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DOMENICA SETTIMANALE DI TUTTE LE COSE VISIBILI E INVISIBILI DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020 Vite sottocosto IL CAPORALATO / 2 rRZSEerdH/NktNfbCabniBGP8Uh01VrRoA2fuKSobKU=

DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020 DOMENICA...DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020 F ar la spesa con il Vangelo nella borsa? Magari fosse cos. Potrebbe essere l'inizio di una strategia per sbaragliare

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Page 1: DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020 DOMENICA...DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020 F ar la spesa con il Vangelo nella borsa? Magari fosse cos. Potrebbe essere l'inizio di una strategia per sbaragliare

DOMENICAS E T T I M A N A L E D I T U T T E L E C O S E V I S I B I L I E I N V I S I B I L I

DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

Vite sottocostoIL CAPORALATO / 2

rRZSEerdH/NktNfbCabniBGP8Uh01VrRoA2fuKSobKU=

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12 /L’ECO DI BERGAMO

DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

Solola giustizia

può liberaretutti

Oro rosso. Lo sfruttamento dei braccianti agricoli non riguarda solo le forze dell’ordine

ma interroga le nostre coscienze di consumatori

È possibile, ci è concesso iniziarecon una citazione irrimediabil-mente fuori moda? Molti anniprima della «società liquida» diZygmunt Bauman qualcun altro

ci metteva in guardia da certi pericoli con paroleche, rilette oggi, mettono i brividi: «La giornatalavorativa è una grandezza variabile […] non fissa,ma liquida» scriveva Marx nel Capitale (Libroprimo, capitolo VIII). A distanza di un secolo emezzo le vittime del caporalato vivono un incuboin cui vita e lavoro, lavoro e sfruttamento nonsono separabili e quindi riconoscibili. Tutto tieneinsieme tutto. C’è la prestazione d’opera, dieciore sul campo per 14 euro cui vanno sottrattid’ufficio 5 euro per il trasporto, 3.50 euro per ilpanino, 1.50 per i guanti, tutti necessari e vendutinaturalmente dai caporali. E ci sono l’alloggio,il cibo, la corrente elettrica, l’acqua, il materas-so... venduti a caro prezzo a lavoratori-schiavicostretti a vivere in ghetti (baracche, tende,capannoni, brande all’aria aperta) senza privacy,senza igiene, senza dignità.

Ora, tutto questo potrebbe anche essere un

affare da poliziotti e magistrati, se non fosse checi permette di comprare fragole e pomodori aprezzi stracciati, e di averli sulla tavola tuttol’anno, grazie ad una stagionalità circolare eperenne mai sazia di forza lavoro, per la qualeil capitalismo selvaggio attinge al ventre molledella globalizzazione, i migranti.

Il fenomeno ci interroga sul nostro ruolo dicittadini consumatori. Le pagine che seguonoe quelle che le hanno precedute, settimana scor-sa, dimostrano che gli ingranaggi del businessdello sfruttamento non sono così oscuri comepotrebbe sembrare a prima vista. Così come èimpossibile non accorgersi delle storture delcapitalismo, di fronte a certi prezzi, risibili.Davvero, è difficile far finta di nulla, visto chei pomodori li abbiamo sempre in tavola. Ci riem-piamo la bocca di paroloni altisonanti, ci svuotia-mo il portafogli con occhi bendati: è un «bipolari-smo dello spirito» quello che ci fa tenere separatiteoria e pratica? Eppure, cambiare il sistemaeconomico è possibile, e le storie che vi raccontia-mo oggi lo dimostrano.

POST SCRIPTUM

Nell’ebraico delle scritture sacre i verbi del lavoroe della custodia della terra, ‘avàd e shamàr, sonogli stessi del servizio dovuto a Dio: si «serve ilsuolo» come si «serve Dio». Chi raccoglie fragolee pomodori si inginocchia davanti all’altare, nonchina il capo davanti alla violenza di qualcunoe all’indifferenza di altri.Marco Dell’Oro

In copertina

un ragazzo

impegnato

nella raccolta

nei campi

Qui accanto

un bracciante

nel ghetto

di Rignano

Garganico

(Foggia)

in una

fotografia

dell’agosto

2018

DOMENICA / POST SCRIPTUM

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L’ECO DI BERGAMO / 13DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

Far la spesa con il Vangelo nella borsa?Magari fosse così. Potrebbe esserel’inizio di una strategia per sbaragliaresfruttamento e ridare dignità alle per-sone». Padre Giulio Albanese, missio-

nario e teologo indagatore di quel rapporto sempreconflittuale tra teologia morale e vita economica, osserva e spiega di cosa si tratta: «Lo chiamo atteggia-mento spiritualmente bipolare, per cui tra Spirito evita molto spesso non c’è alcuna congiunzione».

Padre , si comincia dal pomodoro pagato una mise-ria e si finisce alla grande rapina di materie primeda parte dei ricchi. Ma nessuno se ne rende conto.«È proprio così, anzi qualcuno sostiene addiritturache tutto ciò sia frutto del destino, come se ci fosse qualcuno predestinato all’angheria. Invece siano noia determinare scenari e a fare o disfare equilibri pocovirtuosi o addirittura sconcertanti. Come se si conti-

nuasse a combattere una guerra dimenticata per l’ac-quisizione iniqua delle commodity, delle materie pri-me, dal pomodoro alle fonti energetiche. Il paradossoè che la questione del pomodoro è sotto i nostri occhiogni giorno, ma noi gli occhi tendiamo a chiuderli».

Perché?«La categoria economica è l’unica con cui si giudicala qualità della vita. Il “se posso spendere meno” è diventato il criterio principale con cui giudicare ogniaspetto della vita e della società. Si tende insomma anon svelare il retroscena e i meccanismi latenti perchéaltrimenti dovremmo metterci a tribolare con i valori.Oggi il denaro ha preso il sopravvento sulla dignità dellavoro umano e nessuno si indigna più, per esempio,dell’esistenza del lavoro indecente. Lo si nega e ci stupiamo: “Ma perché si lamentano?”».

