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GIANPIERO CASTELLUCCI C C C e e e s s s a a a r r r e e e B B B r r r a a a n n n d d d i i i , , , L L L u u u i i i g g g i i i S S S a a a v v v o o o r r r i i i n n n i i i e e e l l l a a a C C C i i i t t t t t t à à à I I I n n n v v v i i i s s s i i i b b b i i i l l l e e e ARCHEOCLUB DI TERAMO QUADERNO n° 6.1 febbraio 2006 99

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GIANPIERO CASTELLUCCI

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ARCHEOCLUB DI TERAMO

QUADERNO n° 6.1

febbraio 2006

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“Il Gran Kan possiede un atlante in cui sonoraccolte le mappe di tutte le città: quelle che ele-vano le loro mura su salde fondamenta, quelleche caddero in rovina e furono inghiottite dallasabbia, quelle che esisteranno un giorno e al cuiposto ancora non s’aprono che le tane delle le-pri…

Il catalogo delle forme è sterminato: finchéogni forma non avrà trovato la sua città, nuovecittà continueranno a nascere…

Dove le forme si disfano, comincia la fine del-le città.”

Italo Calvino, Le Città Invisibili

È opinione diffusa, a Teramo, che palazzoAdamoli, l’edificio di via Chiasso dell’Anfiteatroche sta sulla cavea del teatro romano, debba esse-re demolito.

Il suo attuale stato di fatiscenza e di abbando-no non lascerebbe spazio per un riuso ragionato eanzi, in assenza di un pur minimo restauro, si te-me che possa verificarsi un crollo spontaneo contutte le conseguenze che si possono immaginare.

C’è chi dice anche che la invocata demoli-zione consentirebbe di ricostruire il teatro ro-

Cesare Brandi, Luigi Savorinie la Città Invisibiledi Gianpiero Castellucci*

mano, dando alla città una struttura utile social-mente.

Non è la prima volta che i Teramani si orienta-no a grande maggioranza per questa o quella de-molizione di pezzi importanti della propria città e,come è avvenuto le altre volte, anche per il caso delpalazzo Adamoli la decisione è maturata con tantaconfusione, con poca analisi, con alcune alte grida,nel disinteresse marcato delle Associazioni profes-sionali e nel silenzio delle Istituzioni.

Ha taciuto l’Amministrazione Comunale chenon è entrata nell’argomento, non si sono espres-se le Soprintendenze: solo dalla Regione sono ar-rivare notizie di un finanziamento destinato mira-tamente alla discussa demolizione**.

Eppure l’argomento è importante e riguardaeffettivamente il futuro di Teramo: e tuttavia i cit-tadini, disorientati dalla labilità di una problema-tica che cambia significato e percorso secondo ipunti di vista che si adottano per le analisi, hannodi fatto rinunciato ad approfondire il tema, dele-gando.

E con ciò si ripeterebbe un apparato scenicogià visto nel passato, in occasione di altri abbatti-menti clamorosi che evocano ancora pentimenti erecriminazioni.

Questi punti di vista sulla questione della de-molizione, nonostante siano molto differenziati,possono raccogliersi, comunque, attorno a dueposizioni limite.

a) La prima: valorizziamo il teatro romano, il“monumento”, anche con una sua ricostruzionemirata a un riuso funzionale.

Pur realizzandosi in tal modo un organismomoderno si potrà offrire alla città una struttura di

* Presidente dell’Archeoclub di Teramo.

** Questo articolo, scritto nel gennaio 2006 per ilVI Quaderno di Archeoclub di Teramo, va in stampa,per «NOTIZIE DALLA DELFICO» nel corrente mesedi ottobre, quando sembra ormai imminente l’iniziodelle demolizioni.

forma urbis: Teramo 1890

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spettacolo all’aperto fruibile nell’attualità, comel’Arena di Verona e come il Teatro di Taormina:per la riedificazione del Teatro occorre demolirepalazzo Adamoli eliminando, di conseguenza, viaChiasso dell’Anfiteatro e via Teatro Antico.

La specificità di questa interpretazione risiedenel desiderio di valorizzare ed esaltare ciò che ri-mane del “monumento” antico, che è espressionedi un passato di “grande nobiltà” ed esso stessotanto importante da richiedere la liberazione del-le sue vestigia da ogni successiva compromissio-ne e da ogni accostamento improprio.

Questa prima interpretazione parte dalla co-struzione di una scala di valori e di gerarchie chepremiano il “monumento” a scapito di altre per-manenze considerate di importanza trascurabile.

b) La seconda: valorizziamo quello che rima-ne del contesto e dell’ambiente costruito, nelprincipio che “una città storica è tutta un monu-mento, nel suo schema topografico, nel suo aspet-to paesistico, nel carattere delle vie, negli aggrup-pamenti dei suoi edifici anche minori”: l’obietti-vo è quello di evidenziare la storia visiva delle so-vrapposizioni e dei cambiamenti di destinazioned’uso, l’insieme delle stratificazioni e la testimo-

nianza delle tracce delle esperienze vissute daiTeramani che ci hanno preceduto.

Questa seconda interpretazione riconosce al(nostro) Centro Storico, in virtù della sua anti-chità, una doppia natura: esso è “materia” ma èanche “concetto” perché rappresenta valori e ideeche circolavano in contesti culturali del passato ein età nelle quali si è formata la nostra identità dicittadini moderni.

In questa ottica, non si può demolire palazzoAdamoli perché con esso scomparirebbero gli ul-timi lacerti della viabilità storica, altre testimo-nianze della città vissuta dai nostri antenati primache il Piano di S. Maria a Bitetto creasse il gravevulnus che è ancora all’evidenza.

Quanto al teatro romano, i resti attuali hannogià sufficiente nobiltà, riconosciuta e indiscussa:e perciò non è lecito realizzare una falsa ricostru-zione per evidenziarne ulteriormente il significa-to. Piuttosto si pensi a proteggerne le pietre chesono in fase avanzata di gravissimo degrado1.

Dov’è la verità? Qual è il metodo per analizzare la problemati-

ca? È possibile trovare un compromesso “cultu-rale” per una soluzione condivisa e duratura?

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Fig. 1 - Palazzo Adamoli, Acquerello di G. Giancaterino, 1977

a colori

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La questione, come si intuisce, è solo in ap-parenza protetta da una comoda e neutrale sem-bianza culturale che permetterebbe a chiunquedi dire e di interpretare secondo una propria ot-tica e un personale punto di vista: in realtà laquestione in esame è di natura scientifica e vatrattata secondo i principi oggettivi della scien-za.

