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Dancing Astoria

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Un dancing anni '50, una vecchia lambretta, un bar che non esiste più... sono ricordi del passato che riemergono dal passato più vivi e freschi che mai.

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Dancing Astoria

C’era una volta... un dancing chiamato Astoria, in un luogo sulle rive del lago denominato San Domenico. Aveva un ristorante aperto anche durante il giorno, con i tavolini fuori, sulla terrazza con la ghiaia, e alberi a proteggere dal sole troppo caldo in estate. Sul fianco della terrazza una scala portava a una spiaggetta, dove si poteva prendere il sole e nuotare nel lago. Si mangiavano cose semplici, formaggini, salamini, vino rosso genuino, forse carne alla griglia e insalate. Niente di pretenzioso. Nel dancing suonava un’orchestrina, cinque elementi, Mario al pianoforte, André alla batteria, Gino al contrabbasso, Cecco alla fisarmonica, e naturalmente il mio papà alla chitarra e cantante del gruppo. La domenica mamma mi metteva nel seggiolino sulla sua bicicletta e andavamo a sentire papà cantare, trascorrendo la giornata sulla spiaggia, dove potevo giocare con sabbia e secchielli.

Papà era un giullare, un buffone, prendeva la vita con molta allegria e leggerezza, e gli piaceva sempre scherzare e inventare giochi e burle. Così, sapendo che la maggior parte dei clienti erano persone provenienti dalla svizzera tedesca che non capivano l’italiano, si divertiva a cambiare le parole delle canzoni, rendendole buffe e divertenti. A quei tempi andavano le canzoni di Nilla Pizzi, Beniamino Gigli, amore che faceva rima con cuore, parole un po’ melense forse, così lui le trasformava facendo ridere a crepapelle chi le comprendeva. Gli altri membri dell’orchestra trattenevano a stento le risa, e meno male che nessuno usava strumenti a fiato! I poveri turisti ignari ascoltavano estasiati e alla fine applaudivano entusiasti, senza sapere di essere stati bonariamente presi in giro.

Talvolta tornava serio, e cantava per bene, e molte coppie incontrate anni dopo hanno raccontato di essersi innamorati proprio in quel dancing, ascoltando la musica di papà e la sua orchestra. Un po’ cupido, senza volerlo… La sera, finita la giornata, papà metteva la chitarra in spalla, mamma sulla canna della bicicletta, io seduta davanti sul seggiolino, e via, si tornava a casa. Avrò avuto sì e no cinque anni, ma risento il sapore di quelle giornate, rivedo tutto come ci fossi stata ieri, e l’immagine che ho nella mente mi ricorda quei vecchi film in bianco e nero, quelli dei primi anni ‘50, dove la vita era probabilmente più difficile ma per certi versi più allegra e semplice.

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La lambrettaQuando ero piccola eravamo così “poveri” che non avevamo un’automobile. Per la verità non ci serviva forse nemmeno, vivevamo in città, anche se allora un po’ in periferia, ora le case si sono mangiate i campi in cui giocavo a nascondino con i miei cugini, e la città si è estesa ben oltre la mia via. Per muoverci in città c’erano i tram, e poi i filobus, quelli con i fili elettrici, oppure si andava a piedi o in bicicletta. Per andare nel villaggio dove trascorrevamo l’estate, in montagna, c’era il trenino e l’auto postale, la corriera svizzera. Poi un giorno papà ebbe un po’ più di soldi, e si comprò una Lambretta. Gialla. Me la ricordo bene, con la sua forma affusolata, non come la Vespa più “panciuta” ai fianchi. Per noi bambini una grande eccitazione, volevamo salirci tutti e provare a farci un giro. Papà la usava principalmente per recarsi al lavoro, così tornava un po’ prima la sera e poteva dedicarsi un po’ di più ai suoi hobby (scrivere musica, suonare) o stare di più con noi bambini. Naturalmente venne spontaneo tentare di usarla anche durante i fine settimana per andare al lago, o a fare qualche gita in montagna, ma come fare con una lambretta e cinque persone? Un po’ difficile farceli stare tutti sopra... La mamma, da brava economa di famiglia qual era, trovò subito la soluzione: poiché i miei fratellini rientravano ancora nell’età nella quale non avrebbero pagato il biglietto dei vari mezzi di trasporto, lei avrebbe preso il treno, o l’autobus, o quello che fosse, insieme a loro due, ed io sarei andata in lambretta con il papà. Grandi proteste dei miei fratellini maschi, non potevano accettare che la loro sorella potesse usufruire del potente mezzo di trasporto, e con il padre per giunta! La mamma fu irremovibile, così era e così si sarebbe fatto. Giunse la domenica stabilita per la gita, la meta, un ameno paesino sulle rive di un laghetto sulle Prealpi. Al mattino però io avevo le prove della ginnastica artistica allo stadio, ci preparavamo per una grande manifestazione ginnica che si sarebbe tenuta da lì a qualche settimana, e non potevo mancare. Papà allora mi fissò appuntamento per le undici davanti al cancello dello stadio, mentre il resto della famiglia sarebbe partito molto prima con il treno. Terminato l’allenamento esco dallo stadio con le mie compagne, le saluto e rimango ad aspettare mio padre come stabilito. Aspetto... aspetto... aspetto... ma di mio padre nemmeno l’ombra! Inizio a innervosirmi, tengo d’occhio la strada e ogni movimento, vedo passare automobili e motociclette, aguzzo gli occhi per cercare di scorgere la nostra lambretta, la giacca rossa di papà...ma niente da fare, non arriva... Mi prende il panico! Intanto si era fatto mezzogiorno, le campane avevano battuto le ore, e il traffico in strada, che già era scarso, si era spento del tutto. Iniziavo ad avere paura, lì da sola sulla strada, davanti ai cancelli dello stadio ormai chiusi. Lo stadio all’epoca era fuori dalla città, dopo il cimitero, e non c’erano case intorno, così mi sentivo proprio isolata e impaurita. A quel punto decido di tornare a casa per vedere cosa fosse successo. M’incammino, e nella mia mente si susseguono domande e ipotesi le più fantascientifiche. Cerco dentro me delle risposte, delle giustificazioni, per calmarmi mi ripeto che avrò capito male, che sicuramente non sarà successo nulla, che di sicuro l’appuntamento era a casa e non allo stadio... Finalmente giungo a casa, salgo le scale a due a due, apro la porta... chiusa! Suono il campanello... nessuno! Sono sempre più spaventata e sconfortata. Mi sento ormai abbandonata,

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senza più una famiglia! Mi vedo già all’angolo di una strada a chiedere la carità, o peggio ancora in un orfanotrofio! Lentamente, piangendo, scendo di nuovo le scale, esco dal portone, non so bene cosa fare... Decido di tornare allo stadio, Tanto, peggio di così! Sto camminando per la strada senza nemmeno vedere dove sto andando, gli occhi pieni di lacrime, quando sento un rumore famigliare avvicinarsi e... finalmente mio padre! con la sua bella lambretta gialla! Arrabbiatissimo! Ma come… lui arrabbiato? Ed io allora? - Ma dove sei stata? È un›ora che ti cerco! - Ma TU dov’eri... anch’io ti ho cercato... - Dovevi aspettarmi allo stadio, perché te ne sei andata? - Perché tu non sei venuto! Pensavo di aver capito male e sono venuta a cercarti... - rispondo fra le lacrime - Ho fatto semplicemente tardi, dovevi aspettarmi. Quando si fissa un appuntamento si deve rimanere lì fino a che l’altro arriva, capito? - Insomma, mi presi pure una bella sgridata da mio padre, forse spaventato più di me di avermi perso. E per vari giorni mi perseguitò con quell’insegnamento, ripetendomi nuovamente di non lasciare mai un luogo di un appuntamento, mai. Un insegnamento che mi è rimasto, sarà stato lo spavento, sarà stata la sgridata, ma... non me lo scordo più!

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Il Maggiolino

La prima automobile che mio padre si poté comprare fu questa, il mitico maggiolino Volkswagen. In questa buffa vettura che ha fatto la gioia di tanti automobilisti, e che ancora è rimpianta da molti, ci siamo stipati in cinque: mio padre alla guida, mia madre accanto a lui, e noi tre fratelli dietro come sardine in scatola. O meglio, io ero la sardina, in mezzo a due tonni che approfittavano della loro superiorità maschile pur essendo di molto più giovani e piccoli di me. Inutili le mie proteste, i miei tentativi di ribellione, loro vinsero non so come né perché ed io mi ritrovai sempre seduta al centro, pigiata fra loro due che non contenti si contorcevano tutto il tempo, saltellando, ballando, strepitando per tutto il viaggio. Non solo, essendo già piuttosto grandina, intorno ai dodici anni credo, ero anche alta e spesso mio padre si lamentava che con la mia testa gli coprivo la visuale nello specchietto retrovisore, così che oltre che stritolata fra i due prepotenti mi ritrovavo anche tutta piegata e storta! Ah, che vitaccia... La vettura era di seconda o terza mano, per cui ogni tanto qualcosa non funzionava a dovere. Come nel caso delle frecce di direzione, che erano delle vere e proprie «frecce» che al momento del bisogno fuoriuscivano dal fianco della vettura in orizzontale, segnalando la svolta a destra o sinistra. Quando si ruppero la soluzione fu questa: papà abbassava il finestrino e a un suo segnale il fratello seduto da quel lato si precipitava a sporgere il braccio per segnalare il desiderio di svolta. Le cose divennero complicate quando a rompersi fu anche la freccia di destra, dal lato di mamma... Facemmo anche viaggi lunghi con quella vettura, e in genere sul posteriore la situazione era la seguente: io mi addormentavo regolarmente dopo una mezzora di viaggio, e se lasciata in pace mi risvegliavo solo all’arrivo. Le due pesti giocavano a contare cose strane che solo loro s’inventavano, oppure giocavano cercando di mettermi in mezzo, o peggio ancora cantavano tutte le canzoni imparate ai campi scout ai quali partecipavano, fino a quando papà esasperato gridava loro di tacere. C’era però un momento in cui il silenzio calava improvviso nell’abitacolo, ed era così improvviso e strano che a tutta prima non ce ne accorgevamo nemmeno. Solo dopo un po’ mamma se ne accorgeva e sentenziava: «Marco ha fame, tocca fermarci». Eh sì, il mio fratellino più piccolo aveva questa strana abitudine, che quando aveva fame taceva. Improvvisamente non parlava più, non cantava più, non si agitava nemmeno. Rimaneva con il naso incollato al finestrino e fissava con occhi ardenti ogni insegna che segnalava un bar, una trattoria, un ristorante, nella speranza che il suo sguardo fosse sufficiente per far fermare l’auto e potersi finalmente rifocillare. Abitudine che mi risulta gli sia rimasta ancora oggi. Quando la situazione economica in casa migliorò un altro po’, papà decise di comprare una tenda da campeggio, e che saremmo andati finalmente a trascorrere le vacanze al mare, in campeggio. Il problema era trasportare la tenda con tutto il suo armamentario e i bagagli di cinque persone in quel piccolo vano che la VW si

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ritrovava. Allora papà scelse un portapacchi da mettere sul tetto della vettura, e lì caricò la tenda e tutto il resto. Alla fine il «pacco» sopra il tettuccio dava a tutto l’insieme l’aspetto di un fungo, e fu così che chiamammo l’automobile da quel giorno in poi: “fungo”.

Una volta la mamma, che aveva la mania della pulizia, comprò una splendida scopa nuova per spazzare il pavimento della tenda, e ne era così orgogliosa che volle portarsela a casa al ritorno dalle vacanze. Peccato che non si riuscì a farla entrare da nessuna parte! Papà trovò la soluzione, e la legò all’esterno, sul lato del «fungo». A questa legò anche un sacchetto nel quale aveva messo del formaggio della zona che avevano acquistato, trovandolo particolarmente gustoso e non volendo «profumare» tutta la vettura. Non riesco a immaginare cosa deve aver pensato la gente nel vederci passare accanto con quelle appendici sul tetto! Forse alla vettura di una famiglia di streghe!

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Vice-nonno

Non ho mai conosciuto i miei nonni, solo le due nonne e una per pochi anni. Il padre di mamma morì quando lei aveva tre anni, e quello di papà quando io ne avevo cinque, ed ero troppo piccola perché abbia un ricordo, figuriamoci per dire di “averlo conosciuto”. Così per molti anni sono stata alla ricerca di questa figura maschile, ed ero attratta da tutti gli uomini anziani che entravano in qualche modo nella mia vita. A quattordici anni, finite le scuole medie, mia madre decise che dovessi impratichirmi meglio del francese che avevo studiato a scuola, e con l’aiuto di mia zia mi trovò un posto nella Svizzera francese dove trascorrere le vacanze estive. A quei tempi non era così di moda mandare i figli a studiare le lingue all’estero come oggi, e solo i ricchi se lo potevano permettere. Noi non lo eravamo, e il problema fu aggirato mandandomi come “volontaria” a lavorare (oggi si direbbe fare una stage) in un “Istituto per Signorine” dove le ragazze di buona famiglia di tutta Europa venivano a studiare il francese, alternando ore di lezione a passatempi come il tennis, la piscina, le gite sul lago eccetera.

L’Istituto era in una piccola cittadina sulle rive del lago di Bienne, ai piedi della catena del Giura bernese. Una bella cittadina, ai quei tempi tranquilla, con belle case d’epoca, poche automobili. La nostra casa era una grande villa d’epoca, con un bel giardino e il campo da tennis. Le ragazze alloggiavano all’interno della casa, mentre io e altre due volontarie dormivamo poco lontano, in una camera affittata dall’Istituto presso una famiglia del luogo. Il nostro lavoro consisteva nel dare una mano nel rifare le camere delle ragazze, aiutare in cucina e apparecchiare la tavola per il pranzo e la cena. Dato che io ero la più giovane, fui esentata dal lavoro nelle camere (che forse avrei preferito...) e messa a lavorare in cucina. Quante patate ho pelato! Ne ho perso il conto... Al mio ritorno a casa ricordo che dissi a mamma che per due mesi almeno non avrei più voluto vedere una patata! A parte questo, l’ambiente mi piaceva, “Madame” e “Mademoiselle” (madre e figlia, le proprietarie dell’Istituto) erano gentili con me e mi trattavano bene, con le altre due ragazze andavo d’accordo, e a parte un po’ di malinconia mi sono poi trovata benissimo. Mi piaceva anche il fatto di dormire non nell’istituto, questo ci dava più libertà, e talvolta ne abbiamo approfittato!

Noi non frequentavamo le lezioni come le “signorine”, ma bastava il fatto di dover parlare sempre e solo francese per farcelo entrare in testa, e infatti un giorno mi accorsi che senza accorgermene avevo iniziato a “pensare” in francese, e forse anche a sognare in quella lingua. Pian piano divenne un’abitudine, e sentii come una cosa naturale parlare in quell’idioma. Ricordo però le difficoltà iniziali, al limite delle comiche. Uno dei primi giorni Madame mi mandò a comprare alcune cose che mancavano, fra le quali “un peu de persil”. Ora, a quei tempi esisteva un detersivo per lavare che si

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chiamava appunto Persil. Mamma lo usava abitualmente, e lo vedevo sempre in casa nostra. Così camminando verso il negozio mi chiesi come avrei fatto a comprare solo un po’ di persil... ed ero francamente un po’ perplessa, per non dire preoccupata. Erano i miei primi giorni lì, e non mi sentivo tanto sicura nel conversare! Così arrivai al negozio, mi feci coraggio e chiesi ciò che mi era stato detto, e con mio grande stupore mi vidi mettere fra le mani un... mazzetto di prezzemolo! Ma sì, il famoso persil non era altro che il prezzemolo! Come avevo fatto a scordarmene!...

