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N° 1 31 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Chi ha paura del lupo cattivo? Il neo sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e la sua campagna contro i libri per bambini che mostrano che esistono anche famiglie non composte da un babbo e una mamma.

Cultura Commestibile 131

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N° 131

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Chi ha pauradel lupo cattivo?

Il neo sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e la sua campagna contro i libri per bambini che mostrano che esistono anche famiglie non composte da un babbo e una mamma.

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Da nonsaltare

e Elena Capretti: la mostra della vita, con più di 160 opere, con l’esposizione del Bruto a Roma che si trova al Bargello ma che era nato durante il periodo in cui Michelangelo era esule a Roma e frequentava i fuoriusciti della Re-pubblica fiorentina. Ecco, la “Mi-chelangiolesca” nasce da questo personale laboratorio. Quest’anno, ripartendo con Umberto Montano e con la spinta del sindaco Dario Nardella, abbiamo pensato ad un festival monografico dedicato al Maestro: una cosa rischiosa, ma anche l’uovo di Colombo, qui a Firenze, perché da lui, comunque, tutti noi traiamo una “rendita” di posizione; la città si arricchisce grazie a Michelangelo, di contenu-ti estetici, intellettuali, spirituali, poetici, ma anche economici. Il bi-nomio con Montano è certamente una sorpresa, ma assai interessante, in sintonia con il mondo di oggi in cui i linguaggi si intrecciano, le esperienze si confrontano e la dialettica anche quando è tra bio-grafie diverse è generatrice sempre di qualcosa di nuovo. Dobbia-mo riuscire a trasmettere ad un pubblico più ampio, attraverso modalità espressive e media diversi, il più ampio spettro di conoscenze e credo che attraverso l’emozione si possano memorizzare sempre mag-giori significati, certo più che attra-verso i soli studi specialistici. Che sono fondamentali, s’intende, ma

noi dobbiamo riuscire a tradurre lo specialismo in un linguaggio più consono al grande pubblico. Che non è la massa: io ho rispetto delle persone, anche dei turisti, che non sono massa indistinta; non si può osservare questa “massa” arroccati dal monte della propria suprema-zia intellettuale, magari partecipan-do comunque dei benefici che essa porta alla città; bisogna starci nel mezzo, conoscerla. Dobbiamo par-lare al più vasto pubblico, singole persone con sensibilità diverse che sta a noi saper intercettare e trasfe-rire a queste persone nozioni e co-gnizioni anche complesse tradotte in linguaggi adeguati. Credo che, dopo un secolo di avanguardie (nel teatro, nell’arte, nella poesia, nella letteratura), noi abbiamo l’obbligo di sperimentare queste pratiche, adattandole all’educazione e alla divulgazione. Faccio un esempio: quando io ho pensato a certe grandi azioni di piazza, ho sempre avuto la sensazione di ripetere in qualche modo i comportamenti del teatro di strada di Pistoletto, di Living Teathre. Così come lavorare in un certo modo sulle piazze urbane abbia a che fare più con l’environment che con le : c’è sempre una cultura dietro quello che cerco di fare.In questo festival mi sembra che una delle cose più notevoli è che tu il grande pubblico andrai a cercarlo nelle periferie. Non solo il grande

pubblico turistico del centro.Sì, non solo il grande pubblico che pure cercheremo, ad esempio, di attrarre in S.Lorenzo che è diventa-ta una diversa piazza dopo lo spo-stamento delle bancarelle, con una serie di eventi che vanno da incon-tri con personalità del mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo, dell’architettura, ma anche con musica, grandi proiezioni sulla fac-ciata (da quelle di Art Media Stu-dio a quelle di Aurelio Amendola). Ma quest’anno ci siamo inventati altri due eventi forti. Il primo è la prosecuzione della performance urbana che era il posizionamento del Davide sugli sproni del Duo-mo e sul sagrato e l’altro è l’idea di portare la conoscenza della storia dell’arte nell’ambiente urbano delle periferie. Questo consiste in un camper - offertoci da Laika - della storia dell’arte e dell’architet-tura, chiamato I LAIKART (è un gioco di parole e logo che mescola l’amore dell’arte con il main spon-sor) che andrà nelle periferie della città (Isolotto, Peretola, Gavinana e Galluzzo). Ho scelto le piazze di quartiere fuori dal centro storico che ancora mantengono qualcosa degli spazi pubblici di un tempo: luogo di aggregazione popolare, di condivisione tra le famiglie, di in-croci fra gli amici. Qui porteremo un racconto sulla storia dell’arte. Progetto che realizzerò con Marco Casamonti e al suo Spazio A, un bel laboratorio di cultura (penso agli incontri che stanno realizzan-do con il prof. Bruscagli su Firenze Capitale): racconteremo episodi della vita di Michelangelo, come artista e come architetto. Partendo da Piazza della Signoria il 13 luglio arriveremo in piazza dell’Isolotto, dove mostreremo una serie di im-magini su degli schermi, spiegando

Michelangelo per tutti! Sergio Risaliti, eclettico storico dell’arte e appassionato stu-

dioso di Buonarroti, direi adoratore come il Vasari, sta per dare il via alla seconda edizione di “Michelangiole-sca”, una cinque giorni (dal 14 al 18 luglio a Firenze) di incontri, eventi, lezioni pubbliche sul grande artista, ideata assieme a Umberto Montano e promossa dal Comune di Firenze e Mercato Centrale. Lo incontro mentre compulsa febbrilmente un assai “frequentato” volume delle “Vite” appunto del Vasari, proprio per parlare di come nasce questa “Michelangiolesca”.“Michelangiolesca” è il risultato di una passione di studi iniziata fin da giovane con una prima pubblicazione con Francesco Vossilla, fino a quando 10 anni fa abbiamo ricominciato insieme a lui a scrivere su Michelangelo. Ne sono scaturiti 5 volumi: il primo sul Bacco del Bargello, il secondo sulla Battaglia dei centauri di Casa Buonarroti, il terzo e il quarto sulla vera storia del David, e il quinto uscito quest’anno sulla Pietà uscito per Bompiani. In mezzo ci sono stati un paio di performance ur-bane, anche spettacolari, popolari, ma profondamente indirizzate alla didattica, alla propedeutica: il pri-mo il collocamento della copia del David sugli sproni del Duomo in occasione di “Florens 2010” e poi con il trasporto plateale, ricostruito quasi filologicamente dall’Opera del Duomo, fino a piazza Signo-ria dove per un sorprendente calambour concettuale alla Giulio Paolini si è vissuto questa mimesi, questa raddoppio dei due David, quello di Arrighetti e quella in vetro resina e polvere di marmo prestato da Cave Michelangelo, che si fronteggiavano. Il secondo, un evento guidato sempre da una intenzione popolare e didattica, la prima “Michelangiolesca” dove ho pensato di coinvolgere Umberto Montano, per agganciare i due livelli – quello spirituale e artistico del genio rinascimentale e quello della dimensione umana, popolare, esistenziale – e al tempo stesso per allargare la conoscenza del vasto pubblico su questi straordinari artisti. Inoltre c’è stata la parte-cipazione all’importante mostra sul centenario di Michelangelo, a Roma lo scorso anno, che ho curato insieme a Cristina Acidini

di Simone [email protected]

Michelangeloper tutti

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Da nonsaltare

quest’anno ho curato con Arabella Natalini la grande mostra di Gor-mley a Forte Belvedere e non trovo grande differenza fra l’occuparmi del cenacolo di S.Apollonia, curare questa mostra, scrivere un libro sulla Pietà o un testo su Giulio Paolini o Domenico Bianchi. Oppure proporre all’Amministra-zione insieme a Fabrizio Moretti la mostra di Jeff Koons a settembre in due spazi speciali di Firenze, che ora non rivelo, ma che serviranno a creare un forte contrasto, con-fronto fra il presente e il passato. Io non ho mai amato lo specialismo; mi piace molto l’eclettismo delle avanguardie dei primi del secolo e ho grande stima per quegli storici dell’arte che sapevano scrivere con-temporaneamente di Carlo Carrà, di Morandi e di Carlo Braccesco o di Caravaggio. Non c’è cesura nell’arte: è stata creata negli ultimi decenni, creando lo specialismo che si è poi insabbiato in pratiche sterili e autoreferenziali. Il proble-ma oggi è che da un lato io ho 500 lettori di un saggio specialistico pubblicato su autorevoli riviste straniere e dall’altro abbiamo 9-10 milioni di persone che vengono a Firenze per godere un attimo di un brano di bellezza: dobbiamo accor-ciare la distanza fra 500 lettori di saggistica e 10 milioni di visitatori e questo spazio non è vuoto, bensì pieno di persone con cui dobbia-mo entrare in contatto e dialogare nei modi più vari. E il camper è uno di questi.E il secondo evento nuovo di Miche-langiolesca?