Per essere morali occorre un comportamento di consumo virtuoso?«Esattamente e si deve partire dal pomodoro. Bisognadisintossicarsi dal consumismo, che è cosa diversa dalconsumo. Il consumismo ha stravolto le regole del consumo e peggiorato la condizione e la dignità di molti: donne, uomini e anche di bambini. Il migliora-mento della condizione umana passa da questioni molto complesse, che coinvolgono il rapporto tra uomo e natura».

In che senso?«Pensi alla coltivazione nelle serre. Dov’è scritto chedobbiamo avere lamponi tutto l’anno o fiori scintillan-ti ogni mese e che ogni desiderio debba essere soddi-sfatto? Chi ne fa le spese sono lavoratori che per noisono invisibili. Essere morali invece implica un cam-bio di mentalità e di azioni pratiche, rispettose delladignità di chi lavora».

Quindi va messo in discussione lo stile di vita?«Sì e va ribadito il principio dell’eticità delle nostre azioni, dal giusto prezzo della verdura agli investimen-ti bancari. I profitti generati dal commercio delle armi,dal lavoro indecente, dalla distruzione dell’ambientesono in netta contraddizione con la logica della solida-rietà e del Vangelo. Il Papa non fa che ripeterlo, ma quando ci imbattiamo nei prezzi stracciati nessunoci pensa più. Per questo parlo di atteggiamento spiri-tualmente bipolare».

Cosa può fare la differenza?«L’informazione. Comprendere quello che sta acca-dendo, oltre stereotipi e luoghi comuni. Paradossal-mente, pur vivendo immersi in una cultura globalizza-ta, sappiamo ben poco di quel che accade e degli intrec-ci tra il nostro piatto e le regole brutali del commerciomondiale. E nei cattolici la frattura tra modus credendie modus operandi è drammatica».

A tutti però va bene così. Si afferma un principio esi pratica l’esatto contrario.«La nostra etica è utilitaristica e dunque solo pragma-tica.Il dominio assoluto delle regole del business go-verna dal più piccolo orizzonte al più grande. Tuttaviadiscettiamo su grandi valori e magari facciamo anchedella gran beneficenza. Ricordo il teologo gesuita JohnHaughey, docente di Etica cristiana alla Loyola Uni-versity di Chicago, il quale affermava che “noi occiden-tali leggiamo il Vangelo come se non avessimo i soldie usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla delVangelo”. Troppe scelte favoriscono l’anti-Regno».

Anche quelle più banali?«Sicuramente. Il Papa nella Laudato si’ chiede perfinodi spegnere la luce, quando si esce da una stanza. Puòfar sorridere, ma si comincia da lì. È teologia pratica».

Però c’è sempre un dritto e un rovescio e oggi sem-bra prevalere quest’ultimo: grandi ideali proclamatie realtà vissute dissonanti con il proclama. Dove èpiù evidente?«Sulla questione dei migranti, la maggior parte dei lavoratori agricoli sfruttati, non solo in Italia. Abbiamocompassione di loro, magari contribuiamo a qualcheprogramma della Caritas e di altre associazioni umani-tarie. Ma guai a usare misericordia. Ci sono tanti buonicristiani che con piglio grintoso in ogni discussioneal bar, a casa e sui social riversano sequele di invettivesui migranti tutti agenti al servizio del jihadismo inter-nazionale, profughi che cospirano ai danni della civi-lissima Europa cristiana. La misericordia ha a che fareanche con una diversa e più vera narrazione. Alzi lamano chi non ha avuto occasione di ascoltare frasi simili. Mi chiedo quale formazione cristiana abbiamoimpartito nelle nostre parrocchie».

Può essere solo ignoranza?«Non credo. È mancanza di assunzione di responsabi-lità morale, personale e a volte collettiva. Prima di chiederci dove è Dio, chiediamoci dove è finito l’uomocreato a sua immagine e somiglianza. Se favoriamofiliere alimentari che prevedono lo sfruttamento deilavoratori per mantenere bassi i prezzi dei prodotti,alla fine laceriamo l’uomo creato ad immagine e somi-glianza di Dio. Per un laico potrebbe essere solo omer-tà, reticenza colpevole, complicità. Per un credenteè peccato, misfatto contro Dio. Quando il Papa denun-cia la globalizzazione dell’indifferenza si riferisce aquesto atteggiamento. Il silenzio dei sedicenti onesticattolici spesso fa paura».

Quindi da cosa dobbiamo liberarci?«Dalla santa ignoranza e dalla legge della competizio-ne interumana, due pratiche oggi molto diffuse. Stia-mo meglio quando non sappiamo, e riteniamo che tutto in questo modo funzioni meglio. Per noi, natural-mente. Respiriamo una drammatica e pervasiva nor-malità. Viviamo anestetizzati dai pregiudizi, dai luoghicomuni, viviamo in un silenzio conveniente alle nostrevite e al nostro portafoglio. Non vogliamo fastidi e abbiamo trovato forse anche un modo di proteggersidal dolore. Ma non andrà tutto bene alla fine. Forsene dovremmo essere più consapevoli e forse dovrem-mo pregare di più per chiedere a Dio di aiutarci ad ordire con più sapienza modus credendi e modus ope-randi».Alberto Bobbio

Padre Albanese

afferma che

«la nostra etica

è utilitaristica

e dunque

solo pragmatica.

Eppure

discettiamo

su grandi valori e

magari facciamo

anche della gran

beneficenza»

Disintossicarsidal consumismoPadre Giulio Albanese. «Ignoriamo gli intrecci tra il nostro piatto e le brutalità del

business: è drammatica nei cattolici la frattura tra modo di credere e modo di vivere»

Chi è

«OsservatoreRomano»e «Avvenire»

COMBONIANO

Padre Giulio Albanese, missiona-

rio comboniano per molti anni in

Africa, ha intrecciato la sua

vocazione con il giornalismo. In

Africa ha diretto il New People

Media Center di Nairobi, in Italia

ha fondato la Misna (Missionary

Service News Agency) che per la

prima volta in modo organico ha

dato voce a chi nelle periferie del

mondo lavora e soffre con i

poveri, ma ha anche illuminato la

responsabilità dei ricchi negli

aspetti negativi della globalizza-

zione. Collaboratore di Avvenire

scrive sull’Osservatore Romano

e ha diretto «Popoli e Missione»,

il mensile delle Pontificie opere

missionarie italiane. A Natale

uscirà «Libera nos Domine-Sulla

globalizzazione dell’indifferenza

e sull’ignoranza dell’idiota

giulivo» (Messaggero Padova).

