Rocks Around e Trouble Versus Glue oltre che padrino della NO=FI Recordings, Theta si annovera tra le opere d’avanguardia migliori del 2013, accompagnato da buona parte della produzione Boring Machines. Mr. Cutrone convoglia in sei tracce un ideale viaggio interiore costellato da suggestioni analogiche, generose remini-scenze kraut filtrate da un impressionismo minimal post-punk. I cinguettii sintetici di Theta ci introducono in un flusso circolare di morbide fre-quenze per dar vita ad una nenia postmoderna dal generoso carattere onirico. Il mito greco di Prometheus viene celebrato con una litania industriale, una sorta

di sensuale e robotica omelia avulsa da qualsivoglia concezione spazio-temporale. Arriva Noeo, come fosse un faro esistenziale a scansionare ogni molecola della mente. Elettronica minimale che si affida alle deviazioni dell’intuito, scandendo la più oceanica risorsa creativa dell’uomo: il subconscio. Upnos è un respiro che, attraverso un tribalismo burroghsiano, sprofonda in sogni destabilizzanti, ritmati da una meccanica intimamente ossessiva ed ipnotica. Muo medita estaticamente frequenze, modulando una tempesta elettromagnetica come fosse una ballata aliena. Telos, prima che si chiuda il sipario, è una sorta di suggestiva amniotica danza. Sorta di risacca di un lavoro che nel complesso è soprattutto un prestigioso e raffinato esempio di avanguardia noise. Toni Cutrone fa un distillato della propria esperienza artistica accompagnandoci per mano attraverso le pieghe della sua mente e lo fa in modo straordinario, lasciando il vezzo artistico fuori dalle porte della percezione. “Theta” è figlio di una gioventù psichica mai tramontata, che continua a prendersi cura del suo demone sotto la pelle, principale sintomo di una rinascita viscerale necessaria. D.o.A: The Third and Final Report of Throbbing Gristle trentacinque anni dopo. Da non archiviare quindi, ma da custodi-re dopo ogni (ripetuto) ascolto come fosse una preziosa reliquia. [ 9/10 ] • ANTHONY ETTORRE

Zocaffe NOI NON SIAMO FIGLIPhonarchia Dischi, 2013

«Questo album è come un libro, ogni capitolo ha il suo personaggio» ci dicono i toscani Zocaffe del loro secondo lavoro dopo aver esordito nel 2012 con Il piglio giusto (ironia che li descrive benissimo). I protagonisti di queste dieci tracce sono quelli che vediamo nella foto di copertina, resi vivi grazie alle adorabili creazioni di plastilina di Riccardo Pieruccini; ritratto di gruppo insieme ai quattro membri della band, anche loro ricreati col gesso. Un Sgt. Pepper di provincia con più muschio che fiori per quelle che sono in maggioranza vivaci storie di paese. Si parte con Noi non siamo figli, giro di basso di chi si scioglie le dita con My Sherona e strofa dall’an-damento Splendido splendente; ma soprattutto il tema di Supercar che si fonde a

quello di Another brick in the wall con un pensiero ai Figli delle stelle di Alan Sorrenti. La riflessione esistenziale lascia subito spazio alla storia dei personaggi. Antonello fa incontrare il Rino Gaetano più caustico con le melodie del miglior Gazzè. Un pesante abbrivio di basso e una chitarra in stile Link Wray ci presentano l’instabile Donatella; cori d’antan e una travolgente sezione di fiati accompagnano la dispotica e «stìnfia» Paoletta. I boschi di Fiano raccontano una sgangherata storia di (dis)amore al ritmo dei Noir Desir di Le vent nous porterà (volontà o fatalità?), mentre dietro il profilo del filantropo Gianni c’è niente meno che Gianni Morandi, omaggiato con irriverente affetto in questo pezzo che riprende la linea melodica della sua celebre Se perdo anche te (Solitary Man di Neil Diamond, ndr.) e paròdia versi famosi di altri suoi successi confusi a quelli del De Gregori di Pablo. Ancora il blues dello scapolo Pieralberto e il tango distorto dell’ingenua Tatiana. Finale “di rito” con Il funerale, in cui si assiste alle proprie esequie (fantasia divenuta ortodossa) per scoprire un quadro di ipocrisia e materialismo, e Il matrimonio, dove si passa dal tempo ternario della mazurca alla sorprendente appendice salsa per ritrovare i sopra citati amanti di Fiano. A fare da cornice, in quasi tutti i brani, il respiro del paese; rumore di vetri rotti e temporale, il rintocco delle campane e le voci di cani, mosche ed ana-tre, civette e cicale, il canto del gallo. Si tratta in conclusione di un album leggero e godibile, a tratti furbo e con delle soluzioni musicali fantasiose e originali. Unica pecca certa una ingenuità di scrittura soprattutto nei testi, meno arguti di quanto richiederebbe la scaltrezza degli arrangiamenti e spesso privi del giusto mordente. Gli Zocaffe non sono più figli ma devono ancora crescere quel tanto che basta a renderli unici; hanno tutto il tempo per farlo. [ 6,5/10 ] • FABRIZIO PAPITTO

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Eternal Keys ARCANUM SECRET Autoprodotto, 2013

Il neoclassicismo ambientale di Mimmo D’Ippolito (in arte Eternal Keys) è una spe-cie di sterile scansione di atmosfere generate al pianoforte. L’epica dell’arcano segreto che dovrebbe avvolgere le 10 tracce di quest’opera seconda, in realtà sembra piuttosto palesarsi nella sua banale natura. Le migliori tracce sono quelle epiche di cinematica ispirazione (Second War, Dragon’s Gate) seppur sembrino affiorare da un certo immaginario di serie Z del peggior cinema di genere anni 80.Il resto è espresso attraverso un’inefficace sinteticità, soprattutto nei brani di derivazione new age. L’elettronica, seppur elaborata, in tracce come Parallelives o Future City si rivela nella sua ricerca un’espressione poco stimolante e di scarso interesse. L’elemento innovativo quindi è purtroppo totalmente assente e l’esplo-razione di territori già ampiamente setacciati, si rivela un’operazione sciatta e senz’anima. Mentre in Memories Gone sembra ascoltare uno Steven Schlaks alternativo in altre brani D’Ippolito sembra riscattare il suo estro creativo rin-chiudendosi in suggestioni convenzionali e spesso noiose. In sintesi un disco che non aggiunge nulla all’universo del-l’elettronica e dell’ambient, per non parlare delle più tradizionali esecuzioni pianistiche di stampo neoclassico. Resta quindi una potenziale colonna sonora di un brutto film che purtroppo, nonostante i propositi e le ambizioni preposte, si rivela un flop assoluto sin dalla prima inquadratura. In sintesi è un disco da cui non trapela alcuna emozionalità. Che altro aggiungere? [ 4/10 ] • ANTHONY ETTORRE

The New MendicantsINTO THE LIME

One Little Indian, 2014

Questo gruppo canadese è al suo album di debutto, anche se i suoi componen-ti, Joe Pernice e Norman Blake, vengono da importanti esperienze passate con i Pernice Brothers il primo e con i Teenage Fanclub il secondo, e si sono fusi in que-sto nuovo progetto creando un prodotto molto orecchiabile, sicuramente molto radiofonico anche se difficilmente racchiudibile in un unico genere: infatti i New Mendicants passano da suoni di radici beatlesiani in Cruel Annette e soprattutto con le armonizzazioni delle voci, tanto care ai Fab Four che hanno fatto scuola su questo, ai REM con Follow you down e in A very sorry Christmas, anche se in alcune parti ricordano Simon & Garfunkel in particolare in Out of the Lime. Il loro sound è pieno delle chitarre taglienti e dalla batteria presente e molto ritmica, molte canzoni hanno anche la chitarra acustica e le voci dei due cantanti si fondono molto bene creando un suono molto armonico. Certo l’originalità non è il massimo, sembra davvero tutto già sentito, ogni canzone stai lì a pensare “L’ho sentita, dove l’ho sentita?”; questo se da una parte è un pregio perché entrano facilmente in testa in quanto già familiari, altrettanto facilmente tendono ad uscire, lasciando ben poco: è esattamente la definizione di musica pop, con tutti i suoi pro e i suoi contro!Il disco è comunque molto ben fatto a livello di missaggio dei suoni e di registrazioni e quindi l’ascolto è davvero piacevole. [ 6/10 ] • PIERGIORGIO CASTALDI

L’OrchestrinaL’ORCHESTRINA

Autoprodotto, 2013

L’Orchestrina porta con sè un venticello cortese di strumenti educati bene, nel quale gioventù e tempi andati si intrecciano senza affanno, considerando che a suonare, sono solo i nipoti. Tutti giovini, eppure così affezionati a un retrò di stampo jazz, cantautorale, leggero e si, non vuoto; tutt’altro, pieno di strumenti massicci e armonici e armoniche, da rivitalizzare con un ottimismo per le cose quasi anacronistico. Una balera montata in un paese di ragazzi, eppure ballano tutti e vengono anche i grandi dai paesi vicini a prendere un po’ di sole, a conce-dersi un Valzerino informale.Mi viene in mente il primo Brunori Sas, ma con un gusto minor pop, e le nuove leve acustiche che hanno iniziato dalla riscoperta del ‘fu’, della musica popolare; dai Nostri rivisitata in una nuova e frizzante annata. [ 6,5/10 ] • PABLO

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VirgoL’APPUNTAMENTOAutoprodotto, 2013

Chi lo dice che il rock in italiano è morto (o addirittura non è mai esistito)? I Virgo, da Vicenza, cercano di riconquistare la piazza con un album solidissimo e tirato. Un suono classico eppure assolutamente contemporaneo che fa piazza pulita del-le derive post-new wave così frequenti nei gruppi di casa nostra per riconquistare appieno una dimensione hard rock/alternative senza pretese di nicchia od oscure ricercatezze.Dieci pezzi belli dritti, sostanziosi e distorti, pienamente a loro agio tra architet-ture soniche che ricordano per certi versi il sound dei primi anni zero (a me sono venuti in mente i Panic Channel, semioscura band nata dalle ceneri dei Jane’s Ad-diction), pur non essendo facilmente incasellabili. Sono attivi da anni, e si sente:

L’Appuntamento è lucido e liscio come una moneta appena coniata, un tappeto sonoro rumoroso e granitico so-stento da una sezione ritmica precisa e incalzante che dovrebbe far faville dal vivo. Un po’ angosciosi, a volte, con discese neromalinconiche che vanno a morire in riff grassocci di soundgardiana memoria (quelli, cioè, che ti fanno ondeggiare la testa a metà tra lo strafatto e l’autistico), a sostegno di un cantato educatamente sgolato che compie egregiamente il suo dovere. Un po’ di sano rock’n’roll nel mare a volte soporifero dell’odierna infatuazione per l’acu-stico e il delicatamente cantautoriale. In effetti, i soli momenti deboli del disco sono quelli più morbidi e melodici, dove purtroppo l’uso della nostra lingua sembra far scivolare implacabilmente ogni pezzo verso l’inno sanremese. Non me ne vogliano i Virgo, non è colpa loro, è sempre difficile rifuggire certe derive. Nel complesso, una prova as-solutamente degna d’ascolto. Per quelli che ogni tanto ancora sentono ancora il bisogno di scapocciare. Massicci col cuore tenero, consigliati. [ 7,5/10 ] • MARCO PETRELLI

ThreeLakes & The Flatland EaglesWAR TALESUpupa Produzioni, 2013

La guerra in un suo particolare aspetto è l’elemento di scompiglio umano, così vicino alle catastrofi naturali, atto a ricreare artificialmente un periodo di apnea forzata nell’incertezza degli eventi. Del resto da sempre l’uomo copia dalla natura o almeno ci prova a riprodurla con le nostre brutte copie di ciò che osserviamo. ThreeLakes prende la guerra come spunto per analizzarne le diverse sfaccettatu-re, permeate da un senso di malinconia o rimpianto, in un album di matrice folk dal cantato nasale e coadiuvato dai Flatland Eagles. I quali altro non sono che una ensemble di collaboratori illustri creati ad hoc, tra cui Andrea Sologni dei Gazebo Penguins che è anche produttore dell’album, e che riescono a sostenere Three-Lakes in una produzione molto matura. Ne esce fuori un disco delicato, frutto di

una gestazione lunga un anno e, si nota facilmente, curato in ogni particolare rispetto al precedente EP. Ora che ThreeLakes ha alzato il tiro speriamo che riesca anche a mantenerlo nelle prossime produzioni. [ 7,5/10 ] • PLASMA

Arancioni MeccaniciNEROSeahorse Recordings, 2013

Garage rock senza nostalgie, fibrillazioni punk e distorsioni acide per questo se-condo album, dopo un esordio omonimo nel 2010, della formazione milanese composta attualmente da Gianfranco Fresi, Massimo Di Marco e Andrea Motta-delli. Tra solidi riff di chitarra e ritmi che non hanno paura di allungare il passo (tre pezzi su undici superano i 6.30 di durata) si respirano in modo autentico atmo-sfere dell’altro ieri. Giubbotti di pelle, abitacoli d’auto d’antan, polverose strade soleggiate di quando si poteva ancora uscire in strada e atmosfere da Romanzo Criminale. Canzoni manifesto come Anni ’�0 e RNR ma anche la rispettosa cover dal Brian Ferry di Slave to love atteggiata alla Bowie, il respiro d’oltremanica nelle ritmiche lente di Animal, una ripresa della precedente Deserti - Deserti 2 – col suo

intro da spoken song in stile Capovilla (il primo album, non a caso, era stato registrato dal “onedimensionalman” e “teatrantedell’orrore” Giulio “Ragno” Favero). Tutto con consapevolezza e personalità nonostante le molte influen-ze. Una polaroid perfettamente messa a fuoco. [ 7/10 ] • FABRIZIO PAPITTO

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Seventeen At This Time TOKKOUBANA

Cranes Records, 2013

Disco intenso e avvolgente questo dei parigini Seventeen At This Time. Ambiguo, come possono esserlo i tokko flowers o fiori dei kamikaze (da qui il titolo dell’al-bum), di una bellezza enigmatica non rassicurante che evoca atmosfere lontane, misteriose, niente affatto esotiche e solari. Il richiamo al Giappone, al Mishima nostalgico e votato al sacrificio non è casuale. La musica è abrasiva, ispirata da una malinconia profonda e oscura, vibrante di basso e batteria, di inserti elettronici che spiazzano l’ascoltatore, di inni e voci campionate che creano un tappeto so-noro distorto e ritmico allo stesso tempo. La chitarra richiama immediatamente i toni e le linee della dark wave degli anni Ottanta, così come la voce un po’ nasale e metallica di Frederic Engel Lenoir. Ma il contesto generale di Tokkoubana è gotico, industriale, perduto nei veleni di marce martellanti, ascoltate Holly per esempio, brano che lascia ben poco spazio alla speranza. È in questo aspetto marziale, inquieto e disperato il legame con la dottrina tokko, con Yukio Mishima e la sua estetica eroica e perdente. E se le influenze musicali di Sister Of Mercy, di Coil, di Bauhaus sono evidenti (alla mente vengono anche i A Place To Bury Strangers estremi e rumorosi), il vero padre putativo dei Seventeen non può che Douglas Pearce, anima “nera” di uno dei gruppi più discussi e creativi della scena new wave, dark, industriale e neo folk degli ultimi decenni i Death In June, e autore del testo di The Grass Is Always Browner, sarcastica dedica allo scrittore tedesco Günter Grass e ai suoi trascorsi nazisti. Non tutto è all’altezza dei brani succitati, Bobby Beausoleil (dal nome di un componente della cosiddetta Family Manson, condannato all’ergastolo per un efferato omicidio) appare meno incisiva e convincente. Nel complesso il pop liturgico (così definito dagli stessi Seveteen, Frederic Engel Lenoir, voce e basso, Raphael Deur, chitarra, Roland S. Gesicht, percussioni) non è solo un viaggio nel passato oscuro del post punk degli anni ‘�0 e ‘90, ma è l’interpretazione corrosiva di un mondo, quello contemporaneo, che di pro-spettive ottimistiche ne lascia ben poche. [ 8/10 ] • VINCENZO PUGLIANO

General Stratocuster And The MarshalsDOUBLE TROUBLE

Red Cat Records, 2013

Sto per ascoltare questo disco e non sono di buon umore: sono in ritardo con la consegna della tesi all’università, devo fare pace con la mia ragazza in tempo per San Valentino e ho appena pestato un ricordino lasciato dal cane di qualche ga-lantuomo sulla via di casa. Utilizzando una forma asciutta, quasi ermetica; è una giornata di merda. Mentre aspetto l’autobus, per scongiurare il rischio di reinterpretare il massacro di Columbine su via Palmiro Togliatti, decido di indossare le cuffie e ascoltare questi General Stratocuster and The Marshals e il loro Double Trouble, secondo album all’attivo. Già leggendo le parole illuminate dallo schermo dell’ipod vengo travolto dai riferimenti: la mia chitarra elettrica è una StratocAster del ’62! Double Trouble è il nome della band del mio chitarrista preferito, Stevie Ray Vaughan! Sto già empatizzando, e in una gior-nata come questa non è poco. Quando le note del primo pezzo (Drifter) iniziano a suonare, il malumore sparisce, e gli anni 60/�0 irrompono nella mia testa in tutto il loro splendore: psichedelia, blues, rock, Creedence Clearwater Revival, Pink Floyd, Led Zeppelin, Rolling Stones, Beatles, un enorme party dove sono invitati tutti i miei gruppi del cuore, quelle canzoni che gli vuoi bene come a un amico, tutte quelle sonorità e atmosfere che noi giovani sfigati abbiamo potuto apprezzare solo tramite registrazioni, video e tanta immaginazione. Mentre ascolto What are u looking for (pezzo blues-soul il cui riff rimanda chiaramente a Heard it through the grapevine), mi immagino hippie a Berkley, a baciare la mia ragazza nel mezzo di una sassaiola con la polizia. Non faccio in tempo a perdermi in questa fantasia che già la ballata psichedelica di gilmouriana memoria Don’t be afraid of the dark mi trascina in un mondo dai contorni sbiaditi, dove le leggi della gravità non valgono, dove sembra di stare On the dark side of the Moon.Come se fosse necessario dirlo, Double Trouble è un disco citazionista, completamente impregnato di rimandi a quelle atmosfere e suoni che hanno accompagnato qualunque amante della Musica negli ultimi sessant’anni, ma al tempo stesso è un disco credibile, cosa decisamente ardua quando si vanno a citare così costantemente i mostri sacri. Non a caso i membri della band provengono tutti da esperienze passate (il frontman Jack Meille per esempio proviene dai Tygers Of Pan Tang, band degli anni ’�0 della scena new wave britannica), e sanno come realizzare un prodotto godibile e curato. Naturalmente un lavoro del genere non porta innovazioni, e viste le qualità dei musicisti farebbe anche piacere ascoltare in futuro un disco più originale; ma alla fine chi ha bisogno di novità quando ci sono nove tracce di sano, sacrosanto rock a salvarti da una giornata di merda? [ 8/10 ] • MARCO BALZOLA

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I NastriI NASTRIAutoprodotto, 2013

Il trio milanese I nastri (sciolti sono: Alessio Buongiorno, Federico Marin, Roberto Paladino), esordisce con un lavoro sincero e genuino ma in buona parte acerbo. Gli arrangiamenti cercano spesso soluzioni originali, a volte guardando al passato; il crepitio del vinile che apre l’iniziale Nero, i sintetizzatori e la velocità d’impronta prog di Love, love, love, il respiro largo del sitar dietro la progressione incalzante della batteria in Come me, il ritmo slow e i cori beat di Il crollo, il basso torbido che serpeggia in Non ci ho messo tanto, la base elettronica di Sette, l’apertura stile krautrock alla Kraftwerk di Corri se mi senti. Più coinvolgenti Come nei film, zuccherosa alla maniera di un Cremonini - non siamo i primi a dirlo - e Umano, il brano più compatto grazie soprattutto al valido apporto di tastiere e percussioni

e a una strofa ben scandita che ci ha ricordato, per toni e temi, la voce di Enrico Ruggeri. Nonostante questo i 14 brani di cui si compone l’album (troppi quando non si abbiano tutte le carte in regola) risultano per altri versi opachi, deboli soprattutto di una testualità polverosa e a tratti incerta. Quando anche risulti chiaro il dettato si fa molta difficoltà a rintracciare il messaggio, che si tratti di impulso lirico o della pagina più ragionata o polemica. Espressioni come «corre l’ora dell’istante/ se ti accorgi che è già tardi» o «hai mai sfidato il crollo/ di quello che non sei/ hai camminato in tondo/ attorno ad un vorrei» testimoniano forse troppa indulgenza in un’attitudine astrattiva, e la parola sembra a tratti smarrirsene, stordita nel fragore melodico dell’orchestrazione. Ma le buone intenzioni, lo abbiamo detto, non mancano, e speriamo che il gruppo riuscirà a metterle meglio a frutto nel prossimo lavoro. Da segnalare la bella illustrazione di copertina di Chiara Bernardini. [ 6/10 ] • FABRIZIO PAPITTO

