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N° 1 13 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Le visioni della Madonna In questo periodo il mio cervello è come una spugna; per esempio oggi ho visto i led su pavimento dello studio di Fabio Fazio e ho avuto una certa idea... Madonna

Cultura Commestibile 113

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N° 113

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Le visionidella Madonna

In questo periodo il mio cervello è come unaspugna; per esempio oggi ho visto i led supavimento dello studio di Fabio Fazio e ho avuto una certa idea...

Madonna

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Da nonsaltare

8 donne 8 marzoper di ilaria [email protected]

Etty HillEsum, 1914 – 1943scrittrice ebrea olandese Di famiglia colta e benestante Etty si laurea in giurisprudenza all’Università di Amsterdam, si iscrive poi alla facoltà di Lingue Slave e si interessa della psicologia junghiana. I suoi studi vengono interrotti a causa dalla guerra. Tiene un diario degli ultimi due anni della sua vita e durante la massima recrudescenza dell’occupazione nazista Etty decide di sua spontanea volontà di impegnarsi come assistente sociale nel campo di Westerbork, anticamera di Auschwitz. Nel 1942, lavorando come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, ha anche la possibilità di salvarsi ma vi rinuncia per non sottrarsi al destino del popolo ebraico. Il suo “altruismo radicale” è la cifra del-la sua liberazione individuale. Nel contesto dello sterminio del popolo ebraico, Etty passa dalla paura di vivere a una nuova coscienza. Nonostante abbia chiara consapevolezza della volontà di annientamento scatenatasi contro gli ebrei, sostiene la volontà di continuare a lavorare e a vivere con la stessa convinzione, trovando la vita ugualmente ricca di significato.

HannaH arEndt, 1906 - 1975storica e filosofa, ebrea tedesca naturalizzata statunitenseNata e cresciuta a Berlino, la Arendt è studentessa di filosofia presso Mar-tin Heidegger all’Università di Marburgo. Conseguita la laurea, la sua tesi viene pubblicata ma Hannah si vede negare la possibilità di essere abilitata all’insegnamento nelle università tedesche per via delle sue origini ebraiche. Lascia la Germania per Parigi, dove si prodiga per aiutare gli esuli ebrei. Ma dopo l’invasione tedesca Hannah deve emigrare di nuovo e nel 1940 arriva negli Stati Uniti.La Arendt sostiene che l’unica sentenza coerente in merito al processo ad Ei-chmann - uno dei principali responsabili della “soluzione finale” - si dovrebbe basare sul principio che la persecuzione degli ebrei costituisce un crimine contro l’umanità intera. La Arendt vuole portare l’attenzione sul diritto di chiunque ad esistere ed essere diverso dall’altro. Uccidendo in base a un crite-rio razziale si nega infatti la possibilità di esistere al genere umano, che è tale solo perché miscuglio di diversità.

Franca Viola, nata nel 1947prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore Figlia di agricoltori, all’età di 17 anni è rapita da Filippo Melodia,imparenta-to con potenti famiglie mafiose. Franca viene violentata e tenuta segregata per otto giorni. Una volta liberata non solo rifiuta di sposare il suo stupratore ma lo denuncia. Cosa inconcepibile per l’epoca: secondo la morale vigente una ra-gazza in quelle “condizioni” avrebbe dovuto ricorrere al matrimonio per salvare l’onore. La legislazione, del resto, supportava questa norma di comportamento con l’articolo 544 del c.p. che ammetteva il “matrimonio riparatore”: l’accusato di violenza carnale poteva estinguere il reato contraendo matrimonio con la persona offesa. Mettendosi da sola contro un intero sistema di convenzioni so-ciali, Franca si trasforma da vittima in protagonista della sua storia personale. In questo modo, senza neppure esserne consapevole, cambia il corso della storia di tutte le donne del nostro paese. Lo stupratore di Franca venne condannato a 11 anni di carcere e lei diventa un simbolo di libertà e dignità per tutte quelle donne che hanno avuto il coraggio di ribellarsi alla violenza.

Frida KaHlo, 1907 - 1954pittrice messicana Figlia di un ebreo tedesco emigrato in Messico, è una pittrice dalla vita trava-gliata, sostenitrice della rivoluzione messicana e del progetto di rinnovamento sociale. Affetta da spina bifida, fin dall’adolescenza manifesta un eccezionale talento artistico. Rimane vittima di un grave incidente stradale che la segna a vita e la costringe a numerose operazioni chirurgiche. Nei lunghi mesi di degenza con il busto ingessato, Frida ha modo di con-centrarsi sulla pittura. Una volta rimessasi incontra il celebre pittore murale Diego Rivera, il quale la inserisce nella scena politica e culturale messicana e nel 1929 diviene suo marito. Frida Kahlo si afferma grazie alla passionalità e al carattere visionario del suo linguaggio artistico in cui riesce a far confluire la cultura delle civiltà native, le sofferenze personali, gli amori tormentati e lo spirito rivoluzionario che ne caratterizzano la vita.

Certi mi dicono: hai dei nervi d’acciaio a resistere. Non credo di avere dei nervi d’acciaio, credo anzi di avere dei nervi piuttosto sensibili, però sono in grado di resistere. Ho il coraggio di guardare in faccia ogni dolore. E alla fine di ogni giornata mi dicevo sempre: voglio tanto bene agli uomini.

Etty Hillesum, Diario (1941-1943), Milano,

Adelphi, 1985

Se gli uomini non fossero ugua-li, non potrebbero né compren-dersi fra loro, né comprendere i propri predecessori, né fare pro-getti per il futuro e prevedere le necessità dei loro successori. Se gli uomini non fossero di-versi non avrebbero bisogno né del discorso né dell’azione per comprendersi a vicenda.

Hannah Arendt, Vita activa. La condizione Uma-

na, Milano, Garzanti,1999

Ero contenta quando sentivo di altre ragazze che si erano salvate facendo la mia stessa scelta, mi faceva piacere sapere che, anche se indirettamente, ero stata io ad aiutarle. Quella legge era evidentemente ingiusta e andava cambiata; c’è sempre una prima volta, e io fui quella che diede inizio al cambiamento.

Franca Viola, da un’intervista rilasciata

a Riccardo Vescovo nel 2006

La rivoluzione è l’armonia della forma e del colore e tutto esiste, e si muove, sotto una sola legge - la vita. Nessuno è separato da nessuno. Nessuno lotta per se stesso. Tutto è uno: l’angoscia e il dolore, il piacere e la morte non sono nient’altro che un processo per esistere. La lotta rivoluzionaria in questo processo è una porta aperta all’intelligenza.

Frida Kahlo, da Il diario di Frida Kahlo,

autoritratto intimo, Mondadori, 1995

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Da nonsaltare

miriam maKEba, 1932 - 2008cantante sudafricana Artista di fama internazionale, ha regalato al mondo i suoi canti di gioia e do-lore ispirati alla condizione della popolazione nera in Sudafrica. Miriam nasce in un sobborgo di Johannesburg, dove inizia a cantare a livello professionale negli anni ’50 unendo jazz e musica tradizionale africana. Di lì a poco, a causa del crescente clima di violenze, lascia il suo paese trasferendosi prima a Londra e poi negli Stati Uniti dove incide i suoi brani di maggior successo, come Pata Pata, The Click Song e Malaika. La denuncia delle discriminazioni razziali, insita nei testi delle sue canzoni, le causa l’imposizione dell’esilio forzato da parte del governo di Pretoria. Nel 1990 Nelson Mandela convince Miriam a rientrare in Sudafrica per sostenere attivamente la causa della liberazione dall’a-partheid. Muore a Castel Voturno (Caserta) nella notte del 9 novembre 2008 a causa di un attacco cardiaco. Nonostante i forti dolori al petto, si esibisce in un concerto contro la camorra e il razzismo dedicato a Roberto Saviano. In molti, tra i quali lo stesso Saviano, denunciano un grave ritardo nei soccorsi.

ilaria alpi, 1961 - 1994giornalista e orientalistaSi laurea in lingue orientali sviluppando un’ottima conoscenza dell’arabo. Ottiene le prime collaborazioni giornalistiche come inviata dal Cairo: Paese sera, L’Unità poi Il manifesto, Noi donne e Rinascita. Nel 1990 è assunta dalla Rai tramite concorso. Il suo grande interesse per l’Africa si traduce in una formazione controcorrente, tutta concentrata sui paesi del Sud del mon-do. Per lei capire è essenziale, più che giudicare. Ilaria critica l’errore storico di quegli occidentali sempre pronti a misurare l’oriente con i propri parame-tri, supponendo che la cultura dell’occidente sia migliore e più giusta. Di loro dice: “Visitano questi paesi come se andassero allo zoo, rifiutandosi di capire”. Il suo interessamento per i temi forti la porta a sviluppare un’analisi lucida del caos in cui è precipitata la Somalia durante la guerra civile. Quando i colpi di kalashnikov la fermano sulla strada di Mogadiscio, Ilaria sta inda-gando su un traffico d’armi e di rifiuti tossici illegali in cui ritiene coinvolti anche l’esercito e altre istituzioni italiane.

anna politKoVsKaja, 1958 - 2006giornalista russa impegnata sul fronte dei diritti umani Dopo aver lavorato per il giornale Izvestija, dal 1999 comincia a seguire per la Novaja Gazeta il conflitto in Cecenia. Nel 2001 vince il Global award di Amnesty International per il giornalismo in difesa dei diritti umani; nel 2003 vince il premio dell’Osce per il giornalismo e la democrazia. Viene uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006, mentre rientra da fare la spesa. Il suo impegno civile si è sempre declinato in una profonda passione e compassione umana, in una stra-ordinaria capacità empatica nei confronti dei perseguitati. Per questo la Novaja Gazeta ha pensato di ricordarla con un articolo sul suo cane malato. La scelta potrebbe sembrare inadatta, ma quando Anna parla del suo animale, delle difficoltà che incontra quello che emerge è il suo spessore umano, la sua capacità di sentirsi responsabile dei suoi simili. Anna parla del cane ma parla di sé, della sua solitudine e della fatica a concepire la “bontà” degli esseri umani. Alla fine la compassione per i deboli le fa compiere lo scarto decisivo diventando il motore del suo impegno instancabile, la ragione per tenere duro tutta una vita.

didala GHilarducci, 1921 - 2012partigiana Figlia di un marinaio, nasce a Viareggio, ultima di sei figli. A 16 anni conosce e si innamora di Ciro Bertini, detto Chittò; nel ’42 si sposano e Didala lo segue in formazione insieme al figlio neonato poiché Ciro, militare che non aderisce alla Repubblica Sociale, è costretto a fuggire. La vita in formazione è dura: Didala fa la staffetta per il Distaccamento d’assalto Garibaldi ‘Marcello Garosi’. Didala e Ciro decidono di affidare il loro bambino Riccardo alle cure della zia che ha supe-rato il fronte. E’ in quel frangente che Chittò le dice: “Vedi Didala, se mio padre avesse fatto quello che faccio ora io, noi non ci saremmo trovati in questa situa-zione. Io non voglio che mio figlio si debba un giorno trovare a lottare contro il fascismo e il nazismo. Noi siamo dalla parte giusta. Sono i nostri padri che allora non hanno capito”. Il 28 agosto 1944, poco prima della liberazione di Viareggio, Ciro viene ucciso dai tedeschi. Didala continua l’attività politica dopo la guerra ed è stata fino alla sua morte presidente dell’ANPI provinciale e della Sezione di Viareggio. Per il suo impegno durante la Resistenza è stata riconosciuta Patriota.

