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Fabio Cavalli Breve storia della medicina I. Preistoria e mondo antico Anno Accademico 2019 /2020

Breve storia della medicina...medicina. Nel Proemio della sua opera più celebre, il De re medica, Celso riepiloga la storia della medicina dalla guerra di Troia fino ad Asclepiade

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Fabio Cavalli

Breve storia della medicina

I. Preistoria e mondo antico

Anno Accademico 2019 /2020

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Introduzione

Cornelio A. Celso, enciclopedista romano del I secolo d.C., viene considerato il primo storico della

medicina. Nel Proemio della sua opera più celebre, il De re medica, Celso riepiloga la storia della

medicina dalla guerra di Troia fino ad Asclepiade mostrando come la medicina degli antichi non solo

mantenesse, ancora ai suoi tempi, integra tutta la sua validità, ma che alcuni aspetti della medicina a

lui contemporanea ed in particolare quelli che contraddicevano gli assunti antichi (quelli di

Ippocrate, ad esempio) erano senza dubbio deteriori rispetto a questi ultimi.

Cinque secoli prima il medico greco Ippocrate (o forse un suo discepolo), nel trattato Sulla Medicina

Antica, ipotizzava che la nascita della medicina (e della gastronomia, sua parente strettissima) fosse

coincisa con l'uscita dell'uomo dalla "ferinità", ovvero dallo stato di natura. Secondo Ippocrate

l'adozione di un'alimentazione diversificata tra sani e malati, ovvero un'alimentazione consapevole

dello stato di salute, sarebbe stato il passo fondamentale per la civilizzazione dell'umanità. Medicina

(e alimentazione) era quindi considerata dagli Ippocratici una cultura e non semplicemente un

bisogno naturale. Per Ippocrate l'alimentazione degli "antichi", ovvero la medicina antica, era ancora

valida ai suoi tempi: bisognava solo apportare qualche correttivo, qualche adattamento, magari

rivedendola attraverso i nuovi strumenti forniti dalla speculazione filosofica sull'archè, ovvero sulla

Natura, oppure attraverso la speculazione sulle nuove e più frequenti malattie presenti nella società

del suo tempo.

In Ippocrate e in Celso non c'è la pretesa che la medicina a loro contemporanea sia migliore o

peggiore di quella dei predecessori: questo atteggiamento sarà proprio anche dei medici del

medioevo e della prima età moderna, a significare come non si fosse ancora diffusa l’idea di una

evoluzione della medicina ma che fosse invece chiara la consapevolezza di un suo adattamento ai

problemi peculiari di quel preciso momento storico.

Ben diverso sarà invece l'atteggiamento degli storici della medicina, specialmente di formazione

medica, del XX secolo: su una scia erroneamente evoluzionista, gli storici del '900 e specialmente

della sua prima metà decantarono le magnifiche sorti / e progressive della medicina moderna,

capace ormai di sconfiggere tutte le malattie del passato. Il fatto che la medicina a loro

contemporanea non fosse riuscita a debellare, se non parzialmente, le malattie principali del proprio

tempo è stato sottaciuto o fideisticamente rimandato ad un futuro certamente prossimo, radicando

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la convinzione che i medici del presente sono gli unici medici scientifici e quindi ben superiori ai

medici del passato, visti quali esercenti, spesso fraudolenti, di un'arte ben poco scientifica e quindi

ben poco efficace. Ad esempio il medico e storico inglese Charles Singer (1876-1960), considerando

la storia della medicina come strettamente correlata con la storia della scienza e con quella della

biologia in particolare, rigettò in blocco la medicina del passato.

In Italia l’influenza crociana prevalente nella formazione scolastica della classe medica del primo e

dell'immediato secondo dopoguerra ha portato ad un certo salvataggio della medicina d'epoca

classica, salvataggio dovuto probabilmente ad esigenze d'immagine tutte italiane mentre una triste

sorte ha colpito la medicina d'epoca medievale considerata mera superstizione o, al meglio,

ciarlataneria.

In queste pagine viene promossa invece l'idea unificatrice degli storici della medicina che mi hanno

preceduto di qualche secolo, sostenendo che la medicina mette assieme il lato biologico con quello

antropologico e sociale dell'uomo. In altre parole la medicina (d'ogni tempo e d'ogni latitudine) è

efficace perché contribuisce a mantenere lo stato di salute e a curare i malanni di quella determinata

società. In estrema sintesi, ogni società costruisce la propria medicina.

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LA PREISTORIA

Il nostro percorso inizia dalla Preistoria. Generalmente i manuali di Storia della Medicina iniziano

dal mondo greco dopo la discussione filosofica sulla Natura del VI secolo a.C. e, praticamente, con

la figura di Ippocrate, anche se qualche autore si spinge "coraggiosamente" indietro alla cosiddetta

medicina omerica (che di fatto non esiste) con un cenno alla medicina degli Egizi, ma solo allo

scopo di fornire un antefatto alla medicina greca d'epoca classica. Qui invece partiremo dalla

Preistoria e soprattutto dal Neolitico, periodo nel quale si formarono delle società strutturate

molto più complesse delle bande dei cacciatori-raccoglitori presenti nell’epoca precedente e dove,

grazie all'agricoltura e all'allevamento, l'umanità dovette fare i conti con qualcosa di nuovo,

ovvero la diffusione delle malattie infettivo-parassitarie, contro le quali una società non molto

numerosa come quella dei villaggi neolitici dovette necessariamente elaborare delle strategie

efficaci per non soccombere. Queste strategie sono esattamente quello che noi comunemente

intendiamo come medicina.

La ricca e stabile civiltà greca del VI secolo poteva permettersi una discussione filosofica sulla

Natura e quindi possiamo essere d'accordo (anche se con qualche riserva) con coloro che

affermano che in quel periodo si formò il pensiero medico occidentale. Ma la medicina è sia

pensiero che prassi e noi non siamo così sicuri che in epoche ben più remote di quella di Ippocrate

o della "scuola" di Cnido mancasse una prassi ed una teoria medica. Anzi, a ben guardare, alcuni

indizi sembrerebbero affermare il contrario.

Il Paleolitico

Il Paleolitico ebbe inizio circa 2 milioni di anni fa ed è il periodo durante il quale l'uomo ha

lentamente imparato a produrre, accumulare e trasmettere saperi, tecniche e strumenti per

adattarsi all'ambiente e trasformarlo.

L'uomo ha imparato ad accendere e usare il fuoco, a confezionare vestiti, a manipolare materie

prime per trasformarle in cibo, a lavorare pietra e legno per ottenere utensili, a perfezionare i

sistemi di comunicazione verbale.

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Per circa 140.000 anni prima della fine del Pleistocene, in un’epoca che chiamiamo paleolitico

superiore gli umani, ormai anatomicamente simili ai moderni (Homo Sapiens Sapiens), vivevano in

piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori relativamente mobili. Verso la fine del Pleistocene si

possono documentare alcuni esempi di forme di "religiosità" o perlomeno forme di

rappresentazione simbolica (e magica) del mondo reale assieme ad una cura sempre maggiore per

la sepoltura dei morti.

La società del Paleolitico è composta da bande di cacciatori-raccoglitori formate da poche decine

di soggetti in continuo spostamento alla ricerca di nuove nicchie ecologiche ricche di frutti e

selvaggina, con un'economia basata sul prelievo e non sulla produzione di beni. Più tardi e in

maniera sporadica, bande imparentate tra loro iniziarono a costituirsi in clan che professavano

una discendenza comune. Dal punto di vista dell’antropologia cultuale la banda / clan è una

società di tipo egualitario nel senso che manca di stratificazione sociale dove la preminenza

individuale non è stabilita attraverso regole di appartenenza di stirpe o di gruppo. Il ruolo di

preminenza non è formalizzato e si acquisisce con la personalità, la forza, l'intelligenza o l'abilità a

combattere. Nella banda o nel clan le risorse sono egualmente distribuite.

Alla fine dell'ultima glaciazione (glaciazione di Würm) si assiste ad una mutazione dei territori:

circa 14.000 anni fa i ghiacciai si ritirarono verso nord lasciando posto a foreste, laghi ed acquitrini;

in Africa il Sahara, ricco di vegetazione, si trasformò in deserto mentre il Vicino Oriente fu

interessato ad un clima più mite con precipitazioni stagionali che favorirono la crescita di cereali e

legumi spontanei. Questa nuova fase viene da molti indicata come Mesolitico e trova espressioni

molto diverse dal punto di vista geografico: di fatto nelle zone dove si poterono formare gruppi

umani stanziali dediti all'agricoltura se ebbe rapidamente il passaggio a quella fase culturale nota

come Neolitico. In pratica si passa dalla civiltà paleolitica a quella neolitica laddove si può

documentare il passaggio della società composta da cacciatori-raccoglitori a quella di agricoltori.

Dal punto di vista della medicina, intesa come strategia per il mantenimento dello stato di salute e

come correzione delle sue alterazioni, nulla ci è dato sapere, perlomeno al momento attuale delle

nostre conoscenze né tantomeno se fossero esistite figure specializzate in qualche modo

riconducibili alla figura del medico. D’altronde sono anche abbastanza scarse le notizie che

abbiamo a riguardo della dieta e dei suoi cambiamenti nel corso dei quattro milioni di anni di

evoluzione degli ominidi, tenendo conto che a dieta è strettamente legata al mantenimento dello

stato di salute. I siti archeologici anteriori a 10.000 anni fa sono rari e molti dei manufatti che

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erano presenti al tempo di formazione del sito sono scomparsi nel tempo. I residui organici di

pasti, che sono tra le nostre migliori evidenze della paleodieta, sono altrettanto molto rari.

Altrettanto dicasi per le piante, anche se l'archeobotanica ci può fornire un contributo importante.

Possiamo supporre, basandoci sui cambiamenti della morfologia cranica, come ad esempio la

gracilizzazione della mandibola e l'aumento della capacità cranica, un aumento nel tempo del

consumo carneo della linea Homo. D'altronde anche i manufatti litici di questo periodo indicano

l'importanza della caccia e della macellazione. Inoltre il dosaggio degli isotopi stabili di Carbonio e

Azoto nei resti ossei di soggetti del Paleolitico superiore e del Mmesolitico indicano un consumo

importante di carne animale, come d’altra parte sembra logico, in una società dedita

sostanzialmente alla caccia e alla raccolta di piante spontanee.

Il Neolitico

Attorno alla fine del Pleistocene si assiste al passaggio da uno stile di vita nomadico delle bande di

cacciatori-raccoglitori paleolitici ad un nuovo stile sempre più sedentario basato sulla

domesticazione di piante ed animali e dal successivo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento.

Questo passaggio avvenne grazie all’intervento di molti fattori tra i quali il cambiamento climatico

fu probabilmente quello più importante. Questa transizione si sviluppò, seppure in maniera del

tutto asincrona, in diverse parti del mondo e portò ad un cambiamento radicale degli stili di vita

delle persone e dei gruppi umani. Questo periodo, particolarmente complesso, viene chiamato

"Neolitico". Nella Mezzaluna Fertile e nel Levante la scomparsa precoce di condizioni climatiche

sfavorevoli e quindi la maggiore disponibilità di risorse portò ad una precoce sedentarizzazione dei

cacciatori - raccoglitori epipaleolitici1 già tra il 12000 e il 10000 a.C. La datazione al radiocarbonio

di resti biologici vegetali da siti neolitici ci indica che almeno dall'8500 a.C. nel Levante Antico

(l’attuale Palestina, Siria e Libano) e nella Mezzaluna Fertile si iniziano a domesticare il grano, i

piselli e l'olivo, mentre qualche secolo dopo si iniziano a domesticare pecore e capre. La

domesticazione del riso e del miglio risale in Cina intorno al 7500 a.C. mentre il mais, i fagioli e

la zucca e il tacchino vengono domesticati a partire dalla metà del IV millennio a.C.

Durante la neolitizzazione si consolida quel cambiamento culturale (oltreché materiale) che già

iniziava a manifestarsi durante l’Epipaleolitico, ovvero la cosiddetta “rivoluzione dei simboli” che

coinvolgerà l’intera visione del mondo attraverso una trasformazione che interesserà tutta la sfera

1 Nel Vicino Oriente il concetto di Mesolitico è sempre stato piuttosto problematico per cui si preferisce parlare di

Epipaleolitico pur corrispondendo, cronologicamente, al Mesolitico europeo.

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“psico-culturale” dell’uomo e della sua comunità.

In Europa a partire dal 6000 a.C. si hanno testimonianze del passaggio dalla civiltà mesolitica alla

coltivazione e all'allevamento, anche se di specie già domesticate precedentemente nel vicino

oriente. A queste fanno eccezione l'avena ed una pianta psicotropa: il papavero (Papaver

Somniferum), che era una pianta spontanea delle coste mediterranee occidentali.

A questo periodo risale a n c h e la domesticazione dell'asino e del gatto in Egitto mentre

nella valle dell'Indo la domesticazione del sesamo, della melanzana e dei bovini asiatici

avvenne circa un millennio prima.

Le società neolitiche sono caratterizzate, sin dal loro inizio dalla loro strutturazione in villaggi,

posti generalmente in prossimità di una sorgente d'acqua o lungo le rive o alla foce di un fiume

dove il terreno fosse più facile da lavorare e potesse essere irrorato da regolari esondazioni ma

anche dove fossero garantite la caccia e della raccolta spontanea: infatti non solo l’agricoltura

ebbe una penetrazione lenta in queste comunità di cacciatori – raccoglitori sedentarizzati ma la

caccia e la raccolta di vegetali spontanei quale fonte di sostentamento, di fatto, non cessarono

mai.

La struttura sociale del villaggio neolitico era generalmente quella della tribù, composta da alcune

centinaia di individui appartenenti a singoli clan, ovvero da gruppi con parentele2 riconosciute. Il

sistema di governo era ancora informale ed egualitario e non prevedeva classi. La specializzazione

del lavoro era minima: mancavano artigiani a tempo pieno ed ogni adulto in grado di eseguire

un compito (incluso il capo villaggio) partecipava alla raccolta, alla caccia o alla conservazione del

cibo. All’interno del villaggio esistevano in genere aree comuni per lo stoccaggio delle derrate

alimentari o per la sepoltura dei defunti. Con tutta probabilità l'industria litica e, successivamente,

quella ceramica veniva svolta (almeno la prima) da "botteghe artigiane" che prevedevano però

l'esportazione dei manufatti, per cui non era presenti in tutti i villaggi. Più tardi, con la formazione

di agglomerati antropici più grandi si assisterà ad una familiarizzazione delle sapienze, con

formazioni di famiglie (e classi) artigiane.

2 Il termine parentela ha qui un significato “allargato” e non significa necessariamente un rapporto di consanguineità.

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La diffusione delle malattie infettive

Rispetto alle bande nomadi dei cacciatori-raccoglitori paleolitici, i villaggi neolitici (e

successivamente le grandi città-stato) erano caratterizzati da una maggiore densità di popolazione

per sopperire ai bisogni dell'agricoltura3. Inoltre la domesticazione e l’allevamento comportarono

una maggiore vicinanza tra uomini ed animali con ovvi problemi di smaltimento degli escrementi

che, tra l’altro, venivano accumulati per servire da concime per i campi.

