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Centro e periferia di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg Storia dell’arte Einaudi 1

Castelnuovo y Ginzburg, Centro e Periferia

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Castelnuovo y Ginzburg, Centro e Periferia

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  • Centro e periferia

    di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg

    Storia dellarte Einaudi 1

  • Edizione di riferimento:in Storia dellarte italiana, I. Materiali e problemi,1. Questioni e metodi, a cura di Giovanni Previtali,Einaudi, Torino 1979, 1981, 1994

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  • Indice

    1. Periferia e provincia 52. Il caso italiano 63. La Storia del Lanzi 84. Storia artistica e distribuzione geografica 135. Citt capitali e citt suddite 176. Concorrenza e societ civile 227. Gli squilibri territoriali 258. Questioni di lunga durata 269. La dislocazione dei centri artistici 3010. Le citt comunali 3211. Centri di innovazione e aree di ritardo 3412. Periferizzazione e declassamento 3613. Vasari 3814. Fine del policentrismo e nascita della terza

    maniera 48

    15. Un caso esemplare: lUmbria 4916. Riflusso e ritardo in periferia 5217. Ritardo periferico o ritardo di metodo? 5418. Periferia come scarto 5619. La resistenza al modello 6020. Modello e nuovo paradigma 6121. Lalternativa di Avignone 6422. Le regioni di frontiera 66

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  • 23. Lesilio del Lotto 6824. Urbino e Barocci 71

    25. Il Seicento e il Settecento 72

    26. Centro e periferia, persuasione e dominazione 74

    27. La dominazione simbolica 76

    28. La dinamica delle opere 79

    29. La dinamica degli artisti 81

    30 La dinamica dei committenti 84

    31. La Chiesa dopo Trento 87

    32. I conti con lEuropa 89

    Indice

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  • 1. Periferia e provincia.

    Periferia, o provincia? Forse meglio parlare di peri-feria, termine pi neutro, meno carico di implicazionivalutative. Ma anche lapparente neutralit del termineperiferia non priva di trabocchetti. stato un geo-grafo a scrivere, a proposito dellopposizione paradig-matica centro/periferia, che questultimo termine vainteso come unallegoria nello stesso tempo spaziale epolitica1. Ma qual il peso rispettivo di questi ele-menti? In quale sistema sinseriscono di volta in voltale coppie, piuttosto complementari che antitetiche, cen-tro/periferia?

    Queste domande, evidentemente cruciali per i geo-grafi, potrebbero esserlo altrettanto per gli storici del-larte2. Ma c il rischio di sentirsi dare la risposta un podisarmante contenuta nelle parole di Sir Kenneth Clark:

    La storia dellarte europea stata, in larga misura, la sto-ria di una serie di centri da ciascuno dei quali si irradiatouno stile. Per un periodo pi o meno lungo questo stile hadominato larte del tempo, divenuto di fatto uno stile inter-nazionale, che al centro era uno stile metropolitano e dive-niva sempre pi provinciale quanto pi raggiungeva la peri-feria. Uno stile non si sviluppa spontaneamente in unareavasta. la creazione di un centro, di una singola unit da cui

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  • proviene limpulso, che pu essere piccola come la Firenze delxv secolo o grande come la Parigi dellanteguerra, ma che hala sicurezza e la coerenza di una metropoli3.

    Se il centro per definizione il luogo della creazioneartistica, e periferia significa semplicemente lontananzadal centro, non rimane che considerare la periferia sino-nimo di ritardo artistico, e il gioco fatto. Si tratta, aben vedere, di uno schema sottilmente tautologico, cheelimina le difficolt anzich cercare di risolverle. Pro-viamo invece ad accogliere i termini centro e peri-feria (e i relativi rapporti) nella loro complessit: geo-grafica, politica, economica, religiosa e artistica. Ciaccorgeremo subito che ci significa porre il nesso trafenomeni artistici e fenomeni extrartistici sottraendosial falso dilemma tra creativit in senso idealistico (lo spi-rito che soffia dove vuole) e sociologismo sommario. Mala rilevanza di uno studio del genere non soltantometodologica. Considerato in una prospettiva poliva-lente il rapporto tra centro e periferia apparir bendiverso dalla pacifica immagine delineata da Sir Ken-neth Clark. Non di diffusione si tratta, ma di conflitto:un conflitto rintracciabile anche nelle situazioni in cuila periferia sembra limitarsi a seguire pedissequamentele indicazioni del centro. E in unet di imperialismi edi subimperialismi, in cui anche le bottiglie di Coca-Colasi configurano come segno tangibile di vincoli non soloculturali, il problema della dominazione simbolica, dellesue forme, delle possibilit e dei modi di contrastarla,ci tocca inevitabilmente da vicino4.

    2. Il caso italiano.

    Per uno studio del nesso centro/periferia in campoartistico, lItalia appare un laboratorio privilegiato. Per

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  • molte ragioni: anzitutto, geografiche. Ricordiamo subi-to i dati pi appariscenti: la lunghezza della penisola; ilrapporto tra il perimetro delle coste e la superficie; la fre-quenza delle insenature; la presenza di due catene mon-tuose trasversale luna, longitudinale laltra come leAlpi e gli Appennini; labbondanza di valli e di valichi.Questi elementi hanno configurato un paesaggio quantomai contraddittorio e diversificato. Una relativa facilitdi scambi con paesi lontani stata accompagnata dacomunicazioni scarse e difficoltose tra zone internemagari vicinissime. (Ancora oggi, del resto, pi facileandare in treno da Torino a Digione che da Grosseto aUrbino).

    Questa contraddizione stata accentuata, anzichsmorzata, dalla storia della penisola fin dalla tarda anti-chit. La presenza di una fitta rete di strade romane edi una quantit eccezionale di centri urbani, la spacca-tura politica della penisola fin dalla guerra greco-gotica,hanno esaltato la diversificazione da un lato e labbon-danza delle comunicazioni dallaltro. Fin da allora la pro-duzione artistica in Italia era destinata a fare i conti conuna fortissima tendenza al policentrismo, non solo: unpolicentrismo consapevole, caratterizzato il pi dellevolte da molteplicit e non da mancanza di contatti. Sitratt del resto di contatti spesso pi subiti che cercati:basta pensare agli imperatori dOriente e a quelli delSacro Romano Impero, ai califfi arabi e ai re franchi, agliinvasori ungari e ai pirati normanni. Ripensare la fisio-nomia della produzione artistica italiana dal punto divista dei rapporti tra centro e periferia sia pure sof-fermandosi soprattutto sulla pittura, molto meno sullascultura, e quasi per nulla sullarchitettura significadunque ripensare, intera, la storia dItalia.

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  • 3. La Storia del Lanzi.

    E veramente scriveva il Lanzi la storia pittori-ca simile alla letteraria, alla civile, alla sacra. La gran-de sistemazione proposta dal Lanzi , per il discorso checinteressa, un punto di partenza obbligato: se non altroperch per primo egli si distacc dal venerando schemaimperniato sulle biografie degli artisti per adottarne unodiverso, storico-geografico, che rifletteva le sue preoc-cupazioni di curatore della galleria granducale. Con lasua Storia pittorica il Lanzi si era proposto esplicitamen-te di fornire un corrispettivo della Storia del Tiraboschi:Questo bel tratto di Paese [lItalia] ha gi, merc delCav. Tiraboschi, la storia delle sue lettere; ma desideraancora quella delle sue arti. Ci implicava, ai suoiocchi, lindividuazione di un criterio ordinatore coe-rente e adeguato alla materia:

    una qualche distinzione di luoghi, di tempi, di avvenimen-ti, che ne divisi lepoche e ne circoscriva i successi; tolto viaquestordine, ella [la storia pittorica] degenera, come lealtre, in una confusione di nomi pi conducente a gravar lamemoria che a illustrare lintendimento.

    Dove trovare questo filo conduttore?

    Non si pu [...] imitare i naturalisti, che, distinte per attodi esempio le piante in pi o in meno classi, secondo i varisistemi di Tournefort o di Linneo, a ciascuna classe facil-mente riducono qualsisia pianta che vegeti in ogni luogo,aggiugnendo a ciascun nome note precise, caratteristiche epermanenti. Conviene, a fare una piena istoria di pittura,trovar modo da allogarvi ogni stile per vario che sia da tuttigli altri; n a ci ho saputo eleggere miglior partito che tes-sere separatamente la storia di ogni scuola. Ne ho presoesempio da Winckelmann, ottimo artefice della storia anti-

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  • ca del disegno, che tante scuole partitamente descrive quan-te furono nazioni che le produssero. N altramente veggoaver fatto nella sua storia de popoli Mr. Rollin...5.

    Solo le scuole, dunque, forniscono un criterio di clas-sificazione immune da rigidit o da schematismi, tale dapoter tessere una storia piena come lItalia la deside-ra. La ricchezza della storia pittorica italiana non riducibile allindividuazione delle maniere o alla narra-zione delle biografie dei capiscuola. Ma di quali scuoleprecisamente si trattava?

    La geografia dellItalia pittorica si precis con len-tezza nella mente del Lanzi. Il progetto originario pre-vedeva due volumi, che avrebbero dovuto ricalcare ladivisione di Plinio in Italia superiore e inferiore:

    Nel primo volume io pensai di comprendere le scuole[...] dellItalia inferiore; giacch in essa le rinascenti artiebbero pi presto maturit; e nel secondo le scuole dellI-talia superiore, la cui grandezza apparve pi tardi.

    Ma solo il primo volume fu dato alle stampe, nel1792: esso comprendeva due scuole considerate prin-cipali, la fiorentina e la romana, pi altre due, la sene-se e la napoletana, considerate come adjacenze delleprimarie6. Nella dedica a Maria Luisa di Borbone,granduchessa di Toscana, il Lanzi avvertiva che la lavo-razione, gi avanzata, del secondo volume, era statainterrotta n pu riassumersi cos presto. Ma le suc-cessive rielaborazioni, destinate a sfociare nella terza,definitiva, edizione del 18o9, sostituirono allinizialebipartizione unopera pi ampia e complessa, divisa incinque volumi (pi un sesto volume di indici)7. A cia-scun volume corrispondeva (con uneccezione impor-tante, come vedremo subito) una delle scuole principa-li. Tale suddivisione sispirava esplicitamente a quella

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  • formulata al principio del Seicento da monsignor Aguc-chi, che di scuole, per, ne aveva menzionate soltantoquattro (lombarda, veneta, toscana e romana) ricalcatea loro volta sulle quattro maniere de gli antichi (atti-ca, sicionia, asiatica e romana)8. Di ordini, classe ovogliam dire schole aveva parlato Giulio Mancini, pre-scindendo per da considerazioni di ordine geografico,per distinguere i principali indirizzi stilistici presenti aRoma attorno al 16209. E prima ancora, nel 1591, il pit-tore G. B. Paggi aveva visto operare in Italia tre famo-se scuole di pittura, in Roma, in Firenze, e in Venezia;e di virtuosa scuola aveva discorso, a met del Cin-quecento, il Cellini10.