Il MalrovescioKAL-EL Autoprodotto, 2013

Dissonanze da un inferno spaziale aprono il sipario alle bombe: esplosioni di “rock romano rugginoso” fanno il vuoto; attorno una catastrofe, e rimangono questi quattro nel buco, a continuare la storia della desolazione. Gli immaginari, di questi personaggi post-nucleari di borgata, prendono forma in un suono pesante e ferroso che, rotatorio come una sega circolare, ritaglia una propria sagoma nell’accezione di stoner. Penso a Melvins, Fu Manchu, Kyuss e ancora non ci sono, e meno male, chè in italiano si usa strillare poco, di una rabbia r(d)epressa e cancerogena; sembra calzare sempre meglio questo guanto al nome della “pizza” più educativa del mondo: la moralità distorta delle paro-le secca ogni velleità di cambio e punisce società, amici e parenti con potenza e

stridio. Il rumore scordato si rimesta in una psichedelia minimale nata per ricurvarsi su se stessa, senza cazzeggiare col perbenismo tecnico, mentre maneggia acidi rumori. Il disco sembra mettere un punto ad un flusso creativo, la raffinazione potrebbe portare qualcosa di significativo a livello di sviluppo del concept e di varietà, su come colpire l’altra guancia. L’orecchio scotta, e gli ossi quelli là dentro ancora vibrano, il suono non si è fermato e , strano, è una cattiveria curativa. Dopo la punizione, scalate tristezza e rabbia, la ruota risputa qualcosa di nuovo. Il racconto di una genesi atea, di come anche Clark Kent è diventato Superuomo a forza di schiaffi. [ 7/10 ] • PABLO

Corni PetarNOVANTASEIManinalto! Records, 2014

I Corni Petar nascono nel 200� dopo lo scioglimento degli Shandon, quando il loro ex chitarrista Marco Rossi forma insieme a Giorgio Tenneriello il gruppo costituito da tre chitarre, basso e batteria. A posteriori, dopo un paio di ascolti, mi soffermo sulla durata complessiva dell’album che supera di poco i trenta minuti; nonostan-te il background di Rossi su produzioni più tirate e skaeggianti in questo album le atmosfere sono leggermente più dilatate e armoniche. Sono dieci tracce mol-to eterogenee che non lasciano quel senso di sedotti e abbandonati classico dei full length molto brevi e forse il merito va alla produzione di Marco Posocco cui ha dato alla registrazione un’ottima qualità. Scorrendo la copertina emerge una fortissima correlazione dei titoli delle tracce con i brani stessi, a volte è la parola

chiave del ritornello oppure l’argomento stesso della canzone e raramente mi era balzata all’occhio questa affinità tra brano e titolo in altri cd. Capito il nesso ci si avventura nel campo del sai già cosa andrai ad ascoltare e il rischio è che alle volte venga la voglia di fare skip su alcuni argomenti o titoli come Via del campo che mi sembra proprio proprio una cover di De Andrè... Si, forse in quel caso faccio skip... [ 7/10 ] • PLASMA

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Guitar Ray & The GambersPHOTOGRAPH

Autoprodotto, 2014

E’ il Ventunesimo Secolo, tutti possono dire e fare quello che vogliono. Basta ave-re un po’ di elettricità e un accesso a internet. Se le infinite possibilità offerte dai tempi moderni non sono in discussione, d’altro canto oggi la gente ha finito per essere invasata dalle abbondanti boccate di positivismo e ignorare gli effetti collaterali del “sogno youtubiano”: là fuori c’è un ondata di adolescenti brufolosi con i vestiti stracciati pronti ad ammorbare il web solo perché hanno ascoltato i Nirvana e voglio fare il grunge. C’è una massa di mediocri aspiranti di David Fo-ster Wallace e di Paul Thomas Anderson, che aspetta solo un tuo passo falso per inviarti le proprie “opere” tramite chat di facebook o mail. Ovviamente nessuno si permette di criticare l’estro creativo solo perché mediocre, ma oggi chiunque si sente “qualcosa” solo perché lo ha precedentemente assimilato da una pagina internet. Persino il blues, la musica dell’anima, non è sciolto da questo fenomeno, e ogni giorno siamo costretti a sorbirci gli obbrobri di quelli che appli-cano religiosamente la regola “conosco la pentatonica minore = competo con Eric Clapton”. Ma grazie a Dio, Allah o Babbo Natale a volte ci sono le eccezioni:I Guitar Ray and The Gamblers sono una di queste eccezioni. Già dalle prime note di Photograph, ultimo album del quartetto, si avverte quella passionalità, quella spacconeria, quella sicurezza, che solo chi è quello che fa può per-mettersi. Nella prima traccia Give It Up, o in I Heard That Train Go By la voce e la chitarra del frontman Guitar Ray Scona sembrano invitarci a sedere, accomodarsi e assaporare la musica in tranquillità: qui non si va di fretta, c’è un momento per ogni canzone e il fast forward è un’azione sconosciuta. Si va dall’hard blues di She’s Mighty Fine alle atmosfere funk dell’ottima Mary Lou, agli echi disco Seventies di Do The Dance, con la chicca italiana Bella Bambina a completare l’opera. La godibilità del disco è favorita dalla bravura dei musicisti (fra cui spiccano l’armonica di Fabio Treves e la chitarra mai banale di Guitar Ray Scona), che contribuiscono a dare al prodotto una dimensione internazio-nale. Il tutto è retto da un filo conduttore coerente e da una complicità di intenti fra la band, rendendo Photograph un prodotto lodevole. Chiamatelo groove, stile, tocco, i Guitar Ray and The Gamblers ce l’hanno. Per chi ama il blues/rock fresco e di classe, questo è il disco che fa per voi. [ 8,5/10 ] • MARCO BALZOLA

Edoardo Cremonese SIAMO IL REMIX DEI NOSTRI GENITORILibellula Music / Dischi Soviet Studio, 2013

Scorre veloce questo secondo lavoro del padovano Edoardo Cremonese dopo l’esordio Per vedere Lost a nome Edo (2011). «Siamo il remix dei nostri genitori», ci viene detto nel brano omonimo che apre l’album, e l’imprinting della genera-zione passata non tarda a farsi sentire. Così, tra una canzone e l’altra, si tocca un immaginario abitato dai Duran Duran, Pantani e Charlie Brown, Gaber e Iannacci, Pozzetto e Pippo Franco. Basti, uno per tutti, un titolo come Bagaglino, ospite Alberto Pernazza (Ex-Otago, Magellano). Riff di chitarra frizzanti e spensierati e coretti da fischiettare; canzoni orecchiabili, che a volte cercano una soluzione mu-sicale originale, come la tromba e il trombone di Danilo lo stalker o la bellissima incursione di sassofono in Bello come quando. A rimanere costante è l’ironia («Jim Morrison è vivo e vende rose agli stop» si canta in A Milano col trattore), testimoniata al meglio dalla divertente e scanzonatissima Samuele, che si arricchisce della seconda voce di Lodo Guenzi (Lo stato sociale). Ma non manca la ri-flessione di più ampio respiro; in Il re è nudo con le vans il contatto con una Palermo colpita dalla mafia diventa presa di coscienza di una ferita che si estende lungo tutta Italia: «A Milano il re è nudo uguale ma si vergogna e si veste per bene» canta Cremonese che anche in altre occasioni dà prova di un pensiero critico riguardo la capitale meneghina nella quale vive dal 2009. Tutto con una voce atteggiata, non sempre genuinamente, a modi svogliati e un po’ lan-guidi, che ricorda a tratti il Samuele Bersani più svagato. Rimane il limite di un lavoro che sembra non voler uscire da un immaginario iper tipizzato se non anacronistico; la graziella e il motorino, i caramba e la morosa, la vacanza “con i tuoi” (di lei) e i voli low cost, finte Gravidanze e problemi con l’affitto, il calcio (le introvabili figurine di Poggi e Volpi) e Sanremo. Il rischio, pur su di un perimetro camminato da tanti, è quello dell’autoreferenzialità. Si tratta in ogni caso, pregi e difetti, di brani che starebbero benissimo sintonizzati su frequenze radiofoniche. Apprezzabile l’idea di inserire nel libretto «i soliti accordi», buoni per una strimpellata con gli amici che è un po’ lo spirito di questo album. [ 6,5/10 ] • FABRIZIO PAPITTO

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HjaltalínENTER 4Autoprodotto, 2013

