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N° 1 21 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Blade Eugenio Io ne ho viste cose che voi elettori non potreste immaginarvi: Vele elettorali in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto lodevoli iniziative balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come stuzzichini sul banco del buffet. È tempo di votare.

Cultura Commestibile 121

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N° 121

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

BladeEugenio

Io ne ho viste cose che voi elettori non potreste immaginarvi:

Vele elettorali in fiamme al largo dei bastioni di Orione,

e ho visto lodevoli iniziative balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.

E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,come stuzzichini sul banco del buffet.

È tempo di votare.

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due strade. La prima è quella di considerarle strutture di supporto per gli italiani all’estero (tanto quelli che vi risiedono tempora-neamente, quanto gli italo-ame-ricani). La seconda è considerarli degli strumenti attraverso cui suscitare interessi per la cultura italiana negli americani. Questa seconda è ovviamente più com-plicata, però a mio avviso molto più interessante. Io penso che gli istituti di cultura dovrebbero es-sere strumenti di promozione del “sistema Paese”, come dicono al Ministero. Quindi strutture che si rivolgono agli americani; che incuriosiscono gli americani che poi possono decidere di andare in Italia, o di studiare l’italiano o, comunque, di interessarsi al no-stro Paese. Perché il problema che noi abbiamo è che il nostro Paese ha una immagine molto debole in quanto Paese, ma gli italiani hanno una immagine molto forte all’estero. Quindi vorrei seguire la seconda strada.In secondo luogo, io credo che uno degli strumenti di promozio-

ne dell’Italia all’estero sia anche la sua lingua, che poi è una delle cose che pesano di più nella sua identità nazionale. Trovo che sia una forma di provincialismo il fatto che la maggioranza delle iniziative che vengono fatte negli Istituti di Cultura si svolgano nella lingua del posto. Certo posso pormi il problema che chi non sa l’italiano abbia a disposi-zione degli strumenti per capire (traduzioni simultanee o conse-cutive). Ma se andiamo all’Ame-rican Accademy a Roma o nelle varie strutture francesi sentiremo parlare in inglese nel primo caso e in francese nell’altro, non il tedesco a Berlino o l’italiano a Roma. Diverso è se organizzo una conferenza stampa. Ma in linea di massima, siccome io cerco di promuovere una cultura, il primo strumento di promozione è la lingua.Terza questione: io non credo che il problema sia la quantità di cose che fai, bensì la loro qualità e que-sto vale tanto più in una situazio-ne come New York dove succede

di tutto, e anche la cultura italiana ha molti spazi.. Per esempio in au-tunno c’è una grandissima mostra al Guggenheim su Burri: ne devi tenere conto e non puoi fare all’I-stituto Italiano di Cultura, che so, la mostra dei medici che dipin-gono! Io vedo, ad esempio, che le iniziative musicali in queste nostre strutture all’estero sono davvero di bassa qualità: non è quello che dobbiamo fare. A New York ci sono così tante strutture, da Casa Zerilli Marimò che è di NYU al “Primo Levi” Center che ha aper-to anche una libreria italiana, al Dipartimento di Italianistica della Columbia University, ai musei che fanno mostre sull’Italia: penso quindi che mettere insieme questi soggetti – che invece di solito sono molto gelosi della propria autonomia – o anche cercare di aiutare questi soggetti per esempio ad ottenere i prestiti o a metterli in contatto con strutture italiane, sarebbe già un grande lavoro.Penso, infine, che quando si dice “cultura”, per quanto io non sia per usare in modo troppo ampio questo termine, bisogna dire che sono cultura italiana anche il design, la moda, il cibo. E queste cose sono anche dei grimaldelli attraverso i quali puoi far passare altre parti della cultura che hanno minore visibilità su un mercato globale.Parlando di New York, qualche tempo fa era uscito su qualche giornale il modo con cui gli ameri-cani considerano l’Italia, cioè come un paese poco affidabile. Ma qui parliamo di cultura, per la quale si ritiene tradizionalmente che l’Italia abbia un primato, anche se oggi lo si avverte meno. Che immagine pensi di trovare lì dell’Italia e come pensi di interagirci?Qualche anno fa ho fatto un lavoro per un’associazione che si chiama “Alta Gamma”, che è una fondazione che mette insieme una serie di imprese del lusso o dell’alta qualità, e pubblicam-mo anche un volume dal titolo “Bella e possibile” che rispondeva, appunto, alla domanda su come si possa promuovere l’Italia verso l’e-stero. Tenuto conto dell’immagine molto forte che hanno gli italiani, intesi come singoli. Se chiediamo ad un newyorchese cosa pensa di un italiano, lui penserà che un italiano ha sempre un potenziale. Quindi un italiano porterà un di più di creatività, inventiva,

giorgio Van Straten è fresco di nomina alla direzione dell’Istituto Italiano di

Cultura a New York; prenderà ser-vizio a luglio. Ci concede questa intervista “a caldo”: ha appena avuto il tempo di prendere atto della nomina e di cominciare a pensare a cosa vorrebbe fare in questo ruolo, ma soltanto all’in-domani di questa intervista andrà alla Farnesina a prendere informa-zioni e dettagli sull’incarico.Prendiamo subito di punta il problema: gli Istituti Italiani di Cultura all’estero sono per lo più considerati come degli antichi cascami di un vecchio modo di fare diplomazia da un lato e, dall’al-tro come dei salotti per elité più o meno decadenti. Ora, conoscendoti, immagino che andrai a New York per cambiare questa immagine. O pensi che questo sia uno stereotipo e che la realtà sia anche diversa? Se si va a vedere i servizi che questi Istituti svolgono (formazione, aiuti agli italiani all’estero, borse di stu-dio, corsi), si capisce che sono anche altro. Ecco, come ti immagini di svolgere questo ruolo?Intanto, devo premettere che parlare prima di andare sul posto è abbastanza complicato. Ciò di cui mi sono reso conto in questi anni quando mi è capitato di avere a che fare con Istituti Italiani di Cultura all’estero, è che ovviamente chi concretamente è lì – in primo luogo il direttore, ma anche il resto del personale – fa l’Istituto. Noi non siamo un Paese in grado di dire che ogni struttura deve fare la promozione cultura-le nello stesso modo; e quando succede, diamo il nostro peggio, burocratizzando e appiattendo il nostro modo di lavorare e la nostra immagine. Tutto dipende da chi è lì, sul campo. Mi ricordo quando c’è stato Guido Fink a Los Angeles o Gioacchino Lanza Tommasi a New York, che hanno fatto un gran lavoro. Sono ruoli che si basano molto su rapporti, relazioni, non solo in loco ma anche che ti porti dietro dalle esperienze precedenti; quindi sulla possibilità di portare personaggi interessanti. La cosa di cui sono sicuro (ed è una discussione che ho fatto anche ai tempi in cui ero nel CdA della RAI, perché la que-stione è analoga a quella di “Rai Italia”) è che si possono seguire

Un fiorentinoa New York

di Simone [email protected]

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fantasia. Poi, però, il sistema paese ha un’immagine pessima: non funziona niente, la burocrazia è soffocante, ecc. Noi dovremmo cercare di avvicinare queste due immagini, che sono entrambe un po’ stereotipate, perché se il paese facesse davvero così schifo come si crede, allora anche le persone che crescono in quel paese dovrebbero essere mediocri. E’ un po’ come il nostro sistema dell’istruzione: se fosse così pessimo, perché quando vanno all’estero i nostri studenti o studiosi sono fra i migliori? Bisognerebbe riuscire a collegare di più e a far essere molto più presenti dentro questi Istituti di Cultura (che sono emblematica-mente dello Stato) queste capacità italiane e farle vedere. Così da sta-bilire nel pubblico internazionale il legame fra questi due aspetti, eccellenze individuali e paese. La difficoltà in questa operazione è data dal fatto che, certamente c’è una grande tradizione e per certi aspetti un grande presen-te, ma l’interesse per l’Italia ad esempio come lingua in una serie di realtà (in Gran Bretagna, per esempio) appare in calo,, anche per il motivo banale che l’italiano non è fra le lingue più parlate nel mondo. E’ una crisi che, in misura minore, riguarda anche il tedesco, il francese: ma questo è un problema dell’Europa.Noi abbiamo una grande quantità di studenti americani che vengono in Italia (e in particolare a Firen-ze). Perché scelgono l’Italia’ Cosa ri-tengono del periodo che trascorrono qui? E, soprattutto, come si sviluppa questo rapporto con l’Italia e cosa ne rimane quando tornano negli USA? Qui vedi un ruolo dell’Istituto?Non so. Tutti gli studenti italia-ni che vanno con l’Erasmus in Spagna non credo che ritengano molto della cultura spagnola e non so fino a che punto scelgano quella destinazione per un interesse per la cultura spagnola. Ho l’impres-sione che molti di questi ragazzi americani che vengono a studiare in Italia, lo fanno perché vengono in un posto dove non ti fanno sto-rie per gli alcolici, dove si mangia bene e ci si diverte. Qui, è vero, ci sono molte università statunitensi con proprie sedi e programmi, ma tuttavia non stabiliscono un lega-me molto forte con il territorio. Intanto, sarebbe interessante capire da dove vengono questi studenti, da quali luoghi degli Stati Uniti,