    Nel definire le scuole pittoriche italiane il Lanzi sin-seriva dunque in una discussione che durava ormai dapi di due secoli. In questo arco di tempo il numero dellescuole riconosciute era via via cresciuto, sia perch cen-tri gi esistenti avevano assunto una posizione di primopiano (Bologna, Genova) sia perch la reazione munici-palistica del Seicento aveva cercato di sostituire, nel-lambito della letteratura artistica, un quadro policen-trico allimmagine sostanzialmente monocentrica trac-ciata dal Vasari. La novit del Lanzi consisteva nella-ver affiancato alle maggiori una ricca costellazione discuole minori: in tutto, quattordici, compreso il Pie-monte che senzavere successione di scuola s anticacome altri Stati, ha per altri meriti considerabili peresser compreso nella storia della pittura11. Ne risulta-va un quadro molto pi articolato di quelli precedenti:la novit maggiore era rappresentata forse dalle cinquescuole (modenese, parmense, mantovana, cremonese,milanese) in cui veniva scomposta la generica etichettadi scuola lombarda. Eppure si trattava pur sempre diun quadro fortemente squilibrato dal punto di vista geo-grafico.

    Partiamo da una considerazione brutalmente quanti-

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  • tativa. Nelledizione del 1809 della Storia pittorica laparte del leone spettava, comera prevedibile, alle scuo-le maggiori (esclusa quella lombarda, per la ragione appe-na detta): fiorentina (300 pp.), veneta (293), romana(28o), bolognese (214). A notevole distanza seguivano:la milanese (98 pp.), la napoletana (85), la genovese(73), la senese (70), la ferrarese (64). Ancora pi distac-cate la parmense (46), la cremonese (45), la piemontesee sue adiacenze (38), la modenese (35), la mantovana(25). In altre parole, la parte dedicata ai pittori dellI-talia meridionale quella scuola napoletana che findal progetto originario del Lanzi figurava come appen-dice della scuola romana costituiva non pi di un ven-tesimo del totale: 85 pagine su pi di 16oo complessive.

    Per spiegare uno squilibrio cos appariscente bisognaricordare anzitutto che il Lanzi non si rec mai nelRegno n nelle isole. Il suo scrupolo di conoscitore, chelo indusse a perlustrare anche zone meno ovvie come ilFriuli (per non parlare di Genova o della Lombardia) performulare il pi possibile giudizi di prima mano, si arre-st apparentemente di fronte alle difficolt e alle fatichedi un viaggio a sud di Roma. Di questa situazione din-feriorit il Lanzi era il primo a essere consapevole. Nel-lintervallo tra la seconda edizione in tre volumi (Bassa-no 1795-96) e la terza, definitiva (Bassano 18o9) eglicerc di entrare in possesso di informazioni pi ampie eattendibili sulla scuola napoletana. Il 13 giugno 1801scriveva da Bassano allamico Bartolomeo Gamba:

    Vorrei avere o da lui [il cavalier Lazara] o da lei qualchebuon libro della pittura napoletana e siciliana pi recente;giacch nulla ho veduto dopo Dominici12.

    Ma queste ricerche non ebbero troppo successo: e ilLanzi si trov a scontare i ritardi dellerudizione pitto-rica meridionale. La sua unica fonte dinformazione per

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  • la scuola napoletana rimase il De Dominici (Vite dei pit-tori... napoletani, Napoli 1742-43), con laggiunta, perla Sicilia, o meglio per Messina, delle Memorie de pit-tori messinesi apparse a Napoli nel 1792 sotto il nomedello Hackert, ma redatte in realt da un erudito loca-le, il Grano. Dal De Dominici il Lanzi volle prenderele distanze con una vera e propria stroncatura, in cui unisolato e generico apprezzamento positivo suonava iro-nico perch accompagnato da una serie di critiche net-tissime:

    La recente Guida o sia Breve descrizione di Napoli desi-dera in questa voluminosa opera [del De Dominici] picose, miglior metodo, meno parole. Si pu aggiungere,rispetto ad alcuni fatti pi antichi, anche miglior critica, everso certi pi moderni meno condiscendenza. Nel rima-nente Napoli ha per lui a luce una storia pittorica assolu-tamente pregevole pe giudizi che presenta sopra gli artefi-ci, dettati per lo pi da altri artefici, che col nome loro ispi-rano confidenza a chi legge. Se larchitettura e la sculturavi stian bene ugualmente, non di questo luogo muovernequestione13.

    Le Memorie de pittori messinesi, daltra parte, dovet-tero ispirare al Lanzi una diffidenza perfino maggiore,visto che le notizie chegli ne trasse furono scrupolosa-mente relegate in nota.

    In conclusione, il capitolo sulla scuola napoletanaprende in considerazione soltanto due centri, Napoli eMessina. Gli accenni ai pittori operanti nel Regno al difuori di Napoli (Cola dellAmatrice, Pompeo dellAqui-la, G. P. Russo da Capua, Pietro Negroni) sono pochi egenerici. Viene auspicata unopera sui pittori siracusa-ni, e in genere sulla Sicilia. La Sardegna e la Corsica nonsono neppure ricordate.

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  • 4. Storia artistica e distribuzione geografica.

    I diciannove ventesimi della Storia pittorica sono dun-que dedicati allItalia centro-settentrionale. Qui nonmancavano al Lanzi n una conoscenza diretta dellefonti primarie, n un apparato ampio e attendibile difonti secondarie. Nel corso della sua trattazione eglisimbatt tuttavia in un problema di ordine, diciamocos, tassonomico, chegli discusse soprattutto in rap-porto alla scuola romana e alla scuola lombarda. Riguar-do alla prima egli scriveva:

    Pi volte ho udito fra dilettanti della pittura muovereil dubbio se scuola romana dicasi per abuso di termini, o conquella propriet con cui la fiorentina, la bolognese e laveneta si denomina14.

    Coloro che a Roma avevano insegnato, o anche datotuono alla pittura erano stati infatti, con leccezione diGiulio Romano e del Sacchi, artefici esteri. Ci noncostituiva, agli occhi del Lanzi, una difficolt,

    perciocch a Venezia furono similmente esteri Tiziano diCadore, Paol di Verona, Jacopo da Bassano; ma perch sud-diti di quel dominio si contan fra Veneti; essendo questo nelcomune uso un vocabolo che comprende i nativi della capi-tale e della Repubblica. Lo stesso vuol dirsi de pontifici. Oltrei nativi di Roma, vi venner maestri da varie citt suddite, iquali insegnando in Roma han continuata la prima successio-ne, e in qualche modo anche han tenute le prime massime15.

    Lappartenenza o meno a una determinata scuolasembra dunque legata a considerazioni politiche, comela provenienza da citt suddite della capitale. In realtlatteggiamento di Lanzi pi complesso. Da un lato,lesclusione, anche se giustificabile da un punto di vista

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  • geografico-politico, risulta di fatto formulata sul terre-no stilistico:

    molto meno le ascrivo [a Roma] quegli che in lei visseroesercitando tuttaltro stile; siccome fece, per darne un esem-pio, Michelangiolo da Caravaggio16.

    Dallaltro, alcune citt suddite di Roma nel momen-to in cui Lanzi scrive, hanno dato vita in passato a scuo-le autonome:

    non segno i confini di questa scuola con quei dello statoecclesiastico; perch vi comprenderei Bologna e Ferrara ela Romagna, i cui pittori ho riservati ad altro tomo. Quiconsidero con la capitale solamente le provincie a lei pivicine, il Lazio, la Sabina, il Patrimonio, lUmbria, il Pice-no, lo stato dUrbino, i cui pittori furono per la maggiorparte educati in Roma, o da maestri almeno di l venuti17.

    Dunque, i due criteri, quello stilistico e quello poli-tico, spesso coincidono, perch ogni scuola presupponeun centro, che un centro anche politico. Talvolta perdivergono, perch esistono centri artistici che sono statiin passato centri politici, e ora non lo sono pi. In altreparole, la geografia pittorica e la geografia politica del-lItalia nel momento in cui Lanzi scrive, non sono sem-pre sovrapponibili. In questi casi il criterio determi-nante , per il Lanzi, quello stilistico. Si vedano le affer-mazioni, particolarmente nette, a proposito del Pie-monte:

    i Novaresi, i Vercellesi e alcuni del Lago Maggiore [...] chefurono prima di questa epoca, nacquero, vissero, morironosudditi di altro Stato; e per le nuove conquiste non pidivennero torinesi di quel che divenisser romani Parrasio eApelle dal momento che la Grecia ubbid a Roma. Per tal

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  • ragione [...] ho considerati costoro nella scuola milanese; acui, quantunque non fossero appartenuti per dominio, sidovrebbon ridurre per educazione, o per domicilio, o pervicinanza. Questo metodo ho tenuto finora; avendo io peroggetto la storia delle scuole pittoriche, non degli Stati18.

    In un caso, tuttavia, il Lanzi costretto a confessa-re che tale metodo inadeguato. Arrivato al momentodi esporre i princpi e i progressi della pittura nellaLombardia, che fra quelle dItalia la meno cognita,il Lanzi rileva come la sua storia pittorica dovessedistendersi con un metodo affatto diverso da tutte lealtre. Ci dovuto allassenza di un centro unificato-re, una capitale:

    La scuola di Firenze, quelle di Roma, di Venezia e Bolo-gna, possono riguardarsi quasi come altrettanti drammi,ove si cangiano ed atti e scene, che tali sono lepoche di ogniscuola; si cangiano anche attori, che tali sono i maestri diogni nuovo periodo; ma la unit del luogo, ch una mede-sima citt capitale, si conserva sempre; e i principali attorie quasi protagonisti sempre rimangono se non in azione,almeno in esempio [...]. Diversamente interviene nella sto-ria della Lombardia, che ne miglior tempi della pittura divi-sa in molti domni pi che ora non , in ogni Stato ebbescuola diversa da tutte le altre, e cont epoche pur diver-se; e se una scuola influ nello stile dellaltra, ci non inter-venne o s universalmente, o in un tempo cos vicino cheunepoca istessa possa convenire a molte di loro. Quindiinfino dal titolo di questo libro ho io rinunziato al comunmodo di favellare, che nomina scuola lombarda, quasi ellafosse una sola.

    Certo, qualcuno ha creduto di poter dare il nome discuola lombarda ai seguaci del Correggio, individuan-done le caratteristiche: ma limitata cos la scuola, overiporremo noi i Mantovani, i Milanesi, i Cremonesi, i

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  • tanti altri che, nati pure in Lombardia e quivi fioriti, eoltre a ci educatori di molta posterit, meritano purluogo fra Lombardi?19.

    Alla consueta immagine di un centro maggiore incon-trastato subentra questa volta unimmagine policentri-ca. Ma la diversificazione tra le diverse scuole lombar-de, su cui il Lanzi insiste contro il comun modo difavellare, scaturisce dalle divisioni politiche del passa-to. La preminenza assegnata alle determinazioni stili-stiche fa intravedere un nesso, non risolto dal Lanzi, trastoria delle scuole pittoriche e storia degli Stati,adombrato dal fatto che i centri artistici da lui presi inconsiderazione furono anche, in un momento almenodella loro storia, centri di potere politico.

