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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
Facoltà di Scienze Politiche,
Corso di laurea in Sviluppo e Cooperazione
TESI DI LAUREA
CULTURE ROCK
CULTURE GIOVANILI TRA STILE, SOTTOCULTURA E SCENA
RELATORE:
Prof.ssa Raffaella FERRERO CAMOLETTO
CORRELATORE:
Prof. Carlo GENOVA
Candidato:
Matteo CASTELLO
ANNO ACCADEMICO 2008-2009
Indice:
INTRODUZIONE: PER UNA CRITICA ALLA PROSPETTIVA
FRANCOFORTESE.....................................................................................................pg.2
CAP. 1. ROCK'N'ROLL E CULTURA GIOVANILE..................................................pg.6
1.1 Cambiamenti tecnologici e nuovi mercati............................................... pg.10
1.2 Prime sottoculture: beatnicks e hipsters...................................................pg.12
1.3 I teddy boys..............................................................................................pg.16
1.4 Conclusioni...............................................................................................pg.18
CAP. 2. GLI ANNI '60: LA TEORIA DELLE SOTTOCULTURE............................pg.21
2.1 Beatles e Rolling Stones, uno scontro culturale.......................................pg.22
2.2 Bikers e mods...........................................................................................pg.26
2.3 La nascita della controcultura in America................................................pg.31
2.4 Il rock psichedelico, gli hippies................................................................pg.33
2.5 Conclusioni...............................................................................................pg.37
CAP. 3. GLI ANNI '70: L'ERA DEL PUNK..............................................................pg.38
3.1 Glam rock.................................................................................................pg.39
3.2 Hard rock..................................................................................................pg.42
3.3 Il progressive rock....................................................................................pg.43
3.4 Il punk.......................................................................................................pg.45
3.5 Conclusioni...............................................................................................pg.49
CAP. 4. GLI ANNI '80: LA GRANDE FRAMMENTAZIONE.................................pg.51
4.1 Nuove tecnologie......................................................................................pg.52
4.2 Synth pop..................................................................................................pg.53
4.3 Le ultime sottoculture: hardcore e goth....................................................pg.55
4.4 L'indie.......................................................................................................pg.57
4.5 L'alternative rock......................................................................................pg.59
4.6 Conclusioni: ripensare alle sottoculture...................................................pg.62
CAP. 5. GLI ANNI '90: RIPENSARE ALLE SOTTOCULTURE.............................pg.65
5.1 Da sottocultura a scena.............................................................................pg.66
5.2 Il grunge....................................................................................................pg.70
5.3 Il Brit pop..................................................................................................pg.71
5.4 Il Post-rock...............................................................................................pg.72
5.5 Nuove controculture, i rave......................................................................pg.74
5.6 Conclusioni...............................................................................................pg.76
CAP. 6. LO STATO DELLE CULTURE GIOVANILI NEL 2000.............................pg.78
6.1 Per una nuova definizione di sottocultura................................................pg.80
6.2 Sottocultura ieri e oggi: uno sguardo comparato......................................pg.82
6.3 Punk e analisi post-subculturale: uno sguardo comparato........................pg.84
6.4 Conclusioni...............................................................................................pg.86
Bibliografia.................................................................................................................pg.90
“L'identità sociale si definisce e si afferma nella differenza”
Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto,
Parigi, 1979
Quali direzioni e quali significati hanno assunto le sottoculture legate alla musica pop dalla
seconda metà del '900 in poi?
È questo l'interrogativo che la presente analisi cercherà di affrontare, tenendo conto degli
approcci teorici che si sono susseguiti a partire dalle critiche alla pop music di Adorno,
passando per le analisi sulla devianza della scuola di Chicago, per arrivare alla Scuola di
Birmingham (CCCS) fino a giungere alle problematiche che la dimensione post-moderna e
post-subculturale ci pone.
Nel primo capitolo si analizzeranno gli anni '50 tenendo conto dello strappo che il rock'n'roll
causò nell'analisi dell'industria culturale e della concezione di musica leggera. Passando in
rassegna i primi fenomeni sottoculturali si descriveranno le prime forme analitiche, legate alla
scuola di Chicago, per studiare i fenomeni devianti giovanili.
Gli anni '60 vedranno l'emergere della scuola di Birmingham, contemporaneamente alla
diffusione di importanti sottoculture giovanili resistenti come quella hippie.
Gli anni '70, dopo un periodo di dispersione e mercificazione delle culture giovanili,
offriranno il paradigma massimo per convalidare le tesi del CCCS, vedendo la pubblicazione
di uno dei testi fondamentali dell'analisi sottoculturale (Resistance Through Rituals) poco
prima dell'esplosione del fenomeno punk.
Con gli anni '80 inizia la diaspora e la mercificazione che costringe ad un ripensamento delle
categorie classiche con le quali analizzare il rapporto tra musica, stile e identità.
Gli anni '90 approfondiscono questa dispersione, costringendo ad approfondire nuove
categorie d'analisi, come quelle di tribù e di scena, le quali saranno codificate grazie alla
nascita di scuole come quella del Manchester Institute of Popular Cuture e agli studi sulle
nuove forme subculturali come la club culture e i rave.
Nell'ultimo capitolo si provvederà a fornire una sintesi definitiva riguardo alla presunta
incompatibilità del concetto di sottocultura con le moderne forme di aggregazione giovanile.
Il superamento di certe categorie, come lo stesso concetto di subcultura, la liquidità che
sembra sciogliere i rigidi legami tra cultura, classe, sesso e razza, l'affrancamento dal discorso
politico, egemonico e resistente che lo stile si è ipotizzato coinvolgesse, la dimensione
globale dei generi e della fruizione musicale nonché la sua frammentazione sono alcuni
dei nodi che si cercherà di sciogliere.
La struttura della tesi sarà di stampo storico: passerò in rassegna, decennio per
decennio, i principali fenomeni musicali legandoli ai conseguenti “stili” estetico-
culturali in connessione con il panorama sociale e politico.
Introduzione: Per una critica della prospettiva francofortese
Adorno, nella sua “Introduzione alla sociologia della musica” (1962), situava il
concetto di musica leggera “nella zona torbida dell'ovvietà” (Adorno, 1962, pg.26).
L'industria culturale, intesa secondo una logica prettamente marxista di dominio
capitalistico, determinava i gusti delle masse, acriticamente omologate e soggiogate alla
falsa coscienza che le radio e le major producevano in forma di musica, o meglio di
“muzak”, per annebbiare le coscienze delle masse lavoratrici, per indurle alla passiva
accettazione dei rapporti di forza e dell'ideologia dominante accettando una quotidianità
diafana e monotona, quasi a voler plasmare il tempo libero sul processo di produzione
meccanizzato, ripetitivo e assolutamente scevro da ogni spunto di creatività o
personalità da parte del lavoratore.
L'espressione culturale delle masse diseredate non trovava spazio tra i musical di
Broadway, i vaudeville francesi e il jazz che accompagnava l'epoca della speculazione
finanziaria americana e dei fascismi europei.
La scissione tra arte superiore e arte inferiore, e anzi, tra arte e merce, era
complementare al dualismo classista nel quale si risolveva l'intera società, trovandosi
inserita nel modello analitico del materialismo storico. L'una era sempre raffinata
espressione delle classi dominanti, l'altra pura forma culturale etero diretta e
preconfezionata per tenere buone le classi subalterne.
“L'individuo impegnato tra l'azienda e la riproduzione della forza lavoro” era
considerato “immaturo” e “non padrone dell'espressione delle proprie emozioni ed
esperienze” (Adorno, 1962, pg.33), ed anzi tenuto strumentalmente alla larga da una
possibile presa di coscienza di classe, da un momento pericolosamente riflessivo, per
mezzo di prodotti musicali studiati e progettati, nella loro banalità, con lo scopo di
fornire un annebbiamento, uno svago, un atteggiamento standardizzato e omologato
(quindi controllato ed innocuo) nei confronti del tempo libero. L'ideologia in quanto
camera oscura che capovolge la realtà si trovava quindi nella musica popolare, vero e
proprio strumento di dominio di classe. La funzione sociale della produzione musicale è
così quella di fornire una “consolazione” capace di far accettare acriticamente una realtà
atomizzata e reificata in molteplici dati grezzi e manifestazioni non organicamente
legate tra loro, come l'unica e la migliore possibile. Una “truffa” definita da Adorno la
“decorazione del tempo vuoto” (Adorno, 1962, pg.58).
L'utilizzo di categorie così nette ha avuto grande popolarità sia nella sensibilità popolare
(si pensi all'appellativo sprezzante di “canzonette” rivolto ai brani di Sanremo,
considerati dalle generazioni di operai e studenti politicizzati degli anni '60 come vuote
rappresentazioni imbonitrici della classe borghese) sia nell'analisi sociologica marxista.
Si pensi in tal caso alla breve analisi del jazz anni Venti e Trenta condotta dal sociologo
Dick Hebdige in “Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale” (1979) che già si
situava nell'analisi sub-culturale del CCCS, superando i determinismi della scuola di
Francoforte: “Quando negli anni Venti e Trenta la musica si alimentava all'interno della
corrente principale della cultura di massa, essa tendeva ad espurgarsi, ad essere
depurata di ogni eccesso di erotismo, e qualsiasi accenno di rabbia o di recriminazione
emesso lungo la linea calda, veniva delicatamente raffinato nel sound inoffensivo del
night club” (Hebdige, 1979, pg.51).
Una musica imborghesita ed estraniata dal contesto conflittuale da cui pur traeva le sue
origini, una musica fabbricata e levigata per essere consumata senza che fosse in essa
riscontrabile un qualche connotato anti-sistema ed anti-egemonico.
Sebbene dunque l'analisi condotta da Adorno fosse adeguata per una società fortemente
stratificata e per un mercato della musica altamente monopolistico, la stessa non poté
che cadere in contraddizione con le nuove forme di espressione semiotica e culturale
proprie della musica che si affermarono nel secondo dopoguerra, nonché con le
innovazioni tecnologiche e di mercato che caratterizzarono gli ultimi anni '40 e i '50.
L'analisi di Adorno era infatti fortemente ancorata ad una visione idealizzata della
musica europea, caratterizzandosi per un pregnante etnocentrismo, il quale non
considerava, ad esempio, le forme musicali americane, e se lo faceva le vedeva come
sviluppo e prosecuzione delle forme europee (Middleton, 1990).
La musica del dopoguerra però costrinse il pensiero adorniano ad una forte critica,
mettendo in risalto i suoi aspetti più monolitici e meno aderenti alla realtà: una realtà
che vedeva svilupparsi anche nella canzone leggera, nonché nello sviluppo delle
avanguardie pure, elementi che cozzavano contro e contraddicevano la
standardizzazione formale e la banalità degli oggetti d'analisi considerati dal filosofo
tedesco. La musica del dopoguerra, oltre ad arricchirsi in senso formale e tecnico, si
configurò soprattutto come consapevole fenomeno giovanile connotato da coscienti
intenti di protesta, nonché da una spiccata capacità di condizionare, quando non di
prendere possesso, dei i linguaggi e dei simbolismi insiti nel prodotto musicale,
divenendo soggetto attivo della produzione e determinando gli standard contenutistici di
essa.
Ciò che sembra trasparire dalla prospettiva di Adorno è invece l'irrimediabile
dipendenza culturale delle classi subalterne, incapaci di sviluppare visioni ed
interpretazioni del mondo adatte a riprodurre le contraddizioni della vita quotidiana.
Sembra che il concetto gramsciano di egemonia culturale sia qui univoco e destinato a
rimanere prerogativa dei capitalisti.
Manca un'analisi sull'estetica, una concezione più ampia, di tipo antropologico e
semiotico, della concezione di cultura, vista come sistema di simboli (Geertz, 1973) o
come pratica (Bourdieu, 1984), nonché una visione plurale che declina il termine cultura
in “culture” (Sewell, 1999), tutti elementi in grado di vedere l'uomo come creatore
attivo di significato, anche nell'atto del consumo, e come “utente di simboli”, come
attore in grado di codificare e decodificare, di manipolare, di accettare o di rifiutare, le
implicazioni di significato che sono contenute nella musica come nello stile.
Ciò che sta alla base della riflessione di Adorno è dunque una concezione di tipo
umanistico di cultura, divisa in “alta” e “bassa”, dove solo la prima è degna di tale
nome, in quanto dotata di valori universali e superiori, per dirla con Arnold (1869) “ciò
che di meglio è stato pensato e conosciuto” (Griswold, 2004).
L'arte, secondo questa concezione, era dunque prodotta dalle menti migliori della
società, quelle più istruite, coscienti e consapevoli. È naturale a questo punto arrivare
alla conclusione che la creazione artistica non possa essere alla mercé di chiunque, ma
esclusivamente nelle mani di una élite capace di maneggiare la “perfezione” insita in
un'opera d'arte che si rispetti. La quotidianità non trova dunque spazio in questo tipo di
produzione culturale, la quale si distacca coscientemente ed inesorabilmente da ogni
legame con lo scorrere del tempo ponendosi al di fuori di esso e connotandosi di
immortalità.
Vi è poi il forte accento sull'aspetto della produzione dell'oggetto culturale musicale, e
in particolare sul rapporto che sussiste tra produttore e consumatore, rapporto univoco e
deterministico, dagli effetti inesorabili e negativi. Manca ad esempio un'attenta analisi
sulla ricezione della cultura da parte dei consumatori.
Infine manca una categoria che divenne fondamentale dal secondo dopoguerra in poi,
ovvero quella del “giovane”, del teenager che sembrò fornire una profonda scissione
nella concezione delle funzioni e dei destinatari della musica, ampliando da una parte
l'offerta di consumi musicali e dall'altra permettendo a sempre più giovani di mettere su
una band ed impadronirsi del linguaggio musicale, grazie al fiorire delle etichette
discografiche e all'abbassarsi dei costi della strumentazione di un nuovo genere
popolare: il rock'n'roll.
CAP. 1. ROCK'N'ROLL E CULTURA GIOVANILE
Il rock'n'roll fu una delle prime culture giovanili del dopoguerra.
Le canzoni di Chuck Berry, Bo Diddley, Little Richard parlavano esplicitamente di temi
legati al mondo adolescenziale e in particolare facevano riferimento al “divertimento”,
che da quel momento diventava una vera rivendicazione del mondo giovanile, in
opposizione all'austerità e al moralismo della generazione dei genitori. Quello che
traspariva dai brani rock era prima di tutto la rivendicazione di uno specifico “way of
feeling” (Bennett, 2004) fatto di esperienze particolari, uniche, caratterizzanti e cariche
di significato in se stesse, non in quanto fasi precarie verso uno stadio, quello
dell'adulto, futuro ed ultimo. Il giovane cercava di imporsi come attore sociale
riconosciuto e riconoscibile, intrinsecamente importante e significativo, portatore di
innovazioni valoriali e stilistiche, nonché soggetto privilegiato delle nuove
conformazioni del mercato, a partire dall'industria discografica fino alle radio e alle Top
Forty, dedicate proprio a promuovere i “singoli” degli artisti idolatrati da questa
originale categoria sociale.
Si creava dunque una frattura culturale tra adulti e adolescenti, non essendo più
l'adolescenza un rito di passaggio teso verso la conquista dello status (movenze,
linguaggio, abbigliamento, ambizioni) degli adulti, ma un mondo a sé stante, fatto di
simboli particolari, di uno specifico linguaggio, di un settore di mercato specifico, della
ricerca di un'autonomia culturale che per la prima volta si poneva al di fuori della
politica, riscrivendo il significato di tempo libero.
Si trattava insomma di un capovolgimento epocale.
Si creava per la prima volta il terreno per una distinta “cultura giovanile” formata
innanzitutto da gruppi di giovani riconoscibili per un particolare modo di pettinarsi i
capelli, per un particolare stile nel vestirsi, per la scelta di una determinata musica di
riferimento e nell'adozione di un determinato linguaggio. Possiamo riscontrare questa
ipotesi nell'analisi di Talcott Parsons (1949), secondo la quale “lo sviluppo di una
cultura giovanile distinta era strettamente legata al distaccarsi da una relazione di
dipendenza con la famiglia” (Hodkinson, Deicke, 2004, pg.2). La cultura giovanile
aveva, per Parsons, la funzione di facilitare la transizione dallo stato infantile a quello
dell'adulto, vedendo comunque nell'adolescenza uno stadio transitorio, sebbene in grado
di determinare pratiche culturali specifiche.
Lo stato di dipendenza che caratterizzava il rapporto figlio-genitore era minato da una
sempre più alta capacità del giovane di ritagliarsi uno spazio economico proprio grazie
ad una crescita del suo potere d'acquisto (Osgerbry, 2004), processo parallelo
all'emergere e al successivo dilagare di locali serali, di riviste per teenager, dalla
differenziazione dei programmi televisivi e da una generazione di artisti i cui destinatari
erano proprio le giovani generazioni del dopo-guerra (Hodkinson, Deicke, 2004).
Possiamo dedurre che il consumismo statunitense e quello britannico furono fattori
determinanti nel permettere ai linguaggi dei giovani di svincolarsi da quelli dei genitori:
fu dunque il fattore economico ad essere decisivo per la creazione di spazi giovanili
relativamente autonomi, grazie ad una espansione e una differenziazione dell'offerta. Il
boom economico del secondo dopoguerra erose le tradizionali divisioni di classe
permettendo a buona parte della classe operaia di accedere, tramite i consumi, allo stile
di vita delle classi medie (Zweig, 1961). Fu grazie a questo fenomeno che gli
adolescenti poterono dar vita a culture stilistiche basate sul consumo (Bennett, Kahn-
Harris 2004).
Va certamente considerato che a partire dalla prima guerra mondiale, quella degli anni
'50 fu la prima generazione che non conobbe la propria esistenza all'interno di un
contesto conflittuale (guerre periferiche a parte), e che crebbe in un paese che era il
principale attore di un processo di pacificazione, di arricchimento e di ricostruzione. I
fantasmi delle guerre mondiali, delle ristrettezze economiche, dei totalitarismi e delle
dittature non sembravano più turbare l'esistenza della nazione, impegnata invece in un
processo di costruzione di organismi internazionali improntati al dialogo e alla
cooperazione internazionale. Sebbene le contraddizioni ed i conflitti interni non
scomparvero, sicuramente il clima si fece meno rigido e meno soffocante rispetto al
periodo 1914-1945, trovando ampi sfiati nel principio del liberismo economico,
meritevole di aver innescato un processo di arricchimento generale che si sarebbe
incrinato solo nei primi anni '70.
A livello musicologico il merito del rock'n roll fu quello di imporre un nuovo standard a
livello di strumentazione: il trio chitarra-basso-batteria divenne a partire dagli anni '50 il
formato indiscutibile di ogni pop band, e la chitarra elettrica assunse il ruolo di feticcio
e di strumento liberatorio dalle connotazioni sessuali e mistiche, rabbiose e sfrontate.
L'artista faceva della sua chitarra un prolungamento del proprio corpo, se ne
impossessava distogliendola dallo status di pura merce, si impegnava a farne diventare
la voce della propria abilità tecnica e della propria pulsione ribelle.
Il rock'n'roll si riappropriava di quella “negritudine” scippata al jazz durante i decenni
precedenti, riaffermando con forza quei caratteri di erotismo, rabbia, ribellione e
devianza che non avevano ancora trovato spazio, nella analisi di Adorno (1962), nelle
merci patinate ed inoffensive dall'industria culturale.
Il potenziale sovversivo dei contenuti del genere non poté che essere travolgente una
volta unito alla precisa catalogazione di “prodotto per adolescenti”, che proprio per la
loro età tipicamente denotata da irrequietezza e anticonformismo, si fecero attirare dalle
movenze di questi artisti incontenibili armati di chitarre elettriche, da questo dominio
del ritmo trascinante e fragoroso.
La risposta della cultura di massa non tardò certo a farsi sentire: subito si cercò di
fornire al pubblico una versione edulcorata rispetto alla turbolenza che aveva scatenato
la rivoluzione del rock, ingaggiando una serie di artisti bianchi in grado di minimizzare
la portata deviante del nuovo genere, eliminando i riferimenti sessuali espliciti dei neri
(Chambers, 1976), calcando invece su qualità più “hollywoodiane” e conformi come
quelle del successo, del fascino, dello charme, per una versione del rock che
abbandonava le sonorità più graffianti per abbandonarsi spesso e volentieri alle
morbidezze del rythm&blues e alle ballads sinuose e romantiche (Scaruffi, 1989). Il
primo esempio di questa schiera di artisti fu il celeberrimo Elvis Presley, il quale per
primo incarnò la figura di rocker bianco.
Il rock'n'roll naque all'inizio degli anni '50 dall'evoluzione del rhythm & blues, a cui si
aggiunse un nuovo elemento che divenne fondamentale per l'intera storia del rock: la
chitarra elettrica. Proprio sulla chitarra elettrica si effettuarono le prime ricerche e si
ebbero le prime innovazioni, a partire dai nuovi tipi di accordi utilizzati da Chuck Berry
nei suoi brani. L'abbandono dell'orchestra e l'importanza assoluta data al ritmo davano
al rock'n'roll un aspetto immediato e spontaneo, incontenibile e irruento.
Questo genere finalmente formalizzò l'assoluta importanza dell'esibizione rispetto alla
riproduzione (Willis, 1978): erano le qualità vocali e lo stile dell'artista nella
contingenza ad essere valorizzate, elementi che non potevano essere riprodotti in alcun
modo in quanto legati alle qualità personali, al timbro, al momento in cui l'artista
eseguiva le sue performance.
Il rock'n'roll era significativo anche per i connotati etnici di cui si dipingeva: la
condizione di sfruttato e di emarginato tipica dell'artista nero veniva superata e mitizzata
nell'ambito musicale, catalizzata in uno stile di vita da eroe profano ed eretico, in grado
di trascendere se stesso per mezzo della sua arte. Fino ad allora le forme artistiche dei
neri erano servite o come forma di cooptazione nella sfera religiosa, come nel caso del
gospel, il quale permise alle canzoni di disperazione degli schiavi utilizzati nei campi di
cotone di entrare nelle chiese, con l'effetto di far accettare più facilmente l'imposizione
della fede cristiana, o come punti di partenza per la costruzione di un prodotto musicale
snaturato e commercializzato eliminando ogni aspetto originario. Il nero era sempre
stato dipendente dalla volontà del mercato, assumendo il ruolo di mero strumento
dell'industria musicale, incapace di esprimere in modo genuino e spontaneo le sue
pulsioni e i suoi sentimenti, se non per rare eccezioni. L'artista per lo più era un
“semplice” esecutore di brani rivolti al pubblico bianco studiati per avere successo, e il
suo talento era solo uno dei tanti elementi che potevano influire sul successo del brano. I
bianchi avevano i soldi per far fruttare l'arte dei neri, ed in questo modo il rapporto tra
produzione e artista si collocava immediatamente in una dimensione subordinata.
Era indubbio comunque che esistesse una fortissima attrazione da parte del pubblico
bianco verso le forme espressive nere: l'esplosione del fenomeno del rock'n'roll ne fu la
prova più lampante. Il mercato intuì che la massa crescente di pubblico bianco che
ascoltava i generi neri per eccellenza, tra cui il rithm & blues, annientava ogni barriera
etnica e ogni pregiudizio, fornendo un bacino di consumo mai pensato prima.
La grande differenza nel rapporto tra produttore e artista stava ora nel fatto che l'artista
finalmente scriveva le sue canzoni, arrivando ad un'unità sostanziale nell'ideazione e
nell'esecuzione dei motivi. Da qui scaturiva l'autenticità del rock'n'roll, ovvero nel fatto
che le canzoni contenute nei dischi fossero dirette espressioni di chi le riproduceva
anche negli spettacoli, i quali diventavano i luoghi dove chi raramente aveva avuto
modo di far sentire la sua voce, poteva finalmente farlo davanti a migliaia di fan. La
performance permetteva di rendere irriproducibile ogni brano, unico grazie all'integrità
stilistica del performer (Willis, 1978).
Fu comunque dall'incontro tra artisti neri e ascoltatori bianchi che derivò il successo del
nuovo genere: l'esistenza di un mercato emergente in grado di accorgersi del grande
interesse che il rock suscitava nel pubblico bianco permise “l'alleanza simbolica”, come
definita da Hebdige (1979), tra bianchi e neri, e la successiva acquisizione e del genere
da parte dei primi. Questa avveniva tramite una decontestualizzazione che spostava
l'attenzione dalla dicotomia bianco-nero a quella di giovane-adulto, potendo così
generare gruppi bianchi che assunsero il genere come proprio, divenendone addirittura
alfieri agguerriti, come nel caso dei rockers e dei teddy boys (Willis, 1969).
La formazione di gruppi sottoculturali legati al rock'n'roll fu dunque significativa in
quanto trovava massima espressione in un contesto doppiamente estraneo: uno, come
abbiamo avuto modo di vedere, era quello del “bianco”, l'altro era quello dell'inglese
(Hebdige, 1979). Una sorta di saccheggio veniva effettuato in maniera creativa e
innovativa, per un ibrido stilistico generato dalla tensione verso l'esterno (l'America, il
nero) e la propria terra. Nacque così uno stile che associava alla brillantina, ai ciuffi e ai
giubbotti di pelle la ripresa dell'aristocratico ed altolocato stile edoardiano. Del nero si
adottò necessariamente l'appartenenza sociale, essendo i teddy boys di estrazione
proletaria ed operaia. I modi rudi e la chiusura ostinata verso quell'esterno che dava
ragion d'essere al loro stile era tipica del contesto urbano e degradato da cui
provenivano i giovani teddy boy.
Il rock'n'roll come fenomeno sociale riconoscibile si può collocare tra il 1955 e il 1956,
periodo in cui il genere approdò definitivamente in Inghilterra trovando ad accoglierlo
onde di giovani appassionati di rhythm and blues e artisti bianchi a raccoglierne gli
stimoli. Il rock'n'roll, quello originale, dunque quello nero di Chuck Berry, Little
Richards e Fats Domino, ebbe vita breve e non facile. Visti i connotati sovversivi e
destabilizzanti che sfregiavano per sempre il volto della musica leggera, iniziò una
campagna violenta nei confronti del nuovo genere e dei suoi epigoni: sia da parte delle
major, le case discografiche che si vedevano rubare grosse fette di mercato dalle indies,
le quali cominciarono violente campagne dissacranti e decisi boicottaggi nei confronti
degli artisti neri, sia dalla stagione reazionaria del maccartismo, che vedeva nella
suddetta forma musicale una sovversiva forma di comunismo, sia da parte della stampa
musicale come nel caso della rivista Melody Maker, impegnata a partire dal '56 in una
vera e propria crociata contro il rock (Chambers, 1985).
Ognuno di questi elementi non faceva però che aumentare il fascino proibito del genere,
provocando impressionanti crescite delle vendite, i cui profitti andarono in buona parte
alle piccole etichette indipendenti che avevano avuto il merito di aver creato il fruttuoso
mercato del rock'n'roll (Scaruffi, 1989).
1.1 Cambiamenti tecnologici e nuovi mercati
Il rock'n'roll poté accadere anche grazie ai cambiamenti tecnologici e di mercato.
Proprio a partire dagli anni '50 evoluzione tecnologica e innovazione musicale
iniziarono ad essere sempre più legate tra di loro, andando a fondersi in maniera sempre
più pregnante, in particolare per quanto riguarda il mondo della musica elettronica.
Nel 1948 si ebbe una delle prime significative innovazioni tecnologiche: l'introduzione
del nastro magnetico. In questo modo la registrazione diveniva meno macchinosa e
problematica. Prima di questo sistema si incideva direttamente sul disco, più
precisamente sul fragile e costoso 78 giri, cosa che non permetteva di rimediare ad
errori di incisione, con il risultato di dover gettare il disco qualora si presentassero
difetti nel processo di registrazione. Col nastro magnetico invece il processo si faceva
più flessibile, potendo assemblare e manipolare i risultati fino all'ottenimento del
risultato desiderato e a questo punto procedere con l'incisione definitiva (Chambers,
1985).
Determinante per l'ingresso nel mercato degli artisti di colore furono le etichette
indipendenti come la Sun di Memphis e la Chess di Chicago. Queste piccole case
discografiche cominciarono ad essere sempre più influenti sul mercato, costringendo le
major (i sette colossi: Capitol, Columbia, Decca, London, Mercury, MGM, RCA) a fare
i conti con il nuovo genere proposto dalle avversarie. Il rock'n'roll provocò un
vertiginoso aumento delle vendite di dischi: dai 213 milioni di vendite nel 1954 ai più di
600 milioni nel 1959 (Scaruffi, 1989).
Il consumo e la fruizione musicale furono favoriti poi dai cambiamenti delle
telecomunicazioni e dei media. La radio per esempio iniziò a trasmettere proprio i brani
preferiti dai giovani, organizzandoli in modo tale da renderli accessibili ai tempi di vita
degli adolescenti. Le Top 40 rispondevano ai gusti dei nuovi ascoltatori e nelle tv si
cominciarono a trasmettere programmi in cui i protagonisti erano teen agers intenti a
ballare le hit del momento, come per esempio la celebre trasmissione American
Bandstand inaugurata nel 1952.
