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N° 1 214 47 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Perito agrario a 64 anni ma ministro “Ragazzi, laureatevi presto; il 110 a 28 anni non vale un fico” Giuliano Poletti, ministro del Lavoro

Cultura Commestibile 147

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N° 121447

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Perito agrario a 64 annima ministro

“Ragazzi, laureatevi presto; il 110 a 28 anni

non vale un fico”Giuliano Poletti,

ministro del Lavoro

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Da nonsaltare

Dopo venticinque anni di resi-denza produttiva nel Teatro Studio di Scandicci, la com-

pagnia Krypton lascia il teatro. Le subentra la Fondazione Teatro della Toscana che riunisce i teatri della Pergola di Firenze e la Fondazione Pontedera Teatro, assumendo così lo status di Teatro Nazionale, che con il Teatro Studio di Scandicci amplia la sua offerta culturale e la rete teatrale.Parliamo con Giancarlo Caute-ruccio, regista e anima dell’espe-rienza di Krypton, del senso di questo quarto di secolo teatrale, del (provvisorio) finale di partita e del futuro.Quali sono i tuoi sentimenti oggi che cala il sipario su una gestione lunga 25 anni?Naturalmente, dolore. Le persone che hanno saputo ci chiedono e si preoccupano, dimostrando che c’è una appartenenza. Siamo un punto di riferimento; anche a Scandicci e anche per quelli che non frequenta-no abitualmente il teatro. Abbiamo partecipato tre volte i premi olim-pici del teatro promossi dall’ETI e incontrato i Presidenti Napolitano e Ciampi e questo ha inorgoglito gli scandiccesi.Facciamo un bilancio ragionato di questi 25 anni e riflettiamo sull’humus che rese possibile questa esperienza.Bisogna partire da lontano, da quando Mila Pieralli, sindaco di Scandicci, ha voluto un teatro guidato da Sandro Lombardi e Federico Tiezzi che allora erano collocati nella palestra della scuola “E.Fermi”. Grazie a lei, Scandicci ha fatto una scelta molto forte. Io devo molto a Scandicci: l’occasione di aver avuto la possibilità di uscire dal mio percorso, fatto di viaggi all’estero, di repliche a New York, Berlino, Mosca, Zagabria; una esperienza internazionale, come quella fatta con il progetto “Me-tamorfosi” prima in Austria e poi in piazza SS.Annunziata dedicato alle simmetrie brunelleschiane. Poi il successo dell’Eneide che ci aveva portati in tutti i teatri italiani, an-cora giovanissimi. Però l’occasione di Scandicci è stata quella di creare, per la prima volta, un percorso di stanzialità. E quando una compa-gnia diventa stanziale, anche la sua arte si stabilizza, si concentra, si approfondisce.Da questo luogo, che davvero

quando sono arrivato era una periferia urbana senza punti di rife-rimento (mentre nella città storica i punti di ritrovo e di riconoscimento sono piazza del Duomo, a Scan-dicci era il distributore della Esso o il supermercato), abbiamo visto cambiare anche l’estetica dei luoghi. Questo, non solo mi ha portato a far sviluppare il grande interesse che io ho sempre avuto per la città, per la condizione urbana; ma mi ha spinto ad osservare con molta più attenzione alcune cose. Ad esempio, il progetto “Dino Cam-pana” nasce proprio dal fatto che io, tutte le mattine, dalla finestra dell’ufficio del Teatro Studio sulla torre, puntavo Castelpulci: lo avevo lì e mi tornava sempre alla mente la vita di Campana e la sua poesia, che io avevo già utilizzato nel 1984 nel progetto per il fiume Arno. Avevo utilizzato uno dei frammenti che riporto in questo spettacolo sui “Canti Orfici”, in scena fino a domenica, con la mia voce e che chiude lo spettacolo.Non solo, ma oltre a Campana, in quegli anni scandiccesi, io ini-zio a maturare una necessità che cambierà la mia vita teatrale: quella di reimmergermi nella mia lingua madre spinto dalla grande presenza di meridionali che abitano Scandic-ci e che hanno, in qualche modo, costruito la città moderna. Perché, in qualsiasi luogo – da ristorante, al bar, al barbiere, al mercato – io mi ritrovavo nella mia parlata ed è lì che iniziai ad interrogarmi, io che ero un tecnologico, sulla necessità di andare a cercare dentro di me, dove ho ritrovato la mia lingua.

Probabilmente se avessi avuto una stanzialità a Firenze, forse non ci sa-rei mai arrivato, mentre a Scandicci sentivo questo continuo stimolo, fino a quando ho deciso di avviare la traduzione di “Finale di partita” in dialetto calabrese. Sono elementi che appartengono al luogo. Ecco perché, quindi, il dolore: si è svi-luppata un’appartenenza profonda anche grazie alla lungimiranza dell’Amministrazione Comunale di Scandicci, tanto più preziosa in questi tempi di crisi che non hanno permesso di accordare più sostegno di quanto già assicurato. Il profon-do sentimento che ti lega ad un luogo, che non è più un problema tecnico, bensì sentimentale, poeti-co. Ma proprio per questo, appena mi sono accorto che con questo nuovo decreto ministeriale non ci sarebbe stata la possibilità concreta di continuare in questa impresa, ho dovuto pensare che dovevo trovare un modo per salvare la storia di questo luogo. Qui è nata l’idea di aprire un dialogo con il Teatro Nazionale; ho dovuto abbandona-re qualsiasi progetto creativo dal punto di vista gestionale ed entrare in una dimensione più strutturata. Il modo ci è sembrato quello di in-terpretare la funzione che un Teatro Nazionale deve avere sul territorio. Proprio per questo ho pensato che passare da questa fase di gestione da parte di una compagnia di produzione come Krypton ad una situazione più di sistema, poteva essere una strada. La partecipazione al bando di gestione del Comune da parte del Teatro Nazionale era l’unica strada per impedire la deriva

del Teatro Studio, come invece abbiamo visto succedere con il teatro l’Affratellamento, il Rondò di Bacco. Abbiamo avuto tutti l’e-sperienza che se si molla la presa di uno spazio, questo cade nel giro di pochi mesi. Ho dovuto in questo, forse, svolgere un ruolo che spet-terebbe alla politica; cioè di avere la capacità di tutelare le eccellenze. Quando si crea una esperienza così profondamente appartenen-te ai territori, così aperta ad una internazionalità, a riconoscimento nazionali e regionali, bisognerebbe cercare di capire come cercare di garantire una continuità, non tanto alle persone, agli artisti, quanto ai progetti. Questo vale per tutti gli artisti italiani: il passaggio ingiustifi-cato dalla qualità alla quantità, dalla sensibilità all’algoritmo. Questa cosa deve far pensare non solo per la cultura, ma in generale, perché capisco che le elezioni si vincono con la quantità, però io da artista vorrei vincere delle elezioni per qualità, perché la volta che vinci per la qualità, probabilmente questo si riverbera anche sulla gestione della cosa pubblica.Il Teatro Studio, che è partito come una sala della periferia fiorentina, è lentamente, infiltrandosi nell’evo-luzione identitaria della città, ha iniziato a a costruire dei segni forti. Così mi sono ritrovato a gestire non solo il Teatro Studio, ciò che riguarda la sua specificità lingui-stica, cioè l’interdisciplinarietà, il teatro contemporaneo di ricerca, il rapporto con le arti visive, con l’architettura, con la filosofia, ma ho incominciato a immaginare immediatamente una cosa che non esisteva in Toscana, cioè un centro dei linguaggi creativi, interdiscipli-nare, 25 anni fa, quando di inter-disciplinarietà non si parlava. Oggi siamo pieni di questo, di multime-dialità: parole che per me ormai sono obsolete. Io ho cominciato a praticarle fin dall’inizio perché io non sono un’artista di teatro che proviene dall’esperienza dell’attore per poi diventare regista come Ronconi o Lavia; io sono un tea-trante che proviene dalle arti visive e dall’architettura. Non dalla parola e neanche dal corpo. Il corpo per me è stata una scoperta importante perché ho capito che partendo da quel concetto del corpo come unità di misura dello spazio, vedevo l’attore nella scena come elementi da mettere in relazione. Da questa concezione architettonica - proba-

di Simone [email protected]

25 anni KriptondiU juocu sta’finisciennu, 1997 ph.Tommaso Le Pera

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Da nonsaltare

bilmente dettata dall’insegnamento di Oskar Schlemmer, il regista della Bauhaus, o dalle prime sperimenta-zioni futuriste, l’idea di Prampolini – ho cominciato a concepire un teatro che mettesse in relazione gli elementi. Anche la parola all’epoca era per me un elemento strutturale di un sistema complesso. Tutto questo ho cercato di applicarlo e lasciarlo sedimentare per farlo maturare nelle messe in scena che ho iniziato a fare a partire dall’E-neide fino alle Troiane, a Beckett: arrivare ad una profonda consape-volezza del teatro cd. Ufficiale con una visione diversa, ma anche con delle capacità di lettura diverse. Ad esempio entrare, come ho fatto con Campana, nella architettura della scrittura, perché solo così riesci a guidare l’attore verso una sorta di assorbimento delle energie, piutto-sto che di una esplicazione totale del testo, che è quello che tendono a fare gli attori nella loro patologia. Quando hai una parola potente in sé, la puoi solo pronunciare e non c’è bisogno di caricarla di altro.Tu hai parlato più volte del luogo. Ricordo una bella lezione di Marc Augé al Teatro Studio, con la sua ri-flessione sui non-luoghi. Mi interessa riflettere sul fatto che tu facevi parte di un teatro che cercava nei grandi autori internazionali un modo per sprovincializzare il teatro italiano, ancora molto legato ai suoi giganti nazionali di una tradizione che si era un po’ fermata. Ad un certo punto prendete strade diverse e tu hai scelto la strada di concentrare questa ricerca internazionale in un luogo. Altri hanno fatto scelte analoghe, come Vir-gilio Sieni che si insedia a Cantieri Goldonetta e fa un lavoro importante sull’Oltrarno.Infatti, con Virgilio eravamo arriva-ti insieme al Teatro Studio, con Oc-cupazioni Farsesche. Eravamo stati chiamati in quattro, poi ognuno ha preso la sua strada. Ci siamo così radicati, affascinati dall’idea che la materia periferica è una materia più vicina alla visione tecnologica dell’arte, dovendo fare i conti con un’architettura lineare.E’ interessante questa evoluzione di quella stagione di innovazione di allora. Forse è irripetibile il fatto che vi sia una tale congerie di tentativi di innovazione. Ecco, cosa succede oggi nel teatro italiano?Oggi si parla di innovazione ma mi sembra che tutti corrano a gua-dagnarsi dei piccoli angolini nella tradizione, che è ancora quella che