Porteremo in piazza Signoria un blocco di marmo di 5,30 mt., pesante 44 mila chili che sono le stesse misure esatte del blocco cavato dalle montagne Apuane da cui poi è scaturito il Davide di Mi-chelangelo. Per più motivi. Intanto perché credo che in epoca di estre-ma virtualità ci si debba confronta-re con la materialità, la fisicità delle cose, che ti permette di pensare all’artista anche in termini di ore di lavoro, di sudore, di lavoro affrontato, di coraggio creativo di

fronte alla possanza quasi annichilente di questa materia. Questo ti dà ancora di più l’idea dello slancio spirituale di Michelangelo, per contrasto: tanto più grande e resistente è questa materia-

lità, tanto più forte è la fiamma interiore che lo porta a vincere questa materialità e a sublimarla e trasformarla in una bella immagi-ne. Lì si capisce la forza spirituale di Michelangelo. Il blocco che porteremo avrà scolpita, accen-nata soltanto la mano destra e sarà posizionato in modo che chi arriva da via Calzaiuoli vedrà il gigantesco masso che si frappone alla vista della copia di Arrighetti sull’Arengario. Vogliamo restituire un impatto, l’ingombro fisico ad un turista che guarda sempre più in modo virtuale alle opere. Sarà anche l’occasione per rac-contare la vera storia del Davide che ancora si stenta a conoscere e a divulgare: dobbiamo far entrare nella cultura comune la consape-volezza che il blocco di marmo ex uno lapide su cui Michelangelo ha iniziato a lavorare nel 1501, è stato portato a Firenze da Agostino di Duccio – su questo non vi sono dubbi – che per primo ha scelto di lavorare su un blocco unico. Sap-piamo dal contratto dell’Opera del Duomo che ad Agostino di Duc-cio era stato richiesto di portare un blocco di marmo diviso in parti, per problemi legati alle tecniche di trasporto, per poi scolpirle e ri-montarle a Firenze. Invece Agosti-no ha uno scatto di genio e decide diversamente: fa scendere dalle cave questo blocco integralmente, lo porta via mare a marina di Pisa e poi da lì fino a Signa e da lì al can-tiere di S.Maria del Fiore. Dopo di che questo blocco, secondo la ricostruzione che io e Francesco

Vossilla facemmo, Agostino lo ha completamente scolpito, lasciando a terra una figura definita quasi integralmente: un Davide con una veste leggera, una tunica; forse aveva la mano destra già lavorata per tenere una scimitarra; la testa di Golia sicuramente, come era nell’iconografia dell’epoca (siamo nel la seconda metà del 1400), si-stemata tra le gambe anche perché serviva per dare solidità alla statua; il braccio sinistro già posizionato ripiegato verso la spalla sinistra, che secondo noi impugnava la coc-ca di un mantello anche questo per per sostegno del marmo. Questa storia con vari risvolti continua, fino a quando nel 1501 arriva Mi-chelangelo, prende questo blocco e per prima cosa lo mette in verticale e comincia a rilavorare la figura lasciata da Agostino di Duccio. La genialità di Michelangelo sta tutta nello spogliarlo e rivestirlo di bel-lezza spirituale: toglie una quantità enorme di marmo, toglie la testa fra i piedi, il mantello, cambia così completamente l’iconografia e trasforma quel Davide lasciato da Agostino in una statua di moderna classicità, in un confronto evidente con la statuaria antica che lui aveva visto perché era già stato a Roma dove aveva scolpito il Bacco e la Pietà Vaticana. E’ proprio nella classicità del nudo di David che sta la grande rivoluzione. Sapere che lui ha lavorato, svestito e cambiato la figura precostituita da un altro artista, io credo, che aumenti ancor più la grandezza rivoluzio-naria e il coraggio di Michelan-gelo. C’è, dunque, anche questo risvolto nell’azione che faremo. E’ chiaro che nella mia mente l’idea di collocare un monolite di questa natura in piazza della Signoria ha dei precedenti nei gesti straordinari di artisti contemporanei come Ri-chard Serra ed altri che, appunto, invadono lo spazio pubblico con presenze massicce, possenti e quin-di fortemente ingombranti, quasi al limite dell’ostacolo. Ci sono dunque anche risvolti performativi scultorei molto rischiosi: questa pietra più il basamento alla fine peserà 57 tonnellate. L’operazione si svolgerà alle 5 del mattino di martedì 14 luglio. Sicuramente vi saranno opinioni divergenti, ma nel pensare queste azioni urbane sono sempre sostenuto da una forte attenzione propedeutica e mi faccio ispirare dai linguaggi dell’avanguardia.

in termini molto semplici alcune opere di Michelangelo. In questa operazione saremo coadiuvati dai mediatori culturali di MUS.E che, con un loro attore, eleggerà delle lettere di Michelangelo e degli stralci della vita, dedicati al Davide o al Bacco o alla cupola di S.Pietro o alla sacrestia nuova di S.Lorenzo. Sarà una lectio popolare: dob-biamo imparare da tanti storici dell’arte e scrittori nostri predeces-sori che sapevano, come diceva un grande poeta classico, insegnare dilettando. Ci impegneremo ad andare a raggiungere cittadini nelle piazze e trasferire loro le nostre co-noscenze. Un viaggio nella bellezza che, da ottobre in poi, vorremmo proseguire in Toscana e in Italia. Non c’è difesa dal degrado se non c’è conoscenza, consapevolezza, condivisione del patrimonio e questa non avviene proponendosi dall’alto della propria sapienza, ma calandosi in basso.C’è qualcosa di questa impostazione anche in quello che stai facendo con Virgilio Sieni nei “Cenacoli”: anche quelli sono luoghi dell’arte quoti-diana, dove si spezzava il pane in comunità?Quando Virgilio mi ha parlato di questa sua operazione nei Cenaco-li, mi è sembrato bello mettermi a disposizione per svolgere ogni volta una piccola introduzione artistica del singolo cenacolo. L’altro giorno sono stato in S.Apollonia dove ho parlato di Andrea del Castagno. Stasera andrò in quello di Ognis-santi per parlare del Ghirlandaio. Riuscire a passare dallo studio serio, complesso, faticoso, agli arti-coli di divulgazione sui quotidiani, alle recensioni delle mostre, fino ad operazioni come queste.Sieni mette in scena ballerini non professionisti, gente comune in luoghi non conosciuti (talvolta anche misconosciuti): un’arte quotidiana fatta dalla gente comune per la gente comune per tornare ad impossessarsi di questi luoghi.Io ho scritto che i Cenacoli vivono all’ombra dei grandi musei. Il tema è la partecipazione: accor-ciare la distanza, che provoca disattenzione e incuria, ma anche disagio. La bellezza, la grandezza di un’opera d’arte può mettere a disagio perché ti fa sentire la tua ignoranza, la tua inadeguatezza. Come avviene davanti alle grandi opere di letteratura, o alla poesia, o alla musica contemporanea. Io ho un’impostazione multiforme:

Intervista a Sergio Risaliti“inventore”di Michelangiolesca

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Ci arrendiamo! E facciamo mea culpa. Il ridicolo si è ingigan-tito a dismisura e ha preso il sopravvento, mangiandosi la ragione (o almeno il ragionevole) ha plasmato il reale alla sua maschera sardonica e imbecille. Si è così preso sul serio da farsi passare per cosa seria. E neppu-re la satira può niente contro questa trasfigurazione del reale in ridicolo.Così il nostro eroe Eugenio Giani diventato presidente del Consiglio Regionale annuncia in pompa magna che il suo primo pensiero e deliberazione sarà quello di consentire ai consiglieri regionali di indossare una fascia di riconoscimento in tutte le oc-casioni ufficiali, come i sindaci. La ragionevolezza ci direbbe che questo è un problema secondario rispetto a quelli ben più seri in cui si dibatte la società toscana. La satira (cioè noi) ci gioca su, cercando di mostrare il ridicolo di simili atteggiamenti. Ma, niente, il ridicolo è troppo concentrato su di sé e forse anche la società attorno non si accorge che il re è nudo e, prontamente, si predispone la bozza per la nuova fascia di rappresentan-za. La nostra Stilista di Lenin avrebbe qualcosa da ridire sullo stile: striscia bianca centrale e due piccole strisce laterali rosse con il Pegaso della Toscana che naviga nel bianco fra la scapola e il petto, mentre in fondo a sinistra penzola la coccarda tri-colore... non proprio un design da alta moda. Ma quel che con-ta è che questa esiziale trovata avrà l’onore di deliberazioni di organi istituzionali e diventerà realtà.Poi non ci siamo fatti manca-re neppure una mostra, nella prestigiosa Fondazione di Casa Buonarroti (il piccolo museo che custodisce molti disegni di Michelangelo, che ha avuto fra i suoi direttori scientifici un gran-de studioso come Luciano Berti) su “La forza del mito. I progetti per la facciata di San Lorenzo”, di cui il presidente della stessa Fondazione (carica conserva-ta in forza di una lontana e breve esperienza da assessore alla cultura, e non certo per compe-tenze specifiche) Eugenio Giani è curatore: ma per quale com-

petenza scientifica un politico (peraltro laureato in giurispru-denza) diventa curatore di una mostra sull’arte e architettura del Rinascimento? E’ sufficiente essere un amatore del tema per curare una mostra in un istituto culturale importante come Casa Buonarroti? Oppure tutto è lega-to alla fissazione del Nostro per realizzare oggi, nel XXI secolo, la facciata che Michelangelo non realizzò allora? E a cosa si deve tale pervicacia? Forse ad esigenze di promozione personale e di conquista del consenso? Ma chi ci rimette per questo narcisismo malato se non la cultura?

