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N° 1 28 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Muro contro muro “Negli ultimi quattro anni una vera rivoluzione si è imposta nel paese. Essa ha avuto luogo non nelle strade e nelle piazze, ma nell’anima. E’ stata combattuta non con le spade e con il sangue, ma con il cuore e con la fede” Viktor Orban primo ministro ungherese

Cultura Commestibile 128

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N° 128

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Murocontro

muro

“Negli ultimi quattro anni una vera rivoluzione si è imposta nel paese. Essa ha avuto luogo non nelle strade e nelle piazze, ma nell’anima. E’ stata combattuta non con le spade e con il sangue, ma con il cuore e con la fede” Viktor Orban

primo ministro ungherese

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Da nonsaltare

creare qualcosa di diverso oltre al “buongiorno” e “buonasera”, per creare un collegamento fra le persone. Salire in ascensore e non sapere da che parte guarda-re quando c’è qualcuno dentro per arrivare al piano non è né bello né facile. Per evitare que-sto ho cercato di fare qualcosa che parlasse anche ai condòmini e il libro mi è sembrata un’idea. Li ho messi in questo locale e ho chiesto ai condòmini se ave-vano dei libri da depositare per fare cambio. La cosa è iniziata così.Siliani-Setti Quindi c’è un ruolo sociale del libro e della biblioteca che forse potrebbe andare anche oltre quello tradizionale svolto dalle normali biblioteche?Sicuramente. Io ho cercato di fare questo e il libro è stato sicu-ramente un veicolo portentoso. Chiaramente chi legge è un certo tipo di persona e quindi il libro ha filtrato le persone. Andando avanti nel tempo i libri sono aumentati; io ne ho chiesti anche da fuori e oggi

ne abbiamo più di 5.000. Le persone vengono anche da fuori a leggere: questa è la prerogativa della biblioteca, il prestito dei libri come una biblioteca co-munale a persone che vengono da fuori dell’immobile. Que-sto è stato il problema per un condominio privato, far passare questa idea. Ma è andata bene: li ho convinti che non sareb-be successo niente e, infatti, funziona bene perché le persone vengono, prendono i libri e poi li riportano e si relazionano con le persone del condominio.Siliani-Setti Che rapporto avete con l’Amministrazione Comuna-le? È riconosciuta Rembrandt 12 come punto di pubblica lettura?Da quando l’esperienza ha iniziato ad avere successo mediatico ho cercato di contat-tare la rete delle biblioteche di Milano. L’Assessore alla Cultura lo abbiamo trovato disponibile tanto che doveva venire a tro-varci. Si chiamava Stefano Boeri e purtroppo, tre giorni prima dell’incontro, gli hanno tolto

le deleghe. Ma io non mi sono dato per vinto e ho cercato di contattare il successore e anche il direttore delle biblioteche di Milano, che mi ha mandato una persona con la quale stiamo cer-cando di fare un collegamento con loro, tramite magari qual-che altra piccola realtà che nasce a Milano, non in un condomi-nio privato, ma in locali dati in gestione dal Comune e dove si fa una biblioteca e qualche piccola attività. Sono già 5-6 le realtà di questo genere, con le quali siamo in collegamento. Da questo è nata un’idea, anche sulla scia di un incontro con un docente di biblioteconomia dell’Università Cattolica che è stato qui con noi per una intera giornata: le biblioteche normali possono essere un luogo freddo, dove le persone non hanno rela-zione fra loro, dove c’è silenzio; la nostra esperienza, invece, può indurre anche cambiamenti nelle biblioteche ordinarie.Siliani-Setti Oggi diverse biblioteche di pubblica lettura

La Biblioteca Rembrandt 12 è una biblioteca davvero speciale: si trova nell’ex

portineria di un palazzo di otto piani in cia Rembrandt 12 a Milano, zona San Siro, ed è la prima biblioteca privata aperta al pubblico. La storia della sua nascita e sviluppo ci ha intri-gato subito. A un certo punto nel condominio è mancato il portiere e, dunque, i locali della vecchia portineria, di proprietà del comune, sono rimasti inutilizzati e a rischio di essere occupati o, comunque, lasciati al degrado. A quel punto nel 2012 uno dei residenti, Rober-to Chiapella – ex riparatore di televisori in pensione, pensa che per prevenire il degrado si pote-va tentare di trasformare questi locali in una piccola biblioteca ad uso interno. Costruisce uno scaffale e porta i primi libri mettendoli a disposizione di tutti gli inquilini, anche come forma di socializzazione fra le 72 famiglie del condominio. L’esperienza è un successo: molti prendono i libri, si incontrano e si conoscono, portano nuovi libri (oggi sono circa 5.000), la voce si sparge nel quartiere, i condòmini portano sedie, tavoli e divani per rendere più acco-glienti i locali. Si decide così, in una riunione di condominio, di aprire al pubblico la biblioteca (tre pomeriggi la settimana) grazie alla disponibilità di alcuni condòmini, perlopiù pensionati. E il successo si amplifica e molti diventano gli accessi e i prestiti.Abbiamo parlato di questa singolare esperienza con il suo ideatore, Roberto Chiapella.Siliani-Setti L’esperienza di Rembrandt 12 ci sembra im-portante sotto molti profili. In primo luogo l’idea di istituire una biblioteca di condominio in uno spazio per prevenirne il degrado: forse un’idea interessante anche per una amministrazione pubblica?In realtà la nostra idea era di prevenire il degrado delle perso-ne, piuttosto che della casa. Nel condominio c’era questo locale vuoto, abbandonato e inservi-bile. Ho trovato dei libri, ci ho aggiunto i miei e ho pensato di metterli in questi locali per fare lo scambio nel condominio, per

dei

di BarBara Setti e Simone Silianitwitter @Barbara_Setti [email protected]

Il condominiolibri

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presentazione di un libro.Siliani-Setti Come si alimenta una biblioteca di questo genere? Cinquemila titoli iniziano a

diventare un lavoro: la cataloga-zione, gli scarti, gli aggiornamen-ti, ecc.Io ho scaricato un program-

ma gratuito da internet per la catalogazione bibliotecaria e piano piano sto catalogando i libri. Lentamente perché, come dicevo, tengo molto a intratte-nere rapporti con gli utenti e con i condòmini. I 5.000 libri arrivano un po’ dappertutto. Ancora me ne portano. E noi ne abbiamo redistribuiti quasi altrettanti perché diamo i doppi a qualche carcere, ad altre asso-ciazioni. Non è neanche un la-voro: io mi diverto. La rete delle biblioteche mi manderà una persona, con qualche problema, ad aiutarmi nella catalogazio-ne. Da una cosa nasce sempre un’altra: sembra che una cosa finisca e poi c’è sempre qualco-sa d’altro che ci spinge avanti. Non so dove arriveremo, ma è fantastico. Mai avrei pensato che questa piccola cosa avrebbe preso queste dimensioni. Dopo la ricerca di questo docente bibliotecario sembra che in Europa non esistano esperien-ze di questo genere. Qualcosa esiste in America, ma si tratta di grandi condomini che nascono con già dentro una biblioteca.Siliani-Setti Complimenti per il suo lavoro e buona fortuna. Quando passiamo da Milano, le portiamo un libro.No, sono io che ve ne darò uno. Oppure facciamo scambio libri.

incorporano attività di socializ-zazione realizzate attraverso il medium libro. Ma,il fatto che un bibliotecario, invece di ostacolare un’esperienza come la vostra (che certamente non include professio-nalità specialistiche come quelle dei bibliotecari), trovi la possibili-tà di collaborare, ci sembra quasi rivoluzionario. Così come rivolu-zionario è l’aver messo d’accordo 72 condomini: come ha fatto?Appare molto complicato, però se uno nella vita si presta, si rende disponibile alle persone che abitano vicino a lui, diventa molto più facile. Il fatto di esserci quando ci sono delle dif-ficoltà o dei problemi, di essere disponibile e conosciuto, questo apre delle porte in ciascuno di loro. Ogni persona ha una porta: io sono riuscito ad aprirle quasi tutte. Con qualcuna ho fatto più difficoltà perché per loro il problema era la sicurezza: far entrare in un condominio privato delle persone estranee suscitava preoccupazioni. E poi i condòmini erano proprietari, in millesimi, del locale della portineria. Li ho convinti che nella portineria non ci sarebbe stato nessuno se non ci fossi stato io; essendoci una bibliote-ca, il presidio invece ci sarebbe stato; quindi mi sembrava che il condominio sarebbe stato più sicuro e che era come se svolges-si un servizio di “portierato”.Siliani-Setti Sarà stata una delle pochissime decisioni assunte all’unanimità in un condominio di 72 famiglie, o no?C’è ancora un condòmino re-calcitrante. Però io lo considero il mio tredicesimo giocatore in campo: lui sostiene cose talmen-te incredibili che alla fine tutti gli altri si convincono ancora di più della bontà della nostra idea. Nel palazzo io faccio anche altre cose: presento libri dentro la portineria-biblioteca. Ne ab-biamo già presentati una decina e riprenderemo ad ottobre. Ci sono molti scrittori che mi cer-cano per venire in questo luogo in cui magari ci sono solo 25-30 persone, però sono molto atten-te, anche perché vicine e perché sono a casa loro. Lo scrittore, invece di andare in una libreria e aspettare che le persone ven-gano lì, viene direttamente in casa delle persone, che magari non sarebbero mai andate alla

