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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA ISTITUTO SUPERIORE DI STATO MAGGIORE INTERFORZE 17° CORSO SUPERIORE DI STATO MAGGIORE INTERFORZE 3ª Sezione – 9° GdL TESI DI GRUPPO SMD Anno Accademico 2014-2015 Attività militari e danno ambientale. Le cause di esclusione della risarcibilità del danno ambientale, profili giuridici. La bonifica dei siti contaminati

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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA ISTITUTO SUPERIORE DI STATO MAGGIORE INTERFORZE

17° CORSO SUPERIORE DI STATO MAGGIORE INTERFORZE

3ª Sezione – 9° GdL

TESI DI GRUPPO SMD

Anno Accademico 2014-2015

Attività militari e danno ambientale. Le

cause di esclusione della risarcibilità del

danno ambientale, profili giuridici. La

bonifica dei siti contaminati

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COMPOSIZIONE DEL 9° GRUPPO DI LAVORO

Anno Accademico 2014-2015

Magg. CHO Yunje

Magg. DEL BUONO Alessandro

Dott. DE SANTIS Maurizio

C. C. DI VICO Gabriele

Ten. Col. FERRARO Gianluca

Dott.ssa GRASSELLI Cinzia

Magg. LACARRIERE Benoit

Magg. MARCONE Isidoro

Dott.ssa NASTASI Maria

Ten. Col. PALERMO Andrea

Magg. PERLA Michele

Ten. Col. ROLLINI Alberto

Magg. SPISSU Alessandro

Magg. TARANTINI Fulvio

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INDICE

1. PREMESSA

Pag. 1

2. BILANCIAMENTO TRA ESIGENZE DIFESA E TUTELA AMBIENTALE

a. L’imprescindibilità dell’addestramento militare

b. Il danno ambientale

c. Attività militari e danno ambientale

Pag. 2

Pag. 2

Pag. 6

Pag. 10

3. MISURE AMBIENTALI IN AMBITO DIFESA

a. Misure preventive: disciplina dei poligoni

b. Misure di ripristino: bonifica ambientale

c. Analisi misure adottate

Pag. 14

Pag. 14

Pag. 15

Pag. 17

4. CAUSE DI ESCLUSIONE RISARCIBILITA’

a. Confronto tra interessi costituzionalmente garantiti

b. Giurisprudenza di supporto

Pag. 19

Pag. 19

Pag. 21

5. CONCLUSIONI Pag. 29

BIBLIOGRAFIA

ELENCO DEGLI ALLEGATI:

Allegato A: SMD-L-014 – Direttiva sull’organizzazione, impiego e funzionamento del poligono sperimentale e di addestramento interforze di Salto di Quirra

Allegato B: Disciplinare per la tutela ambientale del poligono interforze di Salto di Quirra

Allegato C: Disciplinare per la tutela ambientale del poligono di Capo Teulada

Allegato D: Regolamento del poligono Cellina-Meduna

Allegato E: Esempio composizione Co.Mi.Pa. per le servitù militari (regione Sardegna)

Allegato F: Notice sur les infrastructures de tir – TOME I: Infrastructures de tir. Généralités et procedures. Annexe 12 – Instructions relatives au désobusage

Allegato G: INSTRUCTION n. 1642/DEF/EMAT/INS/FG/66, relative au désobusage des champs de tir

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1. PREMESSA

La Difesa della Patria e la tutela dell’ambiente sono interessi nazionali costituzionalmente salvaguardati. In quest’ottica le attività addestrative militari -funzionali alla Difesa nazionale - possono rappresentare un elemento di criticità in relazione alla convergenza dei due interessi in parola. A tal proposito, i Co.Mi.Pa. (Comitato Misto Paritetico), costituiti presso ogni Regione per armonizzare gli aspetti territoriali, economici e sociali delle Regioni e le loro limitazioni, con i programmi militari, possono risultare la sede istituzionale adatta per coordinare e bilanciare due interessi nazionali fondamentali talvolta apparentemente divergenti. L’elaborato intende analizzare il rapporto fra le attività militari e il danno ambientale attraverso l’individuazione e l’approfondimento e l’interpretazione di alcuni aspetti caratterizzanti. In particolare, il gruppo di lavoro ha concentrato l’attenzione sul recepimento del Codice dell’ambiente nel Codice dell’Ordinamento Militare e sulle cause di esclusione della risarcibilità del danno ambientale derivante dalla condotta di attività militari addestrative, nonché sulle misure concrete poste in essere dall’Amministrazione Difesa a prevenzione del danno ambientale potenzialmente derivante dalle citate attività e su quelle di ripristino post-esercitazione nello specifico contesto dei principali poligoni addestrativi delle Forze Armate sul territorio nazionale. La necessità di ricercare condizioni di addestramento quanto più vicine a quelle di ipotetico impiego reale dello strumento militare per la realizzazione dei compiti istituzionali ad esso assegnati implica, in ogni caso, un impatto ambientale. Tale impatto può assumere i connotati di danno ambientale quando si verifichino specifiche e misurabili condizioni di deturpamento dell’area interessata. Il danno implica la possibilità di risarcimento a carico di colui che lo ha cagionato. La normativa vigente in materia prescrive che le norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente «non si applicano alle attività svolte in condizioni di necessità ed aventi come scopo esclusivo la difesa nazionale, la sicurezza internazionale o la protezione dalle calamità naturali». Le attività militari possono essere intese, quindi, per la loro tipicità esenti da risarcimento qualora cagionino comunque un danno ambientale? Ci si chiede, dunque, se il concetto di necessità possa essere implicitamente sempre associato alle attività addestrative che sottendono il mantenimento dell’efficacia dello strumento militare per la difesa nazionale o se la condizione di necessità non debba essere intesa esclusivamente nell’accezione giuridica. Stante la chiara esistenza dello scopo di difesa nazionale, sicurezza internazionale e protezione da calamità naturali cui sottendono le attività addestrative militari, il gruppo di lavoro ha provato a chiedersi se anche la condizione di necessità sia sempre implicitamente associata alle summenzionate attività militari ovvero non si debba intenderla esclusivamente nell’accezione giuridica di ipotesi di forza maggiore e verificarne, pertanto, l’esistenza caso per caso. In questa seconda ipotesi, si è inteso comprendere quali possano essere ulteriori cause di esclusione della risarcibilità del danno ambientale. A tal proposito, si è reso indispensabile analizzare le misure preventive poste in essere al fine di limitare il rischio di danno ambientale, le attività di bonifica dei siti danneggiati e l’insieme delle modalità di coordinamento derivanti dai principi comunitari di precauzione e responsabilità del risarcimento del danno a carico di colui che inquina.

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2. BILANCIAMENTO TRA ESIGENZE DIFESA E TUTELA AMBIENTALE

a. L’imprescindibilità dell’addestramento militare

1) La Difesa Nazionale: fondamento costituzionale del ruolo delle Forze Armate. La Costituzione italiana accanto alla definizione dei principi fondamentali, dei diritti e doveri dei cittadini su cui si fonda l’intero apparato statale, fornisce indicazioni chiare sulla posizione delle Forze Armate nell'ordinamento italiano, alla luce del principio di democrazia che caratterizza la nostra forma di Stato. In tal caso due sono le norme chiave che fissano i punti fermi insuperabili sul ruolo e sui compiti delle Forze Armate e sono gli artt. 11 e 52 della Costituzione:

“L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. (Costituzione, Articolo 11)

“La difesa della patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici. L’ordinamento delle Forze Armate si informa allo spirito democratico della repubblica”. (Costituzione, Articolo 52)

Una approfondita interpretazione su entrambi gli articoli risulta quanto mai necessaria per comprendere il ruolo ed i compiti delle Forze Armate inteso dai padri fondatori della costituente e contestualizzato ai giorni nostri nel completo rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento enunciati nella prima parte della stessa carta costituzionale. L’art 52 definisce ad ampio spettro quello che è il più alto e nobile dovere di ogni cittadino (definito testualmente come “sacro dovere”) vale a dire la difesa della patria. Nel dettaglio l’articolo pone le Forze Armate, regolate ed ispirate da principi democratici, quali i principali detentori di tale compito ed indica inoltre l’obbligo di tutti i cittadini al servizio militare come stabilito dalla legge (attualmente sospeso dalla legge 23 agosto 2004 n. 226 – cd. legge Martino). Analizzando invece l’art. 11 si nota che la Costituzione, non soltanto rifiuta, in negativo, di considerare il ricorso alla forza quale principale od esclusivo criterio per risolvere le controversie internazionali; ma, in positivo, disegna uno scenario rivolto a creare condizioni sempre più favorevoli al negoziato ed alla pacifica convivenza. Al fine di perseguire tali scopi la Costituzione promuove le organizzazioni internazionali (ONU) e sovranazionali (Unione Europea) che intendano «assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni», anche, in particolare, attraverso limitazioni di sovranità. La nozione di “guerra” così come presupposta dai costituenti se si pensa all’attuale contesto socio politico, è quanto mai limitativa. Essi la pensarono come un conflitto che spesso interviene tra Stati confinanti; che (art. 78) si dichiara (e ciò, nel mondo attuale, accade sempre meno); che vede in campo eserciti regolari (o, al più, formazioni partigiane); che si conclude con atti giuridici formali (armistizi, trattati di pace), ecc.. E, ancora, l’art. 11 è stato pensato quando ancora non erano chiare le implicazioni di lungo periodo che sarebbero derivate dalle alleanze militari multilaterali che contrassegnarono per decenni la divisione del mondo in blocchi (NATO e Patto di Varsavia), né poteva tener conto della

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realtà del terrorismo organizzato su scala internazionale e delle drastiche novità che esso ha introdotto in relazione ai tradizionali conflitti bellici. Da un punto di vista strettamente militare dunque le Forze Armate sono chiamate a garantire quella tutela della sicurezza nazionale interpretata con un’accezione sempre più ampia che include, oltre alla difesa della sovranità nazionale, il concorso alla stabilità e alla sicurezza internazionale, la legittima salvaguardia e tutela degli interessi nazionali, nonché la prevenzione dei rischi, sia vecchi che nuovi, unitamente al contrasto da porre più generalmente in essere contro le violazioni del diritto e della pace. Tale concetto si incardina sempre più nelle numerose operazioni svolte dalle nostre Forze Armate nell’ultimo ventennio all’interno delle grandi organizzazioni internazionali di quali l’Unione Europea, l’Alleanza Atlantica e le Nazioni Unite. Di conseguenza, il supporto alle missioni operative della comunità internazionale è divenuto, soprattutto nel corso di questi ultimi anni, elemento caratterizzante l’impiego delle Forze Armate. La nuova configurazione del quadro mondiale impone perciò una continua e attenta rivalutazione, prima politica, poi strategica ed a cascata addestrativa del ruolo delle Forze Armate ai giorni d’oggi; interoperabilità in ambito nazionale e all’interno di alleanze internazionali, efficienza, flessibilità, alta professionalità e capacità a rischierarsi in tempi brevi sono infatti alcune delle caratteristiche che le truppe oggigiorno devono possedere e devono essere alla base di un continuo e costante aggiornamento.