Intervista a Van Stratenappena nominatodirettore dell’IstitutoItaliano di Culturanella Grande Mela

perché questo fa una notevole differenza. In questo senso New York è una città molto particolare e difficile. Quando ho fatto il colloquio come candidato all’Isti-tuto di New York, ho evidenziato come il problema lì sia riuscire a comunicare anche le cose buone che si possono eventualmente fare perché è un posto in cui accado-no talmente tante cose, di livello così alto, che obiettivamente è difficile dare risonanza a quello che si fa. Ma d’altro canto, non possiamo neppure ridurci a fare iniziative con cinquanta anziani nostalgici del paese in cui, magari, non sono neanche mai stati, ma comunque vengono perché li fa sentire un po’ a casa ascoltare l’inflessione italiana. New York è piena anche di cultura italiana: il problema è tirarla fuori. C’è tanta Italia lì: Renzo Piano, per dire il maggiore, tanti professionisti, intellettuali che occupano ruoli di responsabilità. Sono lì ed ognuno ha probabilmente una visibilità in quanto singolo: bisogna tentare di costruire una serie di fili fra loro, in modo tale che alla fine il fatto che questi siano tutti italiani appaia palesemente l’elemento unificante.Parlami della “tua” New York. Tu la conosci bene e la frequenti. Qual è il tuo luogo preferito nella Grande Mela? E’ una città complicatissima:

tenere le fila o anche avere la sola percezione di tutto quello che vi ac-cade, è un’impresa ardua; e tuttavia è città davvero unica.Sì, è difficile tenerne le fila e soprattutto c’è questo continuo mutamento, per cui i riferimenti cambiano in continuazione: trovi un posto bello o particolare, ci torni dopo due anni e non lo trovi più, sostituito da un’altra cosa. Da un lato è la città in cui, dopo Firenze e Roma, ho trascorso più tempo, quindi dovrei dire che la conosco. E in effetti, quando ci vado, mi sembra di conoscerla. Allo stesso tempo hai sempre questa sensazione che quello che conta di più sta succedendo in questo momento, in un luogo della città dove però tu non sei; ti senti sempre un passo indietro rispetto alle cose importanti che accadono. Ed è una nevrosi.Quello che più amo di New York è la luce, nel senso che la ho sem-pre pensata il contrario di Roma: Roma è una città che ha una luce malinconica, mentre la luce di New York non lascia alcuno spazio alla malinconia; ti dà una specie di senso energetico.Posso anche dire che la cosa che mi piace meno di New York è il rumore.Vivere per un periodo a New York è uno dei sogni della mia vita. Ne avevo tre: partecipare ad un’Olim-

piade, anche nel tiro al piattello, ma parteciparvi; fare il crooner, il cantante confidenziale; stare un anno in un college. Questa cosa che mi succede ora, assomiglia molto a quest’ultimo desiderio: fare un’esperienza totalizzante in un altro paese.Vi sono molte parti di New York che mi piacciono, anche non a Manhattan. Adoro fare a piedi il ponte di Brooklyn e ritrovarmi nel quartiere di Dumbo. Mi piace un posto con le case basse con l’edera sulle facciate sull’East River che si chiama Sutton Place. Mi piace moltissimo la Frick Collection, perché preferisco i musei piccoli: quelli grandi, intendiamoci, sono bellissimi ma mi danno la vertigi-ne. Al Metropolitan in un giorno normale vicino a Natale entrano circa 50.000 persone. Invece alla Frick Collection ci sono pochi quadri, tutti capolavori, e hai la possibilità di osservarli con il tempo e l’attenzione necessari.Per quanto la cultura non sia petro-lio, ovviamente esiste un significato economico della cultura: imprese che operano in questo settore, di ogni tipo; ricadute economiche delle iniziative culturali. Come pensi di poter vivere e gestire questa relazione?Intanto gli stessi soggetti indu-striali che producono quell’ogget-to di design, o quella bottiglia di vino, o quella giacca di pelle, ti direbbero – in modo non retorico - che nel loro prodotto è incorpo-rata una quota di quella cultura perché quelle forme di sensibilità, gusto, capacità di lavoro artigia-nale che esistono in Italia nascono da una storia, che è la nostra cul-tura. Quindi, quando vendiamo la Ferrari, che pure è un prodotto estremamente tecnologico, stiamo vendendo anche un modo di vivere. Secondo me quello che noi dobbiamo riuscire a far capire è che questo modo di vivere si riproduce. Ovviamente, in ogni epoca si riproduce in modo diver-so, e ci sono epoche in cui hai Fel-lini o Bassani e epoche in cui non ce li hai. Però bisogna evitare che gli americani si riducano a pensare che l’Italia sia ancora Napoli, spaghetti e mandolino, oppure – come nel caso di un film, per certi aspetti molto bello, come “La grande bellezza” - Via Veneto, gli anni ‘60, Fellini, perché siamo nel 2015 e credo che abbiamo anche oggi le nostre carte da giocare.

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Prosegue senza soste la campagna elettorale dell’uomo-trottola, l’Har-lem Globe Trotter di casa nostra, l’immarcescibile Eugenio Giani, che – oh ,lodevole iniziativa – è stato finanche premiato dall’U-nione Imprese Storiche Italiane in occasione della rassegna “Futuro Antico”. Si potrebbe pensare che quei mattacchioni dell’UISI lo abbiano premiato perché, essendo la rassegna inserita nelle celebrazioni per i 150 anni di Firenze Capitale, un’idea originale poteva essere premiare Giani che del Comitato per le celebrazioni è presidente (ma, alla fine, di cosa non è presidente?)... e invece no, malfidati pettegoli! Lo hanno premiato perché Eugenione impersonifica ciò che l’UISI ha inteso premiare, cioè i migliori 10 corti che raccontano alcuni tra i più longevi brand italiani. Ora, Eugenio corto non è, ma quale più longevo brand di lui che da 30 anni calca, senza soluzione di continuità, le

istituzioni cittadine a dispetto di cambi di alleanze politiche e di rot-tamazioni varie? Per dirla con le sue

stesse parole: “Un modo affascinante per celebrare le grandi eccellenze del made in Italy!”

riunione

difamiglia

Va beh, la “prima” del “Fide-lio” al Maggio è andata come è andata: ridotta in formato concertistico, fra grida manzo-niane e ardor di polemiche per lo sciopero indetto dalle mae-stranze. Il Nardella inferocito, più verdiano che beethoveniano: “di quella pira l’orrendo foco; tutte le fibre m’arse, avvampò! Empi, spegnetela, o ch’io fra poco col sangue vostro la spegnerò!” E se non glieli levavano di sotto le mani i lavoratori della GCIL, il Nardella furioso li avrebbe dav-vero annegati nel loro stesso san-gue. Ma la cosa più complessa è stata spiegare al Giani la trama del “Fidelio”. Tutto invalvolato per la semifinale di coppa Uefa, Eugenio era convinto che l’opera del maestro di Bonn fosse in real-tà una parodia per irridere alla Viola. In fondo l’azione si svolge in una prigione a qualche miglio fuori da Siviglia; don Pizarro è il governatore della prigione in cui ha fatto imprigionare ingiu-stamente il suo nemico personale Florestan; e poi c’è quel Jaquino che s’invaghisce di Marzelline, la figlia del carceriere. Tanto che il Giani è entrato in teatro, petto in fuori e mento in alto,

urlando: “Questi fetenti della CGIL non hanno più rispetto neppure per le nostre glorie cit-tadine: Pizarro e Joaquin non si toccano e meno che mai la Fiore. Fate pure tutti i vostri scioperi del cavolo contro i Jobs Act, ma

non prendete per il sedere la Fiorentina!”. C’è voluta tutta la pazienza proverbiale del Maestro Zubin Metha a spiegargli che Ludwig non voleva, mai e poi mai, mancare di rispetto alla sua squadra del cuore.