Mi trovavo lì ormai da qualche settimana, quando una sera fui chiamata in direzione, c’era una telefonata per me. Pensai alla mamma, e mi chiesi un po’ allarmata come mai mi chiamasse, non era giorno di telefonata... Ma la voce al telefono era diversa, era un uomo, e mi disse di essere mio zio. O meglio, il fratello di mia nonna, quindi un mio pro-zio. Aveva saputo che ero lì per lo studio, e poiché abitava in una città poco lontana con la moglie, e m’invitava ad andare da loro la domenica successiva. Chiesi il permesso, e la domenica dopo presi il treno e mi recai a Soletta, dove viveva questo misterioso zio. Alla stazione trovai una signora che mi disse di essere Silvia, la figlia, quindi cugina di mamma, e nel tragitto fino a casa mi ragguagliò sulla famiglia. I due genitori, zio Reno e la moglie Maria, lui appunto fratello di mia nonna materna, avevano avuto due figli, Silvia e Ugo. Ugo viveva in Sudafrica con la moglie e due figli, lei viveva lì a Soletta anche lei sposata e con due figli a sua volta. Giunti a casa feci finalmente la conoscenza di zio Reno, e... fu amore a prima vista! Me ne innamorai, letteralmente. Parlammo per delle ore, lui mi raccontò della sua vita, della guerra dove era stato ferito e che gli aveva lasciato per ricordo delle placche di metallo da qualche parte nel corpo che spesso gli procuravano dolori atroci. Ma anche della sua gioventù trascorsa in Engadina, a St. Moritz, dove la mia famiglia era arrivata emigrando dall’Italia, delle feste alle quali aveva partecipato, le gare di sci, il mondo del jet set che iniziava a frequentare quel luogo divenuto poi fra i più famosi al mondo. Mi raccontò di mia nonna, della quale non sapevo molto essendo morta quando avevo nove anni, regalandomi una parte della sua vita per me sconosciuta. Io naturalmente gli parlai di me, della mia famiglia, dei miei sogni e aspirazioni, e finalmente c’era qualcuno che mi stava ad ascoltare interessato! Non mi sembrava vero. Purtroppo presto la giornata finì e io dovevo rientrare all’Istituto, ma promisi che prima di ritornare in Ticino sarei andata nuovamente a trovarli. Così feci, e poi con zio Reno mantenni una fitta corrispondenza. Quando negli anni seguenti studiai il tedesco, lui mi propose di scrivergli in quella lingua, mi avrebbe aiutato correggendomi poi gli errori. Tornai ancora a trovarlo, ogni volta che potevo, per me divenne quel nonno che non avevo mai avuto, e fu consigliere, mentore, confidente premuroso e affettuoso. Quando morì, diversi anni dopo, ne soffrii come se avessi perso un padre, non riuscivo a darmi pace e volli a tutti i costi andare al suo funerale. Ancora oggi penso a lui con grandissimo affetto, riconoscente per tutto l’amore che ha saputo darmi.

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Bar Ginbianchi

Il bar era di mio zio, il marito della sorella di mamma. Si trovava nel centro della città, di fronte al vecchio palazzo della Posta centrale, a due passi dal lago, del quale in certe giornate si sentiva l’odore.

Era un bar di quelli di una volta, con un lungo bancone che a me sembrava alto ma forse era perché io ero piccola in confronto, e la fila di tavolini e di sedie dall’altro lato. Alle pareti erano appesi i giornali, i quotidiani, tenuti insieme da una stecca di legno cosicché si potevano sfogliare e leggere senza rischio di perdere qualche pagina. I tavolini era rotondi, piccoli, con le gambe di ferro pesante per non rovesciarsi, e le sedie tonde, semplici, di legno. Sul fondo del bar dietro una porta sempre aperta c›era il flipper, al quale io e i miei cugini giocavamo ogni volta che potevamo, e il biliardino che però a me non piaceva molto. Forse già da allora è nata la mia avversione per il calcio! Invece il flipper mi piaceva, tutte quelle lucette, la pallina che correva qua e là, i pulsanti da schiacciare per non farla cadere nelle buche e tenerla «in vita» il più a lungo possibile.

Di solito ci andavamo la domenica mattina, dopo la Messa. A quei tempi nella nostra parrocchia facevano una messa detta «dei bambini», alle 9 del mattino. A quell’ora le mamme e i papà non avevano tempo per andare a messa, a loro era riservata quella delle 11, mentre alle 9 erano ben contenti di avere i figlioli fuori di casa, impegnati in qualcosa di serio. La messa era frequentata quindi solo da noi e da suore e vecchietti, abituati ad alzarsi all’alba anche di domenica. Terminata la messa, con i miei cugini andavamo fino in centro città e raggiungevamo il loro padre al bar. Mio zio aveva inventato, oltre ad un sistema di schedine di totocalcio che andavano a ruba - anche se io non ho mai capito come funzionassero - una ricetta per le ciambelle. Erano ciambelle davvero speciali, con un gusto particolare, piuttosto dure e secche ma buonissime. Le conservava in un grande «scatolone» in ferro, rotondo, dietro il bancone. A me sembrava grandissimo, sicuramente per lo stesso discorso dell’età, che ti fa sembrare tutto grande e poi quando lo rivedi da adulta resti delusa, perché ti rendi conto che non è così! Ad ogni modo con Ferruccio e Fabio ci servivamo subito di una ciambella a testa, che mangiavamo seduti sopra questo scatolone, al riparo dal bancone. Finita la ciambella ci fiondavamo sul retro per giocare a flipper, fino a che lo zio chiudeva il bar e ci riportava tutti e tre a casa, per pranzo, non senza essersi fermato prima in pasticceria a comprare le canoniche «paste» della domenica.

Il bar Ginbianchi diventò un’istituzione in città, lo conoscevano tutti, e numerosi erano gli avventori che ci si soffermavano anche solo per una chiacchiera, uno scambio di battute su calcio o ciclismo. Mio zio era molto conosciuto, anche per via della storia delle schedine del totocalcio, e naturalmente per le sue famose ciambelle!

Divenuta più grande, ormai lavoravo già come apprendista in banca, un paio di sere la settimana mi fermavo in centro per frequentare un corso serale di tedesco. Non

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avevo tempo di tornare a casa per cenare, così andavo dallo zio al bar e cenavo con un cappuccino e ciambella, prima di andare al mio corso. Ricordo ancora l’atmosfera di quel bar, le chiacchiere degli avventori, il fumo delle sigarette, i giornali appesi alle pareti, il Campari servito con il selz, la simpatia di mio zio e dei suoi camerieri, e soprattutto le ciambelle delle quali mi sembra ancora di sentirne il sapore.

Ora quel bar non c’è più, non c’è nemmeno più il palazzo, è cambiato tutto, al suo posto c’è una grande banca in un palazzo moderno, e un grande parcheggio. La modernità avanza e tutto travolge, anche le belle case e i bei palazzi. Per fortuna lascia i ricordi.

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La cuoca perfetta

Quando avevo quattordici anni i miei genitori decisero di comprare una roulotte per portarci al mare in vacanza. In realtà era papà che la voleva, la mamma avrebbe preferito l’albergo con le posate d’argento, ma non essendo ricchi si è dovuta accontentare di quelle di plastica. Decisero però di andarla a comprare a Berna, questa roulotte, non so perché, forse per farsi un viaggetto da soli loro due. Così, non appena l’auto fu munita del suo bravo gancio da traino e i collaudatori dettero il loro OK per usarlo, i due organizzarono il loro viaggio con recupero del mezzo a rimorchio.

Partirono un venerdì, il papà prese il pomeriggio libero dall’ufficio, con l’intenzione di tornare la domenica durante la serata. Naturalmente ci lasciarono con mille raccomandazioni, e non senza aver prima ben organizzato la nostra permanenza senza di loro. Com’era giusto che fosse, dato che ero la figlia maggiore, mi affidarono i fratelli e la casa, e mamma mi fece l’elenco delle incombenze da eseguire, fra le quali più importante di tutto erano i pranzi e le cene. Noi andavamo a scuola, e a parte la domenica gli altri giorni non ci sarebbe stato molto tempo per preparare, in quel periodo non esistevano i surgelati e i forni a microonde, e si doveva cucinare per benino.

Così mamma mi disse: “Sabato quando esci da scuola passa alla Migros (il supermercato di nuova generazione appena aperto nel quartiere) e compra un pollo già pronto, sai cosa intendo vero? Sono lì nello scaffale nel centro, li vedi quando entri, sono già pronti e ti basta scaldarlo un po’ nel forno. Hai capito?”.

Io le risposi di sì, che avevo capito, ma in realtà avevo la testa nei miei sogni, come sempre, e pensavo “uffa, ma quando se ne vanno? Che cosa sarà mai un pollo pronto?” Finalmente partirono, e noi ci godemmo la casa tutta per noi. Il giorno dopo feci come suggerito, e uscita da scuola passai dal supermercato in cerca del mitico pollo pronto.

A quei tempi il cibo non si comprava al supermercato come ora: le verdure dal verduraio, il pane dal panettiere, la carne dal macellaio. Che vendeva anche i polli, interi, con ancora testa e zampe attaccate. Poi bisognava pulirli, svuotarli, togliere ciò che non era commestibile... schifo insomma! Pensavo che fosse una bella comodità non doverlo più fare, e comprare un pollo già pronto... già, pronto senza testa, senza zampe, senza interiora. Pulito come un neonato.

Così torno a casa con il mio bel polletto, lo metto in una teglia e lo ficco in forno, temperatura circa 100° o 150°, per una decina di minuti. Poi lo porto tutta trionfante a tavola, dove i miei fratellini mi aspettano affamati. Era un po’ pallido per la verità, non aveva quel bel colore che ha di solito il pollo arrosto, ma, ho pensato, non sono ancora una cuoca brava come la mamma!

Inizio tagliando una coscia. Esce del sangue. Mio fratello mi dice: “guarda, c’è ancora il sangue!”

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“ma no, cosa dici....solo una goccia!” faccio io di rimando “veramente, anche a me sembra che non sia cotto...” aggiunge l’altro.

Io dall’alto della mia primogenitura continuo a tagliare imperterrita, accusandoli di non capire niente, e insisto: “mangiate che è buono!” “ma dai, non vedi che è crudo? “che schifo, io non lo mangio!” “Va beh, lo rimetto un po’ in forno, forse non vi è rimasto abbastanza... “

E ritorno con la teglia in cucina, rimettendola in forno. Convinta sempre che il pollo sia semplicemente da riscaldare, come da istruzioni materne, aspetto una decina di minuti e intanto servo patate, insalata, e cerco di calmare le risate di scherno dei miei fratelli. Poi ci riprovo, riporto in tavola il pollo, riprendo a tagliarlo, a tutta prima sembra funzionare ma, non appena uno di loro mette in bocca il primo boccone, si rende conto che la carne è cruda!

La ribellione “fratellesca” è al culmine, io che tento in tutti i modi di spacciare per cotto un pollo crudo, tagliando il minimo possibile per non far uscire il sangue e non dargliela vinta. Per tentare di convincerli (e non volendo dar loro ragione!) mi servo anch’io di un pezzetto di carne, ma non appena vedo uscire del sangue anche dal mio pezzo, mi arrendo: il pollo è sicuramente crudo!

Ancora non capisco cosa possa essere successo, dove ho sbagliato... aspetterò umilmente la mamma per chiedere spiegazioni. Intanto mi tocca subire gli scherni dei fratelli, che dureranno a lungo, oh sì, molto, molto a lungo!

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Il Campo

Davanti casa nostra, che poi è dove vivo ora, c’è “il campo”. Noi lo chiamavamo semplicemente così, era il nostro mondo, il nostro tutto, il luogo dove trascorrevamo le ore lasciate libere da scuola, pranzi e cene, compiti e dormite. In pratica era un grande campo sportivo, con uno spiazzo per la pallacanestro, uno per l’atletica, uno per il calcio. Ora l’hanno trasformato, accorciato lo spazio per il calcio, l’atletica è sparita e al suo posto c’è uno spazio con i giochi per i bambini: scivoli, cavallucci, altalene ecc. In un altro spiazzo hanno costruito un prolungamento dell’asilo, per far spazio alla città che si allarga e cresce anche nella sua piccola popolazione.

Il campo era separato dalla nostra casa e dal nostro giardino, da un’alta rete metallica. Per arrivare all’ingresso avremmo dovuto aggirare un angolo del campo, ed entrare da una porta laterale. Ma noi avevamo fretta di giocare, così scavalcavamo la recinzione stando attenti a non farci vedere da qualche adulto alla finestra, oppure facevamo un buco nella rete e ci passavamo sotto. Figuriamoci se potevamo perdere tempo e percorrere quella ventina di metri in più!

La nostra casa era la sola palazzina in un quartiere di villette, alta cinque piani con due appartamenti per piano. Una decina di famiglie quindi. E tanti bambini. Noi già eravamo in tre, io e i miei fratelli, sotto di noi i miei tre cugini, sopra altri quattro bambini. Al piano terreno altri due, e dall’altro lato della casa cinque o sei altri. Un po’ di tutte le età, maschi e femmine naturalmente, così si formavamo i gruppi.

Io in genere giocavo con i miei due cugini maschi, e le bambine del piano di sopra, che avevano circa la mia età. I miei cugini erano un po’ più ricchi di noi, perlomeno i loro nonni lo erano, così loro avevano già la bicicletta ed io no. Io avevo solo un monopattino. Così avevo escogitato un sistema, mi attaccavo alle loro biciclette con una grossa corda che legavo al mio monopattino, e poi, come una vera principessa, mi facevo tirare dai miei servitori!

Poi giocavamo a pallone, naturalmente, a nascondino, a “un – due - tre stella”, o alla guerra, dividendoci in due bande, con tanto di pistole e archi e frecce che ci costruivamo da noi. Guai a finire nella banda sbagliata, erano botte!

Con coperte rubate in casa e mollette da biancheria, costruivamo capanne e rifugi, oppure ci arrampicavamo sugli alberi che circondavano il campo, passando il tempo a raccontarcela.

Io amavo anche molto leggere, già allora, e talvolta m’isolavo dagli altri, immersa nella lettura; alla fine arrivava sempre qualcuno che mi chiedeva di leggergli qualcosa, così pian piano si formava una crocchia di bambini intorno a me, eletta a lettrice collettiva. Naturalmente il gioco preferito, e il più proibito, era il gioco del “dottore”, con il quale abbiamo scoperto l’altra metà del cielo.

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In inverno invece, quando non si poteva uscire per il freddo, ci si trovava in casa degli uni o degli altri, e lì erano i giochi da tavolo, il monopoli, le costruzioni, i Lego, quando ci andava proprio bene i filmini di Stallio e Ollio, Ridolini, Harold Loyd o Topolino. Poi arrivò la televisione, l’automobile, le vacanze al mare o in montagna, e qualcosa finì per sempre.

Ora dal mio balcone guardo il campo, vedo i bambini di oggi correre, giocare, gridare, mi fanno compagnia con le loro voci, vedo le mamme che li accompagnano e si ritrovano sulle panchine per quattro chiacchiere, ripenso alla mia infanzia e mi rendo conto di quanto fosse diversa. Non migliore o peggiore, solo diversa. In ogni caso, felice.

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La ballerina

Se si chiede a una bambina cosa vuole fare da grande, la maggior parte di loro risponderanno “la parrucchiera, la commessa, la ballerina”. Io non ero molto diversa, ma la parrucchiera e la commessa proprio no, non erano nei miei sogni. La ballerina invece sì, e già mi vedevo con tutù svolazzanti, o abiti lunghi e morbidi veli e scialli, tipo Isadora Duncan, calcare le scene dei teatri di tutto il mondo, acclamata da folle adoranti.

Quando ebbi cinque anni, mia madre m’iscrisse alla scuola di balletto che si era aperta da poco in città. La dirigeva una giovane maestra, probabilmente appena diplomata. A me sembrava molto “grande” ovviamente, ma ripensandoci oggi avrà avuto intorno ai venticinque anni. Si chiamava Bellinda, un nome che già evocava paesaggi esotici e misteriosi, almeno ai miei occhi di bambina fantasiosa e romantica. Era bellissima, alta e magra, con lunghi capelli lisci e biondi che le scendevano fin sulla schiena. Era anche gentile, ci insegnava senza mai sgridarci, senza arrabbiarsi quando sbagliavamo. Diventava esigente solo in vista di un saggio, di una prova pubblica, perché ne andava del suo buon nome.

Per aiutarci a tenere il tempo e accompagnarci con la musica c’era sua madre pianista. Al contrario di Bellinda, la madre era una vera e propria “strega”. Fisicamente me la ricordo piccola e rinsecchita, con i capelli grigi sempre arruffati, ingobbita sul suo pianoforte sul quale pestava, a mio parere senza grazia alcuna. Era cattiva, forse incattivita dalla durezza della vita che avrà vissuto, immagino ora i sacrifici che avrà dovuto fare per crescere quella bellissima figlia, costruendo una carriera così impegnativa e difficile come quella della ballerina classica.

Non ho mai sentito parlare di un padre, quindi presumo che non ci fosse un uomo nella loro vita, e forse anche questo giustifica in qualche modo la sua cattiveria. Che probabilmente altro non era se non durezza, rancore verso la vita, perdita di qualunque illusione. A me bambina allora sembrava cattiveria, e ne avevo paura. Ci sgridava sempre, con rabbia e durezza, credo che anche sua figlia ne avesse timore e non osava dirle nulla in quei frangenti. Era l’unico neo in quelle ore di lezioni, peraltro deliziose per me.