2) Centralità ed imprescindibilità dell’addestramento. Oggi giorno in uno scenario complesso e dinamico come quello in cui viviamo la nozione di addestramento è sempre più un elemento indispensabile e strategico da sviluppare nel pieno rispetto dei compiti e dei ruoli, visti nel precedente paragrafo, a cui le Forze Armate sono chiamate ad adempiere. Oltre la fondamentale difesa nazionale vi è in gioco la credibilità del paese Italia e la sua capacità di operare, rischierare e sostenere rapidamente le necessarie capacità militari al fine di partecipare attivamente alle missioni internazionali a cui gli impegni in ambito UE, NATO ed ONU potrebbero condurre. E’ quindi da un adeguato addestramento che passa l’efficacia e la credibilità dello strumento militare, in termini di azione a protezione degli interessi nazionali, anche quando quest’ultimi potrebbero non coincidere del tutto con quelli dei principali partner europei e/o transatlantici. Gli impegni e le operazioni a carattere interforze e multinazionale richiedono una preparazione ed una conoscenza di tutto quello che è a monte del singolo sistema d’arma a cui va incluso il pieno funzionamento di una articolata catena di comando e controllo. Lo stesso “conflitto a fuoco” non deve essere ricondotto alla condotta di una mera singola manovra ma va contestualizzato ed inserito all’interno di una gestione ad ampio spettro in termini spaziali e temporali di più unità ed assetti con completa integrazione delle componenti terrestri, aeree e navali. Un grave errore sarebbe quello di considerare l’impegno in teatro operativo come un valido sostituto all’attività di addestramento. In missione infatti l’obiettivo principale è il successo dell’operazione, non importa se questo è ottenuto per intuizione del singolo o circostanze fortuite, o sfruttando al meglio le procedure e le tattiche stabilite e gli assetti a disposizione. Viceversa, nell’addestramento ciò che conta realmente è la messa alla prova e la padronanza proprio di procedure, tattiche, equipaggiamenti, nonché l’integrazione di assetti e l’efficacia della catena di comando e controllo che porteranno ad un successo in operazione reale. In altre parole, nell’addestramento anche l’insuccesso è un risultato utile in

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quanto porta grazie ad approfonditi de-briefing ad evidenziare carenze e criticità su cui lavorare per essere meglio preparati quando inviati in teatro operativo. La differenza tra missione reale ed addestrativa la si può avvicinare metaforicamente alla differenza che vi è tra un esperimento in laboratorio ed una operazione medica: nel primo caso l’obiettivo è testare e affinare sia l’approccio teorico che gli strumenti anche sbagliando e riprovando, nel secondo non vi è spazio per l’errore e l’unica cosa che conta è il risultato da raggiungere al primo tentativo. L’addestramento, oltre a predisporre le procedure e la struttura che al momento opportuno tradurrà in pratica l’intuizione tattica o strategica del comandante, assicura anche la “resilienza” delle Forze Armate nel caso in cui le operazioni militari si rivelino più impegnative del previsto. Proprio una padronanza di mezzi e procedure affiancata ad una consolidata esperienza personale costruita durante il ciclo continuo di addestramento potrà assicurare la capacità di reagire adeguatamente senza farsi prendere impreparati quando ci si trova sotto attacco e/o sotto scacco da parte dell’avversario. L’addestramento può essere quindi definito come «l’insieme di attività teorico/pratiche finalizzate a sviluppare la capacità, dei singoli soldati e delle unità nel loro complesso, di assolvere al meglio i compiti affidati . Esso trae fondamento dalle ipotesi di impiego e dalle esperienze maturate nei teatri operativi e, al contempo, costituisce la base per la condotta delle attività operative nel rispetto della sicurezza del soldato e degli altri attori non combattenti, oramai sempre più presenti sugli scenari urbanizzati dei contemporanei teatri di crisi: un addestramento costante, metodico e ‘realistico’ riduce il rischio di incidenti e danni collaterali»1. Un’altra funzione indispensabile dell’attività addestrativa, soprattutto in termini di politica estera e di difesa, è quella di assicurare la protezione dello spazio euro-atlantico in base agli impegni presi in ambito NATO, sebbene meno evidente di quella analizzata di un effettivo dispiegamento delle Forze Armate italiane in teatri operativi ai fini della politica estera. In generale, l’addestramento è necessario a mantenere la capacità operativa dello strumento militare, ad assicurare una risposta tempestiva ed adeguata in caso di necessità di impiego della forza. Ciò rende credibile in tempo di pace la minaccia dell’uso della forza, e quindi influisce sul calcolo strategico di attori potenzialmente o realmente ostili scoraggiando possibili azioni offensive e colpi di mano, che l’avversario valuta contrastabili e/o sventabili da Forze Armate adeguatamente addestrate. Sebbene il suddetto concetto si basi su di un meccanismo di deterrenza, che ha trovato nel periodo della Guerra Fredda forse la sua più ampia espressione, non deve essere considerato anacronistico ed inapplicabile al periodo storico successivo la caduta del muro di Berlino che stiamo vivendo. La sua importanza è anzi significativamente aumentata oggi nel contesto di crisi dei rapporti tra Russia e paesi occidentali. L’annessione Crimea da parte della Federazione Russa ha suscitato infatti un forte dibattito sulla reale prontezza, tempestività ed efficacia delle Forze Armate dell’Alleanza, ed in particolare di quelle destinate ad una reazione rapida. Non a caso, il vertice dei capi di stato e di governo NATO svoltosi in Galles nel mese di settembre 2014 ha preso decisioni importanti riguardo al Readiness Action Plan con la predisposizione di truppe altamente specializzate ed addestrate (VJTF - Very High Readiness Joint Task Force) e all’intensificarsi di addestramenti ed esercitazioni alleate in Europa orientale. Mostrare la qualità e continuità del training delle Forze Armate dei paesi alleati ha

1 Pubblicazione 13/A1 – “Le attività addestrative e di approntamento dei Comandi e delle Unità dell’Esercito” (SME –

III Reparto)

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infatti un duplice effetto e cioè quello di inviare da una parte un chiaro messaggio di deterrenza direttamente alla Russia e dall’altro un forte segnale di rassicurazione agli stati membri della NATO che si sentono maggiormente minacciati da Mosca. Nell’ambito del processo addestrativo delle truppe ed egli equipaggi è anche necessario evidenziare che negli ultimi anni lo sviluppo tecnologico ha fornito nuovi strumenti sempre più avanzati che hanno permesso di simulare ambienti complessi nei quali possono interagire tra loro strumenti, sistemi, entità e oggetti analoghi a quelli esistenti nel mondo reale. Uno dei vantaggi più evidenti del sistema virtuale è senza dubbio quello di replicare alcune situazioni e circostanze che in ambito addestrativo sarebbero di difficile riproduzione. E’ questo il caso ad esempio dei simulatori di volo, che permettono di testare, in una certa misura, la reazione del pilota di fronte a guasti meccanici, attacchi o imprevisti di altra natura che possono comportare la distruzione o il malfunzionamento del velivolo. Sebbene i vantaggi dell’impiego di strumenti di simulazione siano chiari soprattutto in chiave economica e di standardizzazione, è altresì evidente che non sia possibile né efficace fare affidamento esclusivamente ad un addestramento simulato e/o virtuale. Esiste il rischio potenziale di una divergenza, più o meno ampia, tra il contesto reale e quello virtuale, ed è per questa ragione che il trade-off tra i vantaggi e gli svantaggi delle esercitazioni simulate, rispetto a quelle “reali” sul campo, deve sempre essere valutato razionalmente, in modo da garantire il massimo livello di efficacia della preparazione in caso di impiego operativo. Ad esempio, la peculiarità di alcuni mezzi (soprattutto aero-navali) e delle forze specialistiche delle nostre Forze Armate richiede necessariamente che siano svolte attività addestrative pratiche volte alla condotta tattica ed in sicurezza dei mezzi. Nonostante le simulazioni siano estremamente valide per gli staff di comando e per un addestramento basico della condotta ed utilizzo del mezzo, le attività reali sono insostituibili forme di addestramento dell’unità, intesa come binomio mezzo/equipaggio, delle componenti specialistiche e forze speciali, non surrogabili da evoluti software di simulazione, da sistemi informativi e da tecnologie basate sul virtuale. L’addestramento virtuale e/o simulato assume perciò un carattere integrativo piuttosto che sostitutivo rispetto a quello reale ed in questo contesto la disponibilità di aree addestrative e poligoni all’interno del territorio nazionale risulta quanto mai indispensabile e strategico. Queste aree infatti sono un assetto irrinunciabile per l’addestramento delle Forze Armate, particolarmente nel contesto italiano ed internazionale emerso dalla precedente analisi. All’interno dei poligoni nel dettaglio gli equipaggi possono impiegare armamento live o training (inerte) ed avere un feedback real time sullo score dei propri tiri e degli sganci mediante sofisticati sistemi di rilevazione a disposizione dei direttori dei poligoni stessi. Devono considerarsi quindi parte integrante e fondamentale di quel processo che consente di migliorare/perfezionare la capacità operativa esprimibile tramite l’individuazione di gap capacitivi da colmare attraverso il processo di Lesson Learned / Lesson Identified cioè derivante dall’identificazione delle Lezioni Identificate e la loro successiva trasformazione, se del caso, in Lezioni Apprese con l’implementazione di queste ultime, in seguito a un’adeguata attività di sperimentazione. Da non sottovalutare inoltre che da una parte l’attività addestrativa ai tiri e la sua relativa certificazione è un presupposto irrinunciabile richiesto dalla stessa NATO (secondo le direttive sugli standard in ambito alleanza atlantica) per gli assetti