8 donne 8 marzoperCi sono tre cose per le quali sono venuta al mondo e ci sono tre cose che avrò nel cuore fino al giorno della mia morte: la speranza, la determinazione e il canto.

Miriam Makeba

Oggi c’è la pace ma lo spet-tacolo di questi giorni non è solo per questo meno impres-sionante. È vero, l’emergenza fame è finita, qui a Mogadiscio la situazione è anche piuttosto calma ma scrollarsi di dosso il senso di morte e distruzione che aleggia ovunque non è cosa da poco. E bisogna volerlo.

Ilaria Alpi, Mogadiscio è una città fanta-

sma, in Ilaria Alpi. Una donna. La sua storia, Siena, Ali edizio-

ni, 2005

Tutti ti piantano, tutti si stan-cano di te - il cane non smette mai di amarti. E io lo prendo, corro al suo fianco, striscio con lui lungo il percorso a ostacoli per fargli vincere la paura, lo accompagno vicino a uomini sconosciuti, prendo la loro mano, con la loro mano acca-rezzo le orecchie di Van Gogh e gli ripeto che sono buoni.

Anna Politkovskaja, Una donna sola

in Internazionale del 12 ottobre 2006

Ho paura di questo silenzioso strisciante consenso qualunqui-sta, fondato sull’indifferenza verso l’altro (…). Mi ricorda la nebbia sottile che ottuse la coscienza civile del nostro Paese, che consentì l’ascesa di una dittatura liberticida e la tragedia immane della guerra.

Didala Ghilarducci, da Silenzio, parla Didala Ghilar-

ducci, Partigianahttp://ladytux.wordpress.com

di ilaria [email protected]

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riunione

difamiglia

Ogni luogo dedicato alo sport lo arricchisce. Non di vile denaro ma di strette di mano, tartine e (lui spera) preferenze. Inutile dire che è del nostro amatissimo Eugenio Giani che parliamo. Campione del mondo di inaugu-razione, recordman di rinfresco non c’è lodevole iniziativa che non lo veda protagonista. In campagna elettorale permanente Eugenio nostro macina kilometri e prosecchini in questi giorni, come quando si è recato all’inau-gurazione di una nuova palestra e ha esclamato “un’occasione da festeggiare! Ogni luogo dedicato allo sport ci arricchisce e questo in particolare sarà la nuova casa della pluridecorata scuola di arti marziale! Mens sana in corpore sano!” e poi via con le foto di rito, dove però ci viene da pensare che, a parte l’inaugura-zione, gli immortalati la palestra la frequentino poco.

“A Mosca, in memoria di Boris Nemtsov” è stata la twittata furbetta del nostro amato leader Matteo appena atterrato sul suolo che fu sovietico (ahimé!). Ma poi se n’è andato, bravin bravetto, ad in-contrare per un lungo colloquio da Vladimiro Putin. Pare però che nei 180 minuti di chiacchiere sul più, sul meno e sul per di questa morte inquietante del suo oppositore. E sì che su come asfaltare gli oppositori interni da quelle parti avrebbero qualcosa da insegnargli.Ma al diplomatico Cancelliere fiorentino non la si fa e Matteo si è divincolato come un’anguilla dalle secche dei noiosissimi dibattiti sulla situazione internazionale e sulle zone di crisi e l’ha buttata sul vernacolare: “Abbiamo citato un grande scrittore russo Feodor Dostoevskij che ha scritto le sue

pagine sulla bellezza che salverà il mondo a Firenze. Mi piace pensare che la bellezza che salverà il mondo è quella di chi prova a fare del meglio per restituire la speranza e una occasione di pace al nostro continente e al nostro pianeta”. Si capisce bene che le due frasi stanno fra loro come il cavolo a merenda, ma il nostro ce l’aveva in canna quella battuta su Dostoevskij e bisognava che la sparasse. Anche perché il buon Vladimiro aveva esordito con il botto citando l’astro-nauta Samantha Cristoforetti, alla quale ha fatto gli auguri per la sua missione nello spazio, definendola “una grande rappresentante della Repubblica italiana e delle donne italiane”. E lui, come dire, della materia se ne intende (pare abbia anche invitato la Samantha, quan-do rientra sulla Terra, a fermarsi nella sua dacia personale). Ma questa frase di Dostoevskij al giovane Matteo Renzi paice proprio e la cita ad ogni piè sospinto, in qualunque occasione si trovi. Come

avvenne nel gennaio scorso quando fatto la guida turistica alla Merkel a Firenze: “Dostoevskij diceva che la bellezza avrebbe salvato il mondo, vediamo se salverà anche l’Europa”. Ma ancora prima nell’ottobre 2011 al Big Bang alla Leopolda: “La bellezza che salverà il mondo è la bellezza che l’Italia possiede in quantità industria-le”. E ancora nel marzo 2013 in occasione della XIII° Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime della mafia organizzata da Libera in Palazzo Vecchio: “la bellezza salverà il mondo” diceva l’autore nel suo famoso romanzo “L’idiota”… “La bellezza delle donne e degli uomini che non si arrendono”. E come di-menticare l’indimenticabile incipit del suo bestseller “Lo Stil Novo” in cui citava – indovinate un po’? - ma sì, Dostoevskij “il mondo sarà salvato dalla bellezza”. Insomma, Renzi è come un jukebox: metti la moneta e parte “la bellezza salverà il mondo”.

Gli ospiti della Casa di Cura “Sa-cra Famiglia” di Cesano Boscone sono rimasti disorientati quando venerdì scorso hanno visto una persona anziana raggiungere il loro istituto con un enorme sacco. “Ghè arivada la befana, Mario” ha detto uno. “Ma va la mona, el ghè el Berlusca! Quel che ghe ‘conta i barzelete!”, risponde l’altro. “Ma chi ‘sto Berlusca? Non te vedi che ga la scupa: l’è la befana! Va a fas dì in gesa!” “Ma no, pirla! Te recond minga! L’è el Silvio che face tut li scherzi. A me me diga “L’è mej un usell in man che cent che vula”. Me facia morir re ride!”, l’altro puntualizza.“Ah te ghè avria rasù, Mario. El quel pirla che finì cont el cü per tèrra! El ga la stampela, mica la scupa! Quando l’è che va fora da i bal?”“Uè, Giuà, quel lì non finise mai! La malerba l’è quèla che cress püss-ee [l’erab cattiva non muore mai ndr]! El tribunal gà dato la grazia perché dise che se stato bravo quel chi. Come se dise ne la Basa: Ona lavada ona sügada e la par nanca duprada! [una lavata e un’asciuga-ta e pare come nuova, ndr].E così, il Cavaliere si è presentato a Cesano Boscone per l’ultima giornata di gloria al “Sacra Fa-miglia”, beneficiando dello sconto di pena accordatogli dal tribunale per il suo noto “pentimento” e per “buona condotta durante i servizi sociali” affidatigli. Ha portato i regali e, con Fedele Confalonieri al piano, ha intonato “O mia bela Madunina che te brillet de lontan, tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan...”.Tutti i salmi finiscono, prima o poi, in gloria. Amen.

le Sorelle Marx

lo Zio di trotZky

i Cugini engelS

Giani sano, in corpore sano

La bellezzadell’Idiota

Ultimo giornodi gloriaa CesanoBoscone

bobo

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La casualitàdel gesto poeticoBartolomè Ferrando

Nei nuovi orizzonti della sperimentazione la parola poetica si trova ormai

collocata in una situazione ‘aperta’, incostante e metalin-guistica, in una posizione di subordinazione rispetto all’im-magine la cui lettura appare sempre più diretta e facilitata dall’imposizione mediatica della società contemporanea. Letterati e intellettuali non pos-sono fare altro che prendere co-scienza del divenire molteplice e dell’evoluzione che il linguag-gio sta subendo, cercando di fornire alla percezione estetica nuovi strumenti per continuare a esistere e a operare secondo la propria natura espressiva e comunicativa. Di fatto il messaggio poetico, degli ultimi cinquant’anni, nasce attraverso il rifiuto del codice, la nega-zione di quei referenti che non sono più considerati ideologica-mente attendibili e la messa in luce di aporie e contraddizioni che stanno alla base di un cam-biamento epocale, il cui esito è ancora sconosciuto e non prevedibile. Di conseguenza, l’operazione poetico–linguistica si è fatta essa stessa significato, in quanto luogo di un’azione consapevole di natura cultu-rale, abbracciando il mondo contemporaneo in tutte le sue sfaccettature e in tutte le sue direzioni. Nella ricerca artistica di Bartolomè Ferrando l’im-magine poetica è un semplice punto di partenza, attraverso cui costruire strutture artistiche e architettoniche che si avvici-nano alla musica, all’arte pla-stica e all’azione. Poesie visive, poesie oggetto, poesie sonore, installazioni, performances e libri oggetto si pongono a metà strada fra due diversi domini dell’operatività formante del contemporaneo, fra lettura e visualità, fra musicalità e silente contemplazione. Quella di Bartolomè Ferrando è un’arte intermediale che valica i confini disciplinari per porsi agli occhi del fruitore come un neocon-tenuto da discernere, traendo beneficio estetico dall’umori-smo e dall’ironia in esso con-tenuto, poiché mette in gioco e in discussione il Sistema con modalità insolite e inusuali. Il linguaggio artistico si carica di

A sinistra Escrituras, 2003, Acrilici su carta riportata su masonite cm. 29,6x21. A destra Alfombras varias que podaria que podrian haber sido utilizados en una version actual de la santa cena de Leonardo da Vinci, 1997, Collage su cartoncinocm. 50x32,4. Sotto Despues el concierto, 1995, Stanza ambiente con note musicali e leggiiTutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected]

una retorica antinarrativa per porre l’accento sul particolare, ossia sulla componente fonetica della parola poetica che, fram-mentata e slegata dalle connes-sioni semantiche, mantiene la propria musicalità, nonostante la casualità appaia come l’u-nica possibilità espressiva del momento gestuale. Proprio nel frammento si riscopre una po-etica pulsante e una poesia che continua a vivere dietro una quantità infinitesimale di vocali e consonanti liberamente e ca-sualmente intrecciate dall’azio-ne dell’artista, volto a riscoprire l’armonia artistica oltre le unità metriche e la figurazione.