La obiezione che viene mossa a questa posi-zione è che la Scienza, provando e riprovandonon possiede mai la verità assoluta ma solo ac-quisizioni che mutano nel tempo sulla base del-le conoscenze e delle esperienze che si aggiun-gono e si perfezionano con lo studio e con la ri-cerca: perciò come si fa a decidere su basescientifica se queste basi cambiano nel tempo?

Si tratta, evidentemente, di una falsa pro-spettazione: è vero che una verità scientificavalida oggi è destinata a essere superata dalleverità scientifiche di domani ma se si deve de-cidere necessariamente oggi non si può che de-cidere, senza alcun dubbio, sulla base della mi-gliore conoscenza che è valida oggi.

Per convincersi di questo asserto basta ri-leggere criticamente tutta la storia della scienzache è andata avanti, talvolta con forti accelera-zioni, riflettendo e correggendo le conclusionigià raggiunte, ma adottando sempre, nel mo-mento della scelta, le conoscenze scientifichedel momento.

È sufficiente un esempio per tutti: si sa chea séguito della pubblicazione sulla rivista Natu-re del 25 aprile 1953 della scoperta di JamesWatson e Francis Crick sulla doppia elica delDNA2, tutta la medicina ha cominciato a cor-reggere molte delle sue impostazioni e - fra nonpochi conflitti etici e morali - gli specialisti so-no sempre più nella attesa di ulteriori altre ac-quisizioni che comporteranno vere e proprie ri-voluzioni scientifiche: ma, aspettando che ciòavvenga, la medicina stessa (la biologia) proce-de, oggi, sulla base delle migliori conoscenzeattuali e sulla base dell’intera esperienza conso-lidata ovvero della storia della evoluzione delleesperienze.

Così è, fatti i dovuti rapporti di scala di me-todo e di argomento, per la questione del palaz-zo Adamoli che si vorrebbe abbattuto per com-pletare scelte operate negli anni ’30 del secolo

XX e per le quali gran parte del Centro Storicodi Teramo venne demolito in vista della realiz-zazione di una nuova città, di un nuovo CentroStorico, il “Foro della Nuova Interamnia”, di-segnato sulla base di atteggiamenti politici cheerano fortemente contestati, già allora, da granparte del mondo accademico e culturale3.

Com’è noto, fu il regime fascista che indus-se, per ragioni di immagine propria e di propa-ganda, alla demolizione (gli sventramenti) dimolti centri storici minori e di parti antiche dicittà italiane che vennero sostituiti dalla nuovaarchitettura eletta a simbolo della Nuova Italia.4

È vero che in molti Centri Storici si poneva,come a Teramo, una forte emergenza igienico-sanitaria che sollecitava interventi di risana-mento drastici, e tuttavia non c’è dubbio che lasostituzione di parte di Centri Storici importan-ti come quello di Brescia e di Lecce e di molteunità urbanistiche di assoluta rilevanza, comeper esempio la Spina di Borgo di Roma, venne-ro sacrificate per far posto alle nuove città del-l’Impero: il saggio di Savorini “Il foro dellanuova Interamnia”5 evidenzia con “sicura cer-tezza” (uso di proposito, una sua significativaallocuzione) le intenzioni che erano alla basedel progetto di demolizione razionale, ragiona-ta e consapevole del Centro Storico di Teramo:l’obiettivo era quello di sostituire quasi tutta laparte antica di Teramo, isolare i monumenti piùillustri (Teatro e Duomo) e rifondare una cittàlittoria munita di arengario e dei segni dellanuova architettura razionalista eletta a simbolodel nuovo sistema politico.

La guerra, le emergenze della ricostruzione,la fretta di dover fare qualunque cosa pur di ri-mettere in moto la macchina dell’economia,produssero a Teramo, come in gran parte d’Ita-lia, guasti inenarrabili: da noi, la demolizionedella spina del Carminello, della casa Antonel-li, dell’Arco di Monsignore, del Teatro Comu-nale, sono solo alcuni esempi della perdita diconcentrazione e di memoria storica degli annidegli “sventramenti”.

Ma l’effetto indotto più grave, da noi, credosia l’obliterazione del senso della città; cioè lascomparsa dei ricordi della memoria e della ca-pacità di riconoscere il significato del contestoe il valore delle sovrapposizioni urbanistiche,quale segno distintivo della nostra storia, lettaal di là della contrapposizione fra monumenti o

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ambienti vissuti assunti come punti di partenzadei ragionamenti sulla città.

Vale la pena, perciò, di ripercorrere, inuna sorta di retrospettiva veloce e purtroppomanchevole, l’evoluzione dello specifico pen-siero scientifico su questi concetti di monu-mento e di ambiente, per lo meno a partire dalRinascimento, quando fra opera d’arte e uo-mo è iniziato un nuovo rapporto ispirato davalori e significati immateriali6.

Questo nuovo rapporto, questa nuova for-ma di relazione fra oggetto costruito e pensie-ro, maturata fra grandi contraddizioni e muta-ta al mutare dei contesti politici e culturali,non nasce necessariamente col Rinascimento:già nella antichità romana il riuso ragionato(orientato anche sui valori percettivi) e il re-stauro di strutture del passato erano entratinella prassi costruttiva, e anche il Medioevofu pieno di riusi mirati e di riconversioni fun-zionali di strutture più antiche: fra i tantiesempi, gli interventi di restauro di Adrianosui monumenti greci, e le innumerevoli ricon-versioni di templi e mausolei pagani in unitàcultuali crist iane, come (a Roma), i lPantheon7, Santa Costanza e la stessa Basilicadi Santa Agnese fuori le mura, più volte riedi-ficata, adattata, modificata8

Ma certamente, è col Rinascimento cheinizia un diverso percepire le testimonianzedel passato sulla base dei parametri della bel-lezza, della filosofia e della cultura.

I monumenti antichi, nel Quattrocento enel Cinquecento, erano però sentiti soprattut-to come fonte di ispirazione e di confronto perle nuove spazialità in fase di sperimentazione,come studio dei nuovi elementi decorativi manon ancora come documenti del passato daconservare e da valorizzare.

La conservazione e la valorizzazione deimonumenti classici si insinua lentamente nelmondo dell’architettura rinascimentale e co-munque questa attenzione viene rivolta soloalle testimonianze più importanti: si ricordanospesso, i casi di papa Eugenio IV che restauròil Pantheon e quello di Sisto IV cui si deve lasalvezza del tempio di Vesta e dell’arco di Ti-to già annegato in una fortificazione medioe-vale.