Bisogna tenere conto che le sette malattie infettive più letali della nostra storia recente (vaiolo,

influenza, tubercolosi, malaria, morbillo e colera), seppure al giorno d’oggi esclusivamente

caratteristiche della specie umana, derivano dall’evoluzione di malattie infettive animali. Inoltre le

caratteristiche epidemiologiche della maggior parte delle malattie infettive e parassitarie si

sviluppano più facilmente in sistemi promiscui uomo-animale specialmente se è presente

contaminazione degli alimenti con le feci (diffusione oro-fecale). Le tecniche di irrigazione e

piscicoltura, inoltre, facilitano la diffusione di molluschi vettori di parassiti multicellulari

(dalla schistosomiasi alle fasciole, che possono infilarsi nella pelle di chi si bagna a lungo in acque

contaminate), senza contare che il disboscamento produce un habitat ideale per lo sviluppo della

zanzara anofele, vettore della malaria. Lo stoccaggio di granaglie e più generalmente gli

insediamenti agricoli, inoltre, attirano i roditori, anch’essi veicoli di malattie diffusibili. Malattie di

tipo infettivo / parassitario dovevano essere quasi del tutto sconosciute alle bande di cacciatori -

raccoglitori che conducevano una vita nomade e che quindi abbandonavano regolarmente i

propri accampamenti (e i propri escrementi) ed avevano un contatto meno quotidiano con gli

animali se non con quelli selvatici e di aree sempre diverse. Inoltre il cambiamento di

alimentazione, sempre meno carnea e più basata sui cereali specie quelli minori (miglio e

sorgo), comportarono l’insorgenza di carie ed in genere di malattie dell’apparato masticatorio. Si

osserva anche una incidenza molto maggiore, rispetto ai cacciatori-raccoglitori, di malattie

degenerative dell’apparato scheletrico ed osteoarticolare, dovuto al gravoso lavoro di coltivazione

e raccolta. Insomma gli agricoltori neolitici avevano una minore speranza di vita rispetto ai

colleghi cacciatori ed inoltre erano funestati da malattie epidemiche e degenerative.

3 La densità della popolazione è ovviamente un concetto relativo ed è messo in discussione per la prima parte del

Neolitco (il cosiddetto Neolitico pre-ceramico). Probabilmente questo modello è più valido per i periodi finali del neolitico, però qui, per comodità, lo prendiamo come accezione generale.

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Qualcuno può chiedersi se la scelta del modello agricolo sia stata una scelta vincente per l'uomo,

ma è evidente che questo modello permetteva un minor rischio di “catastrofe alimentare” e

quindi una maggiore capacità riproduttiva. D’altronde la sedentarietà permetteva lo sviluppo di

nuove tecnologie e di nuove strategie per arginare la diffusione delle malattie, ovvero delle

forme idonee di medicina.

Non sappiamo come questa medicina primitiva fosse amministrata né le sue strategie

terapeutiche, che probabilmente erano diverse a seconda della geomorfologia degli

insediamenti e quindi della prevalenza dell’una o dell’altra malattia. Sta di fatto che pochi

millenni dopo, nelle grandi città-stato, troviamo testimonianze di una classe specializzata di

operatori della sanità che, tra l'altro, doveva far fronte alle stesse crisi del mondo neolitico

amplificate però dalla maggiore densità abitativa.

L’epoca dei metalli

Le tecniche della lavorazione dei metalli, dapprima del rame e delle sue leghe (rame arsenicato e

bronzo) poi del ferro, sono fenomeni che appaiono tra V e III millennio in alcune aree del pianeta e

sono generalmente appannaggio di tribù specializzate che migrano in cerca di giacimenti.

Il periodo dei metalli, che si incrocia da una parte col tardo neolitico e con la nascita delle civiltà

delle città-stato della Mezzaluna Fertile e la nascita della scrittura, dall’altra con gli insediamenti

più tardi in Europa legati a ondate migratorie di indoeuropei, è difficilmente inquadrabile nel

processo storico della medicina, anche se dobbiamo pensare che le guerre omeriche si possono

collocare in una società eneolitica (del bronzo) mentre gli Egizi possono, al loro apparire, essere

considerati una civiltà neolitica che si affaccia alla storia come d’altronde anche la civiltà ugaritica

o le altre civiltà del Vicino Oriente.

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La medicina nella Mezzaluna Fertile

Verso la fine del Neolitico si assiste alla trasformazione, nel Vicino Oriente, dei villaggi sorti nei

territori più fertili in insediamenti strutturati sempre più grandi, ovvero in vere città in cui la

popolazione svolgeva attività economiche diversificate. La produzione di eccedenze derivanti

dall’agricoltura e dall’allevamento permetteva agli abitanti di dedicarsi all’artigianato ed al

commercio fornendosi così di una nuova struttura sociale che superasse la semplicità delle società

di villaggio e tenesse conto delle nuove funzioni economiche, politiche e religiose attraverso la

redistribuzione del lavoro e la differenziazione sociale. Questa rivoluzione urbana ebbe la sua

piena fioritura durante la seconda metà del IV millennio nella Mezzaluna Fertile, ovvero nell’area

compresa tra l’alto corso del Nilo, le terre del Mediterraneo Orientale e la pianura della

Mesopotamia. Il fenomeno si estese anche più ad Oriente, fino a comprendere le due sponde

settentrionali del Golfo Persico. E’ da notare come all’epoca in queste zone la situazione climatica

fosse diversa dall’attuale, per cui la zona dell’attuale Iran orientale era traversata da corsi d’acqua

navigabili e quindi ricca di terreni fertili capaci di promuovere fenomeni di urbanizzazione.

MESOPOTAMIA

I greci chiamarono Mesopotamia la regione del Vicino Oriente compresa tra i fiumi Tigri ed

Eufrate, che scendono dai monti del Tauro e corrono paralleli per unirsi vicino alla foce nel Golfo

Persico. Abbiamo già visto il contributo di questo territorio della Mezzaluna Fertile nella

domesticazione di animali e piante a partire dal IX millennio.

La civiltà mesopotamica propriamente detta inizia con le immigrazioni dei Sumeri la cui

provenienza resta ancora incerta (forse provenienti dall’altopiano iranico o, meno probabilmente,

dall’India) che si insediarono nella parte meridionale della regione. L’ordinamento politico dei

Sumeri era basato sulle città stato, ognuna delle quali retta da un re-sacerdote. Nel III millennio i

Sumeri “inventano” una forma grafica per registrare i movimenti delle merci dai magazzini

cittadini: la scrittura, che verrà rapidamente adottata da altri popoli del Vicino Oriente. Dopo la

metà del III millennio la società sumera entra in crisi con l’arrivo degli Accadi, un popolo di origine

semita che occupava le terre del medio corso del Tigri. Il territorio venne unificato da Sargon il

Grande nel 2380 a.C. Nel 2150 l’impero Accadico subì una precoce eclissi da parte di popoli delle

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alture settentrionali, i Gutei che un secolo dopo furono a loro volta cacciati dai Sumeri signori di Ur

sino a capitolare definitivamente sotto gli Amorrei, che all’inizio del II millennio dettero vita a

nuove città stato indipendenti tra cui Babilonia, sorta sulle rive dell’Eufrate, nella parte

meridionale della Mesopotamia. Sotto la guida di Hammurabi (1792-1750 a.C.) Babilonia divenne

la capitale di un vasto impero che si estendeva dal Golfo persico ai territori settentrionali del Tigri

e dell’Eufrate.

Dopo la morte di Hammurabi la Mesopotamia fu devastata da ripetute scorrerie tra cui quella

degli Ittiti, passando poi sotto il dominio dei Cassiti, provenienti dall’Iran per circa quattro secoli.

Il crollo dell’Impero Ittita, posto nel vasto altipiano anatolico ed attivo nel contrastare la spinta

espansionistica mesopotamica ed egiziana, attorno al 1200, favorì l’ascesa degli Assiri,

popolazione dapprima attestata nelle zone dell’alto Tigri e che ampliarono i confini dell’Impero

sino al Mar Nero, espandendosi successivamente verso la fenicia, la Palestina, Cipro e l’Egitto. La

capitale dell’Impero fu trasferita a Ninive, dove fu creata una ricchissima biblioteca che conteneva

tutto il sapere del tempo. Nel 539 l’Impero cadde sotto la dominazione persiana.

La medicina

Bisogna ricordare che nello studio delle civiltà antiche assume un’importanza fondamentale la

ricostruzione della parola scritta. Quando andiamo ad analizzare le fonti scritte mesopotamiche ci

troviamo di fronte a una trasmissione arbitraria e irregolare di documenti: non tutte le questioni o

gli aspetti della vita sociale ed amministrativa sono egualmente coperti nel corso dei secoli ed

inoltre dobbiamo tener presente che la civiltà mesopotamica era fondamentalmente una cultura

orale in cui l'alfabetizzazione era limitata a una piccola élite, con il risultato che il corpus della

documentazione scritta rappresenta solo una piccola parte del quadro delle idee e delle credenze

babilonesi. Molti aspetti della medicina, in particolare le competenze tecniche su come ricomporre

le fratture o come si riconoscono le piante curative sono stati oggetto prevalentemente di

tradizione orale. Nonostante tutto questo il corpus dell'antica medicina babilonese che è

sopravvissuto fino ad oggi è impressionante: ci sono pervenuti più di mille testi scritti in

cuneiforme e impressi su tavolette di argilla anche se spesso frammentari.

I più antichi sigilli di medici professionisti risalgono al 3000 a.C. Nel codice di Hammurabi, databile

all’inizio del II millennio, sono contenute precise disposizioni su come un medico dovesse essere

ricompensato (o punito) per le sue prestazioni professionali. Grazie a questo testo e una serie di

tavolette compilate dalla corte di Assurbanipal (669-626 a.C.) e provenienti dalla biblioteca di

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Ninive, abbiamo un quadro abbastanza chiaro sulla concezione di malattia (e quindi anche di

salute) in questo periodo assieme a notizie sulle tecniche terapeutiche.

La medicina mesopotamica era sostanzialmente una disciplina di tipo religioso ed empirico per la

quale la malattia veniva considerata come un castigo inviato dalla divinità. Il medico si doveva

districare tra qualche migliaio di demoni utilizzando sistemi di mantica e divinazione, tra cui

l’osservazione degli astri. Anche la terapia non sfuggiva a questa logica: il malato doveva

necessariamente ingraziarsi la divinità o esorcizzare il demone responsabile della sua malattia

attraverso esorcismi, preghiere ed offerte. Comunque il medico disponeva di un consistente

armamentario di tipo farmacologico: ci sono pervenute notizie su circa duecentocinquanta piante

curative oltreché su alcuni rimedi minerali o di origine animale riportate negli elenchi delle

tavolette di Ninive. Formalmente la terapia aveva il compito di liberare il corpo dalla possessione

demoniaca. La chirurgia era prevalentemente limitata al trattamento delle fratture e delle ferite.

L’apprendimento e la pratica della medicina era appannaggio della classe sacerdotale, anche se,

probabilmente, medici ‘laici’ esistettero sin dai tempi più antichi. I sacerdoti che non si dedicavano

esclusivamente al culto sacrificale e alla preghiera esercitavano la mantica e la divinazione (i Baru)

mentre altri, gli Ashipu, praticavano esorcismi e scongiuri. Accanto a queste figure c’era il medico -

sacerdote (asu). Di un livello sociale inferiore, i gallabu effettuavano semplici operazioni

chirurgiche (come estrazioni di denti, drenaggio di ascessi, flebotomie).

E’ interessante notare come esistesse sistema di mobilità del personale artigiano qualificato

(scribi, indovini, poeti, medici, etc.), attivo nel Vicino Oriente, sin dalla Tarda età del Bronzo,

presso le diverse istituzioni dinastiche (Egitto, Babilonia, Hatti). Ad esempio, in una lettera inviata

al governatore di Babilonia Kadašman-Enlil II, il re Hattušili III (ca. 1265/60 a.C.) ricorda il dono di

una casa fatto al medico Rabâ-ša-Marduk, giunto a corte insieme ad un indovino alcuni anni

addietro, sotto il regno del fratello Muwatalli II (ca. 1290/72 a.C.):

Dite a mio fratello a proposito del medico che lui ha inviato qui: "Quando ricevettero il medico, egli

ha compiuto molte cose buone. Quando la malattia l'ha preso (si è ammalato) mi sono prodigato

costantemente a suo favore. Ho eseguito (fatto eseguire?) molte exispicine (vaticini per mezzo

dell’eptoscopia su una vittima sacrificale) per lui, ma quando è arrivato il suo giorno [...], è morto.

Dite (più avanti) a mio fratello: "Quando ricevettero un sacerdote esorcista e un medico durante il

regno del mio fratello Muwatalli e li ha trattenuti a Hatti, […] il prete esorcista è morto ma il

medico è vivo: la donna che ha sposato è una mia parente ed è proprietario, qui, di una bella casa”.

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EGITTO

La valle del Nilo era abitata, in origine, da popolazioni là migrate dopo la desertificazione dei

territori circostanti. Intorno al 3185 a.C. l’Egitto viene unificato da Narmer (tradizionalmente

indicato come Menes) che fonde insieme i due regni preesistenti dall’Alto e Basso Egitto. In questo

modo l’Egitto diventa uno Stato unitario, di fatto il primo della storia, con a capo un unico sovrano:

il Faraone. La principale ricchezza dell’Egitto era l’agricoltura, dato che le sponde del Nilo erano

particolarmente fertili grazie alla sua esondazione periodica mentre di minore importanza erano

artigianato e commercio. La società egizia aveva una struttura fortemente gerarchizzata di tipo

piramidale dove all’apice era situato appunto il Faraone, monarca teocratico, il suo apparato di

funzionari e ministri di culto alle dipendenze dirette mentre alla base, superiori solo agli schiavi,

stavano i lavoratori liberi, contadini ed operai.

Gli eventi storici dell’Egitto sono piuttosto complessi: per comodità si distinguono otto fasi che

vanno dall’unificazione di Menes sino alla conquista assira di Tebe nel 663 a.C.

- L’Antico Regno (3185 – 2150 a.C.), lungo periodo di pace e sviluppo economico e sociale

che vide consolidarsi il potere di Menfi, presso il delta del Nilo, come capitale e in cui

sorsero le grandi tombe faraoniche a forma di piramide. La crisi del periodo avvenne

attorno al 2230 con l’indebolimento del potere dei faraoni dovuto ad abusi di potere e

susseguenti rivolte, crisi che portò al cosiddetto primo Periodo intermedio che terminò nel

2040 con il

- Il Medio Regno, periodo nel quale il potere dei faraoni si consolida nuovamente. La capitale

fu spostata a Tebe e vennero annessi nuovi territori quali la Nubia e la Palestina. Viene

interrotto dall’invasione degli Hyksos del 1750, popolo asiatico che per la prima volta nel

mondo occidentale porta il cavallo ed il carro da guerra. Inizia così il secondo Periodo

Intermedio, durato circa 200 anni, dopo il quale l’Egitto riesce a recuperare l’unità

territoriale scacciando gli Hyksos dando inizio al

- Nuovo Regno (1540-1070 a.C.). Rappresenta l’ultimo periodo di splendore dell’Egitto

durante il quale vennero eseguite opere monumentali quali i templi Karnac e Luxor. I

confini dell’Egitto si estesero alla Siria a nord e all’Etiopia a sud. I tentativi di espansione

verso la Mesopotamia portarono allo scontro con gli Ittiti.

- La Decadenza (1070-663 a.C.) caratterizzata dalla pressione dei Popoli del Mare. Il lungo

impegno militare e la mancanza di sovrani energici e capaci portarono l’Egitto al declino,

fino alla conquista assira da parte di Assurbanipal. L’Egitto rimarrà sotto il controllo,

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successivamente, dei babilonesi e dei Persiani, fino all’annessione nell’Impero di

Alessandro Magno.

