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Ciao Prof!

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Gabriella Favero, Narrativa

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Gabriella Favero

CIAO PROF!

La prego Non mi interroghi! Posso spiegarle…

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CIAO PROF! Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Gabriella Favero ISBN: 978-88-6307-317-1

In copertina: immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2010 da Digital Print

Segrate – Milano

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Dedico questo libro a Chiara, III A SPP dell'anno scolastico 2008-09 e alle sue compagne di classe. Perché mi hanno chiesto talmente tante volte a che punto fosse il mio manoscritto, che mi hanno costretto a finire questa cosa che non è proprio un vero libro, ma è un omaggio a loro e a tutte le simpaticissime alunne e alunni pieni di grinta e di voglia di vivere che ho assillato.

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VALENTINA Sento all'improvviso una voce angosciata provenire dal fondo della classe: «Prof! La Valentina ha una crisi di panico!». Alzo lentamente gli occhi dal mio registro corrugando la fronte e facendo una smorfia strana, un misto di inquietudine e stanchezza mentale. «Cos'è che ha Valentina? Una crisi di che?». «U-na CRI-SI DI PA-NI-CO, prof!». «E cioè? Potresti gentilmente spiegarmi cosa sarebbe questa strana cosa di cui non ho mai sentito ancora parlare?». «Ma prof… ma dove vive? In tutte le riviste femminili ultimamente c'è stato almeno un articolo a proposito! Valentina vede la stanza rimpicciolirsi un po' alla volta e così le viene il senso di soffocamento: le è già successo un paio di volte! Sta malissimo, non vede? Posso accompagnarla fuori dalla classe, prof?». Intanto la classe rumoreggia in vivace fermento. È la sesta ora del venerdì, cioè sono le 13.00 circa, le finestre sono chiuse ermeticamente dalla ricreazione (quindi da circa due ore e mezza), i termosifoni vanno a mille in barba a tutti i possibili risparmi energetici consigliati, gli ormoni delle ventitrè fanciulle componenti la classe anche! Non si può certo dire che questa sia l'aria ideale da respirare! Quasi quasi mi faccio venire una crisi di panico anch'io: forse è contagiosa e credo di averne più diritto io della Valentina. Sono davvero stanca morta: alla prima ora ho spiegato Mendel e quei suoi dannati piselli gialli e verdi in quinta A, poi in prima B, alla seconda ora, è stata la volta dei terremoti e dei loro effetti disastrosi; alla terza ora… BUCO, che è il termine per indicare che non si ha lezione: mi sono rintanata nel mio laboratorio di biologia a correggere compiti, ma hanno bussato, una alla volta, ben quattro persone. Io ho fatto il grande errore di dire avanti a tutti: tre erano alunne con

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problemi vari, bisognose di consulti e consigli e una era la bidella che mi portava da firmare la 287esima circolare dell'anno (siamo a marzo: forse quest'anno battiamo il record e arriviamo a 400!). Forse erano più rilassanti i piselli di Mendel! A ricreazione ho fatto la sorveglianza al primo piano, ma ben lontana dai bagni: oggi diluvia e sicuramente da quelle parti ci scappa qualche sigaretta e non sono proprio in vena di fare l'ennesima predica o mettere addirittura la multa, da buon adulto intransigente. Alla quarta e quinta ora ho portato la terza B in laboratorio, a giocare ai piccoli chimici effettuando reazioni di sintesi: solo tre provette rotte oggi, chiazze gialle e mani puzzolenti di zolfo, che non viene via neanche a spelarle con lo sbucciapatate… ma ho finito i guanti e aspetta e spera che me li ricomprino! Ho lavato il lavandino con la spugnetta di ferro (altrimenti la bidella mi toglie il saluto per una settimana) giusto in tempo prima che suonasse la campanella della sesta ora… e adesso questa ragazzina, in prima A, con la cri-si di PA-NI-CO! Ho un senso di nausea… «Valentina, mettiti il giubbotto, apri la finestra e respira un po' d'aria buona con tanto ossigeno. Vedrai che la crisi di panico ti passa e la stanza torna della misura giusta». Valentina mi guarda con un'espressione comunicante risentimento e incredulità: le sto togliendo la scena sminuendo la sua tremenda patologia! Ma come! Lei ha una terribile, sconvolgente e interessante crisi di panico… e io penso di risolverla così? La mando semplicemente a respirare un po'd'aria pulita alla finestra invece di pensare come minimo a chiamare l'autoambulanza o, peggio, la neuro?! Ma Valentina coglie il mio sguardo impietoso e stanco, intuisce che se anche lei svenisse, io metterei in atto tutte le mie nozioni di pronto soccorso prima di scomodare gli ospedalieri e ubbidisce. In mezzo a sguardi preoccupati e incuriositi, risatine soffocate e sbuffi di delusione per la risoluzione troppo frettolosa del problema, la fanciulla si mette il giubbotto e ondeggiando instabile, sorretta da un'amica, va verso la finestra aperta dalle compagne. Si appoggia al davanzale con i gomiti tenendosi la faccia tra le mani e respira tipo mantice: io, noncurante, richiamo la classe all'ordine e comincio a riempire la lavagna di schemi e spiegazioni ancora sui terremoti e i loro disastri. Dopo due, solo due, minuti di respiri sospirosi e sonori, Valentina torna

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a posto, tira fuori il suo quaderno e dice: «Piano prof, non cancelli che se no resto indietro». Tutte le altre si girano a guardarla (Valentina è, e sarà sempre, in ultimissimo banco) tra lo stupito e il divertito: poi si girano a guardare me, in silenzio totale e io posso percepire i loro pensieri: che potere guaritore, che arte medica efficace o… Che razza di crisi di panico era? Si pensava che sarebbe successo qualcosa di interessante, e invece… la prof non le ha dato proprio corda! Valentina chiede cosa c'è scritto nello schema alla lavagna, alla seconda riga, perché non ci vede da là in fondo; la sua voce è forte e chiara. La crisi di panico è passata: mi caccio in gola la tentazione di chiederle se anche la stanza sia tornata alle dimensioni normali e pian piano arrivano le 13.30 e ce ne andiamo tutte a casa a mangiare. È andata dritta anche oggi.

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GENITORI E INSEGNANTI: parliamone! Mi sono decisa a scrivere questa specie di libro dopo una serata trascorsa a parlare con i genitori delle classi prime: attualmente insegno in un liceo socio psicopedagogico frequentato al 98% da ragazze e, spesso, il passaggio dalle scuole medie alle superiori è traumatico. Così mi è venuta la balzana idea di cominciare a parlarne con i genitori, di tentare di avviare un dialogo tra loro e gli insegnanti, affrontare insieme i problemi che sorgono entrando in un nuovo ordine di scuola e cercare la soluzione migliore: un progetto ambizioso, un esperimento, un tentativo pionieristico di costruire un ponte tra il mondo dei genitori e quello degli insegnanti. In fin dei conti l'obiettivo è comune: la crescita socioculturale e umana dei nostri ragazzi. Almeno in linea teorica dovrebbe essere così. Eppure io sento i genitori parlare continuamente male degli insegnanti, gli insegnanti parlar sempre male dei genitori e… i ragazzi che dicono peste e corna di entrambi! Non è certo un clima disteso e collaborativo! Le litanie ricorrenti sono, infatti, più o meno come le seguenti: «Tutta colpa degli insegnanti. Non sanno prendere per il verso giusto il mio ragazzo, non lo capiscono, me lo stanno rovinando: lo hanno demotivato, deluso e incattivito!» «Tutta colpa dei genitori, non sanno educarli questi benedetti ragazzi, non hanno polso, non gli inculcano il senso del dovere, non ci parlano e non passano con loro abbastanza tempo!» E loro, poveretti, già incasinati dal fatto di essere in piena adolescenza, che si ritrovano tra incudine e martello, stretti nella morsa dei responsabili della loro educazione morale, culturale, sociale che non fanno altro che parlare male gli uni degli altri alle spalle! Così, io e alcuni colleghi, abbiamo pensato di tentare l'impossibile: avviare un lavoro in team, come si dice oggi, cioè lavorare insieme, insegnanti e genitori per parlare di loro. Raccontarci come ci facciano impazzire a scuola e di quanti guai