    In conclusione, la galassia pittorica italiana descrittadal Lanzi appare dominata da quattro pianeti pi impor-tanti, le citt capitali: Firenze, Roma, Venezia, Bolo-gna. Solo in rarissimi casi una delle capitali riuscitaa diventare un sole, a unificare artisticamente linterapenisola:

    Giotto cos fu in esempio agli studiosi per tutto il seco-lo xiv, come di poi Raffaello nel sestodecimo, e i Carraccinel seguente; n so trovare in ltalia una quarta maniera cheabbia fra noi avuto seguito quanto queste tre20.

    Ma si tratta di periodi eccezionali. Di regola, le cittcapitali sono quelle che riescono a imporre unegemo-nia artistica durevole sulle citt suddite dei rispetti-vi Stati. Quando ci non si verifica, come nel caso dellaLombardia, ci troviamo di fronte a una costellazione dipianeti di seconda grandezza. chiaro che il terminecapitale usato in unaccezione artistica, non politi-ca: nel 18o9, quando il Lanzi dava alle stampe ledizio-ne rivista della Storia, Milano era capitale del regno dI-talia, e tutti gli altri centri delle scuole lombarde da lui

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  • descritte (con leccezione di Cremona) erano stati sedidi corti fino a un passato pi o meno recente. Infine,abbiamo una miriade di satelliti (le citt suddite) gra-vitanti, in posizione del tutto subordinata, attorno aipianeti di prima e seconda grandezza:

    Ha, vero, ogni capitale il suo Stato, e in esso deon ricor-darsi le varie citt e le vicende di ognuna; ma queste sono dor-dinario cos connesse con quelle della metropoli che facil-mente si riducono alla stessa categoria, o perch gli statistihanno appreso larte nella citt primaria, o perch in essalhanno insegnata, come nella storia della veneta scuola si potuto vedere, e i pochi chescon fuor dordine non alteranogran fatto la unit della scuola e la successione de racconti21.

    Baster ricordare, a questo proposito, i due casi, inun certo senso opposti, di Jacopo Bassano e di Verone-se. Il primo

    era limitato didee, e perci facile a ripeterle; colpa anchedella sua situazione; essendo verissimo che le idee agli arte-fici e agli scrittori crescono nelle grandi metropoli, e sce-mano ne piccoli luoghi22.

    Il secondo, invece, da Verona

    pass prima a Vicenza, e quindi a Venezia. Era il suo talen-to naturalmente nobile, elevato, magnifico, ameno, vasto;e niuna citt di provincia potea fornirlo didee proporzio-nate a tal genio come Venezia23.

    5. Citt capitali e citt suddite.

    Si potrebbe dire che nella Storia del Lanzi la perife-ria presente soltanto sotto forma di zona dombra che

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  • fa risaltare meglio la luce della metropoli. Rozzezza omancanza didee caratterizzano i pittori delle citt sud-dite, che il Lanzi sbriga generalmente subito prima dipassare ai generi pittorici minori. In una delle sue infre-quenti formulazioni di carattere generale, egli scriveva,a proposito di un pittore periferico seguace del Marat-ta, il fermano Ubaldo Ricci:

    Comunemente non oltrepassa la mediocrit; condizioneassai solita de pittori che vivono fuor delle capitali, senzastimoli di emulazione e senza dovizia di buoni esempi24.

    Bont del clima; mecenatismo; emulazione; buoniesempi: queste sono, secondo il Lanzi, le caratteristichedelle metropoli atte a stimolare le arti. A esse si sonoaggiunte, nellet pi recente, una pi diffusa culturaartistica, e lesistenza delle accademie. Si tratta di unelenco tradizionale, se si eccettuano gli ultimi due ele-menti, legati a una situazione specifica, sostanzialmen-te settecentesca. Ma il tema dellemulazione tra gli arti-sti, largamente presente nella letteratura precedente (sipensi al Vasari) si carica nel Lanzi di implicazioni nuove.Rileggiamo, per intenderle, le ragioni che avevano spin-to il Lanzi a scrivere la sua Storia pittorica:

    ogni cosa par che il consigli; il trasporto de prncipi per lebelle arti; la intelligenza di esse distesa a ogni genere di per-sone; il costume di viaggiare reso su lesempio de grandisovrani pi comune a privati; il traffico delle pitture dive-nuto un ramo di commercio importante alla Italia; il geniofilosofico della et nostra, che in ogni studio abborriscesuperfluit e richiede sistema25.

    Le pitture sono divenute dunque un ramo del commer-cio: anche per esse valgono i princip della concorrenza. Siveda la pagina che conclude la sezione sulla scuola romana:

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  • Cos, cresciuti i sussidi, estesa la coltura in ogni cetocivile, la quale in altri tempi era ristretta in pochi, larteprende un nuovo tuono, animata anche dallonore e dal-linteresse. Luso di esporre in pubblico le pitture alla vistadi un popolo, che fa giustizia alle buone, e ne fa talora riti-rare a forza di sibili le malcomposte; i pubblici premi datia pi meritevoli di qualunque nazione essi sieno, e accom-pagnati da componimenti de letterati e da festa pubblicain Campidoglio; lo splendore de sacri tempii confacente aduna metropoli della Cristianit, il quale con le arti si man-tiene, e scambievolmente mantiene le arti; le commissionilucrose che vengon di fuori e abbondano in citt, per lagenerosit di Pio VI [...]; lesempio continuo de sovrani[...]; queste cose tengono in perpetuo moto e in gara lode-vole gli artisti e le scuole loro...26.

    Onore e interesse; gara lodevole e sussidi;pubblici premi e commissioni lucrose. Sullimpor-tanza delle pubbliche gare per lo sviluppo dellarte inAtene aveva insistito il Winckelmann in quella Storiadelle arti del disegno presso gli antichi esplicitamente richia-mata dal Lanzi, anzi presa a modello della Storia pittori-ca per il suo ordinamento27. Ma linsistenza sullinte-resse come motore dello sviluppo artistico non winckelmanniana. Si tentati di legarla allipotetica let-tura di unopera che siamo abituati a inserire in unor-bita culturale lontanissima da quella dellabate Lanzi:lEssay on the History of Civil Society di Adam Ferguson(1767). Di esso apparve a Vicenza nel 1791-92 una tra-duzione italiana Saggio sopra la storia della societ civi-le condotta sulla base di una precedente traduzionefrancese, e debitamente munita di una licenza di stam-pa del SantUffizio veneziano28.

    Le tracce di una possibile lettura di questa traduzio-ne di Ferguson da parte del Lanzi sono, come vedremo,esigue. Certo che, nella Storia pittorica, limportanza

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  • della concorrenza fortemente sottolineata: sia nelsenso di emulazione tra artisti, sia nel senso di emula-zione tra committenti. Perch, ad esempio, si hanno indeterminati periodi concentrazioni di artisti pittori oletterati di eccezionale livello, come il secolo di LeoneX? Il Lanzi comincia col dare una risposta di tipo tra-dizionalmente accademico:

    io son davviso che i secoli sian formati sempre da certemassime ricevute universalmente e da professori e dadilettanti; le quali incontrandosi in qualche tempo ad esse-re le pi vere e le pi giuste, formano a quella et alquantistraordinari professori e moltissimi de buoni.

    Ma la frase che segue, di timbro ben diverso, anchese presentata come unaggiunta suona piuttosto comeuna spiegazione alternativa:

    Aggiungo per che questi felici secoli non mai sorgonose non v un gran numero di prncipi e di privati chegareggino in gradire e ordinare opere di gusto: cos vi sim-piegano moltissimi; e fra il loro gran numero sorgono sem-pre certi geni che dan tuono allarte29.

    Una riprova di tutto ci data, secondo il Lanzi, dallastoria della scultura in Atene, citt ove la magnificenzae il gusto andavan del pari: il richiamo immediato ,anche qui, a Winckelmann ma non si pu non ricorda-re la pagina di Ferguson sul lusso nel suo rapporto con ilprogresso delle arti30.

    chiaro che linsistenza sulla pluralit dei commit-tenti pone implicitamente un problema politico: un prin-cipato assoluto favorevole allo sviluppo delle arti alpari di una repubblica? Il Lanzi sembra essersi posto unproblema del genere nella prima edizione (1792) dellaStoria, a proposito di Siena:

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  • Dopo che Cosimo I spogli i Senesi di una libert ches-si avrian ceduta con men dispetto a qualunque altra italicanazione che alla fiorentina, decaddero in Siena le arti nonsolamente perch queste sieguono dordinario la fortunacivile delle Citt; ma perch due terzi de cittadini in taleoccasione cangiaron suolo, ricusando di viver sudditi ove-rano nati liberi31.

    Nella terza edizione (1809) il passo era formulatopi prudentemente in questi termini:

    Venne finalmente lanno 1555, nel quale Cosimo I spo-gli i Senesi dellantica lor libert. Essi lavrian ceduta conmen dispetto a qualunque altra nazione che alla fiorentina;onde non da stupire se due terzi de cittadini in tale occa-sione cangiaron suolo, ricusando di viver sudditi di s abbo-minato nimico32.

    In questo modo il nesso libert fortuna civile pro-sperit delle arti, proposto nella prima edizione, venivacancellato. Tra le due formulazioni si era inserito Napo-leone, il nuovo Alessandro cui il Lanzi, alla fine del-ledizione del 18o9, rendeva laconicamente omaggio.

    Laccento, discreto ma eloquente, alla libert, avevaun timbro molto winckelmanniano. Nella Storia dellearti del disegno, la sua opera maggiore, egli aveva scrit-to per esempio che la libert fu la principal cagione deprogressi dellarte [greca]. un principio favorito delsig. Winckelmann annotava a questo punto il curato-re della traduzione italiana (Roma 1783) C. Fea chela libert abbia sempre avuta una grandissima influenzasulla perfezione delle arti; ma il ragionamento, e la sto-ria provano sovente lopposto...33. A quanto pare ilLanzi si sentiva su questo punto, almeno nel 1792, pivicino alle idee del Winckelmann che a quelle del Fea.Ma nel richiamo alla fortuna civile non si pu esclu-

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  • dere uneco del Saggio di Ferguson. Nel capitolo viidella parte III, intitolato Della storia delle arti, si legge:

    La immaginazione ed il sentimento, luso dellintellettoe delle mani non sono invenzioni di alcuni uomini partico-lari. Il florido stato delle arti il segnale della interna feli-cit politica di un popolo, anzich una prova di lumi altron-de avuti, ovvero una superiorit naturale di talenti e din-dustria34.