Alla Barbara D’Urso le zanzare non le fanno un baffo. “Quanto guadagni Barbara?” le hanno chiesto quegli impertinenti de “La Zanzara”. E lei, giuliva come sempre: “Dieci volte meno di quel-lo che immaginate”. Così il sito Firmiamo.it l’ha sfidata a vivere con 1.000 euro al mese, come fanno 7 milioni di italiani. Alla Barbara nazionale non manca certo il coraggio e ha accettato la sfida. Naturalmente, hanno precisato quelli della petizione, “in questi soldi deve essere tutto compreso: bollette, spesa, pulizie, benzina, eventuali mutui o prestiti e tutto il resto”. La Barbara ha battuto il record (megativo) della Gwyneth Paltrow che, sfidata a vivere con 29 euro la settimana per contribuire alla nobile causa della ltta alla fame, era caduta il quarto giorno e ha commentato sul suo blog “Ora sono consapevole che è impossibile nutrirsi con quella cifra per una settimana, che è poi quello che i cittadini con un basso reddito hanno a disposizione”. La Barbara aveva però di fronte un compito ben più arduo: se la Pal-trow aveva acquistato riso scuro, fagioli neri, piselli, uova, tortillas, lime, coriandolo e verdura, la D’Urso ha dovuto recarsi dopo la prima ora dal chirurgo plastico per una... caduta di tensione. Ma il chirurgo, sebbene di fiducia e fornitore abituale della soubrette, le ha risposto che con 1.000 euro poteva al massimo tirarle su un po-chino l’alluce del piede sinistro. La D’Urso ha issato subito bandiera bianca con un video su Youtube in cui cantava: “Se potessi avere, 1000 euro al mese senza esage-rare, sarei certa di trovare tutta la felicità. Una tiratina alla mia periferia, un ritocchino alla mia culotte, sodo come un bel tacchino, tutto fatto in una notte”.

le Sorelle marx lo Zio di TroTZky

i Cugini engelS

Il brand di Eugenio Millee non piùmille

Semper Fideli(o)s

BoBo

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L’altro FontanaL’immaginazione dell’uo-mo moderno è assoluta nello sconfinare i limiti del

proprio essere e la forza creatrice della mente umana è capace, non solo di creare il mondo, ma di ri-crearlo, appagando le esigenze emotive e psicologiche delle coscienze collettive, spesso ignare di vivere e condividere la medesima ansia espressiva. Nel momento in cui gli intellettua-li hanno avvertito lo stato di crisi della cultura novecentesca si è reso necessario attuare un rinnovamento, operando con-cretamente una vera e propria controproposta poetica, lettera-ria, artistica e, di conseguenza, culturale. L’incondizionata tensione naturale dell’uomo a trovare nel pensiero divergente lo strumento di comunicazione ed espressione per eccellenza, ha portato gli artisti a porsi oltre la modernità alla ricerca di una via di fuga dal labirinto delle retoriche. Non a caso la prassi sperimentale rivela il desiderio di imporsi concretamente sull’e-vento artistico con l’obiettivo di ristabilire i rapporti tra il modo di concepire il mondo, la storia, la realtà e l’opera d’arte, adesso intesa come sintesi di ideologie che nell’atto creativo divengo-no riflessioni estetiche, azione creativa e segno verbale dalle tonalità linguistico-iconografi-che. Si tratta della consapevo-lezza dell’artista di vivere in una dimensione culturale diversa, che esige l’affermazione di una nuova libertà poetica, aperta a soluzioni formali nuove e capaci di rinnovare il linguaggio esteti-co nella sua totalità di essere in-sieme espressione concettuale e rappresentazione comunicativa. In tale dimensione si inserisce perfettamente la prassi poetica e teorica di Giovanni Fontana, la cui opera è tesa a mettere in luce il bisogno sempre attuale di una connessione intermediale fra la parola poetica e le arti fi-gurative, poiché la commistione dei codici espressivi è una delle poche modalità attuali in grado di analizzare le pretestualità e unire ai principi della Poesia Totale la gestualità e la corpo-reità del personaggio estetico che mette in scena se stesso e la propria forza comunicativa.

A sinistra “Plafond”, 1971 Collage su antica stampa litografica, a destra “Plafond”, 1971, Collage su antica stampa litograficaSotto a snistra Indovina chi viene a cena, 1997, Tecnica mista e collage su tavola. A destra Sani e belli, 1997, Tecnica mista e collage su tavola. Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected]

L’opera d’arte, la performance e l’atto estetico ampliano la portata del messaggio dell’ar-tista che, attraverso l’ironia e la materia sonora, rivela la

parola percepita finalmente al grado zero della sua esistenza: un esercizio pluri-artistico e plu-ri-linguistico, che trasfigura la poesia in arte totale, in un’ope-

razione di fusione delle arti, in cui la ricerca di nuovi espedienti formali comunicativi approda a una dimensione “ultra-verbale” originale e inedita.

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San Donato in Polverosa era un borgo, al di là del ponte di San Donato, di

cui non si ha più traccia, né, in tutti gli studi e le ricerche su Novoli, si trovano riferimenti iconografici di questo insedia-mento agricolo raso al suolo durante la costruzione degli stabilimenti della Fiat degli Anni Trenta.Si citano: Novoli, M.Biagi, Electaarchitettura, 2008; San Donato in Polverosa, Parrocchia San Donato, tipolitografia .E. Ariana, feb.1990; San Donato a Novoli-Firenze, P.Giovannini e G. Potestà,, Polistampa Firenze, set.2004; Novoli le chiese,le ville i casali, Marco Conti-Vin-cenzo Migliore, circolo M.C.L. ll Barco, feb.1989.Ho chiesto anche all’Archivio storico della Fiat a Torino, da cui ho ricevuto una messe di contratti, ma nessuna foto del borgo; come non esiste niente presso l’archivio Alinari ed altre fototeche fiorentine.La cancellazione di un borgo composto da cascine e casolari , alcuni dei quali di origine storica, fu totale.Su La Nazione, 20 agosto 1938 si legge: “Intanto, da qualche giorno è stata iniziata la de-molizione delle case coloniche e degli altri edifici…perché il Duce vuole Firenze adorabile, sì, ma anche fascistissima”. Dove “fascistissima” significava l’azzeramento di un’urbanistica di natura umanistica, tanto che nel medesimo articolo si legge che i contadini in questione non avrebbero perso il lavoro perché sarebbero stati usati nell’abbatti-mento degli edifici, nello scavo e nel livellamento dei terreni.Continuando la ricerca ho trovato, presso l’Istituto degli Innocenti, il cabreo del podere di San Donato in Polverosa che copriva l’intero spazio che attualmente va da Via Sandro Pertini, dov’è l’hotel Hilton, Piazza Ugo di Toscana e Via Forlanini.Uno spazio di molti ettari dove ora ci sono sedi universitarie ancora definito San Donato.Le cascine erano collocate pro-prio di fronte all’hotel Hilton, in un riquadro di verde recin-tato con rete di plastica come