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combinino a casa. Trovare una ragione al loro apparente menefreghismo, tenere a bada le loro ansie, convincerli che il futuro lo costruiscono giorno per giorno. Ridere insieme, confidandoci che bisogna fare i salti mortali per far studiare loro la chimica e anche per fargli mettere in ordine la camera! Volevamo parlare con i genitori di strategie comuni per farli crescere nel migliore dei modi, sotto tutti i punti di vista. Strategie comuni? È davvero possibile che i 'nemici' possano allearsi per il bene dei loro ragazzi? Due incontri serali e un questionario avrebbero dato questa opportunità. La cosa che più mi piaceva era che, finalmente, avrei sentito le critiche in diretta, faccia a faccia, papali papali. Perché io, in verità, i rimproveri alla categoria li conoscevo già benissimo TUTTI, ma proprio tutti… perché sono anche madre, oltre che insegnante: ho tre figli e in un determinato periodo erano ben ripartiti: elementari, medie, superiori. Quante lamentele, rimproveri e accuse sento quando, in incognito, faccio la fila ai colloqui generali per parlare con gli insegnanti dei miei figli; quello è un vero momento catartico in cui si scatenano a voce bassa e sommessa, in modo che 'loro' non sentano, tutti i rancori a lungo covati, le delusioni, le vivaci proteste attizzate dal fatto che l'attesa può, in effetti, durare ore. E, al massimo della stanchezza crescente per le lunghe file, spesso anch'io ho partecipato a questa orgia collettiva di maldicenze e lamentele. Non è possibile resistere… Sei lì, in fila da due ore per un insegnante nell'estremo sud dell'edificio, poi per un altro all'estremo ovest, con in mezzo due rampe di scale, un chilometro di corridoi e, in certi istituti, persino un cortile fangoso che sembra surreale da quanta melma c'è! Sperando, inoltre, di aver interpretato bene la disposizione delle aule dal foglietto esplicativo che i bidelli inferociti ti hanno messo in mano all'entrata. Sei circondata da cori di protesta che ti martellano da ogni parte… Sembra di essere alla celebrazione di un rito primitivo con tamburi ritmici e ancestrali: dopo un po' la lingua si muove da sola, a ritmo, senza l'attivazione di nessun impulso cerebrale volontario. È altamente liberatorio! Parli malissimo di tutti gli insegnanti per esorcizzare la tremenda paura di non essere all'altezza del tuo compito di genitore: è davvero consolante pensare che, in fin dei conti, la responsabilità di come

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stanno venendo su i tuoi figli sia anche di altri, mica solo tua! Ed eccoci qui, al secondo incontro con i genitori degli alunni delle prime classi: il primo era andato talmente bene che loro stessi ne avevano chiesto un altro. Cos'era stato così accattivante durante quella prima serata? Non credo, in cuor mio, che si fosse parlato di chissà che! Il vicepreside (i presidi non ci sono mai in queste occasioni) aveva illustrato il POF dell'istituto (…'piano dell'offerta formativa'… il lettore commenti da solo se la sigla sia o meno azzeccata); io avevo spiegato come si dovrebbe gestire, secondo noi, il passaggio dalla scuola media inferiore a quella superiore dal punto di vista pratico fornendo una specie di lista: — chiedere loro spesso 'come va?'; — controllare che facciano i compiti regolarmente in quanto il carico di lavoro è maggiore; — andare a colloquio con gli insegnanti spesso per sapere non solo l'andamento didattico, ma anche se si integrano bene con i nuovi compagni, se sono in grado di organizzarsi, e molto altro; — chiedere loro, con sincero interesse e senza fretta, cosa stanno studiando di nuovo e se gli piaccia; — controllare che spengano il cellulare mentre fanno i compiti o, almeno, che sia spostato al piano di sopra o due stanze più in là, in modo da costringerli a fare un po' di movimento fisico, se proprio non c'è verso di convincerli che non è il caso di interrompere il proprio lavoro venti volte all'ora per rispondere agli squilli o per usare i cento messaggi gratis giornalieri (la conversazione è sicuramente a un livello profondo: «Ciao, come va?» «Bene, e tu»? «Anche a me. Cosa fai?» «Studio. E tu»? «Anch'io studio.» «Paolo mi piace!» «Anche a me Paolo piace!»: perché per consumare CENTO messaggi al giorno bisogna per forza tirarla lunga… Si era anche illustrata la possibilità di cosa fare accorgendosi di aver scelto la scuola sbagliata per il proprio figlio indeciso, o di averlo lasciato troppo solo in quella importante decisione, che comunque poteva essere rivista, senza drammi, in qualunque momento. Poi la mia collega aveva illustrato come gestire il passaggio dal punto di vista psicologico: come gestire l'ansia da prestazione, frequente soprattutto nelle ragazze, che in alcuni casi sono convinte che se sei brava alla scuola superiore vali, altrimenti sei da buttar via; se prendono un brutto voto (che a volte può essere anche un SETTE!) il mondo

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crolla. Ma anche il contrario è molto pericoloso: la paura di provare a tirare fuori il meglio di sé e quindi far finta che non importi proprio nulla del proprio andamento scolastico; questo è più frequente nei maschi, che sembrano tanto menefreghisti, ma solo perché devono mantenere inalterata la loro fama di 'duri'. Situazioni particolari, ma più frequenti di quel che si crede: ha poi spiegato come possa dare alla testa avere la possibilità di avere i rappresentanti di classe e svolgere proprie assemblee, partecipare a quelle d'istituto, come anche avere la possibilità di 'scioperare' non frequentando le lezioni per protesta, che non è proprio definibile come sciopero, in quanto mentre io, lavoratore, se sciopero ci perdo la paga di un giorno, se scioperano gli alunni non ci perdono proprio un bel niente, anzi! Sono felici e contenti! Io e la mia collega, quella sera, abbiamo cercato di sensibilizzare i genitori stimolandoli a dialogare di più con i loro figli e con noi, promettendo in cambio di cercare di sensibilizzare anche i nostri colleghi a prendere coscienza dell'assoluta necessità che entrambi le parti depongano le armi e ci si venga incontro. Quella sera i genitori hanno apprezzato, credo, l'estrema sincerità e il tono collaborativo alquanto informale della serata. Ma, per deformazione professionale, avevamo parlato tanto noi e pochissimo loro: così era nata la proposta di ritrovarsi dopo circa tre mesi, avendo anche, nel frattempo, vista la pagella del primo quadrimestre. Alla seconda serata c'erano quasi tutti coloro che avevano partecipato alla prima. Precedentemente avevamo distribuito loro, tramite i figli, un questionario con il quale, nell'anonimato, avrebbero potuto dire pregi e difetti della nostra scuola, capire quali difficoltà avevano incontrato in prima i ragazzi e se ciò avesse generato ansia e stress. La cosa interessante è che molti genitori avevano compilato i questionari in modo davvero meticoloso, occupando tutte le righe a disposizione: alcuni avevano scritto anche sul margine del foglio o sul retro perché le righe a disposizione erano poche! Mai avrei immaginato tanta voglia di comunicare la propria opinione, di esternare ciò che apprezzavano e ciò che criticavano; le osservazioni erano minuziose e precise, nel bene e nel male:

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«Apprezzo questa scuola perché forma l'individuo, oltre che dare cultura.» «Ci sono troppe ore e troppe materie in queste sperimentazioni: non si possono fare bene tutte!» «Vorrei più colloqui collettivi pomeridiani con gli insegnanti, perché non posso chiedere quindici permessi all'anno dal lavoro.» «Perché alcuni insegnanti danno anche dieci e altri non vanno mai sopra l'otto? E perché alcuni motivano accuratamente il loro voto e altri lo mettono e basta?» Altro che genitori incompetenti, distratti e menefreghisti! Sono sempre più attenti e consapevoli di fare un mestiere difficile, anzi difficilissimo, che si impara strada facendo con l'aiuto di libri, esperti, confronti e dialogo. Siamo cotti al punto giusto. È arrivata davvero l'ora di aprire le porte ai genitori, senza presunzioni e atteggiamenti di superiorità: insieme plasmeremo ragazzi sempre più preparati culturalmente e umanamente. Quella sera io ho relazionato sui risultati del questionario: i genitori sono intervenuti spesso, chiedendo e puntualizzando, manifestando interesse per tutto. Un mio collega di psicologia ha parlato anche delle nostre ansie di docenti; come sia malvisto il nostro mestiere, come la società non ci dimostri alcuna stima e quali incredibili e assai varie competenze ci siano richieste. Dobbiamo saper trasmettere cultura, motivare allo studio, ascoltare con attenzione, adattare il metodo di lavoro a classi e alunni diversissimi (e numerosissimi!), aggiornarci, mantenere segreti… Mantenere segreti? Un genitore fa un salto sulla sedia: «Cosa intendete con questo?». «A volte i vostri figli ci raccontano cose che non possiamo venirvi a dire, perché ce le confidano in gran segreto», rispondo io a mezza voce; subito serpeggia un brusio di fuoco. «Cosa mai possono confidarvi di così segreto? Ci faccia un esempio!». Forse ho sbagliato, ma in quel momento mi è venuto spontaneo dire un po' di verità: «Un esempio può essere il caso in cui qualche ragazza mi confidi il suo timore di essere incinta e voglia che le fissi una visita in consultorio

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perché lei non trova il coraggio. Mi chiedono, anche se lo sanno già benissimo visto che è compreso tra gli argomenti di educazione sessuale, della pillola del giorno dopo, quanto male fa, dove la prescrivono, se è il caso o meno di prenderla. Non è poi così raro che succeda». Gelo in sala: dal brusio di fuoco, al silenzio di ghiaccio. Uno sguardo assassino della mia collega mi ha fatto intuire di essere entrata in un campo minato. Non so proprio perché, d'istinto, io abbia riportato esempi così sconvolgenti: potevo riferire episodi dalle tinte meno intense, più soft; ma, probabilmente, ho riferito quelli più impressi nella mia mente, anche per la loro frequenza. Potevo dire loro che mi confidano che hanno il ragazzo o la ragazza e che ai loro genitori non piace e non sanno cosa farci. Potevo dire che mi scongiurano di non dire ai loro genitori di averli visti fumare; che, divertiti, mi insegnano quale spray comperare per coprire l'odore di fumo degli abiti «così i miei non se ne accorgono! Ma le dico la marca solo se non lo dice ai miei!». Potevo dire cose ancora più insignificanti. Invece ho rincarato la dose: «A volte mi raccontano della loro amica che comincia a cannarsi troppo, che frequenta un brutto giro di amici pericolosi e che non sa come uscirne. Ma non è vero che si tratta dell'amica…». Ho aggiunto che a volte può capitare che mi dicano che in gita una delle compagne di classe non ha mangiato nulla per tre giorni, vedendola spogliarsi si sono accorte che peserà 40 chili per 1.60 m d'altezza, si veste sempre larga perché i genitori non se ne accorgano. E tanti altri esempi avrei voluto aggiungere, ma già erano spaventati a sufficienza. «Ma…», è intervenuto un genitore con voce quasi alterata, «… lei sta dicendo cose gravissime! Una ragazza le confida segreti sconvolgenti e lei non avvisa i suoi genitori? Se fosse sua la figlia, vorrebbe che le cose andassero così? Il genitore ha il DIRITTO di sapere! TUTTO!». Un bel papà, giovane, ben vestito, biondo, occhi chiari e… molto scocciato! Tiro un sospiro e accetto la sfida. «Se capitasse qualcosa del genere a mia figlia, spererei proprio che lo dicesse a un insegnante e che costui avesse il buon cuore di aiutarla. Perché se lo dice a lui, e non a me, significa che tra noi c'è qualche problema di comunicazione in quel momento, che non si fida; meglio a un insegnante che a nessuno».