Ancora sul fronte tecnologico l'utilizzo della stereofonia per registrare i dischi innalzò
notevolmente la qualità del suono. Ma ancora più importante fu la fabbricazione del
45”, nel 1949, che cambiò in maniera decisiva il format del supporto musicale: non più
singoli, ma album, raccolte di canzoni e possibilità di aumento della durata di ciascuna,
passaggio dal formato EP a quello LP.
Lo stesso processo di creazione dell'opera musicale subì grandi cambiamenti, venendo
frammentato in vari processi che andavano dalla registrazione, all'arrangiamento fino
alla distribuzione nelle stazioni radio, impedendo di avere un'unica fonte della
produzione del disco. La figura del tecnico del suono per esempio si aggiunse e si legò
indissolubilmente a quella dell'artista, finendo con il diventare un altro membro della
band (Chambers, 1985). Si pensi a quanto influì il metodo del “wall of sound” di Phil
Spector, capace di intensificare e rendere immensamente più incisiva l'esperienza
dell'ascolto.
Inoltre negli anni '50 venne introdotta, con lo sviluppo delle trasmissioni radio e delle
classifiche, la figura del disc-jockey, il quale selezionava e permetteva la diffusione dei
nuovi generi condizionando i gusti di milioni di ascoltatori. Il più famoso dj di quegli
anni fu Alan Freed, di Cleveland, il quale con la sua trasmissione “Moondog
Rock'n'Roll Party” fu una preziosissima e severa fonte di musica esclusivamente nera.
Anche a lui dunque il merito di aver dato “voce” agli artisti di colore, rifiutandosi in
seguito di trasmettere le cover bianche del rock, per tener fede soltanto alle versioni
originali. Insieme al rock'n'roll, anche Freed si trovò immerso nelle polemiche e negli
attacchi rivolti alle pericolose pulsioni di questa anticonformista ondata musicale: la
diatriba tra ASCAP e BMI, le due grandi società di raccolta dei diritti di autore
dell'epoca, fu caratterizzata dalle accuse della prima, sostenuta dal mondo conservatore,
nei confronti delle radio che trasmettevano rock'n'roll, a parere della ASCAP, in quanto
legate a interessi e connivenze con la BMI. Da qui le accuse si riversarono sui dj, di cui
Alan Freed, arrestato nel 1960, fu la vittima più illustre (Fabbri, 2008).
1.2 Prime sottoculture: beatniks e hipsters
La cultura come “distintivo modo di vita di un gruppo o di una classe” (Hall &
Jefferson, 1976) iniziò a declinarsi nelle sue prime diramazioni sottoculturali proprio
negli anni '50. La formazione di gruppi di giovani che per motivi estetici, per pulsioni
comuni, significati condivisi e medesima appartenenza sociale davano forma a
“entourage” dove si condividevano le stesse, fu un fatto importante per l'emergere di
sfere culturali che consapevolmente si ponevano al di fuori, o per lo meno su un piano
diverso, dalla cultura dominante, criticandone in modo spettacolare logiche e modi di
funzionamento, significati e idee. La cultura diventava una pratica significante, per dirla
con Bourdieu (1983), che canalizzava in sé una serie di strategie per interpretare la vita
quotidiana, un bacino di risposte reali o immaginarie, un mezzo per imporre nella
società (anche semplicemente esplicitandoli) gli obiettivi del gruppo. L'intreccio tra
gioventù, stile e musica iniziò in questo periodo a delinearsi come concreta pratica
aggregante capace di fornire risposte e vie di fuga, capace di dar senso e riempire di
contenuto il giovane inteso come attore sociale definito ed attivo.
La nascente middle culture generò così insieme alle sue manifestazioni artistiche, in
aperta contraddizione con l'omologazione della cultura di massa e grazie alla coalizione
tra musica (jazz in particolare) e letteratura (la beat generation di Kerouac e Ginsberg),
anche i suoi primi epigoni e rappresentanti.
I beatnicks appartenevano innanzitutto alla categoria di amanti delle nuove forme di
jazz (Hebdige, 1979), in particolare del bebop, ovvero di quella evoluzione del jazz
avvenuta a New York negli anni '40 capace di scuotere il genere liberandolo dai suoi
limiti formali e irrigiditi. Finalmente gli artisti trovavano il modo di esprimersi
accentuando velocità e sregolatezza. L'elemento che però risultava decisivo e
rivoluzionario era l'importanza assoluta data all'improvvisazione, grazie alla quale gli
artisti si potevano abbandonare a performance libere e senza freni, trovando uno sfogo
alle tensioni generate dalle contraddizioni che permeavano la loro vita. La musica
trascendeva se stessa diventando un atto liberatorio, andando a incarnare l'ansia
libertaria e la volontà di superamento di una società autoritaria ed opprimente nelle sue
strutture anarchiche e sregolate. La musica era l'idea del superamento che ci si augurava
dovesse avvenire nella società, era il suo analogo codificato in note.
Un breve passo del celebre libro “Sulla strada” di Jack Kerouac, evidenzia la passione e
il trasporto che coinvolgevano l'ascoltatore-spettatore di questa nuova forma espressiva:
“Il grande pianista jazz George Shearing, spiegò Dean, era proprio come Rollo Greb. Io e
Dean andammo a sentire Shearing al Birdland nel bel mezzo di quel lungo, folle fine
settimana. Il locale era deserto, fummo i primi ad arrivare, erano le dieci. Shearing fece il
suo ingresso, cieco, accompagnato per mano alla tastiera. Era un inglese distinto col colletto
bianco rigido, un po’ corpulento e rubizzo, biondo, con un’aria delicata da notte d’estate
britannica che venne fuori quando suonò il primo pezzo, dolce e sussurrante, mentre il
contrabbasso si sporgeva reverente verso di lui e segnava il tempo. Il batterista, Denzil Best,
sedeva immobile tranne per i polsi che agitavano le spazzole. E Shearing cominciò a
dondolarsi; un sorriso gli si aprì sulla faccia estatica; cominciò a dondolarsi sullo sgabello
del piano, avanti e indietro, lentamente da principio, poi il ritmo si fece più intenso e lui
cominciò a dondolarsi più veloce, col piede sinistro che scattava a ogni battuta, cominciò a
torcere il collo, si chinò con la faccia sulla tastiera, buttò indietro i capelli che si
scompigliarono tutti e cominciò a sudare. La musica prese quota. Il contrabbasso si chinò e
cominciò a darci dentro davvero, sempre più veloce, sembrava sempre più veloce, ecco.
Shearing partì con i suoi accordi; uscivano dal pianoforte a fiotti, a cascate dirompenti, si
sarebbe detto che il suonatore non avesse il tempo di controllarli. Fluivano a ondate come il
mare. Il pubblico gli gridava: «Vai!». Dean sudava; il sudore gli colava giù dentro il colletto.
«Dai! Dai! Sei un dio, Shearing! Sì! Sì! Sì!» E Shearing era conscio del pazzo che gli stava
alle spalle, sentiva ogni singulto e imprecazione di Dean, li sentiva anche se non poteva
vedere. «Così, avanti!» diceva Dean. «Sì!» Shearing sorrise; si dondolò sullo sgabello.
Shearing si alzò, colando sudore; erano i grandi giorni del 1949, prima che diventasse freddo
e commerciale. Quando se ne fu andato, Dean indicò lo sgabello vuoto. «La sedia vuota di
Dio» disse. Sul piano c’era una cornetta; la sua ombra dorata mandava uno strano riflesso
sulla carovana del deserto dipinta sulla parete dietro la batteria. Dio se n’era andato; era il
silenzio della sua dipartita. Era una notte di pioggia. Era il mito della notte di pioggia. Dean
aveva gli occhi fuori delle orbite per la meraviglia e l’ammirazione..." (Kerouac, 1957,
pg.165)
Come si può vedere l'esibizione si ammanta qui di qualità quasi mistiche, di un
abbandono estatico che fa della musica qualcosa di profondamente inedito rispetto alle
ben più posate forme antecedenti. Liberazione e superamento della banalità quotidiana,
questi i tratti espliciti di cui il jazz si appropriava. Un genere che fino ad allora era
sempre stato associato ad una fruizione disimpegnata ora invece si armava di auto-
consapevolezza rivoluzionaria e toni intellettuali, si elevava al rango di avanguardia
grazie ad una sperimentazione non fine ad un maggior successo commerciale, ma al
contrario inorgoglito della sua dimensione esclusiva di nicchia.
Tra gli ascoltatori vi erano appunto i beatnicks, rappresentanti della fascia studentesca
medio-borghese, consumatori di droghe leggere, interessati all'avanguardia,
profondamente critici ed insofferenti nei confronti della società capitalista e dediti ad
un'estetica basata sulla miseria e sull'essenzialità, caratterizzata da “stracci, jeans e
sandali” (Goldman, 1974). Il modello dei loro comportamenti e dei loro linguaggi
diventava l'artista di colore, finalmente ammirato per ciò che era, anche se fortemente
idealizzato, e capace di influenzare delle sue pulsioni autentiche il pubblico. I beat
sembrano anticipare quelle caratteristiche dell'appartenenza sottoculturale che saranno
sviluppate successivamente in maniera più organica e definita dagli hippies negli anni
'60: autenticità, misticismo, rivolta, passione, libertà espressiva e retorica anti-sistema.
Non si trattava però, nel caso di questi convinti ascoltatori di jazz, di un gruppo
fortemente omogeneo e strutturato, bensì di una maniera di percepire stimoli e
contraddizioni che portava all'adozione di una serie di pratiche che andavano dal
linguaggio all'estetica. Nel tempo però il fenomeno cominciò ad assumere forme sempre
più distinguibili, anche grazie al fatto che il Greenwich Village, quartiere di New York,
prese ad attirare schiere di giovani in cerca di nuove esperienze, con il risultato della
creazione di una vera e propria comunità artistica che negli anni '60 fece del folk la voce
della nascente protesta studentesca.
L'altro gruppo che traeva origine dal bebop era quello degli hipsters, i quali,
contrariamente ai beat, si ponevano in rapporto ai neri in maniera meno idealistica,
impersonificando con più cinico realismo il tipico abitante del ghetto. Così viene
descritto da Goldman (1974), tra i massimi studiosi delle due sottoculture, il prototipo di
hipster: “lo hipster era un tipico dandy delle classi inferiori, abbigliato come un
magnaccia, che affettava un tono freddo e cerebrale – per distinguersi dai tipi
grossolani e impulsivi che lo circondavano nel ghetto – e che aspirava alle cose
migliori della vita, come a dell'ottima erba, al sound più bello, quello del jazz o quello
afro-cubano” (Hebdige, 1979, pg.52).
Si nota dunque che chi aveva meno da spartire nella vita quotidiana con gli artisti neri e
gli abitanti dei ghetti (il beat) ne esaltava proprio le caratteristiche da cui questi ultimi
tentavano di fuggire, mentre chi si trovava immerso nelle stesse condizioni materiali e
aveva le stesse ambizioni (lo hipster), si trovava nella posizione di impersonificare il
cambiamento verso l'alto tanto aspirato e agognato. Ispirandosi dunque agli stessi
modelli le due sottoculture riuscivano comunque a trovare differenti declinazioni degli
stessi, a seconda del quale fosse l'habitus di ognuna, che le portava a decodificare
differenti significati, e in base al tipo di risposte cercate nell'artista bebop.
Sicuramente questo conduce ad un elemento di riflessione che sarà d'aiuto nell'analisi
delle sottoculture siuccessive. La struttura sociale di classe condiziona le risposte fornite
dalle sottoculture, che mai riescono ad eludere completamente questa appartenenza di
classe (Hall, Jefferson, 1976). Così, nella ricerca di povertà dei beat si leggeva la
possibilità di attuare questa ricerca, la superiorità, in termini di possibilità offerte, di una
posizione dominante che allargava e facilitava l'accesso e la scelta alla cultura. La
volontarietà della scelta beatnicks non sminuisce né dona maggior rilievo all'insieme di
pratiche simboliche dei giovani coinvolti, ma sottolinea la non completa indipendenza
dallo strato sociale d'appartenenza dei membri. L'hipster si trovava in una situazione più
obbligata, in cui la scelta sottoculturale consisteva in una riformulazione, seppur
creativa, di antiche condizioni e contraddizioni, di una posizione nella società
fortemente subordinata, escludente (perché esclusa) e vessata.
L'altro dato importante che emerge dalle due sottoculture è poi quello che esplicita la
fondamentale differenza tra la produzione e il consumo dell'oggetto musicale. Le culture
stilistico-musicali giovanili del dopo-guerra sono sempre state incentrate o legate all'atto
del consumo, senza però scadere nel consumismo passivo (Jefferson, 1976), anzi spesso
confliggendo con esso. Il consumo diveniva il terreno che permetteva di scegliere tra
vari ambiti, ma soprattutto di impossessarsi del valore d'uso dell'oggetto acquistato,
facendo passare in secondo piano il suo valore di scambio. Consumare un determinato
genere significava paradossalmente sottrarlo al mercato, resistere e ribellarsi alla società
che forniva alcuni mezzi per produrlo. Il significato musicale si svincolava dunque dal
modo di produzione, generando risposte e pratiche antitetiche rispetto al sistema
capitalista. Tutto questo fu possibile grazie ad una maggiore libertà rispetto agli anni
precedenti, libertà necessaria ad aumentare i consumi e a rendere più accettabile il
regime post-bellico. Fu anche possibile grazie al fattto che nonostante le scomuniche
della società colta e benpensante il mercato di questi beni culturali si rese indipendente
rispetto a tali giudizi, costituendo esso stesso, assieme al pubblico di consumatori, il
metro di giudizio per stabilire cosa fosse buono e cosa no.
Ma ridursi a ricondurre la causa del grande fermento culturale di quegli anni
all'allargamento delle maglie della tolleranza del sistema non è corretto: la brillantezza e
il genio degli artisti bebop e rock'n'roll, veri e propri pionieri di nuove dinamiche
sociali, nonché le risposte attive degli ascoltatori sono i veri protagonisti di un
rinnovamento culturale che bandisce la banalità e l'omologazione per affermare invece
un'arte popolare fatta di coscienza, immediatezza, ribellione e creatività.
1.3 I teddy boys
Il teddy boy rappresentò la prima vera e propria sottocultura rock della storia. La sua
apparizione fu permessa dalla naturalizzazione del rock'n'roll in Gran Bretagna
(Hebdige, 1979), fatto che permise di assumere il genere americano e di connotarlo dei
tratti culturali inglesi, facendolo proprio. A Londra, in particolare nei quartieri proletari,
questa moda fece la sua prima comparsa nel 1954, per affermarsi e trovare già fasi
declinanti nel 1956 (Chambers, 1985). La cerniera che legava le due realtà vedeva da
una parte l'utilizzo di oggetti culturali quali la brillantina, il ciuffo alla Elvis, i giubbotti
di pelle, il juke-box, dall'altro il recupero dello stile edwardiano, riproposto in maniera
inedita e provocatoria (Hebdige, 1979). Il vestiario dei teddy boys rappresentava, per
l'analisi sottoculturale, una soluzione simbolica ai problemi materiali, e in particolare un
modo simbolico di interagire e negoziare con la realtà, di dare un significato culturale
alla propria condizione sociale (Jefferson, 1976). Quello che i Teds cercavano di
ottenere era una riaffermazione dei valori tradizionali della classe operaia e del suo forte
senso del territorio, caratteristiche perse a causa della distruzione della coesione sociale
derivante da queste relazioni di classe nel dopo-guerra. Lo stile, il vestiario, la musica,
erano strumenti legati al sé che i Teds estendevano a livello sociale, a livello di gruppo,
creando una comunità capace di condividere pratiche e valori e di definire e difendere
un territorio culturale ed identitario (1976).
Lo spazio dove lo stile si manifestava era quello del tempo libero, per lo più passato nei
locali e nelle sale da ballo. Era questo il nuovo ambito nel quale affermare se stessi e
trovare il modo per realizzarsi ed esprimersi. Il week-end inteso come una pausa nella
quale riprendersi da un'occupazione estraniante non era più sufficiente: era invece il
momento in cui vivere pienamente, in cui tirare fuori il proprio io e farlo coesistere in
gruppi di simili, il nuovo ambito in cui attuare la costruzione della propria identità
individuale e collettiva. La ricezione dell'opera musicale avveniva dunque in gruppo,
coinvolgendo molte persone contemporaneamente, fattore molto importante per
comprendere come sia stato possibile l'emergere proprio di gruppi che cercavano
risposte collettive alle nuove sonorità. La ricerca di spazi personalizzati ed autonomi
rispetto al mondo del lavoro e a quello della vita domestica parentale trovava piena
realizzazione in questi luoghi che oltre ad essere fisici presto si connotarono di qualità
culturali, dal momento in cui si formalizzarono o si resero riconoscibili alcune pratiche.
Il ballo fu una delle più spontanee reazioni a tutto ciò. Il movimento, la fisicità,
l'immediatezza e il bisogno di uno sfogo si canalizzarono in danze sempre più scatenate,
capaci di creare il mezzo con cui la relazione tra giovani si faceva distinguibile e
ritualizzata. Le regole del ballo erano chiare e permettavano di definire una sorta di
linguaggio in codice che solo i giovani ascoltatori di rock'n'roll erano in grado di
controllare e padroneggiare (Hebdige, 1979).
La conquista del tempo libero fu possibile grazie ad un aumento del potere d'acquisto
delle giovani generazioni, il quale confluiva, nel caso dei Teds, soprattutto nell'acquisto
di abiti. L'uniforme dei Teddy Boys era il punto di partenza per la definizione del
proprio stile di vita, delle proprie aspirazioni e per la riproduzione della propria realtà
sociale (Jefferson, 1976). A partire dal 1953 si impose tra i giovani Teds la moda
dell'abito Edwardiano, introdotta pochi anni prima. Pur trattandosi, originariamente, di
uno stile legato all'aristocrazia, i giovani appartenenti alla classe operaia se ne
appropriarono rivelando da una parte una denaturazione dell'oggetto rispetto al contesto
originario, dall'altra l'ambizione a superare i propri limiti di classe. Il crescente potere
d'acquisto permetteva infatti, sebbene in maniera illusoria ed immaginaria, di
“comprarsi un salto di status” (1976, pg.70). L'impatto di questo atteggiamento creativo
sul concetto di cultura fu importantissimo: i Teds, attraverso l'appropriazione dello stile
Edwardiano facevano del loro stile estetico una via simbolica per relazionarsi e
negoziare con la propria realtà sociale, unendo la denotazione della realtà e l'aspirazione
ad un suo superamento.
Un'altra caratteristica dello stile teddy boy era l'alta dose di aggressività dimostrata dai
suoi membri. Per Jefferson (1976) questa era legata da una parte al bisogno di difendersi
dall'estensione sociale dell'identità di gruppo, la quale avrebbe potuto causare una
perdita di status (da qui lo scontro tra i vari gruppi di Teds), dall'altra esisteva la
necessità di doversi difendere dall'arrivo dei gruppi di immigrati, ai quali si attribuivano
le cause della perdita di status che i teddy boys, in quanto membri del sottoproletariato
britannico, si trovavano ad affrontare.
L'aumento dei salari e il consumismo in ascesa dunque permisero alle classi operaie di
mettere in discussione le forme superate dei propri genitori, per rimodellarle sulle
frequenze di una modernità che sembrava coinvolgere tutti.
Esisteva però un altro elemento che caratterizzava lo stile: quello dell'influenza
dell'America. Le novità americane, dal cinema alla musica, offrivano la possibilità di
optare per nuove categorie che davano l'impressione di una reale emancipazione dalla
propria situazione irrimediabilmente senza via d'uscita, soffocante e per niente attraente
(Hebdige, 1979). Il “sogno americano” condizionò così la vita dei teenagers inglesi, i
quali, mitizzando gli stimoli che venivano da oltreoceano, tentarono di riprodurli nei
loro quartieri e tra le loro compagnie.
Le resistenze dei media inglesi però furono molto più forti di quelle americane. Le
radio, in particolare la Bbc, non diedero mai abbastanza spazio ai successi pop del
momento, rimanendo ancorate alla tradizione e ostili ai cambiamenti musicali. I locali
divennero così il mezzo di trasmissione e di diffusione delle moderne sonorità: tra i più
famosi il Two I's di Soho (Chambers, 1985). Dal pub alla sala da ballo: qui si configurò
la sottocultura teddy boy, caratterizzando, come vedremo meglio per quanto riguarda i
rockers degli anni '60, le loro risposte e vincolandole ad un elemento importantissimo
quale il ballo, il movimento. Qui i giovani iniziarono a radunarsi e ariconoscersi come
gruppo dalle medesime aspirazioni e bisogni.
1.4 Conclusioni
Durante gli anni '50 Albert Cohen fornì un importante sunto dei tradizionali studi
americani riguardanti la devianza giovanile (Hodkinson, Deicke, 2004). Le sottoculture
fino ad allora erano state studiate secondo la categoria di devianza giovanile, ovvero
interpretando le culture dei gruppi emarginati e minoritari come forme di rifiuto dei
singoli individui dei significati e degli obiettivi dominanti (Merton, 1938). Per Cohen
(1955) la devianza giovanile era da intendere invece come un fenomeno collettivo.
Nella società esistevano gruppi sociali che soffrivano di simili “problemi di
inserimento” (1955) dovuti sia alla difficile età adolescenziale sia ad un comune
retroterra svantaggiato. Questo portava i gruppi subalterni a sviluppare delle strategie
alternative, a dotarsi di norme collettive per colmare l'assenza di riconoscimento nella
società dominante. Veniva dunque costruita su un terreno alternativo la definizione di
quelle caratteristiche a cui questi individui non potevano accedere altrove. L'analisi di
Cohen si inseriva nel settore di ricerca della scuola di Chicago, secondo cui l'origine
della devianza non era da ricercare nelle carenze psicologiche dell'individuo, ma si
trattava di una serie di risposte determinate dall'ambiente socio-culturale (Bennett,
Kahn-Harris 2004). L'accento posto sul bisogno di creare serbatoi valoriali, anche se
alternativi e devianti, accentuò le caratteristiche sociali e culturali del concetto di
devianza, gettando le basi per la successiva teoria sottoculturale, la quale spostava
l'attenzione dai gruppi devianti ai gruppi resistenti, i quali utilizzavano lo stile come
forma di opposizione alla società dominante.
L'immensa fucina sociale degli anni '50 generò un processo di arricchimento che
costrinse le varie categorie sociali a mettersi in discusione e riformulare le loro identità.
Gli stimoli furono moltissimi e il fermento che investì il mercato musicale, con il
conseguente rinnovamento del pop e la comparsa del rock'n'roll, ne fu una delle spie
principali.
Il consumo culturale divenne un ambito ben preciso nel quale configurare
stilisticamente il proprio modo di vita, in quella dialettica tra vincoli e possibilità che
Bourdieu (1983) riassumeva nel concetto di habitus. Si può infatti notare, oltre alla
novità della categoria del teenager, una forte configurazione di classe delle risposte agli
stimoli culturali del rock'n'roll, della configurazione del gusto da parte degli ascoltatori.
Hipsters, Beatnicks e Teddy boys facevano “di necessità virtù”, plasmando i propri gusti
sulle possibilità concesse dalla loro posizione di classe, confermando l'analisi secondo
cui “le pratiche generate dai diversi habitus si presentano come configurazioni
sistematiche di proprietà, che rendono manifeste le differenze oggettivamente iscritte
nelle condizioni di esistenza” (Bourdieu, 1983, pg.175).
La musica era così un modo per porre dei confini tra la propria esperienza e quella degli
altri, per cercare il giusto ritmo e le giusta sonorità su cui sintonizzare la propria vita e la
propria identità, in contrapposizione a quella degli altri. La crescente importanza del
contesto culturale va però oltre questa analisi, costituendo un terreno privilegiato dove il
gusto musicale non poteva ridursi semplicemente ad ulteriore riflesso della condizione
materiale, divenendo in alcuni casi un mezzo con il quale esercitare un'emancipazione
attiva attraverso la presa di possesso della costruzione di senso e della padronanza dei
simboli di cui la musica era composta, o comunque assumendo un atteggiamento molto
più creativo e dissacrante rispetto ad un determinato funzionalismo stilistico. Anche se
negli anni '50 questo avvenne solo in parte, la cultura divenne il campo dove si tentava
di superare i limiti della propria appartenenza di classe effettuando una critica alla
conformazione socio-economica dei sistemi occidentali, prendendo coscienza del
proprio operare specifico all'interno degli apparati culturali.
Tuttavia i primi grandi fenomeni sottoculturali di questo tipo apparvero in tutta la loro
rilevanza solo negli anni '60, i quali giocarono proprio, almeno inizialmente, sulla
nostalgia e sul recupero del decennio passato piuttosto che sul suo superamento. I
processi innescati da questo “periodo d'oro” generarono le loro più grandi conseguenze
in questa nuova epoca, che si apriva ai giovani come interamente a loro a disposizione,
finalmente in grado di essere da loro giudicata, criticata o controllata, anche se solo
simbolicamente.
Quello che gli anni '50 avevano innescato diventò nel decennio successivo un metro per
misurare la presunta “autenticità” (proprio quella che la teoria della cultura di massa
non riconosceva al pop) degli stili e delle espressioni musicali piuttosto che la loro
ordinarietà. Le generazioni di rockers, ad esempio, non apprezzavano nulla che si
allontanasse dalle forme classiche del rock'n'roll degli anni d'oro di Buddy Holly, Elvis
e Chuck Berry, mostrandosi fortemente conservatori e tradizionalisti, nonché
rigorosamente selettivi, nei loro gusti musicali. Dalla cristallizzazione e dalla
mitizzazione del dinamico dispiegarsi di creatività di questo periodo trassero origine
una serie di sottoculture legate più che mai alla musica pop, che divenne un
importantissimo aggregatore sociale e un serbatoio simbolico capace di riprodurre le
contraddizioni e le dinamiche materiali della vita dei vari gruppi giovanili.
CAP. 2. GLI ANNI '60: LA TEORIA DELLE SOTTOCULTURE
Gli anni '60 furono un decennio fondamentale per lo sviluppo delle culture giovanili
legate al pop, in particolare in Inghilterra, vero e proprio centro nevralgico
dell'evoluzione musicale e dei nuovi stili estetico-culturali. La “british invasion” attuata
dai Beatles e più in generale dal genere beat ribaltò la situazione del decennio
precedente, in cui erano le hits americane a investire il mercato britannico e non il
contrario.
Gli anni '60, proprio grazie ai fenomeni sempre più spettacolari e significativi degli stili
legati alla musica, videro la nascita della “scuola di Birmingham”, il CCCS (Centre for
Contemporary Cultural Studies), fondato nel 1964 da Richard Hoggart, il quale fornì
una particolare versione degli studi della scuola di Chicago adattatti però al contesto
britannico (Bennett, Kahn-Harris, 2004). Grazie al CCCS si aprirono ufficialmente gli
studi sulle sottoculture, la cui analisi non era più incentrata solo sulla devianza: le
sottoculture erano invece il mezzo con cui i giovani delle classi operaie cercavano di
superare i limiti della loro appartenenza sociale, racchiudendo nei simboli musicali ed
estetici la volontà di emancipazione e di resistenza contro la cultura dominante (Hall &
Jefferson, 1976). La prospettiva degli studiosi di Birmingham partiva dal concetto di
egemonia gramsciano, per cui le idee della classe dirigente finivano di essere dominanti
quando le classi sottoposte avessero imposto nella società la propria prospettiva e i
propri valori culturali (Gramsci, 1997). La vita degli appartenenti alle sottoculture
rappresentava un sistema di pratiche coerenti ed omogenee, le quali sistematizzavano i
valori condivisi dal gruppo (Hall, Jefferson, 1976).
I concetti caratterizzanti di questo particolare approccio erano quelli di località e
comunità. Lo studio sui gruppi stilistici era condotto a partire da un ben preciso
contesto, spesso limitato ad una zona ridotta, quando non ad un quartiere di una città.
Nello stesso tempo la comunità diventava un importantissimo mezzo per far fronte alla
rottura della conformazione classica della classe operaia: le risposte stilistiche collettive
erano infatti un tentativo di ricostituire un senso di comunità perduto conseguentemente
al nuovo sviluppo urbano degli anni '50 (Cohen, 1972).