La medicina

Nella fase più arcaica la medicina egizia è prerogativa sacerdotale ed è di fatto una medicina di

tipo sapienziale. Diversamente dalla medicina di altre civiltà antiche, la medicina egiziana è una

pratica di tipo colto ed il ruolo della magia, pur presente, è limitato a qualche invocazione alle

divinità. I medici hanno una struttura fortemente gerarchizzata con al vertice il medico personale

del Faraone. A lui sono sottoposti i medici del palazzo reale, uno dei quali è il coordinatore di tutti

gli altri. Seguono gli ispettori dei medici, poi alcuni medici meno importanti, e infine i medici “di

base”. Questa strutturazione gerarchica appare comunque tipica delle società rette da un

capo/re/sacerdote: nella Bisanzio imperiale, ad esempio, la struttura sanitaria sarà gerarchizzata in

modo simile. Interessante, tra l’altro, la divinizzazione, attorno al 2700 a.C. di Imhotep, architetto

e medico, che diventa in questo modo un “dio culturale” a cui i medici fanno riferimento: vedremo

come nella Grecia arcaica qualcosa di analogo succederà ad Asclepio a cui, tra l’altro, Imhotep

verrà associato in periodo alessandrino.

Significativa e copiosa è la letteratura medica tramandata dai numerosi papiri egiziani che ci sono

pervenuti. Le fonti principali sono rappresentate dal papiro Ebers (1500 a.C. circa) ed dal papiro

Edwin Smith, a cui si affiancano i papiri di Kahoun, Hearst, Berlino, Londra, ed altri frammenti

minori.

Il Papiro Ebers è un lungo rotolo databile alla XVIII dinastia e più precisamente al regno di

Amenothep I. Il testo, che per le sue caratteristiche potrebbe essere molto più antico, è scritto in

ieratico e contiene, oltre ad un copioso ricettario, da un trattato sui vasi sanguigni che pone il

cuore come responsabile del polso e al centro di una complessa rete di vasi che portano

nutrimento alle membra. I rimedi per le malattie prevedono spesso un rituale che associa alla

somministrazione del farmaco la recitazione di preghiere e scongiuri.

Il Papiro Smith è dedicato alle lesioni e contiene un testo sicuramente dall'Antico Regno (2500

circa) anche se il papiro fu compilato all'inizio del Nuovo Regno (1540 ca.). Anch'esso scritto in

ieratico, comprende 49 osservazioni presentate in ordine topografico discendente (dal capo ai

piedi) riguardanti la chirurgia delle parti molli e la traumatologia.

Da queste fonti veniamo a conoscere molti aspetti della pratica medica egizia oltreché i presidi

farmacologici a disposizione del medico. Il papiro Ebers contiene circa novecento ricette dedicate

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alla cura delle più svariate malattie: un’analisi di questo armamentario farmaceutico ci mostra,

come d’altronde abbiamo accennato a proposito della medicina preistorica, una notevole

conoscenza delle proprietà delle piante medicinali.

Il medico visita il malato in tre fasi: ispezione dove valuta aspetto del paziente, stato di coscienza,

potere uditivo, odore, secrezioni; semeiotica: misura del polso, temperatura e osservazione delle

feci e delle urine; prognosi, ovvero l’affermazione della possibilità terapeutica: nei papiri è

generalmente indicata come “è un male che porta inevitabilmente a morte, quindi non curerò”, “è

una malattia che potrei curare”, “è una malattia che curerò”. Alla prognosi seguiva,

eventualmente, la terapia.

E’ interessante notare come Erodoto, lo storico greco del V secolo a.C. ci informi che i medici

egiziani siano divisi in “specialisti” di singole (o gruppi di) malattie: “L’arte della medicina è da loro

divisa nel modo seguente: ognuno è medico di una sola malattia e non di più. Ogni luogo perciò è

pieno di medici, perché ci sono medici degli occhi, e quelli della testa e dei denti, e quelli delle

malattie intestinali e quelli delle malattie nascoste”. (Storie,II, 84).

La medicina egizia, anche nel periodo di decadenza, continua ad essere considerata una medicina

particolarmente evoluta ed efficace anche dopo la conquista macedone e la sua ellenizzazione.

Le malattie

Il sistema agricolo egizio, come abbiamo detto, era un sistema di tipo neolitico legato alle regolari

esondazioni del Nilo, per cui la maggior parte delle malattie, come si può desumere sia dai papiri

medici che dall'analisi paleopatologica delle mummie, rientravano nell’ambito delle patologie di

tipo infettivo-parassitario. Malattie parassitarie come la schistosomiasi sono descritte nel papiro

di Ebers, mentre le mummie ci mostrano evidenze di vaiolo, poliomielite e tubercolosi ma anche di

malattie legate al ciclo alimentare come la trichinosi o la cisticercosi. Inoltre, attraverso l'analisi

immunologica dei tessuti mummificati si è potuta dimostrare l'esistenza del problema della

malaria, evidentemente legata agli di acquitrini formatisi dopo le esondazioni del Nilo e quindi alla

conseguente presenza di zanzare vettori.

Interessanti sono le evidenze di patologia dentaria: se la carie non rappresentava un particolare

problema (come d'altronde in tutte le civiltà antiche che consumavano pochi alimenti con zuccheri

semplici) le dentature egizie sono caratterizzate da forte usura della superficie occlusale dentaria

con frequente esposizione della polpa e formazione di ascessi, cisti apicali e fenomeni

osteomielitici mascellari e mandibolari. Questo elevato grado di usura dello smalto si può

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osservare nel caso di masticazione di alimenti particolarmente abrasivi, talora conseguenti ad uso

di macine di pietra costruite con materiale poco compatto. Alcuni studi ipotizzano la masticazione

frequente di steli di papiro (descritta dal filosofo-botanico Teofrasto nel III secolo a.C.) ricchi di

microscopiche particelle di silice (fitoliti).

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La Grecia

Nel Mediterraneo, a differenza della mezzaluna Fertile, il passaggio al Neolitico ed ai suoi

successivi sviluppi fu più tardo e prese direzioni differenti, specie nell’organizzazione politica degli

insediamenti. La geografia stessa dei luoghi e le possibilità di sfruttamento e di commercio portò

alla formazione di civiltà di villaggio talora molto sviluppate ma che non arrivarono mai

all’organizzazione delle città-stato mesopotamiche. Anzi, nel periodo più florido della civiltà greca,

la prima ad emergere tra i vari orizzonti culturali mediterranei, la città sarà organizzata in modo

tale da non avere un re / sacerdote a capo della comunità, ma altresì una oligarchia di tipo

terriero.

La civiltà minoica

Il processo di formazione della civiltà greca ebbe origine a Creta nel corso del II millennio: la civiltà

cretese o minoica. Intorno al 3200 a.C. le isole dell’Egeo, le coste della Troade e il Peloponneso

vengono interessate da un nuovo popolamento proveniente probabilmente dal nord mentre Creta

è invasa da popolazioni provenienti, probabilmente, dall’Anatolia. Verso il 2500-2400 a.C. nella

penisola balcanica e nell’Egeo si verificano altri spostamenti: Creta è di nuovo occupata da una

popolazione quasi sicuramente di origine anatolica: la memoria di questa invasione resta nel mito

che vuole i Troiani originari di Creta (Virgilio, Eneide 3.94). L’età del bronzo coincide con la

talassocrazia cretese: vengono costruiti i grandi palazzi di Cnosso, Festo e Mallia composti di vari

appartamenti, magazzini, sale e case dei sacerdoti e dei dignitari. Verso il 1700 questi palazzi sono

distrutti dall’invasione di altri popoli e da terremoti: nonostante questo vengono ricostruiti e l’isola

torna alla precedente fastosità. Tra il 1500 ed il 1450 i palazzi di Festo, Mallia e la villa di Hagia

Triada sono definitivamente distrutti da una catastrofe naturale. Verso il 1450 l’isola viene invasa

da una popolazione, questa volta di origine ellenica: gli Achei, che iniziano la cosiddetta civiltà

micenea. Verso la fine del XV secolo un altro disastroso terremoto mette fine alla civiltà micenea

di Creta, che peraltro già fioriva nel continente e che rimase viva sino all’inizio dell’XI secolo a.C.

L’organizzazione sociale nel periodo cretese più antico è quella del clan; dopo la distruzione dei

primi palazzi si verifica una concentrazione del potere nelle mani di Cnosso, il cui capo, per

tradizione, si chiamava sempre Minosse, rappresentante del Minotauro, il dio-toro di cui era re-

sacerdote. Al dio-toro in epoca micenea si sostituirà Zeus. La vita socio-economica è accentrata nel

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Palazzo dove fa capo la complicata rete dei funzionari. L’economia dell’isola era basata sull’attività

agro-pastorale ma era sviluppato il commercio, specie con l’Egitto.

Interessante l’aspetto religioso, probabilmente da remote origini matriarcali, con il culto di una

Dea Madre primigenia, la Pòtnia con le sue varie epifanie e di numerose divinità minori. Con la

civiltà micenea si ha la comparsa di nuove divinità che poi andranno a formare il pantheon

olimpico: Demetra, Era, Ilizia. Nei testi di Cnosso sono menzionati anche Zeus, Poseidone ed Ares.

Nonostante questo, le divinità micenee sembrano lontane da quel processo di differenziazione

descritto da Omero.

La medicina

La documentazione relativa desumibile dalle tavolette micenee non forniscono molte notizie a

riguardo dell’organizzazione della medicina minoico/micenea: solo due tavolette scritte in lineare

B ritrovate a Pylos nel 1939 riportano notizie sullo status di un medico (j-ia-te, poi iatros in greco) e

sull'uso di alcune piante medicinali. L'analisi dei resti scheletrici provenienti dalle sepolture

d'epoca micenea mostrano degli interventi di riduzione delle fratture impossibili senza l'intervento

di un medico / guaritore esperto, tanto più che, facendo il confronto fra due siti, uno con tombe

appartenenti alla classe "alta" ceretese ed uno con gli abitanti di un villaggio, le fratture ben

composte e saldate si ritrovano nei soggetti della necropoli della classe egemone.

A Creta inoltre sono stati documentati più di 25 santuari, spesso posti in alto su una cresta

montana così da renderli visibili dalla valle, in vista tra loro e raggiungibili facilmente. Lo scavo di

alcuni di questi santuari ha restituito numerose statuette di argilla usate come ex-voto: per lo più

animali o figure umani maschili e femminili, ma anche parti del corpo, alcune delle quali

chiaramente malate. Questi ritrovamenti, simili ai depositi di ex-voto dei santuari greci dedicati al

dio taumaturgo Asclepio, si possono datare sia all'epoca minoica che a quella micenea. Vi sono

inoltre testimonianze che i Cretesi conoscessero e apprezzassero le sorgenti termali e le acque

minerali. In ultima analisi, anche nel Mediterraneo orientale, probabilmente anche per scambi

culturali tra Creta, il vicino Oriente e l’Egitto, abbiamo testimonianze di una qualche sorta di

medicina organizzata sino dall’età del Bronzo Antico.

La Grecia Arcaica

Agli inizi del II millennio la Grecia venne progressivamente occupata da popolazioni indoeuropee

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culturalmente affini agli Ittiti: gli Ioni in Attica e in Eubea, gli Eoli in Tessaglia e Beozia. In seguito

ioni ed Eoli si trasferiranno sulle coste dell’Asia Minore. Gli Achei si insediarono nel Peloponneso,

creando cittadelle fortificate come Argo, Tirinto e Micene, la più importante e dalla quale deriva il

nome di civiltà micenea.

La struttura sociale degli Achei era di tipo tribale, con nuclei insediativi spesso in lotta tra loro e

quindi munite di una fortezza nella parte più alta dell’insediamento, l’acropoli, circondata da

mura. Sull’acropoli, oltre alla residenza del re, vi erano magazzini per le riserve alimentari nonché

aree pubbliche e sacrali. L’evoluzione dei villaggi fortificati achei va verso la formazione di

un’aristocrazia guerriera impiantata su una base produttiva di tipo agricolo e artigianale anche

fortemente specializzata come la metallurgia (con produzione di armi di bronzo) e commerci di

tipo prevalentemente marittimo. Furono i commerci a spingere gli Achei verso una politica

espansionistica verso l’Italia meridionale, le Cicladi, Rodi e l’Asia Minore. In questo contesto

colonialista ed espansionistico si colloca la guerra di Troia: la città asiatica rappresentava un

ostacolo per i commerci tra l’Egeo e il Mar Nero. Troia venne attaccata e distrutta nel 1250 a.C. da

una coalizione di principi greci comandata da Agamennone, re di Micene. La vittoria su Troia segnò

però il tramonto della potenza achea, sia per l’impegno di risorse economiche ed umane, sia per lo

sforzo e i contrasti sorti tra le città per il controllo delle nuove colonie e delle rotte commerciali.

Questa situazione favorì intorno al 1200 l’invasione dei Dori, popolazione indoeuropea che si era

stanziata da tempo nella valle del Danubio. Micene venne distrutta e molti centri minori vennero

abbandonati e gli Achei vennero confinati in una piccola regione del Peloponneso, l’Acaia.

La medicina

Alcuni aspetti del mondo greco arcaico si possono cogliere attraverso i poemi omerici, in cui l’arte

della medicina viene mostrata nella sua duplice veste: quella di tipo medico-magico e quella

empirico-razionale.

La prima si esplicita attraverso una tradizione che porta a Chirone, il migliore dei Centauri (mostri

originari della Tessaglia) descritto come educatore e maestro dell’arte sacra della medicina. Tra i

suoi “allievi” il principe tessalo Asclepio, che Chirone istruì “nell’arte dei blandi rimedi” (Iliade IV,

219). Di Asclepio parleremo in un capitoletto a lui dedicato ma qui è interessante notare che tra le

file degli Achei militano i due figli dell’eroe tessalo, cioè Podalirio e Macàone, descritti nell’Iliade

come “i due buoni guaritori”. Di questi figli di Asclepio però l'Iliade ci dice che erano presenti tra le

file achee principalmente come guerrieri tanto è vero che li vediamo combattere al pari degli altri

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eroi. Macaone, come d'altronde suo padre Asclepio, è chiamato "guaritore senza macchia", un

aggettivo frequentemente applicato ai guerrieri nella poesia epica ed il suo ruolo come "pastore

del suo popolo" non sembra che gli venga attribuito solo per le sue abilità mediche. Come

guaritore Macaone rimuove frecce, estrae sangue avvelenato ed applica "medicamenti leggeri" a

Menelao ferito, con risultati efficaci ed immediati. Podalirio invece non è mostrato in azione da

Omero, omissione questa rettificata da un poeta epico più tardo, Artino, nel suo "Sacco di Troia".

Mentre suo fratello è impegnato con le ferite di Aiace, Podalirio, che può "riconoscere l'invisibile e

curare l'incurabile" osserva il luccichio nell'occhio del paziente che rivela i pensieri gravosi che

sfoceranno nel suicidio dello stesso Aiace. Altrettanto significativo è il fatto che i due fratelli

esercitino la loro attività medica senza l'aiuto degli dei.