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Fino dalla metà dell’Ot-tocento il subcontinente indiano si è dimostra-

to un ottimo terreno per le esplorazioni fotografiche, ricco di antichità, spettacoli naturali, popolazioni diverse, esotismo e mistero. Mentre la maggior parte dei fotogra-fi, pittori e letterati europei si lasciavano conquistare dal fascino di Grecia, Egitto e Medio Oriente, altri fotografi, per la maggior parte inglesi e legati agli interessi dell’Impero Britannico, arrivano fino in In-dia, soprattutto dopo il 1858, con lo scopo di documentare i monumenti e le popolazioni, ma anche per aprirvi i propri studi. Fra questi vi sono Char-les Shepered e Samuel Bourne, seguiti da John Sache, Colin Murray, Fred Bremner e molti altri, compresi Felice Beato, che dopo il suo “passaggio in India” prosegue per l’estremo Oriente arrivando fino in Giappone, e William Henry Jackson, il fotografo del grande Ovest americano, che arriva in India alla fine del secolo. Accanto ai fotografi britannici cominciano a lavorare fino dall’inizio i fotografi indiani, a partire da Lala Deen Dajal (1844-1905), che fino da metà degli anni ’70 dell’Ottocento si impone come la figura di maggiore prestigio, sia come ritrattista che paesaggista e fotografo di architettura. La cultura fotografica si radica in India in maniera profonda, fino ad acquistare una propria autonomia espressiva, troppo spesso soffocata dal grande numero di fotografi europei e statunitensi inviati dalle riviste illustrate a “coprire” gli eventi politici, economici e culturali dell’India, fornendo spesso delle letture superficiali e vi-ziate dagli aspetti folcloristici e sensazionali. Fra i numerosi fotografi indiani che si sono impegnati a fornire del loro paese una immagine diversa da quella stereotipata delle grandi riviste internazionali, emerge la figura di Raghu Rai, il primo fotografo ad essere ammesso nel 1977 a far parte della prestigiosa Agenzia Magnum.

Raghu Rai nasce nel 1942, de-cide di diventare fotografo nel 1965, e lavora alle dipendenze di un importante giornale di New Delhi fino al 1976, quando decide di diventare free lance. Il suo lavorio viene notato da Henri Cartier-Bres-son, che prende il giovane fotografo sotto la sua prote-zione, ed è lui stesso a presen-tarlo all’Agenzia Magnum. Le immagini di Raghu Rai non raccontano l’India pittoresca ed abbagliante celebrata da tanti fotografi ammalati di esotismo, ma neppure l’in-dia miserabile e stracciona celebrata anch’essa con uguale enfasi da altrettanti fotografi ammalati di pietismo. Il suo non è lo sguardo distratto o affrettato di chi vive l’espe-rienza dell’India in maniera limitata e provvisoria, illu-densosi di registrare nei volti di mendicanti, commercianti, militari, santoni, danzatrici, giocolieri, taxisti, contadini o pescatori il vero volto dell’In-dia. Le immagini di Raghu Rai raccontano, ma dall’in-terno, delle storie vere. Sono storie di persone comuni, che spesso da storie individuali diventano delle storie collet-tive, perché in India esistono, come altrove, ma forse in ma-niera più marcata che altrove, individui e masse, contrasti sociali accentuati, diversità di modelli di vita, di classe, di religione, di cultura. I suoi volti non sono delle maschere, i suoi personaggi non sono delle comparse, e gli sfondi su cui si muovono non sono delle scenografie esotiche e pittore-sche. Le sue sono delle storie minime, emblematiche di un mondo che scorre lentamente ma cambia velocemente, sotto l’apparenza dell’eterna immu-tabilità del cerchio della vita. Raghu Rai privilegia il bianco e nero, ma quando è neces-sario utilizza anche il colore, e nel corso della sua lunga carriera pubblica numerosi libri, ciascuno dei quali non è che un breve capitolo di quel grande libro della vita che in India trova la sua forma forse più compiuta, e che non tutti i fotografi occidentali hanno saputo sfogliare con altrettanta attenzione.

L’India di Raghu Raidi danilo [email protected]

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chia di granturco e infilzandola con un bocchino, improntano il sapore della fumata , un po’ come sgranocchiare un pop-corn. Pensa e ripensa a cosa mi assomiglia...ma sì è quella di

Bracciodiferro! Sono tradizio-nalmente americane ed hanno breve durata. I sapori diversi e mutabili da qualcuno sono apprezzati, da altri disdegnati. Una a me pare bellissima , è

al mare, un agosto, vide su un banco delle ceste con dentro tante pipe di radica

e, memore delle fumatine pater-ne al tempo della sua infanzia, si avventurò a comprarne una. Improvvido fumatore la ruppe dopo pochi giorni, ma gli era nata una passione. Da allora, era il 2004, ne ha raccolte 130 di vari materiali, fogge, colori, provenienze, di buona qualità, quelle più “vilie” non le conta. Si chiama Francesco Amman-nati il maniaco di oggi, è un giovane dottore, Ricercatore di Storia dell’Economia pre-in-dustriale, vicepresidente del “Ritrovo Toscano della pipa” , uno fra i tanti club di amanti dell’oggetto e magari anche delle gare di “lento fumo”, ad ognuno stessa pipa e stessa dose di tabacco, vince chi la fa durare di più...dice Francesco “noiosis-sime”! Fra tutte la preferita, e la più bella a suo dire, è una pipa artigianale scavata, da Alessan-dro Corsellini, in un ciocco di radica arborea, materiale questo prezioso per la sua durezza e per la varietà di venature, se queste sono belle e ricche la pipa viene lavorata in modo che le conferiscono una caratteristi-ca fiammatura verticale. Quasi parallelo alle venature e alla loro purezza il prezzo della pipa finita. Come tutti i collezionisti Francesco sa molto al riguar-do e mi racconta molte cose anche su tabacchi, loro scoperta e provienienza e aromi, sui materiali con cui vengono fatti i bocchini, il moderno plexiglas è duro al contatto e quasi mai sottile... su come si sabbia un legno poco liscio e puro e come se ne possono stuccare le imper-fezioni, mi dice che le pipe più antiche erano piccole, di gesso o terracotta..La sua di terracotta , “chioggiotta” si definisce, gli è stata regalata ed è stata ordinata ad un artista direi che scolpisce qualcosa sul davanti del fornel-lo, la sua faccia in questo caso, ha il cannello di ciliegio, brucia a un po’ a tenerla in mano, ma lascia intatto il sapore del tabacco a differenza di altri ma-teriali che vi interagiscono. Per esempio quelle pipe, povere e semplicissime, per me deliziose, fatte svuotando una pannoc-

una “calabassa” , sembra un po’ una trombetta, ha un bel colore giallo calduccino, chiusa da un bordo alto e bianco...é fatta con una zucca, la fanno crescere storta apposta, ed è la pipa con cui viene, nei film, rappresenta-to Sherlock Holmes, il suo bor-do bianco è di schiuma di mare, questo poetico nome indica il materiale da cui è ricavato, la sepiolite, minerale che si trova soprattutto in Turchia e che si chiama così perchè spesso... viene visto galleggiare sul Mar Nero... Non posso esimermi dal riferire un altro termine a me finora ignoto e fantastico “fuma e fuma, la calabassa si culatta..” prende cioè nuances più scure e intense, arancioni e anche rosse. Anche le pipe invecchia-no, si usurano, occorre tenerle pulite, a volte restaurarle, anche la crosta che si forma al loro in-terno è oggetto di opposti pen-sieri, c’è chi la gratta via e chi la tiene e apprezza. A corredo di questa collezione: “pigini” per il tabacco , aghi per scalzarlo o limette per grattare le pareti, portapipe di legno o altro per appoggiarle. Libri sul tema non mancano mai, Francesco ne possiede uno di cui è fierissimo, riedizione del “Libro delle pipe” del 1934, scritti e disegni niente meno che di Dino Buzzati, oltre che del cognato, Eppe Ramaz-zotti.