La svolta decisiva della scuola di Birmingham ebbe però luogo con l'opera “Resistance
Through Rituals”, di Hall e Jefferson (1976), la quale passò in rassegna culture giovanili
come quelle dei teddy boys, dei mods, dei rockers e degli skin-head. I due studiosi, nel
tentativo di connettere la categoria di “cultura giovanile” con quella di “sottocultura”,
inserirono come categoria determinante della loro analisi quella di classe. Le
sottoculture diventavano delle soluzioni spettacolari utilizzate dai giovani per far fronte
al conflitto di classe, riproposto in termini stilistici e simbolici (Bennett, Kahn-Harris,
2004). La classe all'apice del potere faceva della propria cultura la Cultura,
costringendo le altre configurazioni culturali non solo a porsi su un piano subordinato
rispetto a quella dominante, ma anche su un piano conflittuale rispetto alla sua
egemonia (Hall, Jefferson, 1976). Per Wicke inoltre “il significato sociale iscritto nella
musica è in contrasto con l'organizzazione della sua produzione da parte dell'industria
capitalista” (Middleton, 2001, pg.106), e fu proprio su questo contrasto che si giocò la
partita tra cultura dominante e sottocultura.
Tuttavia non si poteva ridurre in un semplice rapporto oppositivo quello tra cultura
dominante e culture subordinate: si trattava invece di un rapporto più complesso,
dialettico, il quale includeva forme di resistenza e forme di incorporazione, di influenza
reciproca e di totale rifiuto. La sottocultura andava intesa poi nella doppia relazione tra
la cultura dei genitori e quella dominante (Hall, Jefferson, 1976). I giovani della classe
operaia si servivano della cultura per differenziarsi da quella dei propri genitori, ma
nello stesso tempo questa ricerca di differenziazione era influenzata dalla classe di
appartenenza, la quale si poneva in un rapporto subordinato rispetto alla cultura
dominante.
Il massimo paradigma capace di adattarsi perfettamente alle categorie di questo
approccio fu in ogni caso la controcultura e il conseguente stile hippie della seconda
metà degli anni '60, capaci di generare un'influenza senza precedenti sulle giovani
generazioni.
L'implicazione che accomunava gli studi di Birmingham era quella che le sottoculture
fossero caratterizzate dalla dicotomia mainstream dominante/sottocultura resistente, che
esistesse un'armonia tra musica, stile e classe e che esistessero dei confini netti,
spettacolari e identificabili tra sottocultura e cultura dominante (Muggleton, Weinzierl,
2003).
2.1 Beatles e Rolling Stones, uno scontro culturale
Il beat, genere di cui i Beatles furono gli alfieri, rappresentò una forma di rock'n'roll
ripulita ed ingentilita, la quale non rappresentava alcun tipo di minaccia per l'ordine
sociale, venendo anzi ad ottenere ampi riconoscimenti dall'alta società. Il film dei
Beatles “A Hard Day's Night” fu proiettato nel 1963 davanti alla famiglia reale e nel
1965 i quattro di Liverpool ottenero il titolo di baronetti: garanti dell'ordine sociale
piuttosto che testimoni della sua disgregazione.
La legittimazione del pop (nella sua declinazione beat) passava per la sua completa
riduzione a fenomeno consumistico, a fenomeno espressamente e strumentalmente
mainstream, con la sconfitta dei connotati underground che inizialmente il rock aveva
avuto. La riconquista del mercato da parte delle major e il clima di ottimismo e di
crescita permisero, nei primi anni '60, una sorta di riassorbimento delle istanze di
ribellione dei giovani amanti del rock (Chambers, 1985).
La volontà di ribellione però non era stata eliminata del tutto a fine anni '50: il revival
rhythm & blues inglese, di cui i Rolling Stones furono gli epigoni (assieme agli
Animals, agli Yardbirds, ai Pretty Things), costituì un esempio di come la ricerca di
forme per dare espressione al disagio sociale, con il tentativo di riallacciarsi più
esplicitamente alla musica nera, ne confermasse l'esistenza. La violenza e
l'anticonformismo che Jagger e soci inscenavano rappresentava un rifiuto deciso del
consumismo borghese e della moralità puritana, un affronto all'obbedienza e al decoro
(Chambers, 1985). L'abbigliamento trasandato era uno dei più evidenti segnali di questo
rifiuto, assieme al sound sporco e caotico e ai testi scomodi delle canzoni. Tra rockers e
mods si generarono frizioni che condussero all'esigenza di scontrarsi dei due gruppi, i
quali scatenarono violente risse nell'estate del '64 (Hebdige, 1979). Una lotta che,
seppur poggiando su divergenze superficialmente effimere, rappresentava comunque
uno scontro simbolico tra classi, tra appartenenti a posizioni sociali differenti. Entrambi
i gruppi però incarnavano, in forme opposte, la volontà di sovversione e di
provocazione, di superamento dell'ipocrisia della contemporaneità e delle sue forme
ingessate. Il consumismo portava con sé un “crollo dei valori” che le nuove generazioni
non potevano tollerare, andando così a ricercare nei gruppi di giovani stessi le basi per
una nuova moralità ed una nuova etica, contrapposta a quella degli adulti corrotti,
raffreddati e instupiditi.
Mersey Beat era una rivista musicale di Liverpool, piccola città il cui nome fu
illuminato da quattro musicisti destinati ad entrare nella storia della musica. I Beatles
furono il gruppo pop con il merito di dare definitiva accettabilità e riconoscimento al
“beat di Mersey”, ponendo così fine ai pregiudizi rispetto ad una musica che oramai
aveva trovato troppo consenso tra il pubblico per essere ancora a lungo ignorata ed
attaccata. I Beatles rappresentavano in questo senso una continuità con i linguaggi
stilistici del decennio passato, trovando le radici del loro sound nel rock'n'roll di Holly e
nel r'n'b sempre più in voga tra i gruppi britannici.
Il loro pop non era deviante né pericoloso, non metteva in discussione gli assetti sociali
tradizionali né le norme morali ed etiche (Scaruffi, 1989). Era invece spigliato e
rassicurante, genuino e debitamente scanzonato, romantico e struggente. Le qualità della
musica dei Beatles poggiavano su una netta propensione verso il filone europeo, il quale
puntava tradizionalmente sull'armonia e su uno sviluppo orizzontale dei brani.
L'incedere lineare e il predominio di motivetti melodiosi, di registri vocali puliti e della
ripetizione costante del ritornello, apice indiscusso dello svolgimento del brano, erano
tutti segni della specifica scelta stilistica beatleasiana, assieme ai numerosi rimandi agli
schemi anni Venti di Tin Pan Alley (Fabbri, 2008). La musica nera appariva nei cori
vocali ispirati al doo wop e nell'anima rock'n'roll, anche se già quella mediata dalla
versione “bianca” di Buddy Holly e dei rockers inglesi come Bill Haley e Gene Vincent
(Chambers, 1985).
Anche l'abbigliamento era studiato per non essere appariscente, imitando lo stile
elegante degli adulti fatto di vestiti gessati e cravatte, scarpe lucide e capelli corti e
composti.
Non si trattava comunque di una musica dedicata ad un particolare strato sociale, per
essere invece adatta, potenzialmente, a trovare consenso in una fetta più o meno
eterogenea di giovani adolescenti. L'abbandono di caratterizzazioni rimandanti al
mondo economico-sociale erano evidenti dall'assenza di dissonanze, dalla pulizia e
armonia dei brani, dalla spensieratezza dei testi. Il protagonista assoluto della musica
era il giovane in quanto tale, i suoi problemi sentimentali, la sua voglia di divertirsi, la
sua inquietudine esistenziale al massimo, evidenziata dai brani più malinconici,
romantici ed introspettivi. Mai però si accennava, direttamente o indirettamente, ad
alcun tipo di disagio sociale, di contraddizione o problematica che non fosse saldamente
ancorata al proprio sviluppo individuale e sentimentale. La linearità stava a significare
ordine, l'assenza di imperfezioni o stranezze armoniche o vocali voleva arrivare alla
creazione di pezzi che non turbavano l'ascoltatore, che non facevano sorgere dubbi o
constatazioni scomode e turbanti. Una musica accettabile e divertente, alla moda e
ottimamente in grado di stare al ritmo con i ritmi sempre più frenetici dell'Inghilterra del
boom economico, ottimista e in fermento.
Il beat così fu il genere che servì per affermare il linguaggio pop nei gusti delle masse,
ponendolo come paradigma con cui chi faceva musica in quel periodo si doveva
confrontare.
Parallelamente al succeso delle canzoni dei Beatles gli anni '60 si polarizzarono intorno
alla rivalità dei quattro di Liverpool con un'altra band simbolo del periodo: i Rolling
Stones (Fabbri, 2008).
Mick Jagger e Brian Jones rappresentavano l'esatto contrario del merseybeat. La loro
ricerca musicale era effettuata a partire dal blues e dal r'n'b, su un'immagine aggressiva
e ribelle, sfrontata e provocatoria (Willis, 1978).
Droga, sesso e rock'n'roll: queste erano le costanti del mondo deviato di Jagger e della
sua band. Il sound era costruito per essere estremo e per suscitare reazioni acerbe
nell'ascoltatore, il quale trovava nella band il prototipo e il riflesso della realtà degradata
dei sobborghi londinesi e della condizione working class. Il paradigma della band rock
costituita su un cantante efebico e sfrontato e su un chitarrista eccessivo e lascivo fu
perfettamente modellato da questo gruppo aggressivo e anticonformista, l'altra faccia
della medaglia di una swinging London che non riusciva a celare del tutto le sue
contraddizioni interne.
L'ambiente da cui gli Stones provenivano traeva le sue origini nello skiffle, ovvero nel
recupero del rock'n'roll nei suoi aspetti più autentici, attuato a fine anni '50 da una serie
di gruppi britannici. Gli strumenti venivano inizialmente ridotti ai minimi termini
tramite l'utilizzo di oggetti domestici e dalla facile reperibilità, la socializzazione della
musica assumeva connotati dilettantistici che rivendicavano il possesso universale dei
linguaggi del pop. I maggiori gruppi dei '60 passarono da qui, Beatles compresi. Da qui
inoltre si consolidò l'interesse verso le forme autentiche dell'espressione musicale delle
popolazioni nere, interesse che si materializzò in band che trovavano nel r'n'b e nel
blues il modello principe cui ispirarsi.
L'attenzione veniva quindi posta non sulla linearità dei brani, non sulla melodia e
sull'armonia, ma sull'interpretazione vocale e sull'intensità e irriproducibilità degli
spettacoli. Vocalizzi rochi e non armoniosi, scala pentatonica e primato intonazionale
andarono a delineare una seconda tipologia di beat, radicalmente alternativa a quella dei
Beatles.
Il beat decisamente più aggressivo e destabilizzante degli Stones, degli Yardbirds, degli
Animals, dei Pretty Things e di John Mayall si impose come roccaforte dell'altra
Inghilterra, quella che cercava di superare la pulizia formale del mersey beat per cercare
e sperimentare nuovi lidi di approdo per il linguaggio pop.
Se i Beatles diedero sempre molta più importanza alla fase di registrazione, trovando
nello studio di registrazione e nel produttore Steve Martin dei rimedi alle carenze
tecniche, tant'è vero che dal 1966 i quattro di Liverpool eliminarono i loro spettacoli
live per dedicarsi solo ed esclusivamente alle potenzialità dello studio di registrazione, i
Rolling Stones invece si riallacciavano alla trasmissione pseudo-orale per cui, secondo
Dallas, la musica rock era una forma di musica folk. I modi di composizione del beat
alternativo erano molto più legati al rapporto musicista-pubblico di quanto non lo
fossero quelli del Mersey beat, i cui processi di produzione erano più artificiali e
sfuggenti. Parafrasando Dallas l'approccio del rock era spontaneo e “dionisiaco”, non
più legato alla scrittura ma fortemente ancorato all'esecuzione e alla prestazione del
musicista (Middleton, 2001). I Rolling Stones riuscirono ad incarnare questo tipo di
approccio in modo più genuino ed autentico dei Beatles, tanto che sarà sotto l'esempio
del loro stile che si plasmerà l'underground degli anni successivi.
2.2 Bikers e mods
Paul Willis, nel suo libro Profane Culture (1978, pg.1), analizzò la sottocultura dei
bikers sotto lo stimolo della consatazione che “i gruppi oppressi, subordinati o
minoritari possono avere voce in capitolo nella costruzione delle proprie culture. La
loro creatività profana ci mostra l'unica strada per un cambiamento culturale radicale”.
Le risposte alle contraddizioni materiali sono ridefinite proprio attraverso la cultura, la
quale si configura come una soluzione concreta a queste. L'azione reale, l'esperienza
viva, che si realizza nelle strade, nei locali, nella vita relazionale oggettiva dei gruppi
giovanili minoritari ed oppressi trova nella sottocultura l'espressione più evidente delle
formule con cui si decodifica e si interpreta la realtà. Willis vedeva nella cultura
qualcosa di più che una via simbolica di interazione con il mondo, ma una forma di
“esperienza materiale condivisa”. La quotidianità entrava prepotentemente nelle forme
culturali dei giovani, era anzi la materia prima di cui erano composte, che stava a
rappresentare il coinvolgimento diretto con la vita di tutti i giorni.
L'importanza degli oggetti è dunque per Willis assoluta, per cui proprio attraverso
l'analisi degli oggetti “profani” di cui si impossessavano i membri delle sottoculture si
ha una adeguata comprensione di queste ultime. Ciò che viene prodotto dall'industria,
tutto ciò che è merce, viene estraniato da questa condizione e si trova ad essere
ricodificato attraverso l'appropriazione da parte dei giovani, i quali connotano questi
oggetti di significati a loro non propri, almeno originariamente. La motocicletta, come
vedremo, non era un semplice mezzo di trasporto per i bikers, ma incarnava un certo
modo di concepire la vita e la morte. Ogni oggetto era allontanato, profanato, dal
contesto originario per essere ammantato di qualità eccezionali ed uniche, appartenenti
ad un ordine simbolico legato all'elaborazione della realtà da parte di queste culture non
dominanti (1978). La critica alla società viveva nei materiali e nelle pratiche e si
materializzava nei significati distorti, abbruttiti, denaturalizzati assegnati ad oggetti di
uso comune.
Secondo Willis le sottoculture, sebbene avessero meno mezzi (media, soldi, istruzione)
per connotare del proprio campo culturale la realtà, avevavano il vantaggio di non
essere minacciate dalla falsa coscienza di cui i prodotti del capitalismo erano imbevuti. I
mezzi di produzione del capitalismo riproducono nei loro prodotti l'immagine distorta,
capovolta, ideologica, delle contraddizioni capitaliste. Gli stessi prodotti però, una volta
separati dalle logiche del profitto e profanati dalle sottoculture, perdono i loro connotati
borghesi per diventare il riflesso, la riproduzione, di quelle contraddizioni che il
capitalismo tenta di celare nel mondo materiale che produce.
Ecco perché il metodo migliore per comprendere una sottocultura e la sua critica della
realtà dominante è, per Willis, quello di esaminare proprio le forme materiali con cui si
rende distinguibile.
Il motor-bicker (o rocker) era un'evoluzione del teddy boy americano degli anni '50, la
quale comprendeva l'aggiunta della motocicletta come oggetto culturale caratterizzante
e una definizione più precisa e definita del fattore identitario.
I primi elementi che saltavano all'occhio nell'analisi di un giovane rocker erano quelli
stilistici: lo stile dei bikers era rude e connotato da una esplicita mascolinità, intesa
come una grande sicurezza in sé stessi, una aggressività rozza, un approccio immediato
e concreto ai problemi, l'assenza di astrazione e il contatto diretto e cinico con la realtà
quotidiana. L'approccio tipicamente working class si riconfigurava attraverso
l'imitazione dei modelli del rock'n'roll americano degli anni '50, vero e proprio periodo
d'oro capace di rappresentare il metro d'autenticità con cui misurare la musica dei '60s
(1978).
A livello musicale, l'analisi dei gusti della sottocultura biker rivela quale fosse la natura
dei giovani che ne facevano parte. La ricerca ostinata di autenticità verteva innanzitutto
verso un forte conservatorismo, ereditato dai genitori, il quale si configurava in un
rifiuto di ogni stile musicale che si distaccase dal classico rock di Elvis e Buddy Holly.
Le opinioni dei biker riguardo ai Beatles, per esempio, erano poco indulgenti,
caratterizzandosi per un apprezzamento limitato, in particolare del primo periodo della
carriera della band. Non appena però questa cominciò a superare gli stilemi del
rock'n'roll canonico ecco il rifiuto della loro musica. Facilmente i Rolling Stones erano
preferiti proprio in quanto rudi, schietti, velosi, diretti e figli dell'ambiente proletario.
La musica doveva fornire un analogo della “fisicità” di cui era connotata la sottocultura,
andandosi a materializzare nell'atto del ballo, vero e proprio culmine, dopo le corse in
motocicletta, della quotidianità dei bikers. Il movimento, come dice Willis, era il
culmine del loro stile, che fosse sulla strada o nella sala da ballo. Il “Bopping” era il
ballo in voga nei locali dei rockers e consisteva in gesti accentuati e marcati, frenetici e
studiati per dare forma alla mascolinità e all'aggressività dei ballerini.
Un altro elemento che rappresentava una continuità con l'habitus originario era quello
del razzismo. I bikers covavano un'insofferenza molto accesa nei confronti degli
immigrati, riproducendo il luogo comune ed elevandolo a conferma della propria
intolleranza. Il sentimento di rifiuto di qualsiasi realtà che non fosse la propria si
esplicitava non solo nei confronti degli immigrati, ma anche degli altri gruppi giovanili
come i mods o gli hippies. Aprirsi ad una comprensione di elementi non autentici, non
riconosciuti come familiari ed esclusivi del proprio ambito socio-culturale, significava
perdere un'identità ancorata fortemente all'ostentazione di queste caratteristiche messe
in discussione dagli altri. La promiscuità sessuale dei giamaicani o le parvenze
effemminate degli hippies erodevano le certezze dei bikers e per questo andavano
osteggiati con forza. Assieme al razzismo anche il maschilismo era un elemento
caratterizzante della sottocultura: l'idea dell'uomo che protegge la sua donna e che
domina la scena, relegando le donne al ruolo di compagne e di ammiratrici, riproduceva
l'ennesima forma di conservatorismo di cui lo stile era imbevuto.
L'idea della realtà era dunque incarnata attraverso oggetti che riproducevano il
movimento, la mascolinità e la sicurezza sfrontata nella propria persona. Il mondo dei
bikers girava intorno a queste caratteristiche, attorno al tentativo di controllare la società
meccanizzata e degradata che il capitalismo contribuiva a formare, impossesandosi di
questo sprezzante atteggiamento urbano e immediato, “meccanico”. La motocicletta
riassumeva in sé questa visione del mondo. La motocicletta era la meccanica, il suo
controllo era il controllo della società meccanizzata. La velocità estrema e il coraggio
alla guida erano i valori assoluti della sottocultura biker, erano i momenti in cui i
giovani potevano interagire con una realtà che essi contribuivano a creare ed erano in
grado di controllare. La stessa eventualità di morte a causa di incidenti stradali era
ambita come la migliore delle morti possibili, in quanto simboleggiava il superamento
di un limite umano, raggiunto con cinismo e coraggio. La moto assicurava di tirarsi
fuori dall'ordinarietà di una società opprimente e grigia per padroneggiare quegli
elementi che per altri erano incontrollabili: la velocità, l'instabilità, il rumore. Non c'era
niente di neutrale nel guidare una motocicletta, ed erano proprio le emozioni che si
provavano correndo che si cercavano di riprodurre nello stile e nella musica.
Il difficile equilibrio tra l'anticonformismo e la devianza e la continuità col proprio
retroterra d'origine erano tenuti assieme dal cinismo con cui si accettavano le
conseguenze (dalla galera alla morte).
Cosa ben diversa era lo stile antagonista a quello dei motor-biker: lo stile mod.
Come fa notare Hebdige (1979), i mods furono la prima forma di cultura giovanile
incentrata intorno agli indoccidentali, la cui ondata migratoria aveva luogo proprio in
quegli anni, andandosi a riversare nei quartieri proletari della Gran Bretagna. Il mod
(modernist) era un analogo dell'hipster americano: appartenente alla working class ma
caratterizzato da uno stile narcisista, altolocato e dandy (1976). L'attenzione meticolosa
al look, impeccabile ed esageratamente elegante, era ciò che più saltava agli occhi,
essendo i gruppi di giovani mods meno rumorosi e meno appariscenti degli avversari
rockers. L'estetica mod permetteva ai giovani di conciliare i diversi ambienti della
scuola, del lavoro e del tempo libero, aggiungendo qualcosa di “troppo” rispetto ai
canoni estetici propri di ogni ambito. In questo modo però era assicurata una sorta di
continuità non contrastante tra di essi, in grado di mantenersi intatta fino al culmine
della vita mod: il week end. Lo stile in questo caso forniva una soluzione immaginaria
alla concezione borghese della settimana lavorativa, andando ad accentuare la presunta
libertà di scelta della propria apparenza e del dominio del tempo libero (1979).
L'attenzione e la simpatia dimostrata nei confronti degli immigrati di colore era uno dei
principali motivi di scontro con i rockers: l'avvicinamento a musiche come il soul e lo
ska, tipicamente nere, portavano ad un'imitazione dell'estetica di questi artisti che univa
in una serie di fortissimi stimoli gli intenti mod (1979). Inoltre ciò che il narcisistico
stile mod rifiutava dei rocker era la loro rozza concezione di mascolinità,
eccessivamente legata alla cultura operaia dei genitori.
La metropoli diveniva l'ambito in cui gli appartenenti a questa sottocultura si trovavano
a proprio agio, la Lambretta il mezzo di locomozione simbolo in contrapposizione alla
più aggressiva motocicletta, Ready Steady Go! diventava il programma televisivo di
culto in grado di trasmettere all'esterno delle grandi città lo stile e la moda di questi
giovani, riuscendo a collegare virtualmente chi non aveva la possibilità di frequentare i
locali della City (Chambers, 1985). Lo stile infatti si sviluppò nelle grandi città come
Londra, espandendosi poi nel sud dell'Inghilterra (Hebdige, 1976). La musica, assieme
all'abbigliamento, forniva il legame simbolico più forte e il mezzo di trasmissione di
intenti più pervasivo. “Spero di morire prima di diventare vecchio”, verso di una
canzone del gruppo alfiere dello stile mod, gli Who, diventò un inno generazionale di
rivendicazione ostinata della propria giovinezza, della propria particolarità contrastante
col grigiore del mondo adulto e conformista. Modernismo contro tradizionalismo,
questo il bivio simboleggiato dall'atteggiamento naif dei giovani dandy inglesi.
Sebbene la musica nera fosse dominante, i gruppi bianchi cominciarono a dar forma ad
un genere, derivato dal rock'n'roll, che accentuava la “britannicità” nel proprio sound,
distaccandosi dal beat per mezzo di ritmi più spigolosi e frenetici e per un approccio
anticonformista e sregolato, dai tempi anfetaminici, la sostanza più in voga tra i giovani
che frequentavano i club londinesi nel week end. Una diversità, quella mod, incentrata
sull'invenzione e la definitiva consacrazione del tempo libero, in particolare quello
recintato del fine settimana, vero e proprio punto d'arrivo durante il quale il mod trovava
la maniera e la libertà di esprimersi senza i vincoli del lavoro e della scuola, senza
l'opprimente controllo sociale degli adulti, sfoggiando un modo di vestire quasi
parodistico nei confronti del consumismo sempre più accentuato nell'occidente. La
moda diventava una sorta di feticismo stilistico, contrassegnato da un'alta dose di
narcisismo, ispirata dal modello cinematografico del “mafioso italiano” (1976).
Assieme a questa parodia, Chambers (1985) nota come anche l'orizzonte del tutto
immaginario di un'America idealizzata e l'ispirazione alla figura mitizzata del “nero”,
condussero questo stile ad un vicolo cieco, costringendolo a doversi confrontare
duramente con la realtà.
Il che avvenne durante il 1966, periodo in cui lo stile mod si trovò alla fine della sua
spinta propulsiva, costretto al muro da una situazione profondamente mutata, da nuovo
sottoculture, in particolare la controcultura americana, che forniva nuove risposte alle
esigenze giovanili della seconda metà degli anni '60.
Una parte di modernisti abbandonarono le vecchie vestigia del loro stile per accentuare
le caratteristiche proletarie del loro status sociale, dando vita alle prime schiere di
skinheads, giovani che vestivano esplicitamente da proletari, con stivali da lavoro,
bretelle e teste rasate. Dall'altra parte la cultura mod confluì nel nascente movimento
hippie, che sembrava aver canalizzato in sé una serie di caratteristiche, tra cui
l'eccentricità, l'uso di droghe e la priorità del mondo giovanile, nella sua struttura
(Hebdige, 1979).
Ad ogni modo lo stile mod aveva significato un primo intreccio tra mondanità,
provocazione, anticonformismo, quotidianità, pop e arte, mettendo le basi per un
significato sempre più ampio da assegnare alla musica e allo stile che trovò definitivo
compimento negli hippies di San Francisco e Los Angeles.
2.3 La nascita della controcultura in America
Mentre la Gran Bretagna finì per bloccarsi nell'incapacità di dare una risposta esauriente
alla tensione tra istanze immaginarie (il mito americano, la figura idealizzata del nero) e
contraddizioni materiali (Hebdige, 1979), gli artisti americani si sarebbero presto
conquistati il merito di giungere ad una perfetta sintesi.
La British invasion aveva costretto gli americani ad interrogarsi sul perché del successo
del beat da una parte e su come ripensare alla pop music dall'altra.
Una delle prime soluzioni fu l'adattamento del beat al contesto statunitense: la
California in particolare si trovò al centro di una stagione di fermento musicale,
inizialmente caratterizzato dal surf pop, una forma di beat riadattato per accompagnare
le giornate dei giovani surfisti californiani. Una musica solare e melodiosa, dalle ampie
aperture corali, da ascoltare in spiaggia o nelle feste studentesche, quella dei Beach
Boys fu la prima risposta al predominio culturale dei Beatles. Una risposta strettamente
legata ad un'attività definita, quella del surf, e limitata ad un contesto particolare, le
spiagge californiane, ma in grado di innescare un incredibile dinamismo e un nuovo
immaginario tutto americano (Chambers, 1985).
Ma è altrove che la definitiva soluzione alla ricerca delle proprie radici musicali trovò
pieno compimento: in particolare nel mondo universitario la gioventù iniziava a
dimostrarsi profondamente insofferente verso il nuovo corso politico statunitense.
Dall'omicidio di Kennedy all'inizio della guerra del Vietnam, il mondo studentesco
cominciò a schierarsi contro un dilagare della violenza e della repressione nei confronti
di sistemi socio-economici alternativi, come quello di Cuba di Fidel Castro a di quello
del Vietnam di Ho Chi Minn, e del libero pensiero, assassinato assieme a Kennedy a
Dallas. L'università di Berkeleys fu occupata nel 1964 dando così inizio ad una protesta
che si sarebbe esaurita solo nel 1969, dilagando e trovando vari apici in tutto il mondo e
in particolare in Europa. Assieme agli studenti anche gli afro-americani erano investiti
da un'ondata di dissenso, scaturito nelle lotte per i diritti civili e caratterizzato dalle
figure carismatiche di Malcolm X e Martin Luther King (Fabbri, 2008).
La politicizzazione della frattura giovane-adulto si manifestò nella musica attraverso
una ricerca di suoni maggiormente connotati, di testi esplicitamente schierati, di una
separazione netta tra i prodotti di mercato -la musica commerciale, il pop- e le
espressioni popolari -la musica di protesta-. Questi intenti furono inizialmente fatti
convergere in una tradizione che si allontanava inesorabilmente dal pop moderno, dal
rock elettrificato, per trovare la sua anima spontanea ed autentica nella grande
tradizione folk americana. Personaggi mitici come Woodie Guthrie furono gli esempi
cui ispirarsi, cantori solitari del disagio e dell'eroica lotta contro i potenti, il folk lo
strumento ideale per dar risalto alla schietezza e alla parola, genere adatto alla
socializzazione e alla democratizzazione di forme e contenuti. Uno strumento nelle
mani del popolo, non dipendente dalle esigenze opprimenti e vincolanti del mercato,
fondamentalmente libero.
Lo spirito beatnick del decennio passato confluì dunque in questa nuova configurazione,
e si concretizzò nel successo del quartiere di New York del Greenwich Village, centro di
attrazione degli artisti folk e dei loro seguaci (Fabbri, 2008).
Fu proprio nei locali del Greenwich Village che naque il folk di protesta, il cui paladino
fu senza dubbio Bob Dylan, assieme ad artisti del calibro di Joan Baez e Phil Ochs. Qui
vanno ricercate le origini del successivo trionfo della controcultura americana.
Bob Dylan ebbe vari meriti, primo tra tutti quello di nobilitare, elevandolo a forma
d'arte, il brano folk. Le composizioni di Dylan andavano oltre ai semplici ed espressivi
motivi di Guthrie o Seeger, caratterizzandosi per una complessità formale che si
realizzava sia grazie ad uno scorrimento molto meno prevedibile rispetto ai pezzi blues
o rock'n'roll, ad un sound dominato dalla voce nasale, ad un'armonia più sottile e ad un
abbandono del ritmo come elemento portante, sia grazie ad una straordinaria cura dei
testi, spesso ermetici, simbolici e dalla raffinata valenza poetica.