rimane più garantita. Io mi sento più che mai un’anomalia del teatro italiano. I miei lavori italiani li ven-gono a vedere gli artisti, i professori universitari, i giovani e gli studenti di architettura, ma mai i teatranti. I miei lavori li conoscono piuttosto una grande area intellettuale, ma anche un pubblico popolare, per-ché ho fatto lavori nei grandi spazi architettonici aperti al pubblico. Se penso a “Intervallo sull’Arno”, c’erano 30.000 spettatori, la gente della città che veniva a vedere una cosa strana, con laser, proiezioni su Ponte Vecchio, subacquei che con le torce subacquee creavano una particolare coreografia di luce sul fiume. Ho sempre avuto un grande rapporto con un pubblico partico-lare, ma mai con un pubblico tea-trale. Talvolta osservo con tristezza, specialmente in città grandi come Milano e Roma, il fatto che il pub-blico del teatro è fatto sempre da addetti ai lavori. Infatti, a Scandicci lavorando non solo all’interno del Teatro Studio, ho inventato Open City l’estate a Scandicci coinvolgen-do luoghi particolari a partire dal Castello dell’Acciaiuolo fino a Piaz-za Matteotti (dove il primo concor-so per la progettazione della famosa pensilina lo abbiamo inventato io e Marco Brizzi, facendo il primo concorso online). Abbiamo incro-ciato linguaggi diversi: ad esempio abbiamo ospitato Jean Nouvel, Bob Wilson, Luca Ronconi, Franco Battiato, Stelarc, Franko B.Grandi artisti internazionali; come i grandi protagonisti del teatro, da Leo De Berardinis, Carlo Cecchi (che ha amato Teatro Studio quando lo abbiamo invitato a fare “L’ultimo nastro di Krapp”), così come Toni Servillo, Giancarlo Nanni, Manuela Kustermann. Facemmo una prima rassegna sull’avanguardia teatrale italiana, invitando tutti i protago-

nisti di allora. Poi feci “Iperavan-guardia” portando le compagnie appena nate, dai Motus a Fanny & Alexander che poi sono diventati fenomeni europei. Il Teatro Studio era una fucina di realtà emergenti; è un luogo amato e ambito da tutti. Penso alla rassegna “Zoom”, una delle prime dedicate alle nuove generazioni, che ha raggiunto il de-cimo anno. Tanto lavoro e presenze importanti. Ricordo la gioia di Mario Luzi quando veniva a vedere gli spettacoli al Teatro Studio; ma anche Bigongiari, o Alessandro Serpieri, uno dei massimi traduttori di Shakespeare che ancora continua a venire nonostante l’età avanzata. O anche Cesare Molinari, Sergio Givone. Teatro Studio era il punto di riferimento di grandi personalità, che incontravano il pubblico: lo diceva Cesare Molinari che la cosa più bella del teatro erano gli incon-tri del foyer, grazie al fatto che gli spettacoli iniziano sempre tardi; lì il professore universitario e lo studen-te si trovano su un piano paritario, su un terreno comune. Così il teatro diventa vita vera. Mentre nel teatro di tradizione probabilmente c’è ancora una lontananza, un posi-zionamento più superficiale.Quindi ora inizia una nuova avventura, di cui sono convinto che tu hai presente non solo le possibilità, ma anche i rischi. Perché il teatro di tradizione ha anche un pubblico di tradizione. Capisco bene che l’espe-rienza del Teatro Studio porta al tea-tro Nazionale lavori e anche pubblico nuovi. Ma cosa può apportare a voi il rapporto con il teatro di tradizione?Quando ho pensato di coinvolgere il Teatro Nazionale nel futuro di questo progetto, ho creduto che esso avesse bisogno di una punta dedicata alla ricerca e all’innovazio-ne e ai giovani. Un’altra cosa mi ha spinto: quando io ho realizzato la

messa in scena, devo dire per me insolita, di “Uno, nessuno e cento-mila” di Pirandello, al Teatro Studio è stato un grande successo anche di pubblico. Già allora riuscimmo a spostare del pubblico tipicamente da Pergola verso Scandicci. Ma la cosa straordinaria che è successa un anno e mezzo dopo aver circuitato questo spettacolo, sempre con successo, nei grandi teatri d’Italia, è stata l’approdo alla Pergola: in 6 giorni di repliche abbiamo avuto un riscontro di pubblico straor-dinario, incassando 54 mila euro, una cifra paragonabile a quella che fanno i grandi nomi del teatro di tradizione, anche senza i grandi attori di richiamo: era il progetto che interessava. Il pubblico era colto da quel senso innovativo, dal coraggio di infiltrare la musica nella parola pirandelliana, di scarnificare i personaggi e renderli non profon-damente immersi nella psicologia ma giocando la parola pirandelliana al cospetto della contemporaneità Perché la parola pirandelliana è profondissima e quindi non teme il confronto con la contempora-neità; è un falso problema quello di mantenere la parola dei classici nella tradizione, essa può abitare benissimo nel nostro modo di essere e di parlare contemporaneo. Questo ce lo dimostrano registi internazionali come Jan Fabre quando prende un pezzo classico e lo porge come un fatto quoti-diano e allora tu entri ancora più profondamente nell’opera. Io credo che il Teatro Nazionale, grazie anche al fatto che Marco Giorgetti era in Occupazioni Farsesche e quindi conosce bene il luogo, abbia consapevolezza del valore di questa esperienza; credo che vi sia una sen-sibilità comune. Il fatto che questo spazio possa continuare ad essere punto di riferimento ed officina per le nuove generazioni è la cosa per me importante; mi dispiacerebbe che la tradizione occupasse troppo spazio. Ma penso che, osservando Scandicci, il fatto che vi sia una re-lazione fra tradizione e innovazione possa spostare maggiore attenzione della città di Scandicci verso il Tea-tro Studio: se qui arrivasse un nome come Glauco Mauri, Gabriele Lavia o Timi, forse molti scandic-cesi si sentiranno più motivati ad andare nel loro teatro. Se questo favorirà un maggiore riconoscimen-to di questo luogo, allora questo gioverà alla possibilità dei giovani di continuare a lavorarci.

Finale o inizio di partita?Intervista a Giancarlo Cauterucciosulla fine della gestione del Teatro Studio

OA/ Terzo atto – Il canto, con un’opera site specific di Jannis Kounellis, 2012 ph. Carlo Cantini

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per la bellezza che salverà il mondo! Qui abbiamo rottamato il vecchiume politico, cosa vuoi che mi preoccupi dei mutilati di guerra... Ma di quale guerra poi? Quella del ‘15-’18? La terza d’Indipendenza? Caso mai chia-mate quel fissato di Giani per questi residuati storici! Ma poi la tramvia sotto il centro? Noi siamo avanti in questo, oltre i vecchi stereotipi: né in superficie (sennò Matteo s’incazza!), né sotto terra (mica la voglio dar vinta al Razzanelli!), ma per l’aria! Noi faremo un progetto avveniristico, che non si è mai visto nel mondo: da piazza Stazione la tramvia passerà in sopraelevata, scansando il Duomo, sopra i viali e riatterrerà dopo piazza Libertà!”“Dario, scendi te a terra, piuttosto! Questi fanno sul serio: ci tolgono dalla lista”“Bene, meglio: noi siamo per eli-minare le liste d’attesa! La Rotonda la compro io e ci faccio una sala da ballo e ci chiamo Fred Bongusto, il Frank Sinatra italiano, a fare delle belle serate danzanti”“Sì, ciao core! Questo bate le cuverce1. Come sempre mi toccherà sfangarla a me, altrimenti qui dé dël cul sla pera2.1 Frase idiomatica piemontese. lette-ralm. battere i coperchi. signif. vero: essere fuori di testa. Il capo di gabinetto è di antiche origini piemontesi2 c.s: letteralm. dare del culo (sulla pietra) signif. vero: fare fallimento.

Era quasi riuscito a farla franca ma poi un poliziotto più vispo degli altri lo ha scoperto. Il presidente del Consiglio della Regione Toscana Eugenio Giani ha dovuto vedere da lontano il seminario di studi della NatootaN. (A proposito del nome il grande Bartezzaghi ha dichiarato che nemme-no a lui sarebbe venuto meglio questo nome palindromo). Ma torniamo al nostro eroe e al poliziotto che ha fatto la scoperta, e al quale è stato conferito il premio Segugio 2015. “Ma come ha fatto a scoprirlo” gli è stato chiesto.

“Guardi anche se si era mime-tizzato è stato ugualmente facile

riconoscerlo fra gli altri” ha dichiarato il poliziotto.” Mimetizzato?” “Sì . Vede il Presidente Giani era venuto vestito normale, giacca e cravatta per intenderci, ma senza la fascia di Presidente che ha recentemente istituito, perché non era un ricevi-mento istituzionale. E non lo avrei certamente scoperto se non avesse continuato ad

aggiustarsi questa fascia sulla spalla come se ci fosse, ma non c’era. E’ stato questo movimento continuo della mano sinistra verso la spalla destra che mi ha incuriosito. E’ così che l’ho scoperto.