Si ricorda anche l’intervento di Pio II checon la specifica bolla Cum almam nostram ur-

bem aveva affrontato per la prima volta ilprincipio della tutela delle antichità romanedalle spoliazioni e dalle distruzioni fino alloraoperate, anche per motivi banali come quellodi procurarsi a buon mercato marmi da tra-sformare in calce.

E tuttavia il rapporto fra modernità e anti-chità continuò a essere molto soggettivo e an-zi si può dire che nella cultura di tutto il Rina-scimento e anche oltre, fino al ‘700, non èpresente ancora il criterio della “pura conser-vazione”.

La svolta si raggiunge con evidenza a sé-guito della scoperta di Ercolano (1711), delPalatino a Roma (1720)9 e soprattutto di Pom-pei (1748): il dibattito sul senso dell’antico fuacceso e perdurante fino all’affermazione delpensiero di Winckelmann che confrontò, cre-do per la prima volta in maniera sistematica echiara, il valore estetico delle vestigia del pas-sato con l’importanza storica, ovvero con ilcarattere di documentazione dei modi di esse-re e di vivere degli uomini che ci hanno pre-ceduto.

Siamo dunque alla svolta culturale effetti-va: con la nuova sensibilità verso i documentidel passato, si ebbe una diversa attenzione perl’architettura e per la urbanistica antica, chefurono considerate degne di riacquisire la loroprimitiva interezza ed esser fruite di nuovo,mediante restauri, anastilosi, integrazioni einterpretazioni.

Si tratta di un primo passo, ma certamentedi un grande passo in avanti rispetto agli annidelle spoliazioni per semplice collezionismo:i dibattiti successivi, però, non furono faciliné tutto fu chiaro sùbito.

I l caso della ricostruzione, a metàdell’800, della basilica di S. Paolo fuori lemura, distrutta da un colossale incendio e poiriedificata, nelle intenzioni “dov’era e com’e-ra”, fu una tappa storica nella precisazione deimetodi e dei criteri del restauro: le violentecritiche che seguirono alla ricostruzione dellabasilica (reinventata chiaramente secondo icanoni neoclassici) mostrò finalmente il noc-ciolo della problematica: all’intervento di re-stauro occorre avvicinarsi con la più grandeumiltà, rispettando la personalità del monu-

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mento originario senza interventi aggiuntivi esenza reinterpretazioni perché l’opera, ogniopera, ha un suo ciclo di vita, nasce, vive, hauna sua vecchiaia e ha il diritto di morire nel-la pienezza della sua dignità: anche un rudereha piena dignità e diritto di esistere.

Il degrado e la patina del tempo sono lanobiltà di una rovina, che va rispettata cometale senza alcuna ricostruzione, allorquandoquesto passaggio è ormai impossibile senzaoperare un falso.

Il dibattito esteso in tutta Europa, e opera-to fra posizioni contrastanti come quella discuola francese (Viollet-le Duc) e quella ro-mantica (Ruskin)10, continua per tutto l’800 einteressa monumenti importanti come ilPantheon (per la liberazione dei campanili,del Bernini), come Santa Maria del Fiore e ilduomo di Amalfi (per il loro completamentoin stile) o per il caso ancor più famoso delcampanile di S. Marco a Venezia, crollato nel1902 e ricostruito dov’era e com’era nella im-mediatezza del crollo.

La disciplina del restauro è ormai matura esi interessa finalmente della città: in Italia sihanno le prime leggi unitarie (1902), sulla tu-

tela dei monumenti, che prendono in esame –dopo gli interventi di fine secolo del Boito - lanecessità e l’opportunità anche della tutelaambientale. E dagli studi del Boito, da cuiprende le mosse la scuola italiana del restau-ro, si attestano, nel 1913, le ferme posizioni(Giovannoni) contro gli sventramenti deiCentri Storici a tutela dell’architettura mino-re.

È ormai l’età di Cesare Brandi, il maestroindiscusso, che fa della disciplina italiana delrestauro il riferimento fondamentale per l’in-tera comunità scientifica mondiale.11

Nel 1919 il Consiglio superiore per le An-tichità e per le Belle Arti afferma, e sarà cosìfino a oggi, il principio della tutela ambienta-le dei Centri Storici:

“Una città storica è tutta un monumento,nel suo schema topografico come nel suoaspetto paesistico, nel carattere delle sue viecome negli aggruppamenti dei suoi edificimaggiori e minori; e non dissimile che per ilmonumento singolo deve essere l’applicazio-ne della legge di tutela e quella dei criteri delrestauro di liberazione, di completamento, diinnovazione”.

Fig. 2 - Teramo 1927: immagine inedita del Centro Storico con la sua antica e pregevole forma urbis

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Nei decenni successivi questo postulatodiventa protocollo internazionale: ed è infat-ti del 1931, la Carta di Atene, che afferma laprioritaria importanza

“…del carattere e della fisionomia dellacittà, specialmente nella prossimità dei mo-numenti antichi, per i quali l’ambiente deveessere oggetto di cure particolari…”

In Italia fanno séguito (1938) le Istruzio-ni per il Restauro:” Ogni monumento coor-dina alla propria unità figurativa lo spaziocircostante: tale spazio è naturalmente og-getto delle stesse cautele e dello stesso rigo-roso rispetto che il monumento stesso…”

Ormai, si consolida, e diventa Scienza, ladichiarazione della pari dignità del monu-mento storico e dell’ambiente urbano e pae-sistico inteso come la testimonianza del mo-do di vivere degli abitanti e della loro evolu-zione culturale, politica e filosofica (1964,Carta di Venezia).

Infine, nella Carta del Restauro del 1972e soprattutto in quella di Amsterdam del1975, si arriva al principio della conserva-zione integrata che comporta la condanna diogni tutela puntiforme del monumento o ingenere di un brano di architettura senza ilpreventivo studio urbanistico del sito ogget-to di intervento e della valutazione delle at-tività in esso esercitate e anche della compo-sizione della popolazione residente per il fi-ne di evitare ingiustificate “delocalizzazio-ni”.

Questo è, dunque, l’apparato scientificoattuale, nel mondo, ed è vanto della “scuolaitaliana del Restauro” che ha notevolmentecontribuito alla sua formulazione.