Ces sont pipe

Il miglioredei Lidipossibili

Calma e gesso, la scuola continuerà a galleggiare

Disegno di Lido ContemoriDidascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

di CriStina [email protected]

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7Marzo2015pag. 8

Lo stallatico e i dehors

Passando da piazza della Repubblica la settimana scorsa, ho sentito tutt’a

un tratto un (buon) odore di stallatico, raro da queste parti. E, voltandomi, ho visto una bella mucca che imperterrita si lasciava mungere. Era una dimostrazione di protesta dei produttori di latte nostrani, vit-time dell’importazione interes-sata di un prodotto che in Italia abbiamo altrettanto buono, ecc., ecc., come da cronaca. Spesso quando passo da quella piazza alquanto insulsa e ancor più involgarita dai dehors - mangiate che, più che ristoranti! - ripenso a cosa avrebbe potuto essere quel luogo se i nostri bi-snonni di fine Ottocento fossero stati affaristi meno brutali. Era un mercato con un suo degra-do, certo, ma un valore storico e umano straordinario. Basta guardare i quadri di Telemaco Signorini che hanno per sogget-to il mercato vecchio e dintorni. Lo disfecero per ragioni di pubblica igiene: ovviamente si poteva igienizzare in ben altro modo. Perciò mi è piaciuto che quel centro, in barba alla targa che declama “a nuova vita resti-tuito”, sia ritornato stalla, anche per un solo giorno, dopo cento e più anni. In varie istituzioni culturali fiorentine si stanno celebrando i 150 anni di “Firenze Capita-le” e, in conseguenza, delle sue trasformazioni urbanistiche. Dell’opera di Giuseppe Poggi, di grande qualità e lungimiran-za, ne godiamo ancor oggi ; e gli dobbiamo essere totalmente grati. Certo, furono abbattute le mura di Firenze, in alcuni punti opere di grande architettura. Ma in questo caso dobbiamo forse riconoscere che, nella seconda metà dell’Ottocento, concepire come capitale di un nuovo stato europeo una “città murata”, era quasi impossibile; come impos-sibile prevederne il futuro. Altra cosa furono le distruzioni del centro storico di venticinque anni dopo. Qui si trattava di un’area relativamente picco-la nel centro antichissimo di Firenze, pieno di opere d’arte a ogni piè sospinto - edifici, scul-ture, dipinti - che, per quanto deteriorato, si poteva recupera-

Corsi e ricorsi della storia

di annaMaria Manetti [email protected] alla “nazione Italia”. L’impre-

sa di Poggi era appena finita (anzi neppure conclusa per il mutare degli eventi naziona-li) che un potente gruppo di ‘modernisti’, in realtà immobi-liaristi e speculatori edilizi, in accordo con l’emergente potere della stampa, organizzarono un battage pubblicitario che, nell’arco di un quinquennio, riuscì a giustificare la distruzio-ne di quel contesto urbanistico irripetibile, dall’età romana in poi. Organo altisonante di tutta l’operazione fu il giornale “La Nazione”, con i virulenti articoli di Jarro, in favore degli abbat-timenti per ragione di sanità pubblica. Il quotidiano si fece voce della borghesia rampante, sostenitrice dei governi Crispi, e di autorità locali incolte e as-servite al potere. Il risanamento era indubbiamente necessario. Ma da questo alla distruzione a tappeto, come dopo un terre-moto, di un centro città di quel valore, ce ne corre. La verità è che si vollero costruire strade ed edifici ex novo, sradicando una popolazione vitalissima, costretta ad emigrare in periferie indubbiamente più pulite ma estranianti. Furono decisioni gravissime prese a tavolino da governanti interessati solo al grosso business, e di nessuna preveggenza. Non che fossero mancate le opposizioni, anche forti, di uomini di cultura. Basti ricordare l’eroico Soprintenden-te Guido Carocci, che fece sal-vare quanto oggi è raccolto nel museo di San Marco e registrato nei due volumi sopracitati. Ma si trattò, al solito, di profeti di-sarmati e anzi osteggiati. Anche la stampa internazionale - specie anglo-americana - scese in cam-po, avvalendosi delle numerose personalità allora presenti in città e nei dintorni. Ma niente poté contro i potenti comitati d’affari, in parte anche trasver-sali. Altri, come l’antiquario Stefano Bardini, ben consa-pevole di quando si andava dilapidando, chiese ed ottenne l’appalto delle ‘macerie’. Fece un gigantesco affare, riempiendo di quelle ‘macerie’ i musei inglesi e americani - lacerti di architettu-re, sculture, pitture - e serban-done una parte, va detto a suo merito, nel museo che porta il suo nome.

re, se non interamente, almeno in gran parte. Per rendersi conto in maniera tangibile di ciò di cui si parla, vale la pena ricorda-re due volumi pubblicati diversi anni fa, ma che bisognerebbe mettere accanto ai documenti di Firenze capitale, per completare il discorso sulla Firenze ottocen-tesca. Si tratta di “Il centro di Firenze restituito”, Bruschi ed., 1989 ; e di “Firenze 1892-1895.Imma-gini dell’antico centro scompar-so”, Polistampa 2007, entrambi a cura di Maria Sframeli, una delle più valenti funzionarie della Soprintendenza fiorentina

Queste due straordinarie pub-blicazioni dimostrano come la generazione successiva a quella di Poggi fosse già implicata fino al collo nel malaffare dell’Italia unita, e non si sia peritata di distruggere il cuore di una città millenaria che si poteva, almeno in parte salvare. La storia è (o dovrebbe essere) nota. Ma poiché invece è stata sotterra-ta, nella memoria collettiva, insieme alle sue macerie, vale la pena ripercorrerla, per non confonderla con l’opera di Poggi e riconsiderare nella sua totalità il passato postunitario di Firenze e l’alto prezzo pagato

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“20.000 km. Le strade che raccontano l’Italia”. Stefano Vigni, giovane fotografo sene-

se, ha portato a Prato (fino all’8 marzo) la sua ultima fatica, nella bella cornice del nuovo spazio espositivo di via Firenzuola (a due passi dal Museo Civico), grazie all’organizzazione dell’associazione culturale “Industrie Contempora-nee dell’Arte”. “Prima di apprestarsi a un viaggio – scrive il critico fotografico Roberto Mutti – il fotografo deve preoccuparsi del problema che per altri è secondario e per lui fonda-mentale: quale tipo di attrezzatura portarsi appresso. Già, perché caricarsi sulle spalle un banco ottico o infilarsi in tasca una com-patta, significa immaginarsi già in partenza un diverso rapporto con la realtà che privilegia l’attenta ricerca compositiva o la rapida cattura dell’istante. Stefano Vigni ha, invece, deciso di aprirsi ogni possibilità e, apprestandosi a par-tire per un viaggio durato 20.000 km che avrebbe dato vita al libro omonimo, ha pensato bene di utilizzare ogni possibile fotoca-mera di ogni formato e capace di tutte le definizioni. Si è così messo in sintonia perfetta con il suo soggetto perché le strade che si è prefitto di riprendere sono tutte diverse fra di loro. C’è l’autostra-da trafficata e la provinciale di asfalto rappezzato, la via di notte acquista un suo fascino particolare e quella definita da una lunga fila di alberi, la strada che corre veloce e quella che un progetto surreale ha infilato in un tunnel affacciato sul nulla. Di fronte a tutto ciò, Stefano Vigni alterna la qualità professionale dell’Hasselblad alla ruvidezza propria dell’obiettivo di plastica della Holga, che sarà pure una fotocamera giocattolo ma è anche uno strumento molto amato dai fotografi di ricerca, usa la pellicola e il digitale, si accon-tenta del piccolo formato e allarga lo sguardo a tal punto da dover ricorrere a quello panoramico. Il fotografo interviene, nella fase successiva creando sovrapposi-zioni, accostamenti geometrici, composizioni che ribadiscono la complessità del paesaggio italiano che le strade attraversano come se lo lacerassero o , forse, lo accarez-zassero”.Il vernissage della mostra è stato arricchito dalla performance tea-

nel 1964, anni in cui ci fu anche il primo picco demografico. L’Italia voleva accelerare e le diedero una strada, anzi “l’autostrada”. Era bello anche il nome: autostrada del Sole. Il calore e l’avvenire. Ma anche quella che ti faceva uscire dalle nebbie della pianura padana. Oggi siamo in pochi a chiamarla così, con i nostri freddi Tom Tom che scandiscono “A1”. L’autostrada del Sole, nel secolo scorso, era l’inizio del viaggio. Imboccarla significava addentrarsi in un mondo sconosciuto, con le sue regole, i rari distributori di benzina (non ancora Autogrill), le aree di sosta per i picnic, con le famiglie che apparecchiavano e bivaccavano. Forse non c’erano limiti di velocità, ma anche se c’erano le Seicento le ve-devi in panne sui bordi dell’asfalto con i radiatori fumanti. Per costruirla ci vollero 15 milioni complessivi di giornate lavorative; 52 milioni di metri cubi di terra scavata all’aperto; 1,8 milioni di metri cubi di terra scavata in galleria; 5 milioni di metri cubi di murature e calcestruzzo; 16 milioni di metri quadrati di pavimenta-zioni; 853 ponti, viadotti e opere simili; 572 cavalcavia; 38 gallerie.L’Autosole è costata tanto: almeno 160 vite, stima realizzata per difet-to. Il tratto più “sanguinoso” quello tra Bologna e Firenze, con i viadotti e le impalcature sospese a 100 metri di altezza: 15 morti, di cui 8 solo tra Calenzano e Barberino del Mugello. A tutti i caduti è dedicata una lapide davanti la chiesa del Michelucci a Firenze Nord.Era forse il prezzo più salato da pagare al progresso. Ai bordi dell’au-tostrada aree un tempo depresse diventano industriali. Ancora oggi, basta voltare lo sguardo dal finestri-no a Piacenza, Frosinone, Caserta o altrove per vedere quante fabbriche sono spuntate e spuntano ancora a pochi metri dai caselli. Sì, l’Autosole è diventata brutta, si è allargata, si è sdoppiata. Era “la strada dritta”, che portava da un presente a una speranza di futuro. Ora è un nastro d’asfalto tra un Autogrill e un centro commerciale. E poco lontano vedi sfrecciare i treni dell’alta velocità, mentre tu bestem-mi dietro un tir che sorpassa dove non potrebbe e non puoi prestare attenzione a quel borgo antico lì sulla tua sinistra, arrampicato sulla roccia come un presepe, che guarda l’autostrada dall’alto della sua bella storia e pare mostrare un ghigno di rancore.