Del resto che la ricerca spasmodi-ca del consenso immediato sfoci nel ridicolo, lo dimostra anche l’intemerata che lo stesso Eugenio Giani (Presidente del Consiglio Regionale della Toscana, carica cui dovrebbe un certo equilibrio istituzionale) pronuncia dai microfoni di radio Blu contro l’Inter per la vicenda del gioca-tore viola Salah: “è una vicenda scandalosa, l’Inter è un club che rasenta il fallimento... e poi gli si permette questo nel calcio italiano [ricordarsi che Giani è anche delegato regionale toscano del CONI] andando a disturba-re un giocatore sotto contratto,

magari con tramite qualche stra-no agente... se fa tutto questo, bene che venga mandata in Serie B”. Son chiacchiere da Bar Sport che, giustappunto, potremmo trattare noi in cerca del ridicolo per qualche pezzo satirico. Ma no, tutto è tremendamente preso sul serio e Giani può tuonare contro l’Inter, forse indossando la fascia di Presidente del Consiglio Regionale della Toscana.Altro esempio. Il sindaco Nar-della studia da tempo il progetto strategico di candidare il Calcio Storico, lo Scoppio del carro e la festa della Rificolona a patri-monio dell’umanità UNESCO! Ha atteso l’esito del torneo di quest’anno per verificare che non ci fossero feriti e violenze efferate per portare il suo affondo. Al quale aggiunge il carico da novanta: sotto Palazzo Vecchio ad uso dei turisti si farà l’alza-bandiera modello Buckingham Palace con i figuranti del corte storico. Ma ci può essere qualco-sa di più ridicolo e pacchiano? Eppure diventerà realtà, Hai voglia a denunciare l’assurdità di questa ridicolaggine: la folla festante applaude, il potere si pavoneggia di questa sciocchezza meditata, i media registrano e amplificano.E’ anche colpa nostra: troppa attenzione al ridicolo, anche per irriderlo. I suoi interpreti si gonfiano anche della satira, la mangiano e ci si ingrassano, si credono ganzi, costruiscono le loro fortune anche sui nostri sberleffi. Anzi, sospettiamo che se la ridano della satira; come disse una volta Liberace a chi lo prendeva in giro: “sì, ridete pure di me; io rido per tutta la strada fino alla banca”. Che fare, dunque? Rinunciare anche a quel minimo spazio di libertà costituito dalla satira e unirsi alla folla plaudente? Sia mai! Meglio la morte! Continuere-mo a canzonare il ridicolo del potere, da giullari caparbi del XXI secolo. Ma almeno che non ci credano grulli: il gioco si fa peso e tetro, cantava Guccini, comprate il mio di dietro: io lo vendo per poco... ma che almeno si sappia che lo sappiamo!

riunione

difamiglia

le Sorelle marx e i Cugini engelS

Tutti insieme contro il ridicolo

BoBo

Chi è più forte la Madonna o Henry Potter? Per il neo nominato assessore alla Cultura della Puglia Gianni Liviano a vincere la competizione a mani basse è la mamma di Gesù visto che appena preso possesso della poltrona in giunta non ha esitato a rivolgersi alla Vergine Maria per avere la forza di affrontare il percorso, scrivendo a chiare lettere di non possedere bacchette magiche. Quindi per ora Madonna 1-Potter 0 e palla al centro, anche se la partita non è chiusa: la Puglia è in mano al campionissimo di

miracoli Padre Pio che potrebbe aver preso malissimo l’endorse-ment di Liviano verso Maria. Urge quindi una seconda di-chiarazione che tenga conto del frate da Pietrelcina altrimenti la Puglia si può dimenticare la presenza di nomi come Orietta Berti, Mino Reitano, Valeria Marini, Raffaella Fico e tanti altri uomini di spettacoli devoti a Padre Pio. E questo si che sarebbe un danno, mica la nomina di un commerciali-sta con una lunga esperienza parrocchiale all’assessorato alla Cultura.

lo Zio di TroTZky

Questione di devozione

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le recenti polemiche sulla mostra di Hermann Nitsch a Palermo, in cui sono

intervenuti importanti critici di livello internazionale, non hanno fatto altro che mettere in luce l’esigenza di una maggiore edu-cazione artistica, la necessità - in primo luogo - di avere uno sguar-do ulteriore sul fare artistico, per far sì che il senso comune non prevalga sulle vere intenzioni che l’azione estetica porta in sé. In secondo luogo è di notevole im-portanza sottolineare il fatto che non si può, nel campo dell’Arte contemporanea, fermarsi sulle apparenze, ma è un dovere etico e culturale approfondire la poeti-ca individuale, prima di avanzare qualsiasi pretesa su mostre, scelte e/o prassi. Nel particolare, è impensabile cogliere la sacralità che si cela dietro il sangue e l’azione cruenta dell’artista, se non attraverso un’analisi attenta e dettagliata dell’a priori artistico. L’attività artistica di Hermann Nitsch si qualifica come un’Arte totale tesa a profanare il linguag-gio e la parola, ormai del tutto prive della propria consistenza comunicativa ed espressiva, per giungere a una piena aderen-za dell’universo oltre il reale. Ciò che l’apparenza linguistica nasconde è un’autenticità che va vissuta con una maggiore sensibilità e una maggiore presa di coscienza. Il tramonto heideg-geriano del linguaggio può essere colto solo attraverso l’esaltazione delle contraddizioni, il ritorno a un’istintività primordiale, capace di redimere e purificare l’indivi-duo moderno. Nel “teatro delle orgie e dei misteri” il logos esce di scena per far spazio alla pre-senza vitalistica dei sensi, portati alle estreme conseguenze da un connubio di musica, pittura e performatività: l’ordine cede il posto al caos, l’apollineo al dionisiaco, la bellezza mediatica alla sublimità oscura. Attraverso i canovacci di un teatro denso di citazioni filosofiche e teolo-giche, Hermann Nitsch uccide la ratio e la possibilità espressiva contemporanea, con l’intento di mettere in luce il senso di rina-scita spirituale che emerge dalla distruzione fisica della carne. Si tratta di un procedimento catartico e poietico, la cui lettura è intellettualmente rigorosa: di

Dall’alto in bassoIII/12 Prag, 1991Olio su telacm 200x300;15/94, 1999Olio e camicia su telacm 200x300;Senza titolo, 2005Tecnica mista e collage su carta intelata cm 107x176;Raoul/05, 2005Olio e camicia su telacm. 200x300

Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected] fatto il disgusto è necessario per

raggiungere la catarsi, la purifica-zione e la conseguente rinascita. Il comune denominatore fra annichilimento e liberazione è l’immagine e il concetto di Dio, l’unico elemento in grado di legare indissolubilmente la crea-zione all’arte e alla vita, secondo una visione sacra, liturgica e spirituale dell’estetica contem-poranea. In definitiva la prassi artistica e teorica di Hermann Nitsch è un connubio di cultura e scienza, è l’apogeo della storia dell’uomo che nell’azione estetica

trova concretezza e dimostrazio-ne, in virtù della sua personale ricerca volta a ristabilire, attra-verso l’arte, lo stretto legame con lo stato di natura dell’umanità: solo regredendo a tale stadio e colpendo il subconscio degli atto-ri si verifica la catarsi e la presa di coscienza che il linguaggio ha perso qualsiasi valore e qualsiasi funzione. Per riuscire a vedere nuovamente Dio e percepire la sacralità nella vita, l’uomo deve immergersi nella propria crudeltà artificiosamente ricreata e da quella rinascere, come essere in-tellegibile con un valore aggiunto rispetto alla massa.

Hermann NitschArtecrudele

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uno dei capitoli che la storia della fotografia (italiana e non solo) non ha mai se-

riamente indagato, è quello che riguarda il rapporto, quasi edipi-co, fra la fotografia ed il cinema. Figlio (legittimo o meno) della fotografia, il cinema si qualifica fino dai propri esordi per essere un’arte, per essere dotato di un linguaggio autonomo, per essere animato da una filosofia propria, tutte cose che alla fotografia vengono inizialmente negate (in quanto rappresentazione “meccanica” della realtà) e che la fotografia riesce con fatica e solo parzialmente a conquistare, ma spesso solo in quanto “deriva-zione”, in una certa misura, del cinema. Gli stessi fotografi che hanno lavorato nel cinema e per il cinema, e sono moltissimi (lo stesso Robert Capa faceva capolino sui set di Hollywood fra una guerra e l’altra), hanno lavorato quasi sempre nell’ano-nimato, con la sola eccezione di Tazio Secchiaroli, che Fellini ha promosso a “Paparazzo” nel 1960, facendone il prototipo di una categoria vituperata. Ma i fotografi di scena hanno svolto un ruolo tutt’altro che seconda-rio, realizzando quelle immagini promozionali dei film che non potevano essere tratte (per ovvie ragioni) dai fotogrammi delle ci-neprese. Profondamente diversi dai “direttori della fotografia”, i fotografi di scena hanno un ruolo tutt’altro che marginale, e sono le loro immagini ad essere consegnate alla stampa per la presentazione ed il lancio dei film. Inoltre, passeggiando sul set, quegli stessi fotografi hanno realizzato anche immagini di indubbio valore iconografico ed altamente simboliche, magari al di fuori di quanto loro commis-sionato, ed hanno intrecciato rapporti di amicizia e collabora-zione con attori o registi, che li hanno poi richiamati a docu-mentare la lavorazione di film successivi. Ignorati dalla storia del cinema, così come dalla storia della fotografia, questi fotografi cominciano solo oggi ad essere conosciuti ed apprezza-ti per il proprio lavoro, esercitato per anni quasi esclusivamente dentro Cinecittà o nelle sue dirette propaggini.