    Il florido stato delle arti il segnale della internafelicit politica di un popolo, scriveva Ferguson; learti [...] seguono dordinario la fortuna civile delle cittdichiarava Lanzi (salvo poi, come abbiamo visto, cor-reggere lintero passo). Si potrebbe congetturare cheanche lespressione societ civile che ricorre nellin-troduzione alla Storia pittorica, nella parte dedicata aimetodi dei conoscitori (la natura, per sicurezza dellasociet civile, d a ciascuno nello scrivere un girar dipenna che difficilmente pu contraffarsi o confondersidel tutto con altro scritto) costituisca una traccia dellalettura di Ferguson: soprattutto perch qui la societcivile non la comunit umana organizzata della tra-dizione aristotelica ma, pi precisamente, la societ bor-ghese una societ fondata sulla fiducia reciproca, deri-vante in primo luogo dalla difficolt di falsificare lefirme apposte ai contratti commerciali35.

    6. Concorrenza e societ civile.

    Se si insiste sulla possibilit, comunque non provata,di una lettura di Ferguson da parte di Lanzi, perchessa potrebbe dar conto di un tema che ricompare pi epi volte nelle pagine della Storia pittorica, e a cui nonsi dato generalmente il rilievo che merita. Lesistenza

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  • di una committenza molteplice, e quindi di un mercato,influisce, abbiamo visto, in maniera positiva sulla pro-duzione artistica. Ma questa per Lanzi soltanto unafaccia della medaglia. Egli vede infatti il rischio, deplo-revole, che per far fronte alle committenze e battere laconcorrenza un artista sia indotto a risparmiare sultempo, o sui materiali. Lattenzione del Lanzi agli aspet-ti artigianali, manuali del fare pittorico assume a questopunto risonanze singolarmente moderne. Per allontana-re dal Correggio la taccia tradizionale di avarizia egli nonesita a rompere vistosamente il tono stilistico dominan-te della Storia inserendo un minuzioso elenco di paga-menti, che culmina in questaffermazione:

    Ogni sua pittura condotta o in rame, o in tavole, o intele assai scelte, con vera profusione di oltremare, con lac-che e verdi bellissimi, con forte impasto e continui ritoc-chi, e per lo pi senza tor la mano dalla opera prima di aver-la al tutto finita; in una parola senza niuno di que rispar-mi o di spesa, o di tempo, che usarono poco meno che tuttigli altri36.

    Soprattutto il risparmio di tempo, la velocit, pareal Lanzi una pratica diffusa e condannabile. Troppi pit-tori seguono le orme del Vasari, che il pi delle volteantepose la celerit alla finitezza, richiamandosi allapittura, compendiaria degli antichi: ma il passo di Pliniosu Filosseno Eretrio, commenta Lanzi, parla di pitturein cui la velocit di esecuzione era accompagnata dallaperfezione. Invece il metodo moderno basato sul mec-canismo, sul tirar via di pratica,

    quanto vantaggioso allartista, che cos moltiplica i suoiguadagni, altrettanto nocivo allarte, che per tal via urtanecessariamente nel manierismo, o sia alterazione del ver037.

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  • Il punto di discrimine rappresentato dai veneti, e inparticolare da Giorgione, che sdegn quella minutezza,che rimaneva ancora da vincersi; e a lei sostitu una certalibert, e quasi sprezzatura, in cui consiste il sommo del-larte. In questo modo, lavorando non tanto dimpa-sto, quanto colpeggiando o di tocco i veneti si sono atti-rati dagli stranieri laccusa di aver ceduto a

    una celerit che abborraccia, che sdegna freno di regole, chenon finisce il lavoro presente per ansiet di passar prestoad altro lavoro, e cos ad altro guadagno38.

    Da questaccusa il Lanzi assolve Tiziano, di cui diceche nel perfezionare i suoi lavori si sa che durava fati-ca grande, e che avea insieme premura grande di nascon-dere tal fatica, e Veronese, in cui la celerit era accom-pagnata da somma intelligenza: ma critica la mancan-za di diligenza di Tintoretto, i quadri che sembranoabbozzi di Palma il Giovane dovuti alle troppe commis-sioni, la rapidit divenuta incuria del Piazzetta, per con-cludere, a proposito del cremonese Giuseppe Bottani:

    Il lettore pu oggimai aver notato nel corso di questaistoria che lo scoglio pi fatale alla riputazione de pittori la fretta. Pochi sono che possano far presto e bene39.

    La societ civile analizzata da Rousseau e da Fer-guson la societ borghese basata sulla concorrenza.Non si vuol caricare di troppe implicazioni laccenno iso-lato del Lanzi alla societ civile: certo per cheglisottoline sia gli effetti propulsivi della concorrenzasullo sviluppo della pittura, sia il dilagare del mecca-nismo a danno della qualit dei prodotti causa la cre-scente commercializzazione dellattivit artistica.

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  • 7. Gli squilibri territoriali.

    Questa rilettura della Storia del Lanzi condotta sulfilo dei rapporti tra centro e periferia ha fatto emerge-re due ordini di problemi irrisolti, e, come si vedr,interdipendenti. Dal punto di vista geografico, lo squi-librio tra la parte dedicata allItalia centro-settentrionalee quella dedicata allItalia meridionale e alle isole. Dalpunto di vista storico-genetico, limportanza decisivaattribuita alla concorrenza non solo tra artisti ma tracommittenti e quindi un nesso non chiarito tra centridi potere (politico, o di altro tipo) e centri di elabora-zione artistica. Con questi problemi (anche se posti intermini inevitabilmente un po diversi) ci troviamo afare i conti ancora oggi.

    Cominciamo dalla questione geografica. stato rile-vato autorevolmente che tra Cinquecento e Settecento,fra Tasso e Metastasio, passando per Marino e Gravi-na, si determina nellambito della cultura letteraria ita-liana un pieno equilibrio tra Nord e Sud40. Si ricorderinvece quanto diverso e sbilanciato fosse il quadro trac-ciato dal Lanzi. lecito chiedersi se questa distorsionedi cui il Lanzi stesso, come abbiamo visto, era consape-vole, sia tutta da attribuire alla povert e inattendibilitdelle sue fonti dinformazione sullItalia meridionale,nonch alla mancanza di indagini dirette.

    Che la pittura del Regno e delle isole sia ancora ingrandissima parte da scoprire, indubbio. Altrettantoindubbio che la perdurante trascuratezza della storio-grafia artistica nei confronti di questa parte dItalia vadaascritta a una situazione riassumibile nel termine que-stione meridionale41. E tuttavia per anticipare unaconclusione che apparir ovvia le auspicabili ricerchesulla pittura meridionale non potranno porre in luce unarete di centri artistici paragonabile a quella del Centro edel Nord dItalia. In questo senso, lecito dire che la

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  • distorsione presente nella Storia pittorica del Lanzi riflet-te in sostanza una distorsione, o meglio la distorsione checaratterizza la storia (non solo pittorica) dItalia.

    Abbiamo parlato di una conclusione ovvia. Ma ladistribuzione geografica dei centri artistici italiani non ovvia. Varr la pena di analizzarla.

    Proviamo a considerare i centri artistici italiani comeuna specie di club. Quali erano le condizioni per iscri-versi a questo club? e quando si chiusero le iscrizioni?Fuor di metafora: perch i centri artistici italiani sonostati, storicamente, certi e non altri? e quando (e per-ch) cessarono di emergere centri nuovi?

    Per rispondere bisogner partire da molto lontano.Lantichit e la persistenza dei centri urbani infattiuna delle caratteristiche pi evidenti della storia dellapenisola. Secondo il Sereni, su un campione di 8000 cen-tri pi di un quarto (2684) risulta fondato in et roma-na o preromana, un po meno di un terzo tra lviii e ilxii secolo, e meno di un ottavo nel periodo posterioreal xiv secolo42. Ma questo dato quantitativo, di per simpressionante, ne nasconde un altro, qualitativo, anco-ra pi denso di conseguenze per la storia, anche artisti-ca, italiana: e cio che un contrasto fondamentale tra icentri urbani della penisola si era gi delineato nel corsodel i secolo a. C.43.

    8. Questioni di lunga durata.

    In questo periodo si verificarono infatti due proces-si paralleli ma di segno diverso. Dopo la fine della guer-ra sociale (88 a. C.) un gran numero di contadini impo-veriti del Centro-Sud tendeva ad abbandonare le cam-pagne per riversarsi su Roma. La classe dirigente roma-na dovette perci vedere con favore le massicce inizia-tive di ricostruzione e di rinnovamento edilizio attuate

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  • dai municipi ex alleati. Anche se una consapevole poli-tica di assorbimento della manodopera disoccupataattraverso ledilizia sembra da escludere, il risultato fucomunque quello di alleggerire la pressione migratoria indirezione di Roma. Antichi centri si ampliarono, cin-gendosi di mura, e numerose comunit uscirono dallostato tribale per passare a una vita associata di tipourbano. Queste iniziative municipali si verificarono intutto il Centro-Sud, con leccezione (significativa, permotivi che vedremo) della fascia centrale dove si eranoavuti in passato insediamenti etruschi: lEtruria, e partedellUmbria odierna.

    Allincirca nello stesso periodo si venne attuando lacolonizzazione romana della Gallia cisalpina. Anchessafu accompagnata dalla fondazione di centri urbani, masecondo modalit molto diverse da quelle delCentro-Sud. Non solo perch il numero dei nuovi cen-tri fu di gran lunga minore, ma soprattutto perch la lorofondazione avvenne secondo un vero e proprio pianoregolatore, che implicava una riorganizzazione del terri-torio, la costruzione di opere idrauliche e cos via44. Daun lato, quindi, una sorta di urbanizzazione selvaggiagestita dai singoli municipi; dallaltro, unurbanizzazioneregolata e pianificata da Roma. In definitiva, diversi, ediversamente equilibrati, rapporti tra citt e campagna.

    Anni fa, esponendo in maniera pi precisa una suavecchia idea, il Salvatorelli sostenne che di storia dIta-lia in senso proprio si poteva cominciare a parlare fin dali secolo a. C., e precisamente dalla guerra sociale, segui-ta dalla concessione della cittadinanza romana agli ita-lici45. Le considerazioni esposte or ora portano ulteriorielementi a favore di questa tesi. La storia dItalia, cospovera di rivoluzioni, sarebbe nata dunque sotto il segnodi una rivoluzione vittoriosa a met.

    Con questo non si vuol dire, evidentemente, che laquestione meridionale sia cominciata allora. vero per

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  • che lo squilibrio fondamentale che caratterizza la storiadella penisola (e senza il quale essa sarebbe stata diver-sa da quella che stata ed ) ha le sue lontanissime radi-ci nelle divergenti vicende del i secolo a. C. I rivolgi-menti e i traumi successivi poterono alterare questosquilibrio, non cancellarlo.