La storia della prima

bilioteca condominiale

pubblicanata a Milano

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Siamo disperate. Per noi donne moderne e progressiste sta crol-lando un mito: la nostra Alba Parietti, modello di femmina colta e coscia lunga della sinistra, lascia il paese per trasferirsi nella sua amata Spagna. Ad Ibiza per la precisione, mica in un barrio bajo di Madrid. Alba espatria perché l’Italia “non è un posto civile, la Spagna è un paese mol-to più civile del nostro. Hanno i matrimoni gay e a Ibiza dove vivo i rom vivono in sintonia con la popolazione. Non vengono chiamati zingari ma gitani. Gli unici famosi per venire a rubare

a Ibiza ve lo dico io chi sono, sono gli italiani, non i rom”. Possiamo immaginare che l’Alba

non parlasse per sé, ma per tutti quegli italiani che a Ibiza vanno in yacht e animano le notti

brave di Ibiza.Alba è una donna raffinata, anche se popolare e alla trasmis-sione “La Zanzara” su Radio24, si trasforma in analista socio-eco-nomica: “L’Italia è nella merda più totale non certo per gli immigrati, ma per come queste situazioni sono state gestite malamente dai nostri politici. Mi hanno colpito le immagini di Ventimiglia, in Italia stiamo diventando di nuovo fascisti, bisogna rendersene conto. Da qui ai lager ci manca poco”. Vero, ma solo perché da Ibiza non si vedono le barriere di separazione di Ceuta e Melilla, al confine con il Marocco.

riunione

difamiglia

“Competenze in primo piano nella nuova giunta di Rossi” af-ferma il segretario regionale PD Parrini. Peccato che Rossi abbia annunciato i nomi, la relativa provenienza territoriale ma non abbia abbinato alle persone le deleghe. Competenti a far cosa quindi oltre a rappresentare territori e correnti del PD? Attendiamo un post dell’intel-lettuale della Valdelsa che, con il fare serioso di chi commenta i Gundrisse, ci spiegherà che la competenza mica c’entra con la capacità di governare.

Giustappunto, non potendo ta-cere su nulla, financo su piazza della Repubblica vuol strologare!Usiamo questo prezioso e arcaico linguaggio italico che si trova, invariabilmente, in tutti suoi scritti. Qui si parla del Natali direttore degli Uffizi che distri-buisce buone e utili riflessioni su tutto e su tutti: chiudi questo, apri quest’altro, presta questo, presta quest’altro...insomma un utilissimo dispensatore di saggezza!Nello specifico si è espresso sul “Ritorno del Re” - e non si parla ahinoi della trilogia tolkeniana, ma del non eccelso momento equestre a Vittorio Emanuele II che dal 1890 al 1932 era al centro della omonima piazza. Il nostro direttore vanta un pri-

Vincere le elezioni quando uno ha la stampa contro è difficile. Per questo il nostro pensiero dolente va a Matteo Bracciali, giovanissimo candidato del Pd allo scranno più alto di Arezzo per investitura di Matteo Renzi e di Santa Maria Elena, sconfitto pesantemente nel ballottaggio di una settimana fa. Un ko che ha un nome e un cognome: Andrea Scanzi, gior-nalista-autore-attore, aretino anch’esso. Ma la subdolità di Scanzi però non si è limitata ad attaccare indiscrimina-tamente il povero Bracciali, ma anche prendere i soldi del partito per farsi finanziare i suoi spettacoli, approfittan-dosene del buon cuore e della generosità del Pd. Quindi adesso si cambia verso: entran-do alle feste dell’Unità (pardon democratiche) non sarà più appiccicato il bollino con il simbolo del Pd, ma sarà chiesto di firmare un patto di lealtà, altrimenti niente bomboloni.

le Sorelle marx

lo Zio di trotZkyi Cugini engelS

il Fratello di maleviC

Alba in fuga

È la stampa, baby

Questionedi competenza

Cavallo e Re: scacco mattoin due (forse tre) mosse

BoBo

mato di idee che non ha: la mu-nicipalità - ma con esiti nulli legati a vicende poche chiare - si cimentò in questa ricostituzione filologica quasi un decennio prima con progetto di recupero generale di Piazza della Repub-blica e con l’idea di riportare, dal felice esilio delle Cascine, il Re e il Cavallo e questo con buona pace del paziente profeta che oracolò sul tema solo agli inizi del millennio.Quindi chi si vuol misurare in questa opera ha a disposizio-ne tutto il necessario: volontà politica, progetti e vaticini. Allora pronti a iniziare la par-tita: sempre che non cambi la scacchiera; ma dovesse succedere: pazienza...con buona pace del Re e anche del Cavallo.

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Ultracorpiil

deglipioniere

Stelarc

Pioniere della performance estrema, anche per mezzo di tecnologie robotiche,

Stelarc lavora sull’artificialità del corpo, sullo spazio obsoleto del biologico per sperimen-tarlo, metterlo alla prova e te-starne i limiti. La componente organica passa di conseguenza in secondo piano: per l’artista non esistono né vincoli né limitazioni, esiste soltanto la messa in evidenza dell’obsole-scenza attuale del corpo umano in contrasto con il progredire paradossalmente infinito della scienza e delle scoperte tecnolo-giche. Non a caso la tecnologia entra in gioco per annientare la caducità della vita, amplificare i raggi d’azione dell’uomo e giungere alla costruzione di un organismo nuovo, dotato di potenzialità utopiche e cyberi-stiche. Stelarc entra nel territo-rio della fusione, della sintesi, della compenetrazione dell’in-terfaccia uomo/macchina, in un processo di ibridazione con cui elimina la distinzione tra artificiale e naturale, muoven-dosi lungo le tendenze le body art e della performance non solo per verificare e vanificare i confini fisiologici dell’uomo e della macchina, ma si spinge oltre allargando le esperienze psichiche e procedendo nella direzione di una vera e propria rieducazione della mente di fronte alla sopravvivenza, alla resistenza, al dolore e alle con-dizioni-limite. Ogni progetto ha inizio con un’azione fisica alla quale si oppone un intrec-cio intermediale di linguaggi e strumentazioni, nella consape-volezza che l’Arte e la Scienza non sono svincolate, anzi si uniscono in virtù di un’estetica al grado zero, che rimette in gioco norme e credenze, che si rinnova costantemente e che è capace di immergersi totalmen-te nella civiltà contemporanea. Nel corso delle sperimentazio-ni – come nelle serie The Body Suspensions, The Third Hand, Virtual Arm Project, Stomach Sculptures, Fractal Flesh, Exoske-leton ed Extended Arm – Stelarc ha preso pian piano coscienza del fatto che il limite umano non risiede tanto nel corpo ma nel sistema evolutivo dell’u-

Event for rock suspension, 1980, Fotografia in b/ncm. 79x105. A destra The third hand, 1982Fotografia a colori, cm. 105x77,5In basso Muscle stimulation system, 1995Fotografia a colori cm. 77,5x105

Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected]

manità, poiché essa ha smesso di adattarsi ai cambiamenti e adesso, quindi, necessita della tecnologia per poter sperare e auspicare in una nuova evolu-zione. C’è nell’opera dell’artista un ottimismo biologico portato alle sue estreme conseguenze: il progresso scientifico è l’unico artificio in grado di assicurare all’uomo una sopravvivenza adeguata all’evolversi inarre-stabile e incontrollabile della realtà. Quella dell’artista è una progettazione continua verso la post-umanità, la perfezio-ne, l’extracorpo e la chimera tecnologica; una progettazione che non si pone problemi etici e morali ma porta avanti con razionalità e determinazione la costruzione di connessioni che superano l’immaginario e rendono reale i sogni del fanta-scientifico.