di danilo [email protected] Fra tutti ricordiamo Angelo

Pennoni (1922-1992) ed Angelo Novi (1930-1997), ambedue prematuramente scomparsi, ed ambedue legati al mondo della cultura cinematografica italiana del periodo fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Angelo Pennoni inizia la propria carriera nel 1950 fotografando con De Sica la lavorazione di “Miracolo a Milano”, e nell’ar-co di trent’anni lavora per un centinaio di film con registi come Blasetti, Comencini, Magni, Lattuada, Monicelli e Ferreri, ma viene ricordato in maniera speciale per le immagi-ni colte durante la lavorazione di “Accattone”, il primo film di Pier Paolo Pasolini e per il rapporto instaurato con il regista. L’altro Angelo, Angelo Novi, dopo un inizio nel 1952 a Milano come fotoreporter, si trasferisce a Roma nel 1960 per diventare fotografo di scena del film “Era notte a Roma” di Rossellini. Lavora per oltre venti film, compresi i film di Pasolini “Il vangelo secondo Matteo” del 1964 e “Uccellacci e uccellini” del 1965, e legandosi con una particolare amicizia con Sergio Leone, fotografando le scene di “Il buono, il brutto e il cattivo“ nel 1966, “C’era una volta il West” nel 1968 e “C’era una volta in America” nel 1894. Con Bertolucci fotografa nel 1987 le scene di “L’ultimo imperatore” nel 1990 “Il tè nel deserto”, l’ultimo film di cui ha potuto fotografare le scene prima della sua morte improvvisa. Il suo contributo ai diversi film non è stato quello di un semplice osservatore esterno e neutro, ma si dice che alcuni registi, dopo avere osservato le sue immagini, abbiano deciso di “copiare” le sue inquadrature riproponendole nel film in lavorazione. Se il ci-nema è la raffigurazione “media-ta” e quindi “falsata” della vita vera, la fotografia della lavorazio-ne di un film è uno spaccato di “vita vera”, colto all’interno del processo di falsificazione della realtà.Come tardivo riconoscimen-to, ad Angelo Pennoni è stata dedicata una mostra al Museo di Roma in Trastevere, ad Angelo Novi sono state dedicate mostre a Como ed a Cesena, ed è stata pubblicata una monografia.

Gli Angeli del set

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dini che hanno e continuano a discriminare la musica popolare, che è l’adattamento del corri-spettivo inglese pop, che a sua volta è la versione popular. Un altro dei grandi paradossi tutto italiani, per effetto del quale, negli ultimi decenni, la gran parte delle “attenzioni” giuridiche e soprat-tutto finanziarie – disposte dalla legislazione statale e in misura mi-nore regionale – è stata riservata quasi esclusivamente alla musica lirica, sinfonica o colta. Una sorta di processo contributivo, nei fatti, inversamente proporzionale al grado di diffusione e di cionvol-gimento del pubblico, come se l’altra fosse musica ignorante. E’ noto del resto, che decine di teatri e di istituzioni concertistiche, fortemente deficitarie, che hanno un bacino di utenza elitario, per censo o per interesse a quel tipo di musica, vengono finanziate con risorse che in qualche modo provengono da tutti i contribuen-ti. Scrivo ciò non con l’auspicio che queste risorse vengano meno, tutt’altro! Vorrei semmai che simili interventi potessero trovare altrettanta consistenza anche per le altre espressioni musicali.Il ragionamento, neppure tanto sotteso, che ha fondato fino ad oggi tale politica legislativa, è che la musica lirica, sinfonica o colta è “vera musica”, mentre tutto il resto è, nel migliore dei casi, “intrattenimento” o nel peggiore, “merce” regolata esclusivamente con le leggi di mercato. Potrem-mo continuare con il fondo unico per lo spettacolo dal vivo (Fus),

che destina molti dei fondi statali alle Fondazioni lirico/sinfoniche, innalzando ulteriori barriere verso la musica popolare. Altro grande paradosso, che penalizza non solo la musica pop, ma anche quella lirica, sinfonica o colta è dato dalla tassazione differenziata dei supporti audiovisivi: una biografia di Mozart viene venduta con l’Iva al 4%, mentre per il disco del Requiem di Mozart l’imposta sale al 20%, stessa cosa per biografia o cd di Kurt Cobain. Tutto questo è accaduto anche in Toscana, dove la musica popolare contempora-nea ha trovato un terreno più che fertile, dove sono cresciuti artisti e rassegne di rilievo anche inter-nazionale, dove gli artisti sono spesso chiamati dalle istituzioni (a cominciare dalla Regione) a “sostenere”, con la loro indiscus-sa capacità di comunicare e di scuotere le coscienze, importanti battaglie civili e culturali. Dove migliaia di giovani, per dirla para-frasando un efficace slogan di una scuola di musica (jazz), “suonano dove possono, ma suonano”. Nonostante la scarsa attenzione legislativa, nonostante l’assenza di strutture o Fondazioni che li sostengano. Per esempio abbiamo tre Fondazioni: la Fondazione Toscana Spettacolo, la Media-teca regionale, l’Orchestra della Toscana. Nessuna delle tre ha competenze in materia di musica popolare! Sono convinto che il livello regionale sia la sede idonea per restituire alla musica popolare contemporanea, e in particolare a quella toscana, lo status artistico,

culturale, sociale ed economico che le appartiene. Anche perché, pur nella grande rilevanza di soggetti attivi e passivi coinvolti, e dei tanti canali e mezzi sui quali la musica “viaggia”, si tratta di un campo troppo specifico e parti-colare, su cui l’intervento deve in qualche modo ri-cominciare con impostazioni culturali e strategie di azioni nuove.Il principio iniziale di questa idea vuole riconoscere il valore artisti-co, culturale e socio-economico della musica popolare contem-poranea. Il Governo regionale dovrebbe far seguire un’azione, anche legislativa, ragionata e programmata per promuoverla, ma uscendo dalla vecchia logica del “sostegno” e dei “ contributi” finalizzati alla sopravvivenza, per agire invece in un’ottica di “compartecipazione” e di “pro-mozione” nel senso più pieno del termine. L’articolato legislativo dovrebbe trattare temi come la valorizzazione e la produzione dei musicisti toscani, la formazione del vasto mondo del lavoro che è correlato ai concerti, il tema degli spazi per suonare (recu-perando anche vecchi circoli, case del popolo o parrocchie), la documentazione del patrimonio musicale. Infine la scuola, luogo quest’ultimo, dove nonostante le “ore di musica” non riesce mai a far nascere una passione musicale, un musicista, pensando anche giovani che possano contami-narsi, con Erasmus musicali con giovani e situazioni di altri Paesi europei.

Tardo pomeriggio domeni-cale nella piazza di Loro Ciuffenna. Una grande

pedana, come quinta il prezioso museo con le opere di Venturino Venturi, sopra una quarantina di musicisti, in elegante divisa nera, con un incompatibile cappellone tipo buttero della Maremma, ma anch’esso nero. Si stanno acco-modando con i loro strumenti. Sono la Derwent Valley Concert Band della Tasmania, pare nel loro paese siano celebri. Io non so nulla di questa banda e poco della lontana isola australiana. Cono-sco i diavoli, ma quella è storia di mammiferi e non di musica. Non so neppure come abbiano fatto a capitare nel piccolo paese alle pendici del Pratomagno, ma domenica scorsa erano li, pronti per suonare. Entra il maestro. Lui lo conosco bene è Orio Odori, dirige ecletticamente la Banda Improvvisa è carismatico, ironico e compone belle musiche con brillante creatività. Si occupa della distribuzione degli spartiti. Il maestro Odori non parla inglese, nella Derwent Valley Concert Band nessuno parla italiano. Si in-tendono a gesti. Praticamente non si conoscono, solo una prova as-sieme il giorno prima. Il maestro alza il braccio destro, dito indice puntato sul Pratomagno. Silenzio. Alza anche il braccio sinistro e via, si parte con l’esecuzione. Lo riconosco subito è il bruco, un pezzo con un modulato tappeto di percussioni, un po’ progressive ed un po’ jazz. Bello, coinvolgen-te. Ecco la forza della musica, la potenza del suo linguaggio. Metti insieme culture, popoli, tradizioni e lingue diverse, gli dai delle note da leggere e subito si intendono, un vero miracolo! E’ su questo miracolo che dobbiamo investire ed in Toscana lo dobbiamo fare con maggiore impegno di altre parti. Questa è terra di Culture, qua sono nate quelle magiche sette note e qua hanno trovato ispirazione grandi musicisti. Ma sopratutto la Toscana è terra dove, negli ultimi tempi, i giovani musicisti nascono in generosa abbondanza. Mi sono occupato di queste cose a lungo, nel Consiglio regionale della Toscana. Ho anche tentato più volte con proposte di legge, senza gran successo, di scardinare vecchie consuetu-

di enZo [email protected]>

Per la musica popolare

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un segno indelebile di ciò che si è vissuto. Nel filmato che testimonia l’azione dell’acido sull’oggetto, colpisce il contrasto tra l’ag-gressività dell’agente chimico, che in modo aleatorio offenda la scultura, e la statica impassi-bilità di quest’ultima. Tuttavia il corpo scultorio persiste, non è sopraffatto e le cicatrici sono si memorie della sofferenza, ma sono i segni della propria pervicace resistenza. È l’im-magine di un’umanità ferita e perseguitata, ma che orgoglio-samente protegge la propria libertà e dignità umana e il significato è ancor più potente se si pensa alla cultura in cui affondano le radici di Athar, l’Iraq. Le fenditure plasmate dall’acido oltre a intaccare la solidità del blocco marmoreo fanno palesare il vuoto. Esso non si configura come assenza del pieno, come mancanza di ciò che riempie, ma secondo la lucida interpretazione heideg-geriana secondo cui esso è il luogo della possibilità, il punto zero da cui sgorga la rigenera-zione e che apre alla vita.