Si deve riconoscere che la prassi operati-va non ha sempre osservato rigidamente que-sti Principi Generali e che oggi il tema delle“demolizioni” si sta timidamente riaffaccian-do come ipotesi di lavoro per il conferimentodi nuovi valori alle “periferie urbane”12: nonc’è dubbio, però, che sui Centri Storici non èmai stata sollevata più alcuna eccezione dot-trinale e che la ipotizzata demolizione di pa-lazzo Adamoli costituirebbe un caso atipicomolto imbarazzante che dovrebbe essere ap-profondito e studiato con cura.

Sulle eccezioni in Italia, al principio del-la conservazione dei Centri Storici, i mag-giori esempi risalgono proprio agli anni ’30del secolo XX, quando molti piani attuativio comunque molte attività esecutive segui-rono la deriva romantica favorevole alloisolamento dei monumenti e, soprattutto lanuova retorica monumentale dettata dal re-gime fascista, per la quale si continuò a de-molire mezza Italia in nome della NuovaRoma, dell’Impero che “torna sui Colli fata-li di Roma” e della “delocalizzazione” dellepopolazioni residenti, trasferite dai CentriStorici in periferia, per far posto ai nuovisimboli, ai nuovi edifici e anche a nuoveclassi sociali ritenute, secondo quella logica,più consone al decoro delle nuove città.

Poi la guerra, con le sue immani distru-zioni, le emergenze economiche, le rivolu-zioni sociali, l’urbanesimo accentuato, ilblocco (spesso tardivo o eccessivamenteprolungato) di ogni attività urbanistica neiCentri Storici e, talvolta, l’obliterazione del-la memoria: la dimenticanza, cioè, di ogniricordo dei dibattiti sui rapporti fra le variecomponenti, fra le diverse condizioni e gliinnumerevoli elementi, che configuranol’entità “Centro Storico”.

Così è avvenuto a Teramo: fra l’età delledemolizioni e l’attualità, si sono succedutedue, tre, forse quattro generazioni ed è pas-sato così tanto tempo da rendere oggi quasiirriconoscibile ogni luogo, ogni prospettivastorica, la dimensione della città, la sua for-ma (la forma urbis), la sua immagine (imagourbis) e il suo ruolo.

Chi oggi, per la prima volta, arriva a Te-ramo e ha occhi capaci di vedere, e visita ilsuo Centro Storico, rimane stupito dalla in-giustificata presenza di residue macerie, diperduranti relitti delle vecchie demolizionimai risarcite13, dalla sproporzione degli spa-zi irrisolti lasciati dagli sventramenti, dalladifficoltà di interpretare le relazioni spazialifra Piazza Orsini, Piazza Martiri, Via Paris,via Savini e dall’invisibilità delle geometriesegrete (la forma urbis) tipiche delle cittàantiche italiane.

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Perciò non saranno certo una ulteriore de-molizione (di palazzo Adamoli) e la ricostru-zione (in stile?) del teatro romano, la ricettaper ridare alla città la sua antica fisionomia, ilsuo storico tratto somatico o la sua personalitàidentificativa (l’immagine).

Né sarà sufficiente realizzare un nuovoteatro all’aperto eliminando i resti di viaChiasso dell’Anfiteatro e via del Teatro Anti-co per reinventare un nuovo ruolo per il Cen-tro Storico:

quella città non c’è quasi più perché de-molita, ma non c’è nemmeno la città nuovapropugnata dai sostenitori della Interamnialittoria, perché non ci fu tempo per realizzarlae oggi non è più stagione.

Abbiamo invece, macerie ancora all’evi-denza e sproporzionati spazi irrisolti che nonammettono ulteriori dilatazioni: prima di par-lare di altre demolizioni, perciò, c’è molto daapprofondire, da studiare e da progettare.

Il tema che pone l’abbattimento di palazzoAdamoli è, dunque, di estrema complessitàche deve essere studiato seriamente prima chesia assunta qualsiasi decisione irreversibile, e

che non può essere risolto col semplice finan-ziamento promesso dalla Regione, cioè conun procedimento amministrativo che superaogni concertazione e che sembra calato senzauna adeguata programmazione o una giustastrategia o un progetto, sia pur minimo, di si-stemazione del comparto.

Si dovrebbe procedere, invece, verso unastrada che premi il restauro dell’esistente, lasalvaguardia della sue specificità, il recuperodel vissuto e delle testimonianze della lungastoria insediativa della città, mediante unamanutenzione sistematica del tessuto urbanocontinuo, che è archeologia diffusa, che na-sconde secoli di storia: casa per casa, stradaper strada, monumento per monumento.

L’archeologia è dovunque: nei travertinidel Teatro, nelle volte in laterizio delle caseantiche, nell’andamento e nel carattere dellevie, nella successione delle piazze e nell’ag-glutinazione degli edifici, nella configurazio-ne paesistica, nei rapporti consolidati fra pie-ni e vuoti, fra luoghi cospicui e piccoli tessutiabitativi, fra orti e giardini, fra gli spazi priva-ti e quelli pubblici14.

Fig 3 - Teramo 1984, dopo le demolizioni: disfatta l’antica forma, rimangono vuoti urbani irrisolti e macerie

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Cancellando anche palazzo Adamoli, si rea-lizzerà, nelle prossimità del Teatro, un ulteriorearbitrario vuoto urbano e il residuo incertoequilibrio fra gli spazi costruiti e quelli vuoti la-scerà ogni ragionevole congruenza e ogni resi-dua leggibile geometria, come si può vederedalla immagine urbana della Teramo attuale

(fig. 3), perduta città d’arte.Potrebbe essere utile, allora, rileggere con

molta attenzione, nell’ immagine inedita di fig.2, le apparenti “ forme chiuse” e “l’intrecciodelle linee”15 della antica città ormai “invisibi-le” fissata inconsapevolmente su lastra pocoprima della sua scomparsa.