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Si chiama “Ciò che resta” ed è la mostra, contenuta nelle dimensioni ma attenta nella

cura e estremamente godibile che la galleria Il Ponte dedica a Gregorio Botta. Un artista che da oltre un ventennio, dall’inizio degli anni ’90, è al centro delle attenzioni, anche con grandi mostre in importanti spazi museali. Solo tra le più recenti basterebbe citare il Macro di Roma o Palazzo Tè a Mantova, e poi il Forte di Bard in val d’Aosta o la Triennale di Milano appena pochi mesi fa. Napoletano di origini ma romano di adozione, allievo dell’Accademia di Roma negli anni beati di Toti Scialoja, Botta si muove su una linea di ricerca che sembra aggiornare l’attenzione poverista alle materie primarie con una meditazione di diverso respiro. Come se all’ener-gia tutta estroversa, propria dei materiali dell’Arte Povera, terra, legno, pietra o fuoco, lui avesse sostituito uno sguardo introietti-vo, una sorta di sospensione, un respiro esistenziale e una diversa concentrazione di forze. Non a caso la grande rassegna del Forte di Bard si intitolava proprio “Ap-nea” e lui commentava quella situazione in cui l’inspirazione è del tutto compiuta e l’espirazione non ancora iniziata – come quel momento di massima introspe-zione in cui “si sono chiuse le porte del mondo e si attende di riaprirle”. Del respiro – scriveva – “l’apnea è forse il momento più intenso e interessante”.Ecco, anche questa mostra, come tutto il suo lavoro, sembra vivere di una analoga situazione di apnea. Due casette metalliche all’ingresso, di quelle che ormai sembrano essere la sua cifra, issate su alti tubolari metallici, un po’ casette da uccelli un po’ prototipo, archetipo di casa; con dentro,nel buio, luci e soffi d’aria che muovono le pagine di un libro. E poi le tante tavolette di vetro, anche queste su alti tubolari metallici, che contengo-no volute di nerofumo, pigmenti e piombo; altri pannelli ancora con dentro l’acqua che cola si-lenziosamente e, giù, altri lavori ancora. Tavoli con altra acqua che scorre, piombo, cera, luce, ombra, scrittura luminosa che appare e scompare. E si rimane

Un monumento antimonumentale

Mistica del quotidianotra acqua, aria, ferroe cera (e Keats)

di gianni [email protected] incantati a guardare quelle volute

di nerofumo tra lastre di vetro, a seguire il filo d’acqua che appun-to scivola silenzioso lasciandosi scorgere solo nel luccichio del suo fluire, il piombo e le cera dove lo stesso cerchio si imprime, le scritte incise in una lastra di piombo con altra acqua ancora che vi scorre su, o altre scritte ancora, fatte magari di luce, che appaiono per un breve tratto an-cora su una lastra di piombo, per poi scomparire. E sono magari versi, come quelli dell’epitaffio del poeta inglese John Keats, “Here lies one whose name was written in water”, appunto: qui giace colui il cui nome fu scritto nell’acqua ….Anche in questo sembra di scorgere l’eco di un radicalismo anni ’70: si ricordino, tanto per dire, le scritte di Gina Pane tra carta e terra, tra carta e sangue, come a dare un corpo a quelle parole, a crearne un equivalente. Ma anche qui il “furor” dell’arti-sta italo-francese si trasforma in tutt’altro, diventa meditazione accorata, introversione: “apnea”, direbbe Botta. Che da parte sua, non solo costruisce queste forme ma le organizza anche in ambientazioni precise, immersive, collaborando con registi e musicisti – come aveva fatto ai Magazzini del Sale di Siena del 2006. Situazioni ambientali messe in atto anche a Milano, alla Triennale di pochi mesi fa, dove aveva presentato addirittura una ricreazione del Cenacolo dell’Ultima cena di Leonardo, interrogandosi sull’i-dea del sacro e del nutrimento. Già, proprio il sacro. Per Botta, che insegue una sorta di mistica della materia, viene in mente una parola: ierofanie; un termine che per il suo inventore, il celebre storico delle religioni Mircea Eliade, indicava l’atto attraverso il quale il sacro si manifesta. Poteva essere un oggetto comune assurto però a ulteriori significati, a quella alterità che è del sacro, del separato appunto. Ecco, il sacro di Botta non rimanda a un aldilà, ma concentra, con capa-cità, eleganza e perfetta regia, il senso di quel che è qua, sotto gli occhi di tutti, ma che parla e si rivela solo una volta che si creino le condizioni adatte per parlare.

Galleria Il Ponte, via di Mezzo, 42b, Firenze fino al 24 luglio

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Si è spento poco più di un mese fa, a Spoleto dove si era ritirato dopo una carrie-

ra da fotoreporter di fama inter-nazionale, Caio Mario Garrubba (1923-2015), per quasi tutti solo Caio Garrubba. Nell’immedia-to dopoguerra arriva a Roma per studiare storia e filosofia, si iscrive al PCI e comincia a scrivere per il settimanale della CGIL e per altre pubblicazioni della sinistra. Nel 1952 durante un viaggio in Spagna comincia a fotografare quasi per caso con una Rolleiflex, ed alcune di que-ste immagini vengono acquistate da Ennio Flaiano che le pubblica su “Il Mondo”. Per Garrubba è una sorta di illuminazione, fonda il “Collettivo Fotografi Associa-ti” con altri fotografi romani, uniti nella convinzione che “il vero fotografo è colui che non si piega alle esigenze del giornale“ e che “i servizi invenduti in Italia trionfano all’estero”. Il sodalizio ha una vita breve, ma i principi su cui si basa rimangono per Caio Garrubba un imperativo costante. Nel 1954 comincia per Garrubba una stagione di viaggi, Francia, Spagna, Marocco e Nord Africa, completando l’an-no seguente il giro del Mediter-raneo. Nel 1956 la rivista tedesca Stern pubblica una sua foto in copertina, e per Garrubba si apre il mercato internazionale. Co-mincia a percorrere l’Europa del Nord, vendendo i propri servizi mano a mano che si sposta da un paese all’altro, ed acquistan-do una fama internazionale che comincia addirittura a preceder-lo nelle redazioni delle grandi riviste europee. A Parigi viene acclamato come “le grand photo-graphe italien”, mentre il suo nome rimane quasi sconosciuto in Italia. Nel 1957 comincia a muoversi verso i paesi dell’Est, dapprima Berlino, poi Varsavia, dove incontra la compagna della sua vita, che lo segue nei suoi spostamenti, fino in Unione Sovietica. I suoi orizzonti si allargano sempre di più, verso gli Stati Uniti, il Brasile, l’Oriente ed il Giappone, ma quelli che percorre in maniera più siste-matica sono i paesi “comunisti”, all’epoca una sorta di mondo sconosciuto, sul quale mancava ogni documentazione oggettiva.

di danilo [email protected] Nel 1959 riesce, uno fra i pochi

fotografi europei, a visitare la Cina, da cui riporta immagini mai viste prima, che pubblica dapprima a New York nel 1963, ed in seguito anche in Italia, sotto la forma di un fotolibro (I cinesi) del 1969. Il mondo che Garrubba racconta è quello della quotidianità, il suo sguardo si posa sulle persone intente alle loro attività di ogni giorno, il lavoro, il riposo, gli incontri, la famiglia, le amicizie, le complicità, i giochi, ma anche l’angoscia, la solitudine, la dispe-razione, lo smarrimento, la gioia, le preoccupazioni. Garrubba non cerca le immagini spettacolari, non insegue e non cerca per forza i personaggi famosi, che tuttavia ha modo di conoscere e di incontrare nel corso dei suoi spostamenti, e non cerca gli avvenimenti irripetibili. Garrub-ba preferisce stare “dalla parte di chi non fa notizia”, e racconta la realtà così come la vede attraver-so i suoi occhi, senza cercare mo-menti particolari, senza forzare o condizionare i comportamenti. Si accosta ai suoi personaggi in maniera del tutto spontanea, non agisce da osservatore distac-cato, freddo ed impersonale, ma si pone idealmente al fianco dei suoi personaggi, esseri umani accanto ad altri esseri umani, che lavorano e nutrono speranze, al di là di ogni ideologia. Nei suoi soggiorni nei paesi dell’Est non racconta né le conquiste né le illusioni, né i fallimenti né le disillusioni, non racconta il socialismo reale né quello ideale. Racconta invece le persone che si muovono in questo scenario, così come racconta il meridione dell’Italia, gli operai polacchi, i militari sovietici, le guardie spagnole, i braccianti calabresi, le mense collettive e le sale da ballo, le piazze vuote o gremite di persone, senza pregiudizi e senza formulare giudizi che va-dano al di là di quanto osservato e rappresentato. Considerato e stimato molto più all’estero che nel suo paese, Garrubba, con la sua statura ideale e professionale, non cessa di essere un modello per un fotogiornalismo onesto e responsabile. Nel 2014 la sua attività è stata celebrata a Roma con una importante mostra e la pubblicazione di un ponderoso catalogo.