Ather Jaber, Palazzo Medici Riccardi fino al 31 luglio

la pelle della scultura di Athar Jaber è solcata, aggredita ed esperita.

aI corpo umano, nella sua declinazione classico-vitruvia-na, non è più adatto a rappre-sentare la condizione umana e per questa ragione l’anato-mia va scomposta, in modo tale da recuperare un valore semantico attuale. E’ quanto avvenuto nella serie Opus dove gli elementi del corpo umano riaffiorano, ma in modo a sintattico. A livello epidermico l’opera marmorea è intervallata da par-ti in cui essa sembra carne viva, dove le vene pulsano, i muscoli sono in tensione, a parti in cui la materia è rimasta grezza e inesplorata. E’ l’alternanza tra le superfici incise calligrafica-mente e quelle perfettamente levigate a trasmettere l’energia dello scontra tra due forze; l’una entropica, che tenta di ri-equilibrare il disordine, l’altra, che scompagina. In tal senso si comprende un linguaggio a singhiozzi e frammentario scaturito dall’impossibilità di leggere un individuo nella sua interezza. Per questa ragione la composizione prende forma in modo sottrattivo, procede per esclusioni e asseconda la sua natura proteiforme. Anche la raffigurazione del volto non può più avvenire secondo i canoni della ritratti-stica classica: sarebbe del tutto anacronistica e muta dato che non può più essere lo specchio della realtà. Ecco perché le distanze dall’estetica canonica si fanno sempre più evidenti: i volti deturpati e corpi defor-mati sono gli strumenti di un espressività riscoperta. L’incessante curiosità di Athar, spazia dalla ripresa filologica degli strumenti del mestiere del passato alla tecniche più recenti come la morsura con l’acido. Nel caso dell’impiego di quest’ultimo l’opera viene immersa in una vasca conte-nente il liquido corrosivo dove la superficie viene aggredita sino a modificarne le sembian-ze. Il risultato è particolarmen-te suggestivo perché inscena un volto quasi sfigurato, dove la morsura, ricorda un ustione,

di Chiara [email protected]

Il marmodi carneviva

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Raccontava Vasco Magrini che all’età di sei anni si buttò giù da un albero con un ombrello verde da contadino e che atterrò, più o meno incolume, in un cespuglio di rovi. Magrini, nato nel 1894, aveva evidentemente la passione per il volo nel suo DNA.Partito volontario per la prima guerra mondiale, nel 1916 ottie-ne il brevetto di volo. Tornato a Firenze, riesce a racimolare 7.000 lire con le quali acquista un residuato bellico, un Caudron. Festeggia subito l’acquisto con un passaggio a volo radente sulla casa della fidanzata Dina Galli e su casa sua, in Via delle Cento Stelle 21: qui arriva a livello della terrazza, salutando con la mano i parenti che lo guardano terroriz-zati.Nel novembre del 1920 Magrini diventa popolarissimo: alcuni renaioli al lavoro sotto il Ponte Sospeso di San Leopoldo guarda-no increduli un aereo che si sta avvicinando quasi a pelo d’acqua

e si gettano in Arno, convinti che l’aereo punti diritto contro di loro. E’ un Caudron che riesce a passare fra la barca dei renaioli e il ponte e poi, risalendo, impiglia l’elica in un cavo teso fra le due sponde del fiume (probabilmente in forza di qualche maledizione lanciata dai renaioli costretti al bagno fuori stagione) e cade sul greto. Dall’aereo escono incolumi Vasco e il giornalista Alberto De-cia, incauto passeggero e involon-tario protagonista dell’episodio.Sulla scia di quell’impresa, Vasco si inventa delle acrobazie sempre più difficili e rischiose, come at-terrare in una radura di 58 metri alle falde del Falterona, nel letto di un torrente a Ponte Petri e sui binari della Stazione di Santa Maria Novella.Nel 1923 Magrini conosce l’inge-

gner Antonio Mattioni, un friu-lano che, dopo lungo girovagare, si era stabilito a Firenze, dove, nel 1914, aveva concepito un nuovo tipo di aereo che poi aveva sviluppato appunto fino al 1923. Nel 1950 l’Istituto Nazionale per l’Esame delle Invenzioni scrisse: “I principi attivati nell’aereo sperimentale del Mattioni co-stituiscono un’innegabile prima attuazione della propulsione a re-azione, che ha trovato, in epoche molto posteriori e con produ-zione di mezzi colossali a fronte di quelli modesti e personali del Mattioni, tanta larga messe di successi”. Quindi Mattioni, a

tutti gli effetti, fu il precursore dei jet .A parte quello economico (non riuscendo a trova-re finanziatori per la sua invenzione dovette impegnare quasi un milione di lire perso-

nali, riducendosi sul lastrico), l’ingegnere aveva però anche altri problemi: trovare un costruttore per il suo prototipo (e qui ricorse all’officina di Bruno Magrini - il cognome vi dice nulla? - al n.c. 12 di Via Lorenzo il Magnifico) e, soprattutto, un pilota abba-stanza pazzo da collaudare il suo aereo. Indovinate chi si levò in volo dal Campo di Marte il 22 dicembre (o, secondo altri, il 29) 1923 con quell’aereo che i fioren-tini, quando incominciarono a vederlo svolazzare sopra Firenze, battezzarono immediatamente “la botte volante” (vedi foto).

Continua

nio Lunardi scrivendo la colonna sonora di 370 New World, un video realizzato in collaborazio-ne con la Toscana Film Com-mission. Ma quello che più ci interessa di lei, ovviamente, è la sua discografia personale, e in particolare il suo ultimo lavoro, Transcendence (Rattle, 2015).Questo è il suo secondo lavoro

pubblicato dall’etichetta neoze-landese. Rispetto al precedente Forest Stories (Rattle, 2012), dove era affiancata soltanto dal sassofonista portoghese Paulo Chagas, nel nuovo CD la pia-nista ha un gruppo che la vede accanto a tre musicisti eccellenti:Alexandros Botinis (violoncello), Guido de Flaviis (sax) e Solis

l’etichetta neozelandese Rattle è stata fondata nel 1991 da Tim Gummer,

Steve Garden e Keith Hill. Am-miratori della musica contem-poranea, del jazz e della world music, i tre propongono lavori raffinati e non commerciali che riflettono in genere queste prefe-renze, pur restando aperti anche a stimoli diversi. Riservano largo spazio agli artisti neozelandesi, alcuni dei quali meritano molta attenzione. Comunque l’etichet-ta ha un respiro internazionale, perché comprende fra gli altri musicisti americani come Ma-rilyn Crispell e Joshua Redman, il portoghese Pedro Carneiro e la greca Tania Giannouli. È appun-to di lei che vogliamo parlare.Tania Giannouli ha studiato piano e composizione all’Athe-naeum della capitale ellenica. È attiva in vari gruppi, fra i quali Schema Ensemble, dedito all’im-provvisazione, ed Emotone, duo di musica elettronica dove la affianca il marito Tomas Weiss. La pianista si caratterizza per un approccio multimediale. Ha composto musica per il cinema e per il teatro. Ha collaborato col videoartista lucchese Marcanto-

Barki (percussioni e idiofoni). Tutti vantano collaborazioni prestigiose. L’unico ospite, il batterista Gian-nis Notaras, fa parte del suddet-to Schema Ensemble. Transcendence contiene nove pezzi composti dall’artista ellenica: una musica che riflette “la nostalgia per un futuro felice ancora ignoto”, dice Tania Gian-nouli nelle note che accompa-gnano il CD. In questo lavoro che sfugge a qualsiasi etichetta si trovano le influenze più svariate: avan-guardia, improvvisazione, jazz, musica da camera. Diversi titoli alludono alla natura: “The Weeping Wil-low”, “Sun Dance”, “The Sea”. Quest’ultimo pezzo, intenso e malinconico, mette in luce la coesione dei tre solisti. “Obses-sion” e “From Foreign Lands”, al contrario, sono caratterizzate da ritmi incalzanti. Ricco di momenti lirici ma mai retorici, questo CD ci stimola a seguire con attenzione Tania Giannouli: ne sentiremo parlare ancora.Dotata di una creatività in-quieta, attualmente la pianista greca sta collaborando col poeta Evgenios Aranitsis.

di FaBriZio [email protected] Piazza Vasco Magrini

Vasco odell’impossibile

Avanguardia mediterranea

di aleSSandro [email protected]

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uno dei maggiori rappresentanti dell’arte naif.A Parigi, nel prestigioso mu-sée d’Art Modern, fino al 11 ottobre sono esposti 45 di questi acquarelli e collages, donazione della moglie di Nathan Lerner al quale lo stesso museo, forse non a caso, dedicherà un’esposizione dal prossimo 13 settembre. Le opere descrivono le avventure del lunghissimo libro. Ci sono i ritratti di molti personaggi di questa epopea, le bandiere degli stati in guerra ( Abbiaennia, Glandelinia, Tripongonlia, Mor-monuia...), scene di battaglie, le mappe con la posizione delle truppe usate dai generali per le loro strategie militari, immagini drammatiche di bambini vittime di atrocità da parte degli adulti ed altre, le ultime in ordine di tempo, dove il mondo appa-re più sereno, forse la pace è arrivata insieme alla primavera e ai campi fioriti. Le tavole sono spesso molto elaborate e affollate ma la composizione è sempre equilibrata, il tratto a matita preciso, i colori ad acquarello dolci e armonici. Il messaggio che filtra da questa piccola mo-stra, dove Henry Darger viene definito “figure mythique du XX siecle”, è chiaro e sconvolgente: un urlo a voce bassa di un uomo che è riuscito ad essere bambino solo in mondo immaginario di adulti senza pietà.