20.000km

di foto

di Ciro [email protected]

di davide [email protected]

Contaminature

Fanghi rossi residui della lavorazione nelle laverie minerarie. Sullo sfondo cumuli di ganga (insieme dei minerali inutilizzabili che in un giacimento si trovano associati a minerali utili)

trale dell’associazione Altroteatro di Firenze, con brani musicali di cantautori italiani e letture di testi di Seamus Heaney, Franco Arminio, Vincenzo Gambardella e Ciro Becchimanzi.Qui riportiamo il brano di quest’ultimo, dedicato alla storia dell’Autostrada del Sole.Com’era bella l’autostrada del Sole. Quella lunga striscia di asfalto, 755 km, è stata il simbolo di un paese che cresceva, esplodeva col boom, si motorizzava con le sue piccole Fiat, che la percorrevano da Nord a Sud, ma più spesso da Sud a Nord, con le valige di cartone legate sui portaba-gagli di fortuna. La fortuna, quella che cercavano i contadini sfuggiti alla miseria delle campagne verso le fabbriche di Milano e di Torino. Per andare da Napoli a Milano, prima, ci volevano due giorni. Con l’autostrada in dieci ore arrivavi al centro dell’Europa.Fu costruita in soli 8 anni, per quei tempi un record, inaugurata

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do estimatore della cosiddetta scena di Canterbury, dove Daevid Allen, Kevin Ayers, Mike Ratledge e Robert Wyatt dettero vita ai Soft Machine (1966).Il libro è diviso in due parti, Side One e Side Two, come se fossero i due lati di un disco, per sottolineare la continuità che lega gli anni prima dell’in-cidente a quelli successivi. L’autore rileva giustamente che non è possibile comprendere Wyatt senza tener conto del suo

impegno politico. Il musicista rimane legato al marxismo, ma questo non lo trasforma in un agit-prop e tanto meno in un comunista da salotto. La sua partecipazione a certe cause è sincera.Precisa e dettagliata, la biografia mette in luce l’amicizia che lo lega a vari musicisti e quella meno nota con attori come Julie Christie e Warren Beatty. Tutto questo si intreccia con l’amore per il jazz, l’interesse per vecchie canzoni come “I’m a believer” e

Il 1º giugno 1973 Robert Wyatt, batterista dei Matching Mole e prima

ancora dei Soft Machine, cade ubriaco dal quarto piano duran-te una festa che si sta tenendo in un appartamento londinese. Fortunamente si salva, ma la frattura di una vertebra gli preclude per sempre l’uso delle gambe. Una menomazione tre-menda per chiunque, a maggior ragione per un batterista di 28 anni. Ma Wyatt non si arrende. Sostenuto dalla moglie Alfreda riesce a trasformare la tragedia nell’alba di una nuova stagione musicale. La batteria viene sosti-tuita dal piano e dalla tromba.La diversità che Robert vive sulla propria pelle diventa un motore potente che gli permet-terà di esplorare nuovi territori, anche questi sempre diversi. Non a caso si intitola Different Every Time (Serpent’s Tail, 2014) la prima biografia del geniale musicista. L’autore è Marcus O’Dair, un giornalista inglese che collabora a varie testate specializzate. L’introduzione è firmata dallo scrittore Jonathan Coe, profon-

Unirrequieto signore inglese

“Insensatez”, il suo grido lucido e sincero contro l’impero globa-le in brani che parlano di guerra e apartheid. Chiudono il libro una discografia dettagliata e un ricco corredo di note.L’ideale complemento del libro è un doppio CD, anche questo curato da O’Dair, che comun-que viene venduto separata-mente. Il primo disco offre un panorama dell’opera wyattiana che copre quasi quarant’anni (1970-2007).Ottima la scelta di aprire con “Moon in June”, tratta dal terzo LP dei Soft Machine (Third, 1970), che rimane uno dei brani paradigmatici dell’artista inglese. L’altro disco contiene in prevalenza brani di altri nei quali Wyatt compare come ospite. La varietà delle collabo-razioni spazia da Cristina Donà a Bjök, da Anja Garbarek a Nick Mason dei Pink Floyd. La mole del libro (460 pagine) può spaventare, ma data la grande quantità delle fotografie il testo effettivo si riduce di un terzo. Se poi qualcuno avesse scarsa familiarità con l’inglese, pùo aspettare l’edizione italiana che viene preparata in questi mesi.

Nel 1261, dopo la battaglia di Monteaperti, Guido Novello dei conti Guidi da Poppi, podestà ghibellino di Firenze, fece aprire una porta nelle mura che, invero con poca fantasia, fu chiamata “Porta Ghibellina”, come Ghibel-lina fu chiamata la strada (prima a fondo cieco). La strada, supera-ta la porta Ghibellina, si inoltrava nel contado fiorentino verso il Casentino e il feudo ghibellino dei conti Guidi. Peccato che solo pochi anni dopo, nel 1266, le truppe guelfe di Carlo d’Angiò sconfissero i ghibellini nella battaglia di Benevento, ucciden-do fra l’altro re Manfredi, grande protettore di Guido Novello, che lasciò precipitosamente la città, singolarmente non attraverso la Porta Ghibellina ma attraverso la Porta dei Buoi (Ponte alle Gra-zie). Per fortuna i nuovi signori guelfi della città ebbero rispetto della toponomastica consolida-ta, che rimase invariata dopo il cambio della guardia.Singolarmente la strada, lungo

tutto il suo sviluppo, ha sempre avuto a che fare con, diciamo così, l’amministrazione della giustizia. All’inizio della strada il Palazzo del Bargello, nelle cui se-grete languivano i prigionieri po-litici, era destinato alle esecuzioni capitali: dalle finestre del palazzo pendevano i corpi degli impiccati e sui davanzali venivano esposte le teste decapitate: quando, in rari casi, qualche condannato a morte riusciva a fuggire, veniva incaricato un pittore, che non poteva rifiutarsi, di “impiccare” il condannato in effigie, realiz-zando un dipinto che veniva poi appeso nel Palazzo: fra i pittori più gettonati Andrea del Casta-gno che, all’epoca, era noto come “Andrea degli Impiccati”.Più avanti, all’angolo di Via Ver-di, agli inizi del ‘300 fu costruito

un carcere dove furono convo-gliati i carcerati da vari luoghi di detenzione: il già citato Palazzo del Bargello, la torre di Piazza Sant’Elisabetta, i sotterranei di Via delle Burella. Nel 1304, appena inaugurato, il carcere accolse una grossa infornata di prigionieri ghibellini provenienti dal castello del Chianti “Le Stin-che” e Le Stinche fu chiamata la

prigione.A metà ‘800 il carcere, dismes-so nel 1834, fu acquistato dal farmacista Girolamo Pagliano, cantante lirico di scarsa fortuna, che nel 1838 aveva brevettato in Francia uno sciroppo lassativo che, come scrisse Collodi “ormai tutti gli intestini d’Europa lo sanno a memoria” e sul quale costruì una fortuna. Il carcere fu ristrutturato e trasformato in teatro, inaugurato il 12 giugno 1853, con lo scontato nome di “Teatro Pagliano”. Alla morte di Giuseppe Verdi (1901) il teatro fu intitolato al musicista.Nel 1370 dodici pie donne, seguendo l’esempio di Santa Apollonia, si fecero murare in una casetta sul Ponte alle Grazie. Aumentate di numero, le “Mu-rate” nel 1424 si trasferirono in un monastero appositamente fatto costruire da ser Giovanni Benci alla fine di Via Ghibel-lina; chiuso il monastero nel 1845, l’edificio diventò il carcere delle Murate e tale rimase fino al 1983, quando fu inaugurato Sollicciano.

di FabriZio [email protected] Via Ghibellina

Prigionie teatri

di aleSSandro [email protected]

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Sensus Vetrina di Fiesole ospita una nuova installa-zione, si tratta di un’opera

site-specific realizzata dall’artista e designer Edoardo Malagigi sull’onda emozionale dei tragici, recenti fatti di Parigi.Come tutti sanno l’attentato terroristico alla redazione della rivista Charlie Hebdo è stato vissuto dall’Europa e da tutto il mondo civile come una orribile e vile azione di esponenti del mondo musulmano, per altro non sufficientemente sconfessati dalla parte moderata dello stesso mondo.Come seconda istanza rimane legata a questa azione, negli animi delle moltitudini di persone che l’hanno subita, un senso di impotenza e di timore per le proprie stesse vite, esposte senza possibile protezione agli eccessi potenziali e imprevedi-bili di queste persone che usano la religione come mezzo di sopraffazione e controllo ai loro fini di potere.Una terza gravissima conse-guenza rimane quella della censura legata al ricatto violento e alla sopraffazione culturale. Il tentativo di impedire la libera circolazione delle idee e dei pen-sieri è la molla che ha fatto agire il Malagigi che con tutta la forza del suo spirito ha cercato di contrastarla creando un oggetto pratico e simbolico insieme, dando fisicità al suo sentire in reazione all’accaduto.Da designer, abituato a con-vertire le cose astratte in reali, ha realizzato una matita fuori scala di circa 4 metri alla quale ha assegnato il titolo: “Libertà di matita, libertà di pensiero”. Di questa matita ne ha costruita una seconda versione di circa 90 cm sulle misure della Vetrina di Fiesole. Entrambe leggere, la prima realizzata in cartone come certi giochi per bambini, da ri-tagliare ed incollare, ha la forza delle cose che ci parlano mute e la surreale autorevolezza della dimensione, l’altra è una vera e propria scultura in legno di bal-sa, lavorata con la perfezione di un ottimo ebanista ed è in scala 10 a 1 rispetto ad una matita vera. Entrambe posseggono una intrinseca potenza espressiva che da sola vale quanto un esercito.

di Claudio [email protected]

Libertà di matita,libertà di pensiero

Recentemente, L’Espresso e il Fatto Quotidiano hanno reso note statistiche e dati di qual-che interesse civile: le presenze dei parlamentari in parlamen-to e il loro stipendio netto di 80.000 Euro annui (esentasse, al netto di indennità). Ciò induce ad alcune (amare) riflessioni, quale, ad esempio, l’opportunità di lasciare in-tegre le retribuzioni quando le assen-ze dal loro lavoro raggiungono vette vergognose, tanto da legittimare il termine proprio di “assenteismo”.