La seconda veste, quella empirico-razionale è rappresentata, questa volta nell’Odissea, dai medici

“della stirpe di Pèone” ovvero dai medici dell’Egitto, terra che, a parere d’Omero “produce molti

farmaci, molto buoni e, misti con quelli, molti mortali; e ognuno è medico, esperto al di sopra di

molti uomini, perché stirpe sono di Pèone” (Odissea, IV, 230-232).

Qualcosa di analogo si ritrova nei poemi omerici a proposito delle cause dell’insorgenza delle

malattie: se da una parte queste sono inviate direttamente da un dio, altrove sono

“naturalmente” provocate dagli eventi bellici, quali ad esempio le ferite da taglio o da punta,

quest’ultime più spesso dovute ad una freccia. In questi casi Omero appare accurato nella

descrizione del tipo di ferita e nella terminologia adottata, tanto da far pensare non tanto ad

Omero come “medico militare” come fantasiosamente ebbe a sostenere Frölich oltre un secolo fa

quanto ad una società guerriera in qualche modo permeata dalla medicina e dal suo lessico. Da

notare che nell’Odissea i medici sono menzionati all’interno di un elenco di artigiani di valore

(Odissea, XVII, 383-385)4: sono questi i medici demiurgoi che praticano la loro arte per vivere e

sono portatori di una tecnica e di un’esperienza lungamente tramandata. In assenza di altre fonti è

perlomeno lecito ipotizzare che in epoca omerica ci fosse una categoria di medici itineranti, figure

che invece troviamo sicuramente nel periodo successivo, ovvero dopo la conquista dei Dori e il

“silenzio” del cosiddetto medioevo ellenico.

4 Chi mai vorrebbe altrove recarsi a cercare un estraneo (α λλοθεν), / qualora alcun non sia degli uomini esperto ne

l’arti (δημιοεργοι) / profeta, o sanatore di morbi, oppur d’ascia maestro, / oppure pio cantore che rechi diletto col canto? Il termine "demiurghi" (che nella traduzione è reso come "degli uomini esperto") è formato dal tema di "demos" (il "popolo", la "gente") e dal tema del verbo ergazomai ("operare", "lavorare"). Si tratta di lavoratori "autonomi", cioè che non dipendono da un padrone, anche provenienti da altri paesi (àllothen) e che lavorano per il "demos" in generale.

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La medicina sacrale

Nonostante che, quando parliamo di medicina, ci si riferisca costantemente a quella disciplina

codificata che proviene dall'esperienza e da una solida base scientifica, non possiamo ignorare il

fatto che l'arte della guarigione (o della salute, a seconda dei punti di vista) possieda due anime,

ovvero che esistano almeno due strade parallele che il guaritore può percorrere: una via razionale

e "scientifica" (la medicina come la intendiamo nell'accezione comune) e una via sacrale, magica e

informale, che noi siamo oggi portati a chiamare "superstizione". Queste due anime hanno

convissuto per millenni ed ancora convivono in alcuni aspetti della nostra società: l'incubatio o

l'abluzione nella fonte sacra del mondo antico ha i suoi echi e gran parte dei suoi riti e miti nei

treni della speranza verso i grandi santuari o nei luoghi classici della guarigione miracolosa, come

Lourdes. E, si badi bene, non si sta parlando di una medicina deteriore, di una superstizione da

vecchie beghine, ma di un rapporto diverso tra l'uomo e l'immenso mondo del trascendente, del

divino e delle sue manifestazioni nella Natura.

La medicina sacrale viene denominata in vari modi dagli storici: medicina magica, carismatica,

superstiziosa, addirittura popolare, come se il popolo, entità astratta ma deteriore nel pensiero di

tanti intellettuali, fosse per sua natura cieco e smarrito e usasse favole al posto di quella vera

scienza che la Civiltà (il maiuscolo è dell'intellettuale) benignamente ci dona.

A ben guardare le cose non stanno proprio così, altrimenti dovremmo dare dei superstiziosi a quei

medici che hanno curato per secoli (e con efficacia) i loro simili senza sapere che il cuore non è il

centro del calore vitale ma un organo muscolare specializzato o che ignoravano l'esistenza del

DNA o dell’apoptosi. E' un fatto di statuto epistemologico, il che rimanderebbe a discorsi molto

complessi che in questa sede non possono essere fatti se non con un minimo accenno. In pratica,

schematizzando molto, la medicina fa parte tradizionalmente delle Scienze della Natura, anche se

occupa una posizione singolare: la medicina non è infatti una scienza con uno statuto

epistemologico assimilabile a quello delle scienze naturali e sperimentali. Pur servendosi infatti

delle conoscenze di numerose discipline quali la fisica, la chimica, la biologia, la genetica,

l'anatomia, la fisiologia, e pur adottandone il rigore metodologico, si differenzia da queste perché

il suo oggetto non è totalmente misurabile e sperimentabile né vi si possono applicare

automaticamente forme di conoscenza ritenute esatte e neutrali. Nessuna scienza è ritenuta oggi

neutrale, e meno ancora di tutte la medicina, che si muove in una realtà antropologica

intrinsecamente etica e refrattaria ad ogni forma di riduzionismo. La medicina s'interessa

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dell'essere umano come soggetto individuale e personale in una dimensione costitutiva del suo

essere, quella reale o possibile, di uomo o donna malati.

Per questa sua caratteristica la medicina scientifica ha potuto convivere, non senza più o meno

marginali fenomeni di osmosi, con la medicina di tipo carismatico e informale, per sua natura

umanistica e inesatta: se poi la crisi della scienza novecentesca con l'avvento dell'oggettivismo

scientistico e della tecnicizzazione pragmatica (e quindi della perdita del lato filosofico della

scienza) ha mirato ad eclissare "l'altra medicina" magari inscatolandone gli aspetti utili in discipline

più rassicuranti (come ad esempio l'inutile razionalismo dell'omeopatia) questo è un problema

diverso e comunque funzionale alle esigenze di una società come quella in cui stiamo vivendo.

Tra l'altro bisogna osservare che se lo studio della storia della medicina scientifica occidentale (che

poi è il tema del nostro corso) è piuttosto complesso per i cambiamenti avvenuti nelle varie

epoche e per il lungo periodo analizzato, per la medicina carismatica la cosa è molto più semplice

dal punto di vista storico quanto enormemente più complessa dal punto di vista antropologico. Più

semplice dal punto di vista storico perché "l'altra medicina" ha fenomeni di lunghissima durata tali

che possiamo trovare idee e gesti quasi immutati da un millennio ad un altro. Bisogna stare attenti

però a distinguere il nucleo sacrale della medicina "popolare" dal risultato della sua

contaminazione con la medicina scientifica, fatto questo che è presente in tutte le epoche e che

vale non soltanto per l'arte della salute. Il nucleo centrale, valido per tutte le epoche e in qualche

modo per tutte le culture, è piuttosto semplice e si basa sul fatto che l'uomo ha la possibilità di

controllare la Natura attraverso due strumenti fondamentali: l'uso della potenza di un dio o

comunque di un'entità trascendente oppure la conoscenza di arcani segreti della Natura stessa

capaci di modificarla secondo i voleri dell'operatore. Nel primo caso si ha la preghiera nelle sue

varie forme oppure la teurgia vera e propria (intesa come quell'insieme di pratiche volte a

costringere la divinità a assecondare i voleri dell'operatore), nel secondo si assiste all'osservazione

della Natura e la pratica della cosiddetta magia naturale, indipendente dalla presenza o addirittura

dell'esistenza di una divinità. Qualcuno ha voluto vedere nella magia naturale l'antenata della

scienza moderna ma probabilmente non è così: se la magia naturale assomiglia alla scienza

moderna è solo perché indossa un abito simile e porta con sé strumenti simili. Ma l'analogia finisce

qui perché il modo di guardare la Natura e i suoi segreti è radicalmente diversa. Infatti da una

parte c'è un atteggiamento pragmatico e finalizzato (l'obbedienza della Natura al mio volere)

mentre dall'altro c'è la ricerca oggettiva della conoscenza, spesso afinalistica.

C’è confusione, a mio parere tra la medicina magico-sacrale e la medicina empirica tradizionale,

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proprio per il loro diverso ambito di pensiero: nel lavoro dei rizothomai greci5 non c’è nulla di magico

o meglio di teurgico, ma c’è invece il risultato di un’esperienza di terapia empirica di lunghissima

durata, cosa ben differente dall’azione terapeutica della incantatio ovvero dei carmi terapeutici, atto

realmente magico-cerimoniale in cui la potenza terapeutica è evocata da precisi atti e gesti augurali.

D’accordo che ambedue le pratiche sembrano essere estranee alla medicina di base “filosofica” o

diremmo scientifica, ma non bisogna dimenticare che il medicamento e il coltello sono presidi

terapeutici basati sull’esperienza prima che sulla teoria e che se bisogna aspettare la teoria

sistematica galenica per avere una base “scientifica” della farmacologia, quest’ultima non sembra

essere altro che una sistematizzazione di un’evidenza terapeutica antichissima.

Tra l’altro, a mio parere, questa suddivisione tra medicina magico-sacrale e medicina “scientifica”

è molto più antica rispetto alla discussione in abito greco sulla Natura, discussione che viene

tradizionalmente considerata il punto di partenza della medicina scientifica. La stesso Ippocrate,

nel suo Dell'Antica Medicina ci narra la nascita di un’arte medica come differenziazione dalla

culinaria: questa nata per cibare i sani e mantenerli in salute, l’altra per correggere lo squilibrio

dato dalla malattia. Quindi secondo Ippocrate nei primordi dell’umanità si assiste alla nascita di

una medicina empirica, cioè nata dall’osservazione, come probabilmente avvenne. Che poi questa

medicina “razionale” fosse contemporanea ad una medicina di tipo sciamanico, come ancora era

presente nei “popoli di natura” osservati dagli antropologi del secolo scorso, questo è molto

probabile e non è escluso che le due cose non fossero praticate assieme.

l culto di Asclepio

Asclepio è un re della Tessaglia descritto da Omero che, come abbiamo visto, segnala la presenza

dei suoi due figli, Podalirio e Macaone, tra le schiere dell’esercito acheo. Al pari dell’egizio

Imhotep, di cui ne diventerà nel mondo alessandrino l’alterità (assieme a Serapione), Asclepio

viene divinizzato, seppure dopo il VI secolo, quale dio taumaturgo a cui dedicare templi che

fungano da centri dove l’autorità del dio si incroci con l’esercizio di una medicina di tipo

sapienziale gestita dalla classe sacerdotale. Prima di allora Asclepio era venerato come eroe

culturale, archetipo della figura del medico “senza macchia” e di cui si dichiareranno discendenti le

famiglie di medici itineranti che tra VIII e VI secolo cercheranno di stringersi in una corporazione

per ottenere un riconoscimento della loro professionalità. La figura del medico itinerante è tipico

5 Nella medicina greca i rizotomai (letteralmente i tagliatori di radici) si occupavano della preparazioni di farmaci.

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di una cultura di villaggio, come doveva essere quella della Grecia arcaica della tarda età del

bronzo, in cui la divisione della produzione probabilmente riguardava esclusivamente i beni

materiali, lasciando l’amministrazione della salute o a figure carismatiche di villaggio o a

“professionisti” itineranti che esercitavano la medicina dopo averne apprese le tecniche attraverso

la tradizione familiare. Questo tipo di professionista specializzato itinerante è simile ad esempio

alle tribù preistoriche di lavoratori del metallo, che conoscono i segreti della metallurgia e dell’arte

fusoria e che possono spostare i propri centri di produzione a seconda dei propri bisogni. In fondo

la medicina è sempre stata considerata un’arte “meccanica” (technè) e, come vedremo, solo in

alcuni momenti della storia sarà considerata anche scienza. La divinizzazione di Asclepio come

abbiamo visto avvenne nel VI secolo, anche se il culto si diffonde e radica due secoli dopo, in un

momento cioè in cui si comincia ad assistere ad una rivoluzione socio-economica nelle città

greche. L’incremento demografico dovuto al diffuso miglioramento delle condizioni di vita

comincia a complicare sensibilmente la situazione sanitaria specialmente degli agglomerati urbani.

I templi di Asclepio saranno la soluzione all’aumentata richiesta di salute (bene che diventa

sempre più prezioso all’aumentare del benessere sociale): strutturati come centri di accoglienza e

cura riuniranno in sé l’autorità del dio medico all’empirismo dei suoi sacerdoti (e medici).

Il culto di Asclepio si impone stabilmente ad Epidauro alla fine del VI sec. a.C. . Il santuario era fuori

città, collegato a questa da una strada fiancheggiata da statue. Nei portici antistanti aveva sede

l’àbaton, dove i malati passavano la notte immersi nel “sonno incubatorio”. Nel recinto si trovava

la thòlos, il pozzo sacro dove dimoravano i serpenti sacri al dio e dove i malati lasciavano le loro

tavolette votive. Il malato, dopo un rito di purificazione obbligatorio per essere ammesso al

cospetto del dio, dormiva per almeno tre notti nell’abaton nella speranza di essere visitato da

Asclepio ed ottenere miracolosamente la guarigione. In caso contrario la cura della sua affezione

veniva presa a carico dai sacerdoti del tempio. Bisogna puntualizzare che probabilmente la

divisione dei compiti all’interno del personale del tempio doveva prevedere un ruolo distinto tra

sacerdote del dio e terapeuta, cioè medico: per Epidauro non abbiamo notizie se non di rari

sacerdoti esperti in medicina, il che significa che questa veniva esercitata da medici ‘laici’. Il culto

di Asclepio avrà una durata molto lunga: importato a Roma nel III secolo a.C., lo troviamo ben

radicato in tutto il Mediterraneo tanto che, in periodo bizantino, il suo culto (al pari di quello di

Serapione) passerà senza particolari differenze nella figura di santi taumaturghi quali Cosma e

Damiano o Artemio.

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La Grecia classica e il fenomeno ippocratico

L’invasione del Peloponneso nel XII secolo da parte dei Dori, popolo di origine indoeuropea,

determinò una drastica rottura col passato ed un marcato regresso economico. Il periodo che va

dal XII al IX secolo a.C. è noto, per quanto riguarda la Grecia, come “medioevo ellenico” e fu

caratterizzato dal ritorno ad una civiltà rurale basata sul villaggio con regressione dell’artigianato e

del commercio. I villaggi erano organizzati in senso tribale ed erano retti da un basiléus (di fatto un

re-pastore) affiancato dai capifamiglia, gli aristoi, che andranno assumendo sempre maggiore

importanza con l’aumentare della loro potenza economica fino alla formazione di nuclei cittadini

non retti da un basiléus ma da un consiglio di aristocratici (repubbliche aristocratiche). Verso la

fine del IX secolo, grazie anche all’introduzione di nuove tecniche di aratura e coltivazione, si

assiste ad un notevole incremento demografico e alla ripresa delle attività commerciali che

metterà in crisi il modello oligarchico aristocratico con l’avvento di nuove classi sociali quali i

contadini-piccoli proprietari, gli artigiani ed i mercanti. Intorno all’VIII secolo la Grecia è dotata di

città-stato indipendenti e sovrane, le poleis, regolate da leggi scritte che in qualche modo

tentavano di affermare la predominanza dello Stato sull’aristocrazia terriera. Nel frattempo, sia a

causa dell’incremento demografico sia a causa delle violente lotte politiche, ebbe inizio la

cosiddetta seconda colonizzazione (per distinguerla dalla colonizzazione d’epoca micenea)

secondo tre direttrici principali: a nord verso la Macedonia, la Tracia e il Mar Nero, a sud verso il

litorale della Cirenaica, a ovest verso le coste dell’Italia Meridionale, della Sicilia orientale, della

Francia meridionale del meridione della Spagna. La massiccia espansione coloniale favorì lo

sviluppo del commercio e dell’artigianato in Grecia e l’esportazione dei modelli di vita sociale e

politica negli insediamenti coloniali, che ebbero una notevole influenza sullo sviluppo delle

popolazioni italiche.