L’intervista

DOMENICA / MISSIONARIO

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14 /L’ECO DI BERGAMO

DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

S andro Petraglia è uno degli sce-neggiatori più importanti degliultimi decenni del cinema e del-la televisione italiani. dal suc-cesso planetario de La piovra a

La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana.Insieme a Stefano Rulli, Petraglia scrisse la sceneg-giatura del film Pummarò che nel 1990 segnaval’esordio alla regia dell’attore Michele Placido.

«Stefano ed io avevamo conosciuto Michele perLa piovra, avevamo scritto tutti gli episodi, com-preso quello in cui il commissario Cattani muore.Dopo quel successo, Michele non voleva continua-re con quel personaggio. Poco prima avevamoscritto Mery per sempre, e Michele sul set avevaconosciuto Pietro Valsecchi, che poi sarebbe diven-tato un importante produttore e che all’epoca eraun attore un po’ squattrinato, pieno di fantasia.Pensarono di fondare una società insieme e di fardebuttare Placido nella regia. Entrambi erano staticolpiti dalla vicenda di Jerry Masslo, un raccoglito-re di pomodori ucciso nelle campagne di VillaLiterno, in quegli anni eravamo ancora un Paeseche non conosceva il razzismo, la presenza degliimmigrati cominciava a crescere, ma non tutti sene erano accorti. Loro avevano il titolo, bellissimo,e ci siamo immaginati la storia di una persona cheviene in Italia alle ricerca del fratello. Insommail film è nato un po’ così: con un produttore alleprime armi, un regista alle prime armi, eravamotutti abbastanza giovani e lavoravamo molto sutemi civili, su quel tipo di cinema. E poi eravamoaffascinati dal fare un film su un argomento su cuisi parlava troppo poco e di cui comunque il cinemaitaliano non si era occupato».

«Fu facile raccogliere testimonianze»Sembra che in tutti questi anni non sia cambiatoniente: «In qualche modo - sospira Petraglia - credoaddirittura che il fenomeno sia peggiorato, alloraparlavamo di una piccola scala, poi siamo arrivatiai grandi numeri. Mi sono sempre chiesto comemai non si riesca a risolvere. Noi allora facemmouna nostra piccola indagine, come fanno sempregli scrittori di cinema quando devono occuparsidi un soggetto preso dalla realtà. Era abbastanzafacile incontrare gente che ti raccontava che lamattina bisognava trovarsi in un certo posto, chealle cinque della mattina passavano dei caporaliche sceglievano chi doveva andare a lavorare equindi tu eri alla loro mercé... gente sottopagata,ingannata».

Al di là del mancato rispetto del contratto dilavoro, si tratta proprio di condizioni di vita quasiinsostenibili: «Sì, molte di queste cose sono finitenel film, come la gente che dormiva nei cimiteri,questo ce lo avevano raccontato. Solo che allora

il fenomeno era abbastanza piccolo, tanto è veroche non veniva percepito come una minaccia dallamedia dei cittadini italiani. Ora invece la presenzadegli immigrati ha reso il fenomeno talmente forteche tutti lo sentono come una minaccia. Addirittu-ra li si considera persone che portano malattie, cheportano il terrorismo... generalizzazioni assurdeche distolgono l’attenzione dal fenomeno del capo-ralato, che è una forma di sfruttamento feroce».

L’ultimo anello di una lunga catenaMa sembra che nessuno lo voglia risolvere questoproblema: «È come la questione degli spacciatori,basta andare dalle mamme dei ragazzi tossici e teli indicano uno per uno, lo sanno dove vanno i figlia rifornirsi, basta seguirli, sai che ogni periferiaha i suoi punti di spaccio e la stessa cosa vale talee quale per i caporali. Naturalmente è difficile farela prima parte dell’indagine, perché le persone checonoscono i caporali, cioè gli immigrati sfruttati,hanno paura a fare i nomi, e quindi è chiaro cheserve un lavoro investigativo, però non mi sembrapoi così difficile. Forse dipende dal fatto che icaporali, come gli spacciatori o gli sfruttatori didonne, sono solo l’ultimo anello di una lunga cate-na, e quindi forse anche la polizia si sente inerme.Ma non sono un sociologo, lo dico solo in base allamia esperienza lavorativa. Quando ci siamo occu-pati del caso, dopo che alcune ragazze avevanodenunciato i loro sfruttatori e li avevano fattiarrestare, tre giorni dopo ne è arrivato uno nuovo.Penso che la stessa cosa valga per i caporali». Intutto questo il cinema può fare una sua piccolaparte, può servire a mettere qualche seme di consa-pevolezza? «Mah, sono finiti i tempi in cui pensava-mo che il cinema potesse cambiare il mondo. Cisono stati momenti in cui, molti anni fa, lo abbiamopensato, oggi abbiamo un po’ meno fiducia».

La realtà ha superato la fantasiaErano gli anni in cui anche qui al Cineforum diBergamo si proiettava il vostro Matti da slegare(1975), film-documentario scritto e diretto insie-me a Silvano Agosti e Marco Bellocchio, tanto perfare un esempio. «Il Cineforum di Bergamo, certo,mi ricordo, parliamo di una cosa molto bella eimportante. Ecco vede nei cineclub è passata vera-mente quell’utopia lì, l’idea che il cinema potessecambiare il mondo». Però i tempi sono cambiati:«Quel cinema ci raccontava cose che non sapeva-mo, adesso questo lavoro di denuncia lo fa già latelevisione, pensi alle morti in mare... Ora il cinemadeve andare in profondità, non può più fare ladenuncia come la facevano Francesco Rosi o ElioPetri o Damiano Damiani. Noi, che eravamo un po’figli di quella generazione lì, del cinema impegnato,politico, smettemmo di scrivere La piovra dopola morte di Falcone e Borsellino perché entrammoin una specie di crisi, su questo tipo di cinema. Aquel punto la realtà superava davvero la fantasia,e ci siamo fermati. Penso sempre invece che ilcinema abbia, così come la letteratura, la capacitàdi andare al fondo delle cose,il cinema lavora sulparticolare: i problemi e i dolori di un singoloindividuo possono diventare universali, se si riescea fare un buon film». Andrea Frambrosi

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il manifesto

del film

«Pummarò»

(1990), debutto

alla regia

di Michele

Placido.