    Alla fine dellevo antico la rete dei centri urbani ita-liani presentava dunque un aspetto duplice: nel Cen-tro-Sud (con leccezione dellEtruria e di parte dello-dierna Umbria) una maglia fittissima, nel Nord un reti-colato molto pi rado. La resistenza dei due settori, giallora fortemente indeboliti, allo sconvolgimento chesegu, fu oltremodo diversa. Per convincersene, basteresaminare la carta delle diocesi italiane allinizio delsecolo vii. Come si sa, le sedi vescovili coincidevano difatto con altrettanti centri urbani: la distruzione o lospopolamento di questi ultimi comportava, dopo unperiodo di tempo spesso assai lungo, o il trasferimentodella diocesi a un centro contiguo, o la sua soppressio-ne. Per questi motivi, un esame delle diocesi soppressefornisce una serie di indicazioni assai significative.

    Ci che salta agli occhi lentit del fenomeno: su232 diocesi esistenti allinizio del secolo vii, 106 (com-prese 3 incerte) furono soppresse. Quasi la met, dun-que. Va notato che le diocesi trasferite da un centro inrovina a un centro contiguo di recente fondazione (daLuni a Sarzana, per esempio, o da Roselle a Grosseto)non sono state incluse tra quelle soppresse: il quadro deicentri scomparsi o ridotti a villaggi risulta quindi appros-simato per difetto. Ma accanto allentit del fenomenocolpisce la sua distribuzione geografica. Delle 106 dio-cesi soppresse, 15 appartenevano al Nord, 42 al Centro,49 (quasi la met) al Sud e alle isole. Il reticolo urbanopi fitto risult dunque il pi fragile. vero che, nono-stante la falcidia avvenuta, il numero delle diocesi meri-dionali rimase elevatissimo: ma si trattava, e si tratta

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  • ancor oggi, di diocesi spesso piccolissime, coincidenticon localit dimportanza spesso trascurabile.

    Ben diversa resistenza oppose invece il reticolo urba-no comparativamente pi rado del Nord (e di parte delCentro). Scomparvero, certo, o decaddero gravemente,centri litoranei o semilitoranei come Aemonia, Aquileia,Altinum, Vicohabentia, maggiormente esposti alle inva-sioni: ma il quadro complessivo non sub modificazionitroppo gravi. Si potrebbe tracciare su questa base unalinea congiungente Roselle (o, se si vuole, Grosseto)Chiusi, Perugia, Ancona. A sud di questa linea imma-ginaria, un mezzo cimitero di antichi centri urbani46; anord, una serie di citt colpite talvolta in maniera gra-vissima, ma quasi mai definitiva. Corfinium o Marru-vium, a differenza di Bologna o Piacenza, non doveva-no risorgere pi. Dietro questa dicotomia traspare (tran-ne qualche divergenza nella fascia comprendente il Laziosettentrionale e lUmbria meridionale) lopposizione chesi era venuta determinando, nel i secolo a. C., tra gliinsediamenti urbani nelle varie parti della penisola.

    La diversa sorte di Bologna o Piacenza rispetto aCorfinium o Marruvium si spiega naturalmente alla lucedella storia italiana successiva. Ora, il punto proprioquesto. Proviamo a fare un salto di alcuni secoli. Dopoil Mille, in tutta Italia c una rinascita delle citt. Manel giro di un secolo le vicende del Centro-Nord da unlato, e del Sud dallaltro, divergono ancora una volta.AllItalia dei Comuni si contrappone unItalia feudale.Lo sviluppo autonomo delle citt meridionali si arresta:Amalfi, per ricordare solo un caso esemplare, decade.Palermo prospera e si rafforza, ma perch sede di unacorte. Al panorama che si andava profilando, analogo aquello riccamente policentrico dellItalia centro-setten-trionale, ne subentra uno del tutto diverso, caratteriz-zato dallo schiacciamento delle citt minori a dannodelle metropoli. Si soliti attribuire questa svolta deci-

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  • siva a fattori esogeni: la conquista normanna prima, ildominio svevo poi. Ma le spiegazioni del tipo invasio-ne degli hyksos sono sempre semplicistiche. La geo-grafia dellItalia comunale invita piuttosto a riflettere sulpeso determinante che poterono avere elementi piprofondi e pi antichi. Larea di diffusione dei Comu-ni coincide largamente, infatti, con quella parte dItaliain cui il reticolo urbano di origine romana o preromanaera risultato pi resistente. Si tratta, vero, di unacoincidenza imperfetta: se sovrapponiamo le due aree,rimane fuori una fascia dellItalia centrale, a sud dellazona Roselle (Grosseto)-Chiusi-Perugia-Ancona, dovepure si svilupparono citt comunali come Orvieto oViterbo. Ma proprio questa fascia di non-coincidenza significativa, perch rinvia ancora una volta a una dico-tomia pi antica: il contrasto tra le due parti della peni-sola emerso nel i secolo a. C. Pi di mille anni dopo, quelcontrasto agiva ancora.

    9. La dislocazione dei centri artistici.

    Queste contraddizioni di lungo (o lunghissimo) perio-do vanno tenute presenti se vogliamo capire la disloca-zione geografica dei centri artistici italiani. Tra essi tro-viamo infatti molti centri di origine romana o preroma-na: ma ci non costituisce una condizione necessaria (etanto meno sufficiente) per lammissione al club di cuiparlavamo pi sopra. Basta pensare a Venezia o a Fer-rara per rendersi conto che dobbiamo cercare in altradirezione. Lessere stati sede di diocesi, allora? pro-babile che questa debba essere considerata una condi-zione pressoch necessaria, nel senso che difficile tro-vare un centro artistico italiano che non sia stato anchesede vescovile. Le eccezioni, come Saluzzo o Fabrianosolo tardivamente divenute sedi vescovili, sono pochis-

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  • sime: quanto ai monasteri, si tratta di centri sui generis,caratterizzati dallassenza di una periferia relativa. Macerto non si tratta di una condizione sufficiente: i cen-tri di diocesi che non hanno avuto una parte di rilievonella storia artistica della penisola sono innumerevoli da Sarsina, a Numana, alla miriade di centri vescoviliminori del Mezzogiorno.

    nellambito dei centri di diocesi, dunque, chedovremo cercare di regola i centri artistici italiani. Maquali elementi (storici, sintende, non formali) defini-scono questo sottoinsieme?

    Procediamo per scarti successivi. Prendiamo anzi-tutto in esame i centri scomparsi o decaduti (e non pirisorti) dopo linizio del secolo vii. Tra essi, nessuno (conla possibile eccezione di Aquileia) pu essere definitocentro artistico in senso proprio. Il campo dellindaginesi restringe immediatamente. Proviamo allora a passarein rassegna le sedi vescovili istituite dopo il secolo vii. possibile identificare una fase di intensa riorganizza-zione della geografia ecclesiastica italiana che comincia,nel Sud, fin dai secoli xi e xii, e nel Centro-Nord, dopola met del secolo xiv47. Tuttavia, nessuna delle sedivescovili istituite dopo queste date pu ambire alla qua-lifica di centro artistico. Come si vede, la rosa dei pos-sibili candidati continua a restringersi. Se continuiamoquesta manovra a tenaglia, arriviamo alla seguente con-clusione: che le iscrizioni al club dei centri artistici ita-liani, aperte in linea di principio a tutte le sedi vescovi-li, si chiusero alla fine dellxi secolo. Dopo questo perio-do, le nuove sedi si trattasse di Alessandria o di Livor-no, di Carpi o di Prato, di Foggia o di Civitavecchia trovarono le porte sbarrate.

    A questo punto abbiamo circoscritto fortemente lecondizioni cronologiche necessarie allammissione: manon abbiamo ancora identificato le condizioni sufficien-ti. In altre parole: i centri artistici italiani corrispondo-

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  • no tutti ad altrettante sedi vescovili esistenti alla fine delsecolo xi; ma non vero il reciproco. Perch Andria,Matelica, Venosa, Taranto (per citare alcuni nomi disedi scelte a caso) non riuscirono a diventare centri arti-stici nel senso pieno del termine?

    Ci che ci consente finalmente di decifrare le coor-dinate geografiche e cronologiche dei centri artistici ita-liani la decisiva contrapposizione tra le due Italie quella comunale e quella feudale che emerge per lap-punto nel corso del secolo xi. NellItalia centro-setten-trionale (a parte i casi sui generis di Venezia e, ovvia-mente, di Roma) i centri artistici sidentificano con lecitt che svilupparono unintensa vita comunale tutte,senza eccezione, sede di diocesi48. NellItalia meridio-nale, a parte leccezione di Messina, con le citt poisoffocate dal centralismo normanno-svevo (Amalfi, Bari)e con le citt sedi di corte (Palermo, Napoli). La fron-tiera tra queste due Italie artistiche policentrica luna,oligocentrica laltra ricalca quella emersa nel i secoloa. C. e mai cancellata dalle vicissitudini posteriori.

    10. Le citt comunali.

    chiaro che sottolineare limportanza decisiva dellecitt comunali nello sviluppo dellarte italiana non signi-fica riproporre divagazioni retoriche di sapore ottocen-tesco sul libero comune, rustico e non. Ci che conta ainostri occhi anzitutto la presenza simultanea in unaserie di centri urbani di un potere comunale e di unpotere vescovile, talvolta alleati, pi spesso in contrasto,che diedero luogo a una duplice, alternativa commit-tenza, laica ed ecclesiastica, di durata non episodica. Insecondo luogo, lesasperata tensione municipalistica,esplosa in et comunale con particolare violenza madestinata a durare molto pi a lungo, che costitu una

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  • spinta fortissima alla diversificazione artistica. Da unlato, dunque, una situazione di potenziale concorrenzaallinterno dei singoli centri; dallaltro, lesistenza diuna situazione analoga tra centri diversi. Ci significache ci muoviamo, ancora oggi, nellambito del modelloconcorrenziale delineato dal Lanzi. Anche per noi, infat-ti, la presenza o meno di una situazione di concorrenzatra artisti e tra committenti indice di una tendenza omeno allinnovazione artistica. Ci guarderemo bene dal-lidentificare senzaltro innovazione e qualit col chericadremmo nella tautologia riscontrata nelle parole diKenneth Clark citate allinizio. indubbio, per, chele condizioni che tendono a favorire linnovazione arti-stica si verificano di regola nei cosiddetti centri. I cen-tri artistici, infatti, potrebbero essere definiti come luo-ghi caratterizzati dalla presenza di un numero cospicuodi artisti e di gruppi significativi di committenti, che perdiverse motivazioni orgoglio familiare o individuale,desiderio di egemonia o brama di salvezza eterna sonopronti a investire in opere darte una parte delle loro ric-chezze. Questultimo punto implica, evidentemente,che il centro sia un luogo in cui affluiscono quantit con-siderevoli di surplus da destinare, eventualmente, allaproduzione artistica. Inoltre, potr essere dotato di isti-tuzioni di tutela, educazione e promozione degli artisti,nonch di distribuzione delle opere. Infine, conter unpubblico ben pi vasto di quello dei committenti veri epropri: un pubblico non omogeneo, certo, ma diviso ingruppi, ognuno dei quali potr avere abitudini percetti-ve e criteri di valutazione suoi propri, che potranno tra-dursi in attese e richieste specifiche.