Per Henry Darger la vita comincia subito in salita. Nato a Chicago nel 1892,

ancora piccolissimo rimane orfano e trascorre i suoi primi anni fino all’adolescenza in un istituto per bambini con ritardi mentali. Passa la sua vita d’adulto solo e emarginato. Svol-ge umili lavori negli ospedali e abita in un modesto apparta-mento in un quartiere a nord della città. La sua è un’esistenza qualunque, lo si può notare solo per il fatto che ogni giorno, vestito quasi come un clochard, durante la passeggiata, sempre la stessa, da casa alla stazione di Belmont e ritorno, si fer-ma a frugare nei bidoni della spazzatura alla ricerca di piccoli oggetti, giornali e fogli di carta. Ma Henry Darger nasconde un segreto: un libro, scritto di notte per oltre 30 anni, di 15.000 pa-gine dal lunghissimo titolo The Story of the Vivian Girls in What is Known as the Realms of the Un-real, of the Glandeco-Angelinian War Storm Caused by the Child Slave Rebellion. La trama è una guerra senza fine in un mondo immaginario cominciata dalla ribellione dei bambini tenuti in schiavitù da adulti malvagi, i terribili Glandeliniers.Solo e malato Henry Darger si trasferisce poco prima di morire in una casa di riposo. Un certo David Berglund, incaricato dal padrone di casa di svuotare il ca-otico appartamento dove Darger ha vissuto per tanti anni, scopre sotto una montagna di fogli scritti delle cartelle con dipinti e collages. Ma quando Berglund comunica quello che aveva ritrovato, Darger commenta solo ormai è troppo tardi, buttate via tutto.Per uno di quegli strani scherzi che a volte capitano anche nelle vite più tristi, Berglund con-segna le cartelle al proprietario dell’appartamento, Nathan Lerner, fotografo rinomato, che, comprendendo il valore artistico della scoperta fortuita, anziché buttarle le conserva per poi esporre le opere contenu-te nel 1977 al Hyde Park Art Center di Chicago. La mostra ha grande successo e Henry Darger, morto purtroppo quattro anni prima (1973), viene considerato

L’infinita guerra nellafavola naifdi Herny Darger

di SimoneTTa [email protected]

Il migliore dei Lidipossibili

Macchina, non ancorabrevettata,

per risolvere il debito greco e anche quello

italiano

Disegnodi Lido ContemoriDidascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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Mi pare che le iniziative espositive della Fondazio-ne Matteucci per l’Arte

Moderna di Viareggio abbiano - o almeno intendano avere – sempre una marcata personalità e stanno effettivamente diventan-do dei preziosi appuntamenti per coloro che a vario titolo amano l’arte pittorica. Ricordo in particolare la bellissima mostra di tre anni fa dedicata a Odoardo Borrani o quella su Moses Levy del 2014, mentre oggi - e fino al 1 novembre 2015 - la ribalta è destinata ad un nome eccel-lente della pittura di macchia, quello di Silvestro Lega (“Lega. Storia di un’anima. Scoperte e rivelazioni”). I curatori Giuliano Matteucci e Silvio Balloni hanno proceduto ad una selezione alquanto accurata delle opere cosicché possano essere ammi-rati, tra gli altri, 20 capolavori mai visti, ritrovati nel corso di 30 anni di indagini in archivi e case private, anche all’estero, e pur figurando anche istituzioni pubbliche (come la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, il Museo Civico di Prato, il Comune di Peschiera del Gar-da) tra i soggetti che hanno reso possibile l’evento. Peraltro negli stessi ultimi 30 anni il Maestro è stato oggetto di un gran numero di iniziative, tra cui la mostra

di Paolo [email protected]

Silvestro Lega a Viareggio

del 2013 promossa dal Museo d’Orsay all’Orangerie, nella qua-le la sua pittura ha primeggiato con capolavori come “La visita”, “Il canto di uno stornello”, “Un dopo pranzo”, suscitando entu-siasmo e ammirazione a livello internazionale.Dunque, se la pubblicazione del catalogo generale di Silvestro Lega risale al 1987 ed è ancora oggi il documento di riferimento per il mondo dell’arte, questo documento è - e continuerà ad essere comunque (causa il significativo numero di dipinti dispersi o ancora da identificare) - bisognevole di aggiornamenti. Come scrivono gli organizzatori, “straordinario quanto fortuito è il ritrovamento di uno dei nuclei fondamentali dell’attività giovanile: i Ritratti dei Fabbroni, esponenti di una delle molte famiglie di grande sostegno al pittore nella fase più critica della sua vita.” Ed è attorno all’affasci-nante storia che aleggia su quei dipinti - veri e propri brani di un romanzo intimo e raccolto, dipanatosi nella cornice del palazzo di Tredozio - che ruota la mostra viareggina. La quale ha in serbo per il visitatore un percorso articolato in sezioni cro-nologico-tematiche che tende, al contempo, a ricomporre in una narrazione di sintesi la vicenda umana e artistica del pittore di Modigliana.

Se l’anno scorso la ferita era nelle viscere della città, quest’anno è nella carne dei cittadini. Volterrateatro edizione 2015 sposta l’occhio del teatro sulla crisi che ha colpito la città, una crisi di lavoro e di speranza, di una voglia di fuga che è impossibile per i principali attori del festival, i reclusi della Compa-gnia della Fortezza. E allora chi può dare una risposta a questa “Città sospesa”: Shakespeare che know well, che la sa lunga, come spunta dal manifesto dello spettacolo principale del festival, diretto e scritto da Armando Punzo. Si parte da tutta l’opera del Bardo per prendere quella forza necessaria per far “esplodere” - come raccon-ta Punzo - questa sospensione, permettendo ad una “umanità granitica, affaccendata, persa nelle sue trame” di fermarsi e osservare e forse capire. (Shakesperare. Know

well, Compagnia della Fortezza dal 20 al 25 luglio, prenotazioni entro

il 12). Ma non sarà solo nel carcere dove vivrà la Città sospesa: Archivio

di emiliano [email protected] Volterrateatro 2015

una città sospesaZeta, al secondo anno di collabora-zione con il festival, ha pensato un itinerario, un percorso d’arte che attraversa luoghi come il Campon-santo vecchio di Montecatini, le fumarole di Sasso Pisano, la Rocca Sillana, la salina di Saline (centro della crisi con la chiusura della Smi-th Bits che ha lasciato a piede quasi 200 lavoratori) e la Badia Camal-dolese. Filo conduttore e virgilio di questo viaggio sarà Pierpaolo Paso-lini e il suo Pilade (dal 20 al 25). A completare il programma il debutto A-solo di Aniello Arena, Chiara Guidi/Socìetas Raffaello Sanzio con Nuvole.Casa, Fanny& Alexander con Giallo.Radiodramma dal vivo, Mario Perrotta con l’affresco della prima querra mondiale Quindi-cidiciotto, un omaggio a Giuliano Scabia che ha deciso di festeggiare il suo compleanno da recluso. Programma completo e altre infor-mazioni su www.volterrateatro.it.

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ne, se la società fosse ammantata solo di onestà e di giustizia, a causa di tale eccesso i carcerieri non avrebbero più nessuno da in-carcerare; i giudici e avvocati non avrebbero più lavoro, ecc. L’opera, che risente delle idee li-

bertine che ai primi del settecento si stavano sviluppando in Europa, voleva essere la critica della società avviata allo sviluppo industria-le, che voleva presentarsi come virtuosa nascondendo i suoi vizi, i quali, appunto, paradossalmente,

Mandeville, sosteneva poter essere necessari per il benessere collettivo della società.Questi aforismi paradossali stimolavano la fantasia collettiva facendo credere che il loro perse-guimento avrebbe messo in moto l’aumento dei consumi dei più ricchi, e che ciò avrebbe contri-buito a fare circolare il denaro e ad aumentare il lavoro per le classi più povere; contrariamente sarebbe stato ostacolato il prodi-gioso sviluppo che avrebbe portato l’Inghilterra alla Rivoluzione in-dustriale. A conti fatti, il sentire comune in Italia sembra avere se-guito il monito di Mandeville ove afferma che i può perseguire una crescita economica equilibrata solo se garantita da una seria riforma in chiave anticorruzione, la quale certamente potrebbe rappresentare un’opportunità per un maggiore controllo dell’azione pubblica.In uno stato di diritto il potere va controllato, anzi, in uno Stato di diritto non esiste il potere in senso proprio, esiste, invece, la potestà, che consiste nell’attribuzione di un potere allo scopo di tutelare gli interessi dei cittadini.Eppure nel mondo della finanza e dell’economia è prevalente il pensiero che etica o morale non possano coesistere, che siano dimensioni umane che nulla hanno a che fare con il benessere economico!Grazie Mandeville per farci vedere l’esigenza di concepire un nuovo modo per far convivere etica e ordine sociale.