Caio Garrubba,fotoreporter

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gallerie, la più profonda delle quali si trova a circa 315 metri al di sotto del piano di ingresso. Dalla prossima estate (ma forse anche prima sperano i ragazzi della cooperativa che gestisce la struttura) sarà possibile scendere

fino al 4° piano delle gallerie di scavo, grazie agli interventi, già realizzati, per la messa in sicurezza, che aspettano solo le necessarie autorizzazioni. Nel palazzo comunale del borgo murato di Montecatini val di

Cecina è allestito il centro di documentazione sulle attività minerarie e sulle risorse del sot-tosuolo della val di Cecina che comprendono, oltre al rame, il salgemma, l’alabastro, il calcedo-nio e la lignite.

Dopo oltre 100 anni di oblio, e di ricordi raccon-tati dagli anziani del luogo,

si può tornare a percorrere alcuni metri dei circa 35 km di gallerie della più importante miniera di rame d’Europa del XIX secolo. Il comune di Montecatini val di Cecina ha aperto alla pubblica fruizione una parte del comples-so minerario che ha acquistato dalla proprietà privata alcuni anni orsono, e che si trova a circa 1 km di distanza dal piccolo bor-go protetto dalla torre Belforti. Con tenacia, a partire dal 2001, sono stati avviati interventi di messa in sicurezza delle gallerie, e di recupero dei manufatti fuori terra, che consentono oggi di poter visistare circa 500 metri di gallerie e i principali luoghi, fra quelli ancora esistenti, dove si svolgeva l’attività mineraria. Per lo sfruttamento della miniera di Caporciano, di cui si hanno notizie già in età etrusca, e che fu avviata alla produzione industriale partire dal 1827, il 26 marzo del 1888 fu costituita in Firenze la “Società Anonima delle Miniere di Montecatini” che divenne poi la “Montecatini spa” con sede in via della Spada 1, sempre in Firenze. Dalla fusione della Montecatini e della Edison nacque poi, nel secondo dopoguerra, la Montedison che fu uno dei più importanti attori mondiali nel settore della chimi-ca applicata.La visita al complesso minerario ha inizio dal fabbricato di ingres-so originario, dove i minatori entrando lasciavano la targhetta di identificazione e prendevano la lampada ad acetilene, e si addentra, con percorso in piano, fino ad arrivare sulla verticale del pozzo Alfredo. Uscendo si possono vedere, all’inizio del percorso esterno, i ruderi dei grandi edifici per il lavaggio del minerale grezzo (all’interno dei resti dei quali in estate si svolgo-no attività musicali e teatrali), per poi salire fino alla sommità della torre del Pozzo Alfredo, che era il pozzo dal quale scendeva e saliva l’ascensore per il trasporto, fuori dalla miniera, del materiale scavato. I minatori invece scen-devano a piedi, e in silenzio se-condo le direttive della proprietà, per raggiungere i 10 piani delle

di gianni [email protected] Il rame

Montecatinidi

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rifioriti questi ambienti di grande charme: il passage des Panoramas dalla struttura ispi-rata alle stampe orientali dei souk, il passage Jouffroy con le insegne d’epoca e l’ingresso del museo delle cere con il suo Palais des mirages, magico sa-lone fitto di specchi, il passage Verdeau dall’elegante struttura neoclassica, e poi il passage du Grand Cerf con i suoi incre-dibili negozi, il passage Bradi, solo ristoranti indiani, fino a uno dei più recenti, il più lussuoso, la Gallerie Vivienne (1823), con le sue prestigiose decorazioni e il pavimento in mosaico.Amanti dell’ “altra Parigi” attenzione, se volete visitarli non andate prima di mezzo-giorno: il mondo dei passages, lontano dal ritmo frenetico di Parigi, apre le sue meraviglie con molta calma.

Walter Benjamin li definì come chiese dalle grandi navate su cui si

aprono una moltitudine di cap-pelle laterali. Sono i passages, gallerie coperte che, ben na-scoste tra le vie di Parigi, testi-moniano le tracce della vita e dello stile architettonico di un tempo lontano e custodiscono piccoli e preziosi negozi di antiquari, di cartoline antiche, librerie particolari, gallerie d’arte, boutiques, ristoranti-ni...Antenati delle nostre galle-rie commerciali, dopo il primo passage, la Galeries de Bois al Palais Royal (1786), che ebbe un enorme successo, ne furono costruiti fino agli inizi del 1800 altri 150, quasi tutti vicini ai Grands Boulevards dove viveva la classe agiata e, ieri come oggi, c’era un’alta concentrazione di teatri e ristoranti alla moda. I passages furono ideati per allargare il commercio all’interno dell’an-tico tessuto urbano ma ben presto divennero punto di ri-trovo della borghesia chic che, sotto le magnifiche strutture in ferro e vetro che proteggevano dalle intemperie, dal fango, da-gli odori e dal caos della strada, amava ammirare la meraviglia delle prime vetrine o passeg-giare di sera, in un tempo in cui la città era ancora molto buia, in quei luoghi eleganti ben illuminati dalle grandi lampade d’ottone. All’interno di queste oasi vi si trovavano anche le sedi delle più presti-giose testate giornalistiche e di case editrici, teatri, botteghe di incisori, studi di artisti.....Con l’apertura, sotto il secon-do impero, dei primi grandi magazzini come Au Printemps con gli spazi immensi e la luce elettrica, gli stretti passages con le loro piccole boutiques persero di fascino e per loro iniziò il declino. Molti furono inglobati negli edifici laterali, e della loro esistenza rimarrà solo l’insegna che ancora oggi possiamo vedere. Altri, circa una ventina, furono trascu-rati fino alla riscoperta e alla rivalutazione negli anni 80. Sotto le preziose volte in ferro e vetro che diffondono una luminosità particolare sono

Passagesricoveri eleganti per gli chic parigini

di Simonetta [email protected]

Il migliore dei Lidi possibilia caval donato...

Disegnodi Lido Contemori

Didascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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Il presidente ATAF ha annuncia-to che a breve cambierà il nome dell’Azienda, ormai vetusto (il primo gennaio del prossimo anno avrebbe compiuto giusto settanta anni).In principio fu la “Fratelli Muna-ri” che, nel 1865, iniziò a gestire la rete omnibus. Nel 1866 nacque la “Società degli Omnibus di Firenze”. Nel 1867 le due Società si fusero nell’“Impresa Genera-le degli Omnibus di Firenze”, sopravvissuta fino al 1922.Poi iniziò l’era del tranvai. La prima ad affacciarsi sulla scena, nel 1879, fu la “Società per il Tramway Firenze-Prato”, emana-zione della “Societè General de Chemins de Fer Economiques”, con sede a Bruxelles, che, nel giro di pochi anni, muterà la sua ragione sociale prima in “Società Generale dei Tramways di Bruxel-les” e poi in “Società Anonima dei Tramways Fiorentini”: la società, che i fiorentini soprannominarono

“la Belga”, fu la prima ad avere un acronimo (“TF = Tramways Fiorentini”) e un logo.La Belga avrebbe assorbito altre società nate a fine ‘800: “L’Impre-sa per la Costruzione e l’Esercizio di Tramways e Funicolari” (1886-1888) e la “Società Italiana per il Tramvia del Chianti e dei Colli Fiorentini” (1889-1897).La Belga fallì nel 1934 e il Comune di Firenze assunse in proprio il servizio costituendo la “Gestione Tranviaria Fiorentina” (GTF); nel 1935 subentrò una società di proprietà FIAT “Società Tranviaria Urbana” (STU) che nel 1940 cambiò ragione sociale ma non acronimo “Società Trasporti Urbani”.Il 1° gennaio 1946 nasce la mu-nicipalizzata “Azienda Tranviaria Automobistica Filoviaria” (ATAF),

acronimo che non cambia nel corso degli anni “Azienda Trasporti Auto-mobilistici Filoviari” dal 1958, “Azienda Trasporti Automobilistici Fiorentini” dal 1973, “Azienda Trasporti Area Fiorentina” dal 1978, fino all’attuale ATAF Ge-stioni s.p.a.; domani non si sa.Addio vecchia ATAF, ora i fiorentini dovranno ingegnarsi per storpiare il nuovo nome, così come avevano fatto creando capo-lavori come “Aspettare Tanto alle Fermate” e “Azienda Trabiccoli Arrugginiti Fiorentini”.Chiudo con un paio di citazio-ni letterarie: c’è un racconto di Arthur C. Clarke intitolato “The Nine Billion Names of God” nel quale due ingegneri impiantano in

uno sperduto monastero tibetano una calcola-trice elettronica (!) che consentirà ai monaci di completare in breve il lavoro che stanno com-piendo da generazioni: trovare tutti i nove miliardi di nomi di Dio

che, vuole la leggenda, è il fine ultimo dell’umanità. Mentre i due ingegneri scendono dalla monta-gna, la ricerca viene compiuta e “silenziosamente le stelle sopra di loro cominciarono a spengersi”.Se il prossimo sarà l’ultimo nome di ATAF, per i dipendenti che hanno dedicato la loro vita all’Azienda e per i fiorentini tutti non si spengeranno certo le stelle, ma verrà sicuramente a manca-re qualcosa di importante, per quanto impalpabile possa essere; ma non disperiamo: come ha scritto Umberto Eco e Bernardo di Chiaravalle prima di lui “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”.