Protagonista

maschile

Thywill

Amenia

QUEL GRIDO DI LIBERTÀNON È SERVITO A NULLA

«Pummarò» squarciò il velo di silenzioSandro Petraglia. «Nel 1990 scrissi il film denuncia con cui Michele Placido debuttò alla regia al Festival di Cannes. Ci

sentivamo gli eredi del cinema civile di Petri, Rosi, Damiani... Pensavamo di poter cambiare il mondo: non è così, purtroppo»

DOMENICA / SCENEGGIATORE

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L’ECO DI BERGAMO / 15DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

Il film doveva essere proiettato anche aBergamo, dopo la sua presentazione allaMostra del Cinema di Venezia, dove erain concorso nella sezione Orizzonti, mapoi le sale sono state chiuse e così Spac-

capietre, il nuovo film dei registi torinesi, i fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio è rimasto sospesoin quel limbo dal quale speriamo possa presto riemer-gere. Gli autori lo definiscono uno «scavo archeologi-co nella nostra storia familiare, ma anche nella societàdi oggi, dove dominano antichi rapporti di potere»,perché il film racconta la storia di Giuseppe (lo inter-preta Salvatore Esposito, il Jenny Savastano di Go-morra-La serie), un bracciante rimasto disoccupatodopo un grave incidente sul lavoro in cui ha perso unocchio e che vive con il piccolo figlio, Antò, dopo chela moglie, Angela, è morta mentre era al lavoro neicampi. Nel personaggio di Giuseppe i due registi ricordano il nonno paterno.

Gianluca De Serio, come nasce il film?«Nasce da due scintille. La prima è la notizia dellamorte di Paola Clemente, (la bracciante originariadi San Giorgio Jonico morta a 49 anni il 13 giugno 2015 in un vigneto di Andria, ndr) fu uno choc emoti-vo e risvegliò in noi una coscienza politica, rispettoa quello che accade nelle nostre campagne. L’altraè che quella storia ci ha riportato alla mente quelladi nostra nonna, morta a 35 anni nel 1958, in seguitoa un malore avuto durante il lavoro nei campi. Erauna bracciante pugliese e come Paola Clemente lavorava sotto caporale».

Chi vi ha raccontato di vostra nonna?«Lei morì quando nostro padre aveva dieci anni, luici raccontava la sua storia, ogni volta arricchendoladi particolari. Abbiamo chiesto ai nostri zii, che al-l’epoca erano più grandi di nostro padre e quindi ricordavano dettagli più precisi. Poi nel 2006-2007abbiamo fatto un lavoro più artistico, un’installazioneper una residenza d’arte in memoria della nonna, realizzata attraverso lo sguardo, la voce e il corpo diun’anziana contadina piemontese che aveva la stessaetà che avrebbe avuto nostra nonna se fosse stata ancora viva. Attraverso il corpo di questa donna, abbiamo realizzato come una sorta di trasmigrazionedell’anima di nostra nonna nel corpo di questa brac-ciante di oggi. Quando abbiamo saputo della morte

di Paola Clemente abbiamo capito che era venuto ilmomento di fare i conti in modo più approfonditocon questa vicenda, naturalmente senza distoglierelo sguardo dal presente, e quindi i due elementi sonoentrati in cortocircuito e hanno fatto nascere l’ideadi scrivere il film. Tra l’altro, nostra nonna si chiamavaRosa come la protagonista femminile del film».

Quindi una sorta di omaggio?«Sì, lei era una bracciante molto attiva politicamente,aveva partecipato in modo molto attivo al movimentodi occupazione delle terre negli anni ’50, contribuen-do anche ad una consapevolezza politica da parte della comunità sulle problematiche dei bracciantie del loro sfruttamento da parte dei padroni. Di leiavevamo solo una fotografia in bianco e nero, ma l’abbiamo sempre sentita come una sorta di guida ideale del nostro cinema».

Lo «scavo archeologico» vi ha riportato, idealmen-te, nella vostra terra di origine...«Nonno Giuseppe lo abbiamo conosciuto bene, face-va lo spaccapietre e aveva perso un occhio: nel filmè Giuseppe, interpretato da Salvatore Esposito. Portòi cinque figli, orfani di madre, a Torino a lavorare allaFiat, faceva l’operaio. Anche lui era molto politicizza-to e quindi venne subito schedato dall’azienda comepotenzialmente pericoloso e per questo venne messoa lavorare al reparto zero (era chiamato il “repartoconfino”), con gli operai più politicizzati e sindacaliz-zati. Avendo l’invalidità all’occhio, sostanzialmentenon lavorava, era una sorta di mobbing, di neutraliz-zazione, diciamo».

Vi siete ispirati al caso di vostra nonna del 1958,ma la piaga del caporalato c’era già anche primaed è proseguita nei decenni successivi se pensiamoai fatti di Rosarno del 2010 dove, dopo la rivolta,dieci anni dopo, non è cambiato niente...«Sì, ce la portiamo dietro. Manca una presa di co-scienza collettiva. I problemi degli operai o dei brac-cianti, negli anni ’50, nacquero da rivolte popolarie trovarono una risposta politica nazionale. Oggi manca una solidarietà condivisa».