Il sandalo da uomo e il panta-loncino annunciano che, per questi lustri di secolo, Gesù è morto invano. I caldi scatenano istinti non giustificati di libertà. L’uomo diventa insofferente e si “libera”, anche se in realtà ap-profitta della canicola per ricer-care una qualche velleità estetica (mentre che ci siamo…). Le vie urbane, cucinate dal caldo nu-cleare metropolitano, sono tutte una musica, tutta una sinfonia di ciabatte e laddove friniva il grillo adesso schioppetta l’infra-dito. Ecco dunque, Sua Maestà Il Sandalo conclamarsi nelle più svariate fogge, in pendant col pantalone a pinocchietto (ma-ledetto Collodi!) in un corredo che sovente si avvale d’una bella

t-shirt attillata, E’ il trionfo post-prandiale dell’epa, del giro vita che va oltre gli standards tollerati dall’equipe medica del San Raffaele; è la vita che pul-lula e insiste in queste sgraziate abitudini, pressante come il sole corrotto di luglio che azzanna ai calcagni e alle varici le perdute città padane. Ora: ma perché mai in paesi in cui si schiatta di caldo, chessò gli Emirati Arabi Uniti, gli uomini utilizzano ampie e cotonate vesti? Cosa diavolo è questa necessità di mostrare l’alluce? L’alluce va coperto, è il ditone-Cosa, l’oscena ipertrofia cbe, in taluni preoccupanti casi, potrebbe creare scompensi notevoli alla soglia Significato/Significante, alla membrana che ci proteg-

ge dal Caos e dall’entropia. E’ uno squarcio troiano sto alluce sandalato, ci precipita in battaglie del Peloponneso che non siamo più in grado di

armonizzare. C’è gente che ha problemi all’alluce! Occorre-rebbe gridarlo, quantomeno scriverlo a monito, apporre degli appositi cartelli in luoghi strategicamente topici! Dove si sarà mai cacciata la Gra-zia? Recita il Coro. Passano due bambine e si tengono per mano:i sandaletti estivi, l’oro nei capelli, i vestitini a fiori. Respirano dentro ad una bolla d’ossigeno, fresche come due roselline di campo. Dietro un orco: egli ha generato cotanto splendore. Inforca infradito dalla suola a carroarmato. Sbuf-fa e dirige le due piccole grazie nel percorso prefissato. Crolla l’ultimo baluardo di speranza per l’Occidente, Serse a te la Gloria!

Sono notevoli le contraddizio-ni esistenti nei modelli di svi-luppo adottati dagli stati alla

ricerca di quello capace di irradiare benessere sull’umanità.In effetti, per alzare la soglia di povertà occorre impegnarsi nel costruire un’alternativa valida fa-vorendo la produzione ed il consu-mo sostenibile, cercando anche di umanizzare l’attuale distribuzione del reddito.Per questo torna di attualità ricor-dare la “Favola delle api”, ovvero quel poemetto satirico, composto nel 1705, dallo scozzese, di origine olandese, Bernard de Mandevil-le, che scandalizzò la società del proprio tempo affermando che per sostenere l’economia, i vizi sono socialmente preferibili alle virtù. La favola rappresentava di fatto una provocazione finalizzata a mettere a nudo i comportamenti ipocritamente onesti, che celavano in realtà profondi vizi. Mandeville raccontava dell’in-vidiabile organizzazione di un alveare, le cui api lavoravano per produrre una prosperità di cui godevano, però, in pochi e in cui esistevano forti disparità ovvero di una società dove ad esempio, gli avvocati alimentavano le liti; i medici pensavano più ad arricchir-si che a curare; i ministri agivano per il proprio interesse; insomma una società dove la bilancia della giustizia pendeva sempre dalla par-te dei ricchi e dei potenti.Di contro, e qui sta la provocazio-

I vizi sono socialmente preferibili alle virtù

CattivissimoTempi da infradito

di roBerTo [email protected]

di FranCeSCo [email protected]

Le api di Bernard de Mandeville

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alcuni che sembrano in-vitarci a una visitina, c’è un bar, periferico, senza particolari attrattive se si esclude un grande ed ombroso tiglio e il clima sereno, affettuoso ed accogliente che vi si respira grazie ai gestori, famiglia imperfetta ed onesta, la nipote dei proprietari è una ragazza dalla bellezza imba-razzante e dalla vivace intelligenza, non cose da nulla, tutte tali da far gradire a chiunque, oltre a Ciuniz, una pausa rilassante ed un caffè nero bollente. Un ristorantino di pesce con cuoco filosofo....Come si sa poi ci sono i cattivi, gli assassni spietati, i ric-

Ingredienti2 cucchiai di olio extra vergine di oliva3/4 di tazza di cipolla bianca a cubetti3/4 di tazza di sedano a cubetti1/2 tazza di carota a cubetti1/4 di tazza di peperone verde2 cucchiai di aglio sminuzzato4 latte di fagioli neri4 tazze di brodo di pollo2 cucchiai di aceto di mele2 cucchiaini di chili in polvere1/2 cucchiaino di pepe di cayenna1/2 cucchiaino di cumino1/2 cucchiaino si salePreparazione: Riscaldate l’olio di oliva in una padella abbastan-za larga a fuoco medio/basso. Mettete nella padella la cipolla, il sedano, le carote, il peperone e l’aglio, facendo in modo che tutti gli ingredienti si bagnino nell’olio, il tutto per 15 minuti o perlome-no fino a quando la cipolla non diventa trasparente. E’ importante tenere il fuoco basso in modo da non abbrustolire tutti gli ingre-dienti, e in special modo l’aglio che altrimenti acquisterebbe un sapore vagamente amaro. Mentre cucinate la verdura, scolate l’acqua nelle latte di fagioli utilizzando un colino, dopodiché risciacquateli con dell’acqua fredda. Mettete ora

tre tazze di questi fagioli lavati, insieme con una tazza di brodo di pollo in un frullatore e frullate fino a quando il tutto non diventa omogeneo. Quando la verdura è pronta, aggiungete alla padella i fagioli frullati, il resto dei fagioli interi, il brodo avanzato e tutti gli ingredienti in precedenza elencati. Portate a ebollizione il tutto,

quindi abbassate la fiamma e, una volta coperta la padella, lasciate a fuoco lentissimo il tutto per 50-60 minuti, fino a quando la zuppa non diventa densa e tutti gli ingredienti non sono diventati più morbidi.Una volta pronto, si può servire guarnendo con formaggio grattu-giato e panna acida.

chi dalla vita piena di perfezione, macchine ed abiti, fanno una fine non bella. C’è l’amore e quello per per i quadri, il comprarli e collezionarli e il farne commercio, ci sono le brave persone, impe-gnate ed idealiste che resistono e tali si mantengono..C’è il Rwan-da “...quel Paradiso che è uno dei posti più vicini all’inferno se non l’inferno stesso....” Ci sono dei morti, donne...belle e non solo. La prima di esse è una compa-gna di scuola, idealizzatissimo primo amore di Ciuniz. Non si racconta, ovvio, l’intreccio, nè si possono disseminare indizi che lo lascino intuire visto che anche se “etico” sempre di un giallo si tratta. L’idea intorno alla quale ruota la ricerca farmacologica e quello di brutto che deriva dalla brama del danaro che si immagina ne possa scaturire come pioggia benefica, è originale assai. Spero di avervi a sufficienza incuriosito !

di CriSTina [email protected]

Amo sempre il “multiforme ingegno” e il dottor Lucio Zinni ne possiede a bizzeffe!

Medico di Medicina Generale, impegnato nel sistema che ne re-golamenta funzioni e competenze e nel suo aggiornamento miglio-rativo, insegna a medici in fieri, come decide di declinare questo ruolo professorale? Propone come titolo “Medi-Cine”, e, sfruttando la sua vasta competenza cinefila parla, che so, di qualche malattia o errore medico attraverso citazio-ni e proiezione di frammenti di film ad hoc, istruttivo, indimen-ticabile e a tutta e ampia cultura. Le lezioni sono affollatissime. Nessuno dei giovani medici di oggi immaginerebbe che nel film “Totò al giro d’Italia” compaia quale comprimario Fausto Coppi la cui morte può essere ritenuta frutto di errore medico: la febbre altissima che aveva non era cau-sata da una infezione da curare con antibotici, era malaria. Tardi si fece questo pensiero, tardi per l’efficacia della cura; la sfortuna del Campionissimo a imperitura memoria di ogni discente, me compresa evidentemente, ascolta-trice di Zinni ad un Convegno. E che fa ancora? Scrive un libro, un libro vero...lo chiama “Frammenti di un’ora blu”, (ManniEd) ,il per-chè e cosa intende per ora blu lo spiega alla fine. Un giallo? Anche. Un racconto? Anche. Un percorso per riflettere su temi attinenti il nostro tempo, le sue contraddizio-ni, cattiverie e cinismi? Anche. Il libro ci regala una prosa ricca, ben congeniata, precisa, ci cattura con intrecci e salti temporo spaziali, definisce figure e personaggi non solo credibili, ma molto speciali di cui resta in mente il profilo personologico. Il dr Ciuniz, nome suggestivo di quello dell’autore, che da lui si distingue indubbia-mente e soltanto per la folta chio-ma, è un tipo solitario, ma pieno di affetti e saggezza, la sua antica amica Ada, amata? direi di sì, ma anche chissà, è un grandissimo personaggio; ognuno dei lettori, credo io, vorrebbe essere invitato nella sua casa, passeggiare nel giardino che la circonda e restarvi per un pò, nascosto anche solo a se stesso, al sicuro, protetto da un ineguagliabile e discreto muro. Fra i luoghi che Lucio ci dedica evocandoli al meglio, ce ne sono