Tra la seconda metà del VII e la prima metà del VI secolo si afferma in alcune città quali Atene,

Argo, Mileto e in alcune colonie, il modello della tirannide come strumento di contrasto

dell’aristocrazia e di redistribuzione della ricchezza. Alla fine del VI secolo, dopo il rovesciamento

della tirannide, Atene realizzò una profonda riforma della sua costituzione che segnò la nascita di

un modello di democrazia basato sulla drastica riduzione dei privilegi aristocratici, l’uguaglianza

dei cittadini di fronte alla legge, la libertà di parola nelle assemblee e la titolarità del potere

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attribuita al popolo (nonostante che i diritti politici restassero riservati ai cittadini maschi originari

dell’Attica e di Atene). Il modello ateniese non fu l’unico modello politico e amministrativo delle

città greche: in questo periodo una gran parte delle città erano tirannie ed una città addirittura

strutturata su un modello legislativo più arcaico, estremamente conservatore e militarizzato:

Sparta.

Il ventennio delle Guerre Persiane (499-477 a.C.), dovute al tentativo delle colonie della Ionia di

affrancarsi dalla pesante influenza persiana (499 a.C.) comportarono, dopo una iniziale crisi

economica, il consolidarsi dell’egemonia di Atene attraverso la lega Delio-Attica ed una particolare

floridezza economica e culturale delle città greche e della stessa Atene che raggiunse l’apogeo con

l’ascesa al potere di Pericle (460 circa).

La politica imperialista di Atene fece aumentare il malessere tra le poleis alleate e acuì i contrasti

con le città che facevano capo alla Lega Peloponnesiaca, tradizionalmente legata a Sparta e che

vedevano minacciati i propri interessi dall’espansione politica ed economica ateniese. La guerra

scoppiò nel 431 a.C., durò quasi trent’anni ed ebbe uno svolgimento molto complesso che alla fine

comportò il tramonto dell’egemonia ateniese sancendo così il primato di Sparta nel mondo greco,

primato peraltro di breve durata. Alla fine di questo periodo di guerre fratricide durato circa

settanta anni, le poleis avevano ormai esaurito le loro potenzialità politiche e, nonostante che

l’economia greca fosse ancora complessivamente florida, le lotte fra i partiti e gli egoismi

esasperati da una cultura basata sul profitto e la ricchezza resero la Grecia facile preda di una

società più arretrata dal punto di vista culturale ma più sana dal punto di vista etico e soprattutto

fortemente militarizzata come quella macedone.

Prima di Ippocrate

Della medicina greca anteriore al V secolo a.C. si sa abbastanza poco: alcune tracce si possono

dedurre dai tragediografi greci o dagli storici posteriori, quali ad esempio Erodoto.

Tradizionalmente si fa partire la medicina greca da Talete di Mileto anche se questo rispecchia più

la convinzione di una certa storiografia che vuole la nascita della medicina “razionale” legata allo

sviluppo della Filosofia della Natura che ad una realtà fattuale. Sta comunque di fatto che uno dei

medici più importanti del VI di cui abbiamo notizie, seppure un poco romanzata da Erodoto, è un

pitagorico crotoniate, ovvero Democede da Crotone. Purtroppo i rapporti tra pensiero pitagorico e

medicina ci sfuggono e dell'unico supposto "medico" crotoniate (a parte Democede) ovvero

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Alcmeone da Crotone, è in dubbio non solo il suo status di medico, ma addirittura la sua

appartenenza alla "scuola" pitagorica. Di fatto non è possibile dimostrare un rapporto tra filosofia

e medicina in questo periodo, se non attraverso chiare forzature. Invece è indubbio che nelle città

della Magna Grecia, come d’altronde nelle città della madrepatria, si praticasse la medicina e che

questa facesse parte di un modello sociale garantito a tutti i cittadini.

Esemplare ci pare la figura di Democede: sfrondando la biografia un po’ leggendaria riportata da

Erodoto, dalla città natale lo ritroviamo alcuni anni dopo come medico pubblico (e consigliere

politico) ad Egina ed Atene e successivamente addirittura alla corte persiana di Dario I (che regnò

dal 522 a.C. al 486 a.C.), dove erano già presenti medici di corte egiziani e con cui ebbe a

confrontarsi. Democede è quindi un “medico itinerante” di grande levatura professionale che

agisce nel solco di una tradizione di demiurgoi che abbiamo già visto in epoca omerica e nei

modelli possibili del medio e vicino oriente.

Ippocrate

Per molti storici (e soprattutto per quelli di impostazione filosofica) la medicina occidentale nasce

nell'ambito della discussione ionica sulla Natura, quindi tra VI e V secolo a.C.

In effetti, il nuovo assetto sociale ed il benessere economico furono un terreno particolarmente

favorevole alla diffusione di discussioni su questioni di natura astratta: tra le coste italiche e quelle

dell’Asia Minore, in poco più di un secolo, nacque quel fenomeno di prima elaborazione teorica

generale sulla Natura che porterà alla nascita del pensiero scientifico occidentale. Il problema,

ovvero il limite di questo tipo di approccio alla medicina della Grecia è il non tenere conto del fatto

che, come abbiamo visto, la medicina è una disciplina pragmatica, di cui il lato speculativo o

diremmo oggi “scientifico” rappresenta un aspetto importante più per il medico che per la

medicina, legata in quanto disciplina pratica ai bisogni e alle peculiarità epidemiologiche e

territoriali delle malattia da curare.

Come abbiamo visto la colonizzazione greca delle coste orientali dell'Egeo e dell'occidente italico

ebbe delle conseguenze notevoli: l'espansione e l'incremento degli scambi commerciali e delle

attività artigianali ed industriali e l'introduzione della moneta favorirono la formazione di una

nuova classe di commercianti ed artigiani, che progressivamente misero in crisi il predominio della

aristocrazia terriera conservatrice, riuscirono a promuovere una redistribuzione della ricchezza e a

creare un novo benessere sociale, anche se certamente non diffuso a tutti ma certamente a molti

di più rispetto alle generazioni precedenti e soprattutto alla creazione di un modello di vita

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cittadino notevolmente migliore di quello delle poleis ancorate al modello rurale. Il VI secolo è un

periodo particolarmente vivace nell'arte, nella musica, nella filosofia e dotato di una società

cittadina capace di apprezzarle. E la società cittadina è anche in grado di apprezzare come mai

prima il valore inestimabile della salute.

Ippocrate nacque nell’isola di Cos, di lingua dorica, ma facente parte della confederazione ateniese

(nel 460 a.C.) ed apparteneva alla famiglia degli Asclepiadei, rinomata per il suo sapere medico,

che sosteneva di discendere da Asclepio. Esistevano tre rami della famiglia degli Asclepiadei,

relativi a tre località: l’isola di Rodi (ramo rapidamente estinto), la penisola di Cnido e l’isola di Cos,

due centri medici, questi ultimi, di grande reputazione. Dopo aver svolto una prima parte della

sua vita a Cos, acquisendo grande notorietà e raggiunta la piena maturità, Ippocrate lasciò l’isola

per andare in Grecia, più precisamente in Tessaglia, culla dei suoi progenitori6. Ippocrate ebbe due

figli, Tessalo e Dracone, e una figlia di cui sappiamo solo che sposò un allievo del padre, Polibo, che

più tardi prese la guida della “scuola”. Ippocrate morì tra il 375 e il 351, in Tessaglia.

Ippocrate era celebre ancora da vivo: secondo Platone, suo contemporaneo, egli era già

considerato il medico per antonomasia, come Fidia di Atene o Policleto di Argo erano gli scultori

per eccellenza, ed era già famoso sia per il suo insegnamento sia per alcune sue teorie. Anche

Aristotele cita Ippocrate, definendolo grande non per statura ma per talento (Politica 1326 a 15).

Notizie biografiche più dettagliate ci giungono inoltre dalla Vita di Ippocrate di Sorano, medico del

I-II sec.d.C., dalla Suda7 e dal filosofo bizantino Giovanni Tzetzes (XII secolo d.C.) oltreché da

Galeno (II sec. d.C.).

La tradizione ci ha trasmesso, a nome di Ippocrate, un Corpus di circa 70 opere, il cui il nucleo

principale venne composto fra gli ultimi decennî del V secolo e la prima parte del IV. Altre opere,

sicuramente posteriori, possono essere datate fino al II o al I secolo a. C. All'interno del nucleo più

antico coesistono scritti di orientamento teorico assai differente sia dal punto di vista filosofico

che dal punto di vista propriamente medico; alcuni di essi, come il celebre Giuramento,

potrebbero essere riferiti a sette mediche di orientamento pitagorico (anche se la critica filologica

è propensa ormai ad attribuirlo completamente ad Ippocrate), altri alla cultura sofistica (come il

6 Questa figura del medico itinerante non è comunque stata inaugurata da Ippocrate: il prototipo fu in realtà

Democede di Crotone che ebbe una carriera sfolgorante e, dopo molte traversie tra cui la schiavitù presso i Persiani, divenne suo malgrado medico alla corte di Dario. 7 Opera enciclopedica bizantina del X secolo d.C.

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trattatello Sull'arte), altri ancora ai naturalisti presocratici. Anche tra le opere propriamente

mediche esistono così profonde differenze di teoria e di metodo che esse sono state attribuite a

scuole diverse e rivali come le scuole di Coo e Cnido8. Il Corpus si formò probabilmente all'inizio del

III secolo a. C., nella fase della costituzione della biblioteca di Alessandria; qui furono raccolte le

opere mediche più autorevoli che, per ragioni di prestigio editoriale, vennero ascritte al più

famoso medico della tradizione classica, ovvero Ippocrate, indipendentemente dai loro contenuti

dottrinali. L'uso introdotto dalle scuole mediche di Alessandria, di commentare gli scritti delle

autorità mediche antiche, avrebbe poi rafforzato l'attribuzione a Ippocrate di un gran numero

degli scritti del Corpus.

Non è mai esistita, probabilmente, una vera e propria "scuola di Cnido", e la stessa esistenza di

una "scuola di Coo" (dotata cioè di una omogeneità dottrinale e di una regolare formazione

medica dei discepoli) risulta anacronistica per un'epoca come quella tra il V e il IV secolo, quando

non esistevano in nessun settore scuole e biblioteche destinate alla formazione regolare degli

allievi. Si dovrà piuttosto pensare a relazioni di tipo artigianale tra singoli maestri e rispettivi

discepoli. Nel caso dei maestri più famosi come Ippocrate di cui sono attestate pubbliche lezioni

ateniesi, queste relazioni si saranno a volte estese nella forma di corsi pubblici a pagamento e

attraverso una più vasta circolazione dei testi trascritti di queste lezioni.

L'identificazione della figura storico-culturale di Ippocrate è strettamente legata all'interpretazione

delle testimonianze antiche su di lui, in primo luogo a quelle di Platone nel Fedro e poi a quella del

cosiddetto Anonimo Londinense, un dossografo forse appartenente alla scuola di Aristotele.

Platone dice sostanzialmente che Ippocrate seguiva un metodo secondo il quale non era possibile

curare la singola malattia, e il singolo paziente, "senza conoscere la natura del tutto".

Noi conosciamo la figura di Ippocrate sia attraverso molte leggende ma soprattutto grazie a quello

che, fortunatamente, ci hanno preservato i “bibliotecari” alessandrini. Da questo materiale, che

abbiamo visto essere eterogeneo, possiamo sintetizzare il pensiero medico ippocratico in tre punti

principali:

1) Dare alla medicina uno statuto epistemologico tenendola però separata dalla filosofia della

Natura;

2) Trasformare la medicina da un'arte familiare a una disciplina che possa essere insegnata ad

altri;

8 Attribuzione sulla base della testimonianza, peraltro tarda, di Galeono.

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3) Ribadire la capacità del medico, fatta di acume, esperienza e conoscenza, di esprimere una

diagnosi e fornire una terapia adeguata.

Quello di Ippocrate è chiaramente un atteggiamento rivoluzionario che gli varrà fama imperitura

anche perché nel suo sforzo di affermare definitivamente il ruolo "sociale" del medico, di fatto

promuove la medicina stessa quale disciplina autonoma e razionale. Ippocrate quindi scrive quel

libro straordinario che è Sull'Antica Medicina dove rimanda ad un passato molto lontano la

"nobiltà" della sua arte. Ma la sua è un’arte che si differenzia dalla filosofia della Natura, da quella

ricerca dell’arché dei filosofi greci o italici, ma assume delle caratteristiche sue peculiari:

“Dicono certi medici e filosofi che non sarebbe in grado di conoscere la medicina chi non sapesse

"che cosa è l'uomo", e che questo appunto deve prendere chi desidera curare correttamente gli

uomini. Ma il loro discorso ricade sulla filosofia, come appunto di Empedocle e di altri, che hanno

scritto "sulla natura", descrivendo "dal principio" ciò che è l'uomo e come in origine è apparso e di

quali elementi è formato. Dal canto mio io penso che quanto da filosofi o da medici è stato detto o

scritto sulla natura, è meno pertinente alla medicina che alla pittura.

Io ritengo invero che una scienza in qualche modo certa della natura non possa derivare nient'altro

se non dalla medicina, e che sarà possibile acquisirla solo quando la medicina stessa sarà stata tutta

quanta esplorata con metodo corretto; ma da ciò si è molto lontani, dico dal conquistare un esatto

sapere su ciò che è l'uomo, sulle cause che ne determinano la comparsa, e altre simili questioni”.

Per Ippocrate quindi il medico non deve essere un filosofo della Natura : l'antica medicina (e anche la

medicina di stampo filosofico) non aveva ancora nessuna articolazione realmente scientifica, perché non si

poteva ritenere scienza la dottrina degli elementi. Soltanto la medicina può muoversi verso il campo della

conoscenza del "tutto" inteso però come "tutto il corpo" e "tutto l'ambiente naturale e sociale" dove

l'uomo agisce:

... mi sembra necessario che il medico sappia sulla natura (...) che cos'è l'uomo in rapporto a ciò che

mangia e a ciò che beve e a tutto il suo regime di vita e quali conseguenze a ciascuno da ciascuno

cosa derivino ...

Insomma per Ippocrate non ha importanza per il medico sapere "che cosa è l'uomo" ma invece "che cosa è

l'uomo in relazione a", ovvero di accertare volta per volta la situazione fisiologica e le influenze che sulla

fisiologia possono avere gli agenti esterni. localizzando gli eventi in sequenza nel tempo e nello spazio.