contaminazione, il sincretismo musicale fra due anime così diverse presentava qualche inco-gnita. Eppure il risultato convin-ce: da questa fusione nasce una musica mobile, imprevedibile, inclassificabile. Tanya Tagaq canta secondo una modalità canora tipica del popolo inuit, il canto di gola (katajaq), che consente di emet-tere contemporaneamente due suoni. Utilizzata anche da alcuni popoli indigeni siberiani, questa tecnica vocale la differenzia

nettamente da altri cantanti che fanno un uso particolare della voce, come Tim Buckley, Mere-dith Monk o Demetrio Stratos. L’artista inuit grida, soffia, sospira, freme, grugnisce: sono i suoni della natura e degli anima-li, il respiro della Madre Terra, analogo a quello già ascoltato in Animism (2014, vedi n. 94). Accanto a questi elementi tradizionali la cantante mani-festa influenze che spaziano dalla musica elettronica a quella industriale. Le sue ardite spe-

il Kronos Quartet, quartetto d’archi fondato da David Harrington nel 1973, è

uno dei più prestigiosi gruppi di musica contemporanea. Grazie alla sua versatilità ha traversato quasi mezzo secolo costruendo un mosaico eccezionale per qua-lità e varietà. Ha inciso musiche di jazzisti (Evans, Monk), mi-nimalisti (Glass, Reich, Riley), autori contemporanei (Górecki, Sculthorpe, Vasks, Volans). Non ha dimenticato il rock (Jimi Hendrix, Sigur Rós). Inoltre ha collaborato con Joan Arma-trading, Dave Matthews Band, Andy Summers e molti altri.Per un gruppo così eclettico, ovviamente, esistono sempre nuovi territori da esplorare, sia in senso musicale che geografi-co. Lo dimostra il CD Tundra Songs (Centrediscs, 2015), che il Kronos Quartet ha realizza-to insieme alla cantante inuit Tanya Tagaq. I sei pezzi del di-sco, composti da Derek Charke, sono ispirati a questa cultura artica.L’insolita collaborazione era già stata sperimentata in alcuni concerti dal vivo. La sfida era comunque molto rischiosa: an-che in questi tempi segnati dalla

rimentazioni vocali si sposano perfettamente con gli archi del celebre quartetto statunitense. Tanya occupa un ruolo centrale in “Tundra Songs”, quasi mezz’o-ra che necessita di un ascolto attento e paziente. Diviso in cinque movementi, il brano utilizza una serie di accorgimenti tonali che rendono simili il suono degli archi e il canto di gola. “Sassu-ma Arnaa: The Woman Down There”, il brano

che chiude il CD, racconta la storia di Sedna, dea del mare nella mitologia eschimese. Il te-sto viene recitato da Laakkuluk Williamson Bathory, cantante e scrittrice inuit.“Cercle du Nord” è un raffinato collage di suoni naturali che Charke ha raccolto nel Canada subartico. Riaffermare la possibilità di in-contri fra culture diverse (molto diverse, in questo caso), come fa Tundra Songs, è anche un modo per combattere gli stereotipi che continuano a incombere sui po-poli indigeni, nonostante si parli tanto di tolleranza e di rispetto per la diversità.

di FaBriZio [email protected] Rivoluzione nominale della azienda

fiorentina di trasporto

Ilrespirodella terra

di aleSSandro [email protected]

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quelle scuoline della materna o delle prime classi elementari, che aprono le loro finestre sulla via e mostrano interni dimessi, ma abitati da quantità di bambini composti, sorridenti, ordinati e puliti nelle loro divise di scuo-la. Trinidad soprattutto appare bellissima, piena di luce, disegna-ta in un reticolo di vie e viuzze, spesso ancora con il selciato in pietra, con stretti marciapiedi rialzati, immagino per protegge-re gli ingressi dagli acquazzoni tropicali. Abitazioni ad un piano, massimo due, attaccate una all’altra sul fronte della via, ma

aperte all’interno su giardini e corti interne, dove si aprono altri ingressi e si diramano altri percor-si, costruiti a spese di antiche grandezze celebrate nelle case signorili ancora in piedi. Colori pastello, o gialli e rossi vivacis-simi, su ogni facciata, e – anche qui – lavori in corso per mante-nere e ricostruire una bellezza che con la luce del pomeriggio e in un tramonto ancora tropicale, più lento e misurato del precipitoso abbuiarsi dell’equatore, risplende di una luce struggente. Gente dappertutto, turisti, ma anche i locali, sempre sull’uscio delle case

o nelle stanze, spesso anguste, che intravedi dalle finestre a pianoter-ra; o sulla strada a proporti taxi, sigari, valuta in nero, ma anche a chiedere caramelle, saponette e Cuc. Dappertutto, nell’ombra delle stanze anche le più modeste, ampie sedie a dondolo, tante da far pensare che se non ne hai al-meno una non sei nessuno. Forse un segno del calore tropicale del mezzogiorno, che svuota le vie e induce ad un fresco ritiro per la siesta pomeridiana. Movimento ovunque, vivace e vario, dove la varietà del colore domina, nelle persone, nelle facciate delle case, negli abiti delle donne - forse impiegate dello stato - con i tipici vestiti e copricapo che rimandano al più sfruttato paradigma colo-niale, tipo “Cacao Maravigliao”, che si offrono per una foto rigo-rosamente a pagamento: una foto un Cuc; offerte inferiori sono sdegnosamente commentate. E poi i colori delle macchine, qui meno invasivamente presenti che all’Avana, ma ancora numerose, verdi, rosse, azzurre, o ridipinte con le tinti più inverosimili a co-prire la ruggine che avvolge molti di questi cimeli di una ricchezza recente, della Cuba comprata dai mafiosi americani, che qui avevano prosperato al riparo della dittatura di Batista, fino alla Rivoluzione di Castro. Da quel momento in poi, con criteri che non conosco, questo notevole parco automobilistico è stato redistribuito e trasformato in gran parte in taxi, oggi privati per la gran parte, i cui proprietari - di necessità meccanici esperti - si ingegnano a mantenerli marcianti e fiammanti nonostante gli anni. Devo dire a questo proposito che sono uscito trionfante da un confronto con una di queste meraviglie, una Chevrolet credo, che il suo proprietario vantava essere più vecchia di me: del ‘52, diceva con giustificato orgoglio, magnificando l’oggetto tenuto insieme in tutti i  modi possibili. Ma io sono più vecchio, sono del ‘50, ho risposto con altrettanto orgoglio all’incredulo tassista. Ora non so però se vantarmi di resistere meglio di una macchina d’annata all’usura degli anni o se rattristarmi al pensiero dei sessan-tacinquenni cubani, mediamente molto più sciupati della Chevro-let in questione. Nel dubbio, mi astengo.

Però ci sono anche cose molto belle, di un fascino tutto particolare, che recu-

pera la storia e la ricchezza della Cuba coloniale, dello zucchero e del tabacco, dei ricchi proprietari terrieri e della popolazione più colorata che ho mai visto. L’isola ha attraversato periodi di pro-sperità, fin da quando nel corso del 1500 divenne un porto di riferimento per le rotte dei galeo-ni che trasportavano le ricchezze depredate nei paesi americani del sud verso la Spagna. Di quel pe-riodo rimangono le fortezze e le cinte murarie che ancora sorgono a protezione del porto interno dell’Avana. Quando i traffici diminuirono e si spostarono su altre rotte, l’economia cubana si rivolse allo sviluppo della agricol-tura, e di conseguenza emerse la necessità di incrementare la tratta di schiavi africani, dal momento che la popolazione autoctona era stata totalmente sterminata dai cattolicissimi colonizzatori spagnoli e l’isola era abitata da pochi coloni spagnoli, portoghesi e italiani, insufficienti a garantire lo sviluppo delle attività econo-miche di tipo agricolo e proto industriale. Da qui lo sviluppo di una popolazione che mostra tutti i colori dell’arcobaleno, dal nero più nero degli antichi schiavi africani al bianco dei discendenti delle più recenti immigrazioni di nordamericani dei primi del Novecento; e fatto ancora più im-pressionante, certamente legato ai cinquantasei anni del potere castrista, una uguale distribuzione di miseria e “ricchezza”, che non sembrano guardare ai colori della pelle ma si appiccicano - l’una o l’altra - a tutti i tipi di questo calderone interrazziale che 500 anni di colonialismo e schiavitù hanno generato. Tutto questo si legge meglio e più piacevolmen-te, dal punto di vista del turista, nelle due altre città che abbiamo visitato: Cienfuegos e Trinidad, dove, immagino per la dimensio-ne più piccola, anche la miseria si fa più piccola, ed emerge una organizzazione sociale cittadina che dal turismo e dalle attività collegate riesce a ricavare un più diffuso se pure modesto benes-sere, integrato dai servizi statali, sempre più poveri ma ancora garantiti alla popolazione: come