La genesi del terzo lavoro degli Hjaltalín è non poco travagliata. Dopo il pluripre-miato Terminal del 2009, la band ha subito una piccola diaspora tra le pieghe della vita. Il processo di scrittura dell’album è andato di pari passo con le vicende perso-nali del frontman Högni Egilsson, ritrovatosi in un limbo di malessere mentale che ha fortemente influenzato il ritmo produttivo della band islandese ed il genoma stesso di ENTER 4. L’album rappresenta un ipotetico accesso ad una quarta dimen-sione, personalissimo dominio atemporale dello stesso Egilsson, rimasto folgora-to da simbolismi mistici ed epistemologia alternativa durante il succitato periodo di smarrimento. Super-acclamati in patria, gli Hjaltalín arricchiscono la già nutrita

scena del chamber pop islandese (non è nemmeno il caso di nominarne i capifila) con un lavoro maturo che coniuga il dream pop ed il groove, di cui synth e sessione ritmica si rendono forza trainante, tanto da intitolare Ethereal la bellis-sima nona ed ultima traccia dell’album. Oltre alle orchestrazioni ed ai mood surreali, marchio di fabbrica della scena di cui sopra, la sezione ritmica costituisce una piccola rivoluzione pacifica, nella sua essenziale dinamicità, distaccandosi di fatto dal filone che ha reso celebre la terra dell’Eyjafjallajökull. La voce maschile di Egilsson e quella della sua contropar-te femminile, Sigríður Thorlacius, sugellano un incontro di no wave e pop melodico che si muove su di un’impalcatura a metà tra Mum e Rhye. Viene lasciato molto spazio a suoni di vera batteria, con tutto ciò che è armonia lasciato libero di spaziare tra l’orecchio destro ed il sinistro. Chamber pop dunque, ma con un utilizzo più libero delle strutture, che non sono asservite a nessun genere di necessità tipico della forma canzone; il tutto con le dovute eccezioni, chiaramente. Il singolo Crack in a stone, ad esempio, risulta sicuramente più simile all’indie pop à là XX, dove nella prima strofa il suono è ridotto al minimo, e si sorregge sulla linea di basso quasy funky, batteria (il rullante se la comanda) ed uno scarno tappeto di synth. Particolarmente intenso il finale dell’album, con le due suite We e la sopracitata Ethereal. Ci tengo a specificare che, sebbene si rimanga sempre in Islanda, ci si trova in ben altro quartiere rispetto agli inflazionatissimi Si-gur Rós, anzi siamo proprio su un’altra costa, possibilmente quella che guarda verso l’Europa metropolitana. Se proprio dobbiamo parlare di consigli per gli acquisti, sono sicuro che questo album lascerà soddisfatti i fan degli Editors tanto quanto i fan di Antony and the Johnsons, pur non somigliando né agli uni né tantomeno agli altri. Un disco intelligente ma sentimentale, languidamente riflessivo. [ 8/10 ] • BERNARDO MATTIONI

Le Chiavi Del FaroLA FURIA DEGLI ELEMENTIAutoprodotto, 2013

Il nome di questa band di Gubbio, così come quello del loro primo album, richiama alla mente certi accostamenti suggestivi o sui generis delle formazioni prog italiane all’altezza degli anni settanta; pensiamo ai vari Acqua fragile, Balletto di bronzo, Città frontale, Duello madre, Locanda della fate. Appellativi enfatici e stravagan-ti quanto eclettica e barocca era la loro proposta musicale. Nell’estro di Federico Gioacchino Uccellani, Luigi Benedetti e Jacopo Baldinelli rivive in parte quell’espe-rienza sonora filtrata attraverso le matrici in primo luogo del funk e della psichede-lica. «I nostri musicisti preferiti sono Red Hot Chili Peppers, Parliament/Funkadelic e Jimi Hendrix» dichiara il gruppo in un’intervista per il sito ‘La caduta’, e ci dà in

parte le coordinate entro le quali si muove la propria sperimentazione. Sintetizzatori e suoni flautati, slapping di basso e vorticosi giri di chitarra, sassofoni imbizzarriti alla John Zorn e percussioni accelerate. A cui si aggiunge l’impronta più recente dell’elettronica, affidata ad intermezzi numerati in modo sequenziale che creano sospesi quadretti futuristici intitolati, con inclinazione concept, IN - CON - SCIA - MENTE. Come nella migliore tradizione del rock progressivo sono tracce di ispirazione strumentale, capaci anche, è il caso della prima e ottima Tormentati alla ricerca dell’obiettivo co-mune, di superare i sette minuti di durata. I brevi interludi delle parti cantate - ottima la voce che ricorda per altezza e lirismo quella del grande Francesco di Giacomo (Banco) – si modulano anch’essi in modo estremamente armonico. Si veda ad esempio come nel secondo episodio Le macchine straordinarie venga scandito un verso altrimenti sovraccarico come «Cadrò sotto il peso dell’eco del vuoto dei miei sogni», in cui l’accento ritmico viene fatto cadere sulla stessa voca-le della triplice anafora preposizionale (dell[a], del, dei) con splendido effetto. I testi affrontano con realismo dinamiche relazionali adulte, rinunciando ad una narrazione ordinata a favore del frammento, lacunoso ma esposto a sufficienza da indurci ad una comprensione emotiva dell’intreccio. In definitiva davvero un buon lavoro, maturo e consapevole, gradito e atipico. [ 7,5/10 ] • FABRIZIO PAPITTO

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Invia il tuo Ep alla casella email [email protected] o all’indirizzo postale che trovi sul nostro sito web. Potrebbe trovare spazio tra i dischi recensiti su questa rivista.

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Les Fleurs Des MaladivesMEDIOEVO!

Zeta Factory, 2013

Un trio punk rock. Si potrebbe riassumere così il concetto di base delle sonorità di Les Fleurs des Maladives, ex Les Fleurs du Mal, o meglio, come amano farsi chiamare, i fiorellastri. In realtà, dietro sonorità tipicamente di questo genere si nasconde un lavoro molto ben fatto, sia in ambito musicale, col classico trio bas-so-chitarra-batteria, sia in ambito di registrazione e composizione. C’è da dire che i LFDM, che in realtà sono in giro da parecchio tempo ed hanno fatto parecchia sana gavetta, non inventano nulla, per carità, ma riescono in un intento che per-sonalmente ritengo di difficile realizzazione: cantare in italiano un genere che non è fatto per l’idioma nostrano. Al primo ascolto mi ricordano moltissimo i Rancore (per chi non li avesse mai sentiti propongo immediatamente dieci frustrate sulla schiena), per l’aggressività, per la profondità dei testi e per la capacità di attirare l’attenzione. Ma rispetto a questi hanno un piccolo quid in più, ovvero i loro pezzi restano molto di più nella testa. Il caso specifico è rappresentato da “Novembre”, quasi una nenia ipnotizzante. Il titolo dell’album è un chiaro riferimento ai nostri tempi, che agli occhi dei tre sono una sorta di regressione del-l’umanità, dove tutto è finto, tutto è apparenza, dove non c’è più nulla di reale, come dichiarano in “Bellezza”, ovvero un pezzo recitato anziché cantato e che merita almeno un ascolto senza interruzioni esterne. In realtà molti brani meriterebbero di essere nominati ed esaminati uno ad uno, sviluppando così quel filo che collega tutti i pezzi, ma voglio lasciare a voi l’entusiasmo e il compitino di coordinare e mettere in relazione l’opera dei nostri (voglio darvi un aiutino: contrapposizione tra Occidente ed Oriente). Ma non posso, per amore personale, non citare Ennio, un bellissimo riarrangiamento in modalità rock e post-stones di alcuni dei brani più famosi del nostro Morricone.Concludendo, Medioevo! non è certo una pietra miliare per la storia della musica, ma è sicuramente un ottimo tassel-lo per la crescita di questo gruppo, che fanno del divertimento – quando terminerete l’ascolto di 21 grammi di cenere restate in attesa dell’ottima ghost track – e dell’impegno nei temi i loro cavalli di battaglia. [ 8/10 ] • LUCAJAMES

Neko At StellaNEKO AT STELLA

Dischi Soviet Studio, 2013

Nostra Signora del Blues, proteggici. Gran sound, questi Neko At Stella, una ver-sione anfetaminizzata delle sempre amatissime dodici battute (che poi dodici non sono più, e manco lo sono sempre, vabbè, ci siamo capiti). Già in apertura il duo mette le carte in tavola: qua dentro troverete solo sporcizia e velocità: As Loud as Hell, un tripudio di noise e slide guitar che è un’introduzione-schiaffo da applausi. I toni s’ammorbidiscono (ma neanche tanto), ed eccoci nel mezzo di una ballata overdriven e decisamente acida che racconta d’un amore assoluto (Joy). Si torna allo psychoblues (anche titolo di uno dei pezzi migliori dell’album) che è l’ossatura di tutto il progetto, e che i due fiorentini maneggiano con noncuranza e spregiudicatezza, qui assottigliando e là ingrossando le sferzate chitarristiche fino a far sanguinare le orecchie. La forma-canzone non viene ripudiata, ma assolutamente sfregiata da una continua ricerca d’imperfetto e sbavato che dà più forza alle melodie abbozzate e filtrate (Like Flowers, ballata scricchiolante condotta da droni di feedback, il mio pezzo preferito qui dentro… sì, sono un romantico, che problema c’è?). Blues, punk & psychedelia in un tripudio di ruvidezza che però sa sciogliersi e incantare attraverso oniriche cavalcate soniche, i Neko at Stella ti saltano ad-dosso come un cane idrofobo, veloci, feroci e assetati di sangue. Poi però rallentano, t’accarezzano e mostrano tutta la malinconia nascosta dietro la mitraglia delle pentatoniche martellate pezzo dopo pezzo (come in Small Place, che sembra letteralmente esplodere nel finale). Un esordio stellare (no pun intended), tirato e coinvolgente. Grandi.