Perché?«Primo, perché la maggior parte delle vittime sonostranieri, quindi sono senza identità. Noi stessi abbia-mo potuto verificare durante i sopralluoghi, primadi girare il film, che ci sono dei cimiteri in Puglia ein Basilicata con tombe senza nome: arrivano irrego-lari e tali rimangono, perché fa comodo evidentemen-te, sono fuori da ogni tipo di tutela, nessuno sa chemuoiono , non c’è possibilità di rintracciare i parenti.Secondo, manca proprio un po’ la volontà di vederli.Anche recentemente nel Lazio e in Campania ci sonostate proteste di braccianti, ma non hanno trovatogrande sponda nell’informazione e nella politica».

Forse perché nella filiera dell’agroalimentare allafine scatta una sorta di guerra tra i poveri, ciascunocerca di rivalersi sugli altri...«Purtroppo a volte i primi a voler chiudere gli occhisiamo noi, ultime pedine dell’ingranaggio, noi consu-matori.L’altro giorno al mercato ho visto un’uva bellissima, bianca, veniva dalla Puglia e c’era gentein coda per acquistarla, ma nessuno si fa domandesulla provenienza, nessuno chiede qual è la prove-nienza, chi l’ha raccolta, quali sono le condizioni deilavoratori che la raccolgono...».

Ma noi consumatori, quindi, cosa dovremmo fare?«Pretendere una maggiore informazione sulla prove-nienza dei prodotti e anche naturalmente una mag-giore tutela del consumatore a livello economico, perché spesso i prodotti, diciamo più sani dal puntodi vista etico, sono quelli che costano di più, quindiuno tende a comprare le cose che costano di meno.Naturalmente senza sapere, o facendo finta di nonsapere».

D’altra parte non è un problema solo italiano.«Il problema è europeo. Solo pochi mesi fa è mortauna ragazza, in Alta Savoia: lavorava nei campi perdue euro all’ora. È un fenomeno molto diffuso, manon solo nell’Europa del Sud, anche nel Nord Europa,magari in altri settori, magari con altre tipologie disfruttamento, magari non è il caporalato nel sensocosì connotato come qui in Italia, però esistono meccanismi simili di sfruttamento del lavoro. Pensoper esempio ai lavoratori del Sud Est asiatico che lavorano sulle piattaforme petrolifere della ricca Norvegia. Se non riusciamo a farlo entrare nella coscienza collettiva, è un problema che non riuscire-mo mai a risolvere».Andrea Frambrosi

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Salvatore

Esposito e il

piccolo Salvatore

Carrino in una

scena del film

«Spaccapietre»

dei fratelli

Gianluca

e Massimiliano

De Serio, dedicato

al fenomeno

del caporalato

Sepolti senza nomein cimiteri lontaniGianluca De Serio. «Nostra nonna morì nel 1958 a 35 anni vittima dei caporali

La sua storia all’origine del film che abbiamo presentato alla Mostra di Venezia»

Chi sono

Gemellipluripremiatianche all’estero

DA TORINO AL MONDO

Gianluca e Massimiliano De Serio

(Torino, 1978), fratelli gemelli,

lavorano dal 1999 coniugando

arte visiva e regie cinematogra-

fiche. Dopo una prima serie di

cortometraggi e documentari

(tra cui «Bakroman», premio

come miglior documentario al

Torino Film Festival 2010), nel

2012 il loro primo lungometrag-

gio, «Sette opere di misericor-

dia», si aggiudica una serie

impressionante di premi nei

Festival italiani e internazionali

tra cui, Locarno, Annecy, Ville-

rupt, Marrakech. Il loro ultimo

film si intitola «Spaccapietre»,

interpretato da Salvatore

Esposito, è stato presentato nel

settembre del 2020 alla Mostra

Internazionale d’Arte Cinemato-

grafica di Venezia nella sezione

delle Giornate degli Autori.

L’intervista

DOMENICA / REGISTA

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16 /L’ECO DI BERGAMO

DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

L a responsabilità di un singolo reatopuò essere anche di una sola perso-na; quando però le condotte crimi-nose sono diffuse e protratte neltempo, bisogna pure interrogarsi

sulle condizioni sociali che le rendono possibili ole favoriscono. Secondo Fabio Ciconte, direttoredi Terra! Onlus, «i comportamenti di alcuni opera-tori della grande distribuzione finiscono oggettiva-mente col favorire il fenomeno del caporalato. Certepromozioni mirabolanti nella vendita dei prodottiagricoli vanno a gravare sugli anelli più deboli dellafiliera alimentare: si spiega anche così il ricorso allosfruttamento illegale dei lavoratori-raccoglitori».

Insieme al giornalista Stefano Liberti, Ciconteha pubblicato su Internazionale diverse inchiestevolte appunto a comprendere le cause profonde delcaporalato in Italia: «Nei servizi dei telegiornali –egli spiega - si parla spesso di donne e uomini chevengono sfruttati nella raccolta di prodotti agricoli,ma raramente ci si domanda dove questi vadanoa finire. Noi abbiamo cercato di ripercorrere le fasidi questo processo, parlando con diversi soggetti,dai manager della Gdo - la grande distribuzioneorganizzata - ai broker, dagli agricoltori agli stessi“caporali”. Il fenomeno dello sfruttamento ha uncarattere sistemico, non si lascia ridurre alla man-canza di scrupoli di singoli imprenditori. Uno deglielementi che vi contribuiscono è senz’altro lo scarsovalore che noi oggi siamo portati ad attribuire alcibo: siamo abituati a trovare sugli scaffali deisupermercati alimenti a un costo bassissimo etroviamo regolarmente nella cassetta della postavolantini che segnalano dei “sottocosto”, senzadomandarci come incidano tali offerte sui prezzicorrisposti ai produttori».

A proposito della tendenza alla svalutazione delcibo, Fabio Ciconte cita un caso risalente alla scorsa

estate, quando una catena di discount ha messo invendita delle angurie a 1 centesimo di euro al chilo:«Praticamente, venivano regalate. In questa circo-stanza, la catena si era premurata di specificare cheavrebbe coperto in proprio i costi di tale promozio-ne/svendita, senza gravare sui produttori. Tuttavia,iniziative del genere contribuiscono a diffonderetra i consumatori l’idea che “il cibo non valga nien-te”. Non solo: agendo così – mettendo cioè in vendi-ta un prodotto agricolo a un prezzo risibile – sicondiziona pesantemente l’andamento del merca-to, perché tutti gli altri player saranno costretti adadeguarsi».