Eliseo, interno notte. Jacques Audibert, consigliere diplomatico del presidente Hollande, l’uomo degli incarichi delicati sul fronte internazionale, bussa timida-mente allo studio del presidente:“Monsieur le Président, nous avons un coup de téléphone de l’Italie” “Oh, mon Dieu! Enfin que fem-melette de Renzi il a été décidé de nous aider à lutter contre l’ISIS!”[da qui avanti, per esigenze linguistiche, abbiamo deciso di produrre il testo tradotto in italiano, salvo alcune parole utili nell’originale per comprendere il tono del dialogo o perché intra-ducibili].“No, signor Presidente, non è Renzi. E’ un tal Manciullì, che dice di essere il capo delegazione italiano nella Nato. Vuole parla-re con Lei per invitarla a Firenze ad un vertice Nato”“Chi??? Manciullì? Chi è costui? Un fanfaron? Un imposteur? Un menteur compulsif? Ma poi, cosa mi frega a me della Nato: noi, grazie al santissimo De Gaulle, siamo fuori da quell’associazio-ne di ubriachi, fifoni e merde doutes1. Noi bombardiamo ISIS da soli, mentre loro stanno a discutere nei vertici de mon cul!”“Sì, signor Presidente, ma questo signor Manciullì dice di essere

riunione

difamiglia

i Cugini engelS

lo Zio di TroTZkyle Sorelle marx

La lista dell’Unesco

Premio Segugio

Manciulli a’ la française

A Firenze è una radiosa giornata di sole. Il sindaco Dario Nardella percorre i corridoi di Palazzo Vecchio saltellando giulivo e confidentially cantando: “Una rotonda sul mare, il nostro disco che suona...”. Dalla stan-za del suo capo di Gabinetto, il vero nocchiero dell’incerta nave comunale, Manuele Braghero, riecheggia un duro richiamo alla realtà: “Oh, cuor contento, vieni qua a vedere a propo-sito di Rotonde...”.“Che c’è Manuele? Ma non vedi che splendida giornata: oggi tutto è illuminato!”.“Sì, guarda, illuminati di questa bel-la letterina che il tuo amichetto Renzi ha tenuto ben nascosta durante il suo mandato. La scrive l’Unesco e dice che se non applichiamo il Piano di gestione del Centro Storico patrimo-nio dell’umanità ci radiano”“Uffa, che noia! Ma ho già sistemato i minimarket e il degrado risponden-do ad una loro sgarbata telefonata [CuCo ha pubblicato in esclusiva l’intercettazione nel n°142]. Che vogliono ancora?”“No, guarda Dario, forse non hai capito: questi sono incazzati di brutto. Perché vuoi fare passare la tramvia sotto il centro e poi perché l’Associazio-ne nazionale mutilati di guerra vuole vendere la Rotonda del Brunelleschi”“Oh Manuele, ma cosa rompono que-sti professoroni dell’Unesco! [mentre parla, Nardella si trasforma camale-onticamente in Renzi 2]. Noi siamo

BoBo

amico di Ségolène Royal”“Proprio per questo non ci voglio parlare! Un amico di Ségolène non può che portare danni, a me! Quella … mi ha fregato tutta la discografia di Edith Piaff quando ci siamo separati e io non gliela perdono! Le diable lui e lei!”“Signor Presidente, il Manciullì dice che ha una proposta che non potrà rifiutare relativa ad un side event rispetto al vertice Nato e che è certo che lei apprezzerà, conoscendo i suoi gusti...”“Ah, femmes? Intéressant. Ci parlo. Me lo passi. Pronto, monsieur Manciullì, cosa ha da propormi?”“Mon cher François, ho una bellissima proposta per Lei a Firenze”“Merci,je aime les femmes!”“No, François, molto meglio! Al-tro che donne! Ho preparato un tour gastronomico molto speciale per Lei fra i migliori ristoranti e trattorie di Firenze: crostini al foie de poulet toscano, ribollita, tagliatelle al sugo de canard, bistecca alla fiorentina, fagioli al fiasco con olio nuovo, verdura e cervello fritti, peposo toscano e patate arrosto e per concludere il dessert con cantuccini di Prato, tiramisù, zuppa inglese e torta della nonna. Tutto innaffiato da abbondante Chianti. Caffé e amaro finale, per digerire. Eh, che ne dici? Forte? Dai, vieni a Firenze François?”“Vas te faire encule, merde!”1 Parola idiomatica francese analoga al nostro “cacadubbi”

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cidono di rifugiarsi in Messico insieme a Tina Modotti, che vi muore assassinata nel 1942. Nonostante l’invito di Capa che vuole portarla con sé a New York, Kati si stabilisce definiti-vamente con José Horna a Città del Messico, dove partecipa attivamente alla vita artistica e culturale della capitale, sia come protagonista che come testimone, formando una sorta di gruppo di cui fanno parte le due artiste surrealiste Leonora Carrington, moglie dell’ungherese Imre Weisz detto Chiki, altro amico di infanzia di Kati e di Capa, e Remedios Varo, amica di infanzia di José Horna, anch’essa attiva in Spa-gna durante la guerra. Come è noto, Capa muore in Indocina nel 1954, mentre José Horna e Remedios Varo muoiono nel 1963. A Città del Messico Kati continua invece ad esercitare la professione di fotografa, realiz-zando numerosi reportages, col-

laborando con numerose riviste ed insegnando alla Scuola Nazionale di Arti Plastiche della Università Autonoma del Messico e della Università Iberoa-mericana dal 1973 fino al 1999. La sua opera fo-tografica, riscoperta solo di recente, comprende le composizioni surrealiste e politiche di Parigi, le immagini della Spagna, periodo di cui preferiva non parlare molto, e le opere messicane. Quello che accomuna generi così diversi è l’intelligenza del-lo sguardo, la non banali-

tà, la ricerca di soluzioni visive originali, mediate attraverso il rigorismo costruttivista da una parte e la libertà associativa dei simbolisti dall’altra, in una sintesi che le permette di vedere il mondo, la gente e gli oggetti come uno spettacolo sempre nuovo e diverso, sempre ricco e stimolante. Parlando di se stessa si definiva non un’artista ma una “obrera de la fotografia” e diceva “Sono ungherese per na-scita, spagnola per matrimonio e messicana per adozione, ho vissuto molti anni fuggendo da un paese all’altro. Sono molto grata al Messico che mi ha finalmente accolto. Sto vivendo qui da più di mezzo secolo.”

La fotografa Kati Horna (1912-2000) nasce come Katalin Deutsch a Buda-

pest, dove diventa allieva del fotografo Josef Pécsi, e da dove fugge per trasferirsi nel 1932 prima a Berlino e poi a Pari-gi, con un percorso analogo a quello del suo connazionale ed amico d’infanzia Endre Fried-man (Robert Capa), di appena un anno più giovane. A Parigi i destini dei due giovani fotografi si allontanano, Kati comincia a lavorare per Agence Photo, realizzando servizi sul mercato delle pulci (1933) e sui caffè di Parigi (1934), sviluppando il suo carattere libertario ed anarchico ed avvicinandosi, al contrario di Capa, al mondo dei surrealisti. Fortemente critica, anche nelle immagini che realizza, nei confronti della situazione politica che si sta delineando in Europa, Kati si avvicina di nuovo a Capa e con lui decide accorre in Spagna, all’indomani dell’inizio della guerra, con lo scopo di realizzarvi delle immagini a sostegno del governo repubblica-no. In Spagna i due si allontanano di nuovo, Capa diventa famoso e lavora per Life, Kati per la quasi sconosciuta rivista repubblicana Umbral, ed anche i loro interessi sono contrastanti. Diversamen-te da Capa, Kati non si avvicina troppo al fronte dei combattimenti, si stabilisce a Barcellona e preferisce documentare il disa-gio della popolazione civile nei villaggi e nelle città sconvolte dagli eventi bellici. Nello stesso periodo operano in Spagna altre fotografe, fra cui Tina Modotti, inviata del Comintern, e Gerda Taro, che si lega in una breve relazione con Capa e perde la vita nel 1937 travolta da un carro armato repubblicano. In Spagna Kati conosce il pittore José Horna, con il quale colla-bora realizzando fotomontaggi e collages fotografici di propa-ganda antifranchista. Nel 1939, dopo la disfatta dei repubblicani e con l’incombere sull’Europa dell’ombra del nazismo, i due abbandonano la Spagna e de-

di danilo [email protected]

Kati Hornadalla guerra di Spagna al Messico

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Manifestoper i mieicari amici poeti

di laura [email protected]

La poesia di Sarenco è provocatoria e indefi-nibile; è un turbine di passione e derisione; è un monologo vitale e vivace, caratterizzato da

un’ampia varietà di linguaggi tesi a mettere in luce l’autenticità della parola e del dialogo, l’autentici-tà della vita e della fede profonda nella missione dell’Arte: l’aulico si unisce allo scurrile, il motto di spirito ai dati di fatto e il poeta affida alla verso tutto il proprio Ego. Pubblicato per la prima volta in «Lotta Poetica», Nuova serie, Anno II, n. 6 [n. 18] nel febbraio del 1984, viene riproposto di seguito il testo più famoso del poeta Sarenco letto, a distanza di trent’anni, l’8 novembre di quest’anno, in occasione della presen-tazione della raccolta “Vitamine. Tavolette energeti-che” dell’Archivio Carlo Palli al MART di Rovereto.