Cuba libre/2di andrea [email protected]

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Ci sono libri che appena inizi a leggerli capisci che hanno una marcia in più. “Passaggio in

Sardegna” di Massimo Onofri a me ha fatto subito questo effetto, un effetto di trascinamento.Onofri lo deve avere scritto in uno stato d’animo speciale, direi in uno stato di felicità, di felicità e di leggerezza.La Sardegna è la protagonista unica e assoluta di questo libro che è un po’ saggio, un po’ autobiografia ma funziona anche come narrazione pura. Come se fosse un romanzo. Mentre scrivo leggo di innumerevo-li presentazioni che Onofri ne fa in tutta Italia, e moltissime in Sarde-gna. E dell’entusiasmo che suscita, del grande successo che ha il libro e che non mi sorprende affatto.Onofri ha scritto un libro affasci-nante, ricco di fatti, di persone, di incontri, di luoghi -non solo di mare e di spiagge famose in tutto il mondo. Da queste pagine se ne ricava quasi un’immagine paradi-siaca, di una terra che chi non la co-nosce o la conosce poco, dovrebbe affrettarsi a visitare prima possibile, tanto è promettente. Lo scrittore vi fa un’immersione a 360 gradi, e il risultato è questo libro meditato e ricco di sensazioni e di idee. In cui forse hanno una pari importanza, ai fini del bilancio finale, le motiva-zioni personali che hanno spinto Onofri a scriverlo, impegnandosi a fondo per dimostrare tutto l’amore che lo lega a questa terra, ma conta molto anche la sua grande cultura, letteraria e storica, che gli permette di disegnare una narrazione ad am-pio spettro. Ed è un libro godibile perché dalle sue pagine spira un’at-mosfera serena e rasserenante.Egli ci si deve essere dedicato con grande impegno, forse gli hanno insegnato questa “concentrazione orgogliosa” certi sardi “di tenace concetto” che dice di aver cono-sciuto.Grande spazio e importanza viene data alla storia civile e a quella letteraria. E certo un critico ”che ha letto tutti i libri” come Onofri si muove con sicura padronanza della materia e signoreggia da par suo episodi storici e scrittori isolani, sicché ne risulta una panorama storico-culturale disegnato in modo convincente ed esaustivo. Siamo di fronte ad un doppio versante, da un lato paesaggio e natura, e dall’altro la cultura Sarda specialmente nove-

centesca. Le due cose sono ben fuse e trattate in maniera equilibrata: penso per es. ai commossi capitoli dedicati a Grazia Deledda ed a Gramsci, mentre come esempio perfetto di racconto naturalistico mi limito a ricordare le splendide pagine dedicate all’Asinara.Tanti incontri: amici, allievi, allieve, ricordi e legami affettivi, in un riu-scito amalgama tra spazio dedicato al mondo personale e a quello della realtà oggettiva.Si ha l’impressione che l’autore riesca a rivelare a se stesso tutta la profondità del legame che i 13 anni

trascorsi come docente di letteratu-ra italiana nell’università di Sassari sono riusciti a stabilire tra lui e que-sta terra. Egli si sente trasformato da questa lunga esperienza:“Sono passati tredici anni e la Sardegna- chi l’avrebbe detto- è riuscita a cambiarmi”.Onofri si cimenta con un taglio che talora ha un andamento da romanzo, voglio dire che la sua non è mai una Sardegna convenzionale ma d’autore.La sua vera ambizione è stata raccontare la Sardegna come lui l’ha vista e scoperta. In cui cioè il paesaggio, il carattere degli abi-tanti, l’antropologia ecc ricevessero una coloritura e una connotazione personale lontana dagli stereotipi. Notevoli sono l’entusiasmo e la gioia di vivere che traspaiono da questo racconto, un entusiasmo che è costante in queste pagine che in certi momenti possono sembrare anche un po’ sopra le righe. Onofri fa molte cose in questo libro, rende omaggio all’isola, ne esalta le qualità della sua storia e e le bellezze naturali.Direi che tre sono i nuclei tematici fondamentali: 1) l’amicizia, 2) il cibo, 3) le donne (ne compaiono tantissime).Soprattutto ci fa toccare con mano

di leandro [email protected] Il Passaggio

in Sardegnala rinnovata vitalità che gli ha dato lo stile dii vita lento, “slow”,che ha imparato tra queste persone e che gli ha insegnato a risanare le proprie infelicità e i propri malesseri. L’immersione in questa terra che ha profondamente assorbito e che ora restituisce sulla pagina, gli permette di fare un racconto affascinante della “sua” Sardegna, messa conti-nuamente a confronto con quella ritratta da altri scrittori, per es. Elio Vittorini, che la visitò negli anni trenta e la raccontò in “Sardegna come un’infanzia”.Si parla tanto di cibi, di luoghi dove mangiare, di specialità culinarie, per es. il capitolo dedicato a Sassari ne è strapieno.Questo libro è scritto con un piacere che balza subito davanti agli occhi del lettore, piacere di raccon-tare e raccontarsi, senza inibizioni e senza risparmio.E’ la narrazione minuziosa e accurata, fatta di devozione e di gratitudine, del rapporto che questo studioso di letteratura, brillante e anticonformista, ha avuto ed ha con la Sardegna, lasciandosi andare al piacere di sviscerare nelle pieghe più riposte l’amore che lo lega ad essa. “Passaggio in Sardegna”e un felice omaggio alla Sardegna, ma è anche un inedito romanzo ispirato alla Sardegna di ieri e di oggi, che penso lascerà un segno duraturo , verrà a costituire un precedente da cui non si potrà più prescindere, un caposal-do nella sterminata bibliografia che riguarda quella magnifica terra.

Non è necessario avere un Gronchi Rosa; sono sufficienti dieci francobolli comuni usati, ma per una grande impresa: sfa-mare per un giorno un bambino delle favelas brasiliane. E’ questo il semplice eppure straordinario progetto “Stamps for food” dell’associazione “Per il sorriso di un bambino” onlus di Fi-renze. L’associazione rimette in circolo francobolli nuovi e usati di ogni paese, di ogni periodo e con il ricavato finanzia centri di assistenza all’infanzia in Brasile e in Tanzania. Si dirà che è l’uo-vo di Colombo, ma c’è voluto Colombo per realizzare l’impre-sa di tenere in piedi un uovo sul tavolo, mentre tutti i gentiluo-mini spagnoli sfidati dal navi-gatore genovese avevano solo

disquisito senza riuscire a fare un bel nulla, E naturalmente c’è voluto l’uovo. Così, in questo caso, ci ha pensato l’associazione presieduta da Roberto Mattei e ci vogliono i francobolli-uo-vo. Chi non ha in casa vecchie collezioni di francobolli, iniziate da bambino e poi lasciate lì, incomplete, quando a quella dei francobolli è subentrata qualche altra passione? Eppure non ci siamo decisi a buttarla al ma-cero. Ebbene, la potete donare all’associzione “Per il sorriso di

un bambino” e quei francobolli chiusi nei cassetti diventeranno una viva possibilità per migliaia di bambini: con questo sistema già 80.000 giornate di corret-ta alimentazione sono state assicurate a Corumbà (Brasile) e Iringa (Tanzania). E’ semplice e funziona: potete spedire i vostri francobolli a Roberto Mattei, Associazione “Per il sorriso di un bambino”onlus – via Svizzera,20 50126 Firenze. Per maggiori informazioni www.sorridibambino.org.

di Simone [email protected]

Stampsfor food

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ci vorranno anni di lavoro!!Benissimo, il governo italiano supporterà tale lavoro per tre, cinque, dieci anni ed oltre, se occorre!!Dice : ma se viene rapito da qualche banda di disperati??Benissimo, il governo metterà a disposizione di questi dispe-rati una somma molto, molto interessante!!Dice : una somma per riscattar-lo e farlo tornare in Italia??Assolutamente no, una somma mensile che faccia star bene quei disperati, faccia vivere loro e le loro famiglie in modo agia-to naturalmente in compagnia del buon Salvini il quale, vivo e vegeto, farà loro lezioni di alta politica.Per noi, poveri indigeni rimasti in Italia andrà comunque bene, ce lo saremo levato comunque dai… maroni !!