Sicuramente i brani che portarono al successo Dylan tra gli studenti furono le invettive
di Masters of War piuttosto che le idealistiche visioni di Blowing In The Wind, ma la
ricerca di questo cantautore non si fermò qui: la British invasion lo costrinse ad
oltrepassare i confini del suo purismo tradizionale per attuare una delle più grandi
rivoluzioni musicali degli anni '60.
Al festival di Newport si presentò armato di chitarra elettrica e accompagnato da una
band rock, cosa che suscitò un forte rifiuto tra il pubblico ed un conseguente lancio di
oggetti verso il palco. Sta di fatto che la svolta elettrica di Dylan aprì la strada ad un
genere, il folk-rock, da cui sarebbe scaturito l'immenso potenziale che nel giro di poco
tempo avrebbe portato alla ribalta il rock psichedelico. Bringin It All Back Home,
Highway 61 e Blonde On Blonde affinarono progressivamente la tecnica e lo spessore
delle liriche, distaccandosi dal retroterra rurale cui il folk era sempre stato legato, per
adattarsi agli umori e all'ambiente della metropoli, nuovo ambito nel quale i cantori
anti-sistema si trovavano ad agire a a lottare. Il rock entrava violentemente nel folk,
unendo la carica anticonformista del primo con la connotazione politica dell'altro.
2.4 Il rock psichedelico, gli hippies
Da questo contesto si generò la prima grande presa di coscienza generazionale riguardo
all'importanza dello stile e della musica come mezzi di dissenso e di costruzione di
senso, senso che si configurava come critico e dissacrante. La volontà di dar vita ad
un'arte totale, che non fosse solo consapevole del suo ruolo di simboleggiare un modo di
vita particolare, ma anche e soprattutto che fosse uno degli ambiti privilegiati nel quale
cercare l'unificazione tra vita e felicità. L'esperienza totale dell'acid rock coinvolgeva
innanzitutto la dimensione cerebrale e percettiva, per poi imprimere della conseguente
rinnovata coscienza di sé ogni aspetto esteriore. La società alternativa doveva essere il
risultato di questa trasformazione radicale dell'uomo americano: questo fu uno dei
massimi obiettivi che la musica fu capace di porsi (Chambers, 1985).
L'underground fu il terreno originario nel quale il nuovo genere fece la sua prima
comparsa, grazie agli esperimenti sulle sostanze lisergiche condotte da Timothy Leary,
Ralph Metzner e Richard Alpert e agli acid test di Ken Kesey. La ricerca sugli effetti
delle droghe psichedeliche dilagò in un uso sempre più massiccio delle stesse e nel
tentativo di riprodurre quelle sensazioni in musica, cosa che portò ad unire arti visive
con tecniche sonore che davano risalto a suoni distorti e dilatati, riverberati e prolungati,
stordenti e assolutamente innovativi nell'abbandonare la struttura della forma della
canzone pop. L'esempio di una band come i Grateful Dead, nata proprio dagli acid test,
è significativa per comprendere la profonda alterità di questa musica sperimentale, la
quale si distanziava fortemente dalla caratteristiche comuni del pop contemporaneo,
portando su altri lidi, decisamente sperimentali, la ricerca musicale.
Il primo risultato fu che la California si popolò di gruppi di giovani che davano forma
ad un rock sempre più selvaggio e sregolato, suonato nei garage -da qui la definizione di
garage rock- dominato dalla presenza di organetti, capaci di generare suoni morbidi e
liquidi, adatti per simulare alcuni effetti del LSD o della marijuana. Le garage band
come i Blues Magoos, i Count Five, i 13th Floor Elevators, i Deviants e i Seeds
divennero portavoci del nascente movimento hippie, affiancando ai pezzi più sfrenati,
derivati dal beat, altri maggiormente rallentati ed allungati. La ricerca di una musica
metaforica e profondamente simbolica, capace di generare visioni e rivelare una nuova
consapevolezza di sé tramite un mix di frenesia incontrollata ed abbandono estatico, fu
il preludio di brani sempre più complessi e sperimentali, dai tratti avanguardistici ed
estremamente impegnativi, come i “freak out” rumoristici dei Red Crayola o i collage
satirici di Zappa. La ricerca di nuovi strumenti musicali capaci di generare sonorità
insolite, come l'electric jug dei texani 13th Floor Elevators, od esotiche, come il sitar
indiano, si unì all'affiancamento di luci stroboscopiche ed effetti ottici, nonché di
un'attenzione crescente all'integrazione di poesia e letteratura.
La prima stagione dell'acid rock fu tuttavia un fenomeno sotterraneo e preparatorio,
destinato ad esplodere definitivamente nel 1967.
Fu quell'anno che la sottocultura prese le sembianze di un fenomeno di estremo
successo, capace di influenzare fortemente il mainstream, il quale si trovò a mettere
sotto contratto una serie di artisti che fecero la fortuna delle vendite e degli spettacoli
live: dai Doors a Jimi Hendrix e ai Jefferson Airplane, le regole del pop furono ribaltate
da un approccio inedito ed innovativo. La moda psichedelica fatta di colori accesi,
abbigliamenti esotici e sgargianti, fu stimolata dal lavoro sotteraneo dei precursori dello
stile di vita hippie e consacrata dai giganti e dai guru dello stesso, che seppero far
fruttare le risorse del mercato per portare verso apici indiscussi l'elaborazione stilistica e
musicale.
Il ritmo e la melodia, insieme ad ogni altro aspetto tradizionale del rock, vennero
sorpassati dalle vibrazioni e dalle intricate armonie di brani evocativi e onirici, col
tentativo di stimolare non tanto il corpo, non di ricercare la reazione delle pulsioni più
fisiche, ma di raggiungere il livello della percezione e della sensazione, una cerebralità
ambiziosa e spesso avanguardista che univa più generi, partendo dal blues per farlo
mutare attraverso le prime sperimentazioni elettroniche o le suggestive influenze
indiane o medio-orientali. “L'Amerika” delle metropoli, delle macchine, delle fabbriche
e della velocità veniva ripudiata in favore al tentativo simbolico di incarnare una “terra
promessa” comunitaria, primitiva, pastorale e mistica. Oltrepassando i politicismi
espliciti della New Left marxista, gli hippie esercitavano invece una “metapolitica”, una
resistenza attraverso i simboli e lo stile totalizzante, autocosciente e pervasiva, in grado
di modellare sui flussi psichedelici l'intero modo di vita dei giovani che aderivano a
questa riscoperta di sé (Willis, 1978). “La tua città è dentro la tua testa, la tua prigione
intorno alla tua stanza” cantavano i Jefferson Airplane, esprimendo così il bisogno di
fuggire dal mondo industrializzato per rifugiarsi nell'unica realtà accettata ed ancora
inesplorata: il proprio io, autentico, libero e non mediato. L'esperienza personale,
ovviamente condivisa, sostituiva ogni costrutto sociale basato sulla razionalità, sul
conformismo e sul calcolo.
Nello stile hippie il rifiuto della normalità e della concretezza passava per un processo
di riscoperta dominato dalla consapevolezza che il controllo della propria vita non
dipendeva dai propri atteggiamenti, ma era avvolto da una vera e propria “insicurezza
ontologica” che veniva però percepita come una liberazione, in quanto accettata ed
esplorata tramite il recupero di una profonda spiritualità e di un pervasivo misticismo.
La trascendenza, da raggiungere grazie all'aiuto delle droghe e della musica, e una sorta
di panismo e deismo rendevano la prospettiva hippie assolutamente astratta, incapace di
trovare risposte concrete alle mille domande che sorgevano da un'inedita ricerca di
soluzioni (Willis, 1978).
L'attenzione del movimento hippie aveva il suo perno sul presente, sulle sensazioni
immediate piuttosto che sulla programmazione del futuro o sulla riflessione sul passato.
L'immediatezza e la naturalezza erano le direttive sulle quali i giovani capelloni degli
anni '60 si muovevano, tentando così di superare le formalità e le costrizioni borghesi e
puritane tanto criticate: solo imperativi dettati dalla natura, come dice Willis, e non
imposizioni artificiali ed insensate.
La lotta condotta nei confronti del sistema dominante si risolveva principalmente nello
stile, avvalorando le tesi del CCCS secondo cui le configurazioni di gusti dei gruppi
subalterni potevano essere delle forme di resistenza simboliche. Così per l'hippie
l'apparenza era “l'espressione più diretta della sua natura” (Willis, 1978, pg.95). Dai
capelli lunghi che stavano a simboleggiare i processi naturali di crescita fino
all'abbigliamento semplice ed esotico, i giovani che aderivano a questa sottocultura
compivano un complesso ed organico lavoro di esternalizzazione della loro libertà
interiore, nonché un tentativo di identificazione con gli umili della terra, dai nativi
americani, ai neri in lotta per i loro diritti civili fino ai gitani tanto celebrati nelle
canzoni di Jimi Hendrix. Il corpo come “srumento espressivo” (1978) diveniva l'arma
favorita con la quale resistere ai valori e alla morale dominante. L'assenza di una
coscienza e di una elaborazione politica favoriva e talvolta obbligava a trovare proprio
nello stile lo strumento più efficace ed appariscente di critica e dissenso. L'ambiguità del
messaggio hippie appariva però dal momento in cui l'aspetto comunitario finiva per non
essere qualcosa di aggregante e universale, ma una maniera escludente per affermare la
propria visione del mondo. L'individualismo, seppur caratterizzato dalla necessità della
condivisione delle esperienze e del rifiuto di ogni tipo di utilitarismo e materialismo, era
ancora ciò che impregnava l'esistenza di questi gruppi di giovani, i quali invece di fare
del loro senso comunitario un “positive enactment of brotherhood” ne facevano
semplicemente un sistema di “case abitate in comune”, vivendo assieme in assenza di
un'alternativa realizzabile (1978).
Nonostante le contraddizioni sottolineate da Willis il movimento hippie si caratterizzò
per un forte internazionalismo, sebbene per lo più nei confronti degli altri hippie,
nonché per il più grande tentativo di cambiare non tanto la società economica e politica,
quanto l'uomo con i suoi valori e la sua morale.
L'Inghilterra giocò nuovamente un ruolo fortissimo nel favorire l'espansione di ciò che
stava accadendo nella costa ovest americana: con l'uscita di Sgt. Pepper's Lonely Heart
Club Band, nel 1967, i Beatles fecero emergere dall'underground la musica
psichedelica, rendendone estremamente popolari le caratteristiche e le sonorità (Fabbri,
2008), sviluppate ulterirmente da un'altra band di successo come i Pink Floyd. Nello
stesso anno uscivano negli Usa una serie di dischi che consacrarono, trovando il favore
delle major, il sound acid-rock: l'omonimo dei Doors, Are You Experienced di Hendrix,
Surrealistic Pillow dei Jefferson Arplane... Ognuno di questi lavori ebbe un'influenza
immensa sia negli Stati Uniti, che si popolarono di numerosissimi complessi di rock
acido, sia in Gran Bretagna e in Europa. Gruppi come Donovan, i Beatles, i Rolling
Stones si convertirono al nuovo suono americano, effettuando vistosi trasformismi e
legittimando un genere, genericamente definito “progressivo” che avrebbe costituito il
modello esemplare con cui confrontarsi. Da allora la separazione netta tra pop e rock
prese il significato di una cesura tra musica commerciale e musica alternativa, tra arte e
canzonetta. I gusti dei giovani si resero sempre più indipendenti dalle top 20s dei mass
media, grazie alla nascita di canali alternativi quali le radio pirata in Inghilterra o i
numerosi locali underground statunitensi, grazie ad una comunità allargata di artisti
capace di imporre un cosciente terreno di sperimentazione e una fitta rete di influenze
reciproche.
2.5 Conclusioni
A fine anni '60 il prolifico mondo della controcultura recise i legami con la musica,
segnando la decadenza di quello che era stato uno degli apici creativi americani ed
inglesi. Con la morte di Jim Morrison, di Janis Joplin e di Jimi Hendrix se ne andavano
quelli che erano stati i miti, le diverse anime, che per anni avevano infuocato gli animi
diventando veri e propri idoli. I drammatici avvenimenti della strage compiuta da
Manson nella villa del regista Polanski, la morte del giovane di colore al concerto dei
Rolling Stones di Altamont per mano di un membro degli Hells Angels, il dilagare della
tossicodipendenza e dell'eroina a San Francisco... I segni della decadenza e della
sconfitta della controcultura parevano evidenti e contribuirono a raffreddare gli animi.
Il rock progressivo aveva in ogni caso abbattuto le frontiere nazionali per trovare adepti
in tutta Europa, sebbene solo l'Inghilterra avesse potuto vantare una scena di pari dignità
artistica. In Francia, in Germania, in Italia, in Brasile, in Giappone si formarono band
che prendendo spunto dal modello del rock progressivo lo rielaborano impreziosendolo
di caratteristiche inediti e folcloristiche, dando il via ad un fruttuoso processo di
maggiore internazionalizzazione dei gusti musicali e di influenza mondiale.
La fine degli anni '60 mise le basi per quelli che furono i generi caratterizzanti dei primi
'70: i Velvet Underground unirono rock e avanguardia e, assieme agli Stooges di Iggy
Pop misero le basi per il glam rock e per il punk, i Blue Cheer, gli Steppenwolf, i Black
Sabbath e i Led Zeppelin diedero vita ad una commistione tra riff di chitarra heavy e
blues, generando l'hard rock, che influenzerà in seguito la scena heavy metal, i King
Crimson formalizzarono l'immaginario colto, romantico e virtuoso del progressive rock.
CAP. 3. GLI ANNI '70: L'ERA DEL PUNK
Per molti versi i primi anni '70 rappresentarono lo strascico delle evoluzioni del rock
progressivo degli ultimi anni '60, a partire dal dato di fatto del ripiegamento della
controcultura su se stessa. Dall'hard rock al glam fino al progressive gli stili musicali si
resero sempre più autonomi da forti connotazioni politiche e valoriali, per tornare a
rappresentare dimensioni esclusivamente estetiche e configurazioni di gusti
apparentemente autoreferenziali, estranei a rivendicazioni politiche e sociali (Hebdige,
1979).
Per la prima metà degli anni '70 il rock si concentrò su una riflessione su se stesso,
riconoscendosi come “arte” e tentando di svilupparsi in questo senso, impegnandosi a
dimostrare la propria alterità rispetto al mainstream, alla musica commerciale. Una
prima diaspora dei semi generati dal rock progressivo del '67 iniziò a minare l'unitarietà
e la compattezza della controcultura per tornare alla formazione di numerosi sotto-
gruppi stilistici caratterizzati proprio dal loro differente posizionamento all'interno di
certe configurazioni di gusto.
Se da una parte il progressive rock si faceva sempre più cerebrale ed esclusivo,
ampliando i propri riferimenti al jazz e all'avanguardia, come per la scuola di
Canterbury, o alla musica classica, come nel caso di Genesis, Yes e Jethro Tull, dall'altra
risorgeva l'approccio immediato ed edonista che aveva caratterizzato le sottoculture
degli anni '50. Il glam rock, con la sua retorica autoreferenziale e parodistica, modaiola
e sessualmente ambigua, andava ad esasperare la figura della “star” e a mettere in
discussione la stabilità della sessualità maschile (Hebdige, 1979), mentre l'hard rock
accentuava le caratteristiche proletarie della vita working class, rappresentando
l'opposto del glam e andando a formare un interessante ibrido sociale tra rockers e
“capelloni”.
Spesso e volentieri la musica alternativa non aveva riferimenti diretti con la realtà
circostante, rappresentando invece una fuga da essa: l'invenzione di luoghi immaginari e
la passione per la fantascienza (Fabbri, 2008) caratterizzarono molti gruppi progressive,
i quali crearono, come i Gong o i Magma, mitologie puramente fantastiche e su di esse
centrarono la propria produzione artistica. Così anche il glam di David Bowie si basò su
personaggi venuti dallo spazio, oppure su parodie della figura della rock star
caratterizzata da un'estremizzazione del suo lato inumano.
La fuga nell'immaginario sembrò compensare la morte dei valori per cui si era elevata la
musica rock a bandiera, almeno fino al festival di Woodstock del 1969, ultimo esempio
di vitalità per la controcultura hippie.
Esiste però una cesura netta tra la prima metà degli anni '70 e la seconda. Dalla fine del
1976 schiere di artisti iniziarono a mostrarsi insofferenti nei confronti dei virtuosismi
del prog e ostili alle messe in scena del glam, elaborando un nuovo genere per dar forma
al loro dissenso e alla loro frustrazione generazionale (Hebdige, 1979). Le due crisi
economiche, quella energetica del 1973 e quella del 1979, erosero il benessere del
decennio precedente lasciando poche speranze di futuro ai giovani sempre più in
difficoltà nella ricerca di un'occupazione. La Gran Bretagna fu attraversata da un'ondata
di malessere, tra scontri a sfondo razziale e altri puramente di classe. La sottocultura
punk, risultante da questo contesto, ritornò ad essere qualcosa di totale, su cui far
gravitare le risposte alle nuove contraddizioni, la ricerca di un'identità perduta nonché di
una teatralizzazione simbolica della decadenza della Gran Bretagna (Hebdige, 1979).
Modo di vita e stile tornarono a coincidere e ad influenzarsi reciprocamente, in un gioco
stilistico dai connotati altamente destabilizzanti. I punk si mostravano coscientemente
come i prodotti alienati di una società malata e senza speranze. Così facendo il
movimento punk effettuò il secondo grande strappo nella storia delle culture giovanili
dopo quello di un decennio prima. La creatività raggiunta in questo periodo, il
dinamismo culturale e musicale, può essere paragonato a quello della metà degli anni
'60: si trattò come allora di una fiammata breve ma intensa, che avrebbe cambiato il
volto della pop music un'altra volta.
3.1 Glam rock
Il glam rock, o glitter rock, segnò una svolta decisiva rispetto a quelli che erano i punti
cardine della musica alternativa di pochi anni prima. Non la classe, né la gioventù, ma
l'ambiguità sessuale diventò l'oggetto privilegiato del discorso musicale glam, segnando
il passo di un'imponente ritirata rispetto ai temi impegnati e una superficiale
prelidezione per la mondanità più kitsch e autoreferenziale. Ciò che veniva messo in
risalto dagli androgini eroi del genere era la non celata attenzione rivolta al mercato,
non più visto come qualcosa da rifiutare, bensì come ambito da sfruttare, da modellare,
da sbeffeggiare. La star era cosciente del suo essere una parodia e il mercato gli offriva
ogni strumento per portare avanti il suo progetto di superare i limiti della decenza e
della mondanità (Hebdige, 1979).
Accettando “gli aspetti più superficiali della moderna vita industriale e della sua
riproducibilità” (Chambers, 1985, pg.114) i giovani glam effettuavano un'operazione di
decodificazione negoziale che mirava a portare all'eccesso, fino al raggiungimento della
stranezza e dell'inusualità, i più banali oggetti di consumo. L'eccessivo sfarzo del vestire
non era utilizzata come per i mod, cioè per legare assieme, con eccentricità, i più
disparati ambiti di vita, ma proprio per essere decisamente troppo per ognuno di questi.
La realtà veniva capovolta proprio attraverso gli oggetti più mercificati e riconducibili
alla modernità, non tramite un riferimento a terre promesse o a passati gloriosi. Il
riferimento era la terra, il presente, la quotidianità, il tutto però stravolto da un'ottica
aliena e alienata, distaccata e provocante. Qui si potevano trovare le evoluzioni più
teatrali e sensazionalistiche della rivoluzione sessuale degli hippies, riadattate in chiave
autoreferenziale e provocatoria. La risposta all'intellettualismo e alle evasioni
fantastiche cui si lasciava andare il prog era costruita con coscienza e autoironia,
consapevole di essere irrimediabilmente incastrata nelle logiche del mercato, anche se
attraverso un sapiente marketing era possibile mantenere una discreta autonomia. Da
qui, come fa notare Hebdige (1979), l'origine proletaria di un genere che fondeva
underground e stile skinhead, risultando un genere puramente bianco e distaccato dalla
musica nera che si stava dimostrando sempre più indipendente, ma capace di mettere in
discussione gli stereotipi della working class, sia attraverso un'esteriorità classista e
borghese, sia attraverso una forte retorica sessuale.
Nonostante l'apparenza di “moda del momento” il glam rock celava una storia e
un'interpretazione della realtà ben lontana dall'essere spensierata e banale.
A livello musicale il “rock'n'roll con il rossetto” era profondamente in debito con l'epoca
d'oro del rock, gli anni '50, fonte privilegiata di ispirazione, come si nota dall'andamento
dei brani, i quali rimandavano spesso a Chuck Berry e Eddie Cochran. L'estetica del
glitter rock era un derivato di decadentismo col trucco, devianza sessuale e pop art. Non
per niente, come fa notare Chambers (1985), le radici dell'approccio glam potevano
essere ricercate in quel Velvet Underground & Nico, prodotto nel 1967 da Andy Warhol
e destinato ad essere ricordato per la profonda alterità rispetto agli umori idealisti
dell'epoca. Un album profondamente metropolitano, capace di delineare con freddo
disincanto, quando non con morbosa celebratività, la devianza sessuale (si pensì al
brano Venus in Furs), l'abuso di droga (Heroin, Waiting for My Man) infondendo di
realismo, poesia decadente e cinica immanenza il sound dell'album. Lou Reed, cantante
della band, fu senza dubbio uno dei primi ispiratori del genere glam, insieme più tardi a
Iggy Pop and The Stooges e dai New York Dolls. Si trattava di “un suono sporco,
urbano; un sovversivo sarcasmo musicale che gettava provocatoriamente un'ombra di
dubbio sull'autenticità delle confessioni dei cantautori e sulla sincerità dell'arte del
rock progressivo” (Chambers, 1985, pg.131). L'importanza riconosciuta allo stile
appariva per la prima volta in tutta la sua chiarezza nell'ostentazione dello stesso, in un
consapevole riferirsi sempre e comunque a se stessi e alla propria musica e così facendo
ironizzando con sarcasmo sul mondo dei consumi, della plastica e dell'artificialità.
Così gli artisti glam erano in costante ricerca del pezzo che potesse arrivare primo in
classifica, col risultato di fare di ogni brano una potenziale hit, capace di trasudare di
tutti quegli elementi che il mondo del rock progressivo osteggiava e tentava di
abbandonare riferendosi alle tradizioni musicali colte del jazz e della musica classica.
All'interno del glam si potevano notare due approcci (Hebdige, 1979): uno era quello
più superficiale e commerciale, quello dei T-Rex, tra i primi ad introdurre certe sonorità
prese in prestito dal blues rock e dal rock'n'roll, dei Mott The Hoople, del primo Lou
Reed e di Alice Cooper ad esempio, il cui sound era caratterizzato da melodie e
ritornelli di forte impatto commerciale, da sonorità accattivanti ed avvolgenti, da
un'esibizione stentata di corpi effemminati e da pose androgine anche se dotate di
aggressività sessuale. Qui gli anni '50 erano il riferimento più importante su cui si
sviluppava la musica glitter, la figura del “guitar hero” e le armonie blues facevano
ancora parte del bagaglio culturale di questi musicisti in tute attillate e scintillanti, con
parrrucche e trucco pesante.
Dall'altra parte invece si delineò una schiera di innovatori senza dubbio più influenti a
livello artistico, dal fare bohémien e distaccato, non meno corrosivi e provocanti di
Marc Bolan e Lou Reed, ma capaci di comporre musiche futuriste, sperimentali,
incomprensibili per l'epoca. La sintesi raggiunta da David Bowie, dai Roxy Music, dagli
Sparks, da Brian Eno e dai Cockney Rebel fu qualcosa di artisticamente ineccepibile,
capace di spaziare dai motivetti pop più innocenti alle intricate partiture elettroniche,
senza mai prendersi troppo sul serio grazie ad un atteggiamento distaccato, ironico e
sarcastico. La ricerca della provocazione stilistica in questo caso era seconda al genio di
compositori come Eno e Fripp, impegnati in una ricerca destinata ad influenzare
pesantemente la new wave di fine anni '70 e il synth pop degli anni '80. Il travestimento
metteva in luce contraddizioni ed ipocrisie che fecero del glam rock qualcosa di più che
un innocente gioco provocatorio, andando a mettere in luce aspetti della sessualità che
la società faceva fatica ad accettare (1979). La grandezza del glam fu proprio quella di
saper stare in bilico tra mass media, quindi successo commerciale, e messaggi vietati e
scomodi, dunque sotterranei ed alternativi. Fu proprio in reazione al glam rock e alla sua
apparente vuotezza che si mobilitarono i primi punk, compiendo una delle più grandi
rivoluzioni stilistiche e culturali del secondo dopoguerra.
3.2 Hard rock
La figura del ragazzo ribelle, aggressivo e selvaggio, quella che a suo tempo era stata
propria del rockers, si incanalò nel genere dell'hard rock, nuova forma “heavy”,
immediata e veloce di intendere il rock. Dagli hippies si erano conservati alcuni aspetti
stilistici come i capelli lunghi e i pantaloni a zampa d'elefante, caratteristiche
perfettamente impersonificate dai membri di gruppi come certi Who e i Led Zeppelin, i
quali univano il gusto esotico degli hippie con un altro metropolitano e rozzo tipico
della scena heavy derivante dal prototipo del rocker.
La birra, l'alto volume, la velocità e la tecnica dei chitarristi si confermava come un
aspetto prioritario dell'ascolto dell'hard rock, il quale aveva il compito di adattarsi e
stimolare uno stile di vita frenetico, coraggioso, sprezzante. Certamente i primi segni di
hard rock si possono trovare in gruppi come i Cream, nei Blue Cheer, in Jimi Hendrix,
negli MC5 e negli Steppenwolf. Ma furono i Led Zeppelin a consacrare il genere e a
connotarlo di tratti eroici e mitici, grazie alla coppia di Jimmy Page e Robert Plant.
Meglio del glam, che pur conservò alcuni tratti “heavy” nel suo sound, l'hard rock riuscì
ad essere il genere preferito dalla working class, la quale come nel passato aveva
bisogno di una musica più direttamente collegata con la propria quotidianità, saldamente
ancorata al modo di vita operaio e studentesco. Musica da strada, di pancia, martellante
e concreta, che non offriva evasioni esotiche ma una maniera anfetaminica e stimolante
di vivere la quotidianità. Un “gusto del necessario” che rendeva il genere estraneo
rispetto al parodiare il “gusto di lusso” (Bourdieu, 1982) dei cugini glam. L'ascoltatore
di hard rock, destinato ad evolversi in quello di heavy metal, iniziò a caratterizzarsi per
una voluta limitatezza dei gusti, in un periodo in cui la scelta tra i vari generi si faceva
sempre più ampia. I primi esempi di consumatori non onnivori trassero origine proprio
da questi anni, e saranno destinati a marcare la futura distinzione tra onnivori e non
onnivori, andando a definire uno dei criteri d'analisi delle sottoculture nel periodo in cui
queste si frantumeranno, negli anni '80 fino ai giorni nostri.
3.3 Il progressive rock
Negli anni '70 il termine “rock progressivo” iniziò a svincolarsi dalla genericità che
aveva fino a poco tempo prima, per diventare un genere riconoscibile, dai confini netti.
Le basi del genere stavano nel salto di qualità che il rock aveva compiuto nel decennio
precedente, quando gli artisti avevano iniziato a renderlo sempre più complesso,
cosciente, articolato e svincolato dalle logiche appiattenti del commercio.
I reduci della controcultura continuarono a cercare affermazioni non consumistiche,
autonome, nella musica, la quale si concentrò su se stessa ampliando i propri confini per
affermarsi definitivamente come arte, tentando di affiancarsi culturalmente al jazz e alla
musica contemporanea. A partire dalla fine degli anni '60 i brani si fecero sempre più
lunghi e macchinosi, prendendo spunti dalla tradizione musicale classica tipica
dell'occidente ottocentesco, ricercando nell'armonia, nella varietà dei timbri, nella
perfezione dell'esecuzione e nei riferimenti colti le basi del proprio essere (si pensi al
brano “Cans and Brahms” degli Yes o alla “Bourée” di Bach dei Jethro Tull).
L'avversità alle logiche di mercato si può facilmente intuire dalla natura dei brani
progressive: lunghe suite mutanti, mai abbassate nel concedersi a facili ed immediati
appigli melodici, cerebrali e intricate, élitarie e virtuose. Elementi non tipici della
tradizione rock furono così introdotti dal nuovo genere, come ad esempio strumenti a
fiato, archi, orchestre.