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Mi rendo conto di peggiorare ancora la situazione e prima che il padre inferocito riprenda la parola, tento di smorzare i toni: «È ovvio che l'insegnante lancerà i dovuti segnali al genitore, magari indirettamente, partendo dagli aspetti didattici per poi suonare un campanellino d'allarme, ma senza tradire la fiducia del ragazzo. Inoltre lo indirizzerà a cercare aiuto da persone competenti: lo psicologo scolastico, il ginecologo del consultorio, l'assistente sociale, il medico di base. Pian piano proverà anche a fare da ponte di collegamento con la famiglia; a volte, dopo un po', sono i ragazzi stessi che ti chiedono di raccontare tutto alla propria madre o al padre». Penso in cuor mio che ciò riesce molto raramente, perché i ragazzi che raccontano tutto a un insegnante invece che ai genitori, hanno con loro un rapporto molto compromesso, recuperabile solo se i genitori, per primi, sono disposti a mettersi in discussione o, in alcuni casi, a entrare in psicoterapia con i propri figli; e ciò è un evento davvero raro, soprattutto a livello paterno. Continuo nel mio tentativo di far capire la situazione e racconto che, da giovane e inesperta, feci la sciocchezza di convocare un padre per avvisarlo che la figlia faceva uso ormai costante di droghe leggere e che era il caso di aiutarla: il suo rendimento scolastico stava precipitando e il giro di amici che frequentava era davvero preoccupante. Me lo aveva confidato lei stessa, stanca della situazione, ma incapace di uscirne da sola. Fu un colloquio che ricorderò! Suo padre, ceto medio alto, curatissimo, ben vestito in giacca e cravatta, uomo affascinante (anche la figlia era una ragazza bellissima), reagì molto seccato: «No, non è assolutamente vero! Conosco bene mia figlia e so che non potrebbe mai avere comportamenti del genere. Lei si sbaglia di sicuro, o ingigantisce una sciocchezza che mia figlia, per sbaglio, le ha confidato». Non ci fu modo di convincerlo: se ne andò impassibile, rifiutando qualsiasi confronto e minacciando una querela se io avessi in qualche modo divulgato ciò che sapevo (che «comunque, non era vero!»). Il giorno dopo la figlia mi gridò con rabbia infinita tutta la sua delusione: l'avevo tradita, mai più si sarebbe fidata di un adulto! Il padre le aveva fatto una scenata perché aveva osato confidare a me il suo comportamento, aveva dato un'immagine di sé pessima e debole,

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aveva fatto fare a lui una figura orribile! Non una parola su cosa stesse davvero succedendo, nessuna offerta di aiuto, nessuna comprensione, disinteresse totale per la salute fisica e mentale della figlia: l'importante era che nessuno sapesse… La ragazza non mi raccontò mai più nulla e non accettò alcuna offerta di aiuto da parte dello psicologo scolastico. Dalle canne passò a droghe molto più devastanti, schifata da me, dal padre e dalla vita in genere. Cosa è giusto fare? Correre a dire tutto ai genitori, o aspettare un attimo e preparare il terreno? Rivelare tutti i segreti, o sondare prima se i genitori sono in grado di reggerli? Chi deve essere tutelato per primo? Qual è il diritto inalienabile? Quello del genitore che deve sapere a ogni costo, o quello del ragazzo che mette nelle tue mani il suo segreto e la sua vita? Parlare o tacere? Io la mia scelta l'ho fatta: sicuramente tacere. E lavorare gradualmente per preparare gli animi di entrambi a parlare serenamente, per far sì che il ragazzo acquisti forza e consapevolezza, riuscendo poi a esplicare lui stesso il suo segreto a mamma e papà, se lo riterrà utile o necessario: solo allora servirà a qualcosa. Dopo aver raccontato tutto ciò, un silenzio doloroso ha accompagnato le mille preoccupazioni di ciascun genitore presente in sala. La mia collega, che poco prima avrebbe voluto strozzarmi, a mezza voce, quasi parlando con se stessa, è venuta in mio aiuto. «L'anno scorso nella mia classe una ragazza ha manifestato problemi gravi di anoressia: convincere i genitori ad ammettere l'esistenza del problema è stato difficilissimo. Ci sono voluti mesi». Adesso era giunta l'ora di chiudere; il vicepreside, insegnante di filosofia e siciliano (il sangue greco c'è di sicuro!) decide di intervenire: «Signori miei, suvvia! Basta con queste tristezze! Di questi casi, statevene tranquilli, ce ne sono pochissimi! Mica tutti i ragazzi hanno problemi così grossi! I vostri, poi, saranno seguiti passo a passo e, insieme, sapremo vigilare sulla loro salute fisica e mentale!». Volevo ribattere che i casi di ragazzi con problemi gravi stanno aumentando sempre di più… ma una sua occhiata fulminante mi ferma in tempo.

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Ancora pochi minuti per parlare dell'orario, circolari, uscite anticipate, calendario delle vacanze e il cortile che quando piove è una vera palude. Poi tutti a casa. Chissà se è servito a qualcosa.

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MIRELLA Santo cielo, che meraviglia! È il mio giorno libero! Giovedì… Dopo aver svegliato, vestito, sfamato e mandato a scuola i figli, cerco il portafoglio nella borsa di scuola e mi accorgo di essermi portata a casa, per errore, il mio registro; so benissimo che il mio attuale preside non mi farebbe mai problemi per una cosa del genere… sono due anni che non controlla i registri… ma portarseli a casa sarebbe tassativamente proibito! Una volta un preside mi ha mandato una riservata (un rimprovero scritto ufficiale) perché non ha trovato nel mio cassetto il registro: e non ero neanche colpevole, perché io quell'anno di cassetti ne avevo due, uno per i libri e il registro e uno per i miei minerali, rocce, materiali per esperimenti vari: ovviamente lui aveva guardato solo in quest'ultimo. Ho conosciuto presidi la cui unica e perversa attività era di controllare se i registri fossero nei cassetti dei docenti, che fossero compilati in ogni loro parte, addirittura che gli argomenti scritti nel registro personale coincidessero perfettamente con gli argomenti scritti nel registro di classe. Utilissimi controlli, ai quali si deve senz'altro il continuo e costante miglioramento della qualità dell'insegnamento in Italia! A costoro non importa nulla se ti leggi il giornale in classe al posto di far lezione, se spieghi due capitoli in sei mesi o sei capitoli in due giorni, se metti i voti a caso o se continuamente infliggi crudeli umiliazioni ai tuoi alunni… L'importante è che il registro sia al suo posto e sia compilato perfettamente, come anche le programmazioni annuali: paroloni su paroloni, carta su carta e… mai il registro a casa, neanche per sbaglio! Per fortuna adesso il 'Preside' non c'è più! Adesso c'è il 'Dirigente Scolastico'! Un vero e proprio manager (anche come stipendio!) che dovrebbe ottimizzare il lavoro di tutti. Peccato che, innanzitutto, non sia stato ottimizzato prima il suo, di

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lavoro! È cambiato solo il nome, come per gli spazzini-netturbini-operatori ecologici, ma le persone e la loro preparazione sono le stesse. La mia coscienza mi dice che devo subito riportare a scuola il mio registro, non per paura del capo; per evitare di vivere tutto il giorno con il terrore che uno dei miei figli lo impiastricci di cioccolato o usi le sue pagine per far barchette di carta o disegni a tempera! Dovunque lo nasconda, potrebbe essere scovato e violato! Magari se lo infilo in un armadio, mentre ripongo la roba stirata ci va a dormire il gatto e me lo mordicchia… No, no! Meglio riportarlo a scuola subito! Lo afferro (il registro, non il gatto!) ed esco in tuta e scarpe da ginnastica, senza neanche il fondotinta e poco pettinata (Chiara o Elena, due delle mie alunne preferite, leggendo questa frase non esiteranno a esclamare che, tanto, anche se mi pettinavo e mi mettevo il fondotinta non cambiava proprio nulla! Care… vi voglio bene lo stesso…); mi avvio in macchina e dopo qualche minuto imbocco la stradina che porta a scuola mia. Prima di varcare il cancello del cortile, vedo Mirella, una mia alunna di terza: la saluto e penso che ha il suo solito faccino triste, tirato e nervoso. Lei si sbraccia e fa segno di fermarmi. Accosto e tiro giù il finestrino: «Ciao Mirella! Cosa succede? Poca voglia di entrare a scuola oggi? Avete qualche verifica terrificante?». «Prof, fa male l'insetticida, vero?». «Scusa?». «Lei pensa che sia molto grave se qualcuno si spruzza in bocca l'insetticida? Si può morire?». Prima di chiederle di ripetermi tutto con calma, spengo il motore e scendo. Mi faccio ripetere ancora una volta la domanda, che resta identica, e capisco al volo cosa è successo. In effetti era già un po' che Mirella mi preoccupava molto: sempre più schiva e taciturna, sempre a stringersi le mani con le sopracciglia aggrottate. «Devi essere più precisa Mirella. Dimmi esattamente cosa è successo, quando e a chi. Poi potremo parlare degli effetti dell'insetticida e se è il caso di preoccuparsi o meno». «È successo a me, prof, stamattina». Grossi lacrimosi le scendono sulle guance dai meravigliosi occhi blu. «Stanotte ho pensato che non volevo più sentirmi così scema; appena