Finalmente una buona notizia: l’altra sera il buon Salvini, leader della Lega,

era ospite ad Otto e mezzo ed in quella occasione ha affer-mato, testualmente, di essere pronto ad andare in Libia a parlare con i due governi, con le varie tribù e con tutti gli attori in campo per permet-tere all’Italia di aprire campi profughi direttamente sul suolo libico. Una grandissima occasione, si nomini immedia-tamente Salvini ambasciatore straordinario per la Libia, lo si doti di tutte le felpe possibili (Sirte, Misurata, Derna, Tripo-li, Bengasi ecc,ecc) e lo si invii in Libia con il compito che lui stesso si è assegnato.Dice : ma è un compito impro-bo al limite dell’impossibile, gli

Salvini preparale felpelibiche

di Sergio Favilli [email protected]

Vibratore medico regolabile, inglese, 1910... e che nessuno pensi male! La “English Veedee Company” produceva e commer-cializzava in esclusiva, questo mar-chingegno di deliziosa bizzarria a partire dal 1890 e lo ha fatto fino a metà ‘900, il nome Veedee è im-perscrutabilmente un gioco di pa-role che allude niente meno che al Veni Vidi Vici di Cesare. Strumen-to sanitario di facile uso domici-liare, a funzionamento meccanico senza supporto di elettricità, era in grado con le sue vibranti miniper-cussioni di massaggiare ogni parte del corpo e curare le più varie affezioni: mal di testa, raffreddori, dolori artrosici, flatulenza, disturbi digestivi... almeno così si diceva. Nella brochure di quello conser-vato al PowerHouse Museum di Sydney viene riportato che lo usavano anche i membri della casa Reale e in una letterale citazione della bellissima Lillie Langtry, attrice, ammiratissima da principi e nobili e alla quale Oscar Wilde dedicò ritratti, foto e due poesie, si legge che erano proprio le sapienti vibrazioni del Veedee a mantenere il suo aspetto florido e rilassato....Con i tempi che corrono in cui sembra diffondersi ogni credulo-neria e in cui si parla di ineluttabili risparmi sanitari potrebbe essere auspicabile un suo rilancio. Foto dell’oggetto, della scatola e delle varie istruzioni sono irrinuciabili!

a Cura di CriStina [email protected]

Dalla collezione di RossanoBizzarriadegli oggetti

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Sette salotti, sette piazze. Sette momenti per comunicare, raccontarsi. Questa l’idea della prima fase di MAPS – Salotti urbani, progetto di inQuanto teatro all’interno dell’estate fiorentina. Dal 24 al 30 giu-gno, tra le Cascine, l’Orticul-tura passando per la spiaggia sull’Arno e i giardini di piazza delle Medaglie d’Oro, luo-ghi che in questi anni hanno mutato forma e contesto, verrà allestito un salotto in un’installazione interattiva predisposta da TAF (Trova Allestisce Fotografa), in cui si potrà interagire con gli artisti di inQuanto teatro, portando il proprio punto di vista sulla città e, di conseguenza, sul mondo. Piccoli frammenti audio e video che andranno

a formare una nuova map-pa della città per una visita originale della Firenze meno battuta, meno conosciuta e che andrà poi in scena, nella fase successiva del progetto, dal 22 al 31 luglio. Program-

ma complesso, ambizioso, di tanta immaginazione, questo MAPS, che sarà spiegato e illustrato il 25 giugno presso l’allestimento all’interno del giardino dell’orticultura alle ore 18.00 da Piero Gaglianò uno dei curatori del proget-to. Il programma completo è consultabile all’indirizzo www.inquantoteatro.it

celebrazioni del 70° anniversario della Liberazione, e sono stati già invitati a partecipare ad un festival in Russia.“Abbiamo fatto vivere storie e costumi di due continenti al pubblico fiorentino – ha

detto lo scrittore e giornalista Alessandro Agostinelli, diret-tore del Festival -. Anche nella nostra decima edizione abbiamo provato a fare educazione al viaggio e esercizio di tolleranza e memoria”.

Uno degli incontri di chiusura del Festival è stata la presen-tazione dei taccuini di viaggio sulle isole dell’Arcipelago Toscano, cioè degli acquerelli che raccontano flora e fauna delle nostre isole più vicine, con uno sguardo artistico e descrit-tivo che il disegnatore Andrea Ambrogio ha saputo illustrare al pubblico presente alla Libreria On the Road di Firenze.

Si è conclusa con successo la decima edizione del Festival del Viaggio, il

primo festival italiano dedicato a chi ama viaggiare. Quest’anno dal 9 al 13 giugno a Firenze (e a Palermo la settimana successiva) è stato un incrocio di ospiti da vari paesi del Mondo e di eventi che hanno dato lo sprint giusto all’avvio dell’estate fiorentina.Riccardo Ventrella ha letto alcune pagine del libro di Bruno Casini “Sex and the World – viaggi gay e rock’n’roll” sopra una carrozza ottocentesca trainata da due cavalli bianchi in piazza della Repubblica, suscitando grande curiosità tra i turisti che hanno fotografato stupiti la singolare azione spet-tacolare. L’attrice Elena Guer-rini, alle Murate, ha presentato in prima a Firenze lo spettacolo “Una 500 per tre”, un mono-logo teatrale fatto dentro una vecchia Fiat 500 (messa a dispo-sizione del team cinquino.it) per tre spettatori alla volta.Avevano aperto il Festival del Viaggio la mostra in prima europea del livornese Daniele Dainelli, “Rural China” dedica-ta alle abitazioni dei contadini cinesi. Dainelli vive da oltre dieci anni in Giappone e da cin-que anni si sposta in Cina per questo progetto sulle campagne. La mostra era stata presentata lo scorso anno in una galleria di Shangai e quest’anno il Festival l’ha portata alla galleria Ma-rangoni. Lo stesso giorno alle Murate l’inviata di guerra della Rai, Lucia Goracci (originaria di Orbetello) ha fatto vedere dei filmati inediti sulla città siriana di Kobane, contesa tra i curdi e i mercenari dello Stato Islamico.Invece, al Mercato Centrale, sono state presentate le due nuove guide Lonely Planet, una su Firenze (con tante novità) e una sulla Toscana (più esaustiva delle precedenti edizioni).La Regione Toscana, dal canto suo, ha prodotto due documen-tari, uno fatto dagli studenti con i loro smartphone: una vera e propria primizia di contenuti e di forma. L’altro documenta-rio è dedicato alla Linea Gotica ed è stata la prima pietra di un ipotesi di progetto per un nuovo itinerario storico-ambientale-tu-ristico nelle memorie della Se-conda Guerra Mondiale. Questi due docufilm rientravano nelle

Sì, viaggiare

Nuove mappe urbanenel salotto in piazzadi miChele morroCChitwitter @michemorr

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di Palazzeschi. Il quale supera ogni tendenza letteraria - futurista o cre-puscolare - e regge al tempo perché

tocca con delicatezza e malinconia temi universali.In conclusione, meglio non sapere,

né dove si va né perché, se si vuole un po’ di felicità. In “Movimento” solo l’andare per l’andare, è felicità. Come quando uno si mette a cantare senza sapere le parole dice il poeta in altra occasione. Ma giustamente Frangioni non abbocca a questo lasciarsi andare a occhi bendati e in-terpreta la poesia con ironia tragica, con due figuri ciechi che sembrano tratti da una scena del teatro di Cauteruccio.

“e lasciateli divertire!”Almeno per due settimane, alla Corte Arte contemporanea di via

de’ Coverelli, Paolo della Bella e Aldo Frangioni si divertono con Palazzeschi. Non è uno scherzo, è una cosa serissima, ma scherzosa, come sempre con Palazzeschi, a 130 anni dalla nascita. Autore un po’ dimenticato dal pubblico - ma non dalla critica più attenta - in questo mondo affannato e distratto, che non trova il necessario distacco per l’ironia. Invece della Bella e Frangioni, sodali in arte da sempre, questo tempo l’hanno trovato. Così, su alcune delle più famose poesie dell’Autore, si sono divertiti, a loro volta, a intervenire con un lavoro pittorico raffinato, all’altezza dell’ideale interlocutore Sottile e intricato, leggermente ossessivo, Paolo della Bella, come un tarlo che ogni tanto emette un rumorino, gira e rigira la punta del suo lapis - bisturi o pennello? Basta osservare l’insistenza di quei circuiti che tornano e ritornano su se stessi, con tanti colori, come il riso, appunto, di Palazzeschi - Cucù rurù rurù cucù - che passa dal ridere alla smorfia del saltimbanco Ha un bel dire il poeta con quel Tri tri tri/fru fru fru/: ogni tanto il Della Bella fa spuntare la testa di un serpentello o di un mille piedi che ride e piange, come il monello del poetaPer Aldo Frangioni anche “Rio Bò” ha un suo doppio. Due stelle, due cipressi: una coppia in amore, chissà, ma tutto a un dipresso per non cadere nel sentimentale.Quanto a “Cobò”: Cichirichì\ ecco il dì\ cantano i galli di Cobò.Tutti gli animali dicono la sua poiché Il vecchio Cobò è sul letto che muore\fra poche ore. E Frangioni non riesce a farli proprio allegri, nonostante il coccodé oggi è per te: in effetti non si tratta proprio di un uovo. Il pittore dipinge ‘uccellacci uccellini’, anche assai carini, ma fissando il capezzale\ la civetta veglia e aspetta. Che aspettano anche “Ara Mara Amara”, le tre vecchie che giocano a dadi e non alzano mai la testa, né si muovono dal loro posto? Alla fine la “Fontana malata” è un tale stillicidio, un singhiozzo d’agonia che fa, finalmente, gridare al poeta: basta! E costringe il pittore a espri-mersi con segni e colori ricercati e difficili, in grandi tele verticali, che sembrano cercare una via d’uscita dall’intrigante sarcasmo filosofico