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Fig. 4 - Teramo futura? Simulazione della dimensione del vuoto prodotto dall’abbattimento del complesso Adamoli-Salvoni

NOTE SULLE IMMAGINIL’immagine di fig.2 è stata tratta, dall’Autore, da una fotoscattata nel 1927 da un aereo della Regia Aeronautica Mi-litare: il ritrovamento è avvenuto nell’Archivio di Stato diTeramo nel corso delle ricerche (1998) per la compilazio-ne della tesi di laurea di cui alla nota 3. La foto di fig.3 è tratta dalla rivista “Oggi”, n°44 del 1984. I dipinti riprodotti per g.c. in fig.1 e alla nota 15 apparten-gono alla Collezione Lauri di Pescara.L’immagine nell’esergo è tratta da una incisione stampatanella copertina de “Le cento città d’Italia - Supplementomensile illustrato” al n° 8641 del «SECOLO» del 25 apri-le 1890, monografia dedicata interamente a Teramo e al-la sua provincia. Nelle pagine interne della rivista (in par-ticolare le pagg. 28, 29 e 32) sono contenute altre interes-santi incisioni di cui non è indicato l’autore.Alle più famose monografie regionali “Le cento città d’I-talia” pubblicate dal «SECOLO» dal 1887 al 1902, feceseguito, con titolo analogo, la pubblicazione della casaeditrice Sonzogno di Milano (1937) “Teramo Romana,Medievale e Moderna” nella serie “Le cento città d’Italia

illustrate”.L’immagine di Teramo nel 1890, quale si legge, a grandedimensione e con dettagli nitidi, nella pag. 25 del Supple-mento citato, è ricca di particolari e documenta importan-ti modifiche urbanistiche avvenute in città proprio in que-gli anni: facendo un confronto con la mappa allegata allaGuida Illustrata di Teramo di Giacinto Pannella, che è del1888, e con altri documenti richiamati nell’ultima partedella nota 3, si potrebbe concludere che l’incisione siastata tratta da una foto eseguita fra l’aprile 1890 e unadata prossima al 1888, anno nel quale fu completata lacostruzione dell’edificio - non riportato dal Pannella mariconoscibile nella incisione - della Scuola Normale fem-minile (oggi Palazzo della Provincia) utilizzato per la Mo-stra Provinciale Operaia di Teramo, che ebbe luogo pro-prio nel 1888. Dettagli, confronti e valutazioni di vario ti-po fanno ritenere che la fotografia di riferimento sia stataeseguita da Gianfrancesco Nardi come sostenuto nel vo-lume a cura di Fausto Eugeni e Jacopo Nardi “Gianfran-cesco Nardi ritratti e paesaggi” ed. Edigrafital, Teramo2002, pagg, 118 e 119.

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NOTE BIBLIOGRAFICHEE COMMENTI AL TESTO

1 Sul Teatro di Interamnia: Francesco Savini, legessoareniti, il progetto di città archeologica,pubblicato in sintesi su “Il Cittadino” mensile delmarzo 2003 e del febbraio 2005 e nel III Quadernoa cura dell’Archeoclub di Teramo (G. Castellucci).Una esauriente specifica relazione petrografica suldegrado delle gessoareniti del Teatro, è stata com-pilata dal geologo dott. Andrea Rattazzi del CentroGnudi di Bologna, in data 19 marzo 1998 e si tro-va allegata al progetto Restauro del teatro romanodi Teramo redatto dal Comune di Teramo e dallaSoprintendenza Archeologica dell’Abruzzo nel-l’Accordo di Programma: Sistema museale di Te-ramo- Regione Abruzzo. Nello studio si segnalache “..Il processo di degrado ha avuto un forte in-cremento dopo gli interventi dei primi anni ’80 chehanno eliminato le coperture a tetto di tegola postein precedenza sulla testa delle murature. Copertu-re che erano aggettanti e quindi capaci di impedi-re l’impatto diretto delle acque piovane ed il ru-scellamento sulle murature…”

2 James Watson e Francis Crick: Molecular structu-re of nucleic acids: A Structure for DeoxyriboseNucleic Acid; “Nature”, n°4356, 25 Aprile 1953. Fino alle scoperte di James Watson e Francis Cricksulla doppia elica del DNA non era noto chel’informazione, che regola la diversità tra le speciee tra gli individui di una stessa specie, si trova con-tenuta in un codice uguale per tutti i viventi, e chequesto comporta la possibilità di attivare innovati-ve e sofisticate tecniche sulla genetica. Il famosoarticolo di Crick e Watson è brevissimo, contenutoin meno di una pagina, ma è destinato a produrreuna delle più grandi rivoluzioni nei nostri stili divita e nella pratica medica. L’articolo è stato rin-tracciato in formato pdf nel sito [email protected]

3 Furono molti gli studiosi e gli intellettuali che si op-posero alle demolizioni ed alle manomissioni deiCentri Storici. Fra i tanti: Roberto Papini, sul“Corriere della sera”; Luigi Piccinato: Congressointernazionale delle abitazioni e dei piani regola-tori; Gustavo Giovannoni: Questioni di architettu-ra; Giovanni Muzio: Forme nuove e di città mo-derne. Sui temi del rinnovamento delle città e sugli sven-tramenti dei Centri Storici dopo la formazione del-lo stato unitario e sulla cultura moderna del restau-ro, esiste una vastissima bibliografia, cosi come ècospicua la letteratura tecnica sulla ingegneria sa-nitaria (urbana), sull’urbanistica e sulla architettu-ra nei primi cinquant’anni del Regno. È utile, sul-l’argomento degli sventramenti, consultare anche inumerosi testi sulla ricerca di uno stile proprio del-

l’architettura italiana nel confronto con l’ereditàdel passato e altri numerosi sulla problematica del“decoro urbano”, della “manipolazione stilistica”e della “celebrazione dei valori nazionali”. Menoricca è la letteratura sul “risanamento, diradamen-to e propaganda nazionalista nel periodo tra le dueguerre”. Per quanto riguarda le trasformazioni ur-banistiche a Teramo, dopo l’unità d’Italia, si trovamateriale nell’Archivio storico del Comune di Te-ramo e soprattutto nell’Archivio di Stato. Cospi-cua la documentazione cartografica, e particellare,anche del periodo preunitario su via del Burro (og-gi via Carducci) e su tutta l’area di espansione ot-tocentesca: su questo argomento si può consultarela documentata tesi di laurea dell’arch. AdrianaCastellucci: Le trasformazioni urbanistiche nellacittà di Teramo dopo l’unità d’Italia, Università diRoma La Sapienza, facoltà di architettura, relatoreprof. Enrico Guidoni, 1999.

4 L’architettura moderna era già arrivata in Italia conopere di grande valore, come, a Firenze, lo stadiodi Pierluigi Nervi (1931) e la stazione di Santa Ma-ria Novella di Giovanni Michelucci (1933); ma ac-canto a queste grandi opere, si procedeva con mo-numentalismi eletti a rinnovata romanità: a Romastessa era stato progettato un grande sventramento“imperiale” che avrebbe unito in un unico spazio,Piazza Colonna e Piazza Montecitorio, fino alPantheon: “Entro cinque anni da Piazza Colonna,per un grande varco, deve essere visibile la moledel Pantheon”. La frase è attribuita a Mussolini, ilprogetto del “grande varco” è dell’architetto Ar-mando Brasini.