Con il progressive il rock si decontestualizzò dalla realtà socio-economica per
rinchiudersi in una presunta autonoma dimensione artistica, dove lo spazio di
riferimento era lo studio di registrazione. Le innovazioni tecnologiche facilitarono
questo processo, permettendo di superare limiti che prima dovevano essere accettati: il
registratore a piste multiple permise infatti di passare dalle otto alle sedici piste,
cosicché le possibilità di aggiungere e poi assemblare vari elementi si fecero sempre più
allettanti, ma soprattutto si resero possibili (Chambers, 1985).
Il pop fu dunque superato dal progressive, il quale aveva dimostrato di averne assimilato
ed espanso le basi, cosa che permise di legittimare la frattura pop/rock ed elevare
definitivamente quest'ultimo al rango di arte.
La musica progressive non era legata a determinate pratiche sociali, se non quelle dei
raduni ai concerti. Nonostante mancasse un rimando a pratiche coerenti e coese, cosa
che caratterizzò l'unione tra sottoculture e musica per il CCCS, il progressive manteneva
comnque una struttura dai confini ben definiti, solidi, anche se autoreferenziali.
L'approccio tipico di quegli anni allo stile musicale permaneva anche senza precisi
riferimenti valoriali, dando in ogni caso all'identità dell'ascoltatore un che di ascrittivo,
configurandosi all'interno di categorie di ascoltatori ben precise (Sweetman, in Bennett,
Kahn-Harris, 2004). L'ascoltatore apparteneva facilmente alle classi sociali medie ed
alte, andando a riconoscersi nella categoria del “buon ascoltatore” di stampo adorniano
(1962), il quale conservava un approccio cosciente e colto rispetto al prodotto musicale,
mantenendo in ogni caso un desiderio di evasione che però rimaneva immaginario e non
definito.
Gli artisti che meglio incarnarono il prototipo di progressive rock furono i King
Crimson (che consacrarono il termine progressive), gli Yes e i Genesis. Ognuno di
questi era caratterizzato da uno stile barocco e classicheggiante, dal rifiuto della forma
canzone, dall'utilizzo massiccio di progressioni ritmiche ed armoniche. Il contesto di
riferimento era puramente immaginario, andando dai rimandi ad una certa pastoralità
medievale fino ad altri rivolti a paesaggi fantascientifici. Alcuni gruppi, come i Magma
o i Gong, crearono intorno alla loro musica una vera e propria mitologia fantasy,
inventandosi lingue aliene e saghe metaforiche i cui protagonisti erano abitanti di
pianeti lontani e sconosciuti. La concettualità che stava dietro ad ogni album
progressive distaccava la fruizione del genere da qualsiasi approccio diretto,
avvicinandolo invece ad ascolti più individuali (anche se i concerti restavano i luoghi
favoriti per la celebrazione del rock) e di stampo borghese. Non a caso i Gentle Giants,
a proposito degli obbiettivi del loro genere, diranno di voler: “espandere le frontiere
della popular music contemporanea a rischio di diventare molto impopolari” (Fabbri,
2008, pg.158).
Nonostante l'apparente indipendenza del progressive rispetto al contesto politico e
valoriale, emersero in quegli anni almeno due scene che seppero collegare il proprio
impegno artistico con un engagement politico, come nel caso della scuola di Canterbury,
o tentando di riprodurre quel comunitarismo hippie dimenticato dai più come nel caso
dei gruppi tedeschi del cosiddetto “krautrock”.
Se gli artisti di Canterbury si allacciavano alla tradizione free jazz e, come Robert Wyatt
e gli Henry Cow, erano schierati politicamente e attivisti (gli Henry Cow organizzarono
il festival “Rock in opposition”), i ragazzi tedeschi si trovarono a compiere
un'operazione inedita e a tratti rivoluzionaria nel panorama progressive degli anni '70.
Dopo la seconda Guerra Mondiale la Germania si trovava nella condizione di
subalternità economica e politica degli Stati Uniti, le cui truppe erano rimaste sul
territorio. La prima generazione di giovani del dopoguerra si trovò in una situazione
complicata e con una grande voglia di autonomia culturale: se gli influssi della musica
americana ebbero un peso indubbio sui musicisti, fu anche vero che lo sforzo per
sviluppare linguaggi peculiari portò ad un avvicinamento con l'avanguardia
contemporanea e le sperimentazioni sulla musica elettronica. Il krautrock pose le basi,
sotterraneamente, per la new wave, prima portando agli estremi la musica psichedelica,
poi esplorando i territori vergini dell'eletronica. Il krautrock fu forse uno dei pochi
esempi di “sacca di resistenza simbolica” nei primi anni '70 per merito di un'arte
consapevolmente estrema ed impegnata, nonché attraverso la ripresa dei temi
comunitari materializzati nelle numerose comuni formate dagli artisti tedeschi.
3.4 Il punk
Il punk fu uno dei più emblematici fenomeni sottoculturali a partire dagli anni '50,
destinato a fornire il paradigma massimo di confronto per ogni teoria sull'importanza
dello stile e della musica sulla società, nonché il prototipo privilegiato su cui adattare le
teorie della scuola di Birmingham secondo cui lo stile era qualcosa di intrinsecamente
significativo, che poteva dar vita a forme simboliche di resistenza armoniche, coerenti
ed unitarie. La forte coerenza, nonostante l'aspetto iconoclasta, anarchico e caotico dello
stile punk, ne fecero un oggetto privilegiato degli studi della sociologia culturale,
nonché della musicologia. Uno dei più importanti studiosi di questa rivoluzione
sottoculturale fu Dick Hebdige, docente di cultural studies e appartenente al filone del
CCCS.
Lo stile per Hebdige è da intendere come una “forma di rifiuto” (1979) verso il
mainstream, verso la società capitalista dei consumi. Lo stile incarna la volontà di
ribellione insieme alla ribellione stessa. Sistema simbolico e pratica sovversiva
trapelavano dagli oggetti di cui si impossessavano i punk, decontestualizzandoli e
profanandoli come mai nessuno aveva fatto fino ad allora.
Il punk, apparso in una forma riconoscibile tra il 1976 e il 1977 a Londra, fu
stigmatizzato ed attaccato come non accadeva dai tempi del rock'n'roll attraverso una
violenta campagna diffamatoria che vide i mezzi di comunicazione impegnati in una
delirante operazione di demonizzazione (o di artificiosa e tranquillizzante
normalizzazione) di un fenomeno ritenuto pericolosamente destabilizzante.
La spettacolarizzazione della gioventù raggiunse apici difficili da accettare e inquadrare,
tanta era la confusione generata dall'accozzaglia dell'apparenza punk: come vedremo
infatti il punk si configurò come un sapiente mix tra gli stili più vari, dal rock'n'roll, al
bondage, al glam, allo skinhead, per un vero e proprio brigolage di stampo surrealista.
La sottocultura come “spia” della caduta del consenso dell'ideologia dominante trovò
nello stile punk, dopo quello hippie, la seconda grande conferma, destinata a
fluidificarsi pochi anni dopo, col sopraggiungere degli anni Ottanta. La guerra dei punk
nei confronti del mainstream, e dunque dei valori dominati riflessi dalla cultura
dominante, si esercitò ancora una volta tramite i segni: questa la differenza tra la più
diretta azione dei gruppi politicizzati che tendevano a scontrarsi fisicamente con il
sistema e il più obliquo lavoro di erosione dell'egemonia condotta dalle sottoculture
musicali giovanili. Ovviamente va tenuto conto che la presenza, nei periodi di massima
influenza delle sottoculture, di forti movimenti antagonisti di dissenso politico,
influenzò sicuramente una produzione culturale dissenziente, creando scambi reciproci,
da un lato e dall'altro, di influenze e condizionamenti. Durante l'epoca hippie questi
erano più espliciti, nel '77 invece i punk si svincolarono da ogni credo politico (con
importanti eccezioni, come la campagna anti-razzista “Rock against racism”), mettendo
in scena l'idea di sconfitta e di assenza di futuro, rifiutando la socialità ed esaltando lo
stile del singolo come forma di protesta (Scaruffi, 1989). La stessa rassegnazione forse
fu all'origine dell'innalzamento dei toni e dell'escalation di violenza che caratterizzarono
i movimenti di protesta di fine anni '70.
Nonostante a partire dal '75 gli Stati Uniti diventarono, in particolare grazie al locale
CBGB di New York, la terra promessa per una nuova ondata di musicisti che non
sembravano appartenere alle categorie del glam, del prog o dell'hard rock, tra cui Patti
Smith, i Modern Lovers e i Television, e dei padrini del genere punk come i Ramones,
Johnny Thunders e Richard Hell, fu durante l'estate londinese del 1976 che esplose a
livello mediatico il fenomeno punk. “L'estate apocalittica”, secondo l'espressione di
Hebdige, cominciò con i disordini al Notting Hill Carnival, da sempre ritenuto luogo di
aggregazione e multietnicità, il quale si tramutò invece in uno scontro tra neri e
poliziotti (Hebdige, 1979).
I primi artisti punk misero in risalto le contraddizioni del glam, data per scontata la
lontananza e l'alterità rispetto al progressive: da una parte c'era il rinnegamento della
working class e dei suoi classici attributi, ripresi in forma del tutto peculiare, dall'altra il
distacco sempre maggiore tra artista, impegnato in un culto di sé stesso e in toni
ampollosi ed intellettualistici, e pubblico, inteso come semplice spettatore, o peggio
come consumatore. Il disinteresse e il disimpegno del glam era visto come una forma di
snobismo e aristocratismo, mentre il punk diede forma ad un disimpegno attivo e feroce,
violento e caustico: una vera e propria forma dissacrante, paradossalmente, di impegno.
Non si trattava più di evadere dalla realtà, ma di accettarne le derive catastrofiche e di
simboleggiarne spettacolarmente la decadenza, le conseguenze negative e le
devastazioni. La classe operaia ritornò così ad essere il soggetto di riferimento del
movimento punk, la quale però fu fatta convergere in una serie di dinamiche, di risposte
e di pratiche indubbiamente insolite: non un tentativo di conferma reazionaria delle
caratteristiche della propria classe sociale, ma un'accettazione dell'alienazione senza via
d'uscita. I rimandi alla britannicità erano così frequenti (si pensi alla bandiera, alla
regina, all'accento cockney) ma la fonte d'ispirazione era quella dei neri (il reggae infatti
fu l'unica musica da ballo ascoltata oltre al punk-rock), che ritornavano prepotentemente
ad essere gli alleati simbolici preferiti dei punk. Il riferimento tuttavia, benché oscillasse
tra esotismo e realismo nichilista, rimaneva l'Inghilterra presente, quella che era
destinata a non vedere nessun futuro, collocandosi in una zona surreale senza tempo e
senza spazio. L'anonimato, il relativismo morale ed etico diventavano l'unico credo per i
giovani punk. La risocializzazione della musica avvenne grazie a messaggi come
“questi sono tre accordi, ora formate una band” apparso nella fanzine “Sniffin' Glue”,
uno degli strumenti più in voga per diffondere le novità in campo musicale. La scelta di
musiche semplici, veloci, devoluzionate, assomigliava alla stessa condotta dagli artisti
skiffle degli anni '50, anni saccheggiati dal punto di vista estetico e musicale. I Sex
Pistols, i Clash, I Damned, i Buzzcocks furono tra i primi eroi della rivoluzione punk.
In Sottocultura, il fascino di uno stile innaturale (Hebdige, 1979), vediamo quali furono
le caratteristiche dello stile punk.
Innanzitutto lo “stile come bricolage” fu uno dei più evidenti segni di consapevolezza
che i primi punk avevano nei confronti di un mondo capitalista in cui ogni prodotto, per
provare la sua esistenza, deve essere consumato. Già con il teddy boy, con la sua
straniante rivisitazione dello stile edoardiano, si erano potute considerare procedure di
ricodifica in grado di essere una vera e propria decontestualizzazione del significato
originale iscritto nell'oggetto e una conseguente riappropriazione dello stesso, integrato
di nuove connotazioni. Gli accostamenti di oggetti tra loro “stonati” furono dunque
spesso utilizzati come forma di resistenza sottoculturale, ma mai quanto lo furono per i
punk. Il recupero sistematico degli scarti della società industriale, assieme ad ogni stile
mai apparso a partire dal dopoguerra, divenne l'arma principale della costruzione
caotica e anarchica dei punk, finalizzata a giungere consapevolemente a spogliare di
ogni senso la realtà. Tramite la “giustapposizione di due realtà più o meno distanti tra
loro”, come fa notare Hebdige, si giungeva ad una somiglianza con il metodo
surrealista: lo stravolgimento del senso comune, tramite una celebrazione dei suoi
prodotti anormali e dissonanti, avrebbe portato ad una surrealtà, risultante dallo
scardinamento delle logiche di senso dominanti. Consci di questo sembrarono essere i
padri del punk come Malcolm McLaren, fondatore dei Sex Pistols, il quale non a caso
proveniva dal contesto del Sex, un negozio di moda di Londra, e ben conosceva, tramite
l'opera “La società dello spettacolo” del situazionista Guy Debord, gli effetti dello stile
nella società contemporanea. Sempre Fabbri afferma inoltre che “per la prima volta, tra
l'altro, un movimento giovanile e un genere musicale nascono nel quadro di una
consapevolezza machiavellica dei meccanismi della comunicazione di massa” (Fabbri,
2008, pg.162).
L'altra caratteristica evidente era l'ostentazione di pose ripugnanti e sgradevoli, di toni
offensivi ed eccessivamente volgari, di provocazioni al limite del tollerabile (tra cui la
maglietta di Sid Vicious dove veniva riproposta la svastica), i rimandi frequenti al
feticismo sessuale. Il rifiuto e il reietto divenivano protagonisti insensati di un'epoca
all'apice della decadenza morale. La stessa funzione di disordine era affidata alla
musica che, nonostante la semplicità e banalità, colpiva lo spettatore con una furia e con
una violenza volta a riprodurre il caos nel quale si aveva l'impresione di vivere. L'artista
e il pubblico si trovarono ad essere per la prima volta sullo stesso piano, vista l'alta
probabilità dei contatti tra palco e uditorio, nonché una socializzazione della musica
affidati a canali informali, fai-da-te e assolutamente amatoriali. Lo spettacolo non era
un'esibizione di perizia, come nel caso del progressive, ma un momento in cui dominava
la passione e l'assenza di freni, dove il contatto artista-pubblico era effettivo e voluto.
La struttura interna dello stile, a dispetto di un esteriorità sregolata, era un'altra volta
ordinato e coerente, cosa che fa del punk uno degli ultimi grandi fenomeni sottoculturali
dalle caratteristiche “cultural studies” del secondo dopoguerra. L'intero modo di vita era
coinvolto dalle pratiche culturali e musicali, invadendo della sua radicalità ogni ambito.
L'oggetto simbolico aveva la funzione di “creare unità di base con l'esperienza di
gruppo” (Hebdige, 1979, pg.128), gli “oggetti scelti erano omologhi agli interessi
fondamentali del gruppo”.
L'effetto voluto dalle schiere di punk era “l'effetto-vuoto” (pg.130), dal collage
indiscriminato alle esibizioni di svastiche, ogni simbolo “doveva essere muto quanto la
rabbia che provocava”, e questo derivava dall'assenza di vie d'uscite della visione del
mondo e della realtà tipica degli appartenenti a questa sottocultura. I punk furono la
prima forma culturale giovanile a portare a confini estremi la pratica di significazione
dei testi culturali, giungendo ad un punto morto che si concludeva nella non
significazione voluta e desiderata, proposta come strumento cinico e feroce di critica ad
un mondo alla deriva, non più capace di offrire aspettative ai giovani che si accingevano
a diventare adulti nel buio degli anni Ottanta.
3.5 Conclusioni
Ciò che si aprì dopo la morte, dopo una brevissima ed altrettanto intensa vita, del punk
fu sicuramente meno corrosivo per l'ordine sociale, ma si dotò di una consapevolezza
maggiore e, grazie al grande salto nel vuoto compiuto dai musicisti punk, poté partire
quasi da zero nell'elaborazione di forme musicali inedite e a loro modo rivoluzionarie. Il
punk aveva costretto l'industria discografica ad accettare un nuovo modo di fare e di
ascoltare musica, le etichette indipendenti avevano riconquistato uno spazio perso. La
new wave, cominciata a metà anni '70 negli Stati Uniti, unì l'approccio diretto del punk
per forme stilistiche più cerebrali ma mai autoreferenziali, anzi forti di un nuovo modo
di prendere spunto dal passato, dotando la pop music di maggiore schiettezza e
sveltezza, definitivamente libera dalle pastoie del progressive.
L'ambizione di modellare il proprio modo di vita sul ritmo della musica ascoltata riuscì
a sopravvivere in alcune sottoculture che però persero la capacità di avere influenze
egemoni sulla società: pensiamo all'evoluzione politicizzata del punk, chiamata “Oi”,
all'hardcore degli anni '80 e in particolare alla sua variante “straight edge”, al dark e alle
sue comunità dai nettissimi confini.
Tuttavia la fine degli anni '70 rese evidente una rivincita del mainstream, sia a livello
politico-economico sia a livello di gusti musicali. Sul primo frangente abbiamo la
vittoria dei modelli neoliberisti della Thatcher e di Reagan, i quali segnarono la fine
dello stato sociale di stampo keynesiano e al trionfo dei valori del libero mercato, della
deregulation, del consumismo sfrenato. La musica commerciale tornò a diventare
egemone e fortemente compatta, togliendo al rock il primato culturale e la forza
corrosiva, riempiendo i palinsensti dei programmi televisivi musicali e i club di brani
pop elettrici, dandy e di disco music.
Le sacche di resistenza simbolica si chiusero in se stesse cercando di approfondire gli
spazi aperti dal punk: il post punk post industriale dei Pere Ubu, capace di celebrare con
nervosismo teso il non sense dei ritmi post-industriali, il funk-punk scheletrico del Pop
Group, le melodie devoluzionate dei Talking Heads, la musica industriale dei Throbbing
Gristle, la programmatica no wave della compilation “No New York” prodotta da Brian
Eno nel 1978... La riflessione sulla storia del rock portò alla ribalta gruppi come i
Feelies, i quali con Crazy Rhythm riscrivevano gli anni '60 in chiave punk e i Suicide
che davano nuova forma al rockabilly, in veste psicotica, psicolabile ed elettronica. In
particolare la No Wave si distinse per la sua furia devastatrice ed iconoclasta, per la sua
voluta battaglia contro la forma canzone canonica. Il forte carattere locale (basato
principalmente a New York) e il fare schivo di artisti come Mars, Teenage Jesus and The
Jerks, James Chance & The Contortions posero le basi per molta della musica rock
alternativa degli '80s. Ritmi febbrili e disarticolati totalmente decentrati e caotici, un
assoluto sprezzo per la melodia, una ricerca di fastidiosi rumori secondo l'approccio
tipicamente punk, lesionista, nei confronti degli strumenti, facevano di questo genere
uno dei più feroci attaccchi al mainstream e al pop, uno degli ultimi ragionamenti
organici sulla musica e sul suo potenziale sovversivo.
Gli stili musicali di fine anni Settanta assumevano un approccio descrittivo, anche se di
denuncia quando non direttamente antagonisti (come nel caso del Pop Group) rispetto
alla conformazione del sistema socio-economico. Invece di evadere si faceva della
musica uno specchio della realtà, prendendo atto dell'ineluttabilità del presente.
L'ottimismo e la voglia di cambiare il mondo tipica di dieci anni prima aveva esaurito la
sua spinta propulsiva, per lasciare spazio ad un'arte riflessiva e realista, capace proprio
per questo di comprendere gli eventi molto meglio che abbracciando una visione
idealista e sognatrice.
CAP. 4. GLI ANNI '80: LA GRANDE FRAMMENTAZIONE
Dopo lo slancio che aveva visto un nuovo trionfo della sottocultura e delle etichette
indipendenti, il mainstream sembrò condurre una vera e propria offensiva, stimolato
dalle novità della new wave e del pop elettronico. Nell'immaginario collettivo gli anni
ottanta furono gli anni del “patinato”, del commerciale, del lezioso e dei ritmi da
discoteca. Idoli commerciali come Madonna, Michael Jackson, Prince, o come quelli
del synth pop, come Tears for Fears e Duran Duran furono i protagonisti visibili di una
società sempre più materialista e consumista.
I punk resistevano in piccole comunità identitarie e minoritarie, portando avanti da un
lato una serie di esperimenti sull'estremizzazione del sound, da cui derivò l'hardcore,
dall'altro la politicizzazione dei testi, da cui scaturì l'Oi!, punk militante e attivista. Sul
fronte new wave quello che ne venne fuori fu una frammentazione notevole, ma dotata
di una creatività fuori dal comune. La scena dark ad esempio fu studiata come un
esempio di stile rigido e fortemente compatto e coerente, memore delle forme
sottoculturali classiche. Il post-punk e l'art punk invece resero i loro confini decisamente
più fluidi, facendo della coerenza tra musica e vita quotidiana una caratteristica che
iniziava a diventare meno pregnante.
Gli anni '80 furono dunque un periodo dove continuarono a imporsi sottogruppi
spettacolari come i gothic, ma dove si diede anche l'avvio a “scene” musicali che
abbandonavano i loro caratteri ascrittivi e totalizzanti per rappresentare o semplici mode
oppure riflessi di appartenenza di classe, di genere o di etnia, ben lungi da essere
“sacche di resistenza simbolica”. Un esempio di questo si poté avere con la scena
techno di Detroit, con la house di Chicago o con il synth pop che dominò le classifiche
per buona parte del decennio. La club culture fu uno dei prodotti che scaturirono dal
rendersi sempre più liquido del senso di appartenenza rispetto ai generi musicali.
Quella di “rock alternativo” fu la vaga catalogazione di tutti quei generi che
conservavano la formazione basso-batteria-chitarra come fulcro della propria
produzione, cercando nuovi appprocci al suono e agli strumenti, come nel caso del
noise, dello shoegaze o del lo-fi.
Il vuoto generato dal punk permise anche di guardare al passato con occhi nuovi,
aprendo una stagione di riscoperta e di revival: è il caso della scena locale del Paisley
Underground di Los Angeles e del mod revival che si scatenò in Inghilterra una volta
esaurita l'ondata punk. Il blues e il rock'n'roll furono reinterpretati da band come gli X, i
Gun Club o i Cramps in maniera del tutto deviata, velocizzata e perversa.
Si materializzava poi una nuova dicotomia, quella tra rock e disco, la quale, alla pari di
quella tra rock e pop degli anni '70, fu la principale linea divisoria per comprendere lo
sviluppo musicale di questi anni.
Gli anni '80 garantirono dunque una fucina di immense dimensioni, lavorando sottopelle
ad un mainstream sempre più conforme ed appiattente. Quello che però iniziò a
sgretolarsi furono i concetti collettivi che formavano la nozione di sottoculture come
gruppi omogenei dai confini ben definiti (Martin, in Bennett, Kahn-Harris, 2004): gli
ultimi esempi di tali forme di aggregazione sottoculturali rappresentarrono delle forme
spesso estreme di vivere nella società, dei tentativi di ricostruire un'identità collettiva
senza però far convergere nella ricerca tutta la serie di valori che hippie e punk erano
riusciti a coinvolgere. La prospettiva di scena (Andy Bennett) e di consumatori onnivori
e non (Bethany Bryson) iniziò a farsi strada per forgiare l'analisi sottoculturale degli
anni '90 e del nuovo millennio. La proliferazione di culture giovanili degli '80 pose fine
all'unità della sottocultura, generando una frammentazione che avrebbe portato ad un
ripensamento, da parte dei sociologi, del concetto stesso di sottocultura e della natura
delle culture giovanili.
4.1 Nuove tecnologie
Gli anni '80 rappresentarono un nuovo momento di espansione dell'innovazione
tecnologica e di conseguente diffusione dei nuovi prodotti tra le masse. L'era post-
industriale determinò l'espansione dei settori informatici e la ricerca sulle nuove
tecnologie, la miniaturizzazione dell'elettronica determinò un'accelerazione dei
progressi tecnologici. L'impatto che questi cambiamenti ebbero sulla musica furono
diretti, a partire da una delle prime grandi innovazioni in campo musicale: un nuovo
supporto, il compact disc, sviluppato da Sony e Philips, entrò nel mercato nel 1982.
La potenzialità del cd stava nel fatto che, visti gli alti costi dello studio di produzione, le
possibilità di pirateria si riducevano immensamente. Gli anni Ottanta infatti furono un
periodo di difficoltà per l'industria discografica, incapace di escogitare metodi per
impedire il costante abbassamento delle vendite derivante dalla facile duplicazione delle
musicassette (Fabbri, 2008).
Nuovi sistemi per l'elaborazione del suono permisero di poter sfruttare nuovi effetti per
la propria musica, in particolare per quella elettronica, alla quale venivano messi a
disposizione strumenti indispensabili quali il sequencer, o campionatore, nel quale si
potevano memorizzare suoni preregistrati riproducibili attraverso una tastiera.
La comparsa nel 1981 della tv commerciale MTV permise un successo spropositato per
i video promozionali degli artisti, nonché un canale molto popolare per le hits del
momento, soprattutto quelle del synth pop inglese di Duran Duran, Depeche Mode, Soft
Cell e Human League (Fabbri, 2008). La televisione cominciò dunque ad essere un
mezzo perfettamente affiancabile alla radio per la promozione dei prodotti dell'industria
musicale, aumentando i confini e il potere pervasivo del mainstream.
4.2 Synth pop
Il synth pop fu uno degli esempi più ambigui di negoziazione tra sound da classifica e
sperimentazione musicale. Fu anche un genere che si caratterizzò per molteplici
interpretazioni, per varie attitudini, da quella ancora legata al punk e alla wave di fine
anni '70, al new romantic, fino al synth pop vero e proprio. Posto a metà tra una disco
music che annullava i ritmi ballabili e un approccio pop decadente, il synth fu
innanzitutto caratterizzato per l'uso del sintetizzatore, vero e proprio protagonista della
prima metà degli anni '80.
I primi ad aver intuito con genialità la necessità di una trasformazione del pop in senso
futurista e modernista furono i tedeschi Kraftwerk, i quali diedero vita a fine anni '70 ad
una creatura insolita ed unica. I loro personaggi erano robotici e inumani, le divise con
cui si presentavano erano impersonali e per niente calorose, i Kraftwerk erano l'antitesi
della rock star, con un approccio alla musica scientifico e freddamente calcolato. Le
melodie vitree e glaciali dei brani di questa band fornirono il prototipo per svariati artisti
britannici e americani, i quali plasmarono proprio su questo futurismo pop i loro
successi.
Gruppi come gli Ultravox! e i Magazine iniziarono ad inserire ampie partiture di
sintetizzatore in brani derivati dal punk, veloci e violenti e ancora appigliati alla
tradizione delle chitarre elettriche. David Bowie, con il suo periodo sperimentale
scaturito nella “trilogia berlinese” diede innumerevoli spunti per la definizione del
sound. Ma furono gruppi come gli Human League, i Japan, gli Orchestral Manoeuvres
in The Dark e Gary Newman a fornire i modelli tipici del genere.
L'artista synth pop era innanzitutto un dandy metropolitano, una variante del modello
Roxy Music-Brian Eno, e più in generale del glam rock, aggiornato alla nuova epoca
neoliberista. Lo spleen e i toni crepuscolari che scaturivano dai suoni dei loro brani ne
facevano un ibrido tra il lato ballabile e alla moda e quello più intimista e chiuso in sé
stesso. Nonostante le scalate in classifica di brani come Video Kills the Radio Stars dei
Bungles, Enola Gay degli OMD, Sweet Dream degli Eurythmics, la maggior parte dei
pezzi synth pop erano tutt'altro che di facile ascolto: a partire dai complessi e contorti
motivi dei Japan, fino alle stranianti creazioni degli Associates, questo genere musicale
seppe far convergere una sperimentazione pregnante, capace di unire certa scuola
progressiva con l'anima impressionista dei Roxy Music e con l'elettronica della scuola
tedesca (Manuel Gottsching, Kraftwerk, La Dusseldorf). L'umore che permeava ogni
brano era comunque quello di una malinconia dolciastra, di un'inespressività raramente
capace di andare al di là dei sorrisi di plastica adatti ai video promozionali.
Ovviamente le derive maggiormente commerciali denaturarono i pionieri del genere,
modificandone l'immagine originaria, la quale rappresentò uno dei primi modi di
cambiare radicalmente volto al pop: invece di mantenere il perno sugli adolescenti, il
pop in generale degli anni '80 trovava nell'adulto, nella scalata sociale, nel successo, nel
glamour e nella ricchezza i propri modelli di riferimento: “il New Pop ha finito per
rivelarsi l'inaugurazione del soul industriale globale, la colonna sonora della nuova
cultura yuppie incentrata su salute e rendimento” (Reynolds, 2008, pg.44-45).