[ 7,5/10 ] • MARCO PETRELLI

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The Sleeping TreePAINLESS

La Tempesta International, 2013

The Sleeping Tree è il moniker del cantautore friulano Giulio Frausin. La terza fa-tica del suo progetto solista fa seguito ad un album (Leaves and Roots) ed un EP (Stories). Già bassista nei Mellow Mood, ha inanellato diverse aperture di rilievo per Kaki King, Of Monsters and Men e Daughter. Painless è un tentativo di intrec-ciare spiritualità e riflessioni personali senza scadere nell’autocommiserazione, durante il quale Frausin ci invita ad un incontro a tre: lui, la sua chitarra e l’ascolta-tore. Gli elementi in più si contano sulle dita di una mano: cori, sonagli, mellotron, organo, qualche percussione e qualche delay. Il mood mellifluo di cui è permeato l’intero percorso non sfocia mai in sfoghi uterini, così come le pennate sono distri-buite col contagocce, prediligendo un suadente fingerpicking in vece di uno stile frust(r)ato. Il paragone con il Grande Cantautorato americano serpeggia tra le canzoni in chiavi diverse, spaziando tra Elliot Smith (del quale ci propone una cover ben riuscita di Going Nowhere, così prossima allo stile di Frausin nell’in-terpretazione, così lontana dall’intenzione originale nell’esecuzione), Buffalo Springfield, Neil Young. Inoltre, nella positività latente che sottende più o meno tutte le tracce sembra aleggiare il primo Jack Johnson. L’album ha una sua coerenza, una dichiarazione d’intenti che viene effettivamente mantenuta durante l’intero percorso. Parados-salmente, nonostante il disco sia oggettivamente rilassante, morbido e “lights down low”, mantenere l’attenzione viva per tutta la durata dello stesso non è tuttavia opera facile. Difatti, tra le dodici tracce che compongono l’album, non abbiamo punti di minimo e massimo. Il fatto che le colonne portanti di questo album siano la voce e la chitarra di Frausin ci permette di seguirlo mentre ci racconta del perdersi e ritrovarsi (Jah Guide), della guerra atomica dei paradossi che scatena in bocca il sapore dei dolci ad Helsinki (Sweets Of Helsinki) e di tutte le altre storie che a The Sleeping Tree piace raccontarci. Il risultato è più che buono, dunque. Semplicemente, a volte si ha la sensazione di perdersi nel suo discorso, ma questa piccola pecca è sicuramente dovuta alla mole dell’opera. Questa forse è l’unica pecca del disco: un’opera talmente personale e pregna di intimità, che bisognerebbe mettere da parte l’ascolto criti-co e dedicargli un pezzo di cuore, per goderselo appieno. [6,5/10 ] • BERNARDO MATTIONI

Molotoy THE LOW COST EXPERIENCE

Modern Life, 2013

The Low Cost Experience è un’ esperienza. E, per definizione, ogni singola espe-rienza si può provare anche a raccontarla ma essenzialmente andrebbe sempli-cemente vissuta. Questa è la ragione per cui sarei tentato di chiudere qui questa recensione, ma obblighi editoriali mi spingono a spremere le meningi... I Molotoy, il cui nome è la splendida crasi tra molotov+toy, sfornano un disco di architettu-re strumentali, lucido, articolato... sviluppato grazie alla consapevolezza artistica di Andrea Buttafuoco, Gianluca Catalani, Andrea Minichilli e Andrea Paciletti, un quartetto romano che fonde moderna elettronica con rock canonico per dar vita ad un’opera matura e scientificamente moderna. La sperimentazione risiede so-prattutto nell’alchimia tra strumenti tradizionali a tecnologie complesse grazie ad un sapiente utilizzo di oggetti ormai di uso comune come l’iPhone, l’iPad e persino un controller Wii. Un disco com-plesso e stratificato il cui ascolto è puro trasporto. E’ affondare i sensi in un universo elettro-post-rock multilivello in cui una vena romantica è dominante (accentuata dall’utilizzo di archi) e che regala ben dieci tracce di atmosfere rigorosamente strutturate. Il Do It Yoursef, come suggerisce il titolo del disco stesso, passa anche da qui e assume connotazioni assolutamente nuove.Si teme solo che un’aurea vagamente sorniona aleggi sull’intera opera e il rischio che si tratti di una virtuosa e poco emozionale esperienza si prospetta all’orizzonte. Sarà per l’assenza totale di dissonanze o la programmatica perfe-zione degli equilibri generati; qui si rischia di smascherare uno sterile, seppur caleidoscopico, esercizio di stile. Ma a ben ascoltare le melodie elettroniche appoggiate su corposi impianti di rock visuale e spolverate di psichedelia (vedi l’utilizzo del theremin) hanno infine un’efficace presa emozionale e possibili dubbi vengono spazzati via.Se amate i Daft Punk o i Mogwai e se avete a cuore buona parte dei percorsi artistici di maestri storici come Bill Laswell, non fatevi mancare i Molotoy perchè probabilmente sono il tassello mancante della vostra cd-teca.

[ 8/10 ] • ANTHONY ETTORRE

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Nicola PisuABACRASTA E DINTORNILa Locomotiva, 2008Nicola Pisu è sardo, e se ascolterete questo album mi direte “Ma no.. non lo ave-vamo intuito!”, perché il lavoro è intriso di sonorità dell’isola, ambientali e stru-mentali con i campanacci delle capre e le fisarmoniche che ci fanno sentire tra le brulle e aride colline dell’entroterra sardo. Abacrasta e dintorni è un concept album, ispirato dalle opere di Salvatore Niffoi La leggenda di Redenta Tiria e Il viaggio degli inganni, in cui si raccontano le storie di personaggi di due città inven-tate: Abacrasta e Oropische.Il tutto è sicuramente e fortemente influenzato dal Maestro (c’è un unico Maestro con la M maiuscola), partendo appunto dall’idea dei personaggi di una città rac-contati nelle loro imprese, e mi riferisco a Non al denaro non all’amore né al cielo, passando per le sonorità mediterranee di Crueza de ma, e quelle sarde del Canto

del servo pastore dell’album “indiano”. Pisu non cerca di nascondere il debito musicale che lo guida, ma lo modifica e lo fa suo, creando un lavoro comunque molto personale e che lascia davvero una sonorità profonda; anche i testi rispecchiano la volontà di omaggiare il Maestro (non lo nomino oramai è inutile avete capito a chi mi riferisco), e ci raccontano di donne e uomini provati dalla dura vita, “Qui i volti delle donne sono maschere tragiche, portano i segni scolpiti e lasciano i sogni svaniti” dice in Le donne di Oropische. L’unico appunto che devo fare è l’attacco del ritornello di Tzellina, con una batteria davvero fuori tempo che sembra suonata da un principiante ed è francamente un colpo al cuore o un pugno allo stomaco, fate voi, per il resto musical-mente molto ben fatto. [ 7,5/10 ] • PIERGIORGIO CASTALDI

PazmaPIEDI DI PIOMBOTubogas Produzioni, 2013Paola Mollo e Marco Bucci (quest’ultimo già autore di un paio di progetti con Snowdonia) formano i Pazma, duo attivo a Roma e alla sua prima uscita discogra-fica, tutta all’insegna del lo-fi e del do-it-yourself. Certo è un po’ difficile trovare un’inclinazione punk nel breve album, 22 minuti appena, dei Pazma. Niente furio-sa ribellione, ma sana apatia, per dirla con le loro parole; niente bassi velocissimi, ma glockenspiel e diamonica; niente urla di protesta, ma sussurri di malinconia. Sì perché i sei brani che compongono Piedi di piombo, tra tastierine, kazoo, stilo-fono e lievi melodie di chitarra e synth ci portano in territori domestici, confiden-ziali, quasi dimessi. È l’indolenza farla da padrone negli stati d’animo malinconici e ansiosi, nelle armonie eteree e delicate, nei testi intrisi di nostalgia e tristezza quasi infantile. Quello che manca è uno slancio, un dubbio, qualcosa che inceppi

un meccanismo che appare un po’ compiaciuto. Non che non compaia qua e là una sottile vena ironica, un’increspa-tura nell’apparente pacatezza, delle note più inquiete e vibranti, ma questa possibilità non viene sfruttata e rimane solo accennata, probabilmente per una scelta stilistica. Eppure le strumentali Cabiria e Nenia Nanna tutto appaiono meno che rassicuranti, con degli aspetti cinematografici inaspettati. La malinconia diventa più afflitta, assumendo toni vagamente grotteschi e surreali. Così Marzo e Pablo il gatto, delicate ballate pop, abbozzano riflessioni meno appagate e introducono atmosfere più irrequiete. Il lavoro nel suo complesso ha una ben precisa personalità e l’uti-lizzo di strumenti “per bambini” dà una sensazione di straniamento, rendendolo comunque particolare e meno rasse-renante di quel che sembra. Resta la sensazione di incompletezza e di un gioco che deve essere sviluppato. Che sia il momento di crescere? [ 6/10 ] • VINCENZO PUGLIANO

Freak OperaRESTATE UMANI Autoprodotto, 2013Bell’esordio discografico dei Freak Opera, che oltre a far musica fanno teatro proponendo uno spettacolo colorito di varia arte, ma io purtroppo non l’ho visto. Quindi, producono un suono molto piacevole un po’ da qua, un po’ da là: l’effetto finale possiede un tocco di originalità quantomeno curioso. Che incuriosisce e si dispone familiare, per un altro verso, poiché la voce riporta ‘alle’, voci della nostra tradizione cantautorale, assunte ormai come bagaglio emozional-culturale. Un frullato del folk tricolore, poeticamente parlato senza dubbi di banalità e, c’è da dire, con un’attitudine esploratrice. Tale, indaga i personaggi della sua rappresen-tazione e li espone al pubblico confronto con le pubbliche (e vere) identità: storie fittizie che si immedesimano nella realtà. Hanno saputo produrre un album godi-bile, di passione e cultura, tuttavia ancora migliorabile. E poi che sia bossanova,

post-punk o cantautorale, va tutto bene. Con Stanislavskij possono diventare chiunque. [ 7/10 ] • PABLO

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Marco Sforza e L’Orchestrina Separè UN CAPOLAVORO

La Locomotiva, 2013Dopo un album dal vivo ed un EP, Marco Sforza esce con Un Capolavoro. Un al-bum che ha il sapore degli anni. Un album che è merce sempre più rara in un pae-se come il nostro, che fa della canzone un patrimonio, consolidatosi nei secoli. Cantautorato purissimo, dal sapore tradizionale, come il bicchiere di vino che si assapora con una fisarmonica sullo sfondo nel video di Sotto le unghie delle dita, storia di un ultimo ballo in Piazza Prampolini, a Reggio Emilia. O in qualsiasi piazza si decida di salutarsi per sempre. In fondo questo album parla di Marco Sforza, una voce strozzata in gola che non aspetta altro di uscirsene fuori alla luce della luna. Ci pensa da solo ad ironizzare su tutti i paragoni che gli avranno (gli avremo…) provato ad appiccicare (Concato, Caputo, Conte, De Andrè, Jannacci, Antonacci, Guccini, Gaber, Vergani e Baccini: divertitevi a scoprire come li evoca tutti in Non ci resta che cantare) anche se manca all’appello quel Capossela di cui a volte non possiamo proprio fare a meno di pen-sare (Tradire e il fare). Ironico dunque, ma anche autoironico (Un capolavoro), melanconico (Irene che c’è), riflessivo (Se per caso avessi un figlio). Sforza è accompagnato da quei compagni di lungo corso che formano L’Orchestrina Se-parè (Matteo Pacifico al clarinetto, Dario Vezzani al contrabbasso, Tommy Graziani batteria e percussioni). Collega di quel Denis Guerini nel roster de La Locomotiva, per il quale già spendemmo qualche bella parola, la poesia di Marco Sforza è forse meno narrativa e surreale, più neorealista. Una poetica delle piccole cose, Montalianamente parlando, cantata in un linguaggio quotidiano e rassicurante, succeda quel che succeda. A volte qualche sillaba un po’ masticata ricorda Renato Turi, doppiatore storico di Walter Matthau. Spero che questa cosa non l’avesse notata mai nessuno, come spero che siano tante le cose da scoprire in un piccolo Capolavoro. [ 7/10 ] • BERNARDO MATTIONI