    Si tratta, come si vede, di una definizione quanto maigenerica ma, nello stesso tempo, storicamente restrit-tiva. Non si vede, infatti, come sia possibile, per esem-pio, rintracciare una pluralit di committenti nellambitodi un monastero alto-medievale, tale da provocare con-

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  • flitti paragonabili a quelli che opposero talvolta, anchesul terreno delle scelte artistiche, vescovo e capitolo49.Ma chiaro che le nozioni di centro e periferiahanno, se riferite allEuropa monastica, tuttaltro signi-ficato rispetto a quello attribuibile a esse per i secoliposteriori al Mille. Inoltre, la definizione che abbiamoproposto implica che la nozione di centro esclusivamen-te artistico contraddittoria. Centro artistico potr esse-re soltanto un centro di potere extrartistico: politico e/oeconomico e/o religioso. Pertanto, la mera presenza, oaddirittura la concentrazione di opere darte in unadeterminata localit non basta a fare di questultimo uncentro artistico nel senso anzidetto. I castelli, le ville oi santuari potranno eventualmente essere consideratiproiezioni fisiche nel territorio di un potere politico,economico, religioso situati altrove.

    11. Centri di innovazione e aree di ritardo.

    Se il centro tende a configurarsi come il luogo del-linnovazione artistica, la periferia, correlativamente,tende a configurarsi (anche se non sempre) come il luogodel ritardo. Di questo fenomeno certo il pi frequen-te, nei rapporti tra centro e periferia proviamo a deli-neare una sommaria tipologia. possibile distinguere unritardo plurisecolare, come nel caso della produzioneartistica detta popolare, spesso elaborata da contadi-ni per i contadini; un ritardo plurigenerazionale, comenel caso di prodotti eseguiti da artisti professionisti, s,ma per una clientela contadina; e un ritardo di pochianni, che per viene avvertito come traumatico perchcoincide con momenti e situazioni caratterizzati da subi-tanee svolte del gusto. Avremo cio, rispettivamente,prodotti come culle o cucchiai decorati, letti, cassoni,tessuti di vario genere, oggetti duso costruiti dagli stes-

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  • si fruitori50, cicli di affreschi dipinti da botteghe di pit-tori itineranti, impegnati nella decorazione di oratoricampestri o di pievi di piccole cittadine; oppure operedi pittori rinomati che di colpo si trovano respinte aimargini del mercato artistico.

    Prendiamo un prodotto contadino, sia esso un uten-sile o un oggetto liturgico. Le forme fondamentali sibasano su un repertorio limitato (spirali, cerchi, stelleecc. variamente combinati) che rimane pressoch immu-tabile per secoli, al punto che alcune di esse sembranorisalire addirittura al periodo neolitico. In questo ambi-to la vischiosit, la persistenza tipologica sono partico-larmente forti. Se ci volgiamo invece ai prodotti degliateliers itineranti, per esempio quelle squadre di artistioperose nel Vercellese attorno al 1450-70 cui si deve tralaltro la decorazione pittorica delloratorio di San Ber-nardo a Gattinara51, vediamo che essi riprendono conminime variazioni modelli risalenti magari agli ultimidecenni del Trecento. Come esempio del terzo tipo sipotr ricordare quanto scriveva il Vasari a proposito dialcuni dipinti del Perugino per la chiesa della Santissi-ma Annunziata a Firenze:

    Dicesi che quando detta opera si scoperse, fu da tutti inuovi artefici assai biasimata; e particolarmente perch siera Pietro servito di quelle figure che altre volte era usatomettere in opera: dove tentandolo gli amici suoi dicevano,che affaticato non sera, e che aveva tralasciato il buonmodo delloperare o per avarizia o per non perder tempo.Ai quali Pietro rispondeva: Io ho messo in opera le figurealtre volte lodate da voi, e che vi sono infinitamente pia-ciute: se ora vi dispiacciono e non le lodate, che ne possoio? Ma coloro aspramente con sonetti e pubbliche villanielo saettavano.

    Onde egli, gi vecchio, partitosi da Fiorenza e tornato-si a Perugia, condusse alcuni lavori a fresco nella chiesa di

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  • san Severo [...]. Lavor similmente al Montone, alla Frat-ta, e in molti luoghi del contado di Perugia52.

    Ai diversi livelli che abbiamo schematicamente distin-to corrispondono dunque diversi gradi di vischiosit (euna correlativa maggiore o minore possibilit di data-zione). Non sar arrischiato concludere che in una situa-zione di autoconsumo artistico come quella dei contadi-ni la spinta allinnovazione sia praticamente nulla. In unasituazione di semimonopolio come quella in cui opera-vano i pittori itineranti vercellesi della met del Quat-trocento, ci si poteva servire tranquillamente di modelliin certi casi assai antichi, senza correre il rischio di delu-dere le attese di un pubblico che non aveva alcuna pos-sibilit di confronto. In una situazione di concorrenzacome quella di Firenze attorno al 1505, la critica eser-citata dai nuovi artefici colleghi e rivali che spinge ilPerugino a lasciare (sia pure non definitivamente) la cittper il contado umbro. Non possiamo parlare in questocaso di ritardo periferico in senso proprio: ma inperiferia che il pittore costretto a rifugiarsi per potercontinuare a lavorare e a ricevere commissioni per unaproduzione che al centro non soddisfa pi.

    12. Periferizzazione e declassamento.

    Altre volte, invece, lo spostamento materiale delleopere dal centro alla periferia geografica e/o sociale a far intravedere che questultima viene identificata conun gusto artistico ritardatario. Si prenda il caso del pul-pito della Cattedrale di Cagliari, scolpito da un maestroGuglielmo tra il 1159 e il 1162 per la Cattedrale di Pisa,e trasportato in Sardegna allorch in Pisa venne inau-gurato, nel 1312, il pulpito di Giovanni Pisano. Uni-scrizione in versi venne apposta a ricordare levento:

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  • Castello Castri concexitVirgini Matri direxit Me templum istud invexit Civitas Pisana53.

    Il nuovo pubblico a cui veniva indirizzato il pulpitoera quello della colonia pisana stabilita a Cagliari, nelquartiere alto dominato da Castel di Castro. Nei pressidi questultimo, simbolo e fulcro del dominio pisano, erastata costruita la nuova cattedrale. Il vecchio pulpitodella Cattedrale di Pisa doveva dunque configurarsi,per la colonia toscana, come una venerabile reliquiadella terra dorigine, un riferimento a un patrimonio cul-turale comune, uno strumento didentificazione e diaggregazione. Va rilevato inoltre che allorch il pulpitovenne trasferito si andava precisando una grave minac-cia per lavvenire della dominazione pisana, poich ilpontefice aveva concesso al re dAragona linvestituradel reame di Sardegna. Ma non senza significato cheil rinsaldamento simbolico dei vincoli culturali con lamadrepatria avvenisse attraverso linvio di unopera vec-chia di centocinquantanni: alla colonia veniva pur sem-pre attribuito un gusto pi arretrato di quello dellametropoli.

    Altri casi del genere, sia pure meno clamorosi,mostrano che questinterpretazione non si basa su unapetizione di principio. Tra Cinque e Settecento i polit-tici trecenteschi vengono allontanati dalle pi celebrichiese di Siena e relegati in remoti oratori o pievi dicampagna: quello di Pietro Lorenzetti, gi al Carmine,finisce a SantAnsano a Dofana. Talvolta il declassa-mento piuttosto sociale che geografico, come nel casodellAnnunciazione di Ambrogio Lorenzetti, che dallasala del Concistoro del Palazzo Pubblico passa a unastanza [...] accanto alla cucina dove sogliono pranzare idonzelli. In tal modo, unopera che era stata commis-

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  • sionata da Francesco monaco di San Galgano, camer-lengo della Biccherna, finiva con lessere fruita, anzichdai governanti senesi, a cui era stata originariamentedestinata, da un pubblico socialmente infimo54. Capita,in altre parole, che monumenti, arredi e opere del pas-sato a un certo momento vengano ceduti o gettati in uncanto come vestiti smessi. Una raccolta sistematica diquesto tipo di testimonianze sarebbe quanto mai rive-latrice dei mutevoli rapporti che intercorsero storica-mente tra i singoli centri e le rispettive periferie.

    Quanto detto fin qui mostra a sufficienza che il nessocentro/periferia non pu essere visto come un rapportoinvariabile tra innovazione e ritardo. Si tratta, al con-trario, di un rapporto mobile, soggetto a brusche acce-lerazioni e tensioni, legate a modificazioni politiche esociali, oltre che artistiche. Varr la pena di analizzarea questo proposito il panorama tracciato da Vasari, datoche nelle Vite egli forn un modello canonico, destinatoa pesare e a durare, della periferia come ritardo.

    13. Vasari.

    Per Vasari, lunica possibilit per un artista nato ededucato in provincia e quella di venire a contatto con ilcentro: solo cos potr entrare nel gioco dellinnovazio-ne e del progresso. La vocazione egemonica che erastata propria di Firenze fin dalla fine del Duecento verrassunta dal secondo decennio del Cinquecento, daRoma. E a Roma, spinti da una specie di inarrestabiletropismo, tendono artisti di ogni parte dItalia che sisono resi magari vagamente conto di quello che c nel-laria. Cos il Parmigianino, che

    venuto in desiderio di veder Roma, come quello che era insullacquistare e sentiva molto lodar lopere de maestri

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  • buoni, e particolarmente quelle di Raffaello e di Michela-gnolo, disse lanimo e disiderio suoi ai vecchi zii55.

    Cos Niccol Soggi, che:

    ... sentendo che a Roma si facevano gran cose, si part diFirenze, pensando acquistare nellarte e dovere anco avan-zare qualche cosa...56.

    O ancora Pierino da Vinci, il quale

    ... adunque, mentre che cos si portava, pi volte e dadiverse persone aveva udito ragionare delle cose di Romaappartenenti allarte e celebrarle, come sempre da ognunosi fa, onde in lui sera un grande desiderio acceso di veder-le, sperando daverne a cavare profitto, non solamentevedendo lopere degli antichi, ma quelle di Michelagnolo,e lui stesso allora vivo e dimorante in Roma57.

    Ci vale anche per Giovanni da Udine, che, mentre eraa Venezia con Giorgione a imparare larte del disegno,

    sent tanto lodare le cose di Michelangelo e Raffaello, chesi risolv di andare a Roma ad ogni modo58.

    O per Battista Franco che

    ... avendo nella sua prima fanciullezza atteso al disegno,come colui che tendeva alla perfezione di quellarte, se neand di venti anni a Roma; dove, poich per alcun tempocon molto studio ebbe atteso al disegno, e vedute le manie-re di diversi, si risolv non volere altre cose studiare n cer-care dimitare, che i disegni, pitture e sculture di Michela-gnolo59.