Mi piaceva da morire danzare, mamma mi aveva regalato delle scarpine di raso rosse, che si differenziavano dalle altre tradizionalmente rosa. E ricordo ancora l’emozione del mio primo vero tutù, con tutti i suoi strati di tulle sovrapposti, il corpetto di raso lucido e morbido… una meraviglia! La notte lo tenevo appeso all’armadio così che sdraiata nel letto potessi ammirarlo, ed era l’ultima cosa che vedevo prima di addormentarmi.

Per un compleanno avevo ricevuto in regalo il mio primo 33 giri di musica classica: era di Mozart, la Serenata in Sol maggiore K.525 “Eine kleine Nachtmusik”. Lo ascoltavo ininterrottamente, quasi a consumarlo, e quel disco mi fece innamorare

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del grande Amadeus. Così mi venne spontaneo, quando mamma mi suggerì di preparare una sorpresa per il 70° compleanno della nonna che avremmo festeggiato di lì a qualche mese, chiedere a Bellinda di aiutarmi a preparare un balletto solista usando quella musica.

Lei si prestò ben volentieri, scegliemmo il minuetto e iniziammo a lavorarci dopo le lezioni. In quel periodo nonna viveva con la zia, che abitava al piano di sotto. La sera prevista, dopo la cena gli zii sgomberarono il grande ingresso, tolsero tappeti e consolle, sul fondo accomodarono la nonna su una comoda poltrona, e alle sue spalle tutti gli altri in piedi. Lei non sapeva nulla, ed era stupita e incuriosita. Partì la musica, da una porta laterale entrai io con il mio bel tutù e le scarpette rosse ai piedi, e iniziai a danzare.

Danzai con tutta la mia grazia, e con il sentimento di amore per la mia nonna adorata. Fu un successo, naturalmente, ma lo sarebbe stato anche se fossi inciampata o caduta, o se avessi sbagliato tutto… Ero solo una bambina che si esibiva, in fondo, come ce ne sono molte ovunque. Ma per me fu qualcosa di molto speciale, e credo che anche per mia nonna lo fu.

Passarono gli anni, feci molte altre esibizioni naturalmente, i saggi a Natale e alla fine dell’anno, o in altre occasioni speciali, ma sempre e solo con la scuola. Poi arrivai a quell’età che non si è più bambine e non si è ancora adulte. Le mie amiche coetanee avevano abbandonato una alla volta le lezioni di danza, e mi ritrovai da sola. Bellinda non sapeva cosa farne, di me. Inserirmi nella classe delle “piccole” non andava bene, così provò a mettermi con le “grandi”. Ma le grandi per me lo erano troppo. Portavano le calze di nylon quando io giravo ancora con i calzettoni al ginocchio, parlavano di fidanzati, si mettevano il rossetto e il rimmel e sussurravano fra loro di cose “segrete” che io non comprendevo. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua, e non ero più felice. Così decisi di interrompere per un po’ le mie lezioni di danza. Ero anche molto occupata con la scuola, ero alla fine delle medie e gli esami finali si avvicinavano. Pensavo di riprendere dopo un anno o due, quando sarei stata più grande e anch’io avrei potuto “sussurrare cose segrete” alle mie compagne di lezioni.

Fu un errore, naturalmente. Non ripresi più le lezioni, la mia carriera di ballerina classica finì lì. Si vede che non era il mio destino. Di quel periodo mi rimangono dei bellissimi e vividi ricordi, e l’amore per la danza e la musica classica.

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Vacanze Quando ero ragazzina non facevamo le “ferie” come si usa adesso. Un po’ perché in casa non c’erano molti soldi, un po’ perché mio padre lavorava presso un’agenzia di viaggi, era contabile e si occupava dei pagamenti delle guide, degli autisti dei pullman, e non si poteva assentare. Lavorava anche di sabato, l’agenzia essendo aperta anche in quel giorno. Per toglierci dal caldo cittadino però, i miei erano riusciti ad affittare una casetta in un villaggio sui monti, a mille metri ma mezz’ora di auto dalla città, per tutta l’estate.

Così a metà giugno, appena le scuole chiudevano, ci si organizzava per la “transumanza”. Non avevamo l’automobile, ma solo una Vespa, così mia madre e i miei due fratellini prendevano prima il tram, poi la posta che arrivava fino al paese, mentre io (più fortunata? o forse solo per risparmiare un biglietto?) arrivavo in Vespa con papà, che poi rientrava in serata a casa. Con questi mezzi il viaggio durava parecchio, forse un’ora o più, a differenza di oggi che con l’auto in mezz’ora ci si arriva.

Ci sono tornata di recente, in quel villaggio, e l’ho trovato piacevolmente rinnovato. Le vecchie cascine e stalle sono state trasformate in belle casette di vacanza, con giardinetti curati. Le stradine e scalette che ricordavo sassose e polverose, ora sono tutte piastrellate, con i sassi imprigionati dal cemento, facili da pulire ma meno romantiche sicuramente. Nella piazza principale c’è ancora la fontana che ricordavo, dove sicuramente qualcuno di noi ragazzi sarà finito dentro per un bagno fuori programma.

Ho ritrovato la casetta di “Nonno Carlin”, come lo chiamavamo, un vecchietto simpatico che si fermava sempre volentieri a fare due chiacchiere con chiunque, e per noi bambini aveva sempre una carezza e talvolta una caramella. Poco più in giù invece c’era la casa della “strega”, soprannominata così perché brutta, sporca, cattiva, una vecchia della quale avere davvero paura. Ricordo che un giorno dovetti, non so più perché, entrare in casa sua: una puzza che non sto a dire, pensavo di essere davvero nell’antro di una strega!

Il paese era piccolo, con pochi abitanti durante tutto l’anno, ma d’estate si riempiva di villeggianti, cittadini che come noi cercavano di fuggire alla calura della città. L’elettricità a quei tempi era poca, e con l’aumento della popolazione le linee si sovraccaricavano così che la sera a una cert’ora la corrente andava via e le luci si spegnevano. Allora si accendevano le lampade a olio, e le candele, e si cucinava sulla stufa economica a legna. Anzi, quella si usava sempre, era l’unico mezzo per cucinare. Tutto molto romantico!

L’unico giorno nel quale mio padre poteva venirci a trovare era la domenica. Dato che lui amava camminare in montagna, si alzava prestissimo la mattina, saliva in montagna e camminava per un paio d’ore. Noi gli andavamo incontro dall’altro

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lato, e ci s’incontrava sull’alpe trascorrendo la giornata insieme. La sera poi lui riprendeva il cammino verso la città, e noi verso il villaggio. Quando il tempo non lo permetteva invece veniva con la sua Vespa, e noi lo andavamo ad aspettare ansiosi all’imboccatura del paese, sulla piazza della chiesa, dove la strada finiva in uno slargo che permetteva alla corriera di girare e tornare indietro. La strada finiva lì, non si poteva andare oltre, quello era l’ultimo paese della valle.

I miei fratelli erano sempre i primi a vederlo spuntare dalla curva, io mi perdevo in chiacchiere con gli amici del posto, e mi lasciavo sfuggire l’attimo magico. Quando la sera ripartiva, in genere lo accompagnavamo per un tratto di strada, fino alla curva “dei lamponi”. Era chiamata così perché nel gomito della curva c’era una piantagione spontanea di lamponi.

Lamponi che noi andavamo a raccogliere, ché poi la mamma li trasformava in marmellata, non senza avercene dati un po’ la sera per dessert. Anche i mirtilli andavamo a raccogliere, e le more, e la metà finivano nella nostra pancia, naturalmente! E poi… i funghi, e il latte fresco delle mucche all’alpe, e le uova di giornata raccolte nel pollaio dopo aver dato da mangiare alle galline. E le giornate trascorse ad aiutare i contadini a “fare fieno”, cioè a raccogliere il fieno ormai seccato, ritornando seduti sul carro, il volto, le braccia e le gambe arrossate dal sole, stanchi e accaldati ma ricchi di risate e allegria!

Ma le giornate più belle erano quelle nelle quali non si andava da nessuna parte, ed io potevo giocare “alla guerra” con i miei amici del posto. Si erano formate due bande, i ragazzi di città e quelli del posto. Io sarei dovuto appartenere alla prima, ma ero più amica dei secondi, così fingevo di stare con gli uni mentre parteggiavo per gli altri. Una vera Mata Hari! Ricordo che uscivo di casa il mattino e vi rientravo solo per pranzo, per uscire di nuovo subito dopo e non farvi ritorno che all’imbrunire. Il gioco continuava ventiquattr’ore al giorno, così anche mentre andavo al negozio a comprare il pane dovevo guardarmi le spalle, e se incontravo qualche “nemico” dovevo cercare di sfuggirli o erano guai! Due volte sono stata catturata, ma sono sempre riuscita a fuggire, anche grazie alla mia parlantina e diplomazia!

Ho tanti ricordi di quel paese e di quel periodo, e credo siano state davvero vacanze indimenticabili, ma, soprattutto, felici e spensierate.

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Liacle

Fu così che fu chiamata. Era la prima di quattro, ma ancora non lo sapevano. Dopo di lei vennero Bianca, Mercedes e infine Adalgisa, la mia mamma. Le prime tre nacquero a Celerina, in quella splendida valle dei Grigioni italiano chiamata Engadina, accanto al ben più famoso e conosciuto St. Moritz. Lì si erano stabiliti i miei nonni dopo essersi sposati, aprendo un ristorante. La nonna era arrivata giovinetta con la sua famiglia dal Veneto, precisamente dal lago di Garda, mentre il nonno era originario di Tirano, in Valtellina. Non per caso si chiamava Negri. Il nonno purtroppo morì giovane, la mia mamma aveva solo tre anni, di un male che ai quei tempi non si conosceva e non si curava: ipertiroidismo. Una disfunzione tipica di quelle valli, e che oggi si cura con una pastiglietta. Ma a quei tempi no, e lui morì di “consunzione” come dissero i medici. Mia nonna rimase sola con quattro figlie da allevare. Liacle occupò il posto del padre nella famiglia, e la cosa le fu facile visto il suo carattere forte e volitivo. Mamma diceva che quando doveva sgridarla “faceva gli occhiacci”… e questo bastava a spaventarla e metterla in riga! Si vede che nonna al contrario non sapeva essere dura con queste figlie, e mancando il padre è stato un bene che ci fosse almeno la figlia maggiore a darle una mano. Le sorelle erano molto legate, ricordo ore di telefonate fra mamma e sua sorella, con mio padre che sbuffava pensando alla bolletta ma non osava reclamare, sapendo quanto le due sorelle si mancassero vivendo lontane. Fra di loro avevano elaborato un linguaggio derivato dal veneto parlato dai nonni, mescolato con l’italiano con cadenze lombardo/ticinesi. Il tutto era una lingua nuova, che si è persa con loro, che nessuno parla più in famiglia, ma che sento ancora nella mia testa se penso alle sorelle. Liacle aveva sposato un ticinese con origini lombarde, un Canonica, imparentato con i più famosi Canonica scultori e artisti lombardi. Si erano trasferiti subito a Berna, e lì ebbero otto figli. Mio zio aprì un’attività artigianale di decorazione in argento e oro sulla porcellana, con operai e operaie quasi tutti italiani immigrati. Anche mio padre lavorò per lui subito dopo la fine della guerra, imparando il mestiere della galvanizzazione, lui che di formazione era contabile. Ma erano tempi duri, e bisognava adattarsi. Mia mamma fece da nurse (oggi si direbbe da baby sitter) ai miei primi cugini mentre sua sorella aiutava il marito al lavoro. Sfogliando l’album delle fotografie la vedo lì, bella e giovane, con due splendide bambine accanto a lei, una bionda e una mora, le mie cugine più grandi. Negli anni si sono aggiunti i racconti, i loro ricordi, per i miei cugini i miei genitori sono stati più che degli zii, e ancora oggi fra noi cugini l’affetto è fortificato dal ricordo della loro presenza così forte e importante nella loro vita.

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Con l’avvento della tecnologia il lavoro artigianale di mio zio subì un arresto, i suoi lavori non potevano reggere la concorrenza di chi faceva gli stessi lavori con le macchine, e così chiuse l’attività rilevando una lavanderia chimica. “Andiamo in wascerei” era la frase che si udiva al mattino quando gli zii uscivano di casa per recarsi al lavoro. Per anni questa “wascerei” fu il fulcro della loro vita. Lo zio, che non aveva mai imparato il tedesco, si arrangiava con il francese e il suo incarico era ritirare la biancheria negli alberghi, che poi riportava una volta lavata e stirata dalle operaie e dalla zia, che più di tutto però gestiva il lavoro e la cassa. Quando furono troppo vecchi per continuare con questo lavoro, e andarono per così dire in pensione, zio s’inventò un’altra attività. Andava nei musei, nelle biblioteche, e cercava le vecchie stampe soprattutto dei paesi e delle città svizzere. Su queste, con un procedimento che non ho mai compreso a fondo, preparava delle matrici in rame con le quali poi stampava delle copie. Con le matrici però faceva anche dei positivi sempre in rame, ottenendo così dei veri e propri quadri, delle stampe in rame. Lo zio era nato nel 1899, quindi ben due secoli fa, ed è morto nel 1994 a 95 anni. Anni che mia zia compirà il prossimo 15 aprile. Lei che era la prima delle quattro sorelle, è l’ultima sopravvissuta, è la memoria storica della famiglia, ed è soprattutto una grandissima donna. Ha imparato ad usare il computer e le email, e con queste si tiene in contatto con la sua numerosa famiglia di figli, nipoti e bis-nipoti sparsi per il mondo, oltre che con altri parenti. Ha una mente ancora sveglia, attenta al mondo che la circonda, legge il giornale e guarda le notizie alla televisione per sapere cosa succede nel mondo, e su tutto sa dire la sua. Mai giudicante, mai critica, comprende, anche se non condivide.

E’ il mio modello di vita, colei alla quale mi ispiro, mi auguro di riuscire a invecchiare come lei.

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Il signor Leuenberger Sposatosi subito dopo la fine della guerra, i miei genitori, come tanti altri immagino, faticavano ad arrivare alla fine del mese con i soldi. Così oltre al suo lavoro di giorno che era quello di contabile in una qualunque ditta, mio padre la sera suonava con un’orchestra. Anche mia madre si era data da fare per aiutare l’economia familiare, era molto brava a dipingere (penso di aver preso da lei la mia vena artistica creativa) e si era messa a fare dei quadretti e degli arazzi dipinti per le camerette dei bambini. Disegni copiati dalle storie e dalle fiabe di allora, in particolare i primi film di Walt Disney: Biancaneve e i 7 nani, Cenerentola con i suoi amici topolini, i tre porcellini e il lupo cattivo e via dicendo. Riusciva a venderli ad amici e conoscenti, immagino con il passa-parola, come in genere funziona in questi casi.

Poi un giorno trovò lavoro come commessa in una pasticceria. Non credo fosse un lavoro fisso, presumo solo durante la stagione estiva, quando in quella zona della città arrivavano molti turisti e quindi il lavoro in negozio aumentava. All’epoca viveva con noi la nonna, così lei poteva lasciarmi in mani sicure mentre si recava al lavoro.

Gestiva la pasticceria una famiglia di svizzeri tedeschi, i signori Leuenberger: padre, madre, due bambini più piccoli di noi. La collaborazione di mia madre durò diversi anni, evidentemente si erano trovati bene con lei e l’avevano richiamata anno dopo anno. Con il passare del tempo divennero anche amici, e qualche volta le due famiglie si sono frequentate.

Un giorno la sua famiglia fu distrutta da una grande disgrazia: la moglie, che probabilmente soffriva da qualche tempo di depressione, si era suicidata buttandosi sotto a un treno. Mia madre me ne parlò, ritenendo che potessi comprendere quanto stava succedendo, e quando andammo a trovarli per presentare le nostre condoglianze al vedovo, mamma ci disse di essere gentili con i loro bambini, che poverini avevano perso la loro mamma.

Ricordo l’atmosfera cupa e triste di quella casa, il signor Leuenberger in lacrime, i bambini tristi ma inconsapevoli di quanto stava succedendo attorno a loro. Questo fatto rafforzò forse l’amicizia fra mia madre e il signor Leuenberger, che continuò a lungo, anche se poi lui chiuse la pasticceria e mia madre non lavorò più per lui.