Yugo In IncognitoUOMINI SENZA GOMITI

Lapidarie Incisioni, 2013Rappresenta un esordio post-datato questo disco; messo alle stampe dopo due EP, buttati lì nella storia della band, pareva temporeggiare, per dare modo al gruppo di calpestare tanti palchi in tutto il paese, provando tutte le uscite del GRA da e per Roma. Il tempo di lasciarsi, pensare e riprendersi, ritrovare l’antico cazzeggio. Romani, non più giovanissimi: esticazzi, ecco una spiccata attitudine dissacrante, forte e distintiva costituisce il sottotesto comune, ai concept delle singole tracce. Giochi di parole, sproloqui, toni sardonici sempre in equilibrio su un mare Prophilax, compaesani spensierati come loro, ma più volgari. No, gli Yugo non è che bestemmino, le 12 tracce raccontano di situazioni belle attuali è il tono scanzonato, abbinato alle ritmiche punk-rock/reggae isolano-jamaicane, a con-ferire un taglio meno pensoso rispetto a qualcosa di seriamente attuale. Ottimi musicisti, suonano con liquida versatilità i loro spartiti nelle orecchie di Yugo. Così ragiona stonato, nel suo incognito, e quel ghigno ironico col quale fregia le cose gli permette di non capirle fino alla paranoia. [ 7/10 ] • PABLO

Pip BlomSHORT STORIES

Autoprodotto, 2013Pip Blom ha sedici anni. Almeno così è scritto su BandCamp, sotto la foto in bian-co e nero di una ragazzina presumibilmente bionda dallo sguardo algido. Que-sto Short Stories è una raccolta di quattordici brevissime (nessuna arriva ai due minuti) canzoni per organo e Loog guitar (ovvero, una mini-chitarra a tre corde pensata per i bambini, ma dalle interessantissime possibilità soniche, soprattutto in versione elettrica). Scarno, indiefolkeggiante, bambinesco nei toni e nei temi, è comunque un disco sorprendente per la consapevolezza con la quale è composto. Chiariamoci, non c’è nessun capolavoro qua dentro, eppure ognuno di questi pez-zettini da settanta secondi o giù di lì è un esercizio di maniera che mostra come la nordica adolescente sia ben scafata in materia nonostante la sua giovanissima età. Beh, è difficile recensire un disco del genere, che è più un abbozzo, uno stu-dio, praticamente un tentativo di mettersi in gioco per la prima volta. La piccola Pip cerca di vendere la sua creazione per pagarsi un training camp per giovani musicisti, e spero le vada bene, perché tanto genuino entusiasmo non dovrebbe andare sprecato. Cos’altro dire, in bocca al lupo, e continua a scrivere, è già un sollievo sapere che qualche adolescente non sogna di diventare concorrente per qualche obbrobrioso reality show. [ 6/10 ] • MARCO PETRELLI

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FacciascuraSTILE DI VITACabezon records, 2013

Vi piace il rock? Beh questo è uno stramaledetto disco rock italiano al 100%. Quasi un tributo, un decalogo (undici tracce, ma la prima è un’intro di pochi secondi), un album di famiglia con ritagli dei momenti gloriosi del grande rock nostrano e del fratello maggiore a stelle e strisce. I parenti vicini e lontani sono parecchi. Uno dei più prossimi è sicuramente Paolo Benvegnù, che presta la propria voce in Uragano, una canzone malinconica, ineffabile metafora dell’indicibile tormento del crescere, che sembra scritta apposta per il gradito ospite, dal punto di vista dell’ambienta-zione e delle linee melodiche e armoniche (bellissimo il finale). Altre guest stars di primissimo piano sono Shawn Lee (collaboratore di gente come Jeff Buckley ed

Amy Winehouse) in New songs are no good e Alessandro “Pacho” Rossi (Karma, Morgan, James Taylor) nella Doorsiana Maggie M’Gill. Gli altri “parenti di sangue” sul disco non ci sono, ma hanno lasciato nella band veronese geni belli cazzuti e ben radicati nei 90s. Prendete tutti i nomi più grossi della scena grunge/alternative/stoner americana e la risposta è “sì”. Stone Temple Pilots sì, Soundgarden sì, QOTSA sì, Alice in Chains sì, fino ai nostri (last but not least) Afterhours (il disco è prodotto da Andrea Viti). Se proprio dobbiamo muovere una critica a questo ottimo prodotto, potremmo osare dicendo che le figure di riferimento sono talmente ben impresse nella mente dei cinque, che raramente si riesce a distaccarsene. In Italia questo sembra essere un grosso problema; ciononostante il disco è suonato talmente bene che risulta comunque fresco. Invece di indugiare sulla solita critica del “già sentito”, vorrei far riflettere chi avrà voglia di ascoltarsi il disco sulle scelte liriche, dichiaratamente simbolistiche, alienate dal particolare, dalle crudité di quotidiano per favorire dei tratti espressionisticamente iperbolici. Il suono è bello grosso, i riff gagliardi e Carlo Cappiotti, voce della band, passa indistintamente dallo yell toni arioso o potenti vibrato. Ultima indicazione: sul tubo gira il videoclip di Intercapedine, le voci armonizzate e l’andamento del ritornello sono pericolosamente alla moda, ma è sempre ganzo trovarsi una power ballad dilaniata da qualche strillaccio come Cristo comanda. In conclusione, i Facciascura potrebbero concedersi il lusso di sperimentare molto di più. Tuttavia, se posso azzardare una mia personalissima interpretazione al motivo per cui non lo fanno, è che non gliene sbatte una minchia. [ 7/10 ] • BERNARDO MATTIONI

Lou TapageFINISTERRELt Records, 2013

Dichiarano d’ispirarsi al folklore occitano, i Lou Tapage, ma in realtà quello che propongono, più che una ricostruzione filologica, è una miscellanea di stili tutti saldamente ancorati sui binari di una folk music moderna e incalzante. Il pezzo d’apertura, Finisterre, sembra quasi una marcia da battaglia, con i suoi ritmi per-cussivi incalzanti e qualche pennellata di feedback che dichiara subito la moderni-tà della musica proposta. Subito dopo, Avignon accentua il rock nascosto nella pri-ma traccia, con un intro in stile celtic punk (si arrabbieranno per questo paragone? Non so, a me è venuto automatico) e un cantato/cantastorie vagamente ermetico che accompagna l’album nella sua interezza. Bardi postmoderni sul limitare del mondo conosciuto, portano l’ascoltatore in giro per il sud della Francia come dei

guitti instancabili e alcolizzati. Ogni pezzo, una tappa, una nuova città, belle ragazze, bar gestiti da individui singolari, Ricard e jam sessions caciarone. Dodici polaroid tra il trionfante e il disperato, alcune morbide ed evocative, altre più aspre, affidate alla linea armonica di chitarre distorte e palm-muted che aprono la strada a flauti e violini ariosi e danzerecci (Mistrau-Exaloc, veramente un bel pezzo). Non è la prima volta che mi capita tra le mani un gruppo ispirato dalla musica tradizionale dei nostri vicini d’oltralpe, e sinceramente, mi sembra che questo filone folk sia decisamente più serio e riuscito del classico sound festadellunità/compagnidaicampiedalleofficine che spesso la fa da padrone (soprattutto tra una fascia d’ascoltatori più giovani e spensierati, e chi gliene farebbe una colpa?). Consi-gliato a chiunque abbia voglia di prendersi una sana sbronza e ballare in strada con le scarpe in mano, con l’orlo della gonna alzato, con i capelli scomposti, sotto la luna d’Agosto. [ 7/10 ] • MARCO PETRELLI

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Homesick Suni & The Red ShadesCHEERLEADERS & QUARTERBACKS

Garage Records, 2013

“Allora: un disco così ti deve piacere, altrimenti sei un vecchio”, tintinnava Cam-panellino sulla mia spalla, mentre la coda dell’ultima spiattata alla fine di Wild separava il primo ascolto di Cheerleaders & Quarterbacks dal silenzio che avrebbe fatto seguito. Ne sono serviti molti altri per grattare via la patina che sembra rico-prire tutto il disco di un’uniforme mescolanza di sex, mods, surf, brit ed altre pa-role di cui poca gente conosce il profondo significato. Ad un’analisi più profonda, effettivamente, emergono i diversi mood del disco che rimangono cionondimeno petali di uno stesso fiore. Bob Dylan, The Who, The Kinks, The Fratellis fino ai conterranei Mojomatics, sono alcuni dei filtri che ci aiutano a capire di quali fiori stiamo parlando. Ma veniamo alla musica: il disco funziona bene. “Non è facile costruire del nuovo quando si hanno a disposizione solo 3 colori primari” dicono di loro… ed effettivamente la band veneta non costruisce niente di nuovo. Questo non vuol dire che il risultato non possa essere gradevole. L’attitudine da singolone di Hanna Shalom rispetta fino in fondo la spensieratezza di questa ritmata love song, che sembra esser stata composta in piena (seconda) ondata Mods. La campagna veneta è il locus amoenus da cui il tutto prende via, ed il divertente risultato coniuga una produzione vintage ad un’attitudine scanzonata che fa passare una mezz’ora in compagnia della colonna sonora ideale per una giornata di sole tra un bar e l’altro. Beninteso, il peggio che può accadervi ascoltando il disco è di ritrovarvi fermi al presabbenismo di cui l’intero album è pervaso. Anche l’equalizza-zione ed il posizionamento delle voci in ascolto è un vero e proprio omaggio alle linee vocali à là Please Please Me, cantabili e laid back (gli auguro di trovarsi un branco di fans a strapparsi i capelli davanti a loro). Sentimentale, vaga e disperata Orange Love strizza l’occhio al soft emo dei Weezer. A Perfect Stranger sembra distaccarsi dagli anni ’�0 per un’escursione nella contemporaneità britannica, un’introspezione narrativa che fa viaggiare, così come per la suc-cessiva Mountain Song, fino a Zoot Suit, che è una canzone piacevolmente stupida tanto quanto sing along (zutzuuu). In definitiva, missione riuscita? Forse sì, viste le premesse. Vedendo quanto fatto da gente come Arctic Monkeys (ok, non proprio gli ultimi idioti) chissà che evoluzione potranno avere nel prossimo album questi tre. Un’unica domanda: le Cheerleaders ed i Quarterbacks che c’azzeccano con l’Union Jack? [ 6/10 ] • BERNARDO MATTIONI