Valutate le percentuali di assenza, ne risultano le cifre indebitamente percepite per lavoro non svolto.Questo il quadro davvero sconsolan-te, con a fronte le cifre che dovrebbe-ro essere restituire all’erario.Lupi Maurizio, assente per il

99,66%, da reintegrare Euro 79.928; Ghedini Niccolò, 99,14%, da reintegrare Euro 79.312; Lorenzin Beatrice 98,46%, da reintegrare Euro 78.768; Castiglione Giusep-

pe 98,11%, da reintegrare Euro 78.488; Franceschini Dario, 95,46%, da reintegrare Euro 76.368. Seguono Orlando, Crimi, Meloni, Monti.Attendiamo notizie da chi, in Par-lamento, è incaricato del “recupero crediti”.

di burChiello 2000

PasquinateStipendiindebiti

Alla costruzione della prima grande matita è seguita un’azio-ne che è consistita nel portarla in spalla dallo studio di Fiesole fino a Firenze con varie tappe fino ad arrivare alla sede di Sensus. Di questa marcia dalla forza espressiva e simbolica, pa-ragonabile a quella dei tedofori che attraversano il mondo per accendere il braciere che segna l’inizio delle Olimpiadi, è rima-sta una traccia nelle foto e nei video realizzati da chi ha voluto accompagnare l’artista nella sua performance. Rimane negli occhi di chi l’ha vista questa lunga passeggiata una immagine di serenità e di pace, forse non prevista o immaginata dall’auto-re, carica dello stupore generato dalla gita di un gigante uscito da una fiaba che se ne va in giro con una improbabile matita simile ad un gotico missile pronto ad essere lanciato nell’e-normità dello spazio. Rimane anche l’impressione di assistere ad un laico pellegrinaggio fatto per l’adempimento di un voto.La morale di tutto questo è il bisogno di sovra dimensionare un simbolo per renderlo almeno pari allo sdegno che è stato provato quando si è diffusa la notizia dei fatti di Parigi.Edoardo Malagigi, Libertà di pensiero, libertà di matita, da Sensus a Firenze in v.le Gramsci 42 (solo su appuntamento pre-notando a [email protected]) e Sensus Vetrina di Fiesole in p.zza Mino 33 (visibile 24 ore al giorno)

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“La mia risposta alla domanda ‘Che fare con i nostri cri-minali?’ è ‘Non crearli’, e il

mio obiettivo è dimostrare che i nostri criminali sono il risultato inevitabile di un sistema erro-neo, sollevando così la saggezza della Natura e dei governati dal biasimo per la diffusa criminalità, che, peccando di presunzione, oggi viene completamente ed esclusivamente riversato su di loro”. (Chatham, 1787-Feltham, 1869) spiega così il senso della prima delle due “lectures” che la Liberilibri di Macerata propone al pubblico, con già nota audacia intellettuale e imprenditoriale, nel libro dal titolo “Crimine e Potere, due lezioni londinesi” (a cura di Alberto Mingardi, pagg. LXXIV-126, € 16.00). Chi fu Thomas Hodgskin? Un giornalista e uno scrittore appas-sionato, un geniale autodidatta, artefice di un pensiero situato in un crinale (reputato) incerto tra tradizione liberale classica (per l’indiscutibile riferimento a John Locke, ad Adam Smith e ai principi del libero scambio) e pensiero socialista (per quel suo

L’Architemario. Volevo fare l’Astro-nauta è l’esilarante libro, scritto da Christian De Iuliis, arricchito con 40 illustrazioni originali di Rober-to Malfatti, overview editore, che racconta le avventure della vita quotidiana degli architetti. A De Iuliis, fondatore di un mo-vimento artistico - culturale che si chiama “Lo Spiaggismo”, piace scrivere in maniera surreale sul me-stiere dell’architetto ed a Malfatti, anche lui da sempre architetto, esprimere con le vignette la sua passione del disegno: sono famosi i suoi cahiers du voyage.Ma non lasciatevi ingannare: non si tratta di un libro solo per gli architetti, quanto di un libro per tutti dato che, oggi, in Italia, tutti hanno a che fare con gli architetti.Nei paesi con pochi architetti, Regno Unito, Francia, Spagna Olanda, con densità che variano tra 0,3 e 0,5 architetti per 1000 abitanti, gli architetti riescono ad esercitare la loro professione, ma in Italia dove si arriva a 1,3 laureato su 1000 abitanti, molti devono

dedicarsi ad altro o vivere marginalmente la profes-sione. E’ normale che in questo contesto, in maniera surreale, a tratti disincanta-ta, certamente irriverente, l’Autore sciolga vari dubbi: per esempio che l’architetto in nero non è quello vestito di scuro, oppure che non esistendo più lavoro, in Italia, si sia di fatto estinto il datore di lavoro e l’architetto sia costretto a diventare donatore di lavoro!Ci viene fatto notare anche che l’architetto invecchia molto più lentamente dei comuni esseri umani in quanto si comincia a fare l’architetto già con i principi di calvizie (per l’uomo), menopausa (per la donna) e capelli bianchi (per entrambi) per cui a 50 anni si è ancora considerati giovani architetti! Se per fare l’architetto ci vogliono i capelli disordinati ed un vestire un po’ casuale allora

anch’io mi spiego perché mi hanno sempre chiamato architetto, forse riferendosi a quello “dentro”, ovvero quello che usa normalmen-te il termine “a cardamone” e che, naturalmente, tiene AD sul como-dino! Ambedue gli autori guidano i lettori a scoprire una figura professionale tra le più eclettiche del panorama italiano descrivendo con ilarità le vicissitudini che ogni architetto vive nell’esercizio della professione nella società contem-poranea italiana. Tutte le profes-sioni hanno un lato paradossale,

un aspetto del quale sì può ridere di gusto o amaramente, ma quello dell’architetto, che nonostante tutto risulta ancora un mestiere affascinante, in Italia, purtroppo è dominato dalla burocrazia.Dunque, nonostante l’architet-to goda inaspettatamente della fiducia e della stima della popo-lazione italiana, sembra svanita la centralità dell’architettura che Vitruvio ci forniva duemila anni nel De Architectura, affermando come “in architettura si ritrovano due elementi ‘ciò che è significato’ ovvero l’oggetto in questione, e “ciò che lo significa” ovvero la dimostrazione condotta secondo il metodo razionale della scienza.”Nell’Italia di oggi l’architetto non è più al centro della società, oggi l’architetto opera in solitudine essendo spesso utilizzato da poli-tici, committenti, amministratori, finanziatori, costruttori, ed è diffi-cile per Lui poter dimostrare, che la qualità prima per l’architetto, come sosteneva Giovanni Miche-lucci, è quella di seguire un pensiero rivolto alla città come rifugio per l’uomo.

La rispostaal crimine

L’architemario

talista). Hodgskin venne arruolato appe-na dodicenne nella “Royal Navy” e vi militò per dodici anni, facen-dovi carriera ma anche soffrendo la ferrea disciplina, la realtà brutale dell’ambiente: potrebbe essere qui l’imprinting, la ragione della sua vocazione libertaria.Le due lezioni risalgono al 1857 ma la qualità e l’incedere dei testi sono apprezzabili anche dal letto-re moderno. Mostrano una certa padronanza dei dati empirici e sfidano le diffuse ‘certezze’ circa la necessità e strumentalità di un potere statuale ad operare per il benessere dei consociati: infatti, è il potere stesso a creare il crimine, nella misura in cui i detentori del potere sono avidi e impongono tasse e leggi a esclusiva tutela dei propri interessi. In tal modo viene meno il rispetto per le proprietà altrui e le classi povere

(educate dall’esempio delle classi elevate) sono indotte a ritenere che i beni possano essere depreda-ti. Per Hodgskin non c’è bisogno di “più magistrati, di più polizia, di più cappellani, (…) . La gente desidera più cibo, più vestiti, più comodità, più lussi, più diver-timenti, più vacanze, più libri, più tempo libero, più attività intellettuale e meno attività cor-porali. (…). Tutti questi desideri possono essere soddisfatti da più libertà e meno tassazione. … La concorrenza senza restrizioni, che la natura istituisce, dev’essere la regola per tutte le nostre transa-zioni, (...).”Quanto alla possibilità di un cambiamento politico, non si potrà ottenere per via legislativa: il suo vero motore era e resta un mutamento spontaneo dell’opi-nione pubblica. Nella irrisolta tensione tra diritto naturale e diritto positivo, tra le-galità e giustizia, spicca essenzial-mente l’attualità della riflessione di questo autore. Coloro che presero parte alle sue conferenze rimasero per lo più sorpresi, se non scioccati dalle sue parole inaudite. E noi? Noi, a questo punto della storia, davvero no.

di Paolo [email protected]

di roberto [email protected]

“Labour Defended Against the Claims of Capital” - una delle sue tre più importanti opere - cui deve la fama di autore anticapi-

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Finalmente la mostra-evento, pubblicizzata per due mesi con grandi cartelloni giallo

oro nelle stazioni del metro pari-gino, si è aperta e durerà fino al 21 luglio. Il titolo è Klimt e il suo tempo. Già esposta l’anno scorso al Palazzo Reale di Milano con il supporto del Sole 24 Ore Cultura e Arthemisia, viene presentata a Parigi alla Pinacothéque in Place de la Madeleine 28 offrendo, rispetto a quella italiana, una maggiore attenzione all’influenza dell’Art Nouveau francese nella corrente secessionista viennese. Attraverso195 opere, dai primi studi accademici fino ai capola-vori del periodo d’oro, e docu-menti personali provenienti da musei e da collezionisti privati, la mostra ripercorre l’evoluzione di Gustav Klimt (1862/1918), massimo artefice della secessione. In esposizione anche mobili, gioielli e ceramiche che testimo-niano come questo movimento, nato alla fine dell’800 a Vienna, al tempo luogo fervido di stimoli e suggestioni in tutti i campi, raggruppasse artisti, musicisti, scrittori e architetti in un con-cetto di arte totale che cercava di superare i tradizionali confini tra differenti discipline. L’artista, secondo questa visione utopistica, aveva il ruolo di “redentore” in lotta contro il materialismo della società del tempo che ostacolava la libertà dello spirito e della creatività. Il manifesto-simbolo di questo concetto è rappresentato dall’enorme Fregio di Beethoven, riprodotto nella mostra di Parigi a grandezza naturale, eseguito da Klimt nel 1902. L’opera rievoca la Nona Sinfonia del compositore tedesco nell’interpretazione che ne diede nel 1846 Richard Wa-gner, modello per i secessionisti per le sue idee sull’unità dell’arte. Fu presentata al Palazzo della Se-cessione per la XIV mostra degli artisti del movimento dedicata a Beethoven la cui opera veniva riconosciuta come l’esaltazione dell’amore e dell’abnegazione, le sole che potessero redimere l’uomo. Il fregio alto 2.16 si sviluppava come ornamento continuo per 34 metri sulle tre pareti dell’ingresso immergen-do subito il pubblico accorso all’esposizione in un’esuberante sinfonia di figure flessuose e preziosi colori nell’atmosfera

di un opera totale di pittura, musica e teatro. Klimt lo dipinse direttamente sulle pareti e pur impreziosendolo con inserti di pietre dure e madreperla pensava che l’opera sarebbe stata distrutta alla fine della manifestazione. Invece fu acquistata dal collezio-nista Lederer, diviso in 7 pezzi e rivenduto nel 1973 allo Stato austriaco che la restaurò e dal 1986 è esposta in una sala creata appositamente al Museo della