Ma per Ippocrate tutto questo sforzo per ottenere una conoscenza e una narrazione della medicina è

indispensabile una solida metodologi, come dichiara ne” le Epidemie":

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“Questi i fenomeni relativi alle malattie, dai quali traevo le mie conclusioni, fondandole su quanto

v’è di comune e quanto di individuale nella natura umana; sulla malattia, sul malato, sulla dieta e su

chi la prescriveva (ché da ciò dipendono sviluppi favorevoli o funesti); sulla costituzione generale e

specifica dei fenomeni celesti e di ciascuna regione; sui costumi, il regime, il modo di vita, l’età di

ognuno; sui discorsi, i modi, i silenzi, i pensieri; sul sonno e sull’insonnia, sui sogni - come e quando

-, sui gesti involontari - strapparsi i capelli, grattarsi, piangere -; sui parossismi, le feci, le urine, gli

sputi, il vomito; e sulla concatenazione delle malattie - quali derivino dalle passate e quali generino

in futuro e sugli ascessi, se son segno di morte o di crisi, sul sudore, i brividi, il freddo, la tosse, gli

starnuti, il singhiozzo, il respiro, i rutti, le flatulenze (silenziose o rumorose), le emorragie, le

emorroidi. Sulla base di tutto ciò, si estenda l’indagine anche a quanto ne consegue”.

L’ambizioso progetto ippocratico ebbe successo anche perché sfruttò un momento

particolarmente favorevole: in quel momento la florida società greca delle città era pronta per

recepire il suo messaggio.

Che successe nel mondo greco dopo Ippocrate? Intanto, ancora lui vivo, suo cognato Polibo

tradisce il suo dettato teorico scrivendo l’opera Della natura dell'uomo, e lo tradisce così bene da

doverne essere quasi giustificato. Noi Polibo non lo ricordiamo mai, ma probabilmente il vero

genio del marketing didattico medico è stato lui. La linea indicata da Ippocrate, infatti, era

straordinariamente ardua: il rifiuto di cristallizzarsi in dottrina e in sistema la rendeva di difficile

comprensione concettuale, e insieme la sua trasposizione alla spiegazione naturalistica e alla

pratica terapeutica del medico non poteva certamente apparire agevole. Ci voleva qualcosa di più

semplice, chiaro e "spendibile". Polibo non esita ad avvalersi delle teorie delle scuole mediche

italiche, di fatto abbastanza estranee al pensiero ippocratico, per ottenere una dottrina solida e di

fatto meccanicistica da cui dedurre agevolmente, via via, i singoli dettami per l'attività del medico,

dalla diagnostica alla terapia. Il punto di partenza gli era offerto dalla dottrina delle qualità e degli

elementi, dottrina che spiegava la natura sulla base di un gruppo di realtà sostanziali derivanti

dall'osservazione della natura stessa e che potevano essere ricondotte, grazie alla loro

autosufficienza sia logica che empirica, a sistema. Tuttavia Polibo non poteva certamente rifiutare

d'un tratto il patrimonio della scienza coa ed ippocratica, di cui era l'erede. Da questa tradizione

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riprende la "veduta" umorale che, derivata in parte da Alcmeone, era valsa ad Ippocrate a

rivendicare la dinamica - oggi diremmo - chimico-fisica dei processi organici, contro ogni tentativo

di trasporre direttamente la fisica alla biologia. Ma per Ippocrate, come per Alcmeone, gli umori

erano di numero e qualità indefiniti e potevano trasmutare l'uno nell'altro: quello che importava

era che il processo di reciproco contemperamento si svolgesse in modo armonico ed equilibrato;

mentre, dal punto di vista della diagnosi essi rappresentavano uno dei tanti fattori che agivano

nell'organismo, da cogliere come gli altri con l'attenta penetrazione del caso singolo guidata da

una chiara consapevolezza metodologica.

Ma Polibo non poteva rinunciare ad una semplificazione della teoria ippocratica, ovvero alla

creazione di un sistema semplice e di facile apprendimento. Alla fine opta per un sistema

quaternario: prende quindi i due umori indubbiamente più importanti e presenti qua e là nel

pensiero di Ippocrate, il flegma e la bile, forzando la distinzione di quest'ultima in gialla e nera ed

accostandovi il sangue, umore senz'altro più importante per Empedocle che non per Ippocrate.

Questa serie umorale “semplificata” poteva così rappresentare, nella Natura dell’Uomo, la pietra

angolare del sistema, su cui costruire una narrazione efficace dell'organismo e del suo stato di

salute o di malattia e quindi quella più direttamente correlata con la pratica della medicina.

Insomma Polibo trasforma, semplificandolo, Ippocrate in un manuale di medicina. Il successo

dell’operazione fu tale che il mondo antico conoscerà Ippocrate leggendo comunque l'opera di

Polibo ma credendolo autenticamente ippocratico.

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La medicina d'epoca ellenistica

Nella parte nord-orientale della penisola ellenica, ovvero nella Macedonia, stava nascendo una

forza nuova. Intorno al IV secolo a.C. la società macedone era una federazione di tipo tribale con

una capitale, Pella, dove risiedeva un re affiancato da un consiglio di capitribù. Nel 359 a.C. salì al

trono di Macedonia Filippo che, dopo aver ridotto a suo vantaggio il potere dei capitribù, iniziò

una politica espansiva verso la penisola ellenica grazie anche alla creazione del più formidabile

strumento di guerra del mondo antico: la falange, ovvero un’impenetrabile muraglia di sedici file

di fanti, armati di lance lunghe e capace di marciare su ogni terreno e di compiere qualsiasi

evoluzione senza rompere la compattezza delle file e senza indebolire la propria forza d’urto.

Dopo aver conquistato la Tracia e le sue miniere d’oro, Filippo invase la Grecia e la sottomise.

Morto Filippo durante la preparazione di una campagna per sottomettere la Persia, gli succedette

nel 336 a.C. il giovane figlio Alessandro, che si adoperò subito a consolidare l'egemonia macedone

sulla Grecia e si apprestò ad attuare la conquista dell'Impero persiano. Alessandro sottomise i

Persiani in soli tre anni, dal 334 al 331 a.C. . Dopo la caduta di Persepoli e la morte di Dario, si

manifestò in Alessandro l'aspirazione a un nuovo “Impero universale”, che riportasse un certo

ordine nella crescente confusione politica dei suoi tempi (su di lui svolse sicuramente un ruolo

importante l'educazione ricevuta da Aristotele). In questa ottica vanno letti l'assunzione dei rituali

di corte orientali, l'espansione dei confini, che facesse coincidere il Regno con il mondo conosciuto

e l'unificazione amministrativa e culturale delle regioni conquistate. La creazione di un esercito e

di una classe di funzionari misti favorì un ampio processo di fusione fra popolazioni greche e

orientali (koinonía, comunanza), sorretto dall'introduzione di una moneta unica, del greco quale

lingua ufficiale comune (koiné), nonché dalla cura per la rete di comunicazioni stradali.

La conquista dell'India, condotta senza particolari difficoltà militari, occupò gli anni dal 327 al 325.

Arrivato al Punjab, davanti al rifiuto delle truppe di proseguire oltre, Alessandro decise per il

ritorno verso la Persia, mentre un'altra parte dell'esercito risalì l'Indo fino alla foce del Tigri in un

viaggio che fu occasione di scoperte geografiche ed etnografiche di notevole rilievo. Alla vigilia di

una nuova spedizione verso l'Arabia, nel 323, Alessandro morì di malaria. Alla sua morte le diverse

province dell'Impero furono governate dai suoi generali, i diadochi. La rivalità presto accesasi tra

questi e i loro successori segnò un cinquantennio di lotte che portarono allo smembramento

dell'Impero macedone con la formazione dei regni ellenistici, monarchie a base territoriale

governate da dinastie stabili, dei quali i maggiori furono: il Regno di Macedonia, il Regno di Siria e

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il Regno d'Egitto (280 a.C.), quest'ultimo con capitale ad Alessandria.

La medicina alessandrina

L'Ellenismo è il periodo che va dalla morte di Alessandro all'unificazione del Mediterraneo da parte

di Augusto (30 d.C.), caratterizzato dalla diffusione dei valori e della cultura greca. In campo

religioso e filosofico si manifestò una nuova sensibilità verso culti e dottrine orientali, che spesso si

sovrapposero a quelli tradizionali (sincretismo). L'Accademia platonica raggiunse uno sviluppo

notevole, mentre le grandi scuole filosofiche (stoicismo, epicureismo, cinismo, scetticismo), che si

proponevano di alleviare le sofferenze umane, godevano di ampia diffusione.

La medicina razionale greca trova ad Alessandria d'Egitto un terreno particolarmente adatto per il

suo sviluppo: l'ambiente cosmopolita della capitale della dinastia dei Tolomei, instauratasi dopo la

dissoluzione dell'Impero macedone, offrì ai medici greci un ambiente ideale per condurre le

proprie ricerche. I sovrani Tolomei infatti, tentavano di rafforzare il proprio prestigio all'interno del

mondo ellenistico anche attraverso la promozione della cultura: durante il regno di Tolomeo II

Filadelfo (308 – 226 a.C.) vengono fondati la Biblioteca ed il Museo, quest'ultimo modellato sulla

base del liceo ateniese e deputato ad accogliere gli studi letterari e scientifici. Ma Tolomeo II

continuò di buon grado l’opera di suo padre, Tolomeo I già diadoco di Alessandro Magno, che

aveva richiamato In Alessandria molti dotti del tempo, tra cui il filosofo peripatetico Demetrio

Falereo, il fisico Stratone di Lampsaco o il filologo e poeta Filita di Cos. Dato che l'egemonia dei

sovrani dell'Egitto si estendeva all'Egeo, Cos e Cnido comprese, fu anche agevolata l'immigrazione

ad Alessandria dei maestri della medicina greca, radicati tradizionalmente nelle due isole. Tra

l'altro proprio ad Alessandria, ovvero nella sua Biblioteca, vennero raccolti i testi della grande

tradizione medica del V e del IV secolo che confluiranno, per una operazione di riunione

enciclopedica da parte dei bibliotecari alessandrini, nel Corpus Hippocraticum.

La figura di medico cambia: non più il professionista itinerante di tradizione greca privo di qualsiasi

supporto istituzionale e legato, per la sua sopravvivenza, al prestigio ed alla capacità terapeutica

ma un nuovo soggetto culturale e professionale che racchiude nella sua disciplina sia la pratica

diagnostico-terapeutica sia l'esercizio di una ricerca teorica relativamente disinteressata alla

terapia. Quest’ultima, che appare come uno dei tratti nuovi e distintivi del medico ellenistico, era

stata trascurata dal medico 'ippocratico' dei secoli precedenti, che non poteva coltivare la ricerca

non finalizzata alla pratica per motivi di tempo e per mancanza di adeguate strutture 'pubbliche' di

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sostegno. Tra l'altro fu proprio questo 'surplus' scientifico a nobilitare (e in ultima analisi anche ad

elevare socialmente) il medico alessandrino.

Dopo l’inizio del III secolo a.C., infatti, le fonti non menzionano più l’appellativo di ‘Asclepiadi’ dato

ai medici, ovvero decade l’emblema che conferiva loro sia una riconoscibilità socio-culturale che

una forma di protezione divina contro i possibili sospetti di contaminazione dell’arte. Al posto del

mondo relativamente omogeneo degli Asclepiadi, la professione medica conosce ora una netta

divaricazione: da una parte stanno gli appartenenti ai gruppi dell’alta ricerca come quelli legati al

Museo e in generale agli ambienti elevati delle monarchie ellenistiche, di norma di cospicua

estrazione sociale e di alto livello culturale, mentre da un’altra parte e posta più in basso nella

scala sociale sta la dispersa moltitudine dei medici praticanti e itineranti, ai quali è precluso

l’accesso sia alla ricerca teorica sia alla scrittura dei trattati in cui questa ricerca si esprime. L'unità

della technè, propria della tradizione ippocratica, ed espressa in una scrittura diffusa ed anonima,

viene cosi infranta: da un lato il magistero ed i testi dei grandi scienziati come Erofilo ed

Erasistrato, e dei loro allievi riconosciuti per affiliazioni di scuola, dall’altro l’oscuro anonimato dei

professionisti periferici e secondari, neppure più riconoscibili attraverso la comune appartenenza

alla ‘famiglia’degli Asclepiadi.

La tradizione ippocratica aveva focalizzato la medicina sul problema della malattia, della sua

diagnosi e della terapia. Inoltre la concezione ippocratica del corpo era quello di una 'scatola nera'

dove entravano cibi, bevande e stimoli e uscivano escrementi, reazioni, umori. D'altronde per il

medico 'ippocratico' l'apertura di questa scatola nera non rivestiva particolare importanza visto

che nonostante tutto (com'è d'altronde logico), la disciplina si era concentrata su un'esperienza

clinica straordinaria basata sull'attenta osservazione del malato, su una semeiotica puntuale e su

scelte efficaci di strategia terapeutica basate sulla triade dieta / farmacologia / chirurgia di cui la

prima rappresentava la grande conquista del pensiero ippocratico.

In Alessandria il 'surplus' scientifico di cui abbiamo parlato parte dalla riconsiderazione del profilo

del sapere medico con un cambiamento importante di rotta: non più focalizzare l'arte sul

problema della malattia ma su quello dello 'stato naturale' cioè della salute. E' un cambiamento di

prospettiva radicale quello degli alessandrini che porterà, tra l'altro, al superamento del tabù

dell'apertura del corpo e quindi agli studi anatomici e anatomo-fisiologici, ovvero all'apertura della

'scatola nera'.

Le innovazioni sono in gran parte da riportare ad un gruppo ristretto e ben definito di personaggi:

Prassagora di Cos ed Erofilo di Calcedone da un verso e Crisippo di Cnido ed Erasistrato di Ceo

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dall'altra, in qualche modo rappresentanti delle due grandi correnti di pensiero medico della

Grecia classica. Erofilo ed Erasistrato sono ambedue attivi il primo ad Alessandria ed il secondo

dapprima ad Antiochia e poi probabilmente nella stessa Alessandria tra il 330 ed il 250 a.C.

Prassagora è attivo a Cos, nella seconda metà del IV secolo a.C. ma non è provato che abbia mai

viaggiato fuori dell'isola. Maestro di Erofilo studia, tra l'altro, la posizione e le caratteristiche dei

vasi, la collocazione dell’esofago e della trachea, l’origine dei nervi dal cuore, l’origine dello

sperma, il calore innato. Prassagora restò fedele alla tradizione ippocratica dal punto di vista

clinico e terapeutico, accogliendo peraltro le teorie aristoteliche per quanto riguardava i principi

anatomo-fisiologici. Erofilo corresse alcune teorie fisiopatologiche del maestro, pur restando

legato alla tradizione clinico-terapeutica ippocratica, studiò l'anatomia del cervello e del cranio,

dei nervi ottici e dell'occhio nonché dei visceri addominali e delle ghiandole sessuali. Una sua

opere "sulle pulsazioni" si spiega il fenomeno del polso come contrazione e rilassamento

involontari delle pareti arteriose, attraverso le quali scorre il sangue misto a pneuma.

Di Crisippo di Cnido possediamo poche notizie, se non che si distaccò dai principi della vecchia

medicina di stampo ippocratico. Erasistrato, suo allievo, nasce a Ceo, isola dell'arciplago delle

Cicladi, in una famiglia di medici e si forma e vive in un contesto culturale scientifico di

prim’ordine: sposa, in terze nozze, la figlia di Aristotele, ha relazioni professionali ed è favorito

nelle ricerche scientifiche dai sovrani ellenistici dei suoi tempi: Antioco II Soter e Tolomeo II. Studia

tra l'altro l'anatomia del cuore e i vasi, il sistema nervoso, il funzionamento del diaframma nella

respirazione.