Un borgo calcellato

di FranCo [email protected] Firenze, Roma, Parigi e Monaco

mandava i suoi paesaggi pieni di atmosfera alle esposizioni di turno della associazione d’arte svizzera e alle mostre della casa degli artisti (Kunstlerhaus) di Zurigo. Ebbene, nel febbraio del 1885 si trovava a Firenze ed eseguì alcuni disegni a Fiesole, a Bo-boli e, appunto, a San Donato in Polverosa dove rappresentò, con particolarità di dettagli la cascina omonima.Dal Curriculum vitae: Neue Zi-ircher Zeitung 1899, N.° 192, Morgenbeilage. Brun, Verzeich-nis der Kunstwerke, 4. Auflage (Edizione), p. 50. - Catalogue Exposition national suisse, Genève, 1896, p. 20. (P autore) H. Appenzeller ricaviamo que-sto piccolo medaglione:“Di questo artista recentemen-te è stata tenuta a Zurigo una Mostra commemorativa.. Con il paesaggista Heinrich Nàgeli (1841-1936) viene messo al Kunsthaus di Zurigoun un arti-sta in apparenza quasi comple-tamente dimenticato. Originariamente attivo come commercialista, fu incoraggiato da Robert Ziind in uno studio serio e si dedicò dal 1884 alla carriera artistica. Egli cercava di preservare la visuale libera per ampi paesaggi con massicci possenti e boschi in una pittura atmosferica, ma dai toni piuttosto seccchi.”Si deve dunque a questo paesag-gista se rimane almeno un’im-magine dell’antico borgo di San Donato in Polverosa.

si vede dall’annessa mappa catastale. Ma la scoperta più avvincente è stato il ritrovamen-

to di un disegno del 1885 di un pittore svizzero, Heinrich Nàg-eli, che dai viaggi di studio a

Scavezzacollo

di maSSimo [email protected]

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Un modo di progettare “rivo-luzionario” che fu per primo percepito da Edoardo Persico e pienamente compreso e divulga-to da Bruno Zevi, che fu il vero esegeta dell’opera di Wright. Gurrieri si dilunga giustamen-te sull’opera di Bruno Zevi e sull’importanza dei suoi scritti per comprendere completamente la lezione di Wright. Nel suo libro “il Linguaggio dell’archi-tettura moderna” Zevi ricorda, citando Norris Kelly Smith, come “con Wright il pensiero biblico ( “la concezione biblica della vita punta sul percorso e sul mutamento” dice poche pagine prima) entra per la prima volta nel campo architettonico domi-

nato durante duemila anni dalle concezioni greco-romane”.Le sue opere più famose ren-dono pienamente conto di queste parole. In particolare nel Solomon R. Guggenheim Museum di New York si percepi-sce fisicamente questo rapporto fra il tempo e lo spazio che è icasticamente rappresentato dalla passeggiata a spirale che costitu-isce il museo vero e proprio. Ma anche, come racconta Francesco Dal Co nel suo libro “Il tempo e l’architetto”, dal tempo che fu necessario per la costruzione della sua ultima opera rimasta ancora incompiuta alla sua morte nel 1959. Il libro di Gurrieri è quindi un buon viatico per ripercorrere con attenzione, e attraverso le sue stesse parole, la vita e il pensiero di F.L.Wright. Un architetto americano nato nel XIX secolo, che credeva nella democrazia americana e a cui Nancy Horan nel suo “Mio amato Frank” fa dire queste parole: “Pensavo non ci fosse nulla di più nobile di costruire una bella casa. E lo penso ancora.”

È piacevole tenere nella mani il nuovo libro di Francesco Gurrieri su Frank Llyod

Wright. Il formato, la trama in rilievo della copertina, la snel-lezza, tutto contribuisce a farne un libro piacevole da vedere, toccare e guardare. E da leggere. Un libro agevole che introduce alla figura di uno dei più grandi architetti degli ultimi due secoli scorsi attraverso semplicità e chiarezza. Il libro è costituito da una biografia ragionata, un saggio di Gurrieri che è anche il titolo del libro “La rivoluzione dell’archi-tettura”, molti scritti dello stesso Wright sui temi della propria architettura, del rapporto fra architettura e democrazia, della propria vita professionale e non, una sintetica, ma scelta, biblio-grafia e un corpus di documenti visivi di grande interesse, anche per la presenza di fotografie di incontri e di persone, e non solo di opere. Un format da replicare.E nel suo saggio Gurrieri parla di Wright anche, se non soprattut-to, attraverso la propria espe-rienza di studente e di docente. Un’esperienza in una facoltà di architettura dove insegnavano Adalberto Libera, Ludovico Qua-roni, Raffaello Fagnoni, Riccardo Morandi, Edoardo Detti, Leo-nardo Benevolo, Leonardo Ricci e Leonardo Savioli, Giovanni Klaus Koenig, e dove studiavano Renzo Piano, Andrea Branzi, Gianni Pettena, Adolfo Natalini per citarne alcuni. Un luogo di studio e di crescita personale e culturale come pochi in Italia.Gurrieri parla dell’influenza che la visita a Fiesole di Frank Llyod Wright nel 1910 ebbe per l’elaborazione del suo modo di progettare, e della nascita, proprio in quel periodo, di un af-finarsi di quelle teorie progettuali che portarono alla costruzione del concetto di Architettura Organica. Dice Gurrieri, citando Sidney k Robinson che “Taliesin crea una connessione tra il terre-no e l’edificio, un rapporto che Wright vedeva evidentemente nei muri di contenimento, nelle terrazze e nei vicoli di Fiesole (...) Fiesole fu uno stimolo per un’im-maginazione pronta a riceverlo. Taliesin è il capolavoro che ne risultò”.

di John STammer I muri di Fiesole nella rivoluzionedi Wright

Foto di Ugo Bardi

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tanti altri prima e dopo di lui, doveva distruggere qualunque traccia di quello esistente. Ma torniamo ai nostri giorni. Il centenario del genocidio ha stimolato un’intensa attività pubblicistica che si sta espri-

mendo in migliaia di iniziative: articoli, conferenze, libri e saggi sull’argomento. Anche la musica sta facendo la sua parte. Sarebbe molto difficile fare un elenco esaustivo delle compo-sizioni che sono state scritte recentemente per commemorare il genocidio. Possiamo citare a titolo di esempio quelle di Michael Gandolfi (“Ascending Light”), Ian Krouse (“Armenian

Requiem”) e Tigran Mansurian (“Requiem”).Ma un disco che ci pare partico-larmente significativo è Adana (Muziekpublique, 2015), un lavoro prevalentemente stru-mentale realizzato da Vardan

Hovanissian e Emre Gült-ekin. La collaborazione dei due musicisti ha un signi-ficato preciso: Hovanissian (duduk) è armeno, mentre Gültekin (saz, tanbur, voce) è turco.La loro collaborazione sotto-linea che i due popoli, divisi in seguito alla tragedia del 1915, possono trovare nella musica un terreno comune che permetta di superare rancori e incomprensioni.

Com’è noto, la Turchia ha sempre rifiutato di riconoscere il genocidio. Questa linea nega-zionista è stata riaffermata dal presidente Erdogan nelle scorse settimane. Il disco, al contrario, si muove nel solco della riconciliazione. Non a caso uno dei bra-ni,”Hrant Dink”, è dedicato al giornalista armeno ucciso da un nazionalista turco nel 2007.

il 24 aprile scorso è stato commemorato in tutto il mondo il centenario del

genocidio armeno. O per me-glio dire, il genocidio di tutte le minoranze cristiane dell’impero ottomano, quindi anche Assiri e Greci del Ponto. Almeno tre mi-lioni di persone vennero uccise nelle stragi ideate e realizzate dai Giovani Turchi, il partito repub-blicano che voleva costruire un nuovo stato sulle ceneri dell’im-pero ottomano. La repubblica turca fondata da Atatürk nel 1923 nacque con un’ossessione: quella di cancellare il retaggio multietnico dell’impero otto-mano per creare un paese con un solo popolo, una sola lingua, una sola cultura. Naturalmen-te questa omogeneizzazione spietata non risparmiò neanche la musica. La furia giacobina del nuovo regime non colpì soltanto le espressioni musicali delle minoranze, ma bandì dalla radio anche la musica classica ottomana, che secondo Ata-türk “non rifletteva i veri valori della cultura musicale turca”. Animato dal desiderio funesto di creare un uomo nuovo, come

Direttore responsabile di Agos, sulle colonne di questo giornale Dink si batteva per promuovere un dialogo tra turchi ed armeni.Il titolo del CD allude alla città (anticamente Antiochia di Cilicia) dove nel 1909 vennero massacrati circa 3000 cristiani armeni e assiri. Fu il preludio del genocidio che pochi anni sarebbe stato realizzato con precisione spietata. Hovanissian e Gültekin sono affiancati da due validissimi musicisti belgi: il contrabbassi-sta Joris Vanvinckenroye, leader del gruppo Aranis, e il giovane percussionista Simon Leleux. Il secondo è un componente del Lâmekân Ensemble, fondato da Tristan Driessens, musicista e musicologo fiammingo.Affascinante fusione di influen-ze anatoliche, armene e jazzisti-che, Adana viene pubblicato da Muziekpublique, un’associazio-ne-etichetta discografica fondata nel 2002 da Marisol Palomo e Peter Van Rompuy per pro-muovere la musica tradizionale e la world music. La sua attività culturale merita la massima attenzione.