    Di fronte alle rivelazioni romane, artisti gi affermati

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  • ripudiano la loro prima educazione e ricominciano dacapo. Anche questo, dellartista gi celebre che ridi-venta discepolo una volta scoperta la buona maniera, un topos ricorrente in Vasari: un esempio celebre quel-lo di Raffaello che veduto il cartone della Battaglia diCascina di Michelangelo fece ci che

    un altro che si fusse perso danimo, parendogli avere insi-no allora gettato via il tempo, non arebbe mai fatto, ancorche di bellissimo ingegno...

    e cio

    smorbatosi e levatosi da dosso quella maniera di Pietro perapprender quella di Michelagnolo, piena di difficult in tuttele parti, divent quasi, di maestro, nuovo discepolo, e si sforzcon incredibile studio di fare, essendo gi uomo, in pochi mesiquello che arebbe avuto bisogno di quella tenera et che meglioapprende ogni cosa, e dello spazio di molti anni60.

    Il medesimo topos, con espressioni analoghe qualismorbarsi di una precedente educazione, o di mae-stro divenir discepolo, si ritrova nella vita del Garofa-lo che, giunto a Roma

    ... rest quasi disperato non che stupito nel vedere la gra-zia e la vivezza che avevano le pitture di Raffaello, e laprofondit del disegno di Michelagnolo. Onde malediva lemaniere di Lombardia, e quella che avea con tanto studioe stento imparato in Mantoa; e volentieri, se avesse potu-to, se ne sarebbe smorbato. Ma poich altro non si poteva,si risolv a voler disimparare, e, dopo la perdita di tantianni, di maestro divenire discepolo61.

    Il maledire le maniere di Lombardia evoca lebestemmie di Lombardia con cui si chiude il Dialogo

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  • della lingua di Machiavelli, a testimonianza di una con-cezione altrettanto monocentrica tanto pi palesequando si consideri che la vita del Garofalo era nelleintenzioni del Vasari destinata a fare

    brievemente un raccolto di tutti i migliori e pi eccellentipittori, scultori ed architetti che sono stati a tempi nostriin Lombardia...82.

    N il caso isolato perch, parlando col Vasari, Giro-lamo da Carpi

    ... si dolse pi volte daver consumato la sua giovanezza edi migliori anni in Ferrara e Bologna e non in Roma, o altroluogo dove averebbe fatto senza dubbio molto maggioreacquisto63.

    A Roma dunque si arriva da Parma, da Firenze, daVenezia, da Mantova o da Ferrara, e chi, avendola cono-sciuta, costretto ad abbandonarla, ne soffre profonda-mente, come Polidoro da Caravaggio che a Messina...

    sempre ardeva di desiderio di rivedere quella Roma, la qualedi continuo strugge coloro che stati ci sono molti anni, nel pro-vare gli altri paesi64.

    o come il Garofalo a Ferrara che

    nel fare delle quali opere ricordandosi alcuna volta daverelasciato Roma, ne sentiva dolore estremo, ed era risoluto perogni modo di tornarvi65.

    Limmagine della provincia quanto di pi lontanosi possa immaginare da quella, prestigiosa e stimolante,del centro. Un caso estremo quello della Calabria,patria di Marco Cardisco, di cui il Vasari scrive:

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  • Ma se quando noi veggiamo in qualche provincia nasce-re un frutto che usato non sia a nascerci ce ne maraviglia-mo; tanto pi duno ingegno buono possiamo rallegrarci,quando lo troviamo in un paese dove non nascano uominidi simile professione66.

    Non sempre la provincia questa plaga desolata dovela pianta degli artisti non alligna: ma quando anche vene siano, sar bene che non vi restino a lungo perchessa manca di esempi, di emulazione, di concorrenza,vale a dire di alcuni degli elementi fondamentali per losviluppo dellinnovazione. Arezzo, patria del Vasari, sitrova in tali condizioni. Per Giovan Antonio Lappoli questo un

    luogo ove non poteva anco da per s imparare, ancor cheavesse linclinazione della natura67;

    n diversamente il Montorsoli considera Perugia, oveil soggiornare non gli di alcun ausilio (non facevaper lui e non imparava), o Daniele Ricciarelli, Vol-terra, dove si avvede

    ... non aver [...] concorrenza che lo spignesse a cercar di sali-re a miglior grado, e non essere in quella citt opere n anti-che n moderne dalle quali potesse molto imparare68.

    Non solo Arezzo, Perugia o Volterra: anche Siena considerata una provincia poco stimolante agli occhi delVasari, che racconta come Sodoma

    ... non trovando concorrenza per un pezzo in quella cittvi lavorasse solo: il che se bene gli fu di qualche utile, glifu alla fine di danno; perciocch quasi addormentandosinon istudi mai69.

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  • Dello stesso avviso il Beccafumi che, sempre secon-do Vasari,

    ... non aveva maggior disiderio che dimparare e conosce-va in Siena perder tempo70.

    e cos saranno Bologna e Ferrara, nel caso del Vignolao in quello, gi citato, di Girolamo da Carpi.

    Si tratta di casi in cui lartista a detta del Vasari avrebbe quasi sempre preso coscienza della situazione.Altrove egli si limita a notare che lartefice di cui parla,se avesse avuto la possibilit di uscire dalla sua provin-cia, avrebbe fatto cose straordinarie (impossibili appun-to per chi rimanga in periferia). Cos a proposito diLuca de Longhi che

    se fusse uscito di Ravenna [...] sarebbe riuscito rarissimo71.

    o di un gruppo di scultori lombardi il cui limite addi-rittura di aver lavorato a Milano:

    ... Ma se in quel luogo fusse lo studio di questarti, che in Roma e in Firenze, arebbono fatto e farebbono tuttaviaquesti valentuomini cose stupende72.

    Particolarmente duro da ammettere per il Vasari ilcaso di chi deliberatamente non si muove, come ColadellAmatrice, provinciale volontario:

    ... il quale senza curarsi di veder Roma o mutar paese, sistette sempre in Ascoli,

    mentre

    costui non arebbe fatto se non ragionevolmente, se egliavesse la sua arte esercitata in luoghi, dove la concorrenza

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  • e lemulazione lavesse fatto attendere con pi studio allapittura, ed esercitare il bello ingegno, di cui si vede che erastato dalla natura dotato73.

    Del resto la sfida costituita dalle opere dei grandi nonconduce automaticamente allemulazione. In certi casilartista sfidato si tira indietro perch non si sentecapace di tanto. Cos il Franciabigio che

    non volle mai uscir di Firenze; perch avendo vedute alcu-ne opere di Raffaello da Urbino, e parendogli non esser paria tanto uomo n a molti altri di grandissimo nome, non sivolle metter a paragone di artisti cos eccellenti e rarissimi74.

    O Morto da Feltre, che avrebbe avuto in animo diabbandonare le grottesche che erano la sua specialit perdarsi alla figura:

    E poich era venuto in questo desiderio, sentendo iromori che in tale arte avevano Lionardo e Michelagnolo perli loro cartoni fatto in Fiorenza, subito si mise per andare aFiorenza; e vedute lopere, non gli parve poter fare il mede-simo miglioramento che nella prima professione aveva fatto:l onde egli ritorn a lavorare alle sue grottesche75.

    Altri non rinuncia, ma rimanda il confronto, comePierino da Vinci che

    and dunque in compagnia di alcuni amici suoi, e vedutaRoma e tutto quello che egli desiderava, se ne torn aFirenze; considerato giudiziosamente, che le cose di Romaerano ancora per lui troppo profonde, e volevano esserevedute e immitate non cos ne principj, ma dopo maggiornotizia dellarte76.

    La emulazione tra gli artisti e gli stimoli che possono

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  • venire dalle attese del pubblico sono, secondo il Vasari,molle fondamentali del progresso artistico. Ora, la man-canza di termini di confronto e la facile soddisfazione delpubblico fanno s che gli artisti in provincia siano menostimolati. quello che accade a Donatello a Padova:

    ... essendo per miracolo quivi tenuto e da ogni intelligentelodato, si deliber di voler tornare a Fiorenza, dicendo che,se pi stato vi fosse, tutto quello che sapeva dimenticato siavrebbe, essendovi tanto lodato da ognuno; e che volentierinella sua patria tornava per esser poi col di continuo bia-simato, il quale biasimo gli dava cagione di studio, e con-seguentemente di gloria maggiore77.

    Donatello secondo il Vasari sapeva che a Padovagli mancava lo stimolo della critica; altri lo ignoravano,come il Sodoma a Siena che non trovando concorrenzavi si addormentava, o come gli emiliani Bartolomeo daBagnacavallo, Amico Aspertini, Girolamo da Cotigno-la e Innocenzo da Imola, che

    ... non attesero allingegnose particolarit dellarte come sidebbe. Ma perch in Bologna in que tempi non erano pit-tori che sapessero pi di loro, erano tenuti da chi governa-va e dai popoli di quella citt, i migliori maestri dItalia78.

    N differente la sorte di Marco Cardisco a Napoli:

    Peroch non avendo emulazione n contrasto degli arte-fici nella pittura, fu da que signori sempre adorato, e dellecose sue si fece con bonissimi pagamenti sodisfare79.

    La funzione svolta dai committenti quindi strategi-camente decisiva. E della committenza napoletana il Vasa-ri d, nella vita di Polidoro, unimmagine ben pi negati-va di quella or ora citata. Polidoro, arrivato a Napoli,

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  • essendo quei gentiluomini poco curiosi delle cose eccellen-ti di pittura, fu per morirvi di fame80,

    per cui

    ... veggendo poco stimata la sua virt, deliber partire dacoloro che pi conto tenevano dun cavallo che saltasse, chedi chi facesse con le mani le figure dipinte parer vive81.

    Quello di Napoli presentato come un caso limite, maanche la Roma quattrocentesca, con i suoi cospicui inve-stimenti artistici, appare a Vasari espressione di un gustoarretrato e periferico:

    Se papa Eugenio IV, quando deliber fare di bronzo laporta di san Piero in Roma, avesse fatto diligenza in cer-care davere uomini eccellenti per quel lavoro; siccome neitempi suoi arebbe agevolmente potuto fare, essendo viviFilippo di Ser Brunellesco, Donatello e altri artefici rari;non sarebbe stata condotta quellopera in cos sciaguratamaniera, come ella si vede ne tempi nostri. Ma forse inter-venne a lui come molte volte suole avvenire a una buonaparte dei principi che o non sintendono dellopere, o neprendono pochissimo diletto. Ma se considerassono diquanta importanza sia il fare stima delle persone eccellen-ti nelle cose pubbliche per la fama che se ne lascia, nonsarebbono certo cos trascurati n essi n i loro ministri;perciocch chi simpaccia con artefici vili e inetti, d pocavita allopere e alla fama: senza che si fa ingiuria al pubblicoe al secolo in che si nato, credendosi risolutamente da chivien poi, che se in quellet si fossero trovati migliori mae-stri, quel principe si sarebbe piuttosto di quelli servito, chedeglinetti e plebei82.