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alzata ho preso tre pastiglie per la febbre e mi sono spruzzata in bocca l'insetticida più volte». «L'insetticida? Ma è una sostanza velenosissima!», (chissà perché, quando ti prendono di sorpresa dicendoti qualcosa di grave, le prime frasi che si dicono sono sempre delle grandi fesserie?) «E come ti senti ora?». «Ho tanto caldo e mi gira un po' la testa. Mi scusi prof se le sto facendo perdere tempo… Non so bene perché l'ho fatto: penserà che sono davvero una cretina…». «Non è questo il momento per pensare a perché e per cosa… sali in macchina che ti porto di corsa in pronto soccorso!». «No, prof! Lo verrebbe a sapere mia madre e io non voglio! Ho solo un po' di caldo e qualche brivido. Non voglio andare in ospedale!». «Ma sei maggiorenne! Al pronto soccorso non chiameranno tua madre senza il tuo permesso». Mentre parliamo, la osservo bene. Mirella è pallidissima: sarebbe una bellissima ragazza, ma è un po' sovrappeso e porta un paio di occhialoni con lenti spesse e montatura stile anni settanta che certo non le donano. Non ha gran cura della propria estetica e veste abiti anonimi e larghi. Ma ha due occhi bellissimi, di un blu intenso da brivido e, quando raramente sorride, i suoi perfetti lineamenti esprimono la sua dolcezza e femminilità in modo affascinante e magnetico. Ha diciotto anni ed è ancora in terza: ha perso due anni di scuola, uno alle medie e uno in prima superiore, in un altro istituto. Ha detto che si sente scema. Quest'anno fa molta fatica a stare al passo con le compagne; ha fatto progressi costanti in questi tre anni, ma si sente sempre in svantaggio. Non è scema; ha un'intelligenza media, ma le sabbie mobili del fallimento, che l'hanno già inghiottita due volte, nella sua mente sono ancora lì a stringergli le gambe in una morsa dolorosa. Ma ci deve essere anche dell'altro che la tormenta, oltre alla scuola. Perché, d'improvviso, questa crisi totale? La mia mente, ingombra di tutti questi pensieri uno sull'altro, per fortuna ha ancora un angolo di lucidità. «Facciamo così. Io ti do il mio numero di cellulare, tu entri a scuola e appena ti senti qualcosa che non va mi chiami, così io vengo subito e decidiamo che fare. Va bene?». Ho paura che a insistere troppo mi scappi via: meglio saperla al sicuro a scuola, tanto l'ospedale è a due passi.

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«Va bene, prof». L'accompagno fin sotto l'edificio scolastico, aspetto che entri, che suoni la prima campana, che suoni quella di inizio lezioni, poi entro furtiva anch'io, sicura che tutti gli studenti siano nelle proprie classi. «Ciao Enrico», sussurro sottovoce al bidello, anzi, al collaboratore scolastico: Enrico ha doti umane e professionali davvero rare e sarebbe senza dubbio più tagliato per fare il preside, anzi, il dirigente scolastico, piuttosto che il bidello, a mio avviso, ma la vita è molto spesso ingiusta. «Ciao Gabriella! Cosa fai qui anche oggi? Nostalgia del lavoro? Non sarai mica qui per riportare il registro, vero? Sai benissimo che non gli frega niente a nessuno del tuo registro!». Enrico mi conosce bene: è un caro amico, prima che bidello, e ha la straordinaria capacità di capire al volo persone e situazioni. Le alunne si confidano con lui sempre a caccia di consigli. A volte cercano in lui quel padre autorevole e affettuoso che non trovano a casa, e lui ricopre il ruolo con gioia e amore. È una persona affidabile al 100%. «Enrico, hai presente la Mirella di terza?». «Sì! È appena entrata pallida come una morta: cosa è successo? Problemi come al solito? Deve avere qualcosa che la tormenta, salta agli occhi». «Non si sente molto bene, né fisicamente, né psicologicamente… me l'ha detto poco fa qui fuori. Ha fatto una stupidaggine con qualche pastiglia di troppo. Non vuole essere accompagnata all'ospedale, ma secondo me sarebbe proprio necessario. Siamo rimaste d'accordo che mi avrebbe chiamato se si fosse sentita male. Se dovesse succedere, chiama un'ambulanza e fammi una squillo, ti prego!». «Certo, tranquilla, se succede qualcosa ti chiamo subito». «OK. Vado a fare un po' di spesa». Enrico mi guarda con aria sorniona e rassegnata e mi saluta con una frase del tipo: «Vai, vai! Ci vediamo dopo…». Esco da scuola e vado al supermercato del vicino centro commerciale. Poi vado a comprare i quaderni per mia figlia nella cartoleria di fronte a scuola. Mi ricordo che ho finito il fondotinta e lo compro nella profumeria a due passi da scuola. Poi mi avvio per andare a casa, ma fatti duecento metri mi viene in mente… il registro! Con tutto quel trambusto è rimasto lì, nella mia borsa! Adesso mi tocca tornare di nuovo a scuola. Faccio la curva per imboccare la stradina e mi suona il cellulare.

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«Sono Mirella, prof. Sto male… venga, la prego!». Con l'adrenalina che scorre a litri nelle vene raggiungo la scuola: faccio le scale a due a due e trovo Enrico che mi dice di aver già chiamato l'ambulanza. Mirella ha dolori addominali ed è pallidissima: difficile capire se a causa di ciò che ha fatto o se a causa della paura che ha addosso. «Adesso arriverà l'ambulanza, Mirella; Enrico ha dovuto chiamarla per forza, lo capisci, vero? Io ti verrò dietro con la mia auto e starò lì con te. Va bene?». «Sì, prof, va bene…». «Posso dire a Enrico di avvisare tua madre che hai avuto un malore e che ti abbiamo fatto portare al pronto soccorso? Lo dovrà sapere, ed è meglio subito, credimi». «Sì, prof, la faccia chiamare». Enrico capisce al volo quale tono dovrà usare in quella telefonata. Arriva l'ambulanza e andiamo al pronto soccorso. Incredibile! Non c'è NESSUNO prima di noi ad attendere con dita smartellate, ossa rotte o altro! Lassù qualcuno ci ama! La possono visitare subito. «Chi è lei?» mi chiede l'infermiera. «Sono una sua insegnante». «Se non è una parente stretta, deve aspettare fuori». Non faccio neanche in tempo a guardare negli occhi Mirella per trasmetterle con lo sguardo un po' di coraggio, che mi hanno già sbattuta fuori chiudendo in fretta la porta. Mi siedo e aspetto. Dopo soli 10 minuti la porta si apre ed esce il medico: viene verso di me. «Buongiorno, mi hanno detto che lei è l'insegnante di Mirella. La ragazza ha forti dolori addominali, la pressione bassissima e mi ha riferito di aver assunto parecchie pastiglie di antipiretico. Lei sa qualcos'altro? Perché se fosse solo questo, potremmo stare tranquilli, in quanto l'effetto sicuramente sta scemando gradualmente. Ma ho l'impressione che ci sia dell'altro, che la ragazza non me la dica proprio tutta. La risposta del riflesso pupillare non è perfetta e vorrei capire perché». «Sì dottore. C'è dell'altro. Mi ha detto di aver bevuto dell'insetticida. In poche parole, ha, diciamo, tentato un po' il suicidio». Il medico mi guarda perplesso: capisco che vorrebbe chiedermi cosa c'entro io con Mirella, ma si trattiene.