Una variante del synth era il New Romantic, il quale si basava maggiormente sul lato
estetico e dolciastro del genere. Proprio questa attitudine fu la più adatta ad essere
rappresentata come “sottocultura”, in quanto presentava delle precise ricadute sulla
società ed in particolare sullo stile. Esistevano discoteche curate da new romatics, serate
dedicate proprio a questo sottogruppo stilistico. Rispetto al synth pop questo
sottogenere si caratterizzava quindi per un più forte senso di identità in determinate
pratiche, come una cultura da discoteca ben definita e studiata. Gli artisti cardine di
questa attitudine furono i Duran Duran, gli ABC (i quali però si distaccarono
notevolmente, per quanto riguarda la qualità dei propri prodotti musicali, dalla vena più
schiettamente da classifica), i Depeche Mode, i Culture Club, i Tears for Fears.
Tuttavia, complessivamente, lo spazio di queste scene musicali non era contestualizzato
in un gruppo ben definito di giovani, ma sparso nell'etere, globalizzato attraverso i
canali di diffusione di massa sempre più diffusi e pervasivi. La sottocultura synth pop
non ebbe mai vita, essendo più adatto parlare di “scena”, intesa come uno spazio
culturale (Bennett, 2004) caratterizzato da relazioni sociali più fluide e meno ascrittive
che quelle della categoria di sottocultura. La de-ideologizzazione della gioventù inoltre
sembrò andare di pari passo all'evolversi di un genere rivolto si ai giovani, ma per il
quale la gioventù era un'attitudine indefinita, non caratterizzata da forti connotati
caratterizzanti.
4.3 Le ultime sottoculture: hardcore e goth
Le ultime aggregazioni giovanili fortemente identitarie e totalizzanti scaturirono dalle
evoluzioni del punk e della new wave.
Il punk sopravviveva in sacche minoritarie caratterizzate da un estremizzarsi del sound e
da una maggiore attenzione alle tematiche trattate dai testi. L'approccio anti-sistema del
punk fu costretto a porsi sulla difensiva, sebbene con atteggiamenti violenti ed offensivi,
visto il trionfo delle politiche neoliberiste che non davano nessun segno di cedimento.
La scena hardcore si sviluppò negli Stati Uniti, una volta esaurita la spinta propulsiva
del punk britannico. Le scene hardcore americane presentavano una forte componente
locale, caratterizzandosi e differenziandosi rispetto alle città d'origine dei gruppi di
questo genere.
La California fu una delle principali località dove apparvero i primi esempi di punk
hardcore: i Germs, tra i primi a velocizzare e potenziare il punk, i Black Flag con le loro
invettive disperate, gli X con il loro tentativo di unire punk e rockabilly e i Dead
Kennedys, i più famosi del lotto.
Sta soprattutto ai Dead Kennedys il merito di aver connotato il genere di un approccio
militante ed impegnato, grazie al cantante Jello Biafra, icona morale della scena
californiana (Scaruffi, 1989). Gli attacchi al sistema, retorici e cinici, come nella
migliore tradizione punk, erano scagliati con furia e disperazione da voci urlanti ed
atonali, roche e sgradevoli. Il degrado di Los Angeles traspariva dalle liriche e dalla
furia del genere hardcore, iperbolica celebrazione/denuncia di una società sempre più
violenta e degenerata. Il gruppo di musicisti e i fan che convergevano ad essi
rappresentavano un analogo delle gang metropolitane, dando forma ad un rock
criminale e nichilista.
L'hardcore si fece dunque portavoce della strada e di chi proprio nella strada trovava le
proprie ragioni di vita: i club più malfamati di Los Angeles si popolarono di skinhead e
di una nuova generazione di punk più arrabbiata e motivata di quella del '77.
Los Angeles fu il contesto più estremo dell'hardcore statunitense, ma altre scene di
rilievo furono quella di Washington (Minor Threat, Bad Brains), quella di New York
(Misfits, Cro-Mags) e di Boston (Real Kids, GG Allin) (Scaruffi, 1989).
Un'interessante forma di sottocultura generata dallo stile hardcore fu il movimento
“Straight Edge”, generato dal brano omonimo dei bostoniani Minor Threat. Gli artisti
aderenti al movimento professavano uno stile di vita libero dall'uso di droghe, tabacco
ed alcool, per una ricerca ed una riscoperta del controllo del proprio corpo. L'idea di
prestanza e di mascolinità ricordava in parte quella volontà di affermazione di sé stessi,
anche nelle situazioni estreme, dei bikers degli anni '50: il corpo rimaneva uno degli
ultimi aspetti controllabili in una società meccanicizzata e disumanizzata, sempre più
sfuggente e brutale. Il dominio del fisico, la sua esibizione, la riscoperta di una virilità
machista tipicamente proletaria e funzionale alla sopravvivenza era uno dei segni
distintivi del sottogenere hardcore.
L'altro raggruppamento spettacolare di giovani nacque da una costola del punk, la quale
accentuava i toni decadentisti e depressi, dando vita a pezzi macabri ed orrorifici, saturi
di una depressione generazionale che tingeva di nero il nichilismo punk. Il genere dark,
o goth, scaturì dunque da una rassegnazione totale al vuoto e all'assenza di futuro contro
cui punk e hardcore si scagliavano con violenza, seppur senza precisi obiettivi. Tra i
primi gruppi di dark punk si distinse quello dei Siouxsie Sioux and The Banshees,
fondato da Siouxsie, groupie della prima ora dei Sex Pistols. I toni freddi e rallentati
smorzavano la furia punk, fino ad annullarla per dar vita a brani immobilizzati e
spettrali.
Bauhaus, Joy Division e Killing Joke furono i complessi più celebri della prima ondata
goth, ancora fortemente ancorati all'abbandono a certe accelerazioni punk ma in grado
di comporre brani claustrofobici e terrorizzanti, in grado di catalizzare le ansie
dell'adolescenza in paesaggi sonori macabri ed orrorifici.
Gli eroi del genere, tra cui il più celebre fu senza dubbio il frontman dei Joy Division,
Ian Curtis, erano caratterizzati da un'aria rassegnata ed indolente, quando non
esplicitamente depressa. Ian Curtis, come Robert Smith, frontman del più famoso
gruppo dark, i Cure, celebravano il suicidio, promettendo, come Smith, di togliersi la
vita appena raggiunti i 23 anni (cosa che avvenne per Curtis, che si tolse la vita proprio
a quell'età).
La dimensione spaziale nella quale si collocavano i brani dark variavano da versioni
noir delle metropoli britanniche, trasfigurate in scenari deviati e fuori controllo, a
paesaggi surreali e non definiti, come le lande spettrali che caratterizzavano
l'immaginario dei primi Cure o dei Virgin Prunes, in un'oscillazione “fra
l'impressionismo iperrealista e l'urlo espressionista” (Scaruffi, 1989, pg.179).
Dunja Brill, utilizzando il concetto di Sarah Thornton di capitale sottoculturale, descrive
così l'estetica dark: “la presentazione della musica coinvolgeva elementi di esibizione
teatrale, dei quali i più evidenti erano il make-up nero su fondo tinta pallido, vestiti neri
con abbondanti tagli e spille, elaborate acconciature e gesture melodrammatiche”
(Brill, 2007, pg.113, in Hodkinson, Deicke, 2007).
L'aspetto interessante del goth era il suo tentativo, tra i primi nella storia delle
sottoculture, generalmente indirizzate al genere maschile, di superare i confini di genere
per esaltare la femminilità come modello di riferimento per entrambi i sessi. La scena
goth era dominata dai valori di eguaglianza e libertà di espressione: l'aspetto androgino
permettava di eliminare le barriere che impedivano il realizzarsi di questa retorica. La
scarsa importanza data al genere sessuale si tramutava però in un'estetica che
femminilizzava fortemente entrambi i sessi, fornendo un'idea tipicamente maschile,
nonché negoziata con il mainstream, di quelli che erano i connotati della femminilità. Se
per i maschi l'uso del trucco significava trasgressione, per le donne la stessa pratica
tendeva ad accentuare, sottolinenando certe preferenze estetiche, il classico modo di
mettere in risalto la sensualità femminile.
Nonostante alcuni casi di negoziazione con il mainstream, lo stile dark era permeato di
una retorica trasgressiva e non convenzionale. Ciò che lo stile dark aveva in comune
con la tradizione sottoculturale era l'esigenza di schierarsi contro le norme sociali
comunemente accettate e contro i codici stilistici dominanti. Tuttavia, nell'analisi di
Brill, le culture giovanili contemporanee non possono più essere analizzate secondo le
coordinate della “resistenza simbolica”, non come un sistema monolitico di egemonia,
ma come uno “spazio sociale multi-dimensionale”, nel quale vengono negoziati i
confini e le gerarchie, nonché le ideologie, in grado di “riaffermare le opposizioni
dualiste tra 'alternativo' e 'dominante', 'radicale' e 'conformista', e soprattutto tra
'mainstream' e 'sottocultura'” (Brill, 2007, in Hodkinson, Deicke, 2007).
4.4 L'indie
Come faceva notare Simon Reynolds, giornalista musicale, in un articolo scritto per la
rivista “Monitor” nel 1985, il pop degli anni '80 era plasmato sul funk e sul soul in
maniera pregnante. Secondo Reynolds mentre i bianchi avevano abbracciato
completamente la musica nera, i neri l'avevano abbandonata, cercando nel rap
un'espressione più autentica ed identitaria.
Tuttavia una serie di gruppi alternativi si rifiutarono di prendere per buona questa
“deriva” del pop moderno, andando a cercare nel pop bianco degli anni '60 le basi per
un ritorno alla purezza originaria della pop music. “Le formazioni indie – ivi compresi
l'hardcore e il country punk Usa -, ugualmente contrarie alla bastardizzazione del pop,
hanno reagito ridipingendosi di bianco” (Reynolds, 2008, pg.3).
La ricerca dell'autenticità nel mondo indie era collegata ad un'idea di purezza che si
ribellava al tentativo di superare le linee divisorie tra musica nera e bianca come mero
strumento per svettare nelle classifiche.
Attorno ad etichette quali la Creation, la Bus Stop, la Summershine o la Sarah, senza
contare le storiche compilation su cassetta, tra cui la celebre C86 della rivista NME, si
radunarono una serie di giovani artisti inglesi che ai toni vissuti del pop mainstream
contrapponevano sonorità melodiose ed innocenti, timide ed insicure, quando non
addirittura impacciate ed infantili. Il jingle jangle dei Byrds fu il perno della maggior
parte di queste band, intente ad una riscoperta della più semplice forma canzone di tre
minuti. L'approccio di riappropriazione del pop è ben descritta dalle parole di Reynolds:
“invadere la cittadella del pop, sovvertirlo tramite la ricerca di un glamour ancora
maggiore, rivelandone il pallore e la dozzinalità” (Reynolds, 2008, pg.6).
Gli indie riportano il pop nella dimensione adolescenziale dei sentimenti puri e forti,
dell'idealismo pieno di domande e senza alcuna risposta, dell'assenza della capacità
imprenditoriale di costruzione della propria persona in funzione della realizzazione
lavorativa e del successo. Le voci che dominavano i brani indie pop erano esili ed
efebiche, quasi femminili, prive della virilità piena di sé o della sensualità consapevole
di molti artisti mainstream, ma avviluppate in un intimismo cantilenante e incantato.
Questo tipo di musica si rivolgeva all'adolescente medio la cui vita era fatta dallo spazio
sicuro ed accogliente della sua camera alla scuola, fino alle prime relazioni amorose e le
incertezze esistenziali.
Ogni aspetto ballabile, “corporeo”, che caratterizzava invece il pop da classifica, veniva
eliminato, fornendo un ulteriore elemento di estraneità alla musica nera, riagganciandosi
alla fondamentale cerebralità della musica bianca dal '67 in poi (Reynolds, 2008). Il
romanticismo ritornò dunque a far parte in maniera incontrastata del nuovo pop
anticonformista (si pensi al brano Love's Going Out of Fashion dei Biff Bang Pow!),
grazie a gruppi come gli Smiths, tra i pochi a “invadere la cittadella del pop” scalando le
classifiche ed esibendosi a Top of the Pops, i Field Mice, i Pastels, gli Shop Assistants, i
Felt, i Talulah Gosh e gli Another Sunny Day.
Ed ecco che la caratteristica fondamentale delle culture giovanili del secondo
dopoguerra si ritrovano cristalizzate in questo sottogenere, una su tutte l'autenticità,
ostentata fino all'ossessione, sbandierata senza però alzare troppo la voce, il che avrebbe
snaturato la ricerca di innocenza e destabilizzato l'approccio anti rockstar degli indie.
Gli Smiths furono tra i più illuminati gruppi indie degli Ottanta, soprattutto grazie alla
coscienza mostrata dal frontman Morrisey. Il merito degli Smiths fu quello di aver
riportato nelle classifiche consistenti dosi di negatività, di infelicità e rancore.
L'adolescente di Morrisey non era un consumatore da riempire di artificioso ottimismo e
distrarre con sterili passatempo, ma una persona che viveva in una realtà problematica,
nel pieno di un'età incerta e goffa. Il rifiuto programmatico della crescita come processo
di realizzazione manageriale di sé denotava una compiuta coscienza politica da parte di
Morrisey, che si radicalizzava nelle dichiarazioni provocatorie di voler vedere morta la
Tatcher o di voler “impiccare il dj e bruciare le discoteche” (dal brano Panic). La
consapevolezza di una ricerca ostinata dell'inglesità, la capacità di sfruttare i
meccanismi della celebrità per entrare con il proprio pop sovversivo nel mainstream,
l'ottima conoscenza della storia della musica e la sviluppata coscienza politica facevano
degli Smiths una delle band indie più complete ed autocoscienti del loro ruolo di
innovatori, nonché un ottimo oggetto di analisi per capire lo stato della popular music
negli Ottanta. Utilizzando ancora le parole di Reynolds, gli Smiths avevano riportato nel
pop l'essenza dell'adolescenza (2008, pg.44), e fu proprio questa scissione tra ambizione
dello status adulto e trinceramento dietro le incertezze della gioventù a caratterizzare la
ricerca dei musicisti di quest'epoca.
4.5 L'alternative rock
Sul fronte del rock, inteso nella concezione di Carducci (Reynolds, 2008), ovvero come
l'interazione ritmica in tempo reale fra batteria, basso e chitarra, le prospettive dopo le
sperimentazioni del post punk, le invettive dell'hardcore e le depressioni del goth furono
svariate, tutte accomunate dalla consapevolezza di marciare in una sfera non più in
grado di giungere alle masse e condizionare i linguaggi del pop, ormai capace di
autodeterminarsi e dettare le proprie logiche.
Alternative sarà qui usato come termine generico, spesso sinonimo di indie, per
catalogare tutti quegli artisti che sceglievano la formazione classica del rock per
giungere a soluzioni non classiche, dovute a sperimentazioni sui timbri, sul rumore,
sull'atonalità o semplicemente attraverso un'estremizzazione di quanto prodotto fino a
quel momento. È interessante notare come il termine “alternative”, il quale diventò
ufficiale anche grazie a spazi del mainstream (Mtv) dedicati a gruppi etichettati in tal
modo, riconosceva una volta per tutte, tentando di internalizzarla come semplice
sottogenere, l'esistenza della scissione profonda tra musica commerciale e musica
“altra”, non meglio definita.
Il campo d'azione privilegiato furono in un primo momento gli Stati Uniti, dove gli
artisti iniziarono a suonare rock viscerale in cui la componente cerebrale, tipica invece
dei gruppi britannici, sembrava essere meno preponderante. Elemento caratterizzante
delle svariate correnti fu comunque il noise.
Inteso da una parte come puro rumore, dall'altra come modo di reinventare l'approccio
alle chitarre elettriche, la voglia di originare fragorosi muri sonori, sfruttando feedback e
dissonanze e superando i ripetitivi riff dell'heavy metal, accomunò gruppi come i Sonic
Youth, i Pixies, gli Husker Du, i Dinosaur Jr., i Big Black, i Butthole Surfers,
protagonisti della scena alternativa americana. Pur notando come l'underground fosse un
concetto più appropriato in territorio britannico, essendo gli Stati Uniti capaci di
valorizzare i gruppi rock attraverso i canali commerciali, come Mtv e le radio.
L'approccio statunitense rivelava quindi un forte attaccamento alla propulsione ritmica
classica del rock, trovando anche nei gruppi più sperimentali, come i Sonic Youth (la cui
origine era legata alla scena No Wave di New York), rimandi alla carica di gruppi come
Iggy Pop and the Stooges e Velvet Underground. La violenza sonora degli acts dei
Butthole Surfers e dei Big Black partiva da un'estremizzazione dell'hardcore unita ad un
allacciamento alla No Wave, per il raggiungimento di sonorità brutali ed espressioniste.
La vena pop dei Dinosaur Jr. veniva sconquassata dai rumorismi delle chitarre che
finivcano per sovrastare ogni momento melodico.
La metropoli era lo scenario privilegiato di queste band, i suoni tendevano a dipingere il
caos cittadino, l'ansia e l'alienazione, la frustrazione e la rabbia, senza però giungere,
spesso consapevolmente, alla formulazione di un messaggio positivo capace di fornire
sollievo e risposte. La rappresentazione sonora del caos e l'introspezione ermetica o
maniacale dei testi rivelavano la psicologia generazionale di quegli anni come
autocosciente della propria impotenza nel trovare soluzioni collettive ai problemi che
affliggevano la società.
Un'altra faccia dell'indie americano era rappresentata dall'etica DIY (do it yourself), la
quale si avvaleva di un approccio dilettantistico e anti-tecnologico per risoprire
l'autenticità della musica rock. Il rifiuto dell'hi-fi si concretizzava nel suo opposto, il lo-
fi, ovvero la ricerca di registrazione a bassa fedeltà, suoni non mediati da tecniche
innovative, sonorità granulose, sporche, proprio per questo autentiche, in quanto
prodotto immediato dell'interazione artista-strumento. I Violent Femmes, appena
ventenni, diedero vita ad un sound ironico, adolescenziale, avviluppato in un
rassicurante “non prendersi troppo sul serio” che però cercava nella intrepida fusione tra
punk e musica tradizionale (blues, folk e country) la sua ragion d'essere.
Altri nomi di culto nel panorama lo-fi americano furono i Pavement, i quali, nelle parole
di Reynolds, soffrivano di “un'autoridimensionante paura di essere giudicati troppo
seri” (Reynolds, 2008, pg.133), i Sebadoh, i Guided By Voices. Ciò che stava dietro alla
musica di questi gruppi era la volontà di mostrarsi sinceri, in contrapposizione al pop
sintetico e artificiale che scalava le classifiche. L'insuccesso, sebbene molti gruppi
alternative riuscirono ad essere messe sotto contratto da major a fine anni '80, era una
conseguenza di tutto questo. Lo status di band di culto e non di massa era il risultato
appagante di essere apprezzati dai pochi in grado di cogliere la loro autenticità e
semplicità e di immedesimarsi in essa.
In Gran Bretagna i gruppi che tentarono di dare una direzione alternativa e innovativa al
rock si riconobbero presto con l'appellativo di “shoegazers”. Londra, Oxford e Reading
furono le città di gruppi come i My Bloody Valentine, gli Slowdive, i Ride. La logica di
questi gruppi si allontanava dalla disinibizione e dall'intuitività dei cugini americani, per
dar vita ad un sound meno immediato e più ponderato. Il termine shoegaze nasceva
dallo sguardo fisso ai pedali degli effetti da applicare alle chitarre, il che significava
un'estrema attenzione data al come il rumore dovesse essere applicato alla musica. La
cerebralità fu caratterizzante per ognuno di questi gruppi, alla furia indolente americana
si contrapponeva l'estasi e la sperimentazione in studio di registrazione (per registrare
Loveless dei MBV ci vollero sedici tecnici del suono).
Tutto ebbe inizio con la band meno intellettuale del lotto, gli scozzesi Jesus and Mary
Chain, i quali cominciarono a sovrastare le loro melodie derivate dall'indie pop da un
vero e proprio muro sonoro di feedback lancinanti. L'estetica dark unita al rumore e alla
violenza che si sprigionava nei concerti, simboleggiava un abbandono al caos, quando
non una sua celebrazione.
Quando però il rumorismo si unì alla volontà di creare brani sognanti e psichedelici,
come il dream pop dei Cocteau Twins aveva già cominciato a fare, ecco che lo shoegaze
emerse con tutta la sua carica innovativa.
Lo shoegaze era una musica d'evasione adatto alla sensibilità borghese, aggiornato però
al panorama limitato Tatcheriano: “Politicamente, i sogni di cambiamento sono migrati
dal settore pubblico a quello privato: una trasfigurazione personale, più che il
progresso collettivo. La trascendenza non può che essere momentanea, confinata al qui
e ora. […] A rendere particolarmente atroce la condizione di questi emarginati
borghesi è il fatto che sono abbastanza lungimiranti da capire che il futuro non darà
spazio alle speranze. Nello stesso tempo, la loro comoscenza della storia del rock è
abbastanza (iper)sviluppata perché si sentano umiliati dalle ben più alte aspirazioni
delle epoche anteriori” (Reynolds, 2008, pg.122).
Al no future si regiva in maniera non-punk, ovvero non con un attivismo iconoclasta
pronto a distruggere e a farsi soggetti attivi della catastrofe, ma con abbandono sognante
ed evasivo ad un presente che non portava da nessuna parte, che non poteva essere
condizionato né collettivamente né tantomeno individualmente.
Gli americani si dimostravano invece meno toccati dalle derive politiche e sociali,
evitando di riflettere su argomenti di cui si era coscienti di non avere il controllo,
facendo della musica qualcosa di illusoriamente autonomo dal contesto sociale, un
passatempo o un modo di sfogarsi.
Il primato del rock alternativo della seconda metà degli anni '80 era comunque, forse
proprio per questa assenza di autolesionismo riflessivo, destinato a rimanere in mani
americane, soprattutto con l'esplosione del fenomeno grunge dei primi anni '90.
4.6 Conclusioni: ripensare alle sottoculture
La fine degli anni '80 segnò un avanzamento senza precedenti di scene elettroniche
quali la house di Chicago e la techno di Detroit, musiche nere che un'altra volta (come il
rock'n'roll, il soul e il funk, la disco e il rap) fornirono rinnovati stimoli per la musica
bianca. Se per buona parte degli Ottanta infatti i gruppi bianchi cercarono di riaffermare
un genere bianco che rescindesse i suoi legami con soul e disco, esistevano anche
numerosi esempi di ibridazione tra i due mondi.
I Talking Heads ad esempio cominciarono a partire da fine anni '70 a sperimentare
un'unione tra sonorità africane e new wave robotica, il Pop Group e i Gang of Four
procedevano in un funk-punk poi ostentato da band come i Red Hot Chili Peppers, la
world music esplose come nuovo fenomeno colto e borghese (Paul Simon, Peter
Gabriel, Jon Hassell).
Le differenti risposte al classico dualismo bianco-nero furnono condotte nel nome di
una ricerca sul senso della popular music al tempo della globalizzazione, trovando
risposte più o meno identitarie e autentiche.
Tra gli ultimi tentativi di ibridazione tra musica elettronica (acid house) e pop ci fu
quello di una serie di artisti di Manchester che tentarono di unire la nascente rave
culture con il pop britannico e con la psichedelia. Il “Madchester”, chiamato anche
“baggy”, emerse dallo scenario indie come interpretazione delle sensibilità
maggioritarie che circondavano la percezione musicale del periodo. La scena di
Madchester si basava sulle nuove droghe sintetiche diffuse dalla club e dalla rave
culture, unendole ad un approccio solare, meno teso e più adolescenziale.
La contrapposizione tra madchester e shoegaze si connotava di valenze sociali. Se
quest'ultimo era un prodotto della cultura media, intriso di cerebralismo e distacco, il
primo era un prodotto diretto delle nuove culture da ballo (e da sballo) di strada. Dal
milieu sottoproletario nascevano gli Happy Mondays (Reynolds, 2008) così come
proletarie erano le velleità degli Stone Roses e di buona parte dei gruppi di questa scena.
Oltre alle conseguenze in campo musicologico, le club cultures sempre più globalizzate
costrinsero i sociologi a interrogarsi non solo sui mutamenti dell'organizzazione
sottoculturale, ma anche sul nuovo significato assunto dalla partecipazione a queste
scene (Carrington, Wilson, in Bennett, Kahn-Harris, 2004).
L'emergere in Gran Bretagna e Stati Uniti di numerose culture legate alla musica
elettronica, oltre che l'esplosione dei fenomeni dei rave durante le estati del '88 e del '89
in città come Londra e Manchester, pose fine al concetto di gioventù oppositiva e
resistente, dunque politicizzata, della tradizione di Birmingham. La partecipazione a
questo tipo di scene sembrava essere segnata da un alto tasso di individualismo ed
edonismo (Bennett, Kahn Harris, 2004) e le categorie più appropriate sembravano
essere quelle di shopping e consumo piuttosto che di resistenza e devianza (Redhead,
1990).
La partecipazione dei giovani ai rave dunque tornava ad essere più legata al
divertimento (Frith, 1983) che ad una forma di risposta di classe all'alienazione e allo
sfruttamento. I motivi di distacco dall'analisi del CCCS furono svariati.
Partendo dal concetto di capitale culturale (Bourdieu, 1984), Sarah Thornton analizzò le
club cultures partendo dall'assunto secondo cui il “capitale sottoculturale” non
dipendesse così strettamente alla classe, ma permettesse di riprodurre le gerarchie della
società dominante in sistemi di gusto alternativi (1995). Maria Pini (1997) analizzò
l'evento del rave offrendo una prospetttiva femminista, secondo cui i ravers erodevano
le distinzioni di genere in uno stile da ballo di stampo “unisex”, vedendo nell'euforia
causata dall'uso di droghe sintetiche una maniera di accentuare dei sentimenti di rispetto
e di inclusione. Il rave permetteva poi un affrancamento dall'invisibilità femminile
nell'analisi del CCCS e un superamento delle culture domestiche che avevano visto lo
spazio culturale femminile ridotto a quello della propria intimità domestica (Mc Robbie,
Garber, 1976).
L'aspetto etnico fu poi fondamentale per la comprensione delle scene elettroniche....
La fine degli anni '80 inaugurò così una serie di dinamiche (l'elettronica, il grunge) che
si sarebbero delineate meglio, grazie ad un crescente lavoro di analisi, solo nel decennio
successivo, così come le illusioni derivanti dal crollo del muro di Berlino si sarebbero
concretizzate nel loro rapido sfumare causato dalle conseguenze della dissoluzione
dell'Unione Sovietica.
CAP. 5. GLI ANNI '90
Gli anni '90 si aprirono con una serie di discorsi lasciati aperti alla fine del decennio
precedente: il grunge e l'elettronica. L'alternative rock trovò il suo compimento nella
Seattle di fine anni '80, dove si diffuse una sensibilità hard rock che portò alla
formazione di band “disordinate”, formate da ragazzi che esibivano uno stile noncurante
e trascurato, assieme a sonorità feroci ma nello stesso tempo turbate da una fragilità
esistenziale abbandonata alla mancanza di prospettive che portava alla depressione e
all'eroina.
La musica elettronica sembrava essere il terreno più fertile per la sperimentazione e per
le nuove forme di espressione artistica, nonché la più adatta a superare il concetto di
sottocultura, aprendosi alla più adeguata categoria di scena o di tribù. Lo studio di
registrazione diveniva definitivamente l'ambito dove avveniva la totalità dei processi
che portavano all'opera finita. Sebbene molte forme di fruizione della musica elettronica
fossero destinate ai club, ai rave party e alle discoteche, dunque a eventi di gruppo, il
processo di produzione si individualizzava, portando ad un'integrazione delle fasi del
processo inedita. Le nuove tecnologie permettevano agli artisti di controllare gran parte
del ciclo produttivo (Fabbri, 2008).
Mentre il rock alternativo, una volta esaurita la spinta del grunge nei primi anni '90, si
ripeteva nella diatriba tra americani e inglesi, gli uni impegnati a conservare gli stilemi
grunge, gli altri alla ricerca di una riconquista britannica del rock (brit pop), il rock
veniva ripensato alla radice da complessi che univano l'approccio innovativo rivolto alle
tessiture e ai timbri dell'eletronica per applicarlo alla formazione classica del rock. Il
post-rock, scena distinta da differenti caratterizzazioni locali (Chicago, Louisville...),
rappresentò un concetto generico per descrivere il genere suonato da gruppi che si
affidavano al dub, alla techno, alla musica sperimentale tedesca degli anni '70 per
superare la vena hard e ritmica del rock.
Una sorta di dedizione derivata dal progressiva, ma spogliata dai toni altisonanti e pieni
di sé del genere, caratterizzò le nuove frontiere della musica cerebrale e sperimentale,
destinata a influenzare gruppi di successo e a suscitare nuovo interesse per il rock.