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nazionali in High Readiness e quelli designati NRF, e dall’altra che la necessità di sviluppare e certificare nuove tattiche d’impiego dei sistemi d’arma e dell’armamento trova nell’attività all’interno dei poligoni un presupposto imprescindibile. Rinunciare all’utilizzo di siti come capo Teulada, capo Frasca o Salto di Quirra dove è possibile compiere esercitazioni complesse che coinvolgano le componenti terrestre, navale ed aerea, rischierebbe di inficiare significativamente le capacità operative delle Forze Armate italiane. «In questo senso, la questione delle aree addestrative richiama la logica NIMBY (Not In My Back Yard) che in Italia si mescola con un localismo esasperato. Basti ricordare la vicenda degli inceneritori/termovalorizzatori di rifiuti o dei siti di stoccaggio del materiale radiologico e nucleare: si riconosce la necessità di tali strutture, ma nessuna comunità locale vuole situarla nel proprio territorio»2. Una eventuale opzione dell’addestramento effettuato al di fuori dei confini nazionali comporterebbe accanto a costi di locazione, di approntamento e di trasporto molto ingenti anche una dipendenza dalla disponibilità degli altri stati e dalle relative scelte di politica estera con relativa perdita di sovranità e compromissioni in termini di segretezza e affidabilità. Le aree addestrative localizzate all’estero non sono inoltre necessariamente ottimizzate o configurate per le Forze Armate italiane e si potrebbe incorrere nel rischio di rendere l’attività e l’esercizio poco efficace e soprattutto poco efficiente. Per ultimo non va assolutamente sottovalutata l’importanza delle attività sperimentali all’interno dei poligoni svolte dalle Forze Armate per testare equipaggiamenti nuovi o di possibile acquisizione, o dall’industria nazionale per sviluppare e mettere a punto nuovi prodotti non solo militari, ma anche civili nel campo della sicurezza (nella duplice accezione della security e della safety). In questi casi l’esigenza di riservatezza è particolarmente elevata e non può che essere soddisfatta dall’utilizzo di poligoni nazionali.

b. Il danno ambientale

Il danno ambientale consiste nella distruzione o nel deterioramento dell’ambiente naturale considerato in sé e per sé, e cioè a prescindere dall’esistenza di pregiudizi ai singoli beni che lo compongono (aria, acqua, terra, fauna, clima, ecc.). La distruzione dell’ambiente costituisce un danno per la collettività; tuttavia non essendo quest’ultima, in quanto tale, soggetto di diritto, la legittimazione a domandare il risarcimento spetta agli enti esponenziali di essa, e quindi alla pubblica amministrazione. La nozione di danno ambientale, secondo parte della dottrina, è stata introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (oggi abrogato), il quale stabiliva che “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”. Tale opinione tuttavia non è stata condivisa dalla Cassazione, secondo la quale il diritto al risarcimento del danno ambientale preesisteva addirittura all’introduzione della legge n. 349 del 1986, in quanto scaturisce direttamente dal combinato disposto degli artt. 2, 3, 9 secondo comma, 41 e 42, della Costituzione, e dell’art. 2059 c.c.. L’art. 18 della legge n. 349/86, in pratica, non avrebbe introdotto nel nostro

2 Camera dei Deputati, Commissione Difesa, Indagine conoscitiva in materiadi servitù militari, 31 luglio 2014,

http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/stenografici/pdf/04/indag/c04_militari/2014/07/31/leg.17.

stencomm.data20140731.U1.com04.indag.c04_militari.0013.pdf

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ordinamento una nozione di “danno ambientale” inesistente per il futuro, ma si sarebbe limitato a ripartire tra Stato, enti locali ed associazioni di protezione ambientale la legittimazione ad agire o intervenire nel relativo giudizio di risarcimento.

1) Il perimetro di definizione del danno La nozione di danno ambientale è oggi prevista e disciplinata dall’art. 300 del d. lgs. 3.4.2006 n.152 (c.d. Codice dell’Ambiente, recante “Norme in materia ambientale”), il quale definisce “danno ambientale” qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima. La stessa norma prevede poi (al comma secondo) alcune ipotesi specifiche di danno ambientale, richiamando la direttiva europea in materia (direttiva 2004/35/CE), per cui in ogni caso: “costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato”: (a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e

comunitaria; (b) alle acque interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente

negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate;

(c) alle acque costiere e a quelle ricomprese nel mare territoriale, in conseguenza delle medesime azioni indicate sub (b) anche se svolte in acque internazionali;

(d) al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell’introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l’ambiente.

2) Legittimità delle azioni di risarcimento Presupposto per il risarcimento del danno ambientale è innanzitutto la compromissione dell’ambiente, la quale tuttavia non si identifica con il mero pregiudizio patrimoniale derivato ai singoli beni che ne fanno parte, perché il bene pubblico (che comprende l’assetto del territorio, la ricchezza di risorse naturali, il paesaggio come valore estetico e culturale e come condizione di vita salubre in tutte le sue componenti) deve essere considerato unitariamente per il valore d’uso da parte della collettività quale elemento determinante della qualità della vita della persona, quale singolo e nella sua aggregazione sociale. La legittimazione ad agire per il risarcimento spetta, pertanto, allo Stato attraverso l’azione civile in sede penale da parte del Ministero dell’Ambiente3. In dottrina si è peraltro osservato che la norma conduce a negare il diritto al risarcimento del danno quanto a fatti che abbiano inciso su beni diversi da quelli ivi contemplati e, dunque, conferma l’assenza di risarcibilità del danno meramente patrimoniale, quale quello che sarebbe subìto dall’imprenditore turistico che veda decrescere i propri utili a seguito di un fatto che abbia deturpato un’area paesaggistica vicina al luogo in cui egli svolge la propria attività (vedi C. Castronovo, “La natura del danno ambientale e i criteri di imputazione della responsabilità”, in Nicotra-Salanitro [a cura di] “Il danno ambientale tra prevenzione e Riparazione”, 135).

3) I principi generali nell’art. 298 bis In materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente, tuttavia, la parte sesta del Codice dell’Ambiente (normativa che ha recepito in Italia nel 2006 la direttiva

3 Rif. Art. 311 n.1 del D. Lgs. n. 152/2006.

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e i criteri in materia di responsabilità ambientale e quantificazione del danno dettati dalla direttiva europea 2004/35/CE) ha di recente subìto importanti modifiche. Con la c.d. legge Comunitaria 2013 (legge 06.08.2013 n. 97, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 20.08.2013 n. 194), all’art. 25, il legislatore ha innanzitutto introdotto l’art. 298 bis che detta i “principi generali” in materia, affermando che la disciplina dettata dalla parte sesta del “Codice dell’Ambiente” si applica: “a) al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell’allegato 5 alla stessa parte sesta (ndr: ad esempio gestione e smaltimento dei rifiuti, scarichi di sostanze nelle acque sotterranee, estrazione e arginazione di acque, fabbricazione, uso, stoccaggio di sostanze pericolose, ecc.) e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività; b) al danno ambientale causato da un’attività diversa da quelle elencate nell’allegato 5 alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività, in caso di comportamento doloso o colposo”. La riparazione del danno alla luce del secondo comma dell’art. 298 bis: “deve avvenire nel rispetto dei princìpi e dei criteri stabiliti nel titolo secondo e nell’allegato 3 alla parte sesta, ove occorra anche mediante l’esperimento dei procedimenti finalizzati a conseguire dal soggetto che ha causato il danno, o la minaccia imminente di danno, le risorse necessarie a coprire i costi relativi alle misure di riparazione da adottare e non attuate dal medesimo soggetto”. A tal proposito, uno dei temi più complessi e suggestivi che le norme di tutela dell’ambiente pongono all’attenzione dell’interprete, è quello del rapporto che intercorre tra bonifica e risarcimento del danno ambientale. La difficolta di distinguere tra i due tipi di tutela, nasce innanzitutto dalla obiettiva difficolta di inquadrare nelle categorie giuridiche tradizionali lo stesso concetto di ambiente. Il concetto di ambiente si configura, sempre più, come una scelta giuridica complessa, molto influenzata dal diritto internazionale, che non si qualifica esclusivamente come bene unitario ed immateriale, ma anche come espressione di un autonomo valore collettivo, costituzionalmente garantito e come obiettivo dei pubblici poteri. La ambivalenza del concetto non può non riflettersi sulla nozione di danno ambientale e sull’interpretazione delle norme chiamate a presidiare l’ambiente sul piano specifico della tutela (ripristinatoria e risarcitoria). La difficolta è accentuata dal carattere obiettivamente frammentario della legislazione. Anche la terminologia ambigua del legislatore non aiuta. Alla bonifica dei siti contaminati e al risarcimento del danno ambientale il D.Lgs. n. 152 del 2006 dedica due distinte discipline. Esistono però delle commistioni di concetti che tendono a rendere indistinta la linea di confine tra bonifica e risarcimento, in particolare, la difficolta di coordinare le norme sul risarcimento ambientale con le norme in tema di ripristino, sempre dettate dalla parte sesta del decreto legislativo n. 152. Il rischio è quello di una duplicazione inutile di meccanismi di riparazione ambientale, di difficile definizione e di ancora più difficile attuazione pratica, tenendo tra l’altro presente che questi meccanismi si sommano agli strumenti di riparazione in forma specifica previsti dalla parte quarta in materia di bonifica. La linea di confine tra bonifica e risarcimento del danno ambientale risulta incerta anche a fronte della tendenza di privilegiare, per evidenti ragioni di speditezza, l’istituto della bonifica in relazione a matrici ambientali (in particolare marine, lacuali e fluviali) esterne al sito propriamente responsabile della contaminazione. Nell’attuale quadro normativo il danno ambientale è soggetto a due diversi regimi, uno di carattere generale, relativo al risarcimento del danno ambientale,

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introdotto, come sopra detto, per la prima volta con la legge n. 349 del 1986, ed uno di carattere speciale, relativo alla bonifica dei siti contaminati. Il regime sulla bonifica prevede a sua volta una disciplina generale e una disciplina specifica per siti di interesse nazionale. Di fondamentale importanza è la distinzione tra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente, posta dall’art. 2058 codice civile, che si traduce, nel campo della tutela ambientale, nella distinzione tra bonifica e risarcimento del danno ambientale, dove la bonifica costituisce il mezzo di ripristino delle matrici ambientali contaminate, se c’è il rischio di effetti nocivi per la salute umana. Il risarcimento del danno ambientale è il ristoro del danno arrecato alla risorsa ambientale in sé, o alle utilità assicurate dalla risorsa stessa. Il criterio interpretativo di fondo delle norme sul danno ambientale sembra si debba individuare nella bipartizione tra riparazione in forma specifica, sotto forma di messa in sicurezza o di bonifica. La riconducibilità di entrambe le forme di tutela nel meccanismo del risarcimento, costituisce un argomento di non secondaria importanza per qualificare sul piano soggettivo in maniera omogenea la responsabilità per danno ambientale. Il modello della responsabilità per colpa, oggi si può dire affermato con chiarezza dalle norme sulla Responsabilità per danno ambientale contenute nella parte sesta del D.Lgs. 152 del 2006, mentre manca un’affermazione esplicita di questo principio con riferimento all’istituto della bonifica. Si può, infine, sottolineare che l’obbligo di bonifica corrisponde all’esecuzione in forma specifica del risarcimento del danno ambientale. Sarebbe illogico e contraddittorio ritenere che la regola di responsabilità valevole per il danno ambientale, cioè per il risarcimento per equivalente, non valga per la bonifica, cioè per il risarcimento in forma specifica. Sotto questo aspetto, entrambe le forme di risarcimento rappresentano due aspetti, inscindibilmente connessi dello stesso meccanismo riparatorio. Il principio fondamentale in materia di danno ambientale è oggi quello per il quale, a norma dell’articolo 311, comma 2 del D.Lgs. n. 152 del 2006, il responsabile è obbligato in via prioritaria al ripristino della precedente situazione, o in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale.