Palazzeschie compagni

di annamaria manetti [email protected]

Paolo della Bella e Aldo Frangioni Sotto a destra Aldo Fran-gioni (Fontana Malata, Ara Mara Amara, Cobò); a sinistra Paolo della Bella - Huisc...Huiusc...Sciu sciu sciu, koku koku koku (particolare)

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Cuba, è stata terra di conquista e colonia spagnola,e per questo la cucina risente molto delle sue in-fluenze e dai sapori forti e intensi della Spagna e africane.Dalla portentosa unione fra le gustosità spagnole e africane, ha origine la gastronomia creola, per il gioioso e naturale folclore sem-plice e soprattutto da produzioni agricole tipiche. I fattori base sono: La carne che è la preferita dai cu-bani soprattutto quella di maiale, arrosto, ma anche fritta o in padel-la. Con le parti grasse del maiale si fanno i famosi chicharrones, stuz-zichini salati, ideali per quando si beve rum o birra. La regina delle insalate cubane è quella di aguaca-te (avocado), ma piacciono molto anche quelle di lattuga e pomodori oppure quelle miste, che general-mente includono anche i cetrioli. Il pollo e banane (platanos) che accompagnano spesso il piatto forte(una sorta di contorno). Il pesce (pescado) non è frequente poiché viene quasi esclusivamente destinato alle esportazioni ed è preparato in salsa, alla griglia o fritto... I frutti di mare (marizcos), le aragoste (langostas) e i gambe-roni (camarones) sono cucinati nelle case particular e nei paladar nonostante il divieto imposto dal governo. I piatti tipici cubani sono moros y cristianos: riso e fagioli neri, tostones, piccadillos, pollo con quimbombó, ropa vieja (stracotto di carne con salsa di

pomodoro e peperoni), platano, yuca ecc. Il dessert solitamente è composto di frutta (mango, pa-paya, guayba, ananas, lime) o frul-lati ma ci sono anche alcuni dolci famosi, i Bunuelos, piccoli dolci fritti, e la Guava, un tipo di frutta dalla quale si ottiene una mar-mellata da gustare a fine pranzo accompagnata con del formaggio. Il piatto nazionale è l’ajiaco; una minestra a base di patate, banane, mais, manzo, pollo e carne secca. Poi c’è il fufù, un purè di banana condito con mojo, olio e aglio, la

mariquitas o chicharritas, banane fritte che sanno di patatine fritte, e i tostones, fette di platano spesse due centimetri circa che sono fritti per un po’, tolte dalla frittura, schiacciate tra due fogli di cartone e poi rifritte ancora.Ingredienti per 6 persone:300 g di carne di manzo adatta per bollito; 300 g di carne di maiale adatta per bollito; 300 g di costolette di maiale; 2 l di brodo di carne; 1 cipolla; 2 spicchi d’aglio1 peperone rosso; 250 g di zucca1 banana plantano; 1 manioca

1 patata dolce; 2 carote; 1 pannoc-chia di mais; 2 cucchiai di olio extra vergine di oliva; 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro; 2 cucchiai di succo di limone; SalePreparazione:Mettete nel brodo la carne di maiale e di manzo e le costolette, portate a ebollizione e fate cuocere per circa 1 ora, finché la carne sarà morbida. Sbucciate la cipolla e l’aglio; tritate la prima e spremete il secondo con l’apposito utensile. Lavate il peperone, dividetelo a metà, privatelo di semi e nervature bianche, quindi riducetelo a da-dini; private della scorza la zucca, il plantano, la manioca, la patata dolce e le carote, riducendoli poi a dadini. Eliminate il cartoccio ester-no della pannocchia e tagliatela a fette piuttosto alte.Scaldate l’olio in una padella larga, fatevi rosolare la cipolla, l’aglio, il peperone, unite il concentrato di pomodoro e il sale, quindi versate il tutto nel brodo con la carne bollita. Aggiungete alla prepara-zione anche la zucca, il plantano, la manioca, la patata dolce, le carote e le rondelle di pannocchia. Acidulate con il succo di limone e fate bollire il tutto per circa 1 ora. Per servire tagliate la carne a boc-concini e uniteli al sugo di cottura e alle verdure. Mescolate e portate in tavola.La banana plantano è di difficile reperibilità. Potete sostituirla con una banana accompagnata da una patata tagliata a dadini, in modo che ne attenui la dolcezza.

di miChele [email protected]

Aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

Scottex L’opera in carta di della Bella, che vi presentiamo questa settimana, non esiste più. Era stata presentata al concorso per il monumento al film gli Uccelli di Alfred Hitchcock , bandito dalla cittadina di Bo-dega Bay. Esposta, per simularne la collo-cazione sopra uno scoglio, è stata afferrata da un gabbiano che poi se l’è mangiata: sembra che anche l’animale sia scomparso dopo il pasto.

Sculturaleggera

La Cucina Creola25

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L’installazione “Seventh Heaven” nasce dal connubio di diverse suggestioni e riflessioni.“Seventh Heaven” era il nome di un prodotto tessile che negli anni 60-70 veniva prodotto a Prato dall’azienda Cocchi Angiolo per essere esportato in Cina.Biennale Italia-Cina 2015 Elisir di lunga vita”dal 26 giugno al 4 ottobre 2015,presso il Mastio della Cittadella, Torino,

Eclettico Spazi d’Arte nasce dall’amicizia consolidata tra due giovani artiste Eleonora Banchi e Virginia Panichi. Lo spazio propone di tanto in tanto mostre d’arte di artisti invitati ad esporre a stretto contatto con la selezione d’arredo di Design del XX secolo e opere di fotografia e arte contemporanea. Fino al 3 luglio Eclettico propone una selezione di lavori degli artisti Lorenzo Brinati, Alessandro Secci e Alexander Tobey nella mostra “La democrazia dello sguardo”.

Workshop di scrittura creativa, fumetto, puppet making e animazione, con Guglielmo Trautvet-ter, regista e puppet maker, e la partecipazione straordinaria di Sergio Staino – progetto ideato e curato da La scatola magica. Il workshop, ideato e curato da La scatola magica, porta, nel corso di tre giornate, alla realizzazione di brevi video di animazione, partendo dalla scrittura delle sceneggiature e dallo storyboard, dalla costruzione di un Bobo tridimensionale con le tecniche del puppet making, fino alla sperimen-tazione della tecnica stop-motion. 14, 15 e 16 luglio 2015, presso la Città dell’Al-tra Economia Costo 90 €Per info e iscrizioni [email protected]

in

giro

Seventh Heaven EcletticoBobo, azione!

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di Aldo FrangioniPer centinaia d’anni l’orribile bestia si era nutrita degli uomini di tutto il mon-do, fino a quando la pancia dell’animale non contenendone più iniziò a vomitarli. Pensando di poterli eliminare definitiva-mente sputava il suo pasto nel mare. Ma quell’umanità, inghiottita nei secoli, era talmente disperata che molti di loro si salvarono e uccisero l’immonda creatura.

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L

Questo è uno scorcio abbastanza eloquente della Lexington Avenue nella sua parte più degradata. Negozi chiusi e sigillati, strada pratica-mente deserta e senso diffuso di abbandono, squallore e tristezza. Non era certo questa l’immagine che mi ero costruita nella mente prima di arrivare nella Grande Mela. A ripensarci bene, e naturalmente con il senno di poi, forse oggi non avrei più il coraggio di avventurarmi

solo soletto e carico di macchine fotografiche nel bel mezzo di queste strade degradate, spesso deserte e/o piene di persone che si strascicavano stancamente e, quasi sempre, senza una meta apparente. Per mia fortuna non ho mai avuto dei veri problemi. A volte è proprio l’apparente sicu-rezza dettata da una certa incoscienza che ci aiuta ad uscire indenni da situazioni che potrebbero improvvisamente diventare anche pericolose.

new York City, 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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