5 Luigi Savorini, Il foro della nuova Intermania: ri-sanamento e sistemazione del centro urbano di Te-ramo, Casa Editrice Tipografica Teramana, 1937. In 25 pagine di testo l’autore analizza dettagliata-mente la storia della città, i suoi monumenti e lacritica situazione igienico sanitaria dell’epoca. Maanche le prospettive di una svolta economica e so-ciale, con alcune concessioni alla retorica del mo-mento: “Fu norma costante degli imperatori ro-mani quella di far procedere di pari passo il risor-gimento delle antiche città italiche con gli amplia-menti dell’Impero. Oggi l’Impero è riapparso do-po quindici secoli sui colli fatali di Roma. Il Duceche con queste alate parole ne diede il fatidico an-nuncio al mondo civile sarà forse un giorno franoi. Verrà, vedrà. Non avrà neppur bisogno diascoltare. Un rapido sguardo de’ suoi occhi diaquila. Un cenno. E potremo guardare finalmenteall’avvenire, non più con vaga speranza, ma consicura certezza”.Completano il saggio gli eccellenti disegni dell’ar-chitetto Scalpelli e degli ingg. Montani e Marte-giani sull’isolamento del Duomo, la sistemazione

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(littoria) di Piazza V.Emanuele III oggi P.za Mar-tiri, e la dimensione prevista (poi di gran lunga su-perata negli anni ’50) per l’ingombro del Semina-rio Aprutino.

6 Carlo Ceschi, Teoria e Storia del Restauro, Roma,Bulzoni, 1970. Il concetto di opera d’arte ha cambiato significato,nel tempo, col mutare degli usi e dei costumi. Per iRomani l’ars indicava una qualsiasi attività svoltacon particolare abilità, come le arti meccaniche, leattività pratiche e anche le arti liberali letterarie etecniche. Con lo stesso significato la parola “arte”,comparsa nella lingua italiana alla fine del XIII se-colo, indica ancora soltanto l’attività umana rego-lata da procedimenti tecnici legati a un qualchestudio o a una valida esperienza: da allora si diceancora, in campi di attività artigianali, “fatto a re-gola d’arte”, per confermarne l’esecuzione benrealizzata. Solo col Rinascimento l’allocuzione“opera d’arte” assumerà il significato di attivitàche crea prodotti di cultura capaci di evocare rea-zioni del gusto e del giudizio.

7 Il Pantheon è probabilmente l’esempio più antico,fra gli edifici ancora in uso, di riconversione fun-zionale: può essere utile ricordarne la storia. Nel-l’anno 27 a.C. Agrippa, genero e architetto di Au-gusto, erige il Pantheon sul luogo dove Romolo,secondo la leggenda, “ascese” in cielo durante unacerimonia. È, questo originario, un tempio comu-ne, rettangolare, di media dimensione, concepitocome luogo di culto collettivo di più divinità. «Nelcorso degli anni il tempio subisce incendi e altrecalamità, viene restaurato più volte finché l’impe-ratore-architetto Adriano lo ricostruisce fra il 118e il 128 d.C. È sicuramente di Adriano il pronaocon le sedici colonne, l’ampliamento della “roton-da” e soprattutto la cupola in calcestruzzo - la piùlarga che si sia mai costruita in muratura - realiz-zata con una tecnica d’avanguardia. Adriano, conun atto di liberalità straordinario, ripristina l’iscri-zione sul frontone attribuendo la sua opera a quel-lo che considera il suo architetto: “Marco Agrippa,figlio di Lucio, Console per la terza volta, edificò”,[M ·AGRIPPA ·L ·F ·COS ·TERTIUM ·FECIT]. Nel608 l’imperatore Foca dona il tempio a Papa Boni-facio IV che lo consacra al culto cristiano: SanctaMaria ad Martyres, capolavoro dell’architettura ro-mana e primo caso di trasformazione di un tempiopagano in chiesa cristiana. Il tempio si presentava suuna gradinata che partiva da una piazza porticatapiù bassa dell’attuale. In origine la calotta era ester-namente coperta con tegole di bronzo dorato collo-cate a squame, sottratte nel 663 dall’imperatored’Oriente Costante II e sostituite da una copertura dipiombo nel 735. Stessa sorte subiscono i rivesti-menti bronzei del portico, usati per fondere cannoni

o concessi da Urbano VIII al Bernini per realizzareil baldacchino di S. Pietro. Poche le aggiunte all’ar-chitettura originaria: gli ornamenti della chiesa, i se-polcri di grandi artisti (Raffaello) e quelli dei Realid’Italia. Sempre il Bernini erige due campanili ai la-ti del timpano definiti “orecchie d’asino”, eliminatia fine Ottocento»: www.activitaly.it.

8 La basilica di Santa Costanza rappresenta bene ilconcetto di “continuità di vita” di un complesso ar-chitettonico e urbanistico. Fu eretta da Costanza,nipote di Costantino, nel 342, utilizzando strutturepreesistenti: fortemente degradata per l’incuria de-gli anni di fine Impero, fu “riedificata” da papaOnorio attorno al 650 nello stile bizantino dell’e-poca. Fu poi più volte arricchita, con elementi chedimostrano il passaggio attraverso i secoli e le cul-ture che cambiano: l’impianto basilicale romano,le catacombe sottostanti, il raffinato nartece bizan-tino (molto raro a Roma), il campanile quattrocen-tesco, la scala rinascimentale, il soffitto a cassetto-ni di legno dorato dell’età barocca e soprattutto l’e-sempio di “restauro-riutilizzo” operato nel 1660della combinazione di un torso di alabastro anticocon mani, testa e vesti , aggiunti.