Secessione a Vienna. Il fregio ha l’andamento di un racconto epico diviso in tre parti: l’Anelito alla felicità, le Forze ostili e l’Inno alla gioia. Narrando del viaggio che un cavaliere dall’armatura d’oro e il volto di Mahaler compie per raggiungere la sua donna, Klimt voleva rappresentare la condi-zione esistenziale dell’artista che, spinto dal desiderio di affermare il regno dell’arte, si incammina in un lungo e doloroso percorso di

L’Inno alla Gioiadel redentore Klimt

lotta interiore ed esteriore, fatta di ottusità materiali e corru-zione della società, per arrivare alla propria identità e al Regno dell’arte. Il cavaliere del Fregio, artista redentore, dovrà sconfig-gere le forze del male e resistere alle tentazioni sotto le sembianze del mostro Tifeo dagli occhi di madreperla e la coda di serpente e di pallide fanciulle con il volto se-gnato di sangue e le rosse chiome serpeggianti. Nell’ultima parte del Fregio, la scritta biblica “ il mio regno non è di questo mon-do” e il cavaliere nudo, spogliato della sua corazza, visto di spalle, che alla fine di tutte queste prove abbraccia una donna. La critica ha dato una doppia, contrastante, lettura di quest’ul-tima scena: Il cavaliere celebra il suo eroico trionfo sulle forze del male abbracciando la Poesia, op-pure, il cavaliere, senza più la sua dorata corazza, nudo e soggiogato si arrende al Potere nell’abbraccio mortale con Eros. Considerato che dal 1972 l’Inno alla Gioia è l’inno ufficiale della Comunità Europea siamo più propensi, alla luce degli accadimenti, a favorire quest’ultima interpretazione.

di SiMonetta [email protected]

Ingredienti per 4 persone12 capesante fresche Atlantiche, grandi.500 pomodorini ciliegia3 cucchiai di olive nere tostate denocciolate10 foglie di basilico fresco10 foglie di origano fresco1 cucchiaio di prezzemolo tritato1 spicchio d’aglioolio extravergine d’oliva sale e pepe q.b.Procedimento: lavare i pomodo-rini, tagliarli in 4 spicchi, lasciar scolare un poco la loro acqua. In una padella antiaderente, scal-dare l’olio, l’aglio, le olive e le erbe. Non appena insaporisco-no versare i pomodori, lasciar rosolare a fuoco altissimo per 3 minuti, salare e pepare. Mesco-lare velocemente e spegnere il fuoco. I pomodori non devono diventare sugo, bensì rimanere quasi crudi ma insaporiti dalle erbe e olive.Preparare le capesante, toglien-do il loro corallo. Prendetele fra il pollice e l’indice nel loro sen-

Capesante atlantiche

so verticale, come se aveste fra le dita una rotellina, e tagliatele a metà, otterrete così due parti intere e non sfaldate.Salatale e pepatele, cospargetele di un filo d’olio. Mettete sul fuoco una padella antiaderente, lasciatela scaldare per 5 minuti senza alcun grasso all’interno. Aggiungete ora un filo d’olio e subito le capesante, dispo-nendole nella pentola come le

lancette di un orologio, in senso ora-rio. Dovrete sentirle reagire rumorosamen-te, friggere in padella. Lasciate-le rosolare pochi minuti e rigiratele dal lato opposto seguendo l’or-dine di entrata in padella, cioè dalla

prima all’ultima. Lasciate roso-lare ancora pochi minuti e poi scolatele. La cottura deve essere breve, altrimenti saranno gom-mose e non tenere. Disponete ora una cucchiaiata abbondante di pomodori e olive sul piatto di portata e adagiatevi sopra le capesante, sei per commensale. Spolverate con prezzemolo fre-sco e magari qualche fogliolina di basilico.

di MiChele [email protected]

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Yo soy el Tango - Tango è io tocco, tocco il mio e l’altrui corpo, tocco la

profondità della mia anima e la condivido. La musica diventa movimento interiore ed esterio-re, la comunicazione è corporea e costruita nel momento stesso del ballo, l’abbraccio è l’essenza del Tango e in esso le emozio-ni profonde escono dai corpi per sciogliersi in un’intimità oltre le parole, i corpi diventa-no essi stessi Tango. Il Tango ci trascina nei recessi di noi stessi e ne riemergiamo forti di una relazione passionale, la vita è entrata in noi per creare bellezza e armonia perché il Tango è magia, amore, vita. La Vita è Tango, il Tango è Vita e sono in un continuo e intenso dialogo tra loro questo ci dice Yo soy el Tango di Luis Algado, prezioso scrigno letterario che contiene amore. Ogni poesia è una nota del Tango della Vita, ha dolcezza ma anche la forza e la passione del Tango, la melo-dia entra in noi conducendoci, con intense emozioni, nell’es-senza della Vita stessa. Yo soy el Tango ci ricorda che la Vita non si ferma, la Vita ritorna, sempre, con questa sua avidità di vivere.

Il to

cco

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ango

di angela [email protected]

E’ cosa di donne la Bastarda di Istanbul, a partire dall’autrice la turca Elif Shafak, portata per la prima volta su un palcoscenico, al cast tutto femminile tranne il bravo Riccardo Naldini, ma soprattutto è femminile anche l’ironia, la perfidia, l’ossessione per la memoria che la storia racconta e che Angelo Savelli non tradisce mai, anzi esalta in un lavoro di ricostruzione e ricucitura in cui il romanzo vive e regge alla prova dello spettaco-lo. Un testo difficile da portare in scena, per il sarcasmo delle descrizioni, un ritmo di scrittu-ra importante che Savelli rende facendo interpretare ai perso-naggi oltre che se stessi anche il ruolo di narratore in terza per-sona, in un gioco di rimandi, di allusioni che tiene lo spettatore attaccato alla storia per tutte le due ore di spettacolo. Un testo

che gioca con le belle video scenografie di Giuseppe Ragazzi-ni perfette nell’aumentare l’atmosfera di sogno, di libro animato come quelli in cui, sotto la voce favola, si finisce per raccontare ai bambini sia il bene che il male del mondo. Per-ché è storia di bene e di male quella della bastarda, di piccole storie di sorelle e di grandi

storie, di tragedie familiari e di un genocidio di un popolo (quello armeno), di rimozioni ed espiazioni, il tutto raccon-tato anche con leggerezza e spirito, senza noia o retorica. E poi ci sono loro donne, attrici, trasportate e trasportatrici della storia: Serra Yilmaz e Valentina Chico, un chiaroscuro recitati-vo; così serafica l’una, quanto vitale, aggressiva l’altra. E poi le giovani, Diletta Oculisti e Elisa Vitiello, precise, puntuali, né ti-morose né spavalde e infine una Monica Bauco in evidente stato di grazia. Una storia di passati che si intrecciano, al di là delle più inimmaginabili conseguen-ze, di passati che non finiscono, di storie e Storia, di umanità e dunque di donne.La Bastarda di Istanbul, riduzio-ne e regia di Angelo Savelli, al Teatro di Rifredi di Firenze sino al 15 marzo

di MiChele MorroCChitwitter @michemorr

La bastardae le altredonne

Foto di Enrico Gallina

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Sarà per quel cartellone che è in metro ormai da diver-se settimane e che recita

“Molte donne escono dal lavoro e comincia per loro un’altra giornata di lavoro a casa. Quanto dura la tua giornata? Campagna per la corresponsabilità tra donne e uomini”, o sarà magari perché l’8 marzo è dietro l’angolo, o sarà per Eva, la sensibile, forte, divertente, acuta e raffinata protagonista, insieme al biblico consorte, di una splendida e moderna pièce teatrale tratta dal Diario di Adamo ed Eva di Mark Twain in scena al Teatro Bellas Artes di Madrid. Sarà forse anche per il ricordo di quei pannolini cambiati di recente a due picco-lissime gemelle accanto alla loro instancabile mamma, in azione a tutte le ore del giorno e della not-te. Sarà perché sarà, sta di fatto che, a pensarci bene, noi donne, che ci piaccia o no, perché a volte non ci piace mica tanto, siamo da Champions League.La squadra di Eva è decisamente meglio assortita, siamo di più, e questo è un fatto, e nella varietà, si sa, è più facile trovare qualità... A questo proposito mi vengono in mente certe statistiche che l’ultima settimana del 2014 il quotidiano El Mundo si è diver-tito a stilare e da cui ultimamente ho appreso che in Spagna – ma è parecchio possibile, benché non attestato, che quanto segue valga anche per l’Italia – le donne, rispetto agli uomini, sono quelle che leggono di più, studiano di