Guadagnare di meno, perdere di piùNegli ultimi anni, Terra! ha denunciato in particola-re la paradossale procedura delle «doppie aste alribasso»: può succedere che un soggetto della gran-de distribuzione, volendo ordinare ingenti quantitàdi buste di insalata o di bottiglie di passata di pomo-doro, inviti i fornitori, per via telematica, a fare unaprima offerta; in una successiva tornata, però, ilprezzo di partenza è quello inferiore tra le offerteprecedentemente raccolte: così, a differenza chein un’asta normale, qui si procede al ribasso, sempreriservatamente, mediante una piattaforma onlinea cui si può accedere solo con username e password.«Evidentemente – commenta Ciconte -, quandosi a che fare con ordinazioni di milioni di pezzi diun determinato prodotto, tutti gli operatori delsettore sono fortemente tentati di partecipare, pursapendo che il rischio di andare in perdita è altissi-mo. Alcuni produttori agricoli descrivono questomeccanismo come una forma di gioco d’azzardo.Uno è seduto davanti allo schermo del pc e vede unsuo competitor, coperto da anonimato, che sta ribas-sando: l’alternativa secca è tra attuare a propriavolta un successivo ribasso o essere esclusi dallacommessa, rischiando magari di subire un definiti-vo delisting, l’esclusione dalle future ordinazionidi quella catena di supermercati o discount. Diquesto passo la spunterà, alla fine, chi è dispostoa guadagnare di meno o, per meglio dire, a perderedi più. Terra! ha segnalato a più riprese questapratica folle, che comporta una concorrenza slealee si riverbera sugli elementi più deboli della filieraproduttiva».

Partecipando ad aste di questo tipo, gli agricoltorinon rischiano di inguaiarsi? Di non rientrare nem-meno delle spese di produzione? «Può senz’altrocapitare. Io e Liberti abbiamo ricostruito degliepisodi avvenuti nella prima parte di quest’anno,nel periodo in cui tutta l’Italia era in lockdown:sappiamo che si sono condotte delle aste non conil sistema del doppio ribasso, ma comunque “albuio”, per cui i singoli produttori ignoravano inominativi degli altri concorrenti e le loro richieste.A marzo, nel pieno di una crisi che aveva investitoanche il settore della produzione alimentare, di astedel genere ne sono state fatte venticinque, nelsettore delle insalate in busta. Molti agricoltori, chegià si trovavano in una situazione drammatica diincertezza riguardo alla possibilità di raccogliere,vendere e trasportare i loro prodotti, hanno accetta-to l’eventualità di una grave perdita economica, purdi realizzare un po’ di liquidità nel brevissimoperiodo».

L’iter parlamentarePer la verità anche in Italia, seguendo l’esempiodella Francia, il ricorso alle «doppie aste» potrebbepresto essere vietato: «In Parlamento è stato pre-sentato un disegno di legge che è stato approvatoquasi all’unanimità alla Camera e attualmente è inesame presso la Commissione Agricoltura del Sena-to, dove si stanno elaborando un paio di emenda-menti del testo. Successivamente il disegno sarànuovamente inviato alla Camera, dove si sperapossa essere definitivamente approvato in tempibrevi. Inoltre, alcune settimane fa è stato approvatoun disegno di legge “di delegazione europea”, in cuisono recepite le direttive dell’Unione in merito allepratiche di concorrenza sleale, incluse le doppieaste al ribasso. Il governo italiano è così impegnatoa legiferare sull’argomento in capo a sei mesi. En-trambe queste strade – sia il normale iter di unalegge votata dal parlamento, sia il ricorso a undecreto legge governativo – darebbero alla grandedistribuzione un segnale importante, del tipo: certecose non si potranno più fare, perché c’è uno Statoche impedisce determinati abusi e tutela tutti icomparti delle filiere produttive».

Un’obiezione da malfidenti: una volta che fosseproibito questo genere di aste, qualcuno non po-

DOMENICA / ONLUS & UNIVERSITÀ

AFFARISSIMI

AFFARONI

E TANTI DUBBI

Quando all’astafinisce la dignitàdei lavoratoriL’analisi. Fabio Ciconte (Terra!): «Prezzi risibili ingenerano nel cittadino l’idea che il cibo non ha alcun valore». Ma Sandro Castaldo (Bocconi): «È sbagliato demonizzare la grande distribuzione organizzata»

Chi èStudi, ricerchee inchiestesull’agricoltura

AMBIENTE

Fabio Ciconte è direttore

dell’associazione ambientalista

Terra! e portavoce della cam-

pagna #FilieraSporca contro lo

sfruttamento del lavoro in

agricoltura. Impegnato da anni

su tematiche ambientali e

sociali, ha curato e redatto

diversi studi, ricerche e inchie-

ste giornalistiche sulle filiere

agroalimentari. Ha pubblicato

«Il grande carrello. Chi decide

cosa mangiamo» (Laterza, 2019

con Stefano Liberti) e «Fragole

d’inverno. Perché scegliere

cosa mangiamo salverà il

pianeta (e il clima)», Laterza:

«Ogni nuovo dato sul climate

change – scrive – ci conferma

che il modo in cui viviamo e

produciamo non è sostenibile».

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L’ECO DI BERGAMO /17DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

trebbe trovare nuovi escamotage per arrivare allostesso obiettivo? «Di procedure alternative, mirantiad aggirare gli obblighi normativi – risponde Cicon-te -, se ne potrebbero inventare mille. Qualunqueimpedimento legale, volendo, può essere bypassato.Tuttavia, l’introduzione di una legge contro le spe-requazioni nei prezzi corrisposti ai produttori costi-tuirebbe un fatto importante, anche dal punto divista della comunicazione pubblica. Da quando siè cominciato, anche in Italia, a parlare delle pratichecui ho appena accennato, molti player della grandedistribuzione le hanno abbandonate, capendo chealtrimenti sarebbero incorsi in un giudizio negativoda parte dell’opinione pubblica».