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«Venga con me». Mi accompagna nell'ambulatorio dove Mirella è seduta sul lettino, bianca come uno straccio, occhi lucidi, sguardo perso nel vuoto. Corro ad abbracciarla. Mi stringe anche lei, con una tristezza infinita, ma con grande dignità, senza lacrime; sembra svuotata di ogni energia, sia positiva che negativa; sembra davvero non appartenere più a questo mondo. «Oltre alle pastiglie di antipiretico hai preso qualcos'altro, Mirella? È importante che io lo sappia, altrimenti non potrò curarti bene». «Dai Mirella, cerca di essere sincera con questo dottore gentile. Lui ha a cuore la tua salute ed è qui per aiutarti». Mirella, con un filo di voce, racconta dell'insetticida. Il medico prescrive subito le analisi del sangue. Urgenti. Intanto si sente un gran trambusto provenire dalla sala d'attesa: è arrivata la madre di Mirella. La fanno entrare non appena hanno finito il prelievo di sangue. «Stellina mia, cosa c'è, cosa ti è successo? Ti sei sentita male? Ti avevo detto, io, di mangiare qualcosa di più stamattina. Prima di uscire di casa! Sicuramente sarà stato un calo di zuccheri!». Mirella non dice una sillaba, lo sguardo ben concentrato a evitare accuratamente quello di sua madre; il medico, allora, toglie tutti dall'imbarazzo e fa accomodare fuori sia me che la mamma, dicendoci che deve fare ancora qualche controllo. Ci sediamo in sala d'attesa e lei comincia a parlare, parlare e ancora parlare; mi descrive la 'sua' Mirella, una ragazzina fragile, bisognosa di continue attenzioni, con periodiche lunghe crisi adolescenziali che continuano nonostante la maggior età, ma che sicuramente passeranno presto… La guardo e, cogliendo al volo una sua pausa per respirare, dico quello che non riesco proprio a tenermi dentro: «L'ha fatto di proposito; non è stato un semplice malore». «Cosa? Cosa avrebbe fatto di proposito? Cosa sta dicendo?». «Il malore di Mirella… non è stato un calo di zuccheri o stanchezza o che so io. Ha preso delle pastiglie e non so cos'altro. Ha avuto un attimo di smarrimento, di confusione… una crisi depressiva, in cui una parte di lei ha pensato che forse non valesse la pena vivere. Ma un'altra parte di lei le ha detto di non esagerare con questi brutti pensieri e ha contenuto il suo gesto». Mi guarda impietrita. È una donna abituata al lavoro duro in casa e fuori, al sacrificio e alle

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rinunce: si vede. Si vede nei lineamenti segnati dalle rughe delle preoccupazioni, si vede dal modo di vestire, semplice e frettoloso, dal portamento fiero e umile nel contempo. Si vede da come mi guarda dritta negli occhi: «Mi sta dicendo che lei crede che Mirella si sia fatta volontariamente del male?». «Me l'ha detto lei stessa». Ci guardiamo, silenziose, attonite, piene di angoscia e pervase da un gran senso di vuoto e di fallimento. Perché è questo che ti senti dentro. Quando uno dei tuoi figli fa qualcosa che non capisci, e che sai essere sbagliato, dentro la tua mente, il tuo cuore, dentro ogni più piccola parte di te, esplode tutta la tua inadeguatezza. Ed è un'esplosione che fa malissimo. Ma chi insegna, oggi, il difficilissimo mestiere di madre? Molto più difficile di una volta, quando tutto era definito e accettato: le madri preparavano le figlie a essere buone massaie, mogli e madri devote, i figli a essere grandi lavoratori, mariti e padri responsabili. Oggi devi insegnargli come si fa ad avere stima di sé, spirito critico, introspezione, amici, l'amore… Devi, in poche parole, insegnargli a essere felice… o, meglio, attrezzarlo di tutto ciò che gli servirà per diventarlo. Perché, al giorno d'oggi, la felicità non è più un 'optional' com'era un tempo: la vita correva sui binari segnati dal destino, solo pochi fortunati potevano trovare un'altra via. Oggi l'uomo può essere l'artefice della propria felicità… anzi, molto di più! La felicità è oggi un diritto inalienabile, preteso da tutti. E non è certo solo assenza di dolore… no, no! È la Felicità, quello stato di grazia in cui ci sentiamo al settimo cielo; amiamo e siamo amati, siamo soddisfatti del nostro lavoro, abbiamo buoni amici e siamo in pace con noi stessi. Tutti concetti impensabili anche solo cinquant'anni fa. Ma è giusto che l'uomo abbia preso coscienza che la felicità è possibile, ed è giusto che l'adolescente creda che potrà realizzarla pienamente: ' Mira al sole e colpirai un albero. Mira all'albero e la tua freccia colpirà la terra ' diceva un saggio filosofo greco. Ma insegnar loro a tirare la freccia mirando al sole è un compito davvero arduo, soprattutto se tu stesso hai sempre mirato all'albero. Una madre oggi deve essere insegnante, educatrice, psicologa. Le maestre ti dicono che devi seguirli nei compiti; devi giocare con loro

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in modo creativo; devi comprargli libri e leggerglieli con voce da attrice professionista fin dai sei mesi; addirittura le riviste specializzate per madri in erba ti dicono che devi fargli ascoltare Mozart fin da quando è in pancia per affinare il suo gusto musicale! Devi insegnargli a stare bene con gli altri, a non essere egoista, a rispettare le cose altrui, ad avere una sensibilità raffinata; importantissimo fargli fare sport, musica, corsi di inglese per saper convivere con tutti; la pace nel mondo, in fin dei conti, dipende unicamente dalle madri! E, infine, la cosa più importante: devi capirli, ascoltarli in modo attivo, ma non opprimente; devi essere loro amica, ma nello stesso tempo non perdere d'autorità; devi dialogare e insegnare a vivere ed essere felici; non è forse tutta colpa tua se viene su male? Certo! Tutta colpa della mamma! E il papà? Non ha tempo, deve lavorare (perché, le mamme no?). E gli insegnanti di scuola? (Una volta un maestro tirava le fila in classi di 50 elementi, oggi hanno l'esaurimento nervoso con classi di 15 bambini…). E i nonni, zii, cugini e parenti vari? Pronti a fare tanti e tanti regali, ma non certo a essere modelli di vita. E i vari maestri di tennis, pianoforte, nuoto, judo, etc.? E gli allenatori di calcio, pallacanestro, ciclismo, hockey? Va già bene se non li drogano per farne un campione, benissimo se li fanno giocare tutti a rotazione in squadra senza privilegiare sempre il figlio del politico locale… E la società intera, che vede i ragazzini fare cose orrende, capricciose e maleducate e tace, perché 'in fin dei conti non sono fatti miei'? Ricorderò per sempre quella volta in cui una signora, mai vista prima, mi diede un ceffone perché sfrecciavo con la bici sul marciapiede rischiando di investirla; umiliata e offesa corsi in casa raccontando l'accaduto a mia madre sperando uscisse a sbraitare contro la signora… ma mi diede una sberla anche lei. Mai più corso in bici sul marciapiede! No, no! Non esistono responsabilità di alcuno. È solo colpa della mamma. Questa povera mamma abbandonata, senza alcuna guida, che affronta questo compito sovrumano in umile silenzio, perfettamente conscia che, se sbaglia, il prezzo da pagare sarà altissimo: la felicità di suo figlio, dell'essere che più ama al mondo.

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Esce Mirella e il medico ci dice di attendere in sala d'aspetto gli esiti degli esami del sangue; si siede in mezzo a noi due, nervosissima e tristissima. Mio Dio che imbarazzo! Sono lì, terza incomoda tra madre e figlia, con la netta sensazione, però, di poter essere un ponte tra loro; ma quanta voglia di scappare, di sottrarsi a quella enorme responsabilità di dire la cosa giusta al momento giusto. Mirella mi lancia uno sguardo rapido, ma chiarissimo: 'Non lasciarmi sola con mia madre proprio ora!' Capisco che il gioco è in mano mia; non posso far altro che cominciare il discorso, ma non prima di farmi un segno di croce nella mente. «Bene! Tutto è bene ciò che finisce bene! E visto che dobbiamo aspettare un po', potremmo cercare di parlarne: parlando con calma e sincerità, di solito, si risolvono tutte le questioni». «Certo che tutto si sistemerà! Sono cose che possono capitare. Appena abbiamo finito qui, io e Mirella ce ne andiamo al bar, ci mangiamo una brioche, ci beviamo un buon cappuccino caldo e ci sentiremo subito meglio». «No mamma. Non voglio». «Ma certo che vuoi! Magari eri un po' giù perché in questi giorni hai mangiato troppo poco. Se non ci si nutre adeguatamente, è facile avere brutti pensieri e sentirsi male! Ma si fa presto a tornare su di tono: intanto cominciamo con brioche e cappuccino». «Ti ho detto che non voglio, mamma! Non mi va!». Mentre rifiuta perentoria e scocciata per la seconda volta, Mirella mi guarda in cerca di approvazione e sostegno: le lancio un sorriso di incoraggiamento e un lieve cenno di assenso ad approvazione del fatto che è meglio che faccia quello che si sente, non quello che vuole sua madre. «Signora, credo che Mirella non abbia voglia né di brioche, né di cappuccino. Sa, sicuramente ha lo stomaco un po' sottosopra e non è il caso di forzarla a mangiare in queste condizioni». Mirella fa un cenno di assenso pieno di gratitudine. E io ricomincio: «Mirella ha diciotto anni, signora. È grande, ormai: quasi una donna. Anzi, tra breve potrà addirittura farsi la patente!». «Patente? Ma figurati se mi fanno fare la patente! Comunque a me basterebbe anche solo uno scooter!». Mirella abita in una bellissima casa, finita da poco, che ancora costa grandissimi sacrifici economici ai suoi genitori; bellissima, ma in