L’altrametàdel cielo

li moderni e multitasker – è possibile, benché non attesta-to, che ciò valga anche per gli italiani. Quelli che tra la partita di calcetto e la spesa passano alla posta per pagare le bollette, quelli che preparano il biberon delle 3 di notte e che da scuola portano le figlie a pranzo dalla nonna e poi di corsa a ginnastica ritmica e poi ancora a lezione di inglese. E penso siano tanti anche quelli che stirano con un occhio sui fornelli e quelli che girano come matti alla ricerca dei costumi di carnevale o quelli che accorciano le maniche alle tutine di Spider-man e Batman che i loro pargoli hanno ereditato dai cuginetti più grandi. Per non parlare di tutti quelli che smacchiano i polsini delle camicie e attaccano i bottoni, che non si limitano a far trovare la tavola apparecchiata, ma addirittura sono lì a spadel-lare alle nove di sera un attimo dopo essersi tolti la cravatta, e a cui non devi chiederlo neanche di caricare lavastoviglie o buttare la spazzatura. Sono proprio loro “l’altra metà del cielo” di Maot-setunghiana memoria, quelli che ormai oggi fanno tutto ciò che le donne facevano un bel po’ prima di loro.Sì, io lo so, me lo sento, sono molti, moltissimi, ma allora mi chiedo… Ma che bisogno c’era di tappezzare la città con un cartellone 2mx3m che invita alla “corresponsabilità”? Ormai, d’altronde, gli uomini, dopo l’ufficio, non vanno più a rifu-giarsi come Adamo su un ramo d’albero…

di valentina MonaCatwitter @valentinamonc

rebushispanico

Scavezzacollodi MaSSiMo [email protected]

più, consumano di più (cibo, abbigliamento, arredamento...), chattano di più, parlano di più (davvero c’era bisogno di perdere tempo per verificarlo statistica-mente?), e a volte sono anche

quelle che si fanno il mazzo un po’ di più – El Mundo questo non lo diceva, ma mi prendo la briga di aggiungerlo io. Anche se sono sicura che, in fondo, sono ormai moltissimi gli spagno-

Foto di Lourdes Hernandez

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Un pubblico attento e divertito, alla Libreria Salvemini di Firenze, ha seguito la presentazione del libro, un romanzo breve, intro-dotta da Mirko Tondi, critico e scrittore, con la partecipazio-ne degli attori Giulia Capone Braga e Renato Simoni, e con le illustrazioni del pittore Enrico Guerrini. “Un piccolo grande libro” – è stato detto – denso, complesso, riferibile a quel realismo magi-co che contraddistingue alcuni scrittori italiani ed europei. Un sopramondo lo pervade, un uni-verso ricco di campi magnetici. La linea gialla è il limite-confine fra il detto e il non detto fra le righe perché la fascinazione proviene dalla meraviglia, dall’in-canto che pervade la narrazione. La follia come concetto e visione pervade tutta l’opera, follia intesa come coraggio di manifestare il proprio sogno nell’incalzare degli eventi. Il racconto parte dagli eventi di un sabato d’agosto, nell’immi-nenza del Ferragosto, a Salorno, Val d’Adige, a metà strada fra Bolzano e Trento. La Valle in questa parte prende il nome “Stretta di Salorno”. L’Autostrada è gonfia di traffico in questa gior-nata da Bollino nero, colonne di macchine, incidenti; a fianco la

Statale, la ferrovia, la pista ciclabi-le, la piccola navigazione sull’A-dige. Per Salorno è una giornata di Festa per la riapertura dell’an-tichissimo Castello, dopo i lavori durati anni, sponsorizzati dall’im-presa Melinda, da case automobi-listiche tedesche, da case di moda nel ramo dei prodotti intimi. La Festa è per l’intero giorno e per la notte, la “Notte delle leggende”. E’ fissata una visita di stato in onore dell’amicizia Italo – Ger-manica. I servizi segreti, compresi quelli americani, vegliano sulla Festa con tutti i mezzi, attenti ad ogni possibile minaccia. A fianco dell’Autostrada si apre il cimitero delle macchine dove giacciono le carcasse delle macchine, vittime del traffico, consolate dai carri soccorso.E’ dunque una giornata speciale in un luogo speciale, dove le cose parlano fra loro e con gli ultimi di questo mondo, i folli, gli ubriachi, le persone deboli. Il libro ci guida lungo un percorso pieno di sorprese, di scatti ironici, animato anche dalle sorprese del racconto giallo: è la metafora, in definitiva, dei tempi duri, difficili che stiamo vivendo e il registro della narrazione, a scatti, nevro-tico, ricerca consonanze con le atmosfere che invadono i nostri tempi.

aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexCome le nuvole, le opere di carta di della Bella, fanno apparire quello che uno vuole: un cane inseguito da un postino, un cesto di cavolo prussiano, un treno dell’Alta Velocità in galleria etc. etc.Così lo Scottex 11 può essere una papera che dorme bocconi, il particolare di una mammella illuminata dalla luna o l’ultimo Iphone dell’Apple, il N° 7, camuffato per passare inosservato.Le nuvole e le opere del nostro artista hanno un’altra affinità fra loro: le prima cambiano forma ad ogni istante che passa, le seconde rimangono statiche fino al primo colpo di scopa che le fa finire nella pattumiera: la condizione effimera le unisce.

Sculturaleggera

Non oltrepassarela linea gialla

11di roberto [email protected]

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Lunedì 9 marzo ore 18.00, Alessandra Troncone presenta La smaterializzazione dell’arte in Italia (Postmediabooks). La smaterializzazione dell’arte in Italia è un percorso attraverso le mostre che, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, hanno pro-posto un nuovo approccio al momento espositivo, in termini di concept, allestimento, occupazione di spazi non deputati, apporto critico-curatoriale. A partire dai sei anni identificati dal critico ameri-cano Lucy Lippard nel 1973, il volume ripercorre la storia di alcune esposizioni realizzate in Italia nello stesso arco temporale, ricostruendone genesi e dibattito critico. Da Lo spazio dell’immagine a Contemporanea, passando per esperimenti quali Teatro delle mostre e il Deposito d’Arte Presente, emerge così tutta la complessità di un periodo

denso di trasformazioni, che investono la pratica artistica ma anche quella critica e curatoriale e di cui le esposizioni si fanno testo visibile e narra-zione ideale. Alla dimensione processuale dell’arte si accompagna quella della scrittura espositiva, documentata grazie alla ricerca di archivio con la pubblicazione di immagini in buona parte inedite.

Domenica 8 marzo 2015 alle 15,30 l’inti-tolazione del Teatro Studio (via Donizetti, 58) a Mila Pieralli, Sindaco di Scandicci dal 1980 al 1990 e Presidente della Provincia dal 1990 al 1995. L’evento si inserisce nell’ambito delle iniziative in programma a Scandicci in occasione della Giornata Internazionale della Donna 2015. L’ini-ziativa è introdotta dal Saluto del Sindaco di Mauthausen Thomas Punkenhofer e del Sindaco di Scandicci Sandro Fallani, al quale seguono alle 16,30 l’inaugurazione della nuova insegna del “Teatro Studio Mila Pieralli” e la rappresentazione “L’espe-rienza, la cultura, la concretezza di Mila; un dialogo tra Mila Pieralli e la sua storia” interpretato da Mery Nacci e Alessandro Calonaci su un canovaccio di Giuseppe Matulli, a cura di Giancarlo Cauteruccio. Per espressa volontà della famiglia nel corso della cerimonia d’intitolazione interviene Gigi Remaschi dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia Anpi

Venerdì 13 marzo alle ore 18,00, alla Casa del Popolo di Caldine, verrà inaugu-rata la “Raccolta di disegni e stampe” che numerosi artisti e il collezionista Carlo Palli di Prato hanno donato al Circolo.Opere di: Roberto Barni, Riccardo Benvenuti, Mau-rizio Berlincioni, Adriano Bimbi, Franco Bulletti, Umberto Buscioni, Danilo Cecchi, Andrea Chiaranti-ni, Claudio Cosma, Chiara Crescioli, Paolo della Bella, Kiki Franceschi, Aldo Frangioni, Danilo Fusi, Alessandro Goggioli, Marcel-lo Guasti, Francesco Gurrieri, Donato Landi, Riccar-do Luchi, Paolo Antonio Martini, Valerio Mirannalti, Vairo Mongatti, Virginia Panichi, Gianni Pettena, Andrea Prosperi, Raffaele, Giovanni Ragusa, Ines Romitti, Tommaso Rossi, Paolo Staccioli, Italo Tassi, Artemisia Viscoli, Rodolfo Vitone, Elisa Zadi.

La Cantina Antinori di San Cascia-no Val di Pesa di Archea finalista al Premio Mies van der Rohe Lo studio Archea è tra i cinque finali-sti del più alto riconoscimento nel campo dell’architettura europea

Il Teatro Studiointitolato a Mila Pieralli

Casa del Popolo delle Caldine, 34 artisti in mostra

Archea in lizzaper il premio Mies van der Rohe

La smaterializzazione dell’arte in Italia

in

giro

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di aldo FrangioniA Papa Francesco le altitudini aumentano a dismisura la voglia all’in-trattenimen-to amichevo-le e popolare: sono le famo-se chiacche-rate quando si trova sull’aereo. “I cristiani devono avere una paternità responsabi-le e di non fare come i conigli”. Ci chiediamo: perché non dire anche maternità responsabile? E soprattutto come devono fare i cristiani a non essere conigli? “Ci sono vie d’uscita lecite -dice France-sco – i catto-lici chiedano ai pastori”. La risposta è cambiare specie anima-le e diven-tare pecore, rimanendo nel greg-ge, avendo un padro-ne-pastore e magari un paio di cani a controllare.

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L

Facciamo un piccolo salto nella “City by the Bay”, come spesso la chiamano in gergo i suoi abitanti. Questa è la sua parte nascosta, quella interna, quella che a noi europei, abituati alla pietra, al mattone e al cemento, dà sempre un po’ l’impressione della precarietà di un “praticabile teatrale”. È chiaramente la parte invisibile di uno dei tanti edifici il legno che fanno bella mostra di se lungo le famose

strade a saliscendi e che, nell’immaginario collettivo, caratterizzano la città agli occhi di tutto mondo. Questa settimana ho deciso di rendere giustizia ad un aspetto decisamente più modesto ma non per questo meno importante di questa città così famosa e così tanto sognata.

San Francisco, California 1973

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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