Il signor Leuenberger era un uomo solido, molto “svizzero tedesco”, con una stretta di mano che tutti temevamo perché era di ferro e sembrava ti frantumasse le ossa ogni volta che te la stringeva. Aveva uno spirito molto “tedesco” ed era difficile capire quando scherzava, poi con mamma parlavano di solito in tedesco, anzi in “schweitzerdeutsch”, e noi non capivamo nulla di quanto si dicevano.

Non potendo badare ai suoi due bambini da solo, li aveva affidati a una sorella che

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viveva a Berna, e li andava a trovare assai di frequente.

Aveva una Volkswagen maggiolino, e così qualche volta mamma approfittava di un suo viaggio in quella città per un passaggio per andare a trovare la sorella. Ci caricava tutti e tre dietro, loro due davanti, si salutava papà che restava a casa e via, si partiva per quel viaggio che all’epoca era una vera e propria avventura. Non esistevano autostrade, e ci s’impiegava dalle cinque alle sei ore, quando adesso in tre ore ci si arriva comodamente.

Seduti dietro noi tre ci si annoiava parecchio, i grandi seduti davanti che parlavano un’altra lingua, e chissà cosa si dicevano…! Quei viaggi erano per me un vero e proprio tormento, mitigato all’arrivo solo dalla gioia di passare del tempo con i miei cugini.

A dispetto della loro amicizia mamma e il signor Leuenberger si diedero sempre del “lei” e per noi ragazzi lui rimase sempre “il signor Leuenberger” anche nei nostri discorsi. Non ho mai nemmeno saputo come si chiamasse di nome. Ora mi domando se papà sia mai stato geloso di quell’amicizia, se ci sia stata forse una piccola passioncella fra i due, se lui sia magari stato un po’ innamorato di mamma… che lo sia stata lei non voglio e non posso nemmeno immaginarlo!!!

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Cavalli

Da ragazzina adoravo i cavalli. Veramente li adoro ancora oggi, credo che siano degli animali stupendi, è solo che ora non sogno più di averne uno nel giardino sotto casa tutto per me. Con la mia amica Milvia, anche lei appassionata di cavalli, un giorno abbiamo presto l’auto postale e siamo andate fino a Origlio, un paese vicino alla città, al Maneggio Pedretti. Era un giorno settimanale, probabilmente mercoledì perché non si andava a scuola, e il maneggio era semivuoto. Così ci siamo avventurate nella scuderia, affascinate da quegli splendidi animali, osservando le briglie appese, le selle in cuoio, le coperte che puzzavano di stallatico ma che a noi sembravano ovviamente profumate! A un certo punto arrivò un ometto, uno stalliere, che ci chiese cosa diamine facessimo lì. Spiegammo il nostro amore ma anche la nostra cronica mancanza di denaro, e quanto ci sarebbe piaciuto poter cavalcare a dispetto di ciò. Probabilmente intenerito dalla nostra ingenuità e buonafede, l’ometto ci propose un patto: se fossimo andate a dare una mano a strigliare i cavalli, lui ci avrebbe permesso di fare un giro in maneggio sul cavallo. Naturalmente accettammo subito, strafelici! Non ci sembrava vero di aver avuto tanta fortuna, così senza quasi nulla chiedere. Così, il sabato dopo ci organizzammo. Io chiesi in prestito a mio padre il motorino, un velosolex, quello che aveva il motore davanti che si poteva sollevare, agganciare al manubrio e proseguire pedalando come una bicicletta. Un po’ faticoso, ma funzionava se si rimaneva senza benzina, cosa che in genere mi accadeva regolarmente, soprattutto se prima l’aveva usato mio fratello... Milvia non ricordo come arrivò, forse in bicicletta, ad ogni modo ci trovammo là al maneggio, munite di spazzole e stivaloni, pronte a eseguire il nostro compito.

Contrariamente al primo giorno, questa volta il maneggio era pieno di gente, cavalieri e cavalli che giravano in tondo sulla sabbia, altri che si preparavano a uscire in passeggiata, e soprattutto c›era il proprietario, signor Pedretti. Il quale, molto stupito, ci chiese chi fossimo. Noi spiegammo l’arcano, un po’ timorose che lui vietasse il patto stabilito con lo stalliere; invece lui lo chiamò e, avuta conferma delle condizioni, ci permise di seguirlo nella scuderia per strigliare i cavalli. L’ometto ci mostrò come dovevamo fare, e noi ci mettemmo di buona lena a passare la spazzola sulla groppa e sui fianchi del cavallo assegnatoci, rendendo lucido e splendente il suo pelo. Non ci sembrava vero! Avevamo fra le mani un cavallo vero, vivo, fremente, e perché no, puzzolente. Che meraviglia, poterlo toccare, accarezzare, sentirlo sbuffare dalle narici, scuotere la coda per scacciare le mosche... eravamo al settimo cielo!

Tutto l’ambiente del maneggio ci affascinava, ogni tanto arrivava qualche cavaliere

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che aveva finito il suo turno, scendeva dal cavallo, riponeva sella e finimenti, portava il cavallo nel suo box, lo ricopriva con la coperta per non fargli evaporare troppo in fretta il sudore accumulato. Altri arrivavano invece a prendere il loro cavallo, ce n’erano anche di privati che sostavano lì, con il loro box in affitto, e ora uscivano in passeggiata con il loro proprietario, da noi molto invidiato. Naturalmente noi avevamo già scelto il nostro preferito, quello che ci sembrava più bello secondo il nostro gusto, bianco o nero, marrone o balzano che fosse. Passarono così un paio d’ore, il maneggio lentamente si svuotò, e finalmente l’ometto venne a chiamarci. Era arrivata l’ora fatidica! Aveva legato fuori dalla scuderia un cavallo già sellato e pronto, non troppo alto, dall’aria molto pacifica. Avvicinò una sorta di bassa scaletta, quasi un gradino, al cavallo, e ci spiegò come salire, infilando il piede in una staffa e poi, con un salto, salire in sella buttando l’altra gamba oltre la groppa del cavallo. Fui la prima a provare, non avrei resistito ad aspettare oltre il mio turno!

L’emozione fu grandissima, mi sentivo altissima lassù, il cavallo sotto di me mi sembrava enorme! L’ometto mi mise in mano le briglie spiegandomi come dovevo tenerle, poi lo prese per la cavezza e si avviò verso la pista. Il cavallo si mosse, io oscillai un po’ sulla sella, e mi aggrappai più saldamente ai suoi fianchi, come mi aveva spiegato.

Era bellissimo! Stavo cavalcando... la mia felicità era al culmine, non ci potevo credere. Sempre tenuto dallo stalliere, il cavallo camminava lentamente lungo le pareti del maneggio, ed io assaporavo tutte le sensazioni: il dondolio dei fianchi destra-sinistra, il suo collo che si abbassava leggermente ad ogni passo, le gambe che sbattevano leggermente sui fianchi a ogni movimento, il mondo che girava intorno a me. Con molta prudenza provai a staccare una mano e lasciare la briglia per accarezzare il collo del cavallo. Era caldo, il pelo un po’ ruvido sotto le mie mani, una sensazione dolce e bellissima. Il giro presto finì, ci fermammo e lo stalliere mi spiegò come scendere. Toccò poi alla mia amica provare, ed io rimasi a guardarla ancora sognante, con mille sensazioni fisiche ed emotive. Quando anche il suo giro terminò, portammo insieme il cavallo nella scuderia, ringraziammo il gentile stalliere e il proprietario, e tornammo a casa giurando a noi stesse che avremmo fatto di tutto per tornarci.

Non so come, ma riuscii in seguito a convincere i miei genitori a farmi prendere qualche lezione di equitazione, e appena iniziai l’apprendistato i primi soldi guadagnati finivano tutti lì, al maneggio. Anni dopo mi comprai un motorino serio, un Ciao, e con lui ogni sabato ero al maneggio, a cavalcare. Imparai ad andare al trotto, al galoppo, e anche a fare qualche piccolo salto. Non mi piaceva tanto il lavoro di dressage, preferivo uscire in passeggiata, correre liberi nei prati e nei boschi della mia bella regione. Ricordo che un pomeriggio uscimmo un po’ sul tardi, e a un certo punto fu buio, e iniziò un po’ a piovvigginare. Rientrando di corsa al maneggio, gli

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zoccoli del cavallo facevano come delle scintille che brillavano nella luce dei lampioni sotto la pioggia. In quell’occasione, tornata a casa emozionata, scrissi una sorta di poesia:

Si partì in sette, ma poi fummo solo noi due, Messico ed io. L’aria non era né calda né fredda, il cielo non era sereno ma nemmeno nuvoloso. Era inizio estate, ma sembrava primavera. Corremmo al trotto fino al bosco, dove l’aria si fece più limpida, dove potemmo vedere gli alberi verdi anelare alla vita in quell’atmosfera sospesa, che sapeva di fatato. Messico ed io eravamo felici. Incominciammo a correre, e ci trovammo in un prato. Assaporai l’odore dell’estate. Poi fu una strada, un paese, case, volti, e sempre quell’atmosfera fatata. Poi fu di nuovo bosco, e di nuovo prato, e nuovamente sentii l’odore dell’estate. Passammo accanto ad uno stagno e potei udire le rane gracidare. Non c’era più il sole, e non c’erano ancora le stelle. Galoppammo di nuovo in un prato, e capii la natura che mi circondava. Nel bosco vidi le felci, vidi i noccioli, vidi i sassi nascosti fra il muschio. Poi piovve e ci fu l’acqua. Messico ed io ne godemmo come qualcosa di appartenente a quella sera magica. Le gocce come lacrime di fate e folletti. Ed infine fu notte, e le scintille dei suoi zoccoli si confusero con le gocce splendenti della pioggia. Non scorgevo più gli alberi e l’erba intorno a me, ma ne percepivo sempre la presenza. Poi tutto finì, e mi ritrovai sola, senza Messico, senza estate.

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NataleDalla finestra di fronte alla scrivania dove sto scrivendo, vedo la casa dove sono nata e dove ho vissuto i miei primissimi anni, con mamma papà e nonna. Vedo la finestra del salotto, che però fungeva anche da stanza da letto di nonna e mia. Quando i miei genitori si erano sposati, appena finita la guerra, vivevano a Berna in una stanza in affitto, chè altro non si potevano permettere. Poi io mi annunciai, e quando la pancia cominciò a diventare grossa, i miei si misero in cerca di un appartamento un po’ più grande, dove poter crescere un figlio. La guerra era appena finita, appunto, e anche gli svizzeri non navigavano nell’oro, ed erano stati invasi prima da rifugiati e fuoriusciti che cercavano un riparo dalla furia nazista, poi da immigrati stranieri, italiani in primis. Così i miei si sentivano rispondere: “non vogliamo stranieri, non vogliamo bambini, non vogliamo italiani”, e veniva loro sbattuta la porta in faccia. Il termine per mia mamma stava per scadere, così la nonna, sua madre, che viveva da sola a Lugano in un bell’appartamento, disse venite qua, tanto io con quattro figlie femmine, sono sempre da una o dall’altra per dare una mano. Fu così io nacqui a Lugano e non a Berna, e i miei si stabilirono nella casa di nonna, che spesso era appunto da una figlia o dall’altra, a seconda di dove stava per nascere l’ultimo nipote. Lì nacquero anche i miei due fratelli, ma con l’arrivo del secondo la casa divenne troppo piccola. Per fortuna presto si liberò un appartamento nella casa dove viveva già una sorella di mamma, e ci trasferimmo.

I primi Natali li trascorrevamo insieme, le due famiglie, di solito in casa degli zii. Lo zio aveva una tradizione famigliare alberghiera e di ristoratori, così pensava lui al pranzo di Natale, e ricordo di aver mangiato per la prima volta il tacchino arrosto con le castagne! Un abbinamento che a parole mi faceva rabbrividire, per scoprire invece che mi piaceva tantissimo. Penso di aver anche bevuto per la prima volta dello spumante, forse dello champagne vero e proprio! Gli zii erano ricchi, in confronto a noi!

Poi le famiglie crebbero, e si cominciò a festeggiare ognuna per sé, ci si ritrovava magari più tardi per il caffè e liquori e noi bambini che mostrarci i regali ricevuti. Come tutti i bambini del mondo, da piccola credevo che i doni li portasse Gesù Bambino, così mi avevano fatto credere. Ma un «gentile» prete che teneva lezioni di catechismo a scuola, un giorno ci spiegò che non era vero, che erano i genitori, ecc. Io mi sentii molto male, non ero delusa o ferita dalla menzogna, ma piuttosto mi sentivo in colpa. Sapevo che i miei facevano fatica ad arrivare alla fine del mese, e scoprire che avevano comunque accontentato i miei desideri regalandomi tutto quanto avevo chiesto, mi fece sentire veramente in colpa ed egoista, e tornai a casa piangendo tristemente. Papà allora per consolarmi mi disse che mi avrebbe permesso di aiutarlo a preparare il presepe. Dopo cena, in punta di piedi per non farsi scoprire dai miei fratellini che ancora

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credevano in Gesù Bambino, papà lasciava la mamma ai suoi lavori a maglia e rammendi e scendeva in cantina. Avevamo una bella cantina, grande e asciutta. Lì aveva recuperato un vecchio bancone da falegname e si era costruito una sorta di angolo creativo, angolo hobby si direbbe oggi. Martelli, pinze, seghe e altri strumenti facevano bella mostra di sé appesi sulla parete sopra al tavolo, che disponeva anche di cassetti per contenere chiodi e minutaglie.

Per realizzare il presepe iniziava con varie scatole di cartone, forse scatole da scarpe o altre scatole che recuperava chissà dove. Le disponeva su una grande asse, formando più piani che avrebbero costituito l’ossatura delle montagne. Le ricopriva poi di carta da pacchi robusta, marrone, e poi passava ore a guardare dalla finestra la corona di montagne che chiude lo sguardo verso nord dalla nostra casa. Le osservava per imprimersi nella mente i colori, le sfumature dei marroni e dei verdi degli alberi, dei prati ormai seccati, il bianco della neve che dove iniziava a scomparire lasciava grandi macchie scure, marrone e nero. Scrutava ogni angolo, ogni anfratto, ogni piega delle montagne, e mi diceva: “vedi, lì non è proprio bianco, è piuttosto grigio, perché c’è l’ombra di quella roccia…” Meraviglioso papà che mi ha insegnato ad osservare! Una volta memorizzati i vari colori e sfumature, iniziava a dipingerle, queste montagne, e l’effetto finale era veramente realistico. Terminata questa fase, era la volta delle case, dei villaggi, e naturalmente delle luci. Perché papà era un perfezionista, un po’ come lo sono io, e riusciva a illuminare queste piccole case mettendo al loro interno la lampadina di una ghirlanda luminosa, riuscendo a nascondere i fili chissà come. Era bravissimo! Usava la carta stagnola per formare un fiume, una cascata, un laghetto, nel quale mettevamo a nuotare delle anatre di plastica recuperate fra i giochi di noi bambini. Poi la ghiaia, per fare i sentieri, le strade sulle quali camminavano i vari pastori con i loro greggi di pecore. Una volta completato questo “plastico”, la sera della vigilia lo portava in casa e allora era il mio turno, avevo il privilegio di aiutarlo a sistemare le varie statuette. Lo mettevamo in terra o su un basso sostegno, non ricordo bene, nel grande ingresso della casa. Ma non era finita, perché fedeli anche alla tradizione nordica facevamo pure l’albero di Natale. Qualche giorno prima papà comprava un bell’abete, di quelli veri, grande, enorme, e la sera della vigilia lo portava in casa sistemandolo vicino al presepe. Mamma era incaricata di addobbarlo, naturalmente con il mio aiuto. A una a una scartavamo le fragili bocce in vetro colorate e decorate minuziosamente, l’uccellino con le piume vere, la campanella, e infine la stella da mettere sulla cima. Poi le luci, le ghirlande, ed eccolo là, il nostro magnifico albero di Natale! Alla fine, stordita, stanca, eccitata, me ne andavo a letto anch’io, pregustando la gioia e la sorpresa dei miei fratellini quando si sarebbero svegliati la mattina dopo. A papà e mamma rimaneva il compito di riempire lo spazio sotto all’albero e intorno

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al presepe con i nostri regali. La mattina di Natale avevamo il divieto di alzarci se prima non sentivamo la campanella dell’Angelo che ci annunciava il momento di alzarsi. Così se anche ci svegliavamo, rimanevamo a letto con le orecchie tese ad aspettare il magico suono. Ora mi rendo conto che era lo strenuo tentativo dei nostri genitori di non farci alzare all’alba! Ma allora, anche se sapevo la verità, quel flebile suono rimaneva sempre un po’ magico e misterioso, e quando lo udivo mi sentivo lo sfarfallìo nella pancia dall’emozione. Mi alzavo, correvo nell’ingresso, e oooh... la meraviglia! Tutte quelle luci, quelli palline colorate, quel paesaggio incantato in miniatura... e quella montagna di regali!