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mezzo ai campi, tagliata fuori dai paesi vicini perché l'unica via per raggiungerli passa attraverso un tratto di statale. Meglio la roulette russa con la pistola, piuttosto che percorrere la statale in bicicletta! Ci sarebbero delle stradine bianche per evitarla, ma invece di un chilometro, ne devi fare cinque! «Tanto, anche se mi faccio la patente, non ho la macchina, visto che servono a voi per andare a lavorare. E se anche ce ne fosse una disponibile, non me la fareste mai usare! Perché avete paura che combini guai, che non sia in grado di cavarmela, in macchina, in scooter o in qualsiasi altra dannata cosa!». Eccoci al capolinea: adesso ci sono e comincio finalmente a capirci qualcosa. Mirella le sabbie mobili ce le ha in casa, non nella sua mente. Si sente ancora trattata da bambina piccola, con ordini, divieti e consigli che le suggeriscono di non essere ancora assolutamente in grado di badare a se stessa. Le sue vicende scolastiche hanno sicuramente contribuito ad aumentare la sua disistima, l'hanno sminuita ulteriormente, causandole persino un lieve balbettio di perenne esitazione. È giunta alla nostra scuola dopo due bocciature, con un faccino triste, rassegnata a essere meno di niente: poi, un po' alla volta si è sciolta. Ha legato con le compagne, prendendo coscienza di non essere poi tanto più scema di loro: pian piano ha cominciato a pensare di poter valere qualcosa, a credere un po' in se stessa, aiutata dalla pazienza e dalla professionalità di docenti che, a forza di insegnare in un liceo socio-psico-pedagogico (… si fa prima a farlo, che a dirlo!), hanno deciso che la pedagogia deve essere messa anche in pratica, oltre che insegnata. Forse era stata, per assurdo, proprio la consapevolezza di valere qualcosa, la molla che le aveva dato il coraggio di fare il 'grande gesto', protesta clamorosa contro chi le impediva di spiccare il volo. «È così importante per te questo benedetto scooter?», sussurra sua madre, annientata e rianimata allo stesso tempo dalla violenta reazione verbale di Mirella. «Sì. Lo è. E non solo lo scooter. Vorrei poter uscire con le mie amiche senza avere l'ossessione di essere a casa entro le 21.01, altrimenti rischiate l'infarto e mi cercate ovunque. Può capitare di fare più tardi: ci sono mie coetanee che rientrano anche a mezzanotte!». Mi scapperebbe da dire a sua madre che per qualche coetanea di sua figlia sarebbe già una bella cosa avere il tassativo ordine di rientrare a mezzanotte, ma mi trattengo.

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«Non sono più una bambina! Sono in grado di badare a me stessa… o, almeno, dovete lasciare che lo impari! Se mai mi lasci andare, mamma, non riuscirò a cavarmela da sola in nulla, in tutti i sensi!». Caspita che forza! Mirella ha sputato letteralmente il rospo! Guarda sua madre con aria decisa, risoluta, con aria di sfida. Ma poi, all'improvviso riabbassa lo sguardo, forse improvvisamente cosciente di ciò che ha fatto e di ciò che ha detto, spaventata dal proprio coraggio. Io mi sento malissimo: crampi allo stomaco, attacco di colite, sudorazione da eccesso di adrenalina in circolo: questi discorsi li ho sentiti tante altre volte, e so che possono essere un buon inizio o una tragica fine: si spalancano le porte del dialogo e si infrangono i muri generazionali, o si da il giro di chiave definitivo alla porta della comunicazione, si cementa il muro e ogni sua più piccola fessura. Ma sua madre le prende il viso tra le mani, piangendo, e le dice: «Non sarà facile cambiare, ma ci proveremo. E se proprio questo scooter è così importante, parleremo a tuo padre e lo compreremo. L'importante è che ci diciamo le cose come stanno». Non si abbracciano: questo succede solo nei film, dove il lieto fine è sempre rapido, totale e definitivo. In realtà le aspetta un cammino lungo e difficile, fatto di passi avanti e di passi indietro; ma hanno imboccato la strada giusta. Nei mesi successivi vedo Mirella sbocciare: cambia pettinatura e tipo di abbigliamento, si mette le lenti a contatto. Riesce persino a dimagrire. E un bel giorno la vedo arrivare a scuola con uno scooter nuovo fiammante: lo guida con sicurezza e prudenza e i suoi meravigliosi occhi blu brillano di voglia di vivere. Ci sarà sicuramente, in futuro, la possibilità di qualche passo indietro, ma per ora mi godo la vista dei magnifici passi avanti.

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IL COLLOQUIO GENITORI - INSEGNANTI. UN CONFRONTO TRA EDUCATORI?

Il tarlo della disistima Molto spesso, soprattutto quando insegnavo alle medie inferiori, i genitori venivano al colloquio con i docenti portandosi dietro 'l'imputato', cioè il proprio figlio: musetto triste e tirato, consapevole e rassegnato al fatto di dover prendere una sonora batosta. Infatti, la motivazione intrinseca per la quale il genitore si trascinava dietro il pargolo era subito dichiarata: «Professoressa, ho portato anche lui, così le sente!». Questa frase, tradotta dal linguaggio genitoriale al linguaggio del docente, significava né più, né meno: «La prego, professoressa, ci provi lei a fargli capire che deve studiare, che io non so più a che santo votarmi!». Oppure, peggio ancora, il colloquio era preceduto da frasi del tipo: «Oh, professoressa! Questo ragazzo mi fa disperare! Non studia, non è responsabile, mi risponde male! Ha davvero tutto un altro carattere rispetto alla sorella maggiore, santa ragazza! Quante soddisfazioni che mi da quella figliola! Brava, coscienziosa… mai perso un minuto a dirle di studiare… si è sempre arrangiata da sola! Questo, invece… mi farà venire un infarto! Eppure li ho tirati su esattamente allo stesso modo…». Se il buongiorno si vede dal mattino, si preannunciava un colloquio assai difficile il cui fine era cercare di arginare questo disastroso colpo di mannaia all'autostima del ragazzo, badando bene, però, di non darne uno io stessa al genitore. Come convincere quel padre o quella madre che quel ragazzo non era poi così disastroso e che aveva, invece, un gran bisogno di sentirsi amato per ciò che era, senza continui e crudeli confronti con l'ormai odiata sorella? Ovviamente senza tralasciare di persuadere il ragazzo a non 'mollare',

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di uscire dall'ottica del nullafacente per dispetto, che si vendica così delle mancate attenzioni e della carenza di affetto e stima. Ricorderò per sempre l'espressione di una ragazzina all'udire queste parole della madre: «Questa è tanto più tonta della sorella, fa tanta più fatica. Ma si sa… non siamo tutti uguali!». Lo sguardo annichilito, l'espressione annientata: nell'animo un macigno. Difficile recuperare in situazioni del genere, molto più frequenti di quanto si creda. So poco o niente di psichiatria, ma credo che forse sia da qui che nascono le intenzioni patricide o matricide. Nel migliore dei casi questo stillicidio di frasi denigratorie, di ironie bastarde, a volte persino un manifesto senso di fastidio rivolti al figlio, scavano un solco incolmabile tra genitori e figli, pregiudicano la loro carriera scolastica, aprono ferite dolorose. E bastasse questo. Si crea anche un profondo dislivello tra la naturale voglia di crescere e imparare presente in ogni bambino e l'altrettanto naturale paura di diventare grandi: dovrebbero essere i genitori che, pian piano, lo aiutano ad allentare la morsa della paura, che, invece, alimentano con palate di disistima. Alla fine la paura sarà molto più grande della voglia di crescere e si tira su un ragazzino incapace di porsi domande su se stesso (le risposte le sente da quando è nato, e non gli piacciono); non fa progetti per il proprio futuro, non ha speranze, non ha la minima convinzione di poter valere qualcosa in qualche ruolo, a parte quello di gran fannullone e rompiscatole. Perché darsi da fare? Perché studiare? Perché essere socievoli e affabili? Tanto per me non c'è speranza… Se chi gli è più vicino al mondo non apprezza nulla di lui, come potranno farlo degli estranei? Sono tanti, tantissimi, i ragazzi ancora prigionieri di questo schema di comportamento da parte di genitori che non negano nulla di materiale e consumistico ai propri figli, anzi! Li sommergono di 'cose', ma negano loro la manifestazione d'affetto più vera e profonda: la propria stima.

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Il tarlo dell'eccessiva autostima Ma succede anche l'esatto contrario. «Suo figlio, signora, continua a essere uno scansafatiche di prima categoria; risponde male se lo richiami o lo rimproveri, vuol essere sempre al centro dell'attenzione, chiacchierone, incapace di concentrarsi! Non so proprio cosa fare con lui, è impossibile convincerlo a fare qualcosa, sia con le buone, che con le cattive! Non accetta nessun consiglio e si ritiene sempre nel giusto, anche quando ha dichiaratamente torto». «Oh… professoressa… sapesse che brutto periodo che sta passando, poverino… Sarà la crescita, saranno le ragazzine che gli corrono dietro che lo distraggono… Perché lui di solito non è così, è tanto bravo!». «Signora, se è un brutto periodo, guardi che sta durando da almeno due anni! L'anno scorso lo abbiamo promosso con tre debiti per miracolo e quest'anno non ha certo imparato la lezione! In quanto alle ragazzine, mi sembra che sia lui che non se ne faccia scappare neppure una, più che il contrario…». «Ma voi dovete capire! Io e suo padre siamo separati da quando lui aveva cinque anni, è stato un trauma per lui, e io sono da sola a tirarlo su… a volte proprio non so cosa fare… lo accompagno ovunque: tennis, nuoto, chitarra elettrica, ripetizioni, amici… sono sempre che corro su e giù dappertutto per lui… ma comunque è un bravo ragazzo, sa gestirsi in tutto, a parte la scuola; forse qui non ha trovato un ambiente adatto a lui…». «Signora… ci sono altri dieci figli di genitori separati nella classe di suo figlio, ormai è un fatto molto comune, e non sono per niente tutti traumatizzati e pieni di problemi a causa della separazione dei genitori; io credo, inoltre, che suo figlio sia in un ambiente più che adatto a lui; credo anche che lui debba imparare ad accettare qualche sconfitta e, soprattutto, debba capire che talvolta è necessario mettersi in discussione. Forse uno psicologo potrebbe aiutarlo a imparare tutto ciò. Di sicuro non ha bisogno di sentirsi sempre portato in palmo di mano, visto che già ritiene di essere il migliore…». «Ma SCHERZA? MIO figlio non ha bisogno di nessuno psicologo! Non ha niente da imparare da nessuno, tanto meno da lei, che si permette di darmi dei consigli non richiesti su come tirare su MIO figlio. L'ho detto io… quest'ambiente non è adatto! Anzi, credo proprio che se quest'anno me lo bocciate, lo cambierò di scuola! Buongiorno!».