Scrive “La Nazione” del 28 febbraio 1894: “Stamani alle ore 10:30 il marchese Carlo Ginori è uscito dalla sua scuderia con la nuova carrozza che è messa in moto a gas di petrolio. E’ una carrozza a quattro po-sti che corre quanto un’altra tirata da due cavalli al trotto. Il marchese Ginori oggi è stato il primo a far vedere ai fiorentini la carrozza a petrolio”. Questa carrozza era una Panhard Levas-sor, che Ginori aveva ordinato direttamente alla fabbrica di Parigi (pagandola £ 5.000, pari, secondo i coefficienti di rivalu-tazione ISTAT, a circa € 22.000 di oggi) che l’aveva consegnata ai primi di febbraio a Nizza; di qui Ginori aveva imbarcato l’auto sul suo yacht, era arrivato a Livorno e aveva proseguito via terra fino a Firenze. Carlo Ginori sarebbe stato il primo presidente dell’Automobile Club di Firenze (fondato nel 1905) e uno dei fondatori della Fabbrica Toscana Automobili

(il cui modello di punta era l’auto “Florentia”), che aveva la sede al n.c. 24 di Via del Ponte all’Asse e l’officina riparazioni nel Viale in Curva (oggi Viale Belfiore), dove, molti anni più tardi, ci sarebbe stata la FIAT; il figlio Lorenzo, anche lui a lungo presidente dell’ACI, nel 1905 avrebbe vinto, alla guida di una Zust, il primo giro automobili-stico d’Italia e sarebbe stato fra i primi organizzatori del circuito del Mugello.La scuderia dalla quale era uscita la mirabolante “carrozza a petrolio” si trovava in Via Taddea, strada di proprietà della famiglia Ginori, “titolare” dei palazzi agli angoli delle Via. E fu al n.c. 21 di quella strada

che, alle 20:30 del 24 novembre 1826, Angela Orzali partorì Carlo Lorenzini, meglio noto come Collodi, come inconfu-tabilmente attestato dal di lui fratello Ippolito. Voci maligne insinuarono che Carlo fosse figlio illegittimo dell’omonimo marchese Carlo che, se ciò fosse vero, avrebbe aggiunto al danno la beffa lasciando che la mo-glie fosse madrina del piccolo Collodi. Comunque nel 1941, dopo una lunga battaglia a suon di carte bollate con il comune di Collodi, Firenze potè finalmen-

te apporre la lapide ricordo della nascita del padre di Pinocchio.Nel frattempo, però, era successo un altro fatto desti-nato a segnare la storia di Via Taddea. Al n.c. 2 della strada c’è la redazione del giornale “L’Azione Comunista”, organo della federazione fiorentina del neonato Partito Comunista. La sera del 27 febbraio 1921 Spartaco Lavagnini, sindacalista dei ferrovieri, sta lavorando a un articolo per il numero succes-sivo quando quattro squadristi irrompono nei locali e lo ucci-dono sparandogli vilmente alle spalle. La città insorge e, fino al 3 marzo, Firenze e le località vicine sono bloccate dalle bar-ricate: prima che le cannonate del regio esercito stronchino la rivolta, gli insorti si oppongono validamente ai fascisti, come ci ricorda Vasco Pratolini nello “Scialo”, rievocando i fatti di Scandicci, dove operai e con-tadini respinsero la ciurmaglia fascista alle barricate del ponte sulla Greve.

di FaBriZio [email protected] Via Taddea

Burattini, marchesie rivoluzionari

Fratello armeno, fratello turcodi aleSSandro [email protected]

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stazione incontrò il suo idea-tore, Charles Fourier che così gli spiegò la sua idea: le grandi agglomerazioni umane debbono cessare. Gli uomini debbono raccogliersi in “Falansteri”, cioè in grandi edifici in ognuno dei quali si raccolgono tanti uomini e donne da rappresentare tutte le passioni umane...I fabbricati sono vasti e comodi con giardi-ni ombrosi, verande, gallerie e teatri. Nel Falansterio i bambini vivono quasi del tutto separati dai genitori, in compagnia dei vecchi, cioè di coloro che hanno la passione di stare insieme a loro....Liberate dalle preoccupazioni dei figli le donne godono parità di diritti con l’uomo, assoluta emancipazione e relativa libertà d’amare..Con il venir meno della fedeltà obbligatoria vien meno anche il delitto relativo all’adulterio... Nel Falansterio tutti debbano lavorare e tutti sono remunerati, ma il lavoro deve piacere, cioè deve essere di breve durata e vario. Nella

stessa giornata la stessa persona è ora falegname, ora fabbro, ora contadino. L’essere intellettuale, filosofo, poeta, musicista non lo esime dalle occupazioni più mo-deste. Passerelli, piacevolmente impressionato, ricordò però al pensatore il Falansterio realiz-zato da un ricco proprietario terriero che, fanatico delle teo-rie di Fourier, si era spossessato di tutto per vivere con i suoi servi dividendo gli stessi diritti e doveri. Ma questi non ne volle-ro sapere della vita in comune e alla prima occasione bruciarono il falansterio. Fourier si strinse nelle spalle e rispose: Chi gli aveva detto di privarsi della pro-prietà sua per farne un Falanste-rio? Certe cose si teorizzano; non si mettono in pratica; specie, poi, a spese proprie.

Passeggiando lungo la Senna, mi sono fermata distrattamente davanti

a una bancarella di libri usati e, con mia grande sorpresa, ho trovato Niente villeggiatura ma...qualche viaggetto di fantasia di Gianni Sertori, un piccolo libretto a 50 centesimi. E’ uno dei 6 volumetti stampati nel 1944 dalle Edizioni Polilibri di Roma. Il titolo della piccola, ormai introvabile, raccolta è Fatti di un Giorno. L’editore ci dice in un foglietto allegato che il suo intento era quello di affi-dare ad autori diversi il compito di scrivere un breve racconto che descrivesse la realtà del tempo. Di questo libretto vi vo-glio riportare alcuni brani che, ancora oggi, possono con la loro ironia dare spunti di rifles-sione. Il protagonista è un certo Amilcare Passerelli che, deciso a concedersi un viaggio veramen-te speciale, arrivò tutto trafelato alla stazione per la paura di per-dere il treno. Calma, calma, gli disse gentilmente il guardiasala, se ne perdete uno potete prende-re l’altro. Di treni in partenza ve ne sono uno al minuto alla stazione del Desiderio. Tutte le ore son buone per la partenza dei treni-sogno. Nulla si paga all’an-data. Si paga solo il ritorno con la moneta della delusione. Nel vagone tanti incredibili perso-naggi finché Amilcare Passerelli scese in un posto chiamato Uto-pia. Tutta la città era tappezzata di manifesti contro la guerra. Ma ad un tratto, uno due, uno due, ecco spuntare da una strada un battaglione di soldati armati di tutto punto. Come mai, chiese Passerelli a qualcuno, se lo Stato è contrario alla guerra ci sono tanti soldati? Quello rispose: Ci sono per essere pronti a vendicare qualsiasi aggressione al paese o ai popoli alleati. Tutto starà poi a vedere che s’intenda per aggressio-ne...Se chi invade un territorio altrui è aggressore o aggredito. Un po’ confuso Passerelli riprese il suo treno-sogno per fermarsi a visitare il famoso Falansterio sul quale aveva letto un libro. Alla