Il «patto etico»Ma appunto, certi meccanismi perversi non potreb-bero essere superati mediante un «patto etico» traproduttori agricoli, distributori e consumatori?Non si potrebbe applicare anche al nostro territorionazionale il principio del «fair trade», sul modellodel «commercio equo e solidale»? «Se stiamo cer-cando dei modi per eliminare la piaga del caporalato– risponde ancora Fabio Ciconte -, secondo me lasoluzione non può vertere su una certificazioneetica. Intendiamoci, con Terra! abbiamo promossobellissime esperienze di produzione di generi ali-mentari “caporalato-free”. Tuttavia, in linea gene-rale, si dovrebbe applicare a questo aspetto quantogià vale per la commestibilità di un prodotto. Mispiego: quando dei barattoli di sugo vengono dispo-sti sugli scaffali di un supermercato, non occorreaggiungere una speciale etichetta indicante chequesti prodotti sono commestibili; lo diamo perscontato. Analogamente, dovrebbe risultare ovvioche le merci poste in vendita non siano state confe-zionate mediante uno sfruttamento illegale di lavo-ratrici e lavoratori. Occorre una vasta campagnad’azione, a livello politico, sociale e anche giornali-stico perché si diffonda la consapevolezza di unfenomeno diffuso un po’ ovunque, dal Trentino allaSicilia; il caporalato, però, va debellato totalmente,con gli strumenti della legge e gli interventi delleforze di polizia: non avrebbe senso, facendo la spesa,dover privilegiare dei cibi con speciali certificazionietiche e legali, come se gli altri potessero essere statiprodotti in qualsivoglia modo».

Le ricerche della Bocconi

Sandro Castaldo, ordinario di Trade Marketing all’Università Bocconi, ritiene invece che non si debba addossare la responsabilità del fenomeno delcaporalato alle aziende della grande distribuzionealimentare: «Ci potranno anche essere delle ecce-zioni, in senso negativo, ma in generale la grandedistribuzione svolge l’attività che le compete, di compravendita dei prodotti, dando ad essi degli sbocchi sul mercato: conosco piuttosto bene le procedure di una serie di aziende che si comportanocon grande serietà, offrendo anzi un importante supporto al mondo dell’agricoltura. Credo semmaiche si debba focalizzare l’attenzione su quest’ultimo.Intendiamoci, non intendo riversare sui produttorila responsabilità morale e penale del caporalato. Però si deve prender atto di una frequente difficoltàa livello strategico, di una difficoltà a operare unadifferenziazione dei prodotti. “Differenziazione”,qui, non va inteso come un sinonimo di “diversifica-zione”: non si tratta tanto di ampliare la gamma deiprodotti, quanto di qualificarli, di renderli immedia-tamente distinguibili da alimenti dello stesso generecommercializzati da altre aziende».

Secondo Sandro Castaldo, «mentre in altri settorimerceologici si è affermato un approccio branding,finalizzato a valorizzare i prodotti di marca, in unaparte notevole dell’agricoltura italiana è finoraprevalsa la commodity: ci si limita a offrire prodottidi medio livello, in grandi quantità, lasciando chea esercitare un’attrattiva sui consumatori sianosoprattutto i prezzi contenuti. Ci sono naturalmen-te anche esempi di segno contrario, con aziende chehanno puntato su un incremento della qualità,ricorrendo ad agronomi e impegnandosi anchenella comunicazione per conferire una nota distin-tiva ai loro prodotti. Questo ha consentito di svilup-pare – come è giusto che sia – una differenziazionenella percezione dei clienti e ha legittimato unapolitica di premium price, di vendita dei propriprodotti a un prezzo più elevato rispetto a quellidella concorrenza».

Per chiarire questo concetto, si possono portareun paio di esempi da altri ambiti: «Di per sé, nell’edi-lizia, la sabbia è una commodity; però c’è chi hasaputo produrre differenti qualità di sabbia, miglio-

ri, più performanti rispetto a quella normale. Ilsecondo esempio riguarda l’acqua, che – a benvedere – è sicuramente una commodity: eppure,l’industria dell’imbottigliamento ha saputo coglieredegli elementi di differenziazione, per cui certeacque minerali sono pubblicizzate come povere disodio, altre in quanto facilitano il metabolismo, altreancora sono particolarmente indicate per i neonatie così via. Nell’agricoltura italiana, invece, ancorastenta a farsi strada l’idea di “de-commoditizzare”l’offerta. Prevale un atteggiamento conservatore,o traccheggiante».

Inseguire gli scontiDunque, se tutti i produttori sapessero valorizzarei loro prodotti tenderebbe naturalmente a declinareuna serie di pratiche deteriori, incluso lo sfrutta-mento illegale della forza lavoro. Ma questa ideanon si scontra con la constatazione che i consuma-tori preferiscono inseguire gli sconti, o le leggenda-rie offerte «sottocosto»? L’elemento determinante,nelle scelte di acquisto di molti, non è sempre ecomunque il risparmio? «No – risponde Castaldo- non è così. Secondo una serie di dati raccolti pressoi supermercati, la fascia di prodotti che ha fattoregistrare negli ultimi vent’anni una crescita mag-giore in termini di acquisti è quella alta. Le mercicon un grado elevato di qualità e di differenziazione– nel senso che ho spiegato poco fa – si vendono dipiù. Questo vale soprattutto quando si parla di cibo,di cose destinate a entrare nel nostro corpo. Pensia-mo anche a quanto hanno fatto le stesse catene dellagrande distribuzione alimentare: Unes ha lanciatola marca Viaggiator Goloso, Conad Sapori & Dintor-ni. La fascia dei prodotti alimentari è cresciutamolto più rapidamente di quella dei prodotti di-scount. In effetti è cresciuta anche questa - tantoche si parla di una “polarizzazione del mercato” -,ma in misura minore. Tornando alla questione dellesperequazioni e dello sfruttamento dei lavoratori-raccoglitori nella filiera alimentare: il vero proble-ma è che prevalentemente l’agricoltura italiana hacontinuato a insistere sui prodotti di qualità medio-bassa, senza sfruttare le opportunità legate allatrasformazione del mercato. Molti produttori fino-ra non hanno avuto il coraggio di cambiare, diperseguire delle posizioni di eccellenza, che puredarebbero accesso a utili più elevati e renderebberosempre meno “allettante” il ricorso al caporalatoo ad altre forme di sfruttamento illegale dei lavora-tori».