Era finalmente Natale.

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Beethoven Quella sera dopo il lavoro mi stavo recando alla stazione per prenotare il treno. Di lì a qualche giorno sarei partita per Berna, in visita ai miei cugini. Stavo salendo la scalinata che, dalla Cattedrale vicino alla quale c’era il mio ufficio, porta alla stazione di Lugano, ed ero concentrata nei miei pensieri come sempre mi succede quando cammino, così in un primo momento non l’ho visto né ho sentito subito cosa mi ha detto. Anzi, ho proseguito di qualche passo prima di rendermi conto che quella persona si era rivolta a me; mi sono allora girata su me stessa, lui stava già proseguendo per la sua strada, e gli ho detto: «Scusa, dicevi a me?» A quel punto anche lui si ferma, torna indietro e mi risponde, «sì, ti ho chiesto se hai degli spiccioli”. Nella mia ingenuità di diciottenne allevata un po’ in una campana di vetro, ho pensato, che strano, chissà perché vuole cambiare dei soldi con degli spiccioli... e gli ho risposto, no, mi dispiace, credo di avere solo pezzi grossi. “Non fa niente, ciao” risponde lui, e fa per riavviarsi. A quel punto però la mia curiosità si era accesa, così gli chiedo a cosa gli servano degli spiccioli. “Ma niente - fa lui, che probabilmente aveva capito la mia ingenuità – volevo solo sapere se avevi qualche soldo.” Sempre più incuriosita gli chiedo perché, forse che lui non ne ha di soldi? “No, in realtà non ne ho più” - evidentemente aveva deciso di raccontarmi le sue disavventure - “sai, sono venuto qualche giorno a vedere la Svizzera, ma ho fatto male i conti e non ho più soldi. Ho perso i contatti con i miei amici, e non so come fare”. Naturalmente a quel punto mi si risveglia l’istinto da crocerossina, e decido di dargli una mano. La mia mente fervida stava già elaborando una soluzione... e in breve la trovo. Con la mia amica Lilli ci eravamo impossessate della soffitta sopra casa sua, una palazzina in pieno centro città, e l’avevamo rimessa a posto: ridipinte le pareti, attaccato qualche mensola, messo tappeti e cuscini per terra, e una pila di dischi e libri in un angolo. Era il nostro rifugio da mondo, la nostra “mansarda” di sapore parigino e bohèmienne. Lì quel ragazzo avrebbe potuto passare tranquillamente la notte, e il mattino dopo ritrovare i suoi amici e tornarsene a casa. Così glielo propongo e lo accompagno verso questa mansarda. Le chiacchiere fra noi ormai erano attivate, lui mi stava raccontando la sua vita (o così almeno credevo...), io la mia, anche se la sua mi sembrava infinitamente più interessante della mia. Mi disse di essere un aspirante scultore, voleva andare in Versilia per lavorare come ragazzo di bottega in qualche laboratorio dove si lavorava il marmo. Disse di essere di Roma, il nome non me lo ricordo, e che i suoi amici lo chiamavano Beethoven, perché amava molto la sua musica. Arrivati che fummo alla mansarda, lui ne fu entusiasta. Il posto era ideale per poterci passare la notte, nessuno lo avrebbe disturbato, sarebbe solo dovuto stare attento a non fare troppo rumore e non far notare la sua presenza lassù in soffitta. Erano circa le diciotto, un po’ presto per andarsene già a dormire, ed io dovevo rientrare a casa.

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“Lascia che ti offra almeno un caffè per la tua gentilezza” mi fa lui. Beh, ma con quali soldi? Non me lo sono chiesta. Ormai ero affascinata da questo tipo stravagante, e non volevo certo che l’incontro terminasse così presto! Mi viene in mente che forse lui non ha nemmeno cenato, e senza soldi difficilmente lo potrà fare. Non so come risolvere il problema, ma lui mi dice di non preoccuparmi, che è abituato a mangiare poco e non ha tanta fame. Così andiamo in un bar a bere qualcosa, e lui si rimpinza di noccioline e snack da aperitivo. A quei tempi non usavano ancora gli happy hours, se no avrebbe risolto il problema! Dopo quella specie di aperitivo, lo riaccompagno verso la mansarda ma... ahimè nel frattempo qualcuno aveva chiuso il portone principale, e di quello io non avevo la chiave! La mia amica in quel periodo non era a Lugano, e non potevo certo chiamare sua madre per farmi aprire! Ero molto dispiaciuta, la bella soluzione trovata era sfumata come neve al sole... e Beethoven era di nuovo senza un rifugio per la notte. A quel punto lui mi confessa di aver lasciato una cosa in mansarda, una cosa che vorrebbe recuperare, ma soprattutto una cosa che non vorrebbe trovassero altri perché potrei avere dei problemi io. Non capisco... cosa? Di cosa si tratta?... Un pacchettino di hashish. La mente mi si accende in un lampo! Che stupida! Ecco a cosa gli servivano gli spiccioli... non a pagarsi un caffè, o un panino! Come ho fatto a non pensarci? La cosa comunque non mi sconvolge, penso che il mattino dopo si può facilmente salire in mansarda e recuperare il pacchettino. Il problema ora è dove fargli passare la notte. Mi viene un’idea: la nostra cantina. E’ un locale asciutto, fresco in estate, e ci sono dentro le attrezzature da campeggio: sedie, tavolo, fornello, ma soprattutto brandine per dormire. Così gli propongo di venire a casa mia, naturalmente senza salire, mi aspetterebbe giù ed io con una scusa scenderei in cantina con la chiave. Con un paio di coperte e la brandina gli preparo un comodo rifugio per la notte, gli porto una bottiglia d’acqua e una banana, l’unica cosa che riesco a «rubare» senza destare sospetti. Ho il cuore che mi batte all’impazzata per la paura di farmi scoprire dai miei. Non riesco a immaginare la loro reazione se scoprissero cosa stavo facendo! Ormai ero in ballo... Quando vado a dormire punto la sveglia molto presto, per avere il tempo di alzarmi prima di tutti e scendere di soppiatto in cantina a liberare il mio «prigioniero». Lui poi sarebbe passato di nuovo dalla mansarda per recuperare il suo «pericoloso pacchettino». La sera dopo rientrando a casa mio padre mi dice «ha chiamato un certo Beethoven per te.» «Ah sì??»- faccio io con l’aria più innocente del mondo. «e che voleva?» «Niente, ha detto solo che desiderava salutarti. Chi è, lo conosciamo?” “Mmmm, no... nessuno, uno che ho conosciuto...» e scappo in camera mia. Di questa storia non ne ha mai saputo nulla nessuno. Nemmeno io ne ho saputo più nulla di lui. Ogni tanto mi torna in mente, e mi chiedo che fine abbia fatto. Mi piace pensare che sia riuscito a diventare scultore, che sia felice, che abbia una vita soddisfacente, e che magari si ricordi ancora di quella ragazzina un po’ ingenua che tanti anni fa gli offrì un riparo per la notte.

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Antonio

L’ho visto subito appena scesa dall’auto. Stava seduto per terra a gambe incrociate davanti ad una minuscola tenda canadese, strimpellando una chitarra. Era biondo, con la pelle chiara dei biondi-rossicci, ma abbronzata dal sole era divenuta dorata, luminosa, splendente. I suoi occhi verdi incrociano i miei, un tuffo al cuore, il calore che sale dal ventre, il volto che s’infiamma. Mi volto per nascondere l’emozione che mi ha colto alla sprovvista, mio padre ci richiama all’ordine, c’è da decidere se fermarsi lì o no. Il campeggio, trovato dopo un lungo girovagare lungo la costa adriatica, è piccolo, non molto attrezzato, ma con una vista splendida sul mare. Le piazzole di sosta sono terrazzate, così che ci ritroviamo in alto su una sporgenza, il mare sotto di noi. Siamo tutti stanchi, ormai è sera, così decidiamo di fermarci lì. Poi domani si vedrà. Mio padre decide di disporre la roulotte proprio di fianco alla sua tendina, e lui subito si offre di aiutarci. Arrivano anche i suoi amici, e alla fine ci ritroviamo in gruppo a spingere, tirare, bloccare, fra risate e chiacchiere. Mia madre, socievole come sempre, comincia a chiacchierare con loro, a chiedere “di dove siete?”, “ma quanto vi fermate”, “ma siete soli”... Io ascolto, non parlo, ma mi bevo tutte le risposte, le “sue” risposte. Lui ha già notato la targa dell’auto, ha visto che siamo stranieri, che veniamo dalla Svizzera, il paese degli orologi e del cioccolato. Il paese degli emigranti. E’ ora di cena, così finito di sistemare la roulotte, i ragazzi tornano alla loro tenda, ognuno impegnato in qualche faccenda; mia madre inizia a cucinare, mentre mio padre finisce di sistemare chissà che cosa. I miei fratelli sono già scesi al mare, impazienti di “assaggiare” l’acqua, il mare, che vediamo una volta all’anno. Io gironzolo intorno, aiuto mia madre apparecchiando la tavola, cerco tutte le scuse per rimanere a portata di occhi. Lui fa altrettanto. Terminato di cenare, uno di loro ci chiede se possono offrirci un po’ di melone, e alla nostra risposta affermativa si avvicinano tutti con un grande melone bianco, che noi non avevamo mai né visto né assaggiato. Così la conversazione parte facile, i miei genitori sono persone socievoli, aperte, allegre, fanno subito amicizia con tutti, e tutti li amano per questo. Scopro che si chiama Antonio, ha un paio d’anni più di me, vive poco lontano da lì, sulle colline nell’entroterra, ed è venuto qualche giorno in vacanza al mare con gli amici. L’attrazione fra noi è fortissima, e per sette lunghi giorni non ci lasciamo un momento. Quando scendiamo al mare, cerchiamo angoli di spiaggia nascosti fra le rocce, per restarcene un po’ appartati dagli altri, soprattutto dai miei fratelli che, dispettosi, cercano sempre di disturbarci. Lui amava cantare, voleva fare il cantante, così mi dedica una canzone, che diventa “la nostra canzone”, e me la canta accompagnandosi con la chitarra. M’insegna a salire sugli scogli senza ferirmi, a cercare le telline, o le vongole, mi spiega il suo Sud,

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che io non conosco. Io gli racconto la Svizzera, la pulizia, l’ordine, la disciplina, la serietà, forse anche la noia. Gli racconto i miei sogni, e lui i suoi. E’ il mio primo amore. Ed io sono il suo. Quando la sua settimana di mare finisce, io mi sento morire. Noi abbiamo ancora un’altra settimana di vacanza, prima di rientrare al nord, ma come farò a vivere senza di lui? Le mie giornate scorrono tristi, malgrado ci sia ancora il mare, il sole, l’estate. I miei mi prendono un po’ in giro, come sempre, sanno per esperienza che gli amori estivi sono destinati a finire con la fine delle vacanze, e sorridono dall’alto della loro esperienza. E’ l’ultima sera, domani ritorneremo a casa, per festeggiare papà ci offre una sontuosa cena al ristorante del campeggio. Io sono sempre più triste, e terminato di mangiare voglio tornare subito alla roulotte, andare a dormire e dimenticare il mio dolore. Esco e m’incammino verso la nostra piazzola, quando mi sento chiamare dall’alto del muro che separa la strada dal campeggio. E’ Antonio, è riuscito a trovare un mezzo di trasporto, un vecchio motorino scassato, ed è venuto a rivedermi un’ultima volta. Ci abbracciamo, ci giuriamo amore eterno, mi promette che presto verrà a trovarmi in Svizzera, che farà di tutto per venire, che mi scriverà, che non mi dimenticherà...

Sono trascorsi trentacinque anni. Ho vissuto la mia vita, senza di lui. Un giorno apro il computer, scarico la posta, e fra le mail ne vedo una con uno strano oggetto: “Dal lontano passato”. La apro, la leggo: sono Antonio, il tuo Antonio, spero ti ricordi di me… sono trentacinque anni che ti cerco...

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Amici

Ferruccio

Il mio primo amico si può dire che sia stato mio cugino Ferruccio. Siamo nati a un mese di distanza, le nostre mamme erano sorelle e abitavamo vicini. Spesso la sera i miei genitori andavano dai miei zii per giocare a carte (a quei tempi non c’era ancora la televisione), e suppongo di aver dormito parecchie volte nel lettino con lui. Alcuni anni dopo, la famiglia aumentata con l’arrivo di due fratellini a testa, ci siamo trasferiti in un appartamento nello stesso palazzo, noi al terzo piano, loro al secondo. Così per giocare con mio cugino mi bastava scendere un piano di scale, o chiamarlo dal balcone. A quei tempi credevamo che il mondo cominciasse e finisse lì, nel nostro giardino, o nei terreni incolti che da dietro la casa si perdevano a vista d’occhio, e dove in primavera venivano a pascolare le mucche prima di salire agli alpeggi estivi. Con mio cugino, i nostri fratelli e gli altri bambini del palazzo, ho condiviso la mia prima infanzia, estati lunghe e soleggiate, giochi, bisticci, e le prime esplorazioni dell’altra metà del cielo. Il nostro mondo era il “campo” dove passavamo ore a giocare, raccontarci storie, anche litigare naturalmente. Frequentavamo la stessa scuola, in due classi diverse, femminile io maschile lui. Con grande invidia da parte mia perché i maschi potevano imparare a fare cose manuali con seghe e martelli, chiodi e colla, mentre a noi bambine venivano insegnati i lavori a maglia e il cucito. Forse ero una piccola femminista ante-litteram! Ricordo poi il dolore di quando Ferruccio, innamoratosi di una mia compagna di classe e non avendo il coraggio di dichiararsi, mi incaricava di portarle teneri bigliettini, incurante del fatto che volevo essere io la destinataria di tali attenzioni! Ah gli amori infantili, che bella cosa!

Fabio

Ferruccio aveva un fratello, Fabio, di poco più piccolo di noi. Quei pochi anni di differenza e il suo animo buono lo trasformarono nel nostro suddito, nel capro espiatorio di tutti i guai che combinavamo, nella pecora nera del gruppetto. Si giocava nascondino? Fabio era “sotto”. Ci divertivamo a suonare i campanelli dei condomini? Naturalmente era Fabio che doveva farlo, e noi nascosti ridevamo come matti. C’era da rubare l’uva o i fichi dei vicini? Toccava a Fabio farsi avanti, e rischiare di essere scoperto. Lui però non si è mai ribellato…ci teneva troppo a giocare con noi “grandi” e temeva di esserne escluso. A parole faceva lo sbruffone, diceva di non aver paura di nulla, ed era un po’ scavezzacollo. Per sua mamma, era una disperazione! Qualunque cosa succedesse, era colpa di Fabio. Ricordo una vigilia di Natale, che le due famiglie trascorrevano insieme. Aspettavamo l’arrivo di Babbo Natale, al quale alcuni di noi credevamo ancora, e noi bambini ci raccontavamo a

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vicenda le nostre attese, i doni che speravamo di ricevere. Fabio come sempre faceva il gradasso, dicendo che lui non aveva paura di Babbo Natale, e anche se non era stato proprio buono, avrebbe ricevuto di sicuro quello che desiderava.

A un certo punto suonano alla porta, tutti ci avviciniamo eccitati nell’ingresso, qualcuno apre la porta e una grande figura vestita di rosso appare sulla soglia. Noi bambini tutti emozionatissimi e senza parole… qualcuno chiede “ma dov’è Fabio?”... Fabio non si trova… lo cerchiamo ovunque chiamandolo, e finalmente lo troviamo... nascosto sotto il letto… lui il coraggioso!