4) Misure e obblighi per la riparazione del danno Sempre l’art. 25 della “legge Comunitaria” ha poi profondamente modificato il secondo e il terzo comma dell’art. 311 del “Codice dell’Ambiente”. Al secondo comma, in pratica, si statuisce che: «quando si verifica un danno ambientale», sia che venga cagionato dagli operatori le cui attività sono elencate nell’allegato 5, sia che venga provocato anche da «chiunque altro cagioni un danno ambientale con dolo o colpa», i danneggianti sono obbligati primariamente «all’adozione delle misure di riparazione di cui all’allegato 3 alla medesima parte sesta secondo i criteri ivi previsti». Solamente nel caso in cui: «quando l’adozione delle misure di riparazione anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio determina i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione, e agisce nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti»4 (la possibilità di chiedere la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, del resto, secondo la Suprema

4 Cass. 10.12.2012 n. 22382.

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Corte, deve intendersi compresa, sebbene non espressamente formulata, nella generica domanda di risarcimento del danno). Al terzo comma dell’art. 311 viene poi previsto che: «Il ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio provvede in applicazione dei criteri enunciati negli allegati 3 e 4 della presente parte sesta alla determinazione delle misure di riparazione da adottare, e provvede con le procedure di cui al presente titolo terzo all’accertamento delle responsabilità risarcitorie».

5) Valutazione economica e responsabilità individuale I criteri e i metodi, anche di valutazione monetaria, per determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa verranno definiti: “con decreto del ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, sentito il ministro dello sviluppo economico, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 in conformità a quanto previsto dal punto 1.2.3 dell’allegato 3”. Tali criteri e metodi dovranno essere applicati: «anche ai giudizi pendenti non ancora definiti con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto, di cui al periodo precedente»5 (sulla portata retroattiva anche dei criteri individuati dalla precedente versione dell’art. 311 secondo comma del “Codice dell’Ambiente”). Il legislatore, infine, ha ribadito nell’ultima parte dell’art. 311 il principio importantissimo della responsabilità individuale (e non solidale) del c.d. “danno ambientale”: “nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale. Il relativo debito si trasmette, secondo le leggi vigenti, agli eredi, nei limiti del loro effettivo arricchimento”.

c. Attività militari e danno ambientale

Il decreto legislativo 152/2006 all’art. 303 comma 1 lett. e), prescrive che le norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente non si applicano “alle attività svolte in condizioni di necessità ed aventi come scopo esclusivo la difesa nazionale, la sicurezza internazionale o la protezione dalle calamità naturali”. Tale esclusione è ribadita dall'art. 369 del decreto legislativo 66/2010 (Codice dell’Ordinamento militare – COM). Ci si chiede quindi cosa debba intendersi per “condizione di necessità”: è una condizione di impossibilità di fare diversamente o la si deve intendere come ciò che è e non può non essere, ovvero si tratta di una necessità contingente, momentanea, occasionale o è una condizione ontologica dell'attività militare? L'art. 356 del Codice dell'Ordinamento Militare nel richiamare, per i beni e le attività dell'Amministrazione della Difesa e delle Forze Armate, l'applicazione delle vigenti norme in materia di ambiente nei limiti di compatibilità con gli speciali compiti e attività da esse svolti, impone di tener conto “delle insopprimibili esigenze connesse all'utilizzo dello strumento militare”. Il successivo art. 357, con riferimento al rapporto tra attività addestrative e tutela ambientale, stabilisce che l'Amministrazione della Difesa, nell'ambito delle aree di uso esclusivo delle Forze Armate, ha la possibilità di stipulare convenzioni finalizzate alla tutela ambientale che regolamentino l'attività, con amministrazioni o enti, mentre, nelle ipotesi di aree addestrative non demaniali e di poligoni semipermanenti od occasionali che insistono in parchi o aree sottoposte a tutela ambientale, l'utilizzazione ed il mantenimento dei siti si attua a mezzo di un più

5 Cass. 22.03.2011 n. 6551.

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ampio protocollo d'intesa tra AD, Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Corpo Forestale dello Stato ed Ente gestore del parco. Si evince, pertanto, come occorra sempre un raccordo tra le esigenze della difesa e quelle di tutela ambientale, sebbene alla luce degli speciali compiti e attività svolte dalle Forze Armate. Pertanto, vi è un espresso richiamo all'applicazione generale della vigente normativa ambientale anche per l'AD, salvo specifici casi di deroga, conformemente al “Principio dell'azione ambientale” sancito nell'art. 3 - ter D.Lgs. 152/2006 il quale richiama alla garanzia di applicazione della tutela dell'ambiente, degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale, «tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private» i quali devono porre in essere una adeguata azione informata ai principi della precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio «chi inquina paga» che, ai sensi dell'articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale; inoltre l'AD nel disciplinare la propria attività è tenuta al rispetto degli altri principi generali previsti nel D.Lgs. n. 152/20066. Le Forze Armate sono, altresì, tenute al

6 D.Lgs. n. 152/2006, Parte I:

Art. 2 Finalità 1. Il presente decreto legislativo ha come obiettivo primario la promozione dei livelli di qualità della vita umana, da

realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell'ambiente e l'utilizzazione accorta e

razionale delle risorse naturali.

2. Per le finalità di cui al comma 1, il presente decreto provvede al riordino, al coordinamento e all'integrazione

delle disposizioni legislative nelle materie di cui all'articolo 1, in conformità ai principi e criteri direttivi di cui ai

commi 8 e 9 dell' Art. 1 della legge 15 dicembre 2004, n. 308, e nel rispetto degli obblighi internazionali,

dell'ordinamento comunitario, delle attribuzioni delle regioni e degli enti locali.

3. Le disposizioni di cui al presente decreto sono attuate nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie

previste a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Art. 3-bis. Principi sulla produzione del diritto ambientale l. I principi posti dalla presente Parte prima e dagli articoli seguenti costituiscono i principi generali in tema di

tutela dell'ambiente, adottati in attuazione degli articoli 2, 3, 9, 32, 41, 42 e 44, 117 commi 1 e 3 della Costituzione e

nel rispetto degli obblighi internazionali e del diritto comunitario.

2. I principi previsti dalla presente Parte Prima costituiscono regole generali della materia ambientale nell'adozione

degli atti normativi, di indirizzo e di coordinamento e nell'emanazione dei provvedimenti di natura contingibile ed

urgente.

3. Le norme di cui al presente decreto possono essere derogate, modificate o abrogate solo per dichiarazione

espressa da successive leggi della Repubblica, purché' sia comunque sempre garantito il rispetto del diritto

europeo, degli obblighi internazionali e delle competenze delle Regioni e degli Enti locali.

Art. 3-ter. Principio dell'azione ambientale 1. La tutela dell'ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti

pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia

informata ai principi della precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni

causati all'ambiente, nonché al principio «chi inquina paga» che, ai sensi dell'articolo 174, comma 2, del Trattato delle

unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale.

Art. 3-quater. Principio dello sviluppo sostenibile 1. Ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello

sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa

compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future.

2. Anche l’attività della pubblica amministrazione deve essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile

del principio dello sviluppo sostenibile, per cui nell'ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati

connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell'ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di

prioritaria considerazione.

3. Data la complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura e attività umane, il principio dello sviluppo

sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell'ambito delle risorse ereditate, tra quelle da

risparmiare e quelle da trasmettere, affinché nell'ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca

altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell'ambiente anche futuro.

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rispetto della normativa indicata nella Parte VI del Testo unico sull'ambiente inerente la disciplina del risarcimento del danno ambientale, ove viene in rilievo, la previsione dell'esclusione della responsabilità per le attività svolte in condizioni di necessità ed aventi come scopo esclusivo la difesa nazionale e la sicurezza internazionale. Alla luce di quanto sopra esposto, sembra potersi escludere che il concetto di necessità qui richiamato possa riferirsi, tout cour ed aprioristicamente, all'intera attività delle Forze Armate, istituzionalmente volte a garantire la difesa nazionale e la sicurezza internazionale; sembra, invece, più opportuno ritenere che il legislatore abbia voluto riferirsi ad attività che, in quel momento in cui sono state poste in essere non potevano non essere svolte, per quei determinati fini; quindi si tratta di attività legate ad esigenze contingenti, non strutturali, come possono essere le esercitazioni normalmente programmate nei poligoni. Nel nostro ordinamento è già presente la nozione di “stato di necessità” con cui si fa riferimento ad una situazione di particolare urgenza o emergenza cui l’ordinamento giuridico riconosce particolare rilevanza; trattasi di un istituto che affonda le sue radici nel diritto romano, ove il principio “necessitas non habet legem”. Tale fenomeno taglia trasversalmente l’ordinamento stesso, interessando il diritto civile, penale ed amministrativo. Invero, il legislatore civile contempla detto fenomeno all’interno dell’ art. 2045 c.c., quale circostanza che esclude la responsabilità civile da fatto illecito (residua un obbligo di indennizzo). Inoltre, numerosi autori scorgono tale figura nello “stato di pericolo” che, ai sensi dell’art. 1447 c.c., funge da presupposto operativo del rimedio contrattuale della rescissione, pur non risultando necessaria la “non volontaria causazione”7. La responsabilità civile sorge allorché vi sia un fatto illecito - individuato in un comportamento umano ovvero in una situazione di relazione con l'autore del fatto o con la cosa da cui il danno è derivato - che determina un danno ingiusto. Quest'ultimo consiste nella lesione di un interesse giuridicamente protetto nella vita di relazione, che si pone quale conseguenza immediata e diretta del fatto medesimo. Può accadere che, pur in presenza dei suindicati presupposti, la legge escluda la sussistenza, in tutto o in parte, dell'obbligazione risarcitoria. Al riguardo è opportuno, tuttavia, precisare che, in realtà, tale sussistenza è solo apparente, poiché nelle fattispecie disciplinate vi sono alcuni dei requisiti previsti dalla legge ai quali non è possibile attribuire la qualificazione necessaria per definire ingiusto il

4. La risoluzione delle questioni che involgono aspetti ambientali deve essere cercata e trovata nella prospettiva di

garanzia dello sviluppo sostenibile, in modo da salvaguardare il corretto funzionamento e l'evoluzione degli

ecosistemi naturali dalle modificazioni negative che possono essere prodotte dalle attività umane.