Storie di utopie e altroa 50 centesimiArcheologia mediatica

di SimoneTTa [email protected]

FoTo di mauriZio BerlinCioni

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grado non tanto di apprendere ma di rappresentare la propria conoscenza. In parole povere di pensare, seppure in modo diverso da un essere umano (col paradosso che nessun essere umano potrà mai descrivere

un modo diverso di pensare da quello con cui pensa). Ecco quel nodo e quel tema, l’interazione con Neuromante e Inverno-muto o i replicanti di Dick, ci appare ancora oggi fantascienti-fico, irreale. Eppure anche quel futuro è molto più vicino di quello che speriamo. Software in grado di apprendere, potenze di calcolo inimmaginabili sono già oggi realtà e tutti i giorni ci sottoponiamo a test di Turing ogni qualvolta immettiamo un codice CAPTCHA (quel-le combinazioni di numeri e lettere scritti strani) per accedere a servizi online e dimostrare così di non essere macchine. Insom-

ma il futuro di Gibson rimane maledettamente attuale e la cultura pop americana continua ad interrogarsi sul rapporto tra uomo e intelligenza artificiale in un percorso che arriva fino agli Avengers che combattono Ultron in questi giorni nelle nostre sale cinematografiche, come nota Raffaele Alberto Ventura su internazionale.it, colpevole soltanto di non citare Gibson tra i riferimenti dell’ultimo blockbuster Marvel. A partire da Gibson abbiamo preso coscienza marxianamente che androidi, multinazionali e supercomputer continueran-no a popolare i nostri sogni e incubi di cittadini occidentali e costituire un immaginario collettivo fondamentale in società modellate sempre più da comunità di informatici e scien-ziati, che prima di diventare tali, sono stati NERD divoratori di fantascienza.

Il migliore dei Lidipossibili

Improvvido mail portatore

Disegnodi Lido Contemori

Didascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

Era il 1985 quando fu pub-blicata la prima edizione italiana di Neuromante,

romanzo fantascientifico di William Gibson, che l’anno prima aveva vinto il premio Hugo; il più importante premio letterario per la fantascienza. Quel volume uscito da noi nella serie oro dell’editore Nord, ha per sempre cambiato il rapporto della fantascienza con il futuro. Nel 1985 la rete, internet, era poco più di un esperimento, la globalizzazione non si sapeva cosa fosse in un mondo incar-dinato sul bipolarismo USA URSS e il potere dell’econo-mia transnazionale non aveva dispiegato la sua forza. Eppure Gibson riuscì a disegnare un futuro in cui la connessione alle reti dati diventa fondamentale per la società, le multinazionali dominano la vita degli individui e l’urbanizzazione crea ammassi di città senza soluzione di con-tinuità: lo sprawl o BAMA (asse metropolitano Boston Altan-ta). Certo la rappresentazione grafica del cyberspazio gibso-niano è totalmente diversa dalla normalità del nostro internet, le arcologie delle multinazionali non sono diventate la regola urbanistica (anche se certe ten-denze di molte archistar hanno qualche debito con questa teoria) e soprattutto nessuna Las Vegas spaziale orbita intorno alla terra. Eppure il futuro di Gibson conteneva tante tracce del nostro presente, esasperate in un’allegoria come solo la migliore fantascienza sa fare. Per esempio l’individualismo estre-mizzato (Gibson scrive negli anni dell’edonismo reaganiano) e la totale assenza di ogni strut-tura politica o statuale ad esclu-sione del potere repressivo o la successione di guerre e conflitti. Gibson elabora ed esaspera, at-tualizza, il pessimismo di Philip K. Dick e ne riprende uno dei temi centrali di “Do Androids Dream of Electric Sheep?” (da cui Ridley Scott trarrà le varie versioni di Blade Runner) ovvero il rapporto tra uomo e macchina. Anzi tra uomo e intelligenza artificiale. Quelle che per Turing (omaggiato non a caso da entrambi gli autori) e la comunità scientifica sono in

Il passato del futuroRileggere Gibsona 30 anni dalla prima edizione di Neuromante

di miChele morroCChitwitter @michemorr

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riflessione su trenta anni di ricerca, dal 1984 al 2014. Sono disegni, foto, progetti, in genere di piccola dimensione, collocati in cornici d’epoca e allestiti. Un gruppo di questi, nella prima stanza, forma come una nuvola che sale al soffitto; segue un evanescente autoritratto nella parete di mezzo e nella seconda stanza, tappezzata con teli di plastica azzurri ( come il cielo all’interno di un tabernacolo ), altri due gruppi di lavori, di-sposti però a terra, gli uni sugli altri. E sono le riflessioni di

sempre, il declino dell’Occiden-te nel il paesaggio che cambia e deflagra tra baracche e terreni incolti; le vestigia del passato, qualche cipressetto, le figure dei santi/amici su fondo oro come presenze protettrici e poi i progetti di lavoro. Le baracche - fotografie ridipinte - diventano i cubi di Giotto, i cipressi su-perstiti suggerisco un paesaggio quattro-cinquecentesco, i santi diventano l’ attualizzazione di una memoria. Walter Siti, in una bella pagina di accompa-gnamento, parla dell’arrivare al sublime attraverso il degrado e cita Dostoewkij e il pudo-re di Federico Tozzi. Fiesoli, l’autore, parla di “tappezzeria protettiva”, di una quadreria, che è appunto ostentazione di un qualcosa ormai composto, fisso, consegnato alla storia. Ma anche abito identitario con il quale presentarsi al mondo, luogo dove accogliere il mondo e affrontare l’oggi. E’ un lavoro che si presenta con discrezione e umiltà estreme ma che mira in alto: a riconsiderare, attra-verso trenta anni di ricerca, la nostra cultura, i suoi fallimenti e le tracce che restano e che altri guardano trasformando con il loro stesso sguardo. Noi e noi, noi e loro, noi e l’ieri, noi e (forse ) il domani.

Ronaldo Fiesoli è un autore che si muove su molti fronti: su quello arti-

stico in senso specifico, dove ha al proprio attivo una ormai lunga carriera. Ma anche su quello, diciamo, del creatore di ambienti. Che non è l’architet-to e neppure quella cosa un po’ frivola che è l’interior design. O almeno, è tutto questo ma anche – per fortuna - qualcosa di più. Così, capita di trovarlo impegnato in qualche atten-tissimo restauro, in qualche ristrutturazione di edifici ( la sede della stilista Patrizia Pepe a Capalle ), nel disegno di un negozio, nei consigli a un ami-co, nella curatela di un ciclo di mostre. E non c’è differenza tra come affronta questi incarichi e come affronta la pittura. La stessa facile manualità che lo porta disegnare, progettare, ricostruire; la stessa attenzione puntuale ai materiali, agli og-getti e ai rapporti fra questi, la stessa capacità di ragionarci su trovando una soluzione che ne riveli un possibile senso. La mo-dalità è sempre la stessa. E non si può non pensare a una attitu-dine che ha vaste eco: proprio a Firenze infatti, il quadrilatero fra San Marco e via Alfani è stato a lungo la cittadella di un sapere artistico così concepito: circolare direi. Dove gli artisti dell’ Accademia dialogavano con gli architetti di Architet-tura, con le arti applicate, con la musica, con il restauro e con il Museo che tutto raccoglieva. Un insieme fantastico di saperi che si rilanciavano l’un l’altro. Lo stesso insieme del quale si ritrova diversa traccia odierna nell’operare di un curatore come Harald Szeemann che tra le tante memorabili rassegne, non disdegnava la mostra in memoria del nonno parrucchie-re. E disponeva pettini e spec-chietti come, altrove, le opere capitali di Morris o di Beuys. Di tutto questo lavoro di Fieso-li si trova ora una sintesi in una piccola ma intensa mostra allo spazio C2 Contemporanea di Antonio Lo Pinto (Via Foscolo, 6 a Firenze ). La dimensione è quella intima di uno studio privato e qui sono riunite una quarantina di opere, come una

Io e l’altro Ronaldo Fiesoliallo spazio C2

di gianni [email protected]

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La nuova sede del servizio di emergenza 118 è la seconda opera di Fabrizio