Graziella

Con l’inizio della scuola, in prima elementare, fu Graziella la mia nuova amica. Aveva i capelli lunghi raccolti in due trecce, come li portavo anch’io, e grandi occhi scuri che ti guardavano un po‘ di sotto in su. Era seduta da sola nel banco da due, e la maestra m’indicò il posto accanto al suo invitandomi gentilmente di sedermi lì accanto a lei. Era molto timida, più di me, forse per questo fraternizzammo subito. Fu la mia compagna di banco per molti anni, anche se talvolta le maestre ci dividevano, perché molto amiche ormai, chiacchieravamo troppo disturbando le ore di lezione e non prestando la dovuta attenzione. Talvolta invece rivoluzionavano tutta la classe, con la scusa di farci “fraternizzare” fra tutte, e scambiando i posti a parer loro, ma con nostro grande disappunto. Oltre alle trecce condividevamo la stessa passione per la lettura e in particolare per i romanzi di cappa e spada, Alessandro Dumas in testa. Nel buio di qualche cinema di quartiere abbiamo passato le ore più belle sognando coraggiosi spadaccini, romantiche dame e intriganti cardinali. Avevamo inventato per noi stesse un “gioco di ruolo”, assumendo l’identità di un moschettiere (io ero Athos, lei Aramis) e tramite lettere che ci scrivevamo a vicenda con questa identità, proseguivamo con la fantasia le storie lette nei libri. Ci scambiavamo le lettere arrivando a scuola, una al mattino una al pomeriggio... eravamo grafomane all’epoca… Avevamo acquistato perfino la ceralacca con tanto di timbro per sigillare le lettere, era un gioco serio il nostro! Trascorrevo spesso anche dei pomeriggi a studiare a casa sua. Lei abitava in una piccola villetta poco lontano da casa mia, con i genitori e una sorella più grande, che si vedevano poco. Così casa sua era tranquilla, in genere c’era solo la sua mamma, che ci preparava la merenda quando era ora, ma per il resto ci lasciava sole a fare i compiti e studiare, e naturalmente scambiarci le nostre chiacchierate. Lei era anche la mia rifornitrice personale di cioccolato, suo padre era rappresentante della Lindt per il Ticino, e quando tornavo da casa sua avevo sempre le tasche piene di cioccolatini. Eravamo la disperazione di mio padre, che a mezzogiorno pretendeva di pranzare puntuale, la famiglia riunita al completo intorno alla tavola, forse anche perché poi lui doveva tornare al lavoro. Io invece uscendo da scuola accompagnavo Graziella a casa, per finire i discorsi intrapresi, ma poi lei accompagnava me, ed io di nuovo lei, e via così all’infinito… fino a che la fame

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interrompeva quel continuo andirivieni fra casa mia e la sua!

Ci siamo perse con le scuole superiori, lei si trasferì in un’altra città per continuare gli studi magistrali. La ritrovai parecchi anni dopo, io ormai sposata e con una figlia piccola, lei in procinto di sposarsi. Un anno dopo seppi che una terribile malattia se l’era portata via per sempre.

Milvia

Frequentava anche lei la nostra stessa classe, e anche lei abitava vicino a me, così divenne presto un’alternativa a Graziella. Il suo vantaggio era di avere un fratello più grande, bellissimo, di cui tutte noi compagne eravamo innamorate. Cercavamo sempre una scusa per andare a casa sua, sperando di incontrarlo, ma lui naturalmente non ci degnava di uno sguardo, dall’altro della sua maggiore età, e Milvia non capiva cosa ci trovavamo d’interessante in lui, per lei era solo il suo fratello maggiore, un po’ rompiscatole, che pretendeva di comandarla e le faceva i dispetti! Milvia era quello che si dice un “maschiaccio”, per niente femminile, disdegnava tutto quello che le altre ragazze agognavano, come le calze di nylon, i rossetti, le gonne. Magrissima, sempre vestita in pantaloni, affermava con sicurezza che da grande lei avrebbe perfino fatto il servizio militare! Cosa che ho poi saputo ha fatto veramente, nelle ausiliarie. Con un’altra compagna di scuola, Sandrina, avevamo formato un club molto esclusivo, (solo noi tre…) e andavamo a esplorare i boschi dei dintorni, o a rubare l’uva dai vigneti, fare gare di bicicletta, e soprattutto al circolo ippico, condividendo la passione per i cavalli! Passavamo ore al maneggio ad ammirare quei magnifici animali, sognando di poterli un giorno cavalcare anche noi. Ma per il momento ci accontentavamo di aiutare a strigliarli. L’ho ritrovata qualche tempo fa, si è trasformata in un’elegante signora, sempre magrissima, con mia grande invidia, e con la predisposizione alla ricerca interiore di sé.

Roberto

Mio cugino Ferruccio aveva un amico del cuore, Roberto, suo compagno di classe, che naturalmente divenne anche amico mio. Era il classico sgobbone, o perlomeno a me sembrava fosse così, ma soprattutto era molto intelligente e precorreva i tempi rispetto a noi. Mi faceva la corte, si era innamorato di me, quelle cotte da ragazzini, ma ho saputo poi che sua mamma ci aveva sperato, in un nostro matrimonio… mah, valle a capire le mamme! Io lo trovavo un po’ noioso, con tutti quei suoi discorsi, per me difficili allora, su politica, filosofia, musica colta, eccetera. Quando noi ancora ascoltavamo le canzonette, lui si beava dei Concerti Branderburghesi di Bach. Leggeva Carlo Marx e il libretto rosso di Mao, e pretendeva di discuterne con noi che leggevamo Topolino!

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Era brutto, poverino, grassottello e goffo, con gli occhiali, il classico personaggio destinato a essere deriso per il suo aspetto, ma poi ricercato per la sua intelligenza nei compiti in classe. Intraprese infatti la carriera universitaria, insegnando, ed era conosciuto e stimato nel suo ambiente, fino a che una malattia se lo prese ancora piuttosto giovane.

Lilli

Terminate le scuole medie, alle superiori incontrai Liliana, detta Lilli. Veniva dal Veneto, da Schio per la verità, e si era trasferita a Lugano con sua madre, in cerca di una vita migliore. Lei era maestra elementare, e trovò lavoro in una piccola scuola di paese, una classe sola per tutte e cinque le elementari. C’incontrammo a un corso serale di tedesco, e la comune origine veneta ci unì subito. Era un po’ più grande di me, tre o quattro anni, e non aveva mai conosciuto il padre, né avuto una famiglia vera e propria, sua madre l’aveva dovuta mettere in collegio da piccola. Così venne “adottata” dalla mia famiglia, trascorrendo molto tempo con noi, dando ripetizioni ai miei fratellini e ricevendo in cambio lezioni di chitarra da mio padre. Le insegnai a pattinare sul ghiaccio, e il sabato sera andavamo alla pista di pattinaggio, dove si andava alla fine per incontrare i ragazzi, un po’ come ora si fanno “le vasche” nelle cittadine della provincia. Lei adorava la mia famiglia, ne aveva bisogno, non avendone mai avuta una tutta sua fatta e finita. In casa mia trovava la normalità, la quotidianità dei gesti, dei pasti serviti sempre alla solita ora, delle camerette personali, dei ruoli ben definiti: la mamma casalinga, il papà che lavora e porta a casa i soldi che servono per vivere, i figli che studiano. A vent’anni conobbe Hans, uno zurighese venuto a Lugano per imparare l’italiano, e dopo un paio di anni si sposarono, andando a vivere sul lago di Zurigo. La lontananza e la vita non ci hanno separate, per fortuna, siamo riuscite a mantenere inalterata l’amicizia e l’affetto profondo che ci lega, e le nostre vite hanno continuato a scorrere parallele nonostante la distanza. E’ la mia più importante amica, ancora oggi, e quando ci ritroviamo è come se ci fossimo lasciate ieri.

Angela

In quel periodo conobbi anche Angela, nello sci club che frequentavo. Appassionata di tutto quello che era natura, viveva una brutta situazione famigliare, si sentiva veramente incompresa e aveva un padre molto autoritario e rigido. I suoi avevano avuto un quarto figlio dopo molti anni, che viziavano e coccolavano, trascurandola, e lei ne soffriva molto. Mi faceva tenerezza e avevo voglia di proteggerla. Mi affascinava con i suoi discorsi, parlava di ribellione, di fughe da casa, e a un certo punto s’innamorò perdutamente di un uomo sposato, e nonostante i consigli di tutti

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gli amici non riuscì a liberarsi da una storia senza futuro. Oltre allo sci che amavamo entrambe, lei scoprì poi la montagna e il piacere di arrampicarsi sulla nuda roccia, dove io però non la seguii. La montagna vissuta in quel modo mi ha sempre fatto paura. Una sera ebbe un terribile incidente di auto. Un’altra auto non si fermò allo stop e si scontrarono con forza. Lei era sul sedile del passeggero, sicuramente senza cintura di sicurezza, così ruppe il parabrezza con la testa, rimanendo sfigurata in volto. Dovette subire numerosi interventi di chirurgia plastica, ma non tornò mai del tutto com’era prima. Una ragazza infelice. Rimanemmo amiche a lungo, anche quando io mi sposai e mi trasferii a Milano. Ogni volta che tornavo a Lugano dai miei non mancavo di farle visita in negozio dove lavorava. Suo padre aveva un negozio di lane e maglieria, e lei lavorava lì con lui, anche se la cosa non le piaceva, ma non aveva il coraggio e la forza per cambiare, come non l’aveva avuta in amore. La sua passione per la montagna la portò un giorno a partire per un trekking in Nepal, dove finalmente trovò la pace e la serenità. E’ ancora là, in qualche crepaccio, sotto la coltre di neve eterna.

Franco

L’ho conosciuto che avrò avuto quindici o sedici anni. Facevo l’apprendistato in Banca e andavo a scuola tre mezze giornate alla settimana, compreso il sabato mattina. A scuola ci invitarono ad associarci alla Società dei Commercianti, sezione giovanile, ed io dopo un po’ di tempo mi ritrovai “assunta” nel consiglio direttivo della sezione. Franco ne era il vice presidente, e diventammo subito amici, uniti anche dal fatto di scoprire di abitare vicinissimi. Lui aveva qualche anno più di me, era già impiegato in una piccola Banca privata, nella quale prometteva di fare carriera. Infatti, dopo poco passò dalla mansione di semplice impiegato a quella di capo-ufficio, con bevuta e festeggiamenti di tutto il gruppo del Direttivo. Chè alla fine eravamo tutti amici, e la riunione settimanale era più che altro una scusa per ritrovarsi poi al bar per grandi chiacchiere e bevute. In autunno organizzavamo la castagnata sociale, con musica e ballo, e poi il panettone e spumante per gli auguri di fine anno, e la festa di fine primavera per chiudere l’anno. Momenti nei quali nascevano nuove amicizie e nuovi amori, altri finivano, si creavano alleanze, gruppi si formavano e si scioglievano secondo regole misteriose e imperscrutabili. In breve tempo Franco ed io diventammo grandi amici, “amiconi” si potrebbe dire. All’uscita dal lavoro la sera ci ritrovavamo alla fermata dell’autobus, e se l’altro non era ancora arrivato lo si aspettava per fare il percorso insieme. Scendevamo alla stessa fermata, e poi erano ancora chiacchiere fino a casa. Spesso capitava che si facesse avanti e indietro da una casa all’altra, per finire il discorso iniziato, ritardando così il rientro al proprio domicilio, con arrabbiature di mio padre che mi voleva puntuale al desco famigliare. Dopo un po’ di tempo mi accorsi che Franco si era innamorato di me, ma io ero invece innamorata del suo migliore amico, Claudio, peraltro mio collega d’ufficio, come da manuale! E un po’ vigliaccamente andavo a

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piangere sulla sua spalla l’amico suo che non mi considerava proprio! Inutilmente cercavo di conquistarlo, lui era affascinato da altre bellezze, forse anche più grandi di me, che a quell’età ero un po’ fanciullina ancora. Così mi confidavo con Franco, ignorando volutamente la sua “cotta” per me, e chiedendogli consiglio su come conquistare il mio beneamato! Quanto possono essere cattive le donne! Poi l’amico partì, gli fu offerto lavoro a Basilea, Franco preso coraggio si dichiarò, ma io proprio non provavo per lui quell’affetto che avrebbe voluto da me, e così decidemmo di restare amici e basta. Un’amicizia che durò nel tempo, anche se poi la vita ci divise, lui rimase qua a Lugano ed io invece me ne andai tornando solo di tanto in tanto in visita ai miei genitori. Mi sposai, ebbi figli, vissi la mia vita e dimenticai la Banca e il lavoro d’ufficio che tanto odiavo. Lui invece fece davvero carriera. La piccola banca crebbe e diventò importante, trovando una nuova sede più elegante e funzionale, e lui divenne Vice-direttore o qualcosa di simile. Quando venivo a Lugano per qualche giorno, se avevo tempo lo passavo a trovare in ufficio, e riprendevamo un po’ quel filo della nostra storia, aggiornandoci sugli ultimi avvenimenti personali reciproci. Sapevo che si era sposato (con un “caporalmaggiore” austriaca, diceva lui!) ma non aveva potuto avere figli, per colpa di una malattia che aveva preso durante il servizio militare, e della quale purtroppo avrebbe portato i segni per sempre. Quando tornai qui due anno orsono, un giorno lo chiamai in Banca per salutarlo e annunciargli che avevo deciso di “rientrare” in patria, ma la segretaria mi disse che era a casa in malattia e per un po’ non sarebbe rientrato al lavoro. Così lasciai passare un po’ di mesi, e riprovai, ma ottenni la stessa risposta. Per molto tempo mi dimenticai di lui e del mio desiderio di rivederlo. Un giorno mi tornò in mente, e pensando ormai di ritrovarlo al suo posto, ritelefonai. Niente da fare, ricevetti nuovamente la triste e laconica risposta. Così pensai che la cosa fosse piuttosto seria, e lasciai perdere. Non avevo il telefono di casa sua, e anche se l’avessi avuto non volevo chiamarlo rischiando di metterlo in imbarazzo. Non sapendo esattamente cosa avesse, ho preferito evitare. Poi, come spesso succede, il destino ha deciso per me, e sabato andando in un centro commerciale l’ho incrociato mentre usciva con la moglie dallo stesso negozio. Sono rimasta bloccata senza parole a osservarlo, incredula. Smagrito, pallido, gli si leggeva la sofferenza sul volto emaciato. Camminava a stento, curvo, appoggiandosi al braccio della moglie e a un bastone, lentamente. Sembrava un vecchio di novant’anni, e non un uomo di circa sessant’anni. Per fortuna camminava tenendo il capo chino, e non mi ha vista. Ne sono stata felice, non avrei sopportato di guardarlo negli occhi e leggergli la sofferenza e forse anche la vergogna di farsi vedere in quello stato. Voglio ricordarlo com’era, com’eravamo da giovani, e lasciargli la dignità di restare nei miei ricordi nella bellezza della gioventù e della salute. Ciao Franco, amico mio.

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I due Moschettieri

A undici anni ricevetti in regalo tutta la serie di libri de “I quattro moschettieri” di Alessandro Dumas, con il loro seguito “Vent’anni dopo” e “Il Visconte di Bragelonne” che chiudeva la trilogia. Bellissimi libri antichi, rilegati in pelle con le scritte dorate sulla copertina, le pagine un po’ ingiallite dal tempo, scritte in piccolo, odoravano di vecchie librerie, polvere e muffa. Erano splendidi, e li conservo ancora.

Io che non solo ero un topo di biblioteca ma anche una V.P.R.A.P.A (Vera Principessa Romantica che Aspetta il Principe Azzurro) non ci misi molto né a leggerli tutti né ad innamorarmi di quella storia di cappa e spada dove il romanticismo la faceva da padrone.

Un giorno ne parlai non so più perché con la mia compagna e amica Graziella, con la quale condividevo il banco fin dalla prima elementare. Scoprii così che anche lei li aveva letti e li adorava, e subito cominciammo a condividere la stessa passione e li stessi sogni. Anche lei era una V.P.R.A.P.A. così ci trovammo subito in piena sintonia, e iniziammo a commentare la storia, la cattiveria di Milady, la perfidia del cardinale Richelieu, le trame di Mazarino, infido consigliere del Re. E naturalmente noi avevamo sempre una soluzione diversa per ogni questione che i quattro avevano dovuto risolvere. Ne sapevamo una più del diavolo, noi!

Decidemmo allora di dare un seguito alla storia, intanto perché non volevamo avesse una fine, desideravamo che nessuno morisse, che la saga di questi quattro eroi che avevano salvato la Francia e il suo Re continuasse all’infinito. Pensammo di impersonare ognuna di noi due un moschettiere, e naturalmente entrambe avremmo voluto essere D’Artagnan, l’eroe guascone e spavaldo, coraggioso e scanzonato. Ma come potevamo esserlo entrambe? Dato che eravamo anche molto amiche, decidemmo per la par condicio, e rinunciammo entrambe a impersonarlo. Io scelsi allora di essere Athos, l’eroe romantico e un po’ triste, deluso dal grande amore che l’aveva tradito, con forti ideali e principi morali. Graziella scelse invece Aramis, il “pretino” falsamente timido e timoroso, che ben si adattava al suo carattere un po’ schivo.