Art. 3-quinquies. Principi di sussidiarietà e di leale collaborazione 1. I principi contenuti nel presente decreto legislativo costituiscono le condizioni minime ed essenziali per assicurare

la tutela dell'ambiente su tutto il territorio nazionale;

2. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono adottare forme di tutela giuridica dell'ambiente

più restrittive, qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio, purché' ciò non comporti un'arbitraria

discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi procedimentali.

3. Lo Stato interviene in questioni involgenti interessi ambientali ove gli obiettivi dell'azione prevista, in

considerazione delle dimensioni di essa e dell’entità dei relativi effetti, non possano essere sufficientemente realizzati

dai livelli territoriali inferiori di governo o non siano stati comunque effettivamente realizzati.

4. Il principio di sussidiarietà di cui al comma 3 opera anche nei rapporti tra regioni ed enti locali minori. Qualora

sussistano i presupposti per l'esercizio del potere sostitutivo del Governo nei confronti di un ente locale, nelle materie

di propria competenza la Regione può esercitare il suo potere sostitutivo. 7 Art. 2045 cc - Stato di necessità

Quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un

danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al

danneggiato è dovuta un' indennità la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice.

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danno che si realizza. Emerge un'esigenza di contemperamento degli opposti interessi che, in circostanze particolari, inducono a limitare o addirittura ad escludere la stessa responsabilità; l'art. 2045 c.c. prevede comunque la corresponsione di una indennità la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice. Quanto al profilo amministrativo, lo stato di necessità costituisce la “ratio” giustificatrice delle ordinanze contingibili ed urgenti, provvedimenti destinati a fare fronte a situazioni di “urgenza qualificata”, idonei a derogare alla disciplina legislativa di rango ordinario, nonché al principio di tipicità e nominatività degli atti amministrativi, sebbene per il tempo strettamente necessario al componimento dell’urgenza stessa (si veda, ad es., art. 54 TUEL). Il codice penale8 disciplina espressamente lo stato di necessità all’interno dell’art. 54, che prevede la non punibilità di chi commette un fatto corrispondente alla descrizione operata da una norma incriminatrice per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo di un danno grave alla persona, da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, e sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo, ferma restando la necessaria corresponsione di un’indennità nei confronti del danneggiato (come desumibile dalla contestuale lettura dell’ art. 2045 c.c.). Pertanto, la causa di esclusione prevista dal legislatore ex art. 303, comma 1, lett. e) del D.Lgs n. 152/2006 e richiamata dall'art. 369 D.Lgs n. 66/2010 (COM) e riferita alla natura dell'attività svolta, circoscrive la responsabilità risarcitoria della Difesa, aggiungendosi al già riconosciuto principio scriminante dello stato di necessità e, parimenti, da valutare caso per caso. Sembra, inoltre, che l'AD, contrariamente a quanto accade ex art. 2045 cc, in tali ipotesi, non sia tenuta alla corresponsione di un indennizzo; deve comunque provvedere ad adottare le misure di bonifica ai sensi della Parte IV, titolo V D.Lgs n. 152/2006.

8 Art. 54 c.p. Stato di necessità.

Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo

attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che

il fatto sia proporzionato al pericolo.

Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.

La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui

minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.

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3. MISURE AMBIENTALI IN AMBITO DIFESA

a. Misure preventive: disciplina dei poligoni

Come detto, la disponibilità sul territorio nazionale di poligoni per l'approntamento e l'addestramento dei contingenti militari nonché per le attività di sperimentazione dei nuovi sistemi d’arma, risulta determinante per la preparazione, l’addestramento, l'operatività e la sicurezza del personale militare impegnato in Patria e nelle diverse missioni internazionali. La possibilità di svolgere tali attività è particolarmente importante, oltre che per scontate motivazioni economiche e temporali, perché consente di mantenere un elevato livello di riservatezza, minimizzando cosi il rischio che prove o cicli addestrativi condotti su Poligoni esteri potrebbero portare ad una indesiderata dispersione di informazioni operative. Le aree preposte a tali scopi sono presenti su tutto il territorio nazionale e sono definite nel dettaglio dal Comitato Misto Paritetico9 (Co.Mi.Pa.) in accordo con ciascuna Regione. Il Co.Mi.Pa. è un organo di reciproca consultazione tra l’Amministrazione Difesa (AD) e le Regioni per l'esame dei problemi connessi all'armonizzazione tra i piani di assetto territoriale e di sviluppo economico e sociale della regione e delle aree subregionali ed i programmi delle installazioni militari e delle conseguenti limitazioni. Tale Comitato è altresì consultato semestralmente su tutti i programmi delle esercitazioni a fuoco di reparto o di unità, per la definizione delle località, degli spazi aerei e marittimi regionali, del tempo e delle modalità di svolgimento, nonché sull'impiego dei poligoni della regione. Qualora la maggioranza dei membri designati dalla regione si esprima in senso contrario, sui programmi delle attività addestrative decide in via definitiva il Ministro della Difesa, sentiti preliminarmente il presidente della giunta regionale e il presidente del comitato misto paritetico competenti. In particolare, il Comitato è formato da cinque rappresentanti del Ministero della Difesa, da due rappresentanti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, designati dai rispettivi Ministri, e da sette rappresentanti della regione nominati dal presidente della Giunta regionale, su designazione, con voto limitato, del consiglio regionale. Per ogni membro è nominato un supplente (cfr esempio in Allegato “E”). Il Co.Mi.Pa. si riunisce a richiesta del comandante militare territoriale di regione o del comandante in capo di dipartimento militare marittimo o del comandante di regione aerea o del presidente della regione; presiede l'ufficiale generale o ammiraglio più elevato in grado o più anziano. Delle riunioni del comitato è redatto verbale che conterrà le eventuali proposte di membri discordanti sull'insieme della questione trattata o su singoli punti di essa. Al fine di poter operare in sicurezza e nel rispetto delle normative nazionali, anche in tema di tutela ambientale, le Forze Armate conducono le proprie attività istituzionali nel rispetto delle norme volte a garantire l'incolumità del proprio personale, la salvaguardia della popolazione e la tutela dell’ambiente, mettendo in atto le misure idonee a limitare e ridurre al minimo il relativo impatto. Ciò si esplica nella predisposizione, per ciascun poligono, di un Disciplinare d’uso e correlato Regolamento. I Regolamenti disciplinano lo svolgimento di tutte le attività istituzionali del Poligono, le procedure per l’identificazione e l’attuazione dei programmi, i compiti e le

9 Legge 24 Dicembre 1976, n. 898, Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66 Codice dell'Ordinamento Militare art 322,

DPR - 15 marzo 2010, nr. 90 - Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare Tit VI

art 428 e ss.

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responsabilità, definiti in analogia alle specifiche direttive dello SMD10 laddove emanate. Peraltro, dal confronto dei Regolamenti dei principali poligoni (PISQ, Teulada, Cellina-Meduna) risulta una sostanziale coerenza riguardo ai contenuti ed alla loro organizzazione benché sia evidente l’opportunità di raccordare in maniera unitaria nomenclature e procedure. In quest’ottica, la recente emanazione del Disciplinare d’uso del PISQ, i cui contenuti sono stati approvati dal Capo di SMD, può costituire un modello di riferimento per quanto attiene alle modalità di stesura dei documenti, degli allegati e della modulistica rivolta agli utilizzatori del poligono, garantendo il rispetto delle normative e costituendo, altresì un adeguato supporto nella eventuale gestione del contenzioso in ambito di tutela ambientale.

b. Misure di ripristino: bonifica ambientale

Per il fatto che le esercitazioni militari sono mosse da motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, pur comportando, in potenza, effetti con incidenza negativa per l’ambiente, il loro svolgimento è comunque assicurato, sebbene adottando adeguate misure di compensazione. Tra tali misure rientra il ripristino dell'habitat naturale, nel rispetto degli obiettivi di conservazione del sito impiegato. Gli utenti di un poligono devono pertanto, al termine delle attività, ripristinare le condizioni dello stesso, col duplice fine di renderlo nuovamente utilizzabile dal punto di vista operativo e di limitare l’impatto ambientale conseguente. La rimozione dei residuati dai siti rientra quindi tra le misure volte a proteggere l'ambiente e la salute umana, riducendo altresì gli impatti negativi della produzione e della gestione dei rifiuti. Inoltre, le misure di compensazione devono essere monitorate con continuità per verificare la loro efficacia a lungo termine per il raggiungimento degli obiettivi di conservazione previsti e per provvedere all'eventuale loro adeguamento. La disciplina per la bonifica dei siti trae le mosse dal citato Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006, che disciplina la gestione dei rifiuti e la bonifica dei siti inquinati anche in attuazione delle direttive comunitarie (in particolare della direttiva 2008/98/CE11). Lo Stato, le regioni, le province autonome e gli enti locali esercitano altresì i poteri e le funzioni di rispettiva competenza in materia di gestione dei rifiuti, adottando ogni opportuna azione ed avvalendosi, ove opportuno, mediante accordi, contratti di programma o protocolli d'intesa (anche sperimentali), di soggetti pubblici o privati. Le modalità di intervento nelle aree del demanio destinate ad uso esclusivo delle Forze Armate, per attività connesse alla difesa nazionale, sono determinate mediante l’applicazione di una idonea analisi di rischio che deve tenere conto dell'effettivo utilizzo e delle caratteristiche ambientali di dette aree o di porzioni di esse e delle aree limitrofe, al fine di prevenire, ridurre o eliminare i rischi per la salute dovuti alla potenziale esposizione a sostanze inquinanti e la diffusione della contaminazione nelle matrici ambientali. Qualora gli esiti della procedura dell'analisi di rischio dimostrino che la concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è superiore ai valori di concentrazione soglia di rischio (CSR), il soggetto responsabile presenta il progetto

10

SMD – L – 014 “Direttiva sull'organizzazione, impiego e funzionamento del poligono sperimentale e di

addestramento interforze di Salto di Quirra” ed 2003. 11

Al riguardo, si è provveduto a verificare il rispetto di tali direttive in un Paese quale la Francia. Dall’analisi delle

normative transalpine si evince la stessa attenzione per la tutela dei siti addestrativi, prevedendo oltre alla bonifica

ordinaria dopo ogni esercitazione, una bonifica straordinaria annuale. I regolamenti poligono (un esempio in allegato

“F”) fanno riferimento ad un unico decreto (cfr allegato “G”) che, seppur con le dovute differenze, può essere

paragonato alla regolamentazione di utilizzo dei poligoni e di tutela ambientale emanata in Italia a livello interforze.