Rossi Prodi a Firenze che ha realizzato molte opere fuori dalla città in cui insegna al Di-partimento di Architettura. Sta in disparte come la sua prima opera (il centro di accoglien-za per il Giubileo del 2000 in prossimità dell’inizio della Autostrada A11 per il mare di fronte all’edificio aeroportuale) ed è quasi nascosta alla vista. Per vederla è necessario salire fino alla Villa dei Serristori, risalente al 1427, dove era la originaria sede dello IOT (Istituto Orto-pedico Toscano già Ospedale Piero Palagi), e poi seguire la piccola strada che conduce sulla sommità del colle.Qui, quasi all’improvviso, come emersa dalla roccia della collina, si staglia la costruzione su due piani. Rossi Prodi racconta che per la realizzazione di questo edificio ha lavorato come se fosse uno scavo, togliendo “virtualmente” la terra intorno all’edificio, e facendolo risaltare come se fosse sempre stato li, ma semisepolto.In effetti la vista del piano seminterrato, e di quella parte quasi completamente interrata che ospita le strutture tecnolo-giche, è possibile solo da alcuni punti di vista, mentre chi arriva sulla sommità vede solo il piano superiore rivestito di acciaio “corten”, oramai debitamente invecchiato.La parte seminterrata è invece rivestita in pietra di Santa Fiora a rimarcare il diretto collega-mento, anche materico, con la terra dalla quale è stata “libe-rata”. Un intervento sobrio, e anche coraggioso in considera-zione della speciale collocazione dell’opera sulla sommità di uno dei colli che circondano la città e dal quale si vede, e quindi si è anche visti, il Forte di Belvedere e gli altri colli contermini.Un intervento che conclude, viene proprio da dire, il lavoro fatto da Domenico Cardini e Rodolfo Raspollini con il pro-getto dell’ampliamento dell’O-spedale Piero Palagi. Progetto, redatto a cominiciare dagli ultimi anni sessanta del secolo scorso, e concluso con l’inaugu-razione nel 1986 , che secondo

Architetturadi prontosoccorso

di John STammer G.K.Koenig è “la seconda opera fiorentina dopo la stazione”, e che si adagia sul crinale della collina in modo volutamente mimetico. L’intervento di Rossi Prodi si colloca esattamente in parallelo ai padiglioni di degen-za dell’ampliamento di Cardini e Raspollini, nella parte più alta della collina, e chiude il progre-dire verso l’alto dei padiglioni stessi.L’edificio presenta alcune carat-teristiche costanti del lavoro di Rossi Prodi, ed in particolare la riproposizione di elementi “clas-sici”, come il portico, declinati in una sintassi contemporanea, e come le aperture delle finestre per le quali si è scelta una ricer-cata inclinazione che conferisce alle stesse il ruolo non solo di illuminazione e aerazione, ma anche di rappresentazione del linguaggio dell’edificio.La struttura presenta anche alcuni elementi di innovazione tecnologica, necessari in un edi-ficio che deve funzionare sem-pre, ed in particolare proprio nelle condizioni di emergenza,

come gli “smorzatori” delle for-ze sismiche. Si tratta di appoggi elastici che fungono da isolatori sismici e che impediscono alle onde sismiche, che ricevono dal suolo, di propagarsi alle struttu-re in elevazione.L’interno, su due piani, è occupato da aule per la forma-zione, per lo svago e il relax del personale, per le attività della unità di crisi, oltre che natural-mente dalla grande sala opera-tiva, dotata delle più aggiornate tecnologie informatiche.L’edificio, inaugurato nell’aprile del 2014, è operativo dal mag-gio dello stesso anno.

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ad attrarre l’evento, la nostra terra è stata la patria di Barsanti e Mat-teucci, gli inventori del motore a scoppio ed ha scritto pagine gloriose dello sport motoristico con personaggi come Clemente Biondetti e Pasquino Ermini che fecero parte fin dalla fondazione a Firenze nel 1949 degli “Allegri al Volante”, un’Associazione di piloti che portò nella Mille Miglia “aria” e spirito fiorentini.Questa manifestazione valorizza i territori che attraversa e la cultura dell’auto e degli uomini che ne hanno determinato la storia.La formula dell’evento non è più la corsa, che peraltro avviene con la formula delle prove di regola-

rità, ma l’esposizione al grande pubblico di quello che può veramente definirsi un museo a cielo aperto! Ultimamente non si fa che parlare di crisi dell’auto ed ora anche di quelle d’epoca.Con la recente legge di stabilità mirando a far cassa nell’immedia-to, elevando l’esenzione dal bollo da 20 a 30 anni, non si è valu-tato il danno subìto dal nostro patrimonio di auto d’epoca, che, svalutate, sono svendute all’estero. Ciò ha determinato un serio danno al sistema economico che ruota intorno a queste auto: meccanici, carrozzieri, raccoglitori di pezzi di ricambio, vedono par-zialmente perduto il loro lavoro.Da noi si è sempre pensato che possedere una moto o un’auto d’epoca fosse da benestanti, ma non è sempre così; i veri appas-sionati si trovano soprattutto tra le persone più modeste; quelle, per intenderci, che spendono il proprio tempo libero a sporcarsi le mani, facendo sacrifici pur di poter dare ai propri mezzi qualco-sa di sè stessi.

Che cosa è il liberalismo? E insieme, quanti sono i liberalismi? Articolando

qui un discorso succinto, essi danno vita ad un universo plurale e ricco di conflitti. Ecco perché come circolo “Piero Gobetti” di Firenze ci è piaciuta l’idea di passarli in rassegna, organizzando specifi-ci eventi, senza fretta ma con il puntiglio di dare conto, anzi di valorizzare i contrasti, che sono materia viva - poiché al centro di un confronto avviato e che prosegue, nel tempo, tra per-sone in carne ed ossa (non solo filosofi e studiosi da passare in rassegna sui libri). Si vorrà guardare senza troppa (anche dove non infondata) alterigia intellettuale alla inevitabile (per ragioni di tempo e di risorse) semplificazione con cui abbiamo provvisoriamente di-viso il liberalismo in tre grandi famiglie: il liberalismo classico, il liberalismo c.d. “progressi-sta”, l’anarco-capitalismo. Del primo abbiamo trattato lo scorso anno, prendendo a base/motivo della riflessione l’opera preziosa del prof. Antonio Masala (“Crisi e rinascita del liberalismo classico”, Edizioni ETS). Del secondo tratteremo a breve, il prossimo 6 maggio (presso la libreria IBS di Firen-ze, ore 17,30), presentando il libro del Prof. Paolo Bonetti dal titolo “Breve storia del libe-ralismo di sinistra”, della casa editrice Liberilibri che, come ho già avuto modo di scrivere, è – assieme a poche altre in Italia - una continua delizia per gli appassionati di cultura libe-rale tout court. L’indagine che condurremo con Paolo Bonetti ha un orizzonte – va precisato - per lo più italiano (in linea con questa sua opera) e il pensiero su cui riflettere riguarda nomi certi e nomi tutt’altro che sicuri, quanto alla loro ricon-duzione al pensiero liberale (ex multis, dunque, non solo Giovanni Amendola, Piero Gobetti, Benedetto Croce e Luigi Einaudi ma anche Aldo Capitini, Carlo Rosselli e Norberto Bobbio). Se, ancora schematizzando, il pensiero liberale di sinistra è la risposta al problema della “libertà di”, la tradizione del costituziona-

lismo liberale e la concezione dei diritti di stampo classico non si spinge oltre il contesto della “libertà da”; questa, che è libertà tipicamente ‘negativa’, viene giudicata insufficiente e superata – come si legge nel libro - da “una libertà, (...), espansiva ed inclusiva, che rifiuta di essere la semplice apologia dell’ordine liberale dato...“. La scelta non è senza conseguenze, al punto che per alcuni ciò situerebbe questo filone di pensiero al di fuori del liberalismo e il termine “liberalismo di sinistra” rappre-senterebbe quasi un ossimoro. Per dare spazio ad una dia-lettica filosofica-culturale e

anche politica, nel senso più nobile del termine, contrad-dittore di Paolo Bonetti sarà Giacomo Zucco, portavoce di “Tea Party Italia”, movimento fondato a Prato nel maggio 2010 (l’incontro è giusto nel cartellone delle sue iniziative di festeggiamento del quinto compleanno), nel cui simbo-lo è scritto: “Meno tasse più libertà”. L’istanza non vuole intercettare adesioni scontate e banali, bensì sottende una filosofia dello Stato che con-traddice il ruolo che gli assegna proprio quella “libertà di” del liberalismo progressista. Ne sentiremo – ci auguriamo – delle belle!