Il fenomeno che caratterizzò il decennio comunque fu quello della frammentazione
stilistica, della definitiva fine dell'unità ed integrazione sottoculturale, conservata in
alcune forme minoritarie e ininfluenti. L'aspetto estetico costituiva la principale linea
divisoria tra genere e genere, trovando nel “gusto” il principale indicatore di scelta tra
generi differenti. Sebbene gli strati proletari continuassero a preferire generi fortemente
caratterizzanti come il metal o il rap, la cultura media trovò nella fine dell'ascrittività
rispetto al genere un importante mezzo per far fronte alla crescita quantitativa di
proposte musicali. L'apertura mentale dei settori progressisti della classe media portava
ad approcciarsi ai vari generi passando dall'uno all'altro in nome di un'unità nella
frammentazione. Negli artisti lo stesso approccio si poteva constatare nella sempre più
alta ibridazione musicale tra rock e elettronica (di cui i Radiohead costituirono
l'esempio più importante), come nello sperimentalismo post-rock, il quale univa
conoscenza della storia della musica e interesse per le forme contemporanee in un
genere dai confini estesi e mutabili.
5.1 Da sottocultura a scena
A partire dagli anni '80, l'analisi sottoculturale iniziò a non rivelarsi più adeguata per le
nuove conformazioni delle culture musicali giovanili. I caratteri militanti della
produzione e dell'ascolto di musica alternativa, intesa come forma di resistenza, sia
simbolica che pratica, consapevolmente antagonisti rispetto al mainstream, passavano in
secondo piano, relegandosi in alcuni sottogruppi minoritari, trovando in una
connessione più fluida e meno ascrittiva rispetto allo stile musicale. Inoltre gli anni '80
rappresentarono un decennio di frammentazione dell'unità sottoculturale e di
proliferazione di sottogeneri (Muggleton, in Bennett, Kahn-Harris, 2004). Occorreva
dunque una nuova analisi sociologica capace di comprendere come la cultura influisse
sulla società dopo la scomparsa del punk, ultimo grande paradigma sottoculturale.
L'opera di Bourdieu segnò un primo tentativo di distacco dall'analisi militante e
dall'approccio semiotico della scuola di Birmingham. Per Bourdieu le configurazioni di
gusto si trovavano ad essere molto meno autonome di quanto non fossero per sociologi
come Hall e Jefferson. Nonostante infatti nell'analisi del CCCS gli stili musicali fossero
fortemente connessi all'appartenenza di classe (Willis, 1969, Hall e Jefferson, 1976), gli
stessi erano anche il frutto di una scelta, di un'elaborazione, di una manipolazione
cosciente e coerente volta a connotare l'appartenenza ad uno stile musicale dai caratteri
conflittuali ed antagonisti (Hebdige, 1979). Le sottoculture del dopoguerra erano
strumenti di resistenza della classe operaia e non conformazioni di gusto derivanti
proprio dall'appartenenza specifica ad una data categoria sociale. Nell'analisi della
scuola di Birmingham gli individui erano capaci di selezionare vari aspetti da inserire
nel proprio stile musicale, spesso travalicando i confini della propria appartenenza di
classe. Si pensi alle ambizioni di scalata sociale degli hipsters o dei mods, ma anche al
poliedrico collage composto dai punk nel 1977. Il proprio contesto sociale era la base di
partenza, non un limite, un ambiente destinato a condizionare gusti, preferenze e scelte.
Bourdieu interpretava invece lo stile di vita, inteso come l'insieme delle attitudini
estetiche, come un segno di distinzione rispetto alle altre classi sociali (Bourdieu, 1984).
Durante gli anni '90 il termine stesso di sottocultura non sembrava più rappresentare
un'adeguata cornice concettuale entro cui racchiudere le dinamiche sociali che
animavano i club, i rave e l'ascolto della pop music.
Il soggetto limitato della ricerca del CCCS, i giovani della classe operaia nell'Inghilterra
del dopo-guerra, non era più una categoria sufficiente per la comprensione delle nuove
manifestazioni culturali, sempre più interne e funzionali al sistema del consumismo,
sempre più slegate da connotazioni oppositive ma mera cultura consumistica dei
teenager, scelta perché “divertente” più che per motivi di resistenza nei confronti della
cultura madre (Bennett, Kahn-Harris, 2004).
La globalizzazione cominciò a far mettere in discussione la specificità locale delle
analisi della teoria sottoculturale, grazie ad autori come Waters (1981), e Brake (1985)
già negli anni '80, per essere poi approfondita con l'esplosione della club culture nel
decennio successivo (Bennett, Kahn-Harris, 2004).
Il sistema sempre più pervasivo dei media inoltre sembrava fornire la maggior parte
delle risorse ideologiche che i giovani utilizzavano per l'elaborazione delle loro culture
di gusto, di modi di vita alternativi, non per forza oppositivi, al mainstream (Berzano,
Genova, 2008). Gli studi di Sarah Thornton sui clubbers (1995) rivelavano che il
capitale sottoculturale, concetto declinato da Bourdieu, era una risorsa ideologica grazie
alla quale accrescere il proprio status. La classe finiva di essere al centro dell'analisi,
ritorvandosi offuscata dalle nuove distinzioni sottoculturali (Thornton, 1995). La nuova
autenticità in stili underground, come quello rave, era più l'esigenza di rimanere
underground per conservare un'esclusività distintiva che per le caratteristiche resistenti
dell'underground. Il rapporto con il mainstream non era da intendere nei parametri di
uno scontro, ma in quelli della distinzione: l'esclusività della sottocultura permetteva di
tracciare i confini tra sottocultura (o altro mainstream) e mainstream, in una continua
distinzione tra cosa fosse “in” e cosa fosse “out”, con la conseguente creazione di
segnalatori simbolici capaci di connotare di autenticità i propri gusti (Muggleton,
Weinzierl, 2003).
La depoliticizzazione delle sottoculture, le cui pratiche avevano, nell'analisi classica,
una natura politica latente (2003), sembrava andare di pari passo con gli sviluppi del
post-fordismo il quale, grazie all'innovazione tecnologica ed informatica, poteva
permettersi di superare il modello di produzione standardizzata di massa per offrire una
alta differenziazione qualitativa del prodotto. La frammentazione degli stili musicali si
inseriva dunque in questo contesto, trovando quindi nelle logiche di funzionamento
stesse del sistema capitalistico le basi della differenziazione stilistica musicale, forma di
“differenziare il portafoglio” per aumentare il bacino di consumatori. La fine del potere
di influire politicamente sulla società della musica in quanto espressione simbolica di
una resistenza, il liquefarsi del legame tra stile, musica e identità portò alla critica e
all'abbandono della prospettiva sottoculturale e al nuovo campo degli studi post-
sottoculturali, inaugurati da Redhead e Muggleton negli anni '90 (Bennett, Kahn-Harris,
2004). Lo stile in sé non sembrava più essere sufficiente per resistere (Muggleton,
Weinzierl, 2003), i raggruppamenti giovanili basati sullo stile non erano più ambiti
grazie ai quali costruire un sistema simbolico di critica e di alternativa oppositiva, ma
spazi interni ad un mainstream sempre più multisfaccettato.
La creazione del MIPC (Manchester Institute for Popular Culture) andava proprio nella
direzione di voler fornire una critica all'impostazione sociologica classica partendo
dall'analisi della “rave culture”, la quale sembrava annullare i confini di classe e le forti
connotazioni identitarie fornendo un passatempo giovanile incoerente e disomogeneo
(Redhead, 1993).
Il concetto postmoderno di fluidità, analizzato da Bauman nei suoi ultimi lavori, inteso
come un venir meno dei forti legami sociali tipici della società produttivista
conseguente all'avvento di quella consumista basata su legami deboli, sull'incertezza,
sulla disaffezione politica e partecipativa (2000), era declinato nell'ambito degli stili
musicali da nuove categorie come quelle di tribù (utilizzata da Maffesoli (1988) o da
Bennett (1999) e di scena, prospettiva inaugurata da Irwin (1977) e sviluppata da Straw
(1991) (Berzano, Genova, 2008).
Il concetto di “tribù” coinvolge aspetti fluidi e altri rituali. Non si trattava più di
appartenenza ascrittiva ad una forma di espressione culturale “eroica” (Muggleton,
Weinzierl, 2003), ma una forma di partecipazione casuale, non vincolante e soprattutto
non in grado di definire un rapporto armonico e diretto tra classe, stile e giovenù. La
tribù diveniva la nuova forma di socialità postmoderna in un contesto dove l'identità era
sempre più incerta, dove i rapporti e i legami erano sempre più deboli. L'organizzazione
culturale doveva rispondere a questi cambiamenti modellandosi su criteri partecipativi
analoghi. Per Maffesoli (1996), le tribù riuscivano ad essere integrative e distintive,
plurali, nello stesso tempo. Sebbene le pratiche di eventi come i rave fossero ritualizzate
e collettive, le individualità avevano più risalto rispetto al soggetto collettivo. I membri
della tribù si servivano del gruppo per soddisfare i propri bisogni individuali piuttosto
che per aderire ad un qualche valore condiviso.
Esistono anche teorie che considerano proprio la nuova rave culture come una nuova
espressione musicale capace di svincolarsi dalle logiche del mainstream, trovando
nell'illegalità, nei canali di distribuzione informali, nelle tecniche di produzione dedite
al bricolage, una vicinanza con i raduni rock degli anni '50 ed una simile impostazione
critica ed anti-sistema (Fabbri, 2008): “i rave parties sono proprio un modo dei giovani
di evadere dalle sollecitazioni delle discoteche commerciali, e dalla loro atmosfera
competitiva” (pg. 193).
Andy Bennett (2004) utilizza il concetto di scena per individuare uno spazio culturale,
un insieme di relazioni, che possono essere locali, trans-locali e virtuali. Il superamento
del forte radicamento locale delle analisi di Birmingham trovava compimento in un
concetto maggiormente dinamico, in grado di includere al suo interno più contesti
spaziali, nonché di essere valido per descrivere l'insieme di musicisti e ascoltatori.
L'esigenza di abbandonare la prospettiva di classe vedeva nel concetto di scena uno
strumento adeguato, in quanto l'appartenenza ad una scena non era condizionata e
limitata dall'appartenenza ad un determinato gruppo sociale o etnico, ma poteva
attraversarli e superarli entrambi. “La scena offre la possibilità di esaminare la vita
musicale nelle sue miriadi di forme, considerate sia dal lato della produzione che del
consumo, e i modi in cui ognuna di queste interseca le altre forme” (Bennett, 2004).
Gli anni '90 accentuarono dunque quella che per Peter J. Martin (in Bennett, Kahn-
Harris, 2004) è la decostruzione dei concetti collettivi di stato-nazione, i cui confini
vennero messi in discussione dalla globalizzazione, di classe sociale, non sufficiente a
dipingere la conformazione sociale post-moderna, di organizzazione, intesa come
sistema più o meno integrato.
La perdita di riconoscibilità e compattezza dei gruppi sociali che aderivano alle nuove
“culture di gusto”, la perdita di eroismo antagonista tipico delle sottoculture, la fine
della spettacolarizzazione della gioventù, l'internità dei sottogeneri al mainstream
furono gli aspetti più visibili delle culture musicali degli anni '90.
5.2 Il grunge
A partire dalla metà degli anni Ottanta, a Seattle, vari gruppi rock iniziarono a dar vita
ad un revival dell'hard rock degli anni '70, destinato ad evolversi in una scena dalle
caratteristiche estetiche e dalle sonorità riconoscibili che prese il nome di “grunge”. I
pionieri della scena, Green River, Mudhoney, Screaming Trees, prepararono il campo
per il più tardo successo commerciale del genere, sorto senza pretese di affermazione
nelle classifiche. La caratteristica della nuova interpretazione delle sonorità hard era
quella di un abbandono della sicurezza ostentata dalle band heavy dei '70 (Led
Zeppelin, Deeep Purple, Black Sabbath) per concentrarsi sulla forza dei riff, dal valore
catartico e liberatorio, i quali celavano tuttavia una disperazione esistenziale che unita
ad una trasandatezza e ad un cinismo tramandato dall'era punk forniva le coordinate
valoriali ed estetiche della scena (Reynolds, 2007).
Grunge significava “sporco”, “trasandato”, costituendo l'appellativo delle generazioni di
fine anni '80, dall'abbigliamento trascurato, i cui jeans strappati erano un segno
distintivo, così come i capelli lunghi e incolti.
Il lato estetico rappresentava un ennesimo esempio di collage culturale (Hebdige, 1979),
andando a prendere spunti dalla tradizione country-folk americana (i camicioni a quadri,
Neil Young), da quella hippie (i capelli lunghi) fino a quella punk (abiti laceri) e heavy
metal (giubotti di pelle e violenza sonora).
Il rifiuto della superficialità dell'aspetto esteriore passava per una celebrazione
dell'introspezione psicologica e della chiusura in sé stessi, unita ad un bisogno di urlare
le proprie ansie e la propria ansia con voce roca e rabbiosa.
Nonostante la scena fosse nata negli Ottanta, questa trovò il successo, riunendo fan in
tutto il mondo, solo nei primi anni '90, epoca in cui quella grunge divenne una moda e
un vero e proprio fenomeno massmediatico.
Tutto ciò avvenne grazie ad una band che riuscì ad accedere alla programmazione di
MTV, i Nirvana, passati inosservati nel 1989 con il debutto di “Bleach” ma consacrati
come idoli del rock nel 1991, data dell'uscita dello storico “Smells Like Teen Spirit”.
Il rock ritornava ad essere un fenomeno aggregante, nonché una spia del sentire
generazionale dell'epoca, un confusionario e disilluso approcciarsi all'era post-guerra
fredda con la consapevolezza che poco era cambiato.
I Nirvana fornirono al momento giusto uno spaccato delle sensazioni evidentemente
diffuse di una generazione. L'album finì subito ai primi posti delle classifiche e il video
di Smells Like Teen Spirit divenne obbligatorio nei palinsesti di Mtv.
Scansando la psichedelia annebbiata dei britannici shoegazers i gruppi grunge
affrontavano di petto la realtà, salvo riconoscere subito la propria impotenza.
Ad ogni modo il grunge non fu solo quello dei Nirvana. Gruppi come Pearl Jam e Alice
in Chains, Soundgarden e Smashing Pumpkins, fornirono della varianti del genere
capaci di allargare i confini estetici del movimento di Seattle, andando a concentrasi
sulle sonorità hard rock piuttosto che su quelle heavy metal.
Tuttavia l'incapacità del grunge di generare valori positivi e condivisi finì col renderlo
strettamente identificabile con gli idoli che si esibivano sul palco. Le pratiche sociali
legate al genere, invece di contenere significati politici latenti, rappresentavano un
abbandono e una perdita di speranze. La morte di Kurt Cobain, avvenuta per suicidio
nel 1994, era così anche la morte del grunge, genere pessimista e senza prospettive, il
cui successo commerciale non aveva fatto che accentuarne l'inadeguatezza.
5.3 Il Brit pop
Una volta esaurita la novità del grunge, assieme alla sua forza capace di ridare alla
scena americana il primato sul fronte del rock, i britannici cercarono di approfittare
dell'improvviso vuoto per far valere la britannicità del sound.
Questo nuovo scontro culturale Usa-Gran Bretagna mette l'accento su una costante della
storia del rock: quella di non essere mai stata, se non in sporadici casi, una storia
unitaria, avendo più linee divisorie al suo interno. Una di queste fu la distinzione netta
tra musica nera e musica bianca. L'altra fu quella tra pop americano e pop britannico. La
consapevolezza con la quale inglesi e americani constatavano questo rapporto
competitivo si rendeva evidente sia dal fascino che gli americani provavano per un'idea
romanticizzata di Inghilterra, sia dai toni generalmente più cerebrali, riflessivi e colti dei
britannici, che dai coscienti tentativi di band come gli Smiths (Morrisey si avvolse nella
bandiera inglese durante un concerto, chiamò un suo pezzo The National Front
Disco...), i Manic Street Preachers, gli Stone Roses, i numerosi gruppi jungle e Uk
garage della scena elettronica e le band del genere brit pop di dare un contenitore
musicale alla britannicità. Il bisogno di “riportare tutto a casa”, sforzo nel quale si
impegnarono le band inglesi dal '85 in poi, era percepito come un'esigenza
particolarmente dopo il risalto e il successo del grunge.
Uno delle prime band a poter essere catalogata come brit-pop, fu quella dei La's, formati
nel 1986 ed esorditi su disco nel 1990. Il sound dei La's era un tributo al pop inglese a
partire dalle melodie di Beatles e Kinks, fino ad arrivare alle recenti suggestioni degli
Smiths.
Ma i primi che giunsero a conquistare lo status di vere e proprie star furono gli Suede di
Brett Anderson, nati proprio nel periodo di massimo splendore del grunge statunitense,
e proprio per questo impegnati nella ricerca di sonorità tipicamente inglesi. In questo
caso furono riaffermate le sonorità dell'epoca del glam rock, grazie anche all'estetica
androgina ed efebica di Anderson, vicina a quella del giovane David Bowie, ma fu
anche riconsiderata certa new wave britannica come quella dei Jam e degli Xtc.
La necessità di riportare in Inghilterra il pop fu confermata dallo straordinario successo
che la band ebbe nelle classifiche e nelle riviste musicali, vedendosi celebrare ancor
prima dell'uscita dell'esordio, datato 1993.
I gruppi definitivi del genere furono però i Blur e gli Oasis, i quali crearono tra di loro
una vera e propria conflittualità: come per il binomio Beatles e Rolling Stones, i Blur
furono catalogati come borghesi mentre gli Oasis venivano recepiti come i portavoce
dell'Inghilterra operaia del nord.
Il dato significativo fu però quello che, come afferma il critico Simon Reynolds in un
articolo del 1995 apparso su Melody Maker (2007), i gruppi britannici riuscirono ad
entrare nelle Top Ten al posto dei cugini grunge americani, e lo fecero proprio calcando
le caratteristiche britanniche, dall'accento cockney ai riferimenti alle band storiche
(Beatles su tutte).
Di fronte agli incroci tra i generi più disparati che stavano trovando luogo grazie alle
sottoculture elettroniche d'Inghilterra, l'operazione del brit pop fu senza dubbio
reazionaria, musicalmente parlando.
5.4 Il Post-rock
Il post-rock fu uno dei movimenti musicali più innovativi sorti negli anni '90, nonché un
ottimo esempio da poter essere analizzato con la categoria di Andy Bennett di “scena”
(1999, 2004).
Il post rock rappresentava il tentativo di ripensare al rock in un'epoca in cui le spinte
innovative sembravano essere in mano al campo dell'elettronica. Il rock aveva perso la
capacità di trarre dall'unione tra ritmo e melodia delle caratteristiche innovative ed
inedite (Reynolds, 2007), riuscendo per lo più a rinvigorire in maniera personale e ad
adattare al sentire contemporaneo stili passati sintonizzati sulle stesse frequenze (si
pensi al grunge).
Gli artisti post-rock, un termine generico adottato da Simon Reynolds (1994) per
descrivere un approccio alla strumentazione più che una vera e propria scena, unirono i
generi elettronici moderni, in particolare il dub e l'ambient, andarono a riprendere le
lezioni del kraut rock degli anni '70, si ispirarono all'avanguardia contemporanea e al
jazz, per un utilizzo “non rock” della strumentazione rock. Le chitarre erano usate più
per creare atmosfere dense di feedback, per dar vita a tessiture armonichee più che per
la melodia; il ritmo smetteva di essere il motore della musica per riassumere il ruolo che
aveva nella musica classica, ovvero sottolineare gli accenti. L'armonia tornò ad essere
più importante del ritmo (Cilia, 1999).
Nel caso dei pezzi post-rock, questi non erano una forma per incarnare i valori di uno
specifico gruppo sociale, ma si trattava di creazioni autoreferenziali, dal valore e dal
significato sperimentale, anti-commerciale più per la sua estetica complessa e per la
lunghezza dei brani che per una precisa volontà politica.
Il carattere locale era ben evidenziato dal fatto che ogni sfumatura del calderone post si
definiva e si caratterizzava in base alla provenienza dei suoi artisti. Eddy Cilia (1999)
suddivide le scene proprio in base al posizionamento geografico, individuando un post-
rock Britannico, un altro americano basato a Chicago, piuttosto che a Louisville, uno
canadese e anche uno francese ed italiano. Tuttavia la base localista del post rock non
faceva del genere un'espressione chiusa. L'alto uso di tecnologie informatiche, l'utilizzo
dei computer e della rete permetteva alla scena di farsi trans-locale quando non
addirittura virtuale. Lo spazio culturale generato dal post-rock non aveva nulla di
ascrittivo, non presentava particolari caratteristiche stilistiche di appartenenza, non era
per forza rivolto agli adolescenti, ma rappresentava uno sforzo artistico condotto da
artisti che erano spesso grandi conoscitori della storia della musica (ad esempio gli
Stereolab, i cui membri conoscevano bene sia la “chanson” francese che il krautrock
degli anni '70).
Furono però un'altra volta le innovazioni tecnologiche a permettere gli esperimenti della
scienza post-rock. Da un lato il CD fu confermato come supporto dominante, e furono
ristampati in CD numerosi lavori di gruppi passati, i quali furono in questo modo
riscoperti dalle nuove generazioni (1999); dall'altro la facile riproduzione del compact
disc permesso dalla diffusione del personal computer permise di erodere il potere delle
major. La rete di Internet infine spostò l'asse dai grandi centri di produzione culturale
alle periferie (Cilia, 1999).
La commistione di generi e l'accettazione dell'elettronica fece si che i confini del rock si
allargassero incredibilmente, ponendo fine all'ortodossia rock del “power trio ritmico”
(chitarra-basso-batteria) che aveva finora dominato.
5.5 Nuove controculture, i rave
Le sottoculture giovanili si sono spesso configurate come controculture, come espliciti
movimenti di ribellione e di opposizione alla cultura dominante. Il significato politico
latente dello stile divenne manifesto nello stile hippie o, dieci anni più tardi, in quello
punk, dando vita ad azioni esplicite e dirette di dissenso e di ribellione.
L'inghilterra degli anni '90, dopo il vuoto del decennio passato, fu animata da varie
forme di culture di resistenza (McKay, 1996) caratterizzate da uno stile di vita basato
sul “do it yourself”. Invece di abbracciare temi ampi e unitari, le nuove forme di
protesta erano dirette a contestare problemi specifici, riuscendo solo in un secondo
momento ad espandere le singole tematiche. Per McKay (1996) questo tipo di culture,
legate all'eredità antagonista hippie e punk, fornirono un nuovo paradigma di unità tra
cultura e politica, facendo dei propri stili di vita, delle proprie produzioni culturali le
oggettivazioni dei propri desideri utopici e ribelli.
In particolare l'influenza che gli anni '60 ebbero su queste nuove controculture
(traveller, squatter, raver) sembrava essere fondamentale per comprenderle. Molti
aspetti della cultura hippie come la musica, la droga, lo stile, furono rimodellati negli
anni '90 dai giovani impegnati a ricreare un contesto di pari dinamismo. In particolare la
cultura rave sembrò prendere spunto dai raduni hippie: non per niente l'estate del '88,
durante la quale si svolsero numerosi rave party in Inghilterra, fu definita la “Seconda
Summer of Love” (1996).
La questione fondamentale per tentare di contestualizzare i ravers, comprendendone la
vicinanza o la lontananza rispetto alla categoria di sottocultura, è però quella legata alla
dimensione politica. Uno dei maggiori punti di rottura tra l'analisi sottoculturale e quella
post-moderna trovava infatti origine nella constatazione che le moderne culture
giovanili fossero caratterizzate da un alto tasso di edonismo e di consumismo, che lo
stile fosse fine a se stesso e che la politica non faccesse più parte dell'ambito
sottoculturale.
Tuttavia esistono altre caratteristiche che avvicinano questo stile ad un significato
politico.
Tra i primi la sua unitarietà. I rave rappresentavano un rimedio alla frammentazione che
aveva scisso in tante “tribù” le culture giovanili dopo il punk: proprio nei luoghi scelti
per i rave si verificava un'unione tra le varie entità giovanili, il che poteva fornire un
rimando all'epoca hippie. Le basi aggreganti della cultura rave trovavano la propria
origine in una serie di sviluppi socio-politici di cui il più importante era la
riproposizione dell'anatagonismo tra il nord e il sud dell'Inghilterra (1996). Lo stile
Madchester, capace di unire pop e acid house e di trovare il proprio ambito privilegiato
nel rave, era non a caso un'espressione regionale che trovava nelle giovani generazioni
del nord (Manchester) di estrazione operaria i membri cardine. La categoria di
“comunità” cara all'analisi del CCCS si riconfigurava in tal modo sfuggendo alle
dinamiche omologanti della globalizzazione culturale e del primato dei grandi centri, o
nodi, della rete globale.
Tuttavia gli stili di questi giovani, a causa della loro scarsa spettacolarità, rendevano
difficile mantenere l'analisi sociologica nella classica impostazione di Birmingham, in
quanto gli elementi “resistenti” legati alla ricerca di stili appariscenti era profondamente
residuale.
Sta di fatto che l'apparire di un'opposizione territoriale, la quale contendeva a Londra,
città globalizzata e internazionale, il primato culturale, è per McKay un primo indice di
politicizzazione della cultura rave (1996). Oltre a questo va tenuto conto del carattere
specifico degli ambienti in cui questa manifestazione stilistica si realizzava: i warehouse
parties si svolgevano in edifici abbandonati o occupati, erano eventi esplicitamente
illegali e spesso gratuiti. La rricerca di spazi autonomi, “altri”, esprimeva l'esigenza di
porsi al di fuori della legalità, delle reti di controllo sociale, dalle logiche e dai canali di
distribuzione ufficiali dei mass media, dalla società dominante e dalla sua cultura.
Un altro fattore importante nell'analisi del rave è quello tecnologico. Se gli hippie
rifiutavano la tecnologia in quanto strumento innaturale legato alla guerra e alla
distruzione o di alienazione del lavoratore, secondo l'analisi di Rozak (1968), i ravers
abbandonavano questa diffidenza per celebrare una volta per tutte i nuovi strumenti
tecnologici (McKay, 1996), assunti come propri, resi funzionali alle proprie esigenze.
Un ultimo aspetto è quello strettamente musicale. La musica rave eliminava
completamente la vocalità, riducendosi ad una celebrazione del ritmo, il quale forniva
un eccitante incalzante e adatto ad assecondare le percezioni dello sballo. Il contenuto
quindi si semplificava, ogni possibilità discorsiva veniva espulsa dal contesto dei raver
(1996), l'aggregazione sembrava più essere una somma di individualità che qualcisa di
superiore.
Esistono dunque varie maniere di intendere la cultura rave: da una parte come forma
edonistica ed individualistica, dall'altra come una forma evoluta di cultura resistente.
Nonostante esistano elementi a sostegno di entrambe le tesi, l'elemento più importante
sta nella originale impostazione delle possibili combinazioni. Se da una parte si
conservavano gli aspetti resistenti ed antagonisti, sebbene latenti, dall'altra parte lo si
faceva con la creazione di un'atmosfera più che di un insieme condiviso di valori e
aspirazioni (1996), cercando l'invisibilità e l'anonimato piuttosto che tramite la
spettacolarizzazione, rivalutando un territorialismo periferico più che mirando ad un
internazionalismo cosmopolita.
Per giungere ad una sintesi, se considerare il rave una sottocultura politicizzata presenta
troppi ostacoli, di certo si potrebbe arrivare a concepirlo come una prefigurazione di
nuove forme di coscienza collettiva (1996).
5.6 Conclusioni
Con gli anni '90, i suoi numerosi generi e la ripresa della discussione sociologica si
chiuse definitivamente la fase punk del rock, iniziata nel '77. Tenendo a parte i gruppi
minoritari di opposizione diretta, le culture giovanili di questo periodo non
abbracciavano progetti politici manifesti (Berzano, Genova, 2008).
Il confine tra finzione e realtà, o meglio tra cultura e realtà, fu annullato da un carattere
della rappresentazione che privilegiava gli aspetti della vita di tutti giorni, trovandosi
contrassegnato da una forte estetica della rappresentazione (Chaney, in Bennett, Kahn-
Harris, 2004). Sempre per Chaney (2004) gli artisti dell'epoca moderna hanno esplorato
innumerevoli vie per ironizzare o esplicitare la riflessività del processo di
rappresentazione proprio della cultura e dello stile. La cultura moderna quindi, anche a
causa di una sempre più permeante cultura consumistica di massa (2004), iniziò negli
anni '90 a riflettere ed elaborare la realtà, non ad evaderla o trasfigurarla. La
spettacolarizzazione degli stili giovanili assumeva in questo contesto un diverso
significato rispetto a quello dei decenni passati. Di fronte al tentativo di costruire una
narrazione coerente e lineare della sfera dominante, le culture giovanili mettevano da
parte la ricerca dell'autenticità per mettere in atto una voluta finzione, un artificio che
svelasse la falsità della rappresentazione dominante.