Al mattino, a scuola, ci accordavamo sulle linee guida da seguire per la nostra storia, poi a casa una di noi scriveva una lettera all’altra, naturalmente nei panni del rispettivo moschettiere, e nel pomeriggio l’altra continuava rispondendo, inventando la storia giorno per giorno. Ci eravamo procurate anche della ceralacca per sigillare le lettere, che nascondevamo in cartella per non farci scoprire e ci scambiavamo di nascosto.

Sotto le nostre penne nascevano così nuovi episodi, nuove battaglie si combattevano, nuovi amori nascevano e morivano, nuovi tradimenti, sotterfugi, trame segrete si tessevano e si smontavano, in un crescendo di fantasia continuo. Per una battaglia nuova che io inventavo, lei rispondeva con una missione segreta; se lei tramava un incontro segreto fra la Regina e il suo amante, io ci infilavo una dama di compagnia

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traditrice; se il Cardinale complottava con il nemico per detronizzare il Re, subito arrivavano nuovi alleati per aiutare i nostri eroi.

Di sicuro il povero Alessandro Dumas si sarà rivoltato nella tomba! E quante montagne di lettere ci siamo scritte in quei mesi! Oggi mi chiedo quando trovavo il tempo per studiare, fare i compiti, persa com’ero in quella storia che per me era diventata realtà. Una storia che andò avanti per tutti gli anni delle scuole medie, fino a che siamo state insieme Graziella ed io, con fasi più o meno intense. Poi lei cambiò scuola e città, e ci perdemmo un po’ di vista. Ho conservato a lungo le sue lettere, e lei le mie. Ora non sono più una V.P.R.A.P.A., e anche i film di cappa e spada ormai mi annoiano, ma Athos, Aramis, Porthos, e soprattutto D’Artagnan sono sempre i miei eroi preferiti, oggi come allora.

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Tintarella di Luna

Uno dei vantaggi ad avere la mia età, è che io posso dire che quel 20 luglio 1969 io c’ero. Ero là anch’io come tanti, davanti ad uno schermo televisivo, naso all’aria, occhi sgranati e bocca aperta dallo stupore, osservando degli omuncoli imbottiti come il più famoso omino della Michelin, scendere faticosamente da una buffa scaletta di ferro su un suolo all’apparenza polveroso, fare qualche saltello più in là e infine piantare nel suolo una bandiera che sembrava rigidamente inamidata. Strani suoni e rumori gracchianti provenivano dallo schermo, dicevano fossero parole ma sembravano scariche elettriche come durante un temporale. Eravamo in vacanza in campeggio, precisamente il vicino a Castiglione della Pescaia, con la mia famiglia e quella dei miei zii di Basilea. All’epoca disponevamo solo di una tenda famigliare, e così gli zii, quindi non avendo televisione con noi ci eravamo recati a Castiglione in un bar del centro, in mezzo a tanti altri avventori che come noi non volevano perdersi lo spettacolare evento. Ricordo che con mamma e zia c’eravamo fatte un giro per negozi, aspettando l’ora fatidica, lasciando gli uomini alle loro chiacchiere da “bar sport” o altro. Gli zii avevano quattro figli in tutto, due di lei due di lui. Lui, Otti, era il secondo marito di Narcisa, ed io e i miei fratelli lo adoravamo. Era sempre allegro, simpaticissimo, buffone anzi direi, e con lui ci si divertiva sempre. Parlava italiano con un forte e buffo accento tedesco, ma questo non gli impediva di comunicare con chiunque gli capitasse a tiro. Nella sua vita aveva fatto mille mestieri, e uno in particolare colpiva la nostra fantasia: per anni aveva girato il mondo vestendo i panni di un clown sui pattini con lo spettacolo itinerante di “Holidays on Ice”. In seguito, stanco di tanto viaggiare per il mondo, si era fermato a Basilea trasformando la sua passione per il calcio e lo sport in generale in una professione, diventando cronista sportivo, commentando le partite della squadra di calcio locale alla radio.

Ogni estate, per qualche anno, nel mese di luglio ci ritrovavamo in quel campeggio per le nostre tre settimane di ferie. Mettevamo le due tende vicine in un grande spiazzo sotto i pini, trasformando la zona in una “riserva svizzera”. Si cucinava insieme, e papà e Otti a pranzo si scolavano sempre un bel fiaschetto di vino, finendo poi entrambi sdraiati sotto un pino a smaltirlo con corollario di rumori e russamenti vari. I due figli di Otti non sempre venivano con lui, ma i miei cugini invece sì, ed erano i miei cavalieri per tutta la vacanza. Vicino al nostro campeggio c’era un centro per svedesi in vacanza, Riva del Sole mi pare si chiamasse, e naturalmente era un polo d’attrazione per tutti i maschi della zona, attratti dalle famose bellezze scandinave. Noi non eravamo da meno, se non altro perché lì c’era una sorta di discoteca e alla sera si poteva andare a ballare. Si doveva percorrere un tratto di strada Aurelia a piedi, in fila indiana per non essere investiti dalle auto di passaggio, e ritornare per

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la stessa via a notte fonda e al buio. Senza i miei due cavalieri non sarei mai potuta andare da sola!

Attenti e premurosi, mi guardavano a vista, e se da un lato la cosa mi faceva piacere e mi lusingava, dall’altro m’infastidiva perché gli altri ragazzi non osavano invitarmi a ballare, pensando fossi “fidanzata” con uno di loro. Dovevano sottostare al loro controllo prima di superare l’esame ed essere ammessi all’onore di poter danzare con me… Quella sera c’eravamo tutti in quel bar, mamma e papà, fratelli, zia e zio, cugini veri e cugini acquisiti, una grande famiglia allargata riunita intorno ad un tavolino in un bar accaldato, in mezzo a toscani vocianti con C aspirate e altri stranieri con lingue incomprensibili ai più. Tutti insieme appassionatamente a osservare due uomini per la prima volta sulla LUNA.

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Africa Entrò nel mio negozio/laboratorio un freddo giorno di dicembre di qualche anno fa, subito dopo Natale. Quei giorni noiosi per chi vive solo, fra Natale e Capodanno, nei quali non sai mai bene cosa fare. I parenti, gli amici, sono tutti a sciare o su qualche calda spiaggia dei mari del sud, e tu cerchi il modo di far passare quei giorni cosiddetti “di festa” nel miglior modo possibile, senza farti prendere dalla tristezza che spesso arriva in quel periodo dell’anno.

Mi chiese in uno stentato italiano misto al francese se poteva guardare le opere esposte, e alla mia risposta affermativa si concentrò su di loro. Osservava ogni piccolo oggetto con un’attenzione meticolosa, certosina, senza toccarlo ma riuscendo comunque a studiarlo in ogni suo aspetto. Aveva lo sguardo da intenditore, si capiva che la sua non era pura curiosità ma interesse forse dettato da una reciprocità di mestiere.

Lo osservai meglio, indossava un cappotto di lana di cammello, elegante sì, ma che aveva visto tempi migliori, un berretto di pelle, di quelli con visiera che i ragazzini mettono al contrario, guanti sempre in pelle, e scarpe di cuoio di fattura sicuramente italiana. Si capiva che amava vestirsi bene, ma che non ne aveva la possibilità economica, e che forse spendeva solo per le scarpe, notevolmente belle.

Nonostante la pelle scura tutto il suo aspetto lo distingueva dai numerosi africani che giravano per le strade milanesi cercando di venderti la loro mercanzia, o che ciondolavano annoiati intorno alla Stazione Centrale. Incuriosita tentati un approccio e gli chiesi da dove venisse.

- Parigi – mi rispose

- ah, ma quale é il suo paese in Africa? – domandai di nuovo

- Côte d’Ivoire – rispose, e passando al francese continuò:

- c’est vous qui à fait tout ça?- (è lei che ha fatto tutto questo?)

Risposi nella sua stessa lingua, e vidi i suoi occhi scuri brillare di gioia nello scoprire qualcuno che lo comprendeva e poteva dialogare con lui senza fatica.

Parlammo a lungo, del mio lavoro, del suo (era scultore, mi disse, e lavorava soprattutto l’avorio e il legno) e del perché fosse venuto in Italia dalla Francia, dove viveva ormai da quindici anni.

Gli chiesi se potevo vedere qualche sua opera, mi disse che me ne avrebbe portata qualcuna nei giorni a venire.

Tornò, infatti, un paio di sere dopo, e aveva con sé le più sottili e splendide statuine in legno che avessi mai visto. Erano alte forse cinquanta o sessanta centimetri, sottilissime, due gambe lunghe lunghe e un corpo piccolissimo, sproporzionato, ma

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nell’insieme l’effetto era bellissimo. Il viso di queste donne africane era cesellato finemente in ogni suo particolare, gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca, i capelli adornati come le donne vere. Una portava sulla testa una brocca, un’altra suonava una sorta di flauto, la terza con le braccia alzate si acconciava i capelli.

Mi disse che le scolpiva a mano nel suo bagno di casa, non avendo un altro luogo dove lavorare, e poi cercava di venderle per raggranellare qualche soldo. Gli proposi di tenerne qualcuna nel mio negozio e di esporla in mezzo alle mie ceramiche. Era felice, non sperava in tanta fortuna!

Iniziò così la mia amicizia con Mori, che dura tuttora.

Grazie a lui ho imparato a conoscere meglio l’altra faccia del mondo, quello africano e degli “immigrati di colore”, come sono spesso definiti.

La caratteristica che più mi ha colpito è la loro concezione del tempo. E’ completamente diversa dalla nostra, per loro il tempo non è una cosa che esiste già, ma una cosa che l’uomo può creare. Il tempo si manifesta per effetto del nostro agire, se cessiamo l’azione, il tempo semplicemente sparisce. Così l’africano quando non agisce, aspetta. La sua capacità di aspettare ha qualcosa d’incredibile, per noi occidentali abituati alla fretta e alla frenesia dei tempi moderni.

Anche il fisico dell’africano che aspetta subisce una modifica, la figura si assottiglia, si affloscia, si rattrappisce, la testa s’immobilizza, l’uomo non guarda, non osserva, non manifesta curiosità; spesso tiene gli occhi chiusi, ma anche se sono aperti lo sguardo è vuoto, vitreo. Mori arrivava ogni giorno, verso le diciassette nel mio negozio. Si sedeva, e cadeva in questo stato di attesa, fino a quando non lo scuotevo dal suo torpore con le mie chiacchiere.

Questa loro concezione particolare del tempo fa sì che la puntualità per Mori fosse una mera utopia. Cosa che mi faceva regolarmente infuriare! Per me che sono di origine svizzera, che la puntualità l’ho succhiata con il latte nel biberon, doverlo attendere talvolta anche per ore, mi faceva regolarmente impazzire. Con il tempo ho imparato a fissargli appuntamenti anticipati, così che circa ci si trovava a metà strada….ma che fatica! Ancora oggi che ci vediamo e sentiamo molto meno, quando dobbiamo fissare un appuntamento è sempre un’impresa!

Un’altra caratteristica è il senso di solidarietà fra di loro, anche fra persone che non si conoscono affatto, basta che siano africani, se uno di loro ha bisogno gli altri sono subito pronti a dare una mano. Questo nasce dal fatto che in Africa la famiglia, intesa come etnia, come villaggio, è molto importante. L’appartenenza a un gruppo, a un villaggio, per l’africano è tutto. Non esiste che uno di loro viva da solo, c’è sempre qualcuno pronto ad accoglierlo nella sua capanna, a dargli un letto dove dormire, un piatto dove mangiare. Nei villaggi africani non esistono confini, barriere, recinzioni, questo è mio e questo è tuo. Tutto è di tutti, chiunque può servirsene. Mori mi raccontava che sua madre teneva vicino alla capanna un grande orcio di terracotta

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per l’acqua da bere, con un mestolo appeso a una corda, e che chiunque passasse di lì poteva servirsene per dissetarsi, e ogni capanna ne aveva uno simile.

Suo padre aveva avuto quattro mogli, e lui di conseguenza una miriade di fratelli e fratellastri. Non sapeva nemmeno lui quanti erano. Raccontava che se due donne avevano dei figli nello stesso periodo, per i primi anni i bambini erano scambiati, così che nessuno di loro potesse essere gelosa del figlio dell’altra e crescesse il figlio dell’altra donna come il proprio. Per diversi anni lui ha creduto che sua madre fosse l’altra, e le ha voluto bene come alla propria madre.

Una concezione della maternità che noi non comprendiamo, probabilmente, ma che ha permesso loro di poter avere famiglie numerose, e vista la mortalità infantile in quel paese non è cosa da poco.

A questo proposito una volta gli chiesi, ma poiché siete così poveri perché non fate meno figli? E lui mi spiegò con un sorriso che al contrario i figli sono una ricchezza, e quindi più ce ne sono più si è ricchi. Loro avevano dei campi che coltivavano, granoturco, frutta, e non so che altro. I bambini aiutavano nella raccolta, e più bambini c’erano più riuscivano a raccogliere e quindi ad avere merce da vendere al mercato. Una ricchezza, quindi. Semplice, no?

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Bambine Il 22 marzo del 1973 era di colpo arrivata la primavera. Fino a qualche giorno prima faceva ancora freddo, l’inverno non aveva ancora abbandonato la sua morsa, e non si notava nessun cenno dell’arrivo della tanto attesa “signora dei fiori”. Il 19 marzo si festeggiava ancora San Giuseppe e la ben più laica Festa del Papà, ed era quindi giorno festivo; scuole chiuse, negozi chiusi, nessuno al lavoro. Il medico mi aveva visitato qualche giorno prima, e suggerito di lasciar passare il giorno di festa e di ricoverarmi il giorno seguente, il 20 marzo. Era anche la data presunta del parto. Ma si sa, i bambini non sempre fanno quello che i grandi si aspettano da loro! Il 20 mattina mi presento puntuale all’appuntamento, accompagnata dal futuro padre e con la mia valigetta pronta, riempita di attese e sogni su questo primo figlio. Mi mettono in una camera a due, c’era già una giovane signora che aveva appena avuto la sua bambina, e stava aspettando di poter rientrare a casa. Ci mettiamo subito a chiacchierare, è molto simpatica e mi dà delle buone “dritte”, fresca d’esperienza com’è. Dopo poco mi visitano, ma di contrazioni nemmeno l’ombra. Mi dicono che è normale, mi daranno qualcosa per attivare il meccanismo, e di aspettare con fiducia e pazienza. Ciò che mi accingo a fare. Nel frattempo arriva mia madre dalla Svizzera, accompagnata da papà che subito se ne torna a casa e al suo lavoro che non può abbandonare. Lei invece si sarebbe fermata ospite a casa mia, pronta a dare una mano quando sarei rientrata poi a casa con il bimbo. Sono felice di vederla, mi rincuora averla vicina, sono giovane, ho ventitre anni e non nascondo un po’ di paura per ciò che mi attende, e di cui ho solo un vago sentore, anche grazie al corso pre-parto che ho frequentato. La verità sarà ben lontana da qualunque immaginazione, e me ne accorgerò ben presto! Dato che sto bene, nonostante le pastiglie che mi hanno dato, mamma suggerisce di camminare; vestaglia e pantofole, e via, per i corridoi della clinica, su e giù, e perfino in caffetteria a prendere un succo di frutta, un caffè, qualcosa per passare il tempo insomma. Arriva sera, torna il maritino affettuoso, nessuna novità, così i due se ne vanno a casa pronti a tornare la mattina dopo, ma con la speranza di essere svegliati durante la notte dalla bella notizia. Invece nulla, il giorno seguente trascorre come il precedente, con passeggiate, pillole, visite di ostetriche, ma niente bambino. Non ne vuole proprio sapere di venire al mondo, questo figlio mio! La mattina del terzo giorno, il 22 marzo appunto, si annunciava una splendida giornata, tiepida, con il sole caldo, cielo terso come raramente se ne vedono a Milano, e i primi fiori che sbocciano sugli alberi: forsizie, camelie, magnolie, pruni, narcisi, primule… Forse il mio bambino aspettava proprio questo segnale, perché finalmente inizio a sentire qualche dolorino… chiamo l’ostetrica, che dice sì, ci siamo, c’è un po’ di dilatazione. E via, s’inizia… mi fanno un’iniezione, e quasi subito il dolorino si trasforma in dolore vero e proprio, che continua incessante per tutto il giorno. Mia madre mi sta accanto per tutto il travaglio, asciugandomi il

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sudore, bagnandomi le labbra perché non posso bere, sorreggendomi e aiutandomi nei momenti più duri, facendomi coraggio, parlandomi d’altro per distrarmi. Al momento opportuno mi portano in sala parto, e verso le 18.30 finalmente nasce Giulia.Subito mi rendo conto che la mia vita non sarà più la stessa e ne sono spaventata. Sento tutta questa enorme responsabilità di un altro essere umano, la cui esistenza dipende da me e solo da me, e comprendo fino in fondo che tutto ciò sarà per sempre. Per SEMPRE. Mi ripeto questa parola nella testa, come un mantra: sempre, sempre, sempre… e sento che mi manca il fiato e fatico a respirare. Sono felice, adoro questa bimba e mi chiedo anche dove sia stata fino a quel momento, e come io abbia potuto vivere tutto quel tempo senza di lei…

Quando cinque giorni dopo rientro a casa con il mio nuovo fagottino, la primavera è ormai nel pieno del suo fulgore. Ricordo lo stupore mentre, attraversando le vie e le strade di Milano, osservo le piante fiorite, le persone che vanno in giro senza cappotti e pellicce, in bicicletta, e sembrano perfino più allegre. Mi rendo conto allora che il mondo non si è fermato mentre ero rinchiusa in clinica, presa da questo evento così enorme, meraviglioso e tremendo a un tempo, che mi aveva sconvolto l’esistenza rendendomi per sempre diversa da ciò che ero stata fino ad allora.