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operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e ove necessario, le ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale, al fine di minimizzare e ricondurre ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di contaminazione presente nel sito. Ai fini dell'individuazione delle misure di prevenzione, messa in sicurezza e bonifica, e dell'istruttoria dei relativi progetti, da realizzare nelle aree del demanio destinate ad uso esclusivo delle Forze Armate per attività connesse alla difesa nazionale, si applicano concentrazioni di soglia di contaminazione12 (CSC), che tengono conto delle diverse destinazioni e delle attività effettivamente condotte all'interno delle aree militari. Sono altresì previsti criteri per la selezione e l'esecuzione degli interventi di bonifica e ripristino ambientale, di messa in sicurezza operativa o permanente, nonché per l'individuazione delle migliori tecniche di intervento a costi sostenibili (B.A.T.N.E.E.C. - Best Available Technology Not Entailing Excessive Costs) ai sensi delle normative comunitarie. Il Decreto del Ministro della Difesa del 22 ottobre 2009 sulla gestione dei materiali e dei rifiuti e la bonifica dei siti e delle infrastrutture direttamente destinati alla difesa militare e alla sicurezza nazionale, disciplina le azioni da intraprendere al verificarsi di un evento potenzialmente in grado di contaminare un sito. In particolare, vengono devolute al Comandante, o al Direttore responsabile dell'area, le necessarie misure di prevenzione e il compito di informare i superiori gerarchici e le competenti unità organizzative dello Stato Maggiore di Forza Armata o del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, nonché dello Stato Maggiore della Difesa e del Segretariato Generale della Difesa/Direzione Nazionale Armamenti. La comunicazione ricomprende tutti gli aspetti attinenti alla situazione e, in particolare, le caratteristiche del sito interessato, le matrici ambientali presumibilmente coinvolte e una sintetica descrizione delle misure adottate. La comunicazione abilita il Comandante o Direttore responsabile dell'ente alla realizzazione degli interventi necessari per impedire o minimizzare un eventuale danno ambientale. Egli, qualora accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione non sia stato superato provvede al ripristino della zona contaminata informandone le stesse autorità di cui sopra. Se invece le CSC sono superate, la comunicazione interessa anche il Prefetto, il Comune, la Provincia e la Regione competenti per territorio. Inizia quindi un iter che porterà all’analisi del rischio che, se la concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è inferiore alle CSR, concluderà il procedimento, con un eventuale svolgimento di un programma di monitoraggio sul sito, circa la stabilizzazione della situazione riscontrata in relazione agli esiti dell'analisi di rischio e alla destinazione d'uso. Altrimenti, nel caso in cui le attività di monitoraggio rilevino il superamento di una o più delle concentrazioni soglia di rischio, si procede con le procedure di bonifica.

I disciplinari per la tutela ambientale dei poligoni nazionali, pertanto, dettagliano le procedure di ripristino, nonché le necessarie figure responsabili e la relativa reportistica. Durante lo svolgimento delle attività, ai fini della tutela ambientale, dovrà essere esercitato un controllo congiunto dal Servizio di Tutela Ambientale e dal Responsabile Ambientale nominato dall'Utente, che redigerà i rapporti di bonifica e presenterà l’eventuale rapporto di analisi di laboratorio su tutte le matrici ambientali interessate dall’attività (suolo, acqua, aria), volte a rilevare l’eventuale superamento dei limiti soglia di contaminazione previsti. Nel caso in cui si dovesse presentare

12 elencate nelle colonne A e B della tabella 1 dell'allegato 5, alla parte quarta, del decreto legislativo n. 152 del 2006 e

successive modificazioni.

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l’impossibilità di recuperare residuati dell’attività lasciati su terra o sul fondale marino, nonché l’impossibilità per motivi tecnici di disattivare e recuperare/brillare ordigni inesplosi lasciati su terra o sul fondale marino, si dovranno produrre le necessarie dichiarazioni di responsabilità. Il compito del ripristino viene sempre devoluto all’Utente che, in linea di massima dovrà provvedere, con oneri a proprio carico, alla rimozione di tutti i materiali di risulta delle attività, con particolare riguardo a bossoli, contenitori, residuati metallici, plastica e rifiuti di qualsiasi tipologia. Tale attività, rientra in quella che definiremo di bonifica ecologica. Anche la bonifica operativa, ovvero le operazioni di disattivazione/distruzione di ordigni, deve essere condotta a cura dell’Utente con oneri a proprio carico, con i mezzi tecnologicamente idonei, avvalendosi eventualmente anche di quelli a disposizione della Difesa e, qualora necessario, ricorrendo anche ad articolazioni nazionali o sovranazionali specializzate nel settore. In taluni casi, come per esempio riguardo le attività condotte in mare, il recupero dei residuati può avvenire per mezzo di specifiche campagne periodiche, condotte con assetti Marina Militare e/o Ditte Civili, sulla base di attività contrattuali a cura del poligono. Il compito di verificare la corretta esecuzione delle operazioni di ripristino è altresì devoluto al Comando del poligono stesso.

c. Analisi delle misure adottate

Le Forze Armate conducono le proprie attività istituzionali nel rispetto delle norme volte a garantire l'incolumità del proprio personale, la salvaguardia della popolazione e la tutela dell’ambiente, mettendo in atto le misure idonee a limitare e ridurre al minimo il relativo impatto ambientale, nonché ad escludere la risarcibilità del danno. La necessità di operare in ambienti circoscritti e sicuri impone il raggiungimento di un ponderato equilibrio tra le esigenze addestrative delle F.A. e la tutela dell'ambiente. Pertanto, le attività svolte nei poligoni sul territorio italiano devono essere effettuate adottando tutte le possibili misure finalizzate alla salvaguardia ambientale. Per quanto sopra, lo Stato pone in essere delle rigide misure precauzionali/di controllo, per lo svolgimento delle attività di cui sopra affinché, al termine di ogni attività addestrativa, vengano ripristinate le condizioni ex ante dell'area utilizzata. In particolare da un esame dei disciplinari13 in uso presso i Poligoni siti nel territorio nazionale, risultano definite in maniera puntuale e dettagliata, sia le norme di riferimento, che la loro applicazione e ciò sia in relazione all’ente responsabile della gestione del Poligono sia agli utenti coinvolti nella specifica attività. Ogni poligono sul territorio nazionale, prevede delle modalità e procedure dettagliate (disciplinare ambientale) che puntano al rispetto dei principi comunitari in materia14. Le attività dei poligoni si svolgono in conformità al programma operativo annuale approvato (per ogni singolo poligono) dal Capo di Stato Maggiore della Difesa/Capo di Stato Maggiore di Forza Armata. La direzione del poligono provvederà a rilasciare il “Nulla Osta di Inizio Attività” che sarà subordinato alla completezza della documentazione richiesta. Durante lo svolgimento delle attività, ai fini della tutela ambientale, viene esercitato

13

Documento stipulato e sottoscritto dal Comando Militare competente per territorio e la rispettiva Regione

Amministrativa, nel quale sono concordati: limiti del poligono, modalità di utilizzazione, tipologia di armamento e

quantità di esplosivo, indirizzi in materia di danni e incendi, pagamento della tassa rifiuti ed eventuali reclami (Vds.

Allegati). 14- il principio di precauzione, che impone di attuare senza indugio azioni di contrasto nelle ipotesi in cui ricorra una

minaccia di danni “gravi o irreversibili” per l’ambiente, pur senza disporre di certezze scientifiche assolute sui reali

pericoli;

- il principio “chi inquina paga”.

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18

un controllo congiunto dal Servizio di Tutela Ambientale e dal Responsabile Ambientale nominato dall'Utente. In considerazione dei possibili effetti che le attività, soprattutto quelle a fuoco, potrebbero produrre sull’ambiente, le stesse dovranno essere pianificate, approvate e attuate con l’adozione di tutti gli opportuni accorgimenti volti ad eliminare o minimizzare l’impatto ambientale che ne potrebbe derivare. I soggetti istituzionali interessati, ai fini ambientali, sono: - Ministero della Difesa; - Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM); - Regione interessata con i rispettivi Assessorati e Agenzie competenti (Ambiente,

Sanità, ARPA); - Co.Mi.Pa., al cui parere viene sottoposta, con adeguato anticipo, la pianificazione

delle attività e del materiale da impiegare durante le operazioni (Poligono interforze di Salto di Quirra);

- Provincia e comuni interessati; - Corpo Forestale di Vigilanza Ambientale della Regione amministrativa. Al fine di garantire la tutela ambientale, viene posto in essere un monitoraggio ambientale dell’area del poligono in tutte le sue componenti: aria, suolo, acque, flora e fauna. Gli Enti preposti al monitoraggio ambientale sono gli Enti dell’Amministrazione Difesa aventi responsabilità e competenze nell’ambito del monitoraggio ambientale e che si avvalgono, soprattutto per gli aspetti tecnici specifici, degli di Enti specializzati nel settore, quali Enti dell’AD, Ditte/Società e Istituti a carattere tecnico-scientifico convenzionati. Per quanto riguarda le modalità esecutive, gli Enti facenti capo all’AD15, con il supporto delle Direzioni Tecniche competenti che provvedono a censire i materiali di armamento utilizzati presso il poligono, curano la redazione delle procedure relative a tutte le attività con potenziale impatto ambientale significativo verificando, attraverso successive campagne di misurazioni e rilevamenti, il non superamento dei limiti stabiliti dalle leggi in vigore. In quest’ottica, è previsto che il personale dell’AD, preposto al controllo, sia adeguatamente qualificato attraverso corsi di formazione effettuati presso organismi dell’Amministrazione Difesa, Enti istituzionali e/o privati, in base alle esigenze derivanti dalle esercitazioni svolte presso il poligono e sono in corso attività prodromiche alla realizzazione di adeguati percorsi formativi. Naturalmente, il personale utente, militare e/o civile, viene opportunamente informato, a cura dei Responsabili Ambientali dei rispettivi reparti, sulle normative di tutela ambientale, nonché su quelle specificamente in vigore presso il poligono. Gli utilizzatori, al termine delle attività addestrative/sperimentali, provvedono alla bonifica ed al ripristino delle aree interessate all’attività addestrativa. Le suddette attività sono documentate con la redazione dei seguenti documenti: - Rapporto di Bonifica Operativa; - Rapporto di Ripristino Ambientale e di inesistenza di eventuali focolai d’incendio. In conclusione, le F.A. pongono in essere tutte le misure possibili atte ad evitare qualsiasi danno ambientale e, la risarcibilità di quest'ultimo è da escludere qualora tutte le attività siano state svolte secondo quanto stabilito nei disciplinari ambientali e nel rispetto delle pianificazioni delle attività approvate dai soggetti istituzionali esterni al dicastero difesa sopra menzionati.