Cari amici poeti, ubriaconi e lesti di mano,imbroglioni e gaglioffi,

potenziali assassini, adulteri,anarchici e turbolenti,stronzi quanto basta,

forieri di buona novella,stranieri in casa propria,

francesi e tedeschi,italiani e americani,

belgi e spagnoli,ricchi e poveri,

semiricchi e poveri,scemi e poveri,

semipoveri e ricchi,semipoveri e scemi,

ricchi e scemi,pieni di buona volontà,

scrittori incalliti,poeti fottuti,

arrestati appena l’altro ieriper schiamazzi notturni,

condannati dal giudice popolaresenza condizionale,

rotti in culo e cornuti,amatori superficiali,

dongiovanni senza speranzadi successo,

scialacquatori di sostanzealtrui dato che le proprie

più non esistono,cacciatori di frodo,

bevitori di vinia denominazione

di origine controllata,mangiatori di ostriche,

pescatori di perle,sollevatori di popoli,

sommozzatori,atei irreprensibili,

mangiatori di preti,leccatori di fica,

giocatori di tennis,alpinisti,

scrittori di versi,buffoni impenitenti,

politici mancatipieni di macchia e di paura,

cani sciolti,

cavalli imbizzarriti,tecnofobi e fedifraghi,allevatori di bestiame,

conduttori di autocarri,ladri e spie,

generosi delinquenti,antimilitaristi e provocatori,

ecologi laureati,boscaioli e cercatori di funghi,

polemisti senza dialettica,dialettici senza polemica,

letterati lebbrosi,fumatori drogati,

proprietari immobiliari,la vostra poesia è dotata

di lingua biforcuta,visi pallidi e massacratori di indiani,

soggetti televisivi,vibratori umani,

catalizzatori imperfetti,poeti a corto circuito,caffeinomani instabili,

la vostra poesia vuole esseredappertutto, occupare tutti gli spazi

plausibili e quelli recintati,infangatori della pubblica morale,

delatori,letterati pentiti,filosofi bocciati,studiosi mancati,

universitari stravolti,mercanti nel Tempio,dirigenti nel Palazzo,

fiancheggiatori infedeli,la vostra poesia è quella

dei franchi tiratori,pronti a buttare polpette avvelenate

ai cani da guardiae rose ai cannoni,

cantori mendicantiun briciolo di successoche poi non vi basta,

usate la voce come fosseuno strumento e la penna

come la bacchetta del direttore d’orchestra,lo spazio bianco della pagina

come fosse dio,i giorni come fossero mesi

e i mesi come fossero annie la vita come fosse l’eternità.

Miei cari amici poeti,voi non capite il gioco sociale

e nemmeno che il silenzio dell’arteè spesso più importante della parola

e del vostro verso.Parlate di rivolte e di rivoluzioni,

di guerre e paci contrattate,firmate manifesti imbecilli

dove nulla cambia se non il passareinesorabile del tempo che cancella

le vostre tracce,anche se voi non siete d’accordo.

Di questi tempi avete ancora il coraggiodi parlare di progresso senza arrossiree l’avventura non è che un momento

del puro quotidiano.Miei cari amici poeti:

non siete fatti per la storiache ha le sue regole e le sue esigenze,

non siete fatti per l’amoreche ha le sue convenzioni,

non siete fatti per il popolo,che ha le sue ragioni.

Potreste invocare le muse spietatesorde al richiamo della poesia

da quando l’ultimo poetasi è tolto la vita invano

sulle barricate della gloria.Tante volte penso che stiate bene morti

e spesso voglio udire la vostra voceal di sopra delle altre

che copra il brusio degli imbecilliche circolano impuniti.Miei cari amici poeti,

abbiamo solo bisogno di cure primaveriliper la nostra bellezza.

Non rimpiangiamo i nostri anni,non li abbiamo vissuti:

eravamo degli dei.

SarencoFoto di Lorenzo Gori

Un po’ di charme, un po’ di folliaper la nostra poesia.

Miei cari amici poeti, io sono come voi.

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Quando si parla di “oste” o “osteria” si pensa subito ai risto-ranti. Ma i termini derivano dal francese “ostesse” e, prima anco-ra, dal latino “hospitem”: luoghi, dunque, che hanno a che fare con l’ospitalità, piuttosto che con la cucina: tant’è vero che il toponimo “Osteria del Guanto” ricorda un albergo di proprietà della famiglia Bernardini, sul cui stemma campeggiava un guanto d’oro in campo rosso. Che non si volesse perdere il ricordo di quell’antico albergo lo dimostra il fatto che quando il Comune di Firenze cambiò la denomi-nazione della strada in “Via del Guanto”, i residenti ottennero, nel 1951, il ripristino dell’antica denominazione.Comunque a Firenze di “oste-rie”, nel senso più comune del termine, ce n’erano a bizzeffe e la toponomastica cittadina ne è fedele testimonianza: Via del Limbo, Via dell’Inferno e Via del Purgatorio, per esempio,

non rappresentano un omaggio alla “Commedia” di Dante, ma ricordano il nome di antiche trattorie che lì avevano sede; in particolare “limbo” era il nome usato per indicare le celle dove si mesceva il vino. Vicino agli Uffizi, si stacca da Via Lamberte-sca il Chiasso del Buco che deve il suo nome all’Osteria del Buco, tanto celebre ai suoi tempi da far giungere fino ai giorni nostri i nomi di due “cuochi al Buco”: Antonio di Gherardo e Piero di Frosino.Ma fu all’epoca di Firenze capitale che ristoranti e trattorie raggiunsero il massimo sviluppo; parleremo altrove delle eccellenze della ristorazione fiorentina: qui accenniamo a quelle che furono le trattorie più popolari a Firenze nella seconda metà dell’800.

La palma va senz’altro a “Gigi il Porco”, che si trovava al Canto delle Cinque Lampade (Via Ricasoli angolo Via dei Pucci). Gigi era frequentato dalla meglio gioventù di Firenze, scrittori, artisti, intellettuali, che, prima di andare a finire la serata al Caffè Michelangiolo (se ne parlerà), si fermavano a mangiare le specia-lità della casa: cibreo di rigaglie e stufatino. Clienti di Gigi erano Carducci e Fattori, Collodi e Guerrazzi, Signorini e Borra-

ni. L’unico problema era che il locale era talmente affollato che spesso non si trovava posto: niente paura, bastava spostarsi in San Lorenzo e tentare da “Beppe Sudicio” o da “Cencio Porche-ria”. Come scrive Giacinto Stia-velli, letterato del primo ‘900, “Gli epiteti di porco, di sudicio e di porcheria ci dicono che i tre osti non sempre avevano le mani pulite e che non sempre erano di bucato le tovaglie e i tovaglioli delle loro osterie”, ma certamen-te alla mancanza di igiene suppli-vano con la qualità del cibo.Se il cibreo risultava un po’ pesante, niente di meglio che buttarlo giù con una birra ghiacciata, la buona birra artigianale prodotta dal signor Leopoldo Bomboni: il suo locale, in Via Portinari all’angolo di Via Sant’Egidio, chiudeva a mezzanotte, salvo una saletta, a forma di carrozza di omnibus, che restava aperta tutta la notte a disposizione dei fratelli della Mi-sericordia in servizio notturno.

disprezzate, ma che ognuno ha il diritto di sentire totalmente estranee alla propria sensibilità. Il libro in questione fa piazza pulita di questo equivoco, dimostran-do che certe “musiche altre” nostrane non hanno niente da invidiare a quelle degli altri paesi. Cresti ripropone la formula già sperimentata nei suoi libri pre-cedenti, che alterna le recensioni dei dischi alle interviste con i musicisti. Poco meno di 500 pa-gine, divise in 12 aree stilistiche, compongono un mosaico ricco e variegato che spazia dalla musica etnica al black metal, dalla spe-rimentazione elettroacustica alla psichedelia.

L’unico vero limite dell’opera è la sostanziale assenza di figure fem-minili: artiste come Alessandra Celletti, Romina Daniele e Cristina Zavalloni, tanto per fare qualche nome, avrebbero meritato di essere incluse. Inoltre spicca l’assenza di Alan Sorrenti, ovviamente quello dei primi due album (Aria e Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto). In ogni caso questi limi-ti vengono ampiamente superati dai pregi. Ricercatore attento e certosino come sempre, l’autore scava nel passato portando alla luce nomi che erano sfuggiti per-fino agli appassionati dell’epoca (come chi scrive). Al tempo stes-

La stampa musicale anglo-fona dedica pochissimo spazio alle pubblicazio-

ni italiane: un po’ perché la quantità di libri in inglese copre ampiamente il suo fabbisogno, un po’ perchè la nostra lingua è scarsamente conosciuta nei paesi anglofoni. Le rarissime eccezioni, quindi, vengono fatte soltanto per libri di particolare interesse. Non è quindi un fatto da poco che il mensile ingle-se The Wire (n. 373, febbraio 2015), bibbia delle musiche d’avanguardia, abbia dedicato un’intera pagina ad Antonel-lo Cresti, che aveva appena pubblicato Solchi sperimentali. Una guida alle musiche altre (Crac, 2014). Il nuovo libro del musicologo fiorentino, Solchi sperimentali Italia. Cinquant’an-ni di italiche musiche altre (Crac, 2015) completa la panoramica iniziata con l’opera precedente, che aveva un respiro internazio-nale. Ammettiamolo pure: a molti il termine musica italiana evoca un leggero fastidio. Non per estero-filia, ma perché lo associano al Festival di Sanremo o a iniziative consimili, che non devono essere

so, comunque, non dimentica certi fermenti meno marginali, come il progressive rock degli anni Settanta (Dedalus, Pholas Dactylus) e la new wave fio-rentina del decennio successivo (Chimenti, GMM, Pankow). Ottima l’idea di includere un pa-norama sintetico delle principali etichette che hanno contribuito a comporre il mosaico delle musiche trattate.Il libro si chiude con un breve intervento dove l’autore rivendi-ca in modo scherzoso la propria appartenenza al mondo musicale trattato nel volume. Lo fa con un tono leggero, quasi scherzoso, tutt’altro che autocelebrativo. Segnaliamo en passant che i quattro CD da lui realizzati come parte del duo Nihil Project (2001-2006) meritano di essere conosciuti e inseriti in questo libro. Cosa che l’autore, animato da ammirevole modestia, non ha fatto. Solchi sperimentali Italia confer-ma il valore di questo giovane musicologo che ha esordito come musicista. Intanto la sua ri-cerca continua: l’anno prossimo Cresti partirà per Marte, dove sarà il primo terrestre a esplorare i fermenti musicali del pianeta rosso...