* * * *

“Le bambine sono quanto di più bello possa accadere alla gente. Sono nate con un po’ dello splendore degli angeli intorno a loro e, sebbene talvolta ne rimanga poco, ce n’è abbastanza per prenderti il cuore…”

Queste parole me le scrisse mia cugina Maria Nives quando nacque la mia prima bimba, Giulia. E mai parole furono più profetiche, ma ancor più si adattarono alla seconda bimba, Cristina.

Nata quattro anni dopo, degli angeli aveva l’aspetto, con il colorito roseo e i capelli biondi che sembravano quasi con le mèches, a differenza della sorella, di pelle olivastra e capelli scuri come il padre. Con un marito così “mediterraneo” alla nascita di Cristina sorsero pettegolezzi e illazioni, smentite però dagli occhi che entrambe avevano identici al padre. E si sa, gli occhi sono lo specchio dell’anima, e non mentono mai!

Suo padre mi ripeteva: “Per carità, non farlo nascere il 1° maggio. Qualunque giorno ma non il primo maggio! Non sopporterei di avere un figlio nato il giorno dei comunisti.” Disse proprio così, dei comunisti. Io che all’epoca non capivo nulla di politica e nemmeno m’interessava, non mi preoccupai di chiedere spiegazioni, ciò

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che m’importava era che questo figlio nascesse e alla svelta. Ero stufa di portarmelo appresso con il suo peso, il pancione enorme, il mal di schiena e la fatica a fare qualunque movimento.

Cristina fu brava, aspettò ancora due giorni a nascere, e arrivò il 3, facendo tutti felici. Oddio, forse proprio tutti no... Mio padre quando seppe che era femmina, dopo Giulia e l’altra nipotina figlia di mio fratello, esclamò: “ancora una femmina!” con fare quasi disgustato. In realtà, appena la vide se ne innamorò, e non fece mai mistero della sua predilezione per questa nuova nipote femmina.

Anche Giulia adorò subito la sorellina, arrivata quattro anni dopo, e la prese subito sotto la sua ala protettrice di sorella maggiore. Quando la sera nell’addormentarsi Cristina perdeva il “ciuccio” era lei che si alzava a raccoglierlo, e quando la allattavo veniva sempre a chiacchierare vicino a me, al punto che dovevo pregarla di allontanarsi un momento perché Cristina, sentendo la voce della sorella, si girava e smetteva di succhiare.

Nata sotto il segno del Toro, Cristina dimostrò subito tutto il suo carattere forte e volitivo, imitando presto la sorella nei giochi e negli atteggiamenti, seguendola ovunque come un cagnolino, e combinando disastri appena poteva sfuggire al controllo degli adulti. L’estate fatidica nella quale il marito si convinse a comprare una roulotte, prima della vacanza tutti insieme in montagna dove perdemmo poi la ruota della roulotte, ci portò al mare a Caorle, in un grande campeggio dove ci lasciò sole a trascorrere tre settimane di vacanza.

Vacanza forse per lui, che se ne restava a casa solo soletto ma aveva la libertà senza moglie e figlie appresso. Non per me, che dovevo badare a una bimba di cinque anni e una di quattordici mesi! Giulia era molto assennata e responsabile per la sua età, e se glielo chiedevo si prendeva cura della sorellina, ma restava pur sempre una bimba di cinque anni; inoltre, socievole com’è, faceva facilmente amicizia, e in breve si ritrovava piena di amici con cui giocare e scorrazzare per il campeggio.

Cristina era una bimba che bisognava guardare SEMPRE. Bastava volgere gli occhi un attimo, e lei spariva; in spiaggia mangiava la sabbia, succhiando la paletta sporca, o beveva l’acqua dal secchiello; quando si risvegliava dal sonnellino pomeridiano nella roulotte, se non c’era subito qualcuno presente, si alzava dal suo letto e iniziava a svuotare armadi e cassetti. I suoi bersagli preferiti erano i giochi di Giulia ovviamente, ma non disdegnava abiti e pentole e tutto ciò che era a portata delle sue gambette e manine. Ero costretta a legarla nel seggiolone per avere un minimo di libertà di muovermi, cucinare o lavare le stoviglie all’interno dell’abitacolo lasciandola fuori in veranda.

Un giorno strillava così forte perché non ci voleva stare che la tolsi dal seggiolone pregando Giulia di guardarla un momento mentre finivo di fare qualcosa. Un attimo, dalle finestre della roulotte le tenevo d’occhio, le vidi girare intorno da un lato, poi

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riemergere dall’altro, prima Giulia, poi mi aspetto di vedere Cristina dietro di lei… ma niente. Agitata corro fuori, svolto l’angolo, di Cristina nemmeno l’ombra. La chiamo, chiamo Giulia, le chiedo dov’è sua sorella: è qui mamma… era qui… dietro di me…. Lei è più spaventata di me…

Iniziamo a chiamarla a gran voce, girando tutto intorno, guardando nelle piazzole intorno. I nostri vicini escono, chiedono, chiamano pure loro, mi aiutano a cercarla. Niente da fare, sembra proprio sparita nel nulla! Sono terrorizzata. Giulia piange, e mi tocca pure consolarla, dirle che non è colpa sua, che la ritroveremo. La affido a dei vicini e corro verso la zona piscine, verso il mare. Mi tranquillizza un po’ il sapere che Cristina non ama l’acqua, non vuole saperne di bagnarsi, non è come Giulia che è un pesciolino nato e appena vede uno specchio d’acqua ci si butta. Lei no, per fortuna in questo caso, perché già me la vedo con gli occhi della mente galleggiare sulla superficie della piscina…

Arrivo sullo spiazzo dove si trovano le piscine e la vedo, tenuta per mano da un bagnino, che chiacchiera amabilmente con lei: “L’ho vista sola che si aggirava qua… le ho chiesto come si chiama per rintracciarla, signora…” mi fa lui. Un abbraccio liberatorio, seguito da una sgridata che non servirà a nulla, ma che bisogna fare comunque. In seguito ho comprato una lunga e grossa corda, e la legavo a un palo che sorreggeva la veranda, così che potesse muoversi liberamente ma senza più poter scappare. La gente mi guardava male, sembrava un cagnolino tenuto alla catena, ma che altro potevo fare?

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La roulotte

Finalmente l’avevo convinto. Dopo aver trascorso qualche giorno di vacanza nella roulotte dei miei genitori, gentilmente prestataci, ero riuscita a convincerlo ad acquistarne una tutta nostra, per poterci andare in vacanza con le nostre bambine. Non era tanto per un risparmio rispetto a una pensione, o un alberghetto, ma per il concetto in sé. Ho sempre adorato la libertà che ti lascia fare campeggio, e pensavo che anche le nostre bambine avrebbero goduto di questa libertà. Poter stare tutto il giorno in costume da bagno, girare per il campeggio senza pericolo, anche da sole, mangiare all’aperto giorno e sera, e poi vuoi mettere, dormire tutti insieme nello stesso piccolo spazio?! Che divertimento...!

Così finalmente anche il mio raffinato, esigente, un po’ snob marito si era deciso e un sabato siamo andati a “comprarci la roulotte”. Non essendo proprio ricchi sfondati, ne abbiamo scelto una usata, ma grande abbastanza e in ordine. L’auto aveva già superato il collaudo per il gancio di traino, e anche se l’esperto diceva che era un po’ al limite come potenza, andava comunque bene. Così la sera ci portiamo a casa la nostra bella roulotte e la parcheggiamo in giardino, in attesa delle prossime ormai vicine ferie.

Nei giorni seguenti mi sono divertita ad arredarla, comprando le stoviglie, le lenzuola e le coperte, gli asciugamani divisi per colori per i grandi e per i bambini. Mi sembrava di giocare alla casa delle bambole di quando ero piccola! Un gran divertimento. La sera io e mio marito, dopo aver messo a letto le bambine, andavamo a berci un bicchiere di vino seduti nella nostra roulotte parcheggiata in giardino, fingendo di essere in un altro luogo, in un altro tempo. Che matti!

Finalmente arrivano le sospirate ferie, e partiamo. La meta: le alpi, le montagne del Grigioni, Flims e i suoi dintorni. Lì troviamo un bellissimo campeggio e ci godiamo facendo passeggiate, raccogliendo mirtilli e lamponi, giocando a minigolf, o semplicemente prendendo il sole osservando le nostre bambine giocare libere e felici. Terminate le due settimane ci accingiamo al rientro, decidendo di passare a salutare i miei genitori, anche loro in montagna con la loro roulotte, a Campo Blenio.

Così saliamo verso il passo del Lucomagno, ma durante la salita il marito alla guida lamenta una certa fatica della vettura. Sembra che non ce la faccia a tirare la roulotte su per la salita, quasi come avesse i freni tirati. Strano! Arrivati in cima al passo, ci fermiamo per far riposare l’auto e raffreddare il motore. Telefoniamo ai miei informandoli, e mio padre si offre di venire a prendere me e le bambine, e dare un’occhiata all’automobile. Così ci accompagna al campeggio dove la mamma ci aspettava a braccia aperte, e dove più tardi ci raggiunge il marito con l’auto e la roulotte, ormai a posto.

Dopo una buona cena in loro compagnia, rassicurati dal controllo fatto da papà,

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ci rimettiamo in marcia per rientrare a casa. Ormai la strada è tutta in discesa, e i problemi dovrebbero essere terminati. Si era fatta ormai notte, le bambine si erano addormentate sul sedile posteriore, e noi si chiacchierava tranquilli fra di noi.

Avevamo già lasciato l’autostrada ed eravamo ormai a pochi chilometri da casa nostra, quando all’improvviso sentiamo un gran botto, uno stridio di ruote, il rumore di ferro strisciato sull’asfalto. La roulotte sobbalzava da un lato all’altro della strada, scintille uscivano da sotto le ruote, mio marito gridava “va a fuoco, uscite tutti, va a fuoco!”. Solo la sua perizia di guidatore riesce a tenere in strada la vettura e a farla fermare sul ciglio della strada.

Spaventatissimi scendiamo dall’auto, e vediamo la roulotte senza una ruota, appoggiata su di un fianco. Delle persone, uscite da una casa vicina pensando ad un incidente, avevano trovato la ruota nel loro cortile, a trecento metri di distanza. Apriamo la porta della roulotte, dentro uno sfracello: armadietti aperti, gli sportelli rotti, cibo e stoviglie rovesciati per terra, un disastro! Mi veniva da piangere!

Le bambine spaventate, svegliate di soprassalto, non capivano cosa fosse successo e si stringevano a me chiedendo, domandando. Ritrovata un po’ di calma, abbiamo staccato l’auto dalla roulotte ormai fuori uso, e messami alla guida ho riportato a casa le bambine calmandole e rimettendole a dormire nei loro letti. I vicini gentili hanno poi aiutato mio marito a svuotare la roulotte delle cose ancora salvabili, accompagnandolo in seguito a casa.

Il giorno dopo naturalmente abbiamo chiamato subito il tizio che ce l’aveva venduta, il quale è venuto a riprendersela con il carro attrezzi, e dopo aver controllato ha sentenziato che in pratica si era bloccato il freno sulla ruota (per questo l’auto faceva fatica in salita!) e alla fine il perno della ruota si era spezzato. Abbiamo pensato alla strada fatta in montagna, a certi precipizi sfiorati, ai burroni nei quali avremmo potuto finire se la ruota si fosse staccata chilometri prima... e il mio coraggioso marito ha deciso che mai più in vita sua sarebbe andato in giro con qualcosa attaccato dietro all’automobile!

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Avevo un sogno

“La vita è troppo breve per sprecarla a cercare di realizzare i sogni degli altri. Oscar Wilde”

Avevo un sogno. Quando mio padre cambiò lavoro, e poté avere le ferie in estate come tutti, e anche uno stipendio migliore, comprammo una tenda da campeggio e andammo per la prima volta al mare tutti e cinque insieme. Qualche anno dopo la tenda diventò una roulotte, e con quella le vacanze divennero più comode anche se non più belle e allegre. La prima vacanza fu sul Tirreno, a Castiglione della Pescaia. Non c’era l’autostrada come ora, non tutta perlomeno, e a un certo punto papà decise di prendere una strada interna, credo fosse la Collesalvetti. Così per la prima volta vidi la campagna toscana e me ne innamorai.

Avevo un sogno. Per un anniversario di matrimonio con mio marito ci regalammo un viaggio a Firenze dove trascorremmo romantiche giornate visitando mostre e cenando sulla riva dell’Arno. Poi Siena, con la sua splendida piazza a forma di conchiglia, San Gimignano dalle cento torri, Volterra e la piazza dei Priori, ed io m’innamorai nuovamente della Toscana.

Avevo un sogno. Fra i tanti corsi estivi di ceramica ne scelsi uno tenuto a Sorano, in Maremma. Non so perché, forse il costo del corso, forse le attività proposte, forse un po’ tutto l’insieme. Scelsi di arrivarci dalla costa, da Albinia andando verso l’interno. A un certo punto arrivai con la mia auto a una curva e lì rimasi folgorata: avevo di fronte a me la cittadina di Pitigliano. Non avrei mai immaginato tanta bellezza! Poi scoprii Sorano, e Sovana, le vie cave etrusche, Saturnia e le sue acque sulfuree, il Lago di Bolsena con la città omonima. Scoprii così la Maremma, e m’innamorai un’altra volta della Toscana.

Un giorno impacchettai la mia casa mettendo tutte le mie cose negli scatoloni, mi liberai di tanti oggetti e mobili superflui, chiamai un amico con un furgone, e dopo aver salutato figli e amici, caricato gatti e piante, partii per la Toscana dove avevo deciso di voler vivere, realizzando il mio sogno.

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Ci sono volte...

...nelle quali mi prende una sottile nostalgia. Non è tristezza, è più un desiderio malinconico, un ricordo dolce-amaro di qualcosa che non c’è più e non sai bene perché. Momenti nei quali vorrei sentire ancora le voci dei miei bambini, sentirli correre e parlare e giocare e ridere e azzuffarsi. Vorrei sentire ancora le loro richieste d’aiuto, o i loro lamenti, “mamma, non trovo più il mio maglione...,i miei pantaloni... la mia camicetta...” “mamma, cristina mi fa i dispetti, tocca tutte le mie cose...” “mamma, non è vero, è lei che non mi lascia toccare niente...!” e le risate, e i pianti, e la musica sempre, sempre, sempre, e le corse su e giù sulle scale, e il telefono sempre occupato, e i giochi per terra e a giro, e gli amici per casa, e le corse per non arrivare tardi a scuola, e la lavatrice sempre piena, e giulia che scansa i piatti da lavare, e cristina che insegue suo fratello per picchiarlo, e lui che le tira i capelli, e, e, e...

...e dove sono andati a finire tutti???

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INDICE

Dancing Astoria pag. 5

La lambretta pag. 6

Il maggiolino pag. 7

Vice-nonno pag. 10

Bar Ginbianchi pag. 12

La cuoca perfetta pag. 14

Il Campo pag. 16

La ballerina pag. 18

Vacanze pag. 20

Liacle pag. 22

Il “signor Leuenberger” pag. 24

Cavalli pag. 26

Natale pag. 29

Beethoven pag. 32

Antonio pag. 34

Amici pag. 36

I due Moschettieri pag. 42

Tintarella di Luna pag. 44

Africa pag. 46

Bambine pag. 49

La roulotte pag. 53

Avevo un sogno pag. 55

Ci sono volte pag. 56