15

Centro Tecnico Logistico Interforze NBC (CETLI NBC), Centro Interforze Studi e Applicazioni Militari (CISAM).

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4. CAUSE DI ESCLUSIONE RISARCIBILITA’

a. Confronto tra interessi costituzionalmente garantiti

In merito alle condizioni ed ai limiti di liceità dell’impiego di mezzi e strumenti di difesa militare del territorio in tempo di pace possono sorgere preoccupazioni con riferimento al vulnus arrecato all’eventuale danno ambientale derivante dalle attività di addestramento condotte all’interno dei poligoni di tiro con l’impiego di strumenti preposti a garanzia della difesa e sicurezza del territorio, ovvero funzionali all’espletamento dei compiti istituzionali propri dell’amministrazione militare. Pur non essendo stata riscontrata la presenza di munizionamento arricchito con uranio impoverito impiegato all’interno del territorio nazionale, sono state però accertate possibili fonti di contaminazione, causa di degrado ambientale, frutto di un’insufficiente opera di bonifica, dovuta ex lege, in seguito alla conclusione delle attività addestrative che ingenera anche l’insorgenza di consistenti esborsi economici correlati alle risorse da impiegare in conseguenza della “tardiva” messa in sicurezza del territorio. Acclarate dette criticità, è stata così ben accolta l’idea di predisporre un «modello avanzato di “disciplinare di tutela ambientale” da adottarsi per tutti i poligoni, che dovrebbe prevedere la valutazione delle caratteristiche naturali e la determinazione dei limiti d’impiego specifici per ciascun sito; l’adozione di più dettagliate “schede di sicurezza ambientale integrate” per le diverse tipologie di armamento; la definizione di elementi organizzativi e procedurali della struttura di prevenzione e protezione in materia di sicurezza del lavoro; l’effettuazione di periodiche e mirate campagne di monitoraggio»16. Ciò allo scopo di “assicurare anzitutto a chi risiede all’interno o ai margini di essi, che le attività si svolgano in sicurezza e senza rischi per la salute e l’ambiente, rimuovendo una condizione di incertezza che si protrae da anni e che si ritorce solo in un danno per i residenti e per le economie locali, colpite nelle loro produzioni tradizionali, soprattutto agropastorali, senza che interventi adeguati, anche della mano pubblica, consentano di assicurare un effettivo sostegno all’occupazione, realizzabile solo attraverso l’attuazione di un programma di riutilizzo del territorio che, una volta risanato, deve anche godere di vere opportunità di crescita”17. Di recente, poi, preoccupazioni similari, ancorate al problema del bilanciamento tra esigenze di difesa e sicurezza e salvaguardia dell’integrità dell’habitat naturale e della salute della popolazione, sono sorte in merito alla predisposizione di adeguate misure di tutela in favore delle comunità locali il cui territorio è interessato dall’installazione di infrastrutture deputate alla difesa militare suscettive di ingenerare, però, l’insorgenza della possibile esposizione a pericolo della salubrità

16 Cfr. Commissione parlamentare di inchiesta sui casi di morte e di gravi malattie che hanno colpito il personale

italiano impiegato all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, in relazione

all’esposizione a particolari fattori chimici, tossici e radiologici dal possibile effetto patogeno, con particolare

attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle

di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico e a eventuali interazioni. Relazione sulle risultanze

delle indagini svolte dalla Commissione. Approvata dalla Commissione nella seduta del 9 gennaio 2013, in

www.senato.it , 68 s. 17

Cfr. cit. Commissione parlamentare di inchiesta sui casi di morte e di gravi malattie che hanno colpito il personale

italiano impiegato all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, in relazione

all’esposizione a particolari fattori chimici, tossici e radiologici dal possibile effetto patogeno, con particolare

attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle

di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico e a eventuali interazioni. Relazione sulle risultanze

delle indagini svolte dalla Commissione. Approvata dalla Commissione nella seduta del 9 gennaio 2013, in

www.senato.i t, 95 s.

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dei luoghi. Tali vicende hanno costituito già in passato – e tuttora rappresentano – il banco di prova in merito all’accertamento del riconoscimento in capo alla cittadinanza della facoltà di influenzare le politiche di difesa laddove queste si traducano nella potenziale aggressione ad interessi fondamentali dell’individuo non immediatamente connesse ad emergenze belliche ma, per contro, correlate ad attività di pianificazione urbanistica ed infrastrutturale di dotazioni funzionali all’assolvimento dei compiti istituzionali cui l’amministrazione militare è deputata. In tal senso, assume un peculiare rilievo l’art. 309 d.lgs. n. 152/2006 che riconosce il diritto di partecipazione al procedimento relativo all'adozione delle misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino previste in materia di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente a regioni ed enti locali, anche associati, nonché alle persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale, o che vantino un interesse legittimante la partecipazione al procedimento; l'applicazione di tale criterio alla dimensione processuale comporta, da un lato, la legittimazione attiva dei residenti della zona potenzialmente interessata dal danno e, dall'altro, la carenza di legitimatio ad causam di associazioni temporanee volte alla protezione degli interessi di soggetti che ne sono parte, qualora risultino prive del carattere di ente esponenziale in via stabile e continuativa di interessi diffusi radicati nel territorio e non sia documentata la relazione degli associati con il luogo prescelto per la realizzazione degli impianti contestati. In tal contesto, non occorre la prova dell'esistenza di un danno concreto ed attuale al fine di impugnare provvedimenti di localizzazione di situazioni ritenute inquinanti, in quanto la questione della concreta pericolosità dello stesso, valutata alla luce dei parametri normativi, è questione di merito, mentre al fine di radicare la legittimazione e l'interesse al ricorso è sufficiente la prospettazione di temute ripercussioni su di un territorio collocato nelle immediate vicinanze ed in relazione al quale i ricorrenti sono in posizione qualificata, quali residenti, o proprietari, o titolari di altre posizioni giuridiche soggettive rilevanti. In merito, è utile ricordare che la materia ambientale, per le peculiari caratteristiche del bene protetto, si atteggia in modo particolare: la tutela dell'ambiente, infatti, lungi dal costituire un autonomo settore d'intervento dei pubblici poteri, assume il ruolo unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore dei diversi beni della vita che nell'ambiente si collocano (assumendo un carattere per così dire trasversale rispetto alle ordinarie materie e competenze amministrative). Deriva da ciò il riconoscimento della legittimazione ad impugnare atti pregiudizievoli dell’habitat naturale in ragione dell’accertamento della sussistenza di un interesse correlato alla salubrità dei luoghi ove sia riscontrato un significativo e stabile collegamento con l’ambiente che s’intende proteggere. Ne consegue che sussiste la legittimazione e l'interesse ad agire delle associazioni di protezione ambientale, anche non individuate in base ai tradizionali criteri scolpiti dall'art. 13 l. 8 luglio 1986 n. 349, che si costituiscono al precipuo scopo di proteggere l'ambiente, la salute e o la qualità della vita delle popolazioni residenti nell'ambito di un determinato territorio circoscritto nonché dei singoli individui in base alla "vicinitas" ovvero in base al criterio, elastico, dello stabile collegamento con il territorio oggetto della potenziale lesione ambientale. Occorre però che il sodalizio e il singolo identifichino quale bene della vita (il paesaggio, l'acqua, il suolo, il proprio terreno) possa essere oggetto di potenziale lesione da parte dell'iniziativa dei pubblici poteri; non è necessario, invece, secondo siffatta prospettazione che i soggetti interessati risiedano nei terreni direttamente toccati dall'intervento. L'ambiente, inoltre, è un bene pubblico che non è suscettibile di appropriazione

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individuale, indivisibile, non attribuibile, unitario, multiforme e ciò rende problematica la sua tutela a fronte di un sistema giudiziario che non conosce, se non quale eccezione, l'azione popolare, che guarda con sfavore la legittimazione di aggregazioni di individui che si facciano portatori occasionali di interessi esistenti allo stato diffuso. Ne deriva che il soggetto singolo che intenda insorgere in sede giurisdizionale contro un provvedimento amministrativo esplicante i suoi effetti nell'ambiente in cui vive ha l'obbligo di identificare, innanzitutto, il bene della vita che dall'iniziativa dei pubblici poteri potrebbe essere pregiudicato (il paesaggio, l'acqua, l'aria, il suolo, il proprio terreno) e, successivamente, dimostrare che non si tratta di un bene che pervenga identicamente ed indivisibilmente ad una pluralità più o meno vasta di soggetti, nessuno dei quali ne ha però la totale ed esclusiva disponibilità (la quale costituisce invece il connotato essenziale dell'interesse legittimo), ma che rispetto ad esso egli si trova in posizione differenziata tale da legittimarlo ad insorgere uti singulus a sua difesa; da qui il requisito della finitimità o vicinitas in base al quale si è riconosciuta legittimazione ad agire al proprietario del fondo o della casa finitimi, ovvero al comunista che vive e lavora in prossimità della potenziale fonte di pericolo per la salute umana.

b. Giurisprudenza di supporto

Come sopra esposto, il risarcimento del danno ambientale comprende sia il pregiudizio prettamente patrimoniale arrecato a beni pubblici o privati, sia quello (avente anche funzione sanzionatoria) non patrimoniale, rappresentato dal “vulnus” all’ambiente in sé e per sé considerato, costituente bene di natura pubblicistica, unitario e immateriale. Ne consegue che la condanna del responsabile sia al ripristino dello stato dei luoghi, sia al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento non costituisce una duplicazione risarcitoria, allorché la prima condanna sia volta ad elidere il pregiudizio patrimoniale e la seconda quello non patrimoniale18. Nella prova del suddetto danno, in ogni caso, bisogna distinguere tra danno ai singoli beni di proprietà pubblica o privata (o a posizioni soggettive individuali) che trovano tutela nelle regole ordinarie in cui il profilo sanzionatorio nei confronti del fatto lesivo del bene ambientale, comporta un accertamento che non è quello del mero pregiudizio patrimoniale, bensì della compromissione dell’ambiente, vale a dire della lesione “in sé” del bene ambientale. Peraltro, ai fini del risarcimento del danno di natura extracontrattuale, occorre tener conto della dirimente importanza della sussistenza del nesso causale essendo risarcibili solo i danni legati da un nesso di causalità adeguata, o di regolarità causale, con l'illecito; ne consegue come sia fondamentale fornire in giudizio la prova della sussistenza del nesso eziologico tra comportamento ed evento, nonché tra evento e danno. A tal proposito occorre rilevare come il Giudice nomofilattico confermi la struttura bifasica della causalità civile: causalità materiale come «nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perché possa configurarsi, a monte, una responsabilità “strutturale” e causalità giuridica ex art. 1223 c.c. come nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria»19. Sono note le discussioni dottrinarie e giurisprudenziali volte ad individuare le

18 Cass., Sez. III, 17.4.2008 n.10118. 19

Cass., S.U., 11.01.2008 n.581.