9 La scoperta del Palatino produsse un forte dibattitosul senso dell’antico soprattutto a causa della quan-tità e della qualità dei ritrovamenti.«Il colle accoglie grandi complessi di palazzi: Do-mus Transitoria di Nerone; Domus Tiberiana con lesue aggiunte verso il Foro di Caligola e Domiziano,trasformate successivamente nella Chiesa di S. Ma-ria Antiqua; Domus Flavia e Domus Augustana, ri-spettivamente settore di rappresentanza e privatodel grandioso palazzo flavio che, nei secoli, man-tenne inalterata la sua funzione anche dopo il trasfe-rimento della sede imperiale a Costantinopoli, non-ché le attinenze e i successivi ampliamenti di questiverso la valle del Circo Massimo (le cosiddette Ter-me Severiane, la Schola Praeconum o “casa degliaraldi” e il Paedagogium o “scuola dei paggi impe-riali”). Le testimonianze si estendono fino alla fasedi ristrutturazione di Teodorico, al declino e defini-tivo abbandono del sito, coincidente con l’età me-dievale. In questa fase, dominanti lungo le pendicidel colle saranno le presenze di chiese: da S. MariaAntiqua nell’angolo nord-occidentale, a S. Anasta-sia nell’angolo sud-occidentale, alla diaconia di S.Teodoro alle pendici sud-occidentali, fino alla S.Lucia in Septisolio sulle pendici sud-orientali. Que-ste presenze rappresentano gli ultimi centri di vitaprima della trasformazione del colle in un’unica for-tezza a opera dei Frangipane. In età rinascimentaleil colle ospita ville di ricche famiglie, quali gli Stati,i Mattei e i Farnese. A questi ultimi, si deve la crea-zione, sulla parte nord-occidentale del colle, dei ma-gnifici Horti Palatini, i cui resti oggi si estendono

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sulle rovine dei palazzi di Tiberio e di Caligola»:www.archeorm.arti.beniculturali.it.Recentissimamente, a opera dall’archeologo An-drea Carandini durante gli scavi nel Foro, è avvenu-to il ritrovamento della regia della Roma primitiva.Il palazzo si trovava accanto al santuario di Vesta,fuori dalle mura palatine, ed è stato costruito pro-prio nella metà dell’VIII secolo a.c., confermando-si, in tal modo, la data della fondazione della città.La reggia era grande: 345 metri quadrati, 105 deiquali coperti con un ingresso monumentale; gli in-terni, invece, erano rifiniti con arredi e ceramiche diottima qualità. Insieme al palazzo è stata ritrovataanche la capanna delle Vestali dove veniva acceso ilsacro fuoco, e una pavimentazione risalente allametà dell’VIII secolo a.C. Sarebbe la prova checonsentirebbe di datare con precisione la fondazio-ne dell’Urbe, la cui nascita uscirebbe dal mito e dal-la leggenda per entrare nella Storia, con precisa con-tinuità di vita, fino a oggi.

10 Le posizioni di Viollet-le-Duc e Ruskin, hanno sinte-tizzato già dalla loro età, le problematiche connesse alrestauro, che presentano ( almeno ) due aspetti domi-nanti: quello artistico e quello storico, spesso in con-trasto operativo: Un edificio, soprattutto se ha avutouna lunga vita, non è mai giunto a noi senza subirealterazioni nel corso dei secoli. Così che esso è oggidivenuto un insieme molto complesso e articolato diparti, che possono avere anche stili diversi. Così che,in uno stesso palazzo è facile trovare un cortile rina-scimentale, una facciata barocca, degli elementi goti-ci, in un insieme che non ha quindi più una sua unitàstilistica. Analogo conflitto si trova spesso fra leistanze urbanistiche e quelle monumentali.

11 Cesare Brandi, Teoria del Restauro, Einaudi, Torino,1980. Dello stesso autore, per Einaudi: Teoria gene-rale della critica (1972); Struttura e Architettura(1974); Scritti sull’arte contemporanea (1976).Fondatore dell’Istituto Italiano del Restauro nel1939, ne è stato direttore fino al 1960. È stato Or-dinario di Storia dell’arte all’Università di Roma,La Sapienza.

Notevole è stato il suo contributo sull’analisi dellaspazialità architettonica: si può leggere, per que-sto, Dialoghi sull’Architettura, Einaudi, in parti-colare le pagg 188-214, vol III.

12 Fausto Carmelo Nigrelli (a cura), Il Senso del vuo-to. Demolizioni nella città contemporanea, Roma,Manifesto libri, 2006. Questo saggio di recentissi-ma pubblicazione, affronta con vari punti di vista econ l’intervento di diverse professionalità, il temadel “distruggere o trasformare” con riferimento al-le periferie urbane. La lettura del libro è molto in-teressante soprattutto perché tornano alla discus-sione le antiche problematiche della demolizione edella conservazione.Gli autori sono: Enrico Chapel prof. di Storia del-l’Urbanistica presso l’École d’Architecture diToulouse; Giulio Mozzi, scrittore; Stefano Muna-rin prof. di Urbanistica presso l’Università di Ca-tania e presso l’Università IUAV di Venezia; Fau-sto Carmelo Nigrelli prof. di Urbanistica pressol’Università di Catania; Michelangelo Savino prof.di Tecnica urbanistica all’Università di Messina edi Gestione urbana in quella di Catania; TizianaVillani direttore della rivista “Millepiani” e ricer-catrice presso il Dipartimento IUP dell’UniversitéParis XII

13 Teramo Centro Storico, 2006: resti, non ancora ri-sarciti, delle demolizioni operate col Piano di Risa-namento di S.M. a Bitetto (1938-1962 ca). Questeimmagini chiariscono bene la tesi esposta nel testo:prima di pensare a nuove demolizioni, i cui avanzipotrebbero rimanere a bella vista per chissà quantilustri, impegniamoci a studiare la soluzione per lasistemazione dell’intero comparto: dopo, solo dopoaver studiato e dibattuto a lungo, si potranno trarreconclusioni e decidere interventi.Per rappresentare la complessità della questioneappena posta si fa notare che le demolizioni opera-te col Piano di S.M. Maria hanno riguardato edifi-ci, strade e luoghi dove si è consumata buona par-te della lunga storia della città: per esempio, la ter-za e la quarta foto della presente nota riguardano

Foto I - Attorno al Teatro romano: resti delle demo-lizioni del Piano di S.M. a Bitetto.

Foto II - Attorno al Teatro romano: vuoto urbano irri-solto al posto degli edifici abbattuti col Piano di S.M. aBitetto.

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si dalle ultime demolizioni dovute al Piano di S.M. aBitetto, potrebbe dimostrare che la nostra città si è difatto posta al di fuori del contesto culturale specificoe che per iniziare una qualunque discussione si debbaripartire necessariamente dalla richiamata posizionedelle Norme unificate della Commissione Ministe-riale per il Restauro (1938): “Ogni monumento coor-dina alla propria unità figurativa lo spazio circo-stante: tale spazio è naturalmente oggetto delle stes-se cautele e dello stesso rigoroso rispetto che il mo-numento stesso…”Vale la pena di ricordare, inoltre, che la questionedello stretto rapporto fra il monumento e lo spazioche lo circonda è un tema complesso che riguardail senso stesso del restauro, che è una operazionesincretica nella quale si devono spesso conciliarevalori storici, architettonici e urbanistici i quali,marcando il passaggio del sito attraverso i secoli ele culture che cambiano, possono trovarsi in con-trasto fra loro (cfr. nota 8, sulle sovrapposizioni diS. Costanza).Una così ampia operazione, come è quella del re-stauro di un luogo storico, che partendo dall’esamedi situazioni spesso discordanti deve arrivare ad unasintesi culturale, non può provenire da decisioni ditipo amministrativo (è la tesi di fondo del presentearticolo) o dalle sole Soprintendenze, per ricevutadelega dalla Regione, in ipotesi rappresentate dauna unica professionalità.Su questo argomento si può ricordare il causticoscritto di Bruno Zevi su ”l’Espresso”, Assassinio

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Foto IV- Casa diroccata in angolo fra Vico del Pen-siero e Via della Pinacoteca: è adiacente alla storicaChiesa di S.M. a Bitetto, in parte sopravvissuta al-l’incendio normanno del XII sec.