Der NoirNUMERI E FIGURE

Rbl Music Italia / Blood Rock Records, 2013

Numeri e figure è il secondo lavoro dei romani Der Noir (Manuele Frau - voce, basso, Manuel Mazzenga - chitarra, Luciano Lamanna - tastiere, drum machines) e giunge dopo pochi mesi dall’esordio A Dead Summer accolto bene dalla critica e dal pubblico, riprendendone però solo parzialmente suggestioni e stile. Se il primo infatti era totalmente immerso nelle atmosfere e negli ambienti della dark wave questo disco rinnova la produzione dei Der Noir, mostrando un approccio più pop alla musica, più aperto alle contaminazioni e orientato alla new wave ita-liana degli anni Ottanta e Novanta, Litfiba su tutti. Non che manchino momenti di matrice puramente dark, caratterizzati da tastiere e drum machine tipicamente eighties come in Carry On, brano d’apertura del lavoro, o la martellante e oscura Kali Yuga, uno dei pezzi migliori del disco. In questi brani emergono decisamente l’estetica e la sensibilità della dark wave, nella loro dimensione tenebrosa e metropolitana. Ma soprattutto appare lo sforzo dei Der Noir di non abban-donarsi al puro citazionismo, di cimentarsi in modo originale con un linguaggio musicale di certo abusato, con risul-tati considerevoli. Si intravede insomma della stoffa e di buona fattura. Meno convincenti i tentativi di avvicinarsi a un’interpretazione più aperta e pop dell’esperienza new wave. Questo non significa che i risultati siano disprezzabili: la title track Numeri e figure è un ottimo pezzo synthpop cantato in italiano, malinconico e intenso, o la graffiante e ossessiva She’s The Arcane. Ma brani come Zero, L’inganno o Metamorfosi lasciano un po’ interdetti, perdendo di spessore e di inquietudine, ammiccando forse troppo ad un pubblico meno avvezzo alle asperità di artisti quali Gary Numan o Peter Murphy, per tendere a una dimensione più melodica, romantica e mainstream, con toni e colori più caldi e rassicuranti. Numeri e figure può essere considerato un punto di passaggio nella crescita artistica dei Der Noir, disomogeneo e con qualche caduta, ma nel complesso sofisticato e sufficientemente godibile.

[ 6,5/10 ] • VINCENZO PUGLIANO

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EP

CalvinoOCCHI PIENI OCCHI VUOTI EPAutoprodotto, 2013

Occhi pieni occhi vuoti, il prestigio quotidiano della presenza e dell’assenza in questa seconda opera prima di Niccolò Lavelli, che nel 2011 aveva licenziato a suo nome l’ottimo Ep d’esordio Giuda. Rinunciare alla propria firma significa non rinunciare alla possibilità di reinventarsi ma anche voler essere, programmatica-mente, progetto di se stessi. Ci si rende invisibili per guardarsi attraverso, e anche gli arrangiamenti lavorano sulla trasparenza per costruire un ambiente musicale rarefatto, pulitissimo e come vetrificato. Quattro brani splendidi, da pensare - ci suggerisce Lavelli - «come un quadrato dal contenuto vuoto». Enorme l’impatto emotivo dell’iniziale Nella città, bolide di spessore granitico ed inusitata bellezza, la cui luce si proietta per tutta la breve durata del disco. L’amore in aria è il primo

singolo estratto dall’album, leggero quanto basta a viaggiare bene in filodiffusione. Il remixaggio dal precedente lavoro della dolorosa Il clochard e la Senna testimonia la continuità dell’autore nel costruire testi che percorrono una vena immaginifica a tratti surreale, sua propria cifra stilistica. Chiude un lavoro originale e personalissimo la più complessa I fantasmi, piccolo gioiello di realismo magico per quella che si rivela una prova musicale di grande qualità nonché un saggio di precoce maturità artistica. [ 8/10 ] • FABRIZIO PAPITTO

MargarethFLOWERS EPMacaco Records, 2013

Quando un EP non ti basta... Dopo aver pubblicato un due EP autoprodotti di ma-trice folk i Margareth entrano nella scuderia della Macaco Records iniziando un percorso di totale stravolgimento del loro reportorio. Questo album è composto quindi da quattro tracce di matrice space rock, quasi psichedeliche, nelle quali i cambi di direzione e melodia sono così naturali e azzeccati da pensare di ritrovarsi tra le mani un lavoro dei Radiohead post Kid A o dei Broken Social Scene. Con il video del loro singolo girato insieme ad Alberto dei Grimoon, già apprezzati in passato su questa rivista, direi che i Margareth non possano che essere soddisfatti del loro lavoro, e anche voi lo sarete. Un album in cui perdersi ma da non perde-re. [ 8,5/10 ] • PLASMA

Cream Pie UNSIGNED 2.0 EPAutoprodotto, 2013

L’EP in questione è una riedizione riveduta e corretta di “Unsigned”, concepito nel 2010 con un precedente vocalist. Si tratta di street metal, glam metal o se preferite, di semplice rock’n’roll. Incredibile a dirsi, ma dal cuore delle Puglie ed esattamente da Altamura (lì dove fanno il pane bbuono!) giunge un suono di inconfondibile natura losangelesina. E chi ha amato L.A. Guns, Guns’n’Roses e Motley Crue sa bene di cosa sto parlando...La matrice del suono viene sviscerata da questo significativo (per quanto pos-sa apparire anacronistico) combo di poseurs nostrani che non si lascia intimidire dall’anagrafica del loro sound per sfornare ben sette tracce a base di energici e convincenti riff, balletti sonori e coretti sleazy degni del miglior hair metal. Unico

punto debole dell’intero EP sono le due ballad presenti nel disco in cui la loro personalità vacilla. Sì, qui prendono forma scialbe soft rock songs prive del pathos neoromantico di cui il genere ne è invece maestro. Ma direi che grazie alla fattura dell’intero disco si può per ora sorvolare per promuovere a pieni voti questi giovani fuori dal tempo.Per la serie, a volte ritornano e, noi, li prendiamo così. [ 7/10 ] • ANTHONY ETTORRE

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EPHlmnsra

UNTIDY TILES EP Fresh yO! Label 2013

L’astrattismo musicale diffuso dalla Fresh Yo!, etichetta virtuale prodiga di pro-duzioni elettroniche di significativa qualità, è il contesto in cui prende forma e vita l’opera prima di Raimondo Taibi (HeLloMyNameiSRA), “cervello” agrigentino fuggito dal regno del sole per trapiantarsi negli stimoli londinesi. “Untidy Tiles” è abstract hip hop dal respiro internazionale che ha come suo punto di forza la ricer-ca grazie al pregiato apporto di suggestioni che si amalgamano con gusto. In linea con l’universo musicale proposto dalla più ben nota londinese Ninja Tune, sviscera attraverso le sue sei tracce un affresco sintetico che si poggia su un tappeto di basse frequenze calde e accoglienti. I battiti e le ritmiche proposte svelano un universo musicale cool, convincente nella sua complessità. Opera personale che, senza particolari ridondanze, si rivela attraverso le sue tonalità, i suoi loop, il suo raffinato e fumoso ecclettismo. Lo spettro sonoro proposto da Hlmnsra è parte di un universo estetico che è destinato ad evolversi. Per quanto, ad un primo ascolto, rischi di rivelarsi uno sterile seppur efficace operazione musicale, in realtà è una prova stilistica matura e stratificata che merita attenzione. Significativa la stilizzata artwork di Jonathan Calugi che accompagna l’opera. [ 7/10 ] • ANTHONY ETTORRE

Matta-ClastDE MORBO EP

Autoprodotto,2013

Il trio perugino, che difetta di basso ma è munito di synth, è un richiamo esplicito ad un altro gruppo nostrano: i vecchi, i veri Marlene Kuntz, prima che si disper-dessero tra le file della notorietà. Al quarto lavoro, i Matta Clast producono, anzi, autoproducono con molto orgoglio, questo Ep di 6 tracce e della durata di 16:�1 che condensa tutto ciò che è archiviabile come post-rock (e diciamolo, il synth aiuta parecchio).Bisogna ammettere che la band non ci regala nulla di nuovo, né in ambito di so-norità né in ambito di testi, ma compongono, registrando in presa diretta, una piccola opera bruciante, ruvida ed aggressiva, con i brani che si legano per chitarre distorte e voce nevrotica. In realtà, la voce non è così presente come nei loro la-vori precedenti, ma ciò che più caratterizza tutto il disco è un binomio ossessività-brevità (due brani addirittura non raggiungono i due minuti totali di durata) sviluppato in maniera semplice e ben composta.La pecca dell’ep è però che, nonostante rappresenti un ascolto sicuramente interessante, non possiede quel tocco in più che lo renda così accattivante, anche se al secondo ascolto sicuramente è più coinvolgente.Nel complesso, anche se suonato con passione, il disco risulta sempre un po’ distaccato, come se fosse quasi una risultanza non troppo personalizzata. [ 6/10 ] • LUCAJAMES