Un’altra ideadella musica italiana

di aleSSandro [email protected]

di FaBriZio [email protected] Via dell’osteria del Guanto

Andiamoin trattoria

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Domenica 29 novembre alla Fondazione Sensus si terrà una lezione labo-

ratorio condotta e coordinata dall’artista Edoardo Malagigi nella quale verranno conside-rate delle parti della nostra vita quotidiana, divenute, proprio in funzione della ripetitività con la quale le affrontiamo, assolutamente invisibili. Si tratta del modo col quale ci sbarazziamo di quanto ritenuto inutile.Nel sempre meno scintillante mondo dei consumi, il packa-ging, ovvero l’imballaggio pri-mario, sta lentamente tornando a svestirsi dell’ampio significato sociale ed estetico che solita-mente abbiniamo alla parola inglese, per tornare, appunto ad essere semplicemente imbal-laggio. E’ il nostro un periodo di transizione e ci prepariamo, inconsapevolmente, ad una rivoluzione nei consumi.La lezione di Edoardo ver-te su questo indispensabile materiale, simbolo stesso della contemporaneità, e su come partecipi delle nostre vite dopo gli attentati da questo subiti da parte dell’ecologia, dei proble-mi connessi allo smaltimento e al riciclo. Lontani i tempi in cui Andy Warhol trasformava in icona gli imballi, oggi si diffonde la pratica di portarsi dietro il “vuoto” per procurarsi il prodotto senza la così detta demoniaca confezione. Si inco-mincia a vedere con nostalgia al passato del vuoto a rendere e non ci sembra più una perdita di tempo occuparsi del con-tenere gli sprechi. In questa direzione il nostro piccolo seminario si occuperà di una inevitabile e salvifica “seconda vita” che l’oggetto tetrapak già possedeva potenzialmente. Questo, normalmente, privato della sua funzione di uso, non sfuggirebbe al suo triste percor-so che inizia dopo essere sepa-rato dal suo contenuto, e con-tinuerebbe con successive tappe che portano la sua grama ed effimera esistenza dal sacchetto domestico della spazzatura, al cassonetto, alla discarica. Ora vedremo come questo materiale possa essere trasformato in un Dragone e caricato di significa-

di Claudio [email protected] Un dragone di tetrapak

Inizia a Parigi la 21a conferenza per tentare di salvare la terra e i suoi abitanti. È la 21a volta che gli Stati si riuniscono per trovare un accordo sulla riduzione delle emissioni di gas serra, provocate dalle attività umane: produzione di energia, attività industriali e trasporti. I governi devono mettersi d’accordo sulle azioni da attivare per frenare il riscalda-

mento del pianeta, responsabile dei cambiamenti climatici. Un dato su tutti: le “bombe d’acqua” che negli anni ‘90 colpivano il nostro paese non più di 4-5 volte all’anno, nel 2013 sono “esplose” ben 352 volte e 400 volte nel 2014, provocando 40 morti, 10 mila sfollati e 4 miliardi di danni. Uno dei gas serra che è necessario bloccare è l’anidride carbonica (CO2) che nel 1750, all’epoca della rivoluzione indu-striale, era presente in atmosfera in 280 parti per milioni (ppm) e che oggi ha superato 400 ppm, soglia considerata irreversibile. Un tetto mai raggiunto nell’ul-

timo secolo. In Italia la tem-peratura media è aumentate di 1,4 gradi (il doppio della media globale). Nel 2003, 2012 e 2015 abbiamo avuto le estati più calde degli ultimi due secoli. Uragani, alluvioni e siccità sono sempre più frequenti, provocando pesan-ti conseguenze su clima, qualità della vita, salute e agricoltura. Basti pensare che nel 2012 i profughi “climatici” sono stati 30 milioni e che, se a Parigi non si troverà un accordo efficace, nel 2050 arriveranno a 250 milioni. Auguriamoci che questa sia la volta buona. Non ne possiamo più di chiacchiere e distintivo!

di remo FaTTorini

ti virtuosi che, forse, lui stesso non riteneva di possedere.I partecipanti al seminario assisteranno al lavoro di cinque operatori/artisti che trasfor-meranno sotto la guida di Edoardo Malagigi, con forbici, taglierini, colle e talento, i car-toni di terapak in meravigliosi oggetti che per nessuna ragione vorremmo buttare.Domenica 29 novembre dalle 10:00 alle 13:00, a cura dalla Fondazione Sensus Firenze, nella sede di v.le Gramsci 42a. Possono partecipare fino a 50 persone a partire dagli 8 anni. Prenotazione alla email [email protected]. Vengono iscritte alla lezione le prime 50 prenotazioni.

Segnalidi fumo

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1590, i Campioni delle strade comunitative.Questa forma di manutenzio-ne ebbe una durata durevole e permanente, finché il Granduca Pietro Leopoldo soppresse l’an-tiquato obbligo delle “comanda-te”, con la seguente notificazione emanata il 27 maggio 1786.S.A.R. considerando che l’obbligo al quale tutt’ora sono sottoposti in vigore della Legge pubblicata nel dì 18 marzo 1580, che si riferisce ad una L. precedente del 1578, ed è stata anche confermata nei tempi posteriori, i coloni o lavoratori di terreni del Contado e del distretto fiorentino, di scavare e mantenere nette e pulite le fosse che ricorrono lungo le strade regie e comunit., si sostanzia in una mera Comandata, o servitù personale, non dissimile a quelle altre già soppresse dalle precedenti Leggi e Regolamenti della R.A.S. come contrarie alla giusta distribuzione dei pesi pubblici; è venuta nella determinazione di ordinare, che per l’avvenire i mentovati lavo-ratori e coloni siano interamente sgravati e liberati dall’enunciato peso, derogando perciò in questa parte alle precitate Leggi del 1578 e del 1580, e a qualunque Ordine posteriore che disponesse in contrario.

Fin dal Medio Evo la Repub-blica fiorentina emanò norme per la manutenzione delle

strade.Nel Libro vecchio di strade, copiato nel 1532, ma risalente al 27 luglio 1461, si legge che Li Signori Ufficiali Deputati sopra le Conse-gnazioni e Distribuzioni di nuovo (e quindi si deduce che ve ne fossero di precedenti) di tutte le strade e Vie del Contado e Distretto, e Iuri-sdizione fiorentina Le quantità di braccia et confini consegnate et date a i Popoli, Comuni, Ville, Terre, Huomini et persone sieno tenuti in perpetuo acconciare, mantenere e conservare.Qualunque persona, che tiene a fitto, e a mezzo terra, o harà possessioni, o terre lavoratie et non lavoratie, prati o boschi presso o vero lungo alcuna strada o via del Contado et Distretto fiorentino, etiam che le tenessi senza lavorare a sua mano sia tenuto ogni anno per tutto il mese di maggio a tutto il mese di settembre haver fatto rimesse, rase, et rimondate tutte le fosse, dogaie, rigoni, rivi e fossatello, et fossi esistenti, o che dovessimo essere lungo le dette strade in modo che l’acqua non possa né habbia a impedire in alcuno modo le strade, et ogni siepe, pruni, arbucelli, e sterpi sopra quelle esistenti rimuovere e tagliare pena soldi 7 per ciascun braccio di fosso, dogaia, rigoni, Vintone, et rivi non rimessi, o vero disboscati et sotto pena di soldi 5 per ogni braccio di fossa non rimossa.Tutti i Popoli, Comuni et Ville sieno tenuti acconciare e conservare le strade a loro consegnate. Et oltre alle consegnate volgono ogni Popolo, Co-mune, Villa e Terra essere obbligati acconciare, mantenere e smacchiare qualunque via non assegnata esisten-te o che fussi ne’ loro confini.Ulteriori norme furono emanate con la legge del 18 marzo 1580 Strade e piazze pubbliche: obblighi dei possessori limitrofi.L’onere di eseguire materialmente i lavori di manutenzione stradale gravava quindi esclusivamente sulla popolazione del contado e del distretto fiorentino, che era ob-bligata a prestare la propria opera senza alcuna forma di compenso tramite le “comandate”, lavori che erano interamente a carico dei contadini e non certo dei possesori limitrofi.A tale scopo furono redatti per ogni Comunità, fra il 1580 e il

La giusta riformadei pesi pubblici

Le riforme leopoldine

di mario [email protected]

Pianta Fiesole 1580

Capitanati da quattro ragazzi ul-traottantenni un folto manipolo di famosi scrittori italiani e stranieri ha lasciato la Bompiani in salsa berlusconiana per fondare  “La nave di Teseo” nuova casa editrice aperta, suppongo, a tutti gli auto-ri  in cerca di autentica libertà ed autonomia.Ci auguriamo che molti scritto-ri, giornalisti e  politici seguano l’esempio di “nonno Umberto” e sostengano questa  iniziativa  con lo spirito di slegarsi definitiva-mente da quel mondo pseudo culturale che ruota intorno alla TV spazzatura e che tanto male ha fatto alla cultura italiana negli ultimi trent’anni!!Ci auguriamo che molti scrittori, rischiando in proprio, non accet-teranno di cantare  “Marina…..Marina….Marina….!!  ma una canzone di  Modugno  più bella e famosa “ Volare oh ohNoi, da famelici lettori, faremo la nostra parte!!