Foto III- Attorno al Teatro romano. Casa Narcisi-DiRaimondo, scampata all’incendio normanno, è unodei più antichi edifici di Teramo. Ora è lasciata al-l’incuria e al degrado.

edifici (la terza) o parti di edifici (la quarta) conelementi murari del XII secolo, presumibilmentesopravvissuti alla distruzione normanna (o secon-do altri, bizantina) operata da Loretello fra il 1149ed il 1155. Si tratterebbe di due fra le rarissimetracce del Sacco di Teramo -che Savini definisce“lombarde” per la particolare tessitura dell’appa-rato murario- e dunque appartenenti agli edificipiù antichi di Teramo:Francesco Savini, Gli Edifizi Teramani del MedioEvo, Roma, Forzani, 1907, pagg 7-10.L’evidente incuria con la quale vengono conserva-te queste tracce potrebbe essere la dimostrazionedella perdita di memoria che la collettività ha subì-to per la scomparsa dei riferimenti in ordine allaimmagine e alla forma della città storica.Quello indicato nella terza foto è il luogo urbanoche ha subìto le più grandi alterazioni rispetto al-l’originaria forma urbis (cfr. fig. 2 del testo) e sipresta bene per evocare il monito riportato nell’e-sergo: “Dove le forme si disfano, comincia la finedelle città.” (Italo Calvino, Le città invisibili, ed.Einaudi, 1972).

14 Sul tema dell’archeologia diffusa ovvero della con-servazione dei luoghi della memoria e dell’intrecciofra linguaggio “segnico” e “contenuti” dei manufat-ti e dei luoghi storici si deve segnalare che la cultu-ra del centro storico, così come si era sviluppata al-la fine degli anni ’60 (mentre a Teramo si continuavaa demolire), è stata successivamente oggetto di ap-profondimenti e analisi molto vivaci e perduranti. Èqui difficile riassumere gli argomenti salienti di que-sto acceso dibattito, proprio per la complessità dellediscussioni e delle tesi che sono state sviluppate nelperiodo di “transito” dal moderno al postmoderno: sipuò leggere, per estrema sintesi, il brevissimo saggiodi Pierluigi Giordano in Paesaggio Urbano, n°5,Maggioli editore, Bologna, 2004 pagg. 16-17.L’odierna assenza di dibattito sugli interventi nelCentro Storico di Teramo, unita alla mancanza diqualunque tipo di discussione nei dieci lustri trascor-

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denominato restauro, avverso gli interventi, defini-ti “vandalici” del Soprintendente Mario Moretti sulpatrimonio storico abruzzese. (cfr. Bruno Zevi,Cronache di Architettura, ed. Laterza, 1973, pagg.348-350). La tesi di Zevi è molto chiara: un restau-ro complesso richiede una collaborazione di compe-tenze a triangolo: “studioso, architetto di primissi-mo ordine, funzionario capace”.Nel caso dell’intervento su palazzo Adamoli non siha notizia né del progetto, né del progettista, né del-le finalità perseguite: mancherebbero pertanto tutti ipresupposti perché l’intervento stesso possa avereuna qualche probabilità di successo.

15 Il tema delle geometrie urbane e della spazialità dellecittà del primo medioevo è rintracciabile in non moltitesti: il più completo ed interessante, anche perchéscritto in una eccellente lingua, è:Enrico Guidoni, Storia dell’Urbanistica, Il Medioevo.Secoli IV-XII, Bari, Laterza, 1991.Nel trattato vengono analizzati e interpretati la conti-nuità evolutiva dalle città antiche alle città medioeva-li e l’instaurarsi, in queste ultime, di una forte atten-zione per la natura come testimonierebbero, secondol’autore, i “tracciati viari curvilinei”, tanto frequentinelle città medioevali, Teramo compresa. Il prof. E.Guidoni analizza minuziosamente molte città a conti-nuità di vita (o di fondazione medioevale), sia delNord Europa che del mondo islamico, per le cui for-me geometriche sono offerte allegorie interpretative

molto interessanti anche se di complessa e talvoltanon immediata comprensione.Sulla descrizione e sulla interpretazione dei segni del-le trame urbane esiste poca letteratura se si escludonoi lavori di scrittori non urbanisti o di semplici viag-giatori che hanno raccontato le città visitate o di arti-sti e poeti, ai quali ultimi si debbono le più brillantisintesi delle emozioni e delle suggestione evocate dal-la immagine delle città antiche. Vale la pena di ricor-dare – per il legame simbolico con il tema dell’imagourbis – il saggio che Pietro Citati scrisse a commentodel libro di Calvino Le città invisibili:Pietro Citati, Le città invisibili di Italo Calvino. Para-bola morale e allegoria metafisica, ne “Il Giorno” del6 dicembre 1972, pag. 10.“…….Appena leggiamo una di queste prose, credia-mo di aver sotto gli occhi “forme chiuse”, dal contor-no netto, dalla linea precisa, dallo stile che tenta diimitare lo splendore della gemma e dell’onice. Ma èsol un inganno… Subito dopo, ci accorgiamo comeCalvino detesti sempre più l’ostinata caparbia della li-nea retta. Egli preferisce ad ogni cosa “l’intreccio del-le linee”, che congiungono tra loro i punti più lontanidel mondo,un vecchio imperatore che sfoglia le inuti-li mappe del suo atlante, una giovane ostessa che sol-leva un piatto di ragù sotto una pergola, un cavalierefelice di aver saltato l’ultima siepe, il riflesso delleperle in fondo al mare di Malabar, un francolino chefugge felice dalla gabbia negli spazi del cielo. […]”.

D. Flaiani, 1981. Continuità di vita nel sito del Teatro Romano

a colori

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