Call Me PlatypusSHAME ON CALL ME PLATYPUS, EP

Platypus Records / GhettoGarage Distribution, 2013

Da qualche parte leggo che i quattro Platypus si definiscono come “I Beach Boys che urlano”. Frugare tra le loro influenze non aiuta molto, c’è praticamente di tut-to, dai rumori di sottofondo di Shining ai Blink 1�2. Eclettici, sono eclettici, e per strillare strillano niente male, quindi mi fiderò dell’etichetta auto affibbiata. Che dire, qua dentro c’è un po’ di tutto, ma un tutto piegato e indirizzato verso una sorta di rock’n’roll seminale che si apre continuamente a incursioni-lampo che sostanzialmente non modificano lo sguardo d’insieme. Ogni tanto fanno pensare ai Clash, ogni tanto a QOTSA & compari stoner (che vengono citati come influenza da tantissimi gruppi oggigiorno, e chissà perché dico io, visto che l’ultimo disco buono l’hanno fatto nel 2002, ma benvenga), ogni tanto un po’ di cavernosità New Wave, ai Nirvana (Pegasus Plumcake) etc etc etc. L’insieme è forse meno incollato e coerente di quel che si vole-va ottenere, e ogni tanto s’incappa in un passaggio un po’ goffo, o una virata non proprio azzeccata. Sonic Samba è un pezzo solido e vagamente cazzeggione, così come la traccia d’apertura, Indians, introdotta da sfrigolanti note slide, basso e batteria incalzanti e un cantato spezzato e affannoso che esplode di furia hardcore nel crescendo. Un disco ben suonato, e tutto sommato percorso da tentativi di originalità che non cadono completamente nel vuoto. [ 6/10 ] • MARCO PETRELLI

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L’OPINIONE DELL’INCOMPETENTE

Partiamo dal nome del gruppo: Surfisti del Bucodiculo.E’ al limite della decenza ma, devo ammettere, è uno dei più geniali in circolazione!Il nome, ma anche la copertina, denotano una certa “lieve” volontà di voler stupire a tutti i costi. Tizi stravaganti a dire poco.Sebbene io sia notoriamente incompetente ci tengo però a sottolineare che non conosco l’intera discografia di questo gruppo, non conosco la loro storia nei dettagli e praticamente non so nemmeno un cazzo di loro. Da una rapida scorribanda su internet, rilevo che il più delle volte i Butt Hole Surfers vengono definiti con i seguenti aggettivi: grotteschi, goliardici, eccessivi, deliranti e che la loro musica viene definita come: hardcore/punk, sperimentale,

noise e psichedelica.13 i pezzi registrati. Il primo e il secondo, che sono “revolution part.1” e “revolution part.2 ” sono molto simili tra di loro (direi del rock rumoroso) come del resto il titolo farebbe anche intendere.Il terzo brano, “Lonesome bulldog” racconta la storia del futuro presidente degli Stati Uniti , Lil’ Mahatma Ghandi ( da Kentucky ) , che discute del potere del cazzo ad alta energia, dell’incidente Chappaquiddick , e delle donne bianche. La melodia principale ( che è un puro dileggio country) viene ripresa in tutto l’album , comparendo improvvisamente quando meno te lo aspetti. Ce la ritroviamo in forma di brevi versioni strumentali sparse a caso nei diversi momenti del disco – precisamente questi intermezzi costituiscono i brani n. 3bis (il n. 3 è ripetuto due volte – follia pura), n. � e n. 12. Perché continuano a ripetere “Lonesome Bulldog” più e più volte ? ma, soprattutto, ce ne può fregare qualcosa? Fatto sta che è comunque una bella melodia e mi viene da ridere ogni volta che spunta fuori all’improvviso.Nulla in questo album sembra avere un qualche senso. Il disco nel suo complesso è forse troppo sperimentale e tuttavia ha delle buone canzoni. Sicuramente è da salvare “p.s.y” (n.11) mentre risultano troppo sfuggenti le caricature hard rock di “Blindman”(n.�) e “No, I’m Iron Man” (n.9). Da citare la cover di “The Hurdy Gurdy man” di Donovan.Felice vita!

Rubby

BUTTHOLE SURFER, Pioughd

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RECENSIONILIVEINTERVISTE RUBRICHE

TANDYN ALMER - ALONG COMES TANDYN Il mondo della musica ha recentemente perso Tandyn Almer, piccolo genio familiare solo a chi è intanto a scovare gemme dei Sixties. Tandyn è autore di tre brani usciti intorno al 1966 che gli hanno donato un po’ di fama (almeno, speriamo, per qualche royalties incassata). Si tratta di “Along comes Mary” cantata dagli Association (vedi BF41) “Sail on Sailor” e “Marcella” riprese dai Beach Boys e di alcune altre piccole gemme come “Anything You Want” per gli sconosciuti Sure Cure e “You Turn Me Around” ripresa dai Ballroom di Curt Boettcher.La Sundazed ha realizzato “Along Coems Tandyn”, una raccolta di demo. Si tratta di brani composti tra il 196� e il 1966 ed offrono un’idea di quello che sarebbe potuto essere il disco di Tandyn Almer. Si tratta di canzoni arrangiate in modo ancora primitivo che propongono uno stile non molto lontano da “Pet Sound”dei Beach Boys (Tandyn era amico di Brian Wilson). Stiamo quindi in ambito pop, uno dei sottogeneri che hanno reso grande la California dei Sixties di cui diverse volte abbiamo parlato in questa rubrica. Nella raccolta, i brani sopracitati non ci sono a favore di altri rimasti inediti fino ad oggi. Tra questi, si segnalano”Find Yourself” e “You Turn Me Around” che aprono la raccolta della Sundazed e “Victims Of Chance”. Gli acetati venivano offerti a vari gruppo californiani legati alla Davon Records. Quanto proposto da Almer, non sembra però aver avuto molto successo. Neanche l’amicizia con Brian Wilson lo ha molto aiutato, a quanto pare. Nel 2013 è stata l’etichetta Sundazed a renderlo grande, con una raccolta uscita proprio nell’anno della sua morte.

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WINDY A RUTHMANN FRIEDMAN SONGBOOK Più fortunata invece la carriera di Ruthmann Freidman, folksinger nata nel Bronx e trasferitasi in California giovanissima. Qui, Ruthmann impara a suonare Woody Gutrie e Pete Seeger ed entra

in contatto con Country Joe, Jefferson Airplane e Janis Joplin. L’incontro con Van Dyke Parks però, la cambia radicalmente. Nel seminterrato di David Crosby, la Friedman scrive “Windy”, brano che verrà reso celebre dagli Association (ancora loro). Si tratta della sua canzone più famosa, la 61esima più suonata negli Stati Uniti in tutto il secolo scorso. La Cherry Red Records ha realizzato”Windy: a Ruthmann freidman Songbook” che ripropone una serie di demo sia di brani come “Don’t say no” e “Candy Apple Cotton Candy” ripresi da gruppi minori, sia di brani rimasti inediti fino ad oggi. Nei brani proposti, Ruthmann suona un folk psichedelico con echi di Beach Boys e ovviamente Van Dyke Parks. Il cd è altamente raccomandato.

a cura di Lorenzo Briotti

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“CHI L’HA VISTI?”Ovvero: Breve scheda di identità di gruppi inutili scomparsi nel nulla e che (per ora) ci hanno risparmia-to una reunion ancora più inutile.

a cura di Mazzinga M.

JELLYFISHGENERE: Power pop. NAZIONALITÀ: Americana.FORMAZIONE: Andy Sturmer (batteria, tastiere, chitarra e voce); Roger Manning (tastiere e voce); Jason Falkner (chitarra, basso e voce) sostituito da Tim Smith (basso e voce) nel 1992. Piu’ una lunga sfilza di musicisti utilizzati nei live e nelle registrazioni in studio.DISCOGRAFIA: Bellybutton (1990, Lp); Spilt Milk (1993, Lp); Fan Club (2002, 4cd compilation di rarità e inediti) oltre a una vagonata di Ep e “Best of…” destinati principalmente al mercato statunitense e giapponese.SEGNI PARTICOLARI: Vittime dello tsunami Cobain. DATA E LUOGO DELLA SCOMPARSA: 4 aprile, 1994 a fine registrazione di una cover di un brano di Harry Nilsson: “Think about your troubles”.MOTIVO PER CUI SARANNO (FORSE) RICORDATI: Aver aperto per i Black Crowes e i Tears For Fears? O forse per aver ottenuto una nomination ai Music Awards MTV del 1991 per il video della canzone “The King Is Half-Undressed”? Oppure…boh?MOTIVO PER CUI DOVREBBERO ESSERE DIMENTICATI E MAI PIÙ RIESUMATI: Perché riascoltare nel 2014 i dischi dei Jellyfish dà la stessa “piacevole” sensazione di una nuotata in una vasca da bagno infestata da meduse. Nuotare per credere.

MOONPOOLS & CATERPILLARSGENERE: Indie poprock. NAZIONALITÀ: Piu’ o meno americana. FORMAZIONE: Kimi Ward Encarnacion (voce); Jay Jay Encarnacion (chitarra); Tim DePala (basso); Gugut Salgado (batteria).DISCOGRAFIA: The Pink Album (199�, Lp); Lucky Dumpling (199�, Lp); 12 Songs (199�, Lp). SEGNI PARTICOLARI: Filipino American. DATA E LUOGO DELLA SCOMPARSA: 6 giugno 199� al club “The Whisky A Go Go” durante la sera stessa dell’uscita di “12 Songs”.MOTIVO PER CUI SARANNO (FORSE) RICORDATI: La partecipazione al film della Disney “Aiuto sono mia sorella” (Wish Upon a Star – 1996) dove interpretano se stessi mentre suonano ad un tipico ballo scolastico americano. MOTIVO PER CUI DOVREBBERO ESSERE DIMENTICATI E MAI PIÙ RIESUMATI: Perché le disgrazie non vengono mai sole e una disgrazia tira l’altra… Due eventi tragici in Etiopia e nelle Filippine hanno portato dopo 1� anni di assoluta e benedetta inattività i M&C ad esibirsi in due concerti speciali a favore di queste martoriate popolazioni. Se queste due disgrazie portassero a una loro reunion - con tanto di disco nuovo - a quel punto tra i martoriati ci saremmo pure noi.