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Il ragazzino passerà da una scuola all'altra, poi l'abbandonerà. Poi passerà da un lavoro all'altro, se riesce a farsi assumere. E forse anche da una moglie o compagna all'altra: nulla potrà essere degno di lui… Cosa puoi fare in queste situazioni? Nulla! Assolutamente nulla. Se sei da sola a dire a quella mamma che sta rovinando di vizi ed eccesso di stima suo figlio, non otterrai nulla. Ma se cominciano a dirle molto schiettamente la verità in tanti (gli insegnanti, il preside, amici, parenti, vicini di casa, allenatori, animatori e simili)… forse si ottiene qualcosa. A mio avviso uno dei problemi è che la società tace. Un giorno stavo facendo la fila per prendere la seggiovia sulle piste da sci: domenica, neve abbondante, il sole splendente, la temperatura ideale… quindi la fila era infinita! Avevo gli sci nuovi fiammanti. Si sa, in queste occasioni ci si arma di pazienza e si usa il tempo dell'attesa per chiacchierare del più e del meno con i compagni di fila. Ma a un certo punto arriva da dietro un ragazzino di circa dieci anni (e di cinquanta chili!) che, spingi di qua, infilati di là, passa sopra gli sci di tutti e sorpassa più persone che può. Sento bestemmie a mezza voce, ma nessuna protesta ufficiale. Poi arriva sulle code dei miei sci nuovi… I miei sci bellissimi, che ho speso un patrimonio ed erano dieci anni che non avevo il coraggio di comprarmene un paio così… Lo blocco per un braccio, gli pianto due occhi di fuoco nei suoi e gli dico di rimanere dietro e di non provare a strisciarmi gli sci che potrei avere reazioni indelicate! Salta fuori dal lato, senza sci, il padre, che, evidentemente, vigilava sulle malefatte del figlio, più che sulla sua sicurezza: «Signora, non mi spaventi il bambino!». «E lei gli dica che non si passa sopra gli sci degli altri, ma si fa educatamente la fila!». Come per le bestemmie di prima, sento a mezza voce anche vivi commenti di approvazione alle mie parole. «Ma è un ragazzino… Non lo fa mica con cattiveria! Porti un po' di pazienza… Sicuramente lei non ha figli!». «Io di figli ne ho tre, e, in mia presenza, non sono mai passati sugli sci degli altri per fare prima, se no si beccavano una sberla di botto! Se mai lo avessero fatto lontani dalla mia vista, spero tanto abbiano trovato qualcuno che li fermasse rimproverandoli aspramente!». La folla adesso ride soddisfatta, ma sempre sottovoce; il ragazzino si è

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fermato e non osa più superare nessuno perché altre dieci persone hanno fatto scudo arginando la sua rimonta; il padre tace e finge di guardare il panorama. Perché la gente ha tutta questa pazienza? Si sopportano bambini che scompigliano i negozi, che ti pestano i piedi in spiaggia, che urlano come pazzi in chiesa, che… sono maleducati come non mai! Perché alla gente non scattano dei sani meccanismi di autodifesa? Che razza di adulti risulteranno da questi bambini iper-viziati? Forse tutto ciò capita perché i bambini sono ormai diventati una specie protetta in via d'estinzione? Perché ci sono tantissime famiglie in cui, per un unico bambino, massimo due, ci sono ben quattro nonni, due zie, uno zio, mamma e papà pronti a soffocarli d'attenzioni? Non so perché! Lascio ai sociologi il compito di spiegarmi cosa diavolo sta succedendo, ma li pregherei di indagare le cause di questo pericoloso fenomeno piuttosto in fretta, e, possibilmente, di indicare a tutti anche dei rimedi urgenti. Il tarlo dell'inesperienza «Sua figlia è davvero brava e studiosa, signora. Ha bei voti e svolge sempre i compiti per casa: diligente e attenta. L'unico difetto che ha, è che non interviene mai in classe: mai una domanda, mai un'osservazione, mai un commento. Quando si approfondiscono temi in cui si richiedono capacità critiche e di rielaborazione, lei tace sempre». «Eh, sa… è timida! È sempre stata timida. È il suo carattere, cosa vuole farci! E poi, comunque, ha dei bei voti lo stesso, no? Tirerà fuori un po' di grinta più avanti… forse!». «Sì, certo, è chiusa e timidina… ma, scusi se le chiedo… fa qualche sport? Le farebbe bene uno sport di gruppo, per confrontarsi un po' con altri coetanei. Fa qualche attività sociale? Frequenta l'oratorio, un gruppo di amici, di volontariato? Ha bisogno di aprirsi, dialogare, divertirsi». «No, no! Niente! Non vuole fare nessuno sport e non fa nessuna attività sociale. Ha qualche amica, ma le frequenta raramente… dice che non ce la fa, che ha tanto da studiare… e poi, che ci posso fare io… non posso mica obbligarla! E poi le palestre e l'oratorio sono un po' distanti da casa nostra… dovrei accompagnarla su e giù, e con tutto quello che ho

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da fare!». «Scusi se insisto, signora, ma io credo che dovrebbe proprio convincerla, se non obbligarla; è importante quanto e più dello studio avere esperienze diverse, fare sport, conoscere altre realtà. Altrimenti si corre il rischio di uscire dall'università con 110 e lode, ma di non essere in grado di interagire positivamente con gli altri, e ciò può influire molto anche a livello lavorativo». «Va bene. Glielo dirò. Comunque… con lei va molto bene, no? Come voto ha l'otto! Buongiorno professoressa». Come a dirmi la pianti con queste prediche inutili, che la mia ragazza è già perfetta così! Alla mia primogenita comprai gli stivaletti di gomma non appena ebbe imparato a camminare: agli altri due figli li infilai anche prima, sorreggendoli nell'avventura. Li consideravo un modo per 'fare esperienze scientifiche'. Calpesti ciò che vuoi: duro-morbido, asciutto-bagnato, melmoso-sabbioso, addirittura risucchiante… si vedono le impronte diverse! E poi si sente il diverso rumore: la melma fa 'sciac', la sabbia 'soc-soc', le foglie secche 'cric-croc'… E l'odore che si sprigiona da ciò che calpesti? Strofini con il piede il muschio e sa… di muschio: un meraviglioso miscuglio dei profumi della terra, della pioggia e dell'aria. L'argilla, che ti solletica il naso in modo completamente diverso a seconda che sia asciutta o bagnata. L'erba, col suo aroma vivace di clorofilla. I legni marcescenti del sottobosco, che ti sbuffano nelle narici il profumo dei funghi che li stanno consumando. Qualcosa di ancestrale si scatena in un bimbo lasciato libero di usare i propri sensi in mezzo alla natura: si attivano memorie antichissime, registrate nel nostro cervello da decine di migliaia di anni. È utilissimo: si impara a osservare con tutto il proprio essere, non solo con gli occhi; si impara a collegare ciò che si vede, si sente, si odora e si tocca con tutti i perché che ti affollano la mente di bimbo. Ma ci deve essere qualcuno, vicino, che ti sprona e ti risponde: «Senti che bel rumore! Annusa e chiudi gli occhi! Senti che liscio questo tronco. Proviamo in quel prato di ranuncoli!». «Qui sulla melma le scarpe fanno 'sciac' perché c'è l'acqua che lega i granellini; sulla sabbia asciutta non c'è, allora fa 'soc-soc', senti?». Le mie due figlie femmine coglievano questi aspetti con grande attenzione e interesse e io dicevo sempre «BRAVA» quando arrivavano