La felice stagione della medicina alessandrina ebbe termine con l'ascesa al trono, nel II secolo a.C.,

di Tolomeo Evergete, sovrano brutale e impopolare, sopranominato dal popolo Τρύφων Φύσκων,

cioè “ciccione” e, dopo l’omicidio e lo smembramento del proprio figlioletto Tolomeo VII,

Kakergete, ovvero “malfattore”. Lo sorico Mènecle di Barce ci ricorda che il sovrano “espulse tutti

gli intellettuali: filologi, filosofi, insegnanti di geometria, musicisti, pittori, maestri delle scuole,

fisici e altri, col risultato che ciò portò altrove l'educazione, a Greci e barbari, come disse un autore

che potrebbe essere stato una delle sue vittime.”

Di fatto Mènecle registrò con amarezza la sostituzione di Alessandria come capitale della cultura

con la grande e giovane nuova potenza dell’Occidente: Roma.

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L'Italia preromana e l'epoca romana

I più antichi abitanti dell'’Italia di cui abbiamo notizia furono, in età neolitica ed eneolitica, i Liguri

e gli Umbri nelle regioni settentrionali, i Siculi nell’Italia centro-meridionale e i Sicani in Sicilia.

Alcuni di questi popoli appartenevano alla cosiddetta razza mediterranea, di origine sconosciuta,

altri (Umbri e Siculi) erano di ceppo indoeuropeo. Più tardi, un notevole numero di popolazioni,

collegate tra di loro a gruppi e tutte di razza indoeuropea, occupò la penisola. Questi popoli, che

noi designiamo in complesso col nome di Italici, occuparono la parte centrale e meridionale

dell’Italia, mentre i Siculi passarono in Sicilia, respingendo i Sicani nella parte occidentale dell’isola.

GLI ETRUSCHI

A partire dal IX-VIII secolo troviamo stanziato nell’Italia centro-settentrionale, con centro

nell’attuale Toscana, un popolo non indoeuropeo, quello degli Etruschi, dotato di una civiltà assai

progredita e abbastanza originale e che fu per parecchi secoli il popolo più importante della

penisola. Sui complessi problemi della loro origine si ricorda soltanto che le teorie attuali più

accreditate vorrebbero gli Etruschi provenienti dalle coste dell'Anatolia, e quindi facenti parte dei

cosiddetti "Popoli del Mare" insediatisi a partire dal X secolo a.C. nelle coste dell'attuale Toscana

ricche di giacimenti minerari, sovrapponendosi ad una più antica popolazione locale. Nell’VIII sec.

a.C. noi troviamo gli Etruschi nelle attuali Toscana, Lazio settentrionale e Umbria. Nel corso del VII

e del VI sec. essi ampliarono notevolmente i loro territori nel nord e nel sud della penisola

valicando a nord l’Appennino e occupando quasi tutta la Pianura Padana. Nella loro spinta verso

sud occuparono gran parte del Lazio e la Campania settentrionale. Stabilirono infine delle stazioni

lungo la costa della Sardegna e della Corsica. L'espansione etrusca ebbe però una breve durata.

Alla fine del VI sec. gli Etruschi, battuti dai Latini, dovettero abbandonare il territorio posto a sud

della basse valle del Tevere, mentre nel 474 Gerone di Siracusa sconfisse quelli di loro che erano

rimasti in Campania. Le incursioni continue del celti, iniziate prima del VI secolo a.C. distrussero i

centri della pianura padana. In Nel V sec. e nel IV secolo i Romani conquistarono poi ad una ad

una le città etrusche: con la distruzione di Volsinii, nel 265 a.C., tutta l’Etruria cadde in potere di

Roma. L'indipendenza amministrativa dei centri etruschi terminò con la "Lex Iulia" dell'89 a.C.,

anche se la documentazione nella scrittura etrusca insiste fino alla metà del I secolo d.C.

Gli Etruschi erano organizzati in città-stato indipendenti che si riconoscevano in una federazione

ed erano retti da un sovrano, il lucumone, che di fatto aveva poteri monarchici anche se era

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affiancato da un consiglio degli anziani e da un'assemblea popolare. Se all'inizio della loro storia

non si notano segni di una distinzione in classi all'interno della società questa invece comincia ad

apparire nella seconda metà dell'VIII secolo a.C., verosimilmente per l'apertura di commerci con il

Mediterraneo orientale associata all'espandersi di centri locali di produzione, anche di beni di

lusso. Alla fine dell'VIII secolo la società etrusca sembra organizzata in classi con a capo una ricca

aristocrazia che verrà affiancata successivamente da un ceto di artigiani e di mercanti.

La medicina

La medicina etrusca, nonostante qualche tentativo di "nobilitazione" da parte degli storici della

medicina, non sembra particolarmente diversa da quella praticata dalle altre popolazioni

protostoriche, come per dire che non esistono notizie di una medicina strutturata o nelle mani di

uno specifico professionista. Il ritrovamento di fegati (ovini) in bronzo per scopi mantici o qualche

tarda tavoletta ex-voto nonché la presenza di "protesi" dentarie con evidente significato rituale

non aggiungono granché alla nostra conoscenza. Probabilmente, come vedremo anche per la

medicina romana sino all'epoca repubblicana, la medicina era esercitata dal pater familias e quindi

rientrava in quella categoria dei poteri carismatico-informali comuni nell’organizzazione sociale e

religiosa delle popolazioni più antiche.

Roma

I Latini sono presenti nel territorio del Lazio centro-meridionale dal II millennio a.C.,

probabilmente migrati dall'Europa danubiana così come gran parte delle popolazioni italiche

presenti nell'Italia Centro-meridionale. Nella tarda età del bronzo e lungo tutto il secondo

millennio i latini si strutturano in piccoli villaggi collinari ad economia agricolo-pastorale che

andarono via via federandosi tra loro sulla base di una identità politico-religiosa. In questo

periodo il villaggio centrale e dove era presente il tempio della divinità principale, era Albalonga

che rimase la capitale sino alla sua distruzione da pare di Tullio Ostilio, cioè quando uno dei villaggi

principali ovvero Roma, iniziò una politica di supremazia territoriale.

Roma viene fondata, secondo la leggenda, nel 753 a.C. e subisce precocemente l'influenza etrusca

nel periodo monarchico (753 - 509 a.C.). Espulso dalla città l'ultimo re etrusco e instaurata

una repubblica oligarchica nel 509 a.C., la città visse un periodo contraddistinto da una parte

dall'espansione territoriale a spese delle popolazioni italiche vicine e dall’altra dalle lotte interne

tra l'aristocrazia terriera (che si era consolidata nell’Italia Centrale) e le nuove realtà economico-

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sociali.

Divenuta padrona del Lazio, Roma condusse diverse guerre per la conquista della penisola italica,

dalla zona centrale fino alla Magna Grecia. Nel III e nel II secolo inizia l'espansione verso il

Mediterraneo e verso l'Italia settentrionale: la vittoria su Cartagine e la conquista di Numanzia

sulla penisola iberica la renderannono, di fatto, una potenza marittima incontrastata che le

permetterà anche l' espansione verso oriente e il predominio del Mediterraneo.

L’espansione territoriale e della popolazione necessitano una ridefinizione della "res publica",

ovvero dello stato. Le soluzioni suggerite dai diversi uomini influenti che si succedono arrivano,

dopo l’assassinio di Cesare (44 a.C.) e il contrasto tra Marco Antonio alleato con Cleopatra da una

parte e Ottaviano, nipote di Cesare, dall’altra, alla formazione di un nuovo regime istituzionale: il

principato. Il "princeps" (da "primum caput" o primo cittadino) fonda l’Impero dandogli un assetto

unificato e pacificato. L’Impero così strutturato durerà fino al III secolo d.C. ovvero lungo il peiodo

chiamato pax romana. In questi secoli l’Impero romano raggiungerà il suo splendore.

Con il III secolo d.C., Roma via via perde il ruolo centrale a causa della vastità e universalità del suo

regno, finché Diocleziano separerà in due parti l’impero ristrutturando profondamente economia,

finanze, politica e burocrazia. L’opera riformatrice di Diocleziano garantirà a Roma un secolo di

nuova prosperità e il Cristianesimo, autorizzato ufficialmente nel 313 d.C. da Costantino il Grande

con l’editto di Milano, contribuirà, alla fine, a sostenere il regime.

Nel IV secolo il baricentro dell’impero si sposta verso oriente, dopo lo spopolamento costiero

dovuto all’ingresso nel bacino del Mediterraneo di malattie epidemiche fono ad allora sconosciute

e dalle successive invasioni in Italia di Barbari, Visigoti e Vandali, che arrivano a saccheggiare

persino la città di Roma.

La medicina a Roma in età repubblicana

Secondo l'enciclopedista Plinio, prima dell'arrivo dei primi medici greci, cosa avvenuta a partire

dalla metà del III secolo, Roma non possedeva professionisti dedicati all'esercizio della medicina.

Le mansioni di medico erano esercitate dal pater familias che aveva la responsabilità della tutela

della salute dei familiari, degli schiavi e del bestiame. La medicina romana dei primi secoli

rientrava nel novero delle funzioni diremmo 'domestiche' e legate alla figura carismatica del capo-

comunità, continuando con tutta probabilità una tradizione di lunghissima durata. Da altri

enciclopedisti quali Varrone o Catone siamo informati circa la presenza di una terapia tradizionale

talora unita alla pratica dello scongiuro e di una piccola chirurgia, dedicata sostanzialmente alla

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cura dei traumi e delle ferite. La medicina di tipo sacrale aveva ovviamente la sua importanza e

nella Roma antica sono documentabili culti di numerose divinità guaritrici quali la dea Febris o la

dea Mephitis. La maggior parte di queste divinità avevano un tempio o perlomeno un altare dove

esercitare il culto, ma appare poco probabile che in questi sacelli fossero attivi sacerdoti o

comunque figure legate al culto della divinità che praticassero le cure più idonee, come succedeva

invece nell'Asklepeion greco.

Si ritiene che il culto di Esculapio (denominazione latina di Asclepio) sia stato introdotto a Roma

nel 293 a.C. con la costruzione di un tempio a lui dedicato nell'Isola Tiberina.

Negli ultimi venti anni del III secolo, poco prima delle guerre macedoniche, si assiste all'arrivo a

Roma dei primi medici greci i quali, visti dapprima con sospetto (Arcagato fu cacciato da Roma

dopo avergli appioppato il soprannome di carnifex per il suo uso, pare intenso, del cauterio)

riuscirono comunque a guadagnarsi uno spazio nella tradizionalista società romana. Il cammino

per arrivare ad un riconoscimento di uno status diverso da quello servile, quale era generalmente

quello dei medici greci a Roma, fu comunque molto lungo: solo nel 46 a.C. Giulio Cesare concede

la cittadinanza romana ai medici e bisogna arrivare al II secolo d.C., in piena epoca imperiale, con

la breve ma straordinaria stagione galenica, per riconoscere al medico uno status di scienziato e

filosofo.

La medicina greca viene talora sentita come contraria alla coscienza romana: nell'esercizio di

questa professione i medici, che come abbiamo detto sono prevalentemente greci, fanno uso di

una terminologia corrente greca o comunque ricca di grecismi che può essere definita come lingua

"latino-greca" della medicina. D'altronde la medicina greca ha le carte in regola per essere

vincente: a prescindere dall'efficacia, che doveva essere comunque superiore a quella della

medicina tradizionale anche per un più ampio armamentario farmaceutico e chirurgico, proponeva

una spiegazione naturale delle malattie assieme ad una interpretazione globale dell'uomo e del

mondo, ossia possedeva e mostrava una solida base epistemologica. In questo modo la medicina,

pur restando una technè, cioè un'arte "meccanica", si presentava con una veste razionale e

specialistica, degna quindi di un professionista e degna anche (e soprattutto) di essere

opportunamente ricompensata. Ovviamente la società romana recepì questo tipo di visione da

parte della medicina ellenistica perché stava sempre di più diventando una società del benessere e

quindi con una maggiore sensibilità verso la salute, la bellezza del corpo e l'importanza della

filosofia.

La medicina tradizionale romana non sopravvivrà se non nelle campagne, anche se degli echi

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talora importanti si possono trovare ancora in epoca imperiale nelle opere di Plinio, Celso e del

medico imperiale Scribonio Largo (I sec. d.C.).

L'età imperiale

Le sette mediche

Già presenti ad Alessandria nel II secolo a.C., le ritroviamo a Roma dopo la diaspora dei maestri

alessandrini al tempo di Tolomeo Evergete Fiscone e di fatto dopo l'arrivo a Roma di Asclepiade di

Prusa nel 146 a.C., caposcuola della setta dogmatica.

Il termine "setta" (haeresis in greco) non deve essere recepito con il significato negativo che ha

assunto nel tempo: la setta medica, così come la troviamo a Roma viene concepita ad Alessandria

durante una lotta piuttosto cruenta (letterariamente parlando) fra i più brillanti allievi di Erofilo

per il predominio sulle basi teoriche della medicina. Abbiamo visto come la parte "scientifica" della

medicina che si viene consolidando nell'ambiente intellettuale alessandrino rappresenti un

"surplus" importante per il medico dato che, tra l'altro, ne sancisce il ruolo sociale (ed economico).

Una lotta di questo genere sarebbe stata impensabile nel medico di tradizione greca classica che

non disponeva (né ne sentiva il bisogno, in un certo qual modo) di questo bagaglio d'esperienza

anatomica e, anche se molto più povero, fisiopatologica. Se nella pratica terapeutica, infatti, le

varie sette (né poteva essere altrimenti, a ben guardare) non differivano moltissimo tra loro, la

differenza risiedeva in alcuni aspetti teorici della téchne della formazione del medico.

Ogni gruppo ha un padre fondatore, un garante dell'autorità e generalmente una guida di

riferimento, un maestro da frequentare, ascoltare o magari solo a cui riferirsi. La coesione interna

è indispensabile ed è rafforzata dall'attacco alle altre sette attraverso scritti polemici e da una

forma orale di insegnamento, l'agon, il dibattito che viene sempre indirizzato contro altri. Di fatto,

quindi, le sette mediche sono un fenomeno che non interessa, se non marginalmente, la prassi

terapeutica e lo studio delle malattie, quanto un fenomeno letterario medico sulla discussione

teorica della medicina e dei suoi aspetti.

La setta dogmatica

Si rivolge agli insegnamenti più antichi del Corpus Ippocratico ed era basata sulla convinzione che

conciliando le scoperte recenti con la vecchia tradizione clinica ippocratica si potessero scoprire le

cose più nascoste. In effetti i dogmatici non formavano una vera setta ma si mantenevano fedeli al

pensiero medico più antico con una fede salda a riguardo della validità della rationalis medicina.

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Di fatto però erano tutti concordi sulla validità di quattro tesi principali ovvero che esistono cause

nascoste delle malattie che i sensi non possono cogliere immediatamente ma che il medico può

arrivare a conoscere, che queste cause nascoste sono da contrapporsi alle cause evidenti, quelle

colte dai sensi e che precedono o scatenano la malattia, che il ragionamento che si basa sulla

sperimentazione e la dissezione può aiutare risolvere i maggiori problemi della fisiopatologia e

della terapeutica e d infine che il trattamento della malattia è scoperto per congettura in seguito

alla scoperta della sua causa nascosta.