Sul liberalismo di sinistraovvero sulla libertà espansiva

di Paolo [email protected]

Tutto avviene in un lungo e incredibile week end di Maggio. La 33a edizione della Mille Miglia 2015 infatti si svolgerà dal 14 al 17 Maggio 2015.La corsa nasce nel 1929 a Brescia da dove partiva un percorso a forma di otto che arrivava a Roma e ritorno, su una distanza allora di circa 1000 miglia. Qui convergono, una volta l’an-no, tesori di inestimabile valore che hanno scritto le più belle pagine del motorismo internazio-nale.Le auto formeranno un museo viaggiante sulle strade di Italia, potranno essere ammirate in movimento e durante le soste da spettatori che potranno così riper-correre la storia dell’auto, ripor-tando alla memoria antichi ricordi dei loro genitori e nonni.Una gara unica, senza tappe, alla scoperta dell’Italia: sabato 16 maggio, il percorso dalla capitale resterà pressoché invariato fino alla Toscana dove toccherà Pisa e Lucca, ma dimenticando lo storico passaggio sulla Cassia fino a Firenze, la verifica in piazza della Signoria e poi via fino ad im-boccare la Bolognese per arrivare attraverso la Futa fino a Bologna. Firenz purtroppo non è riuscita

Mille Miglia, un museoitinerante

di roBerTo [email protected]

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Zona Oggi lo spazio che meraviglia! Senza morsi, speroni o briglia, partiamo a cavallo del vino verso un cielo magico e divino come due angeli sotto il martel-lare di un’implacabile febbre solare, nell’azzurro cristallo del mattino seguiamo il miraggio lontano

Guillaume Apollinaire

Ingredienti per 4 persone:2 stinchi di maialeOlio extravergine d’oliva q.b.1 litro di vino bianco secco4 rametti di rosmarino10 foglie di alloro3 spicchi d’agliosale q.b.pepePreparazione: Per prima cosa, prendete gli stinchi e lavateli bene, poi riponeteli in una ciotola abbastanza capiente aggiungendo il vino, l’alloro, il rosmarino, l’aglio e fateli mari-nare per circa mezza giornata, avendo cura di girarli di tanto in tanto. Una volta marinati, togliete gli stinchi dalla ciotola e tenete da parte 400 grammi circa di marinata, dopo averla filtrata.Riponete la carne in una pen-tola in grado di reggere l’elevata temperatura del forno assieme a

quattro o cinque cucchiai d’olio e fateli rosolare per circa tre minuti, poi aggiungete il sale e il pepe e irrorate il tutto con la marinata. Fate cuocere per mezz’ora circa e poi riponete la casseruola in forno preriscaldato a 180 gradi, per almeno un’ora. Lasciate il coperchio sulla pentola per la prima mezz’ora e toglietelo per il rimanente tem-po di cottura. Una volta ben cotti, riponente gli stinchi su un piatto da portata bagnandoli con il fondo di cottura.

La sensazioni delle opere e del contesto sono assai forti. Lo stesso cartello tra la Porta San Giorgio e il cancello è sobrio, elementare e per questo vibran-te.Nel percorso di avvicinamento al grande portone buontalen-tiano, su per le scale si inizia a fare i conti con l’essenzialità di Antony Gormley che si ma-nifesta poi nei baluardi, negli affacci nelle due terrazze della palazzina del Belvedere, nelle due stanze della fortezza. Semplice e potente.All’impronta due diverse ispira-zioni: nella sua cubica essenzia-lità i disegni di Luca Cambiaso con la sua grafica geometrica di

solidi assemblati a crear corpi umani e i calchi di Pompei.I corpi sovramessi o isolati, distesi, rigidi non possono che scatenare il collegamento con le impronte dei cadaveri dei pom-peiani fissati nella loro agonia.E i corpi scatolari apparente-mente primitivi non paiono forse, più che dei pixel tridi-mensionali, le composizioni cinquecentesche del pittore genovese Cambiaso?Questo è solo l’inizio: conviene ritornare al Belvedere più e più volte, impossessarsi nuovamen-te di quello spazio e accostarsi ai corpi di Gormley, traguardare Firenze e riflettere.E trovarne giovamento.

di miChele [email protected]

di Carlo [email protected]

aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexIl fascino perverso di questi scottexxiani lavori è determinato anche dalla loro vasta ambiguità: l’opera qui a sinistra sarà un mastino napoleta-no che vaga per i bassi, o forse è il suo fantasma? Potrebbe trattarsi anche di un lenzuolo dopo una notte insonne o al termine di un amore senza limiti. Ci viene anche il dubbio che sia il fondo nero la parte più significativa della scultura.

Sculturaleggera

Lo stinco di maiale al vino

Human awesomenessantony gormley al Forte Belvedere.

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in

giro

Terra di Tutti To be titled alla Galleria FuoriCampoSono aperte le iscrizioni alla nona edizione del Terra di tutti film festival!Leggi il regolamento e compila la scheda di partecipazione per iscrivere il tuo film al FestivalSono ammessi al concorso documentari, animazioni e docufiction che trattino temi sociali sul sud del mondo, sviluppo, ambien-te, migrazioni e lotta alla povertà.Le iscrizioni scadono il 15 giugno 2015.Il Terra di Tutti Film Festival si terrà a Bolo-gna dal 7 al 11 Ottobre 2015.Informazioni e iscrizioni www.terradituttifil-mfestival.org

Personale di João Freitas (Coimbra, 1989) alla La Galleria FuoriCampo (Via Salicot-to 1-3 a Siena) dal 1 maggio al 25 giugno L’esposizione propone le ultime produzioni dell’artista che vive e lavora a Bruxelles realizzate con tecniche e materiali poveri sui quali conduce una ricerca sul limite fra la realtà fisica e spirituale. Curiosità, pratica ed esperienza, quasi un esercizio di meditazio-ne, un’ascesi che conduce però alla corpo-ralità della fattura e alla realtà effettuale dell’elemento, alla composta scomposizione dei costituenti, dalla piega al brandello, dallo strappo all’assemblaggio, dalla figura all’immagine.Un’analisi che non contempla dove si con-duce, e agita se stessa sulle potenzialità ed i confni del materiale. Una cieca e ostinata disciplina quotidiana che esalta la versati-lità della carta come luogo d’origine e di approdo, come argomento sviscerato e mai esaurito. Il fatto, l’oggetto, diventa mutamento e trasfigurazione, tensione obbligata al non se(‘); il suo completamento in opera d’arte è la decisione di un termine - limite, luogo e verbo - che appaga.

Oltre alle opere realizzate appositamente per la mostra di Siena, frutto di una residenza condotta nella città lo scorso autunno e nei quali è possibile rinvenire alcuni tòpoi della cultura figurativa senese, saranno esposti i lavori che sintetizzano la metodologia pro-pria e la tensione espressiva dell’artista.

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di aldo Frangioni

Le ire di Giunone e Salvini non impedirono al clandestino Enea di sposare Lavinia e diventare il Padre di Roma.

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L

Due immagini diverse questa settimana: dalla solarità del rodeo e dei suoi eventi d’intrattenimento collaterale agli abissi oscuri dei locali dove ho visto spesso consumare i rituali del triste pranzo di mezzogiorno nel business district della città. Questo era uno dei tanti luo-ghi di ritrovo “mordi e fuggi” per tutti gli impiegati, quelli più fortunati, che avevano comunque i tempo per concedersi un piccolo

“break” senza dover consumare fugacemente il loro “light lunch” sul proprio posto di lavoro. Le luci fredde e uniformi dei neon facevano il resto! All’epoca non avrei mai pensato che gli stessi modelli sarebbero poi diventati un luogo comune anche alle nostre latitudini.

San Jose, California, 1972

Dall’archiviodi maurizio Berlincioni

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