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a formulare le loro osservazioni semplici, ma acute: «Mamma, anche le foglie secche non hanno più l'acqua! È per questo che scricchiolano e si rompono tutte quando le calpesti!». Anche mio figlio giungeva alle medesime osservazioni, ma non prima di aver esaurito l'indomabile energia che hanno i maschietti: all'inizio, lasciato libero in un parco, più che i verbi 'annusare, ascoltare e toccare', metteva in pratica i verbi 'correre, saltare, arrampicare'! Mentre le sorelle tastavano delicatamente il terreno con i loro stivaletti di gomma, lui pestava tutto ciò che si trovava sotto i piedi con forza. Ma bastava portare pazienza, perché poi, un po' esausto, anche lui si lasciava guidare nelle mille avventure alla scoperta di sensazioni nuove e piacevoli. Un giorno, durante una di queste uscite al parco, incontrammo un'amichetta della mia primogenita Martina, che aveva allora circa tre anni: aveva appena piovuto, ma il sole di maggio aveva già riscaldato l'aria ripulita e densa del profumo di rose. Anche lei era munita di stivaletti di gomma, con tanto di bambola famosa disegnata a lato, le gambette paffutelle ricoperte da calze con farfalline, gonnellina jeans a balze davvero carina, maglietta rosa confetto, elegantissima. Martina, pantaloni di tuta rattoppati, maglietta vecchia, ma ancora decorosa, parte all'avventura tentando il guado di una lunga pozzanghera ricoperta di soffici petali rosa; l'amichetta, ovviamente, la segue felice. Ma, lancinante, parte l'urlo della madre: «FERMA! Non andare nella pozzanghera! Ti sporcherai tutta!». Nella mezz'ora successiva snocciola un lungo rosario di frasi simili: «Attenta al fango!». «Non toccare le ghiande, chissà che brutti insetti ci sono dentro!». «Non pestare la sabbia bagnata, che la alzi e te la respiri tutta, poi ti viene il raffreddore!», (… non sapevo che i rinovirus avessero una particolare predilezione per la sabbia bagnata… pensavo si annidassero più volentieri nell'aria viziata degli asili sempre chiusi…). E continua fino a pronunciare la frase culminante, che lascia la bambina in lacrime, confusa e umiliata: «Ecco! Ti sei sporcata di fango perfino la maglietta! Sei proprio una STUPIDA! Sei contenta adesso? Stupida, sei proprio stupida!». Io non sono né una psicologa, né una pedagogista: posso permettermi, quindi, di esprimere pareri del tutto personali e non professionali, senza

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citare casistiche, percentuali o altro; pareri che scaturiscono dalla mia limitatissima esperienza di insegnante e di madre, senza alcuna pretesa di essere nel giusto. Ma come diavolo si fa a perdere così clamorosamente di vista cosa è bene e cosa è male per un bambino? Quante eclatanti contraddizioni sta esprimendo la nostra società nell'educazione dei propri figli? Madri e padri che vietano di sporcarsi i vestiti firmati e costosissimi (adesso fanno persino le scarpettine di super-marca per neonati che neanche camminano…) impedendo ai bambini di svolgere attività innate e sacrosante all'aria aperta, di correre, saltare, annusare e toccare. Preferibile di gran lunga sbatterli davanti alla televisione per ore e ore a rinc… (ops! Non devo dire parolacce ha detto Mary!) rimbambirsi passivi mangiando merendine e respirando appena. Poi avranno, però, il permesso di sfogare la loro adrenalina repressa a scuola, incapaci di stare fermi e concentrati, spesso oppressi da maestre altrettanto preoccupate delle loro madri più della loro apparenza, che della loro ricchezza interiore. Ma almeno, così, non si sporcano… Il tarlo del disinteresse Un padre distinto, ben vestito, giovanile: un bell'uomo, per giunta. Sua figlia è in prima liceo: è uscita dalle medie con il 'sufficiente' e presenta notevoli difficoltà nella comprensione e uso dei linguaggi specifici… e, a volte, anche di quelli non specifici. Sono la coordinatrice di classe, e devo riferire al padre le motivazioni delle molte insufficienze che la ragazza ha accumulato alla fine del primo quadrimestre. Suo padre, con parlantina molto affabile e sciolta, dopo un lungo preambolo su quanto sia stata difficile la scelta della scuola superiore e su come si trovi bene qui da noi sua figlia, mi cede finalmente la parola affinché lo illumini sulle difficoltà della figlia. Se ho un difetto, tutti coloro che mi conoscono possono confermare, è la quasi totale mancanza di diplomazia: se ho qualcosa da dire, la dico, e adoro le persone che fanno altrettanto con me. «Sua figlia ha grosse difficoltà nell'uso del linguaggio: riesce a mettere insieme frasi di senso compiuto solo se ha studiato un testo a memoria,

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ma se non si ricorda le parole perfettamente o deve elaborare concetti propri, fa davvero fatica. Si fa prendere dall'ansia, fa confusione e si blocca. Sembra quasi che le manchi l'allenamento a parlare, al dialogo, al confronto «. «Ha sempre parlato poco, anche con noi». Ecco! Subito e sempre ci si scarica la coscienza! Si dice che la colpa è solo sua, che è fatta così, evento ineluttabile e non modificabile, quasi una malattia congenita… mai un dubbio, un rimorso, mai minimamente neanche l'accenno di mettersi in discussione. «Ma sono convinta che voi della famiglia potreste aiutarla moltissimo a sbloccarsi, ad allenarsi al dialogo: chiedetele spesso che vi racconti della scuola, delle sue esperienze, magari dell'ultimo film che ha visto… Commentate con lei fatti e avvenimenti che accadono nel mondo e nel vostro paese, comunicatele le vostre emozioni e cercate di tirar fuori le sue. Lei mi sembra perfettamente adatto a questo ruolo: ci sono genitori di nostri alunni che sanno a malapena l'italiano, e non si può certo pretendere che aiutino i figli nel migliorare i loro linguaggi specifici (lo dico per gratificarlo, ma non lo penso davvero: ho conosciuto genitori quasi analfabeti che dialogavano con i figli molto meglio di fior di medici e avvocati!). Ma lei sicuramente può molto: basta destinare un po' di tempo a sua figlia con questo intento». Mi guarda come se fossi un marziano, piccolo, verde, orecchie appuntite, voce acuta e lingua incomprensibile. Poi si toglie l'aria sgomenta dal viso con una scrollata di capo, si sistema la cravatta di seta purissima e parte con la sua arringa difensiva, anche se a me non sembra di averne fatta alcuna di accusatoria. «Ma guardi che io lavoro, lavoro anche dieci ore al giorno. Ho una ditta, devo seguirla! E mia moglie mi tiene la contabilità, siamo sempre sotto, sempre occupatissimi… Non abbiamo tanto tempo libero…». «Ma potete cenare insieme a vostra figlia, o non riuscite a vederla neanche in quel contesto? Perché basterebbe anche solo quel breve momento giornaliero per instaurare un dialogo che l'aiuti per la scuola». «Certo che ceniamo tutti insieme… ma non è facile: c'è il telegiornale da vedere… non ho il tempo per leggere i quotidiani, io! E poi mia figlia mangia e sparisce subito in camera sua ad ascoltare musica o vedersi i suoi programmi preferiti…». Naturalmente la ragazza ha televisione e computer in camera… mi rendo conto che stiamo scivolando su un terreno pericoloso: sto dichiaratamente violando la loro privacy familiare. «Be'… potreste chiederle di guardare il telegiornale con voi e

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commentare qualche fatto, tanto per cominciare, per passare poi a spegnere per dieci minuti la televisione e chiederle cosa sta facendo di bello a scuola: che argomenti di scienze, cosa le è piaciuto in letteratura, se la storia la appassiona o meno… e così via. Potreste dirle che è una specie di gioco che ha consigliato l'insegnante per aiutarla ad andare meglio: fingere di essere con qualcuno che non conoscete e che volete conoscere dialogando di tutto». Ho detto fingere, ma ho mentito di nuovo… in effetti questa figlia è davvero una totale sconosciuta per i suoi genitori, purtroppo. Adesso mi fissa più con odio e fastidio che con sgomento. «Ma si figuri se io mi metto a fare tutti questi discorsi stufo morto dopo dieci ore di lavoro! Io la sera arrivo a casa distrutto, non so se capisce! E poi non sono mica un insegnante… siete voi che dovete insegnarle a parlare bene, se no la scuola cosa diavolo serve?». Basta. Mi arrendo! Non ho più voglia di lottare contro questo mulino a vento… ma ho ancora sufficienti energie per sputare fuori tutta la mia rabbia di educatrice profondamente delusa: «Bene! Se la mette così è meglio che piantiamo qui il discorso e non ne parliamo più, perché non c'è peggior sordo di che non vuol sentire! Le assicuro che tutti lavoriamo tanto e che tutti arriviamo a casa la sera stanchi morti in questo nord-est operoso e frenetico, occupatissimo a far soldi. Ma c'è chi trova la forza di spendere del tempo per la formazione ed educazione dei propri figli e chi, invece, decide che non ne ha il tempo, e dà una delega in bianco alla scuola perché faccia il lavoro al posto suo! Padronissimo di pensarla come vuole e di organizzare le proprie priorità come meglio crede! Ma ognuno raccoglie ciò che semina: lei mi ha chiesto ragione delle insufficienze di sua figlia, io gliel'ho data e le ho anche proposto di collaborare con noi per il recupero della situazione. Se lei non ritiene opportuno fare nessun tentativo in questo senso, non so che farci. Buongiorno!». Prendo il mio registro e me ne vado in laboratorio a sfogarmi sfregando il lavello sporchissimo di solfato di ferro dall'ora di chimica. Non ci riuscirò mai: il più delle volte parlare con gli adulti è per me così difficile e improduttivo… Dovrei andare da uno psicologo per questo! Sia ben chiaro che ho messo in luce i più diffusi atteggiamenti errati dei genitori non perché sia convinta che gli insegnanti siano perfetti e non sbaglino mai… magari! Ma sarebbe giusto che degli atteggiamenti

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errati degli insegnanti si parlasse in qualche libro scritto da un genitore o da un alunno, o, ancor meglio, da entrambi. Potrebbero intitolarlo «La scuola vista da chi la subisce…»! FINE ANTEPRIMACONTINUA...