La setta empirica

Questa setta rimase per lungo tempo un fenomeno esclusivamente alessandrino. Influenzati dalla

filosofia scettica, gli empirici non credevano nella medicina come vera scienza. Inoltre (e qui si

allontanavano dal pensiero scettico) affermavano che non è possibile capire ciò che i sensi non

possono afferrare. Due posizioni molto radicali queste che portavano gli empirici a negare

completamente la validità dell'impostazione dogmatica tanto più che per gli empirici la natura era,

di fatto, imperscrutabile. Semplificando, l'enunciato empirico voleva che le uniche conoscenze

mediche fossero frutto dell'osservazione e che non poteva esistere una ricerca sistematica perché

avrebbe presupposto una sistemazione teorica non fondata sull'esperienza. In medicina la certezza

si raggiungeva, quindi, solo attraverso la pratica come in altri mestieri come il contadino o il

navigatore, tanto più che l'esperienza non era trasmissibile: l'esperienza mediata era ammessa a

causa della brevità della vita del singolo, ma i dati dovevano essere accuratamente vagliati e

verificati. Per la setta empirica quindi la medicina è una pratica principalmente terapeutica e non

ha nulla a che fare con la speculazione.

La setta metodica

Dopo la presa di Corinto, nel 146, molti medici lasciarono la Grecia e stabilendosi a Roma, tra cui

Asclepiade di Prusa e del suo allievo Temisone di Laodicea, che poi è il vero fondatore della setta.

L'idea fondamentale di Asclepiade è che il corpo umano sia formato da corpuscoli impercettibili se

non dalla ragione, gli onchoi che si muovono all'interno di canalicoli, i poroi, anch'essi di essenza

puramente teorica. Il regolare flusso degli onchoi caratterizza lo stato di salute. Le malattie

sarebbero prodotte da una strettezza dei pori o da una eccessiva larghezza di essi, o da una

sproporzione dei corpuscoli circolanti. Per Asclepiade quindi l'arte del curare consisteva

semplicemente nel regolare i movimenti degli onchoi, equilibrando le sproporzioni fra essi e i pori

del corpo umano. I metodici conquistarono il grande pubblico grazie alla semplicità della loro

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dottrina anche se, a ben guardare, al di là dei semplici stati di tensione, rilassamento e lo "stato

misto" per mezzo delle quali potevano essere classificate le malattie e da cui poi discendeva la

condotta terapeutica, esisteva una vera e complessa nosografia metodica anche se non codificata

da un corpus di regole rigorose.

La setta pneumatica

La quarta setta è un po' più problematica per quanto riguarda la sua legittimità: Galeno, nelle sue

Definizioni mediche la cita appena, dicendo che sarebbe stata inventata da Agatino di Sparta. Se

Agatino abbia o meno "inventato" questa setta è certo che Ateneo di Attalia (I secolo d.C.) ne è il

grande innovatore. Partendo dalla dottrina umorale di scuola ippocratica vi introduce la teoria

dello pneuma, portatore delle funzioni vitali e psichiche più importanti. Lo pneuma è alimentato

dall'aria respirata e, come elemento di raffreddamento del calore naturale, circola attraverso le

arterie ed ha sede nel cuore. La salute è data dall'equilibrio del pneuma con i quattro umori.

Il problema delle sette, fenomeno di cui però è difficile cogliere la portata effettiva, riguarda la

medicina esercitata a Roma dai medici greci, come abbiamo visto. Tra l'altro, nello sforzo di dare

alla medicina (ma soprattutto al medico) un nuovo status di "pratico e filosofo" secondo il modello

alessandrino, i principali esponenti delle sette ci hanno lasciato numerosi testi o frammenti

testuali a testimonianza del loro pensiero. Questo però fu un fenomeno diverso da quello che

abbiamo visto a riguardo della formazione del Corpus Ippocratico, di fatto anonimo e ricondotto a

posteriori alla figura di Ippocrate: adesso i volumina di medicina portano il nome dell'autore, così

come era successo ad Alessandria, e questo è un fenomeno da sottolineare, anche perché

vedremo che il coronamento degli sforzi di autopromozione fatti dai medici arriverà con Galeno e

con il mare magnum dei suoi scritti. E' adesso l'opera scritta quella che assume l'importanza del

testimone: un’opera colta con un lessico tecnico proprio, scritta in greco o con un latino infarcito

di grecismi, opera non creata per l'esigenza dell'insegnamento, che probabilmente continua ad

essere quello dell' "andare a bottega" da un professionista, cioè dell'apprendimento diretto e della

pratica guidata, ma destinata ad un pubblico di potenziali "clienti", che legge ed è capace di

cogliere l'aspetto teorico o polemico del testo.

Ovviamente non ci restano soltanto testi che trattano di medicina scritti da medici, anzi, tra I

secolo a.C. e il I secolo d.C. le opere più significative che danno un quadro della situazione

"storica" della medicina sono scritti da auctores non medici ma "enciclopedisti" tra cui, per citare i

più significativi, A. Cornelio Celso o Plinio il Vecchio, autori genuinamente "romani" e ancorati alla

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tradizione. La Naturalis Historia di Plinio non è un'opera dedicata alla medicina di per sé anche se

affronta alcuni aspetti della terapia medica mentre l'opera di Celso, il De Medicina (parte di una

più vasta enciclopedia che ci è pervenuta purtroppo frammentaria) è forse l'opera più importante

del mondo romano per comprendere il fenomeno "medicina" nel suo insieme. Il De re medica di

Celso viene composto, probabilmente, tra il 25 a.C. ed il 35 d.C. e si presenta come un'opera

composta da otto libri preceduti da un proemio in cui si traccia una storia della medicina partendo

dai tempi della guerra di Troia per arrivare ad Asclepiade. Gli otto libri sono così

ripartiti: semeiotica e igiene (libro I), dietetica (libro II), medicina interna (libro III e IV),

farmacologia (libro V e VI) e chirurgia (libro VII e VIII). L'opera di Celso assume un valore

documentario estremamente importante perché ci fornisce un quadro piuttosto completo della

medicina dei primi due secoli a.C., cercando di mediare le fonti a sua disposizione e quindi le varie

impostazioni teoriche.

Ovviamente la letteratura medica tecnica scritta da medici di questo periodo non è scritta

esclusivamente in greco, anche se gli autori in lingua latina sono piuttosto rari. E' indispensabile

però segnalare l'opera di un medico dai contorni biografici piuttosto incerti (se non che almeno

per un certo periodo fu al seguito dell' imperatore Claudio): Scribonio Largo. Autore di una

raccolta farmacologica, le Compositiones, redatte attorno alla fine degli anni '40 del I secolo d.C. e

che ebbero una discreta fortuna nei secoli successivi, il suo pensiero rivela numerosi punti di

contato con Celso sia per la concezione moraleggiante della medicina, sia per i supporti dottrinari,

sia nella definizione della prassi medica e delle cure effettive.

Galeno di Pergamo e il galenismo

Il II secolo d.C. è anche noto come il beatissimum saeculum con la massima espansione territoriale

dell'Impero e l'adozione del principato imperiale. E' un periodo culturalmente felice, grazie alla

prosperità dello Stato: nonostante che, a differenza delle città greche dove le scuole pubbliche

erano presenti sin dal II secolo, si debba aspettare il 73 d.C. per avere le prime cattedre pubbliche

a pagamento, agli insegnanti di retorica latina e greca era garantito un salario annuo di 100.000

sesterzi, pagato grazie agli introiti del fisco imperiale. Il mercato librario era fiorente e solo a Roma

si trovavano, nel II secolo, almeno sei o sette biblioteche pubbliche: alcune di esse erano già state

inaugurate in età augustea/tiberiana, altre erano invece fondazioni posteriori. Si trattava di

strutture pubbliche, gestite da personale qualificato, frequentate da un'utenza "alta": erano centri

di lettura, alcuni dei quali specializzati tematicamente, con sale distinte riservate ai testi greci ed ai

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testi latini e sale studio. Il giurista Modestino ci informa che Antonino Pio (138-161 d.C.) si

preoccupò di regolare persino il numero di medici, sofisti e grammatici che dovevano trovare

impiego nelle città dell'Impero, fissando per legge i privilegi con cui gratificare questi

professionisti. Questa notizia è importante: per Antonino quindi i medici vengono equiparati ai

sofisti e ai grammatici, cioè hanno un ruolo intellettuale importante, segno che lo sforzo dei

medici greci non era andato sprecato. Questo è il periodo in cui il trentenne Galeno "sbarca" a

Roma pronto più che a tentare la fortuna, a combattere per costringerla a concederle i suoi favori.

Antonino era appena morto e Marco Aurelio aveva assunto il potere nel 161 d.C.

Galeno era nato a Pergamo intorno al 129 ed era figlio dell'architetto Nikon, influente personaggio

della realtà municipale, che avrà grande cura nel l'educazione del figlio (d'altronde la famiglia di

Nikon vantava nei suoi membri molti architetti e matematici). Il ragazzo intraprende gli studi di

medicina e filosofia all’età di sedici anni ma non prima di essere stato avviato agli studi della

filosofia platonica, stoica, epicurea e, soprattutto, aristotelica e, in seguito, allo studio delle sette

mediche. Dopo la morte del padre, Galeno inizia a viaggiare per approfondire le sue conoscenze di

medicina. Lo ritroviamo prima a Smirne, con Pelope, poi a Alessandria, dove si dedica allo studio

dell’anatomia e della farmacologia. Nel 157, ritornato a Pergamo, diviene medico della scuola dei

gladiatori e acquisisce ampie conoscenze nel campo della chirurgia.

Quando nel 162 Galeno arriva nell'Urbe, è un medico dalla solida formazione medico-chirurgica e

soprattutto un uomo di notevole cultura. La lettura degli scritti di Galeno ci mostrano una

personalità molto forte e piuttosto aggressiva consapevole delle proprie qualità: probabilmente

grazie a questa qualità acquista rapidamente fama tra gli aristocratici grazie a dibattiti pubblici e a

dimostrazioni anatomiche, procurandosi nel contempo una solida e duratura inimicizia dei

colleghi, che comunque ripagò abbondantemente con la stessa moneta.

Nel 166, per un complesso di ragioni, lasciò Roma per tornare a Pergamo giusto allo scoppiare di

una violenta epidemia, ma viene richiamato da Marco Aurelio e, tra l'altro, nel 168 ritrova la stessa

epidemia da cui era scappato nell'accampamento dell’esercito romano ad Aquileia, dove

l’imperatore sta preparando una spedizione contro i Germani. Marco Aurelio gli affidò la salute del

figlio Commodo (che diverrà imperatore, seppure detestabile e brutale) e nel 169 Galeno iniziò il

suo secondo soggiorno a Roma, che fu molto più lungo del precedente. Questo probabilmente è il

periodo più fecondo per quanto riguarda la sua produzione di scritti medici e filosofici. La scrittura

e il libro sono media importanti per comunicare con la classe aristocratica e Galeno conosce bene

il suo mestiere: i suoi libri, consultabili pubblicamente presso la Biblioteca del tempio della Pace

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furono certamente un veicolo pubblicitario importante, tanto più che la visone "supersettaria" di

Galeno e la sua capacità di sistematizzare il pensiero dogmatico stemperandolo con l'apporto delle

altre correnti di pensiero contribuirono a divulgare (nei luoghi opportuni) una medicina realmente

"scientifica". Galeno sa interpretare i bisogni emergenti dell'alta società romana per portarli al

servizio del suo progetto di riqualificazione del medico, ovvero di un professionista che non abbia

soltanto capacità terapeutiche ma anche una solida conoscenza, su basi razionali, dell'uomo e

della natura. Per questo Galeno riduce il momento clinico della sua professione per impegnarsi

nell'attività di conferenziere e poi, quasi esclusivamente, di teorico e scrittore. Il successo di

Galeno a Roma è clamoroso, tanto che riesce in qualche modo ad eclissare i colleghi settari ed

essere, per oltre vent'anni uno scrittore ed un medico di successo. Nel 192, salito al soglio

imperiale Settimio Severo, un grande incendio distrusse il Tempio e la Biblioteca della Pace

assieme alle grandi biblioteche del Palatino. In questo incendio catastrofico andarono bruciate

molte opere di Galeno. Tra il 200 e il 210 egli si decise a tornare nel suo paese d’origine dove morì

fra il 210 e il 216.

Galeno rappresenta un fenomeno singolare nella storia della medicina occidentale e di questa

singolarità se ne sono rese conto molto bene le generazioni successive. Di fatto Galeno appare

singolare quanto Ippocrate (e non a caso a questi è comparato o con questi è rappresentato, nel

medioevo, come nella cripta della cattedrale di Atri), e questa singolarità dei due personaggi è

abbastanza chiara: ambedue non gli artefici di una rivoluzione della medicina in quanto ars

medendi, quanto del radicale cambiamento dello statuto "scientifico" della medicina.

Cambiamento certamente di qualche utilità alla medicina stessa (ma non così tanto) ma

comunque fondamentale per la ridiscussione completa del ruolo del medico nella società. Tra

l'altro l'accostamento ad Ippocrate è in parte strumentale e voluto fortemente dallo stesso

Galeno, che fa di Ippocrate, grazie ad un sapiente e modernissimo marketing d'immagine, il più

grande medico di tutti i tempi e quindi Galeno stesso, suo dichiarato ierofante, il più grande

medico dei suoi tempi. L'operazione galenica è straordinaria anche se tradisce Ippocrate tanto

quanto l'aveva tradito Polibo: è infatti la visione del De Natura Hominis e non quella della parte più

antica del Corpus Hippocraticum ad essere approfondita, completata, migliorata e divulgata, allo

scopo di ottenere una scientia affidabile, meccanicistica in sé (si pensi, come piccolo esempio, al

fatto dell'importanza delle qualitates e alla loro suddivisione in quattro gradi) ma mitigata o

meglio completata dal fatto che "il miglior medico è anche filosofo" (una delle sue opere "morali"

più illuminanti) che sa bene che "le facoltà dell'anima seguono i temperamenti del corpo" come

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recita il titolo di una straordinaria opera della piena maturità. Un medico-filosofo cosciente che i

problemi della conoscenza da cui provengono i grandi problemi della vita tra cui la felicità,

l'infelicità e il fine della vita, potranno avere risposte razionali, quelle risposte che lui può dare ed

amministrare.

Il progetto culturale e sociale di Galeno riesce, perlomeno temporaneamente, ad eclissare in gran

parte le sette e soprattutto a consolidare la figura sociale del medico. Dopo la morte di Galeno

però, nonostante che i suoi scritti circolino ancora a Roma (ma soprattutto fuori di Roma, come ad

esempio in Alessandria), la ricezione del suo magistero nella letteratura in lingua latina fu molto

scarsa. Come per dire che passata l' "eccezione" di Galeno, la vita ritornò (se mai ne era uscita)

nell'ambito della normalità. D'altronde, come generalmente si dice, dopo Galeno la medicina

antica non è più creativa: traduce, compila, riassume. Addirittura la medicina "scientifica" lascia

spesso spazio al sapere popolare, come ad esempio nel Liber medicinalis di Quinto Sereno

Sammonico. Forse è questa la normalità, nell'arte medica? In fondo se non ci fosse stata, ben

postuma, una "setta galenica alessandrina" e non ci fosse stata, per questo, una trasmissione quasi

esclusivamente galenica al mondo arabo (e quindi, come vedremo, all'Occidente bassomedievale),

di Galeno avremmo perso ben presto le tracce, così come in gran parte le persero i medici della

Tarda Antichità e dell'Alto Medioevo. Galeno fu probabilmente l'epifenomeno di quel momento

"aureo" della società romana, che peraltro dovette rapidamente cedere ad una crisi strutturale e

demografica che si manifesterà di lì a poco e che probabilmente farà preferire alla complicata

figura del medico-filosofo un medico magari altrettanto gratiosus ma sicuramente più pratico.