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caratteristiche del nesso causale in ambito civile al fine di ricercarne i criteri di accertamento. Tale discussione si è acutizzata in seguito alla celebre sentenza “Franzese” delle Sezioni Unite Penali che hanno, come noto, affermato l'insufficienza della probabilità meramente statistica al fine dell'ascrizione di un fatto di reato al suo autore. Come già sottolineato in diverse pronunce di legittimità le Sezioni Unite sostengono “l'insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile della elaborazione penalistica in tema di nesso causale”. In realtà, ciò che muta tra processo penale e quello civile è la regola probatoria in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre ragionevole dubbio”, mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e dell'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti. La regola aristotelica del “più probabile che non” non può ancorarsi esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza nell'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (cd. evidence and inference nei sistemi anglosassoni). Afferma la Cassazione nella predetta sentenza che "....ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale”. Un “fatto” è pur sempre necessario perché la responsabilità sorga, giacché l’imputazione del danno presuppone l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui agli artt. 2043 e segg. c.c., le quali risolvono tutto nella descrizione di un nesso che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere. Il “danno” si rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. Il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l’evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria. Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l’idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità20 e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria. A questo secondo momento va riferita la regola dell’art. 1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite “che siano conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo (c.d. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili. Secondo l’opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente da un lato il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perché possa configurarsi, a monte, una responsabilità “strutturale” (Haftungsbegrùndende Kausalitàt) e, dall’altro, il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di

20 per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo.

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delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitàt). Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nel primo e nel secondo comma dell’art. 1227 c.c.: il primo comma attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell’evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento-danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni. Nel macrosistema civilistico l’unico profilo dedicato al nesso eziologico è previsto dall’art. 2043 c.c., dove l’imputazione del “fatto doloso o colposo” è addebitata a chi “cagiona ad altri un danno ingiusto” o, come afferma l’art. 1382 Code Napoleon, “qui cause au autrui un dommage”. Un’analoga disposizione (sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire) non è richiesta in tema di responsabilità cd. contrattuale o da inadempimento, perché in tal caso il soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. Questo è uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimità, partendo dall’ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il “risarcimento del danno” (cui è dedicato l’art. 1223 c.c.) con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l’inadempimento dell’obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili. Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall’art. 2056 c.c., è composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c. e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell’art. 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio ricavabile dall’art. 1221 c.c. che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta. Ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cd. teoria della condicio sine qua non). Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p. (in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale) trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell’art. 41 c.p. (in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto)21. Nel contempo tale relazione causale non è sufficiente per determinare una causalità giuridicamente rilevante all’interno delle serie causali così determinate, dovendosi dare rilievo soltanto a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento causante, non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della c.d. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass.

21

Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass.10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268

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10.5.2000, n. 5962). Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una “prognosi postuma”, nel senso che si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l’azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza. La teoria della regolarità causale, pur essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo. Al riguardo, tale censura non pare condivisibile in quanto tale prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell’uomo medio, ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poiché non si tratta di accertare l’elemento soggettivo, ma il nesso causale). In altri termini, ciò che rileva è che l’evento sia prevedibile non da parte dell’agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende, da parte delle stesse, un giudizio di non improbabilità dell’evento. Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo (la colpevolezza) dell’illecito. Inoltre, se l’accertamento della prevedibilità dell’evento ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell’accertamento positivo del nesso causale (con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi l’attore sul quale grava l’onere della prova del nesso causale). Nell’imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n.15789). Tale rilievo si traduce a volte nell’affermazione dell’esigenza, per l’imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. E’ questa l’ipotesi per la quale parte della dottrina parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione della regola di cui all’art. 40, c. 2, c.p.. Poiché l’omissione di un certo comportamento, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, rileva soltanto quando si tratti di omissione di un

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comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione22, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L’individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale. La causalità nell’omissione non può essere di ordine strettamente materiale, poiché ex nihilo nihil fit. Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell’omissione e non la causalità normativa (basata sull’equiparazione disposta dall’art. 40 c.p.), fanno coincidere l’omissione con una condizione negativa perché l’evento potesse realizzarsi. La causalità è tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato. In tal caso la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico), ma perché quell’omissione non è causa del danno lamentato. Il giudice pertanto è tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L’accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato “controfattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. e dalla “regolarità causale”, in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza. Tanto vale certamente allorché all’inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all’art. 2043 c.c.; né può costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e funzionali tra accertamento dell’illecito civile (fondato sull’atipicità dell’illecito) ed accertamento dell’illecito penale, essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio. La dottrina che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l’atipicità dell’illecito. Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all’art. 1223 c.c.), per cui un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame “causale” tra responsabile e danno è tutto normativo.

“Ritengono queste Sezioni Unite che le suddette considerazioni non sono

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siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento

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decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l’applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., temperati dalla “regolarità causale”, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile. Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. L’atipicità dell’illecito attiene all’evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l’elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione. E’ vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall’altra non modifica le regole giuridico-logiche che presiedono all’esistenza del rapporto eziologico.”

Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva. E’ esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un’allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente è autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e come è previsto dalla clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., secondo il principio classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l’ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell’illecito, al principio di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicché il verificarsi del danno discende da un’opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria. Sennonché il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o l’ingiustizia del danno. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità per colpa quest’ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest’ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità. Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica “da fare responsabile”. Ciò perché nella fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilità. La norma di volta in volta risolve tale questione mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una

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qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso, in questo caso, non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno. Senonché, ai fini dell’individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio di imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra l’evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es. art. 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052, 2054, c. 4, c.c.), posti all’inizio della serie causale. Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale “concatenazione causale” tra la condotta di altri e l’evento ovvero tra il fatto di altra natura e l’evento (di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilità oggettiva). In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, occorre ancora far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l’elemento individuato dal criterio di imputazione e l’evento dannoso. In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell’agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l’evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell’allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell’illecito civile. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standards delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedansi: Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n.19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 632). Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n.295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se “appaia sufficientemente probabile” che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n.12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che “occorre postulare le varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili”). Detto standard di “certezza probabilistica” in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di

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fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni). Esempio dell'applicazione delle suesposte coordinate giuridiche emerge, invero, nella recente vicenda relativa al poligono di tiro in Sardegna con riferimento al quale la Corte di Appello di Roma, respingendo il ricorso in appello del ministero della difesa ha confermato la sentenza di condanna del tribunale civile di Roma, con conseguente annullamento del provvedimento del TAR Lazio di diniego della causa di servizio.

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5. CONCLUSIONI

L’analisi condotta sull’apparente dicotomia fra la difesa nazionale e la tutela ambientale, quali valori egualmente tutelati dalla Costituzione, ha inteso accertare la necessità di bilanciare in maniera puntuale i due interessi nazionali. La normativa prodotta al fine di disciplinare nel dettaglio le modalità di tutela di entrambi gli interessi rende evidente la complessità del problema e l’accresciuta sensibilità nei riguardi tanto della difesa nazionale quanto della tutela ambientale, anche dal punto di vista dell’opinione pubblica. Nonostante il Codice dell’Ambiente e il Codice dell’Ordinamento Militare precisino che le attività svolte in condizioni di necessità ed aventi come scopo esclusivo la difesa nazionale, la sicurezza internazionale o la protezione dalle calamità naturali non siano soggette alle norme risarcitorie del danno ambientale, permane la difficoltà di comprendere se la citata condizione di necessità possa considerarsi implicitamente sempre caratterizzante l’addestramento militare. La giurisprudenza analizzata e lo sforzo interpretativo profuso nell’ambito del gruppo di lavoro hanno indotto alla conclusione che le attività militari benché chiaramente finalizzate alla difesa nazionale e alla sicurezza internazionale non siano intrinsecamente soggette alla condizione di necessità (nell’accezione giuridica della parola). Pertanto, le cause di non risarcibilità del danno ambientale dovranno essere ricercate caso per caso sia quando afferenti alla sfera della condizione di necessità, sia quando possano essere di tipologia diversa. In quest’ottica il rispetto dei disciplinari d’uso delle aree addestrative (PISQ, di Capo Frasca, di Capo Teulada, per esempio) e l’attività di bonifica rappresentano elementi fondamentali per sostenere eventuali condizioni di non risarcibilità del danno diverse dallo stato di necessità, oltre a rappresentare la risposta concreta all’esigenza collettiva di bilanciamento tra l’interesse della difesa nazionale e quello della tutela ambientale, equamente garantiti dalla Costituzione e radicalmente recepiti dall’Amministrazione della Difesa.

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BIBLIOGRAFIA e Siti Visitati

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- Codice Civile;

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- Legge 23 agosto 1988, n. 400, allegato 3;

- D.Lgs 15 marzo 2010, n. 66 – Codice dell'Ordinamento Militare. art. 322 (Istituzione Comitato Misto Paritetico), art. 369 (Danno ambientale);

- D.Lgs 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale): artt. 298 bis, 300, 301, 303, 304, 305, 308, 311;

- D.M. Difesa 22 ottobre 2009, Gestione dei materiali e dei rifiuti e la bonifica dei siti e delle infrastrutture direttamente destinati alla difesa militare e alla sicurezza nazionale;

- Stato Maggiore Difesa – IV Reparto – Logistica ed Infrastrutture – Ufficio Ricerca e Sviluppo, SMD-L-014: Direttiva sull’organizzazione, impiego e funzionamento del poligono sperimentale e di addestramento interforze di Salto di Quirra, ed. 27 febbraio 2003 (cfr Allegato “A”);

- Stato Maggiore Aeronautica, Disciplinare per la tutela ambientale del poligono interforze di Salto di Quirra, ed. luglio 2014 (cfr Allegato “B”);

- Stato Maggiore Aeronautica, Disciplinare per la tutela ambientale del Poligono di Capo Frasca, ed. 2014;

- Comando Militare autonomo della Sardegna”, Disciplinare per la tutela ambientale del poligono di Capo Teulada, ed. 2008 (cfr Allegato “C”);

- Comando 132^ Brigata corazzata “ARIETE” – SM – Ufficio Operazioni Addestramento Informazioni, Regolamento del poligono Cellina-Meduna (cfr Allegato “D”);

- Stato Maggiore dell’Esercito – III RIF COE – Ufficio Addestramento, Pubblicazione 13/A1 “Le attività addestrative e di approntamento dei Comandi e delle unità dell’Esercito”, ed. 2011.

- Comando delle Scuole dell’Esercito, Polo del Genio, Pubblicazione n. 6762 – Norme per la bonifica dei poligoni, ed. ottobre 2008 (aggiornata aprile 2009);

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