Un giallo bluZuppa di fagioli neridi miChele reSCio

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Ubu re si può superficialmente descrivere come parodia di un dramma storico: Ubu, spinto dall’ambiziosa moglie, uccide il Re di Polonia e i suoi figli, per usurparne il trono. Verrà sconfitto in battaglia da Burgelao, unico superstite della stirpe reale.Ci troviamo, benché rielaborati, echi e riferimenti a trame sha-kespeariane, Macbeth, Amleto, Riccardo III, ma A. Jarry non propone un esercizio di stile, anzi vuole scardinare, fare a pezzi le convenzioni teatrali, disarticolare il linguaggio, ostentare libertà pro-vocatoria verso le regole, i dialoghi, le scene, introducendo interruzioni improvvise, bruschi inserimenti di elementi incongrui, alterazioni della consequenzialità, un uso pesante del grottesco che però mantiene la fondamentale caratteristica di lega-me con la realtà attraverso il quale coinvolgere il pubblico, far riflettere gli spettatori sulla propria condotta morale.La messa in scena di Elisa Taddei, a mio parere tiene fede all’autore, affidandoci il dramma nel suo complesso come uno specchio, proponendo un immagine crudele ma veritiera del mondo reale, in cui Ubu, diventa archetipo del male, avidità, sete di potere, rappresen-tazione dell’istinto allo stato puro, in cui il pubblico potrà ricono-scersi proprio perché allusivo alla rappresentazione degli istinti umani più comuni. Facendo muovere in scena l’energia dello scherzo, il delirio della stupidità, la fuga dalle

convenzioni, Elisa e i suoi attori ci propongono un inquietante enorme burattino con un volto e un corpo che in verità sembrano ridursi a una sola delle sue parti, facendolo apparire come una figura distorta, una caricatura: Ubu finisce per essere un gran ventre, i cui re-stanti elementi corporei passano in secondo piano, un Ubu molteplice, composto da tanti interpreti che mantengono i loro idiomi, la loro lingua [arabo, albanese, spagnolo, portoghese, sardo..], molteplicità della natura, non più perfetta e im-mutabile, ma imperfetta e multifor-me, il brutto esiste accanto al bello, il deforme accanto al grazioso, il grottesco al sublime, il male con il bene, l’ombra con la luce.Protagonista assoluto Ubu, enorme pancia, cumulo di appetiti, mostro, orrido fantoccio, privo di carat-

teristiche apprezzabili, diverso, imperfetto, una astratta figurazione simbolica della volgarità e del più criminale arrivismo di un moderno uomo senza qualità.Dalla deformità fisica alla deformità morale il passo è breve, Ubu ingoia cibo senza freni, raccoglie denaro senza ritegno, uccide a ripetizione. La spirale dell’ingordigia diventa la spirale del male, puro istinto e crudeltà. Specchio deformato e deformante, il grottesco nella rap-presentazione, riesce comunque a farci riconoscere e ci offre la misura dell’oscuro’ dell’essere umano. La compagnia di attori è molto efficace in questa difficile messa in scena dimostrando una professio-nalità ormai non più discutibile ed una alta qualità della presen-za scenica e del lavoro sui testi, confermando, se ce ne fosse ancora bisogno, l’importanza del proget-to Teatro in Carcere e facendoci sognare di vederli lavorare anche al di fuori di quelle mura.Interessanti le scenografie, i manufatti, gli artifici della regia, efficacissima la rappresentazione della vittoria sulla famiglia reale, un gruppo di marionette fatte di barattoli di latta con disegnato un bersaglio che il popolo/spettatore rovescia con palle rosse come in un Luna Park, “Siore e Siori venghi-no….. tre palle, un soldo e….il regicidio è servito!

MTC

Aldo Frangioni presental’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexL’opera che voi vedete fa parte della serie, che non sappiano se iniziale o finale, del periodo scottexxiano del della Bella, i così detti “poco stropicciati”. Ci par di capire che il nostro artista volesse abbozzare una figura umana. Chiedendo scusa al gran maestro dei “non finiti”, ci sentiamo di dire che questa scultura fa veramente Pietà.

Sculturaleggera

ubu Re esce dal carcere28

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Il Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano festeggia l’edizione numero 40, un traguar-do storico per la manifestazione ideata da Hans Werner Henze. Opera lirica, concerti sinfonici e cameristici, danza contemporanea, teatro, jazz e concerti di mezzanot-te: 52 appuntamenti dislocati su 8 centri delle Terre di Siena nell’arco di 22 giorni, con oltre 400 artisti coinvolti. Dall’11 luglio all’1 agosto 2015, la manifestazione s’incentra su un tema ambizioso: Terra, guerra e pace. La program-mazione si pone diversi quesiti culturali, a partire dalle riflessioni sui conflitti mondiali; dall’atten-zione alla terra emerge lo spirito di un festival che si estende sugli scorci più pittoreschi di Cetona, Chianciano Terme, San Casciano dei Bagni, Sarteano, Sinalunga, Torrita di Siena e Trequanda. E poi l’evento straordinario a Siena, stavolta in Piazza del Campo, il 2 agosto, per Siena Capitale Italiana della Cultura 2015. Roland Böer, da quest’anno diret-tore artistico e musicale, sottolinea

come siano attuali i principi del Cantiere: “Solo con l’amore per la cultura i più giovani possono col-tivare il rispetto e la solidarietà per saper vivere insieme e mantenere la pace”. Il Sindaco Andrea Rossi invece analizza il valore ammini-strativo del progetto: “Grazie alla Fondazione Cantiere abbiamo un distretto culturale sempre più solido che consente l’interazione tra diverse realtà territoriali.”Quanto alle biglietterie, sono attivate promozioni speciali con sconti consistenti per residenti, ospiti di strutture ricettive, visita-tori della mostra Dalla ‘Macchia’ al Decadentismo, soci Conad. Dall’11 luglio all’1 agosto, in pro-gramma 52 appuntamentiTerra, guerra e pace è il tema scelto dal direttore Roland Böer

Rudy Pulcinelli nasce a Prato, Italia, nel 1970, vive e lavora tra Prato e Pechino. Si diploma presso l’Istituto d’Arte “Policarpo Petrocchi” di Pistoia. Nel 1990 si iscrive alla Facoltà di Architettura presso l’Università degli studi di Firenze; inizia così una interes-sante e feconda reciprocità fra cultura architettonica e sensibilità artistica che impronterà la sua crescita stilistica. Dagli anni novanta inizia anche un percorso espositivo internazionale che lo porterà ad esporre in Francia, Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Germania, Paesi Bassi, Uruguay, Thailandia, Cina, Marocco, Argentina, Brasile, Canada, Giappone, India, Turchia e Russia. Pulcinelli, utilizzando il simbolismo ricavato dalle forme e dalle sagome delle lettere tratte dai sette alfabeti più diffusi al mondo, legherà il concetto di comu-nicazione a quello di memoria, che insieme rivestiranno un ruolo centrale nel costruire le basi del suo linguaggio scultoreo-installativo estremamente contemporaneo, mediatico e emotivo. Dal 7 luglio al 30 agosto 2015Lu.C.C.A. Lounge&Underground

in

giro

Life codes di Pulcinelli40 anni di Cantiere

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lectura

dantisDisegni di PamTesti di Aldo Frangioni

Beatrice incontra DanteSon’io la Bea che ti darà consiglio son scesa giù da te a sto’ postaccio,che’ ben ti voglio, qual tu fossi figlio.

Che gioia, diss’io, mentr’andavo a casaccio,senza di te ogn’atto m’era indarno ero nessuno, o meglio ero un omaccio.

Quando ci si vedea presso i’ lungarnotu mi guardavi con i tuoi dolci occhionie or in quel sentimento mi rincarno.

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L

Nel mio primo soggiorno a New York il mio è stato spesso uno sguardo obliquo. Qui siamo nel cuore pulsante del business district, ma l’apparenza sembrerebbe dire il contrario. Appena usciti dalle “main streets” del downtown, nelle strade laterali che fiancheggiano i grattacieli della finanza e del commercio mondiale ci si imbatte spesso in queste piccole scene di vita quotidiana. Quest’uomo, proba-

bilmente un impiegato di banca o un assicuratore, approfitta del suo breve lunch break per concedersi un momento di relax e farsi lucidare le scarpe di ordinanza. Gli “Shoe shiners”, per la maggior parte neri, svolgono questa attività per conto di catene ben organizzate. Come si vede dal sedile/carrello porta attrezzi questo lustrascarpe è identificato con il numero “35”.

NY City, Downtown, 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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