di Sergio [email protected] Capitani coraggiosi

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finché è in tempo. Mirabile è il ritratto di Curzio Malaparte, “un Narciso, un avventuriero di tutte le venture”, “un eroe allo specchio”, prima ‘venduto’ ai Fascisti, poi agli Alleati, “con quella faccia da schiaffi, di chi la sa più lunga di tutti” ma “più

intelligente e più bello”. Insieme a Ottone Rosai, Ar-dengo Soffici, Mino Maccari, Alessandro Pavolini e ad altri personaggi, anche di fantasia, si compone il quadro di una Firenze amata e sofferta, che faceva un tutt’uno col fascismo (“noi che abbiamo il fascismo e la città nel sangue”), quel fasci-smo che si dice fosse riuscito a dare una patria agli italiani e a fare di tutti i toscani, superan-do Montaperti, un solo paese.Mario protrae oltre le eviden-ze, oltre le fortune di un’idea (e di un’ideologia), il proprio atto di fede incrollabile, anche se non totale, forse un delirio, che supera ogni buon senso e turba, spaventa la nostra sensibilità moderna; Mario con il suo fascismo “magro”, ridotto all’essenziale, ma ebbro di vita e di vitalità (“L’importante è che tu sia sempre caldo, perché gli uomini debbono essere così. Se bruciano di febbre, pazienza. (...). Ma i tiepidi non li guar-dare nemmeno.”) e anche un

po’ selvaggio; con la tentazione di invocare/sapere Dio – nel momento che preme - dalla propria parte, di rendere finito, limitato, ciò che è infinito e sta ‘sopra’. La commozione può correre libera su non pochi brani/pas-saggi, e non fermarsi di fronte a quel po’ di anacronistica e pur realistica retorica del tempo (“E noi si doveva andare avanti, anche morire volentieri, testardi come muli, fedeli alla giovinez-za”): c’è un’umanità anche ‘di qua’, che scruta, che riflette, che ama, che spera e dispera. Fedele ad una ragione “che viene chissà da dove”, Mario sente che questo agosto, questo mese di vita e di morte, vale qualcosa, ha una sua dignità. Pavolini è già partito per il Nord, insieme ad altre autorità, “a scavare l’ultima trincea”, ma ha voluto che i fiorentini non facessero come i senesi, “che avevano sconciato tutta la loro storia, suonando le campane all’ingresso degli Alleati”. A Firenze ha lasciato poco più di duecento fedelissimi, si sono addestrati al tiro di precisione alle cave di Maiano, hanno fu-cili col cannocchiale per centra-re gli obbiettivi. Non mancano le ragazze, quelle che vogliono bene a questi giovani, anche se portano la camicia nera. Mario è uno dei combattenti, sarà un franco tiratore (come gli garba chiamarsi) e salirà sui tetti a sparare contro americani e partigiani. Il suo sguardo è appassionato e disincantato al contempo, il suo atto di libertà è la propria stessa morte: di fronte a lei gli si fanno estra-nei persino i genitori, che non intendono che vada a morire (“a chi vogliono bene i miei se il figliolo come vogliono loro non c’è?”), mentre riconosce la famiglia autentica in un’acco-lita di amici-fantasmi, tra cui campeggia Berto. Che intensità, in certe pagine! Ci ricordano che, nei pochi momenti veramente importanti della vita, siamo soli, eppure possiamo ritrovarci (“E quando sarai solo, sarai tutto tuo”) ed è così che per Mario “il brivido diventa dolcezza” e chiude: “è strano: io sono con me e mi va bene. Gli altri ci sono stati, ora ci sono io e basta.”

Un libro del genere soltanto due decenni fa sareb-be rimasto nel cassetto

dell’autore, non pubblicato. Il suo titolo suona già come un ceffone – spregiudicato, irrive-rente -, la sua forma è un lungo monologo interiore, la storia e l’io narrante sono quelli del giovane Mario che nell’agosto 1944, in una Firenze dilaniata dal fronte (con i tedeschi e i fascisti da una parte, i partigia-ni e le truppe alleate dall’altra), conferma la scelta dalla parte ormai ‘sbagliata’ della storia e coltiva il proprio progetto di ‘resistenza’.Presa e lasciata sul tavolone del-la storia (e della politica), la vi-cenda o scegli di berla - magari tutta d’un sorso - oppure subi-taneamente la rifiuti. Perché il “Fascista da morire” di Mario Bernardi Guardi (Mauro Pagliai Editore, pp. 204, € 13,00) questo forse vuol essere, almeno di primo acchito: una scossa oppure un cazzotto, dipende, dentro le tue viscere. Epperò, anche così, se puoi non fermar-ti all’acchito, accedi ad un testo dalla lingua schietta ed efficace, a pagine ‘forti’ e colorite con squarci di umanità profonda e ‘ritratti dal vero’, di uomini in carne ed ossa. Come quello del “rivoluzionario” Berto Ricci, matematico, poeta e fondatore dell’”Universale”, morto sotto il fuoco inglese a Bir Gandula nel febbraio ‘41, con cui il protago-nista intrattiene un tenero, in-cessante dialogo immaginario, e che si fa rimpiangere: Berto era un puro che “arrossiva quando sapeva che c’era chi faceva i soldi con la retorica del Duce e del Fascismo”, aveva la passione “dei libri, delle cose che fai (…) giorno per giorno”. Fascista, sì, ma anche padre di famiglia, uomo restio alla “bottega del nulla” del dubbio pirandelliano, uno “che abitava a un piano più alto, dove il cielo è più nitido”. Poi c’è il colligiano Romano Bilenchi, prima fascista e poi partigiano, di cui Mario ram-menta un “litigio d’amore ma non più d’accordo” con Berto e che, come un padre, cerca di dissuadere il giovane prota-gonista dal proposito bellici-sta, esortandolo a farla finita

La resistenzasbagliata

di Paolo [email protected]

Scavezzacollodi maSSimo [email protected]

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In Italia il nome Belmon-do è associato al noto attore ma pochi sanno

che in Francia suo padre Paul (1898-1982) è considerato uno dei più grandi scultori dello stile neoclassico del XX secolo, tanto da dedicargli, a Parigi, un bellissimo e, purtroppo, poco frequentato museo.Paul Belmondo nacque ad Algeri da genitori di origine italiana. Studiò architettura e scultura e, ancora in giovane età, si trasferì a Parigi dove, per il suo talento, divenne ben presto conosciuto ed apprez-zato. Legato alla tradizione, lo scultore respinse subito le va-rie forme di astrazione seguite da molti artisti suoi contem-poranei preferendo lo studio delle linee classiche antiche che ebbe modo di ammirare e studiare anche attraverso i suoi viaggi in Italia e in Grecia. Nonostante un oscuro episodio, quando fu accusato, subito dopo la guerra, di aver partecipato nel 1941 con altri artisti a un viaggio in Germa-nia organizzato da Goebbels, e per questo boicottato per un certo periodo dalle esposizioni e gallerie d’arte, Paul Belmon-do, negli anni vinse diversi premi di prestigio in Francia e in Algeria e fu insignito, per la sua prestigiosa carriera arti-stica, della Legione d’Onore. Il museo a lui dedicato in rue de Abreuvoir 14 a Bou-logne- Billancourt, una zona interessantissima alle porte di Parigi alla quale ho dedicato diversi articoli, è stato aperto nel 2010, dopo vicissitudi-ni e diversi rinvii, grazie al forte impegno del figlio Jean Paul e dei suoi fratelli, Alain e Muriel, che hanno donato moltissime delle opere del padre in loro possesso tra le quali 259 sculture, più di 450 medaglie, 900 disegni, schizzi, lavori preparatori, calchi, alcu-ni mobili dello studio dell’ar-tista, suoi cimeli...Il museo si trova nel castello Buchillot del XVIII, bellissimo palazzo appartenuto ai Rothchild ac-canto ad un parco che prende il loro nome. Nel cortile, all’entrata, 3 grandi bronzi tra

di SimoneTTa [email protected]

Belmondo padre, scultore neoclassico

cui un busto della moglie Ma-deleine, madre dell’attore Jean Paul Belmondo, si stagliano contro il bianco immacolato della facciata. E sono bianchis-sime anche le pareti all’interno in forte e raffinato contrasto tonale con i toni molto scuri del legno e del metallo color ruggine del pavimento e delle rifiniture. Nicchie asimmetri-che lungo i muri contengono i tanti busti della collezione, dandone la massima evidenza attraverso una sapiente illumi-nazione. Un museo, ancora poco cono-sciuto, senz’altro da scoprire

Il cinema italiano rivela nel suo sottobosco preziose gemme. “Bella e perduta” di Pietro Marcello è una di queste. Un film pervaso da una teogonia panteistico-natura-lista, bucolico, pasoliniano nella forma, ma fortemente visionario nei contenuti.“I sogni e le fiabe anche se irreali devono raccontare la verità”, fa dire Pietro Marcello al bufalot-to Sarchiapone, animale eletto cui viene concessa salvezza dalla macellazione per tramite di Pulci-nella, maschera che ha il compito di mettere in relazione i morti coi vivi (il riferimento al Sarchiapone mitico, all’animale immaginario della tradizione partenopea e, volendo, anche al noto sketch di Chiari e Campanini, non può es-sere casuale). Intercede la “santità” di Tommaso Cestrone, il pastore campano che per molti anni ebbe a cura la reggia borbonica di Car-ditello, abbandonata alle ingiurie del tempo e del vandalismo e ora diventata una sorta di simbolo, di chiesa dopo la sua improvvi-sa morte. E’ la cronaca che va vaporizzandosi nel mito, l’arte che sublima le ragioni dell’imme-diato allo sfiorire delle emozioni, al distillarsi del tempo sotto differenti prospettive e visioni. E i fatti “scompaiono” nella fiaba, e i vinti si fanno latori del divino,

brillando d’una luce propria, alie-na, sovrumana. Pulcinella, messo degli Dei, a sua volta impenetrabi-li entità dogmatiche da cui affran-carsi, abbandona la maschera e genera analmente il suo “doppel-ganger”, l’ “uomo bucolico” che ritrova la “libertà” nella simbiosi con la natura e gli animali. Il prez-zo da pagare è però molto alto: il suo affrancamento condanna a morte Sarchiapone, giacché senza maschera, Pulcinella non può più udire la voce dell’animale. E qui si fa prometeica la visione del bufalo - “Addio mio caro amico. Amare la vita è quello che davvero conta. Malgrado tutto sono orgoglioso di essere un bufalo. Essere un bufalo è un arte”; la parola, il logos, sono simbolicamente deposti quale veicoli di comunicazione tra gli es-seri e, in definitiva, non sono che strumenti imperfetti: parlano gli

occhi di Sarchiapone più di ogni altra speculazione possibile. Centrale, nella visione panteistica di Marcello, rimane l’universalità del concetto di anima, lemma che non a caso lega la sua radice a quella di “animale”. Sarchiapone va incontro alla morte facendosi beffe dell’assurda visione antro-pocentrica della vita (delle vite), e lotta relativamente prima di decidersi a superare le barriere che lo destineranno alla macellazione. La mirabile sequenza finale che la poetica del regista ci restituisce in chiave di tragica e canzonatoria danza della tauromachia, è agonia nella sacralità del passaggio e della trasformazione.Ai cultori di certa simbologia non saranno sfuggiti i riferimenti ai due alberi: della vita e della morte. Opera da vedere assolutamente col corpo e con l’anima.