La crisi dell'autenticità vista come acccumulazione di capitale sottoculturale va ricercata
anche nel fatto che l'economia sempre più globalizzata, a partire dagli anni '80, causò la
progressiva scomparsa di numerose strutture di produzione e distribuzione indipendenti
(Muggleton, Weinzierl, 2003), impedendo la formazione di messaggi, pratiche e stili
sottoculturali e la loro diffusione. L'integrazione del capitale sottoculturale nelle
industrie culturali internalizzò l'alterità stilistica svuotandola di connotazione politica.
Le culture oppositive nate in questo contesto furono dunque costrette ad abbandonare la
via stilistica come forma autosufficiente di critica al capitalismo, andando a
caratterizzare il loro antagonismo in forme dirette, politiche, di contestazione (2003).
La natura più o meno latente del significato politico contenuto nello stile sottoculturale
trovò un punto d'arresto nella globalizzazione della cultura dominante, divenuta per Lull
(2001) una “supercultura” priva di significato a causa di un'eccessivo sovraccarico di
significati legati assieme per mezzo di un metodo collagistico, frequentemente utilizzato
su giornali, televisioni, film e più in generale nelle strategie moderne di marketing
(Chaney, in Bennett, Kahn-Harris, 2004).
In questo senso la sottocultura come “resistenza stilistica” fu privata del suo potere
sovversivo e della sua autenticità antagonista.
CAP. 6. LO STATO DELLE CULTURE GIOVANILI NEL 2000
Il dopo Birmingham ci ha costretto a ripensare profondamente alle sottoculture,
fornendo analisi in grado di mettere in crisi le categorie del secondo dopoguerra e
inaugurando un nuovo millennio nel quale i raggruppamenti stilistico-musicali giovanili
venivano ad assumere nuove forme e nuovi significati. Gli anni '80 avevano aperto un
processo in cui la distinzione netta tra mainstream e sottocultura perdeva le sue
classiche valenze resistenti ed oppositive. Il mainstream sembrava invece integrare le
forme culturali minoritarie, facendone un utile elemento innovativo per lo sviluppo
dell'industria culturale stessa (Berzano, Genova, 2008).
Le forme di aggregazione giovanili legate alla musica sembrano essere oggi sempre più
mercificate, sempre più legate ad aspetti estetici e a configurazioni di gusto personali,
facilmente intercambiabili e prive di una forte unitarietà interna.
La questione che ci si pone va però oltre all'analisi della presunta scomparsa della
sottocultura, costringendoci a considerare il mutamento e la perdita di coesione della
cultura dominante, elemento fondamentale perché le sottoculture stesse si possano
definire, classificare e distinguere. Nelle criticità evidenziate durante gli anni '80 infatti
si annunciava la vittoria della mercificazione, un trionfo della cultura massificata che
rendeva innocue e prive di significato le culture minoritarie. Esisteva dunque un'idea
precisa di cultura dominante ed era la sua vittoria a porre fine alla subcultura.
Le attuali scene musicali si pongono sicuramente in questo percorso di svalutazione e
sembrano dunque perdere del tutto quei forti connotati che legano una comunità
stilistica ad un territorio, a dei valori o ad una classe sociale.
Tuttavia non basta ridurre ad una vittoria del “grande capitale culturale” la fine del
potere sovversivo e aggregante delle culture minoritarie: bisogna comprendere come
queste abbiano dovuto far fronte ad un mutamento di questo capitale, alla sua messa in
rete, al suo globalizzarsi e al suo adattarsi ad una domanda sempre più differenziata. La
sempre più diffusa espansione di scene virtuali (Bennett, 2004), la quale ha causato a
partire degli anni '90 un'inevitabile denaturazione degli aspetti ascrittivi ed originari
della musica, rendendo più fluidi i rapporti tra appartenenti alla sottocultura, va ricercata
nello sviluppo di Internet e nelle potenzialità che la rete offre.
Si pensi ad esempio all'indefinitezza di una scena vaga e trans-locale come quella
“indie”, la quale sembra essere più un contenitore di sensibilità variegate che un sistema
di elementi compatti, la quale grazie alla diffusione virtuale riesce a mettere in
collegamento diverse scene locali.
I consumatori di oggetti culturali musicali passano perlopiù da un genere all'altro, i
musicisti effettuano spesso ibridazioni tra più generi, unendo elettronica e folk, musica
etnica a hard rock e così via. L'immenso archivio virtuale permette sia di entrare in
contatto sincronicamente con le aree più disparate della terra, vedendo fiorire scene
musicali periferiche come quelle canadesi, oppure come quelle svedesi e finlandesi o
islandesi oppure ancora come quella neozelandese, sia di far scoprire alle nuove
generazioni, sul piano diacronico, i generi passati, compresi quelli più di nicchia.
L'esistenza di numerose webzine, di portali di critica e discussione musicale
socializzano enormemente la diffusione di parametri critici e di informazioni sulle più
disparate novità delle scene musicali, portando si ad un livello dilettantistico la critica,
ma fornendo anche la diffusione di un atteggiamento analitico nei confronti della stessa,
creando aree alternative ai grandi canali di diffusione di massa quali Mtv.
L'offerta dell'industria culturale permette un'ampia personalizzazione del consumo,
facendo della molteplicità di generi il suo punto di forza, parendo non come un sistema
omogeneo e compatto, ma come una somma di stili particolari (Berzano, Genova,
2008).
Di fronte quindi alla disomogeneità della cultura dominante, i cui mass media hanno un
ruolo sempre più decisivo e riconosciuto per veicolare i messaggio subculturali, le
stesse subculture non possono che perdere la loro unitarietà interna e la conformità dei
membri appartenenti. Contemporaneamente però, si vedono nascere sempre più canali
autonomi dove gli appassionati di musica possano fornire punti di vista specifici e
propri rispetto alle scene che i media ufficiali diffondono come semplici e neutrali
differenziazioni stilistiche.
La configurazione postmoderna delle sottoculture non prevede più forme di resistenza
derivanti dallo stile. Se infatti un tempo bastava adottare abiti spettacolari per
contrapporsi fortemente ad uno stile dominante ritenuto opprimente o eccessivamente
omogeinizzante, oggi le semplici diversità stilistiche sono considerate come fenomeni di
pura moda, non connotati e non connotanti. Il piano si sposta dunque verso un consumo
cosciente, personale, non più sulla categoria di resistenza (Berzano, Genova, 2008).
L'appartenenza al gruppo subculturale ed al suo stile non è più la caratteristica capace di
sottolineare le categorie di autenticità e identificazione. L'identità personale non deriva
più dall'identificazione, seppur minoritaria, irriverente e spettacolare, ad un gruppo, ma
dalla valorizzazione della propria evoluzione personale, dalla valorizzazione della
propria sensibilità. La scelta è il cardine dello “stile fai da te” dell'epoca post-moderna,
caratterizzata da un “supermarket degli stili” che rende innocua l'apparenza estetica in
sé (2008).
L'eterogeneità stilistica permette in questo modo di far valere la propria identità
attraverso parametri meno vincolanti e soffocanti, rinunciando ad omologarsi tanto alla
società nel suo complesso quanto ad un sottogruppo particolare.
La vera cesura netta tra epoca moderna e postmoderna è quella del trionfo dell'Io sulle
categorie collettive del secondo dopo-guerra.
6.1 Per una nuova definizione di sottocultura
Il concetto analitico di sottocultura può essere ancora valido, ma esige di essere
riadattato alle conformazioni attuali di aggregazione giovanile legata alla musica e allo
stile. Dagli anni '80 vengono progressivamente meno due nuclei tematici fondamentali:
quello di distinzione e quello di resistenza (Berzano, Genova, 2008). Tuttavia esistono
numerosi esempi di come le categorie del CCCS non siano svanite completamente, ma
che siano invece mutate, adattandosi ad un contesto sociale e culturale diverso.
Una cultura dominante frammentaria e disomogenea, un sistema mediatico sempre più
pervasivo, una perdita dei collanti sociali derivanti dalla globalizzazione e dalle
politiche neo-liberiste sono solo alcuni dei grandi fenomeni che hanno cambiato il volto
dei sistemi sottoculturali giovanili dopo gli anni '80.
Occorre dunque riadattare il concetto di subcultura al nuovo contesto sociale,
individuando innanzitutto una definizione più adatta. Berzano e Genova (2008)
sottolineano il bisogno di superare il legame tra subcultura e comunità, in quanto
l'appartenenza subculturale risulta essere sempre più fluida e sempre più indipendente
da un contesto specifico e ascrittivo. Occore anche andare oltre al concetto di “massa”,
caratterizzato da omogeinità e irrazionalità, come a quello di “pubblico” caratterizzato
invece da individui attivi e razionali. La sottocultura invece sempra essere costituita da
attività caratterizzate da un alternarsi di “ragione” e “passione” (Berzano, Genova,
2008).
Uno dei primi studiosi a tentare di dare nuova forma al concetto di subcultura fu Brake
(Berzano, Genova, 2008), il quale riprese in considerazione il bisogno di resistere alla
subordinazione della cultura dominante, riconsiderando dunque il ruolo della subcultura
di offrire soluzioni simboliche ai problemi derivanti dall'esistenza in un dato contesto
socio-economico. L'identità offerta dalla sottocultura permette di superare l'identità
ascrittiva derivante dalla propria, apparentemente inesorabile, appartenenza di classe. La
sottocultura si dimostra un valido strumento di ridefinire la propria identità individuale
per svincolarsi dalle opprimenti logiche della propria realtà quotidiana. La declinazione
in questo caso è posta non sulla creazione di una comunità alternativa, ma di una
individualità alternativa, autonoma e autoespressiva, che Muggleton riconduce ad
un'esigenza propria dell'epoca post-moderna (Berzano, Genova, 2008). Questa analisi
declina l'esigenza di resistere slittando dal piano collettivo a quello individuale,
passando dall'idea di conflitto sociale a quello della costruzione alternativa del sé.
Tenendo poi conto della perdita di significato della semplice distinzione stilistica, la
quale non può più disporre di stili dai confini rigidi, giunge da Hodkinson (2002), per il
quale la sottocultura è un fenomeno sociale che presenta le caratteristiche di distinzione
coerente, di identità, di coinvolgimento e di autonomia (Berzano, Genova, 2008). Per
Hodkinson dunque sono indispensabili le seguenti caratteristiche:
–un quadro di norme e valori condivisi che distinguano un gruppo da un altro;
–la formazione di un'identità collettiva che distingua insiders e outsiders;
–l'influenza dalle pratiche subculturali sulla vita quotidiana dei membri;
–l'autonomia nei confronti del sistema sociale circostante
Questo approccio tuttavia privilegia, come sostengono Fine e Kleiman (Berzano,
Genova, 2008), una considerazione “forte” di quello che invece risulta essere un
concetto sempre più debole. La sottocultura infatti non si presenta, nell'epoca post-
moderna, come un'entita statica ed immutabile, ma come un processo evolutivo che
richiede l'interiorizzazione individuale dei suoi membri. Invece della staticità prevale la
continua fluidità, in un dinamismo evolutivo che fa della sottocultura un fenomeno in
costante trasformazione e rielaborazione.
Berzano e Genova (2008) giungono così a sintetizzare le caratteristiche che permettono
di ridefinire il concetto di sottocultura: i raggruppamenti sottoculturali sono
caratterizzati da forme alternative di espressione distinte dal modello socio-culturale
prevalente, le quali pongono al loro centro gli “individui”, i quali interagiscono con gli
altri mebri condividendo una serie di norme e valori.
La sensibilità individuale è il nuovo parametro caratterizzante di formazioni non più
standardizzate, ma pluraliste e dinamiche, le quali conservano elementi di distinzione
con le realtà culturali circostanti, non ponendosi però in opposizione forte rispetto ad
esse (Berzano, Genova, 2008).
6.2 Sottocultura ieri e oggi: uno sguardo comparato
Per arrivare ad una ridefinizione del concetto di sottocultura occorre analizzare la
continuità o le cesure nell'evoluzione dei nuclei concettuali fondamentali dell'analisi
subculturale, in particolare per quanto riguarda il passaggio dalla versione di
Birmingham a quella post-moderna. Nella prospettiva di non abbandonare il termine
“sottocultura”, ancora in grado di identificare un gruppo che condivide specifici valori e
norme, che si pone in contrasto con gli atteggiamenti maggiormente condivisi nella
società dominante, che provvede alla distinzione dei membri di un gruppo da un altro e
che fornisce un'identità slegata da quella ascrittiva di scuola e classe, è necessario però
depurare il termine di tutti gli elementi incoerenti con le evoluzioni socio-storiche degli
ultimi decenni.
I principali oggetti di analisi saranno il rapporto delle sottoculture con l'esterno, le
forme di partecipazione sottoculturale e il ruolo dello stile nella società post-moderna. Il
tentativo sarà quello di mostrare come le categorie fondanti e caratterizzanti del
concetto di sottocultura, sebbene con i dovuti adattamenti, siano ancora valide.
Le sottoculture sono sempre state definite in relazione con la cultura dominante, oltre
che con la cultura dei genitori (Hall, Jefferson, 1976). Se però per gli studiosi di
Birmingham questo rapporto si configurava come oppositivo e come resistente, oggi,
pur permanendo una volontà di distinzione, questa non si configura come netta e
conflittuale. Ecco che la categoria di “distinzione” continua ad essere fondamentale per
la definizione della sottocultura, mutando però i significati di questo suo distinguersi. Se
in passato la distinzione avveniva in rapporto ad un mainstream compatto e coerente
(Berzano, Genova, 2008), oggi questo mainstream si trova ad essere frammentato ed
eterogeneo. Le sottoculture stilistiche, così come i sottogeneri musicali, sono integrati
nel sistema dominante, capace di rendere innocue le trasgressioni stilistiche riducendole
a fenomeni di costume, di moda. Di fronte a questo cambiamento del mainstream le
sottoculture si sono trovate a fare i conti con una perdita della loro autenticità intrinseca.
I giovani aderenti alle subculture, secondo Muggleton, vivono un processo di defusione,
durante il quale gli aspetti potenzialmente sovversivi dello stile vengono assorbiti
dall'industria culturale e mercificati, e quello della diffusione, durante la quale lo stile
particolare viene diffuso alla massa (Berzano, Genova, 2008). Se da una parte la
defusione erode l'autenticità dello stile, dall'altra la sua mediatizzazione massiccia lo
rende diffuso e conosciuto.
Di fronte a questo processo, la ricerca dell'autenticità della subcultura deve
necessariamente spostarsi su un altro piano, quello dei modi di partecipazione alla
sottocultura, quindi sul piano individuale e relazionale. Nelle relazioni tra individui,
all'interno del contesto sottoculturale, si generano quegli atteggiamenti che definiscono
differenti gradi di distinzione, distinguendo tra outsiders e insiders, generando gerarchie
e differenti livelli di coinvolgimento.
Il rifiuto della conformità, di cui in passato il rimedio stava nel conformarsi ad una
cultura alternativa rispetto a quella dominante, oggi si allarga all'interno dello stesso
ambito alternativo (Berzano, Genova, 2008). La ricerca della propria identità, in
un'epoca sempre più individualistica, si afferma nella sottocultura non tramite
un'accettazione pasiva delle norme e dei codici della stessa, ma attraverso il proprio
contributo attivo e cosciente, attraverso i propri personali apporti stilistici, estetici e
sensibili. La difesa della propria individualità sembra quindi essere il nuovo valore.
L'autenticità consiste a questo punto nel dimostraro il giusto grado di coinvolgimento
all'interno della sottocultura, dimostrando di essere un assiduo “traveller”, per usare un
termine di Sweetman (Berzano, Genova, 2008), e non un casuale “tourist”. La
padronanza del capitale sottoculturale diventa essenziale per dimostrare spontaneità nel
proprio rapporto con la sottocultura, evitando di apparire eccessivi, meccanici o forzati,
e dunque inautentici. Il capitale sottoculturale è funzionale alla distribuzione di diversi
status all'interno della sottocultura, divenendo il fattore principale per la distinzione
interna ed esterna (2008). Un forte punto di rottura con l'analisi del CCCS sta nella non
convertibilità del capitale subculturale in capitale economico (Thornton, 1998, in
Berzano, Genova, 2008), cioè nella forte autonomia delle sottoculture post-moderne
dall'appartenenza di classe. Le distinzioni subculturali mettono in ombra l'appartenenza
di classe fornendo un profilo culturale complesso e specifico, basato su diversi gradi di
coinvolgimento derivanti dalla conoscenza diretta dello stile di vita alternativo.
Un ulteriore elemento caratteristico alla partecipazione sottoculturale è quello della
presa di possesso e della risignificazione di oggetti di uso comune, i quali compongono
lo stile. Questo elemento permane nelle moderne sottoculture, tenendo però conto del
fatto che il processo di bricolage (Hebdige, 1979) tipico dello stile giovanile subalterno
non è più caratterizzato da una volontà parodistica, ma da un intento combinatorio
(Berzano, Genova, 2008), risultante dalla vasta possibilità di scelta nel già citato
“supermarket sottoculturale”. Permangono inoltre circuiti alternativi ed autonomi dalla
distribuzione di massa, si pensi ai negozi di usato o alle odierne etichette indipendenti
tipiche della produzione di musica “indie”, circuiti che, pur non essendo indipendenti,
svolgono la funzione di restringere il campo delle loro produzioni e di costituire spazi di
produzione e consumo per appassionati.
Di nuovo gli elementi cardine sono quelli della frammentazione e dell'eterogeneità,
contrapposti a quelli dell'unitarietà e dell'omogeneità. Lo “stile fai da te” (Berzano,
Genova, 2008) permette, atttraverso la già nota tecnica del collage, di andare incontro
alle esigenze personali di espressione creativa ed originale. All'appartenenza ad una
serie di norme rigidamente codificate si introduce il criterio di libera scelta all'interno di
un campo più o meno definito, dove è la personalizzazione dello stile a definire la sua
autenticità.
La frattura massima sembra essere quella dello “style surfing” (2008), fenomeno per cui
la fluidità nel passare da uno stile ad un altro è massima. L'adesione ad un gruppo non
deve quindi minare l'autonomia del singolo, sempre più insofferente alle affiliazioni
rigide e spersonalizzanti.
La sottocultura post-moderna dunque conserva il bisogno di distinguersi rispetto
all'ambiente culturale dominante, svolge ancora la funzione di dare un'identità, è ancora
caratterizzata dalla ricerca di autenticità, si attua ancora su un piano autonomo e distinto
rispetto al mainstream. Tuttavia questo avviene in un contesto frammentario, fluido e
individualistico, dove ai valori del gruppo si antepongono quelli della propria persona.
6.3 Punk e analisi post-subculturale: uno sguardo comparato
Per testare l'incompatibilità tra i vecchi fenomeni sottoculturali e i nuovi modelli
analitici e le trasformazioni interne al concetto di sottocultura, è utile tentare di
applicare le nuove categorie ad un paradigma classico dell'analisi sottoculturale: il punk.
Si dimostrerà come le attuali logiche di adesione ai gruppi subculturali siano inadatte
per descrivere il punk.
Uno dei primi punti critici sta nel fatto che il punk non può essere descritto senza
considerare il suo essere una subsocietà e una comunità. Secondo le analisi del CCCS i
punk facevano parte della working class britannica, di quel sottoproletariato che trovava
nella “sporcizia e nella rozzezza” (Hebdige, 1979, pg.66) dello stile punk una via
estremizzata di incarnare questa appartenenza strutturale. L'appartenenza socio-
economica dei punk era un elemento cruciale per la comprensione di questo stile. La
valorizzazione non solo delle contraddizioni di classe, ma anche dell'appartenenza
locale, era esplicitata attraverso elementi come la riproduzione dell'accento cockney, o i
richiami alla decadenza e mancanza di prospettive dell'epoca pre-tatcheriana.
Lo stile punk non può nemmeno essere analizzato come stile consumistico e
depoliticizzato. Sebbene infatti il punk fosse a-politico, nel senso di non avere
riferimenti valoriali, obbiettivi e rivendicazioni esplicite, il suo stile di vita si poneva
come una violenta opposizione ai valori culturali dominanti. Si trattava quindi di una
sottocultura resistente, la quale parodizzava gli elementi della modernità borghese con il
preciso intento di ridicolizzarli e criticarli. La denuncia dell'alienazione era un elemento
fondamentale per i punk, i quali mettevano in scena uno stile caotico, confuso,
iconoclasta ed anarchico. Lo stile era la rappresentazione dell'alienazione e della follia,
le esibizioni dei gruppi musicali rappresentavano lo sfogo rabbioso di generazioni che si
consideravano senza futuro.
L'estetica di questo stile inoltre era fortemente spettacolare. La distinzione per i punk
avveniva tracciando confini netti, non labili, tra il loro stile di vita e quello comune,
ricercando elementi scioccanti ed esagerati, stonati ed eccessivi per caratterizzare il
gruppo sottoculturale. Il vero punk era dunque chi inscenava un rifiuto totale e radicale
del conformismo borghese, facendo del suo corpo e del suo abbigliamento una
testimonianza spettacolare e visibile di questo rifiuto. Lo “style surfing” non era
ammesso: il punk era punk a casa come a scuola, la sua musica era quella dei gruppi che
si definivano punk, l'unica alternativa ammessa era il reggae come intermezzo nei
concerti (Hebdige, 1979).
Il punk era omologico, non frammentario e casuale. Il caos e la confusione semantica
erano funzionali alla creazione di uno stile di vita totale, coerente e compatto, con una
struttura interna ben precisa. La coerenza rappresentava ancora una indispensabile
caratteristica perché la sottocultura potesse esistere e connotarsi di senso.
Chi aderiva al sottogruppo dei punk lo faceva dunque perché nel gruppo trovava una
soluzione simbolica ai suoi problemi materiali, perché la sua adesione diveniva una
pratica significante e perché dal gruppo derivavano confini netti capaci di dare
un'identità ai partecipanti, i quali si ponevano in contrasto con gli outsiders.
Se ci si sofferma sul metodo del “cut up” (Hebdige, 1979) con cui l'estetica punk era
costruita, si può infine notare che il mix di stili non era un modo per eludere la propria
adesione totale ad un gruppo, ma un metodo di costruzione di caratteristiche estetiche e
culturali funzionali a dar forma a questo gruppo.
Rapporti con l'esterno resistenti ed oppositivi, forte conformazione ai parametri del
gruppo, ricerca dell'autenticità attraverso l'adozione di uno stile spettacolare, codici
culturali ed estetici unitari e compatti, fanno del punk una sottocultura che trova
nell'analisi di Birmingham una linea interpretativa più adeguata rispetto a quella post-
sottoculturale.
6.4 Conclusioni
Che si usi il termine scena, o il concetto di tribù, o si continui a parlare di sottoculture
con i dovuti aggiustamenti è indubbio che negli ultimi 30 anni le modalità di adesione
dei giovani alle culture capaci di legare musica, stile e gusto siano profondamente
mutate, così come si è ridotto il grado di influenza reciproca tra ascolto musicale e stile
di vita.
Se infatti la musica ha sempre intrattenuto dei forti legami con le subculture giovanili
oggi si nota un suo divenire sempre più un elemento di sottofondo, seppur
irrinunciabile. La musica perde dunque la sua capacità di aggregare grandi masse
giovanili, di trasmettere messaggi condivisi, di aggregare tensioni e pulsioni
generazionali, di essere elemento scatenante di fenomeni collettivi spettacolari,
dissenzienti, distintivi. Nello stesso modo lo stile, l'abbigliamento, ha perduto
progressivamente la capacità di rappresentare un segno espressivo collettivo in cui
riconoscersi, divenendo per lo più una moda passeggera, una scelta di gusto effimera.
Se in passato si poteva configurare una sorta di scala gerarchica degli elementi interni
alle sottoculture, scala in cui la musica occupava solitamente i posti più alti,
rappresentando una sorta di megafono grazie al quale venivano amplificate le istanze
generazionali, oggi il rapporto tra i segni distintivi interni alle culture giovanili sembra
porsi in senso orizzontale e fluido, per una combinazione variabile di fattori dove è
l'individuo a decidere, secondo quelle che sono le sue sensibilità, a quale di questi dare
più importanza.
Oggi sembrano essere proprio gli aspetti fenomenici, gli indicatori visibili di
appartenenza ad una sub-conformazione culturale, tra cui la musica, ad aver subito delle
trasformazioni radicali. Non esiste più la possibilità di catalogare in modo netto gli
“oggetti” caratterizzanti di un gruppo giovanile e quando questo avviene è evidente la
limitatezza e le forzature cui questo tipo di catalogazioni si arenano. Se Willis poteva
condurre un'analisi omologica sui motorbikers mettendo l'accento sulla coerente
combinazione tra appartenenza sociale, rock'n'roll, motocicletta e abbigliamento, oggi
tutto questo non è più possibile. Se hippie e punk trovavano nell'adesione ad un genere
musicale e ad un vestiario degli elementi aggreganti entro cui riconoscersi come gruppo,
oggi questo tipo di adesione forte cessa di esistere.
Tuttavia continua ad esistere, come visto nell'ultimo capitolo, la volontà di rendersi
autonomi rispetto alle norme dominanti nella società, di non rinunciare alla propria
personalità e di rifiutare l'appiattimento e la mercificazione dei mass media. Abbiamo
anche visto, però, che questo non può più avvenire tramite la semplice adozione di uno
stile estetico o attraverso l'ascolto di un certo genere musicale, essendo questi dei gesti
perfettamente integrati da una nuova cultura dominante eterogenea e frammentaria.
Proprio la frammentarietà delle forme di espressione alternative deve essere al centro
delle analisi, ma non deve essere analizzata, a mio parere, sotto il segno del relativismo
e del disimpegno, rappresentando invece il tentativo di reagire alla frammentarietà della
stessa cultura dominante.
Come fanno notare Berzano e Genova (2008), sarebbe fuorviante concentrare gli sforzi
nella ricerca di un termine sostitutivo al concetto di sottocultura, mentre sarebbe molto
più proficuo analizzare i vari elementi che contraddistingono oggi la formazione di
culture, stili di vita, linguaggi e forme espressive “altri”. Se con l'analisi subculturale
infatti si dava eccessiva importanza a parametri di adesione rigidi e ascrittivi, è anche
vero che esistono criticità nei concetti alternativi di tribù e scena.
Il termine tribù richiama un'adesione sporadica, ma legata ad elementi rigidi e
fortemente coinvolgenti (si pensi al rave), essendo però incapace di abbracciare le altre
numerose forme di adesione meno permeanti e fisse. La scena è fortemente vincolata ad
un preciso contesto spaziale, il quale non tiene conto della volatilità con cui spesso, ad
esempio tramite il web, si possa aderire ad una certa configurazione culturale. Il
concetto di scena inoltre non sembra cogliere gli elementi stabili e costanti che
continuano a muovere gli individui nella ricerca di gruppi di alterità culturale, facendo
invece leva su una partecipazione incostante e episodica.
Il non abbandono del concetto di sottocultura, da un lato, può dunque permettere di non
perdere di vista gli elementi ascrittivi ed omologici che possono ancora muovere gli
individui a rifiutare l'omologazione delle norme prevalenti. In una società in cui è
ancora vivo il bisogno di distinguersi, in cui si sente il bisogno di circuiti indipendenti
dalla grande distribuzione, è ancora necessario tenere conto delle fratture tra i parametri
della società dominante e quelli dei numerosi gruppi che si frappongono a questi
parametri.
Sembra necessario riconsiderare la latenza dei caratteri oppositivi e resistenti nelle
forme di “altra cultura”, sebbene questi non siano più militanti, per non incappare
nell'errore di perdere di vista le moderne configurazioni della conflittualità sociale e
delle contraddizioni di classe riflesse nei fenomeni culturali. Il fatto che queste pratiche
culturali assumano atteggiamenti trasversali e timidi va ricercato nella trentennale
egemonia culturale della società neoliberista, capace di rendere vani i tentativi di
distinzione basati sul consumo e sull'apparenza. La resistenza si sposta necessariamente
su un piano meno visibile, quello della costruzione del sé, delle relazioni sociali, della
condivisione emotiva e sensibile, come il concetto di tribù contribuisce a mettere in
risalto.
Occore quindi adottare una prospettiva olistica che sappia conciliare l'approccio
strutturalista, capace di far luce sulle determinanti strutturali, di classe,
dell'appartenenza alle culture subordinate, all'approccio interazionista, in grado di dare
risalto al nuovo primato dell'individuo e del suo interagire con gli altri membri sociali.
Passare da una teoria delle sottoculture ad un'analisi delle “altre culture”, colte nella
loro pluralità, nei loro rapporti reciproci, nelle strategie per opporsi o semplicemente
esistere accanto alla nuova cultura dominante è uno sforzo necessarrio per non
incappare nell'errore di trarre dalla caduta delle classiche forme di resistenza culturale la
fine delle espressioni culturali autonome della popolazione giovanile.
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