    Lo stigma del provincialismo appare particolarmen-te evidente in un papa come Sisto IV, bersaglio tradi-

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  • zionale della polemica politica e culturale fiorentina.Secondo il Vasari, il pontefice, preferendo CosimoRosselli a Botticelli, al Ghirlandaio, a Signorelli, alPerugino, avrebbe mostrato la propria incompetenzadando prova di preferire i colori vistosi e costosi diCosimo alle ingegnose invenzioni degli altri:

    perciocch que colori, siccome si era Cosimo imaginato,a un tratto cos abbagliarono gli occhi del papa, che nonmolto si intendeva di simili cose, ancorach se ne dilet-tasse assai, che giudic Cosimo avere molto meglio chetutti gli altri operato. E cos fattogli dare il premio,comand agli altri che tutti coprissero le loro pitture deimigliori azzurri che si trovassero e le toccassino doro,acciocch fussero simili a quelle di Cosimo nel colorito enellesser ricche. Laonde i poveri pittori, disperati dave-re a soddisfare alla poca intelligenza del Padre Santo, sidiedero a guastare quanto avevano fatto di buono83.

    Per intendere il sapore del passo, sar opportunorichiamare un altro aneddoto, che il Vasari inser nellavita di Michelangelo a proposito del Menighella,

    pittore dozzinale e goffo di Valdarno, che era persona pia-cevolissima, il quale veniva talvolta a Michelagnolo, che glifacessi un disegno di san Rocco o di santo Antonio per dipi-gnere a contadini. Michelagnolo, che era difficile a lavo-rare per i re, si metteva gi lassando stare ogni lavoro, e glifaceva disegni semplici accomodati alla maniera e volontcome diceva Menighella: e fra laltro gli fece fare un model-lo dun Crocifisso, che era bellissimo, sopra il quale vi feceun cavo, e ne formava di cartone e daltre mesture, ed incontado gli andava vendendo, che Michelagnolo crepavadalle risa; massime che glintraveniva di bei casi: come conun villano il quale gli fece dipignere san Francesco, e dispia-ciutogli che il Menighella gli aveva fatto la veste bigia, che

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  • larebbe voluta di pi bel colore, il Menighella gli fece indosso un piviale di broccato, e lo content84.

    Il passo ha un evidente valore di topos, anche se le-sistenza storica del Menighella accertata. Ma questonon cinteressa, qui. Importa piuttosto notare che agliocchi del Vasari i gusti della clientela contadina delMenighella, che ordina quadri con i santi tipici delladevozione rurale (san Rocco, santAntonio, san France-sco) e ama i colori squillanti e vistosi, coincidono con lepredilezioni di un papa come Sisto IV, di cultura e for-mazione fratesca, legato a un ambiente attardato perVasari, sintende come quello della Roma quattrocen-tesca. Periferia sociale e periferia geografica ancora unavolta si sovrappongono.

    14. Fine del policentrismo e nascita della terza maniera.

    Unoperazione radicale, dunque, quella compiuta daVasari. Una situazione come quella che era venuta allo-ra emergendo in Toscana uno stato assoluto su baseregionale, caratterizzato dalla subordinazione e spolia-zione dei vari centri a vantaggio della capitale venivaproiettata nel passato: il ruolo di Siena o di Pisa venivasminuito, quello di Pistoia, Volterra o Lucca cancellato,Arezzo si salvava per carit di patria. Ma questa proie-zione del presente sul passato, o se si vuole questo ade-guamento (che era poi uno schiacciamento) del passatosul presente non era, come abbiamo visto, limitato allaToscana. A distanza di qualche decennio Vasari tiravale somme di un processo che allinizio del Cinquecentoaveva provocato una duplice cesura, politica e artistica,nella storia della penisola, riducendo drasticamente ilpolicentrismo precedente a vantaggio di pochi centri ingrado di conservare una certa autonomia. Gli anni del

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  • primo Cinquecento che, come si ricorder, vedono lasubitanea periferizzazione del Perugino, costretto alasciare Firenze dalle polemiche dei nuovi artefici,sono anni decisivi, in cui sta nascendo e gi imponen-dosi un nuovo paradigma, la terza maniera che noi scrive il Vasari vogliamo chiamare moderna: quelladi Leonardo, Giorgione, del graziosissimo Raffaelloda Urbino e del divino Michelagnolo Buonarrotiche fra i morti e vivi porta la palma, e trascende ericuopre tutti. La terribile variet e la ricchezzadella terza maniera fa apparire dun tratto antiquataquella bellezza nuova e pi viva che avevan comin-ciato a usare il Francia bolognese e il Perugino, e dimo-stra lo errore di coloro che nel vederla corsero comematti [...] parendo loro che e non si potesse giammai farmeglio85.

    proprio limporsi di quella terza maniera adaccompagnare un processo di ristrutturazione della geo-grafia artistica italiana processo che il Vasari registrae contribuisce ad accentuare proiettandolo nel passato.

    15. Un caso esemplare: lUmbria.

    Seguiamo questa vicenda attraverso un caso esem-plare, quello dellUmbria. Centri come Perugia, Gubbio,Foligno, Todi, Assisi, Montefalco, Spoleto, Orvieto,che tra il Duecento e il Quattrocento avevano avuto unaproduzione artistica complessa e diversificata, sono statia lungo vittime dellottica centralizzatrice di Vasari, alpunto che solo da qualche decennio la pittura umbraanteriore al Perugino diventata oggetto di analisi spe-cifiche86. Ma nel corso del Cinquecento questo panora-ma cos vario tende sempre pi alluniformit e alla ripe-tizione. Linnovazione sembra diventare privilegio ecaratteristica di pochi centri maggiori.

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  • Un elemento significativo di questa situazione lafedelt a una formula. Si veda la fortuna di un quadrocome lIncoronazione della Vergine di Domenico Ghir-landaio. Dipinta nel 1486 per gli Osservanti di SanGirolamo presso Narni, essa venne imitata pi volteper espressa volont dei committenti: nellIncoronazio-ne della Vergine della chiesa dei Riformati di Montesan-to in Todi, che lo Spagna si era impegnato a fare pic-tam de auro cum coloribus et aliis rebus ad speciem etsimilitudinem tabulae factae in Ecc. Sancti Jeronymi deNarnia, e che fu terminata nel 1511; nellIncoronazio-ne dipinta dal medesimo Spagna per i francescani diTrevi, e in quella confezionata da Jacopo Siculo nel1541 per la chiesa dellAnnunciata presso Norcia87.

    Un altro fenomeno caratteristico il costituirsi didinastie locali, particolarmente avvertibile a partire dallaseconda met del Quattrocento. Il meccanismo sembrapi o meno questo. Allinizio c la costituzione di unabottega familiare in cui lavorano padre e figli. I prodottidi questa bottega sono dapprima abbastanza aggiorna-ti, e si appoggiano a formule e schemi recenti che cono-scono un grande successo. Il capo della bottega puavere una esperienza abbastanza larga dovuta a viaggi,a una formazione fuori del paese o allalunnato pressoun pittore forestiero attivo nel luogo. Cos il soggiornoa Norcia di Niccol da Siena ha potuto influenzare ilsorgere degli Sparapane o di Domenico da Leonessa88.La dinastia degli Sparapane comincia la sua carrieradipingendo sulliconostasi della chiesa di San Salvatorea Campi (presso Norcia) la Madonna col Bambino, santie storie della vita di Cristo lasciandovi data e paternit:Questo laurero a pinto Johani de Sparapane et Anto-nio suo figliolo da Norscia 1464. In seguito, lutilizza-zione dei cartoni e del repertorio formale del capomae-stro diviene il consueto modus operandi della bottega,secondo una procedura che poteva assicurare la soprav-

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  • vivenza di certi schemi addirittura per generazioni. appunto il caso degli Sparapane di Norcia o degli Ange-lucci di Mevale89. Via via che passa il tempo cresce loiato tra la ripetizione di modi e formule, divenuti ormaiarcaici, e la produzione dei grandi centri. Queste dina-stie erano impiegate da singoli committenti per dipintivotivi, da confraternite o anche da comunit paesane;poteva avvenire che allombra di un santuario o di unluogo di pellegrinaggio si stabilisse una dinastia di arti-sti, come quella dei Lederwasch che a Tamsweg nel Sali-sburghese furono di padre in figlio addetti alla produ-zione artistica per lo splendido Santuario di San Leo-nardo, e la cui casa, attigua alla chiesa, si visita ancora.

    In un primo tempo questa proliferante pittura peri-ferica, legata a una committenza socialmente omogenea,non presenta ancora i caratteri nettamente ritardatariche assumer in seguito, quando il solco tra centro eperiferia si sar allargato. Essa mostra anzi una pivasta propensione e disponibilit agli investimenti arti-stici da parte di gruppi sociali che fino ad allora si eranoscarsamente impegnati in questo senso. Varrebbe lapena di tracciare una mappa delle decorazioni eseguitenel corso del Quattrocento, con chiari intenti edifican-ti, per chiese od oratori campestri: per limitarsi a qual-che caso piemontese tra i molti, si pensi a Domenicodella Marca dAncona che affresca labside della chiesadi Santa Maria di Spinariano presso Ciri90, a Giaco-mino da Ivrea, attivo in Canavese e nella Valle dAostaintorno alla met del secolo91, a Giovanni Massucco chelavora nel Monregalese92. Linstallarsi in provincia diartisti come Domenico della Marca dAncona, prove-nienti da localit remote, magari altrettanto periferiche,si accentua nel corso del Cinquecento: Jacopo Santoridi Giuliana, presso Palermo, meglio conosciuto comeJacopo Siculo93, opera tra Umbria e Sabina; sempre inSabina sono attivi, nella prima met del secolo, i vero-

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  • nesi Lorenzo e Bartolomeo Torresani; in Basilicata,nello stesso periodo, troviamo Simone da Firenze94.Parallelamente, pittori rinomati vengono sospinti o riso-spinti dal centro in periferia, perch incapaci di regge-re il passo delle proposte dei nuovi artefici e del con-seguente mutamento del gusto e delle attese del pub-blico. A parte il caso gi ricordato del Perugino che daFirenze deve riparare al Montone e alla Fratta, abbia-mo il percorso non dissimile di Signorelli, o, preceden-temente, quello di Antonio da Viterbo che, dopo averlavorato a Roma a imprese importanti come gli affreschidi Santa Francesca Romana, viene risospinto nellagroviterbese dallattivit dei pittori umbri e fiorentini chia-mati da Sisto IV, riducendosi a dipingere a Corchiano95.

    16. Riflusso e ritardo in periferia.

    I fenomeni che abbiamo elencato, e cio: a) la costi-tuzione di dinastie locali con il conseguente perpetuar-si, attraverso luso di cartoni e disegni, di certi schemi;b) lo stabilirsi in periferia di artisti di lontana prove-nienza che non si erano imposti n nei rispettivi paesidi origine, n nei centri artistici pi importanti; c) ilrifluire in periferia di artisti gi celebri messi in crisi daimutamenti stilistici in atto, configurano un processo diperiferizzazione che relega molte regioni italiane in unacondizione di subalternit culturale destinata a prolun-garsi nel corso dei secoli succes