di FranCeSCo [email protected] Bella

e perduta

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detestabile, tuttavia, l’ipocrisia del buonismo del tipo: “.cosa vuole il Califfato? Ebbene, diamoglielo questo Califfato (but ... what the hell does it mean?)” qualcuno ha detto di recente con graziosa – quanto ormai imper-cettibile ‒ inflessione tipica della parlata del medio valdarno: “... i cosiddetti ‘islamici’ sono come noi, non hanno segni partico-lari che li distinguano ...”. Ne è

Una scatola per ricordi fisici e digitali, in cui inserire bigliet-ti e altri piccoli oggetti che si accumulano quando si visita una città, ma in cui raccogliere anche foto e video realizzati con il proprio smartphone, grazie a una scheda di memoria: è Pico, il prototipo vincitore del contest “Make/Florence” per creare il “souvenir del futuro”, promosso da Fondazione TEMA (Ente Cassa Risparmio di Firenze) e MIT Mobile Experience Lab presso la sede dell’Istituto Euro-peo di Design (Ied) di Firenze.A crearlo, al termine della maratona di quattro giorni per giovani creativi, è stato un team di quattro ragazzi toscani di età inferiore ai 35 anni: Jessica Russo (Signa, 22 anni), Alessandro Panichi (Montevarchi, 33 anni), Irene Barnes (Borgo San Loren-zo, 29 anni) e Flavia Luglioli (Loro Ciuffenna, 30 anni). Il nome viene da Pico della Miran-dola, personaggio storico noto per la sua grande memoria. Pico è realizzato in legno (è gran-

de 20per10per15 cm), decorato a laser con i motivi geometrici dei monumenti simbolo di Firenze. Sul fondo, è inciso un Qr code collegato a una app, e contiene una scheda di memoria che permette di dialogare col

telefono per conservare la me-moria fisica digitale. La scatola è personalizzabile e brandizzabile. “L’idea è sviluppare varie tipo-logie di scatole con legni diversi per tasche diverse”. Il team si chiama Lampredotto,

di aleSSandro [email protected]

News (?) from our bucket of trash. A volte ritornano! Lord Chamberlain, che fu

la vera concausa scatenante della passata guerra nientemeno che mondiale, è di nuovo fra noi. “Tranquilli” – disse – “nessuna guerra all’orizzonte. Hitler è uomo di pace, vuole solo i Sudeti che, tutto sommato, sono anche molto tedeschi. E diamoglieli, questi Sudeti (but ... where swine hell are they?)” disse con accento garbatamente oxfordia-no – e continuò – “noi abbiamo solennemente e reciprocamente approvato un ‘written agreement’ (e sventolò il foglio affinché tutti lo vedessero in tutto il mondo, anche se non eravamo nemmeno agli albori dell’Era dei media), e pacta sunt servanda, ricordia-mocelo bene, e ricordiamo che noi siamo inglesi e rotariani ... may God bless us all!!” concluse enfaticamente. E uscì dalla Scena mondiale quasi subito, perché andò com’è andata ma soprattut-to per via del disastro immane causato dalla firma di quel ‘writ-ten’. Io ne ho vissuti i miei primi

Ma cosa vuole questo califfato?

di Sara Chiarello twitter @Sara_Chiarello

sette anni, tre o quattro dei quali ben consapevole di cosa stesse accadendo. Ne porto ancora i se-gni nel carattere [sotto controllo, naturalmente] appena mitigati dalla filosofia e dalla speranza che tutto quanto non ritorni. Sono anche consapevole che non sia corretto rendere morso per morso, rispondere dente per dente agli attacchi che ci sono portati senza giustificazione. È

vivente esempio l’Imam italia-no, che pare un professore di matematica delle medie! Detesto però che si cerchi il dialogo solo adesso, quando tutto il mondo è sotto mira di bocche da fuoco che non sai bene dove sono e in mano a chi sono. Non abbiamo bisogno di altri Chaberlain del “tout va bien, madame la mar-quise ...”, ma di veri Statisti che sappiano bene cosa fare e come farlo tempestivamente a vantag-gio di tutti, Islamici italiani e non italiani. Cerchino la Pace, certamente, ma ricordandosi che ‘si vis pax para bellum’! Per favore, il nostro inno naziona-le dice ... “l’Italia s’è desta” ... Ebbene, combatta duramente il terrorismo “... da qualunque parte esso provenga ...” e si svegli davvero, questa Italia che dorme. L’Italia è un Grande Paese che vuole subito una Legge elettorale democratica e leale degna del suo Popolo, vuole onestamente ben scegliere a chi delegare il proprio governo. Però, almeno per ora, parole e ancora parole. Ne ripar-leremo nel 2018 (che due anni fà dovevano essere al massimo tre mesi ... Mah!).

Il souvenir del futuro è Pico,la scatola per ricordi in omaggio a uno dei prodotti

più tipici del territorio fiorenti-no.Gli altri gruppi hanno presentato Toc, un quaderno interattivo che permette di registrare i suoni e legarli ai luoghi di Firenze; Flo-reskin, un bracciale di pelle con impressi vari simboli di Firenze che attraverso una app possono essere richiamati per rivivere i ricordi sul proprio smartphone; Ubo, un set di scatole interattive e componibili con immagini stilizzate di Firenze; Pippo, riferito alla prospettiva di Filippo Brunelleschi, che permette al turista di scoprire luoghi segreti di Firenze grazie a un’applicazio-ne di geolocalizzazione. Make/Florence è un evento spe-ciale del progetto Re/Active per ricercare e sperimentare materiali innovativi, strumenti e tecniche di fabbricazione digitale e servizi innovativi per l’artigianato. Per informazioni: www.makefloren-ce.org

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Yerba paraguayana NapoleonLatta in forma di bari-

lotto che conteneva “erba” paraguayana detta

altrimenti Mate. Nel fondo si legge la marca, “Yerba Napole-on”, premiata alla “Exposition Industrial de Agricultura y de Hygiene” del 1910. Quelle in vendita su e-bay sono peggio in arnese di questa scovata alle pulci nostrane dal solito Rossano ed acquistata, senza sapere cosa fosse il suo con-tenuto, per una cifra irrisoria rispetto a quelle che colà si chiedono. In realtà per mate si intende l’infuso che si ottiene, con un complesso e rituale procedimento di preparazione, aggiungendo acqua calda a foglie essiccate di ilex paragua-riensis, stipate in un conte-nitore anch’esso detto mate, che era, ai tempi degli indios guaranì, di zucca o legno e che ora è spesso in metallo. Messe le foglie ed eliminati i residui di polvere, arrovesciandosi il contenitore su una mano, si versa acqua ben calda da un lato, lasciando asciutte le foglie nell’altra parte, dalla stessa parte dell’acqua si inserisce poi l’apposita “bombilla”, cannuc-cia di metallo che termina con una testa bombata e bucherel-lata che filtra la bevanda senza lasciar passare le foglie. La bombilla non deve essere mai spostata, la prima dose la beve il “cebador”che aggiunge altra acqua e passa il mate, a sini-stra, alla persona con cui sta “mateando” che lo ripassa sem-pre a lui anche se vi sono altri bevitori e così via. Gli indios guaranì la bevevano fredda, gli spagnoli iniziarono a scaldare l’acqua per la sua preparazione, che non deve mai bollire e che viene tenuta calda in un appo-sito contenitore. E’ bevanda diffusissima in vari paesi dell’A-merica Latina,un po’ come il thè in Inghilterra e il caffè qui da noi, il rito che ne accompa-gna la degustazione detiene un senso identitario, di affettuosa fratellanza,di condivisione e solidarietà. Dice sia portentoso contro “il mal di montagna” che colpisce i viandanti della Cordigliera delle Ande e che migliori diuresi e metaboli-smo, sarebbe però canceroge-

a Cura di CriSTina [email protected]

no, anche se, per mantenere sempre alta la confusione su miracoli e misfatti delle erbe, questo effetto potrebbe essere ascritto al fatto che la si beve ben calda....Per rendere pronto alla preparazione e degusta-

zione del mate il contenitore, se è di zucca o legno, occorre “curarlo”per circa sette giorni con infusioni e svuotamento quotidiano dell’acqua che, all’i-nizio, sarà rossastra per i colori che filtrano dal contenitore e

che, infine diventerà giallo ver-dastra, nuance tipica di questa squisitezza. Il Papa ,ovviamente grande estimatore, è stato im-mortalato mentre degusta mate insieme alla Presidente Argenti-na Kirchner ....

bizzariadeglioggetti

Il migliore dei Lidipossibili

Ma qual è il colore da bombardare

nel mondo dipinto da Don Chisciotte?

Disegnodi Lido ContemoriDidascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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La Compagnia di Babbo Natale, fondata nel 2007 cresce nelle adesioni che hanno superato le centotrenta unità e che con-sentono pertanto insieme ai sostenitori di poter raccogliere importanti donazioni dirette a sostenere i bambini che vivono una situazione di disagio.Sono Amici che ogni anno si autotassano e si impegnano, anche, a raccogliere fondi per chi si trova in stato di sofferen-za, unendo “solidarietà e gioco”.Ogni anno la Compagnia pro-muove la raccolta dei fondi pub-blicando un originale volume, da collezione, fuori commercio; per il Natale 2015 dal titolo ”Il pranzo di Natale e le ricette della vigilia”.Non è il solito libro di ricette, infatti, quelle pubblicate ricorda-

no i sapori di casa dei Babbi che le hanno scritte col cuore, in ricordo dei sapori e dei profumi che vanno oltre il palato e riman-gono sempre nel cervello; di quando le nostre mam me non dedicavano alla

cucina i ritagli di tempo!Scalda il cuore ritrovarsi in famiglia e con gli amici intorno alla tavola imbandita; una ricca scelta di ricette consentirà di combinare il menù preferito o di arrischiare arditi accostamenti scoprendo anche sapori e profu-mi di una volta.

Il libro è arricchito anche dalle filastrocche originali di Renato Conti.La Compagnia si materializzerà a dicembre “in carne ed ossa”, in varie iniziative che saranno rese note sul sito: www.compagniadi-babbonatale.com Donazioni deducibili per persone fisiche e società a Compagnia di Babbo Natale ONLUS su:IBAN: IT 92T032 5302 8060 0000 0092 506 Banca Federico Del Vecchio Ag. P.zza Pier Vetto-ri, 6r-11, Firenze.

Il cibo della memoriaTutti quanti hanno in memoriaUn sorriso od una storia  Un profumo od un saporeCh’e’ rimasto in fondo al cuoreRipensando al tempo andato

Con un tuffo nel passatoSi risveglia la memoriaE rivivi la tua storiaCon i suoni della festa E i profumi nella testaChiudi gl’occhi e sei in cucinaCon la mamma li’ vicina Che impegnata coi fornelliAccarezza i tuoi capelliE ti “chiede” di assaggiareQuel ch’e’ li’ a cucinareO la nonna o la tua TataChe in cucina indaffarataTi prepara la lasagnaChe per te e’ una cuccagnaEcco allora, come un giocoTutti quanti, a poco a pocoSon riusciti a ricordareE su carta riportareIngredienti tempi e dosiDi quei piatti favolosi Sughi, arrosti o dei crostiniFritti, dolci o biscottiniChe han segnato anni feliciE ora spieghi a tanti amici

Anche nell’edizione 2015 del festival di musica classica Suoni riflessi, a Firenze in

Sala Vanni dal 25 ottobre al 22 novembre, le prime esecuzioni hanno avuto un peso significa-tivo: ben cinque in quattro dei cinque appuntamenti. E nel ric-co e originale programma della manifestazione, contraddistinta da un vertiginoso avanti e indie-tro nei secoli, non erano poche le musiche risalenti a dopo la metà del Novecento. Naturale dunque chiedere all’ideatore e diretto-re artistico del festival, Mario Ancillotti, del suo rapporto con la contemporaneità e del perché dello spazio concesso a composi-zioni mai ascoltate prima.“La creatività musicale di oggi – spiega Ancillotti - è molto vivace e diversificata; il nostro non è un festival di musica contem-poranea, ce ne sono tanti altri, e la nostra linea è più didattica: noi vogliamo far capire cosa può esserci dietro la creazione musicale di ogni tempo, quali sono gli stimoli, le motivazioni, le emozioni; ma anche come la stessa musica può servire come ulteriore emozione diversa, forse anche lontana da ciò che l’ha suscitata. Noi l’avviciniamo per suggestione, per associazione di idee. Questo è il “riflesso”, lo specchio. Dunque questo perio-

do attuale, così fecondo di musi-ca nonostante che forse l’ascol-tatore medio neppure lo sa, ha molto da comunicare. La musica odierna è la nostra musica, anche se a volte difficile da capire, ma è la più idonea a colpire l’immagi-nazione e l’emozione dell’uomo di oggi. Solo che l’ascoltatore tende a usufruire della musica

come “intrattenimento” o al massimo come rito culturale. Ed è fuorviato: la musica, come tut-te le arti, è impegno emozionale e spirituale. Per capirla si “deve volere”, e non pensare che sia un dono gratuito, ci vuole interesse e volontà. Noi con le nostre creazioni cerchiamo di favorire questa comprensione, ma non solo per il contemporaneo, ma per tutto l’universo musicale”. “Le prime esecuzioni – aggiun-ge Ancillotti - mi servono, così come mi serve cercare dentro Beethoven, Bach, ecc. La musica è tutt’una. Le distinzioni servono allo studioso per catalogare. Ma si rischia di perdere il vero senso della comunicazione dell’arte, che è l’emozione. I musicisti e gli ascoltatori debbono com-prendere il contenuto spiri-tuale e culturale di un brano, prescindendo dallo stile e dal periodo di scrittura, che ovvia-

mente hanno maniere espressive diverse. Per cui affrontare delle tematiche, che possono essere serie o facete, ampie o ristrette, coinvolgenti, come quest’anno la follia, o più futili e scherzo-se, come la gastronomia nella musica, serve a far capire che la Musica, con la M maiuscola, si è sempre occupata di tutto ciò che ci circonda, senza mai rifiutare niente, perché essa è il riflesso in suoni della nostra vita. Questo ci permette con molta semplicità di inserire anche le musiche d’oggi in un contesto di comprensione condiviso e comune, e quindi di svelarne il contenuto emotivo”. “Le prime esecuzioni – conclu-de - sono un fiore all’occhiello che molto volentieri ogni festival si mette, ma è ancora più utile, cosa che noi facciamo normal-mente, ripresentare musiche che non sono state adeguatamente valorizzate o capite”.

Suoni Riflessi e la contemporaneitàa Cura di aldo [email protected]

Le ricette di Babbo Nataledi roBerTo [email protected]

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Ingredienti per due persone:una cipollaun cucchiaio e mezzo di olio extravergine di olivauna fetta di pesce spada (700 gr circa) la quantità dipende dal gusto350 gr di pomodorini gialliPrezzemolo q.b.Sale q.b.Preparazione:Tagliate la cipolla a listarelle, versate in una padella l’olio e la cipolla e fate soffriggere quest’ul-tima. Quando la cipolla sarà bella bionda, versate il pesce spada in precedenza tagliato a pezzettini aventi come misura la metà del mezzo pacchero che poi cuoce-rete( la misura è a piacimento), aggiungete un po’ di sale fino. Una volta rosolato il pesce spada toglietelo dall’olio e conserva-telo a parte. Una volta tolto il pesce spada, nella stessa padella, con l’olio e le cipolle, versate i pomodorini gialli, un po’ di sale grosso e fate cuocere il tutto a fuoco lento per circa quindici minuti, aggiungete poi il pesce spada per ulteriori cinque minuti di cottura. Dopo aver scolato i mezzi paccheri (che avrete cotto a parte in acqua bollente per circa

dodici minuti ) versateli nel sugo e spadellateli per qualche minuto fino alla “legatura” pasta e sugo preparato. Impiattate, versate il prezzemolo tritato e….buon appetito.

Aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexDopo decine e decine di lavori stropicciati, arrotolati e appallottolati, scopriamo, con sorpresa, un’opera completamente diversa dalle preceden-ti. Da un’attenta osservazione abbiamo scoperto che l’artista, per la prima volta, non ha usato le mani. Si può così scoprire, da alcuni strappi, dalle macchie color terra e da certi schiacciamenti, che questa volta il della Bel-la ha a lungo pesticciato lo scottex: siamo di fronte ad un raro capolavoro fatto con i piedi.

Sculturaleggera

Mezzi paccheri di pesce spada

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di miChele [email protected]

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in

giro

MATTEO CHIUMMIELLO · ANTONINO LO PRESTI

L A B I B L I OT E CA D I S CA N D I C C IAudi tor ium M. A. Mar t in iVia Roma 38/a - Scandicci - Firenze - tel. 055 7591860/861

5/15 dicembre 2015inauguraz ione sabato 5 d icembre ore 17

ANIMALI FAVOLOSI RACCONTI SILENZIOSI

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lectura

dantisDisegni di PamTesti di Aldo Frangioni

Canto XII

Una palude di sangue

bollente attraversata

in lungo e largo da centauri

scatenati, trafiggono

senza tregua i morti per

farli morire ancora,

guidati da Chirone, nel

quale par scorgere Valentino Rossi che prende a

pedate gli

avversari di gara.

Nel fluido che scorrea nelle venetrovasi chi altri ha violentato, nel bollore patiscono le lor pene.

Tra i centauri un campione patentato,più che le frecce tirava le pedatecorrendo su le rive scatenato

l’anime senza speme son malmenate.Nell’uom cavallo vidi un ragazzino:veniva voglia di dargli du’ manate,

somigliava ad un celebre fantinoche su le piste aveva sempre vintodi valor certo e di nome Valentino

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L

Siamo sempre al Central Park e l’atmosfera del grande raduno comincia a riscaldarsi. Uomini e donne, giovani e meno giovani, e anche tanti giovanissimi, salutano con il pugno chiuso ed ascoltano applaudendo i vari interventi che si alternano ad una musica decisamente coinvolgente. La partecipazione del pubblico, composto da un variegato miscuglio di razze e di etnie, si alza presto di tono e prosegue

per alcune ore a ritmo continuo e incessante. Moltissimi erano i partecipanti che salivano sul palco per sentirsi davvero al centro di questo grande movimento contro una guerra decisamente molto impopolare.

NY City, agosto 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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