La questione della marcaAnche a Sandro Castaldo domandiamo se nel pro-cesso di valorizzazione/differenziazione di unamarca non possa rientrare anche una «certificazio-ne etico-legale» dell’intero percorso di produzione,trasporto e vendita, con la garanzia – magari daparte di un ente esterno – che ai produttori e ai lorodipendenti sono corrisposti prezzi e salari equi.«Assolutamente sì. Già si vendono banane, ananase altre qualità di frutta fair trade, per cui agli agricol-tori è appunto corrisposto un compenso equo e airaccoglitori sono assicurate delle condizioni dilavoro dignitose. Questo riguarda soprattutto merciprovenienti da Paesi in via di sviluppo, ma sappiamoche una quota crescente di consumatori è sensibilealla questione di una gestione etica delle filiereproduttive: anche in Italia, negli scorsi anni, si èregistrato un boom nelle vendite del cioccolato“equo e solidale”. Da questo punto di vista, la grandedistribuzione può essere un vettore, in un processogenerale di risanamento di diversi settori produtti-vi, a partire dall’agricoltura. L’importante è che cisi liberi da schematismi e ostilità preconcette. Peresempio, è vero che spesso si nota un divario notevo-le tra i prezzi riconosciuti dalla Gdo ai produttorie quanto paga alla fine il consumatore per acquista-re un cibo; ma occorre considerare che la grandedistribuzione deve far fronte a costi aggiuntivialtissimi, per quanto attiene al trasporto degli ali-menti, alla conservazione degli stessi nelle cellefrigorifere e alla gestione dei punti vendita. Perinciso, questo principio si applica pure ad altrisettori merceologici: è normale che i prezzi pagatia un produttore di vestiario siano inferiori al costodi un jeans o di una maglietta esposti nella vetrinadi un negozio. Certo, anche nella Gdo possonocrearsi situazioni negative, ma questa non è laregola; c’è stato, in passato, chi ricorreva alle doppieaste al ribasso? Questa pratica, però, è decisamentein declino e presto dovrebbe essere anche vietatadalla legge. Se consideriamo le situazioni dellaGermania, della Francia e del Regno Unito, notiamoche da quelle parti la grande distribuzione ha favori-to lo sviluppo e la messa in regola delle filierealimentari. Non è casuale che anche in Italia si sianodiffuse catene di supermercati francesi e tedesche;noi dovremmo far sì che avvenga anche il contrario,che le nostre aziende abbiano la possibilità di affer-marsi ed espandersi pure all’estero».Giulio Brotti

Un’immagine

simbolo

della raccolta

di pomodori

Chi èUniversitàBocconie marketing

PROFESSORE ORDINARIO

Nato nel 1965, Sandro Castaldo si

è laureato e ha conseguito il

dottorato di ricerca in Economia

aziendale presso l’Università

Bocconi di Milano; attualmente è

professore ordinario del diparti-

mento di Marketing dello stesso

ateneo, nonché presidente della

Sima, Società Italiana di Manage-

ment. Nelle sue ricerche, ha

approfondito i temi della fiducia

nelle relazioni di mercato, dei

rapporti tra produttori e distribu-

tori, dell’analisi del comporta-

mento dei consumatori e delle

modalità di acquisto. Tra le sue

pubblicazioni, ricordiamo i

volumi di taglio didattico «Go to

market» (il Mulino, 2010) e

«Marketing» (con Monica Grosso,

Egea, seconda edizione, 2016).

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18 /L’ECO DI BERGAMO

DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

S e al supermercato il prezzo ètroppo basso, dobbiamo chie-derci se sopra non c’è il sanguedi qualcuno». Così FrancescoPugliese, Ad di Conad, consor-

zio di dettaglianti nato nel 1962, oggi primo in Italiacon 14,3 miliardi di fatturato e una quota di mercatodel 13,3%. Tarantino di nascita, cattolico dichiarato,si è più volte pronunciato sul caporalato. Nel moni-toraggio annuale Oxfam per la campagna «Al giustoprezzo», sul comportamento della grande distribu-zione rispetto a legalità del lavoro e diritti umaninella filiera agricola, Conad nel 2019 era terza (dopoCoop e Esselunga) migliorando del 25% rispettoal 2018, in particolare su tutela lavoratori agricoli(+25%) e difesa piccoli produttori (+21%).

Che cosa pensa delle aste al doppio ribasso?«Noi non abbiamo mai fatto aste al doppio ribasso.

Le relazioni con i nostri fornitori sono basate dasempre sull’esclusione di manodopera minorileo illegale o messa in condizioni di sfruttamento.Facciamo anche controlli sul campo».

Funzionano? «Da ragazzo in campagna ho lavorato per la ven-demmia. Quando arrivavano i controlli, il caporalechiamava e dovevamo scomparire nei campi. Im-magino ora si siano evoluti: dai fischi ai droni,magari. Pur facendo da 15 anni selezione adeguatadei fornitori, mi capita la stranezza di pagare tuttigli anni delle penali su aspetti qualitativi, ma nonho mai beccato un fornitore con le mani nel saccorispetto alle condizioni della manodopera. Vogliodire che noi i controlli li facciamo, ma l’impegnovero deve essere dello Stato, che deve recuperareil controllo del territorio. Il caporalato è moltopeggio di 40 anni fa, è intrecciato con settori dellamalavita organizzata e riguarda tutto il territorionazionale. Gli invisibili devono diventare visibili.Le baracche di quelli che fanno la transumanza deiraccolti da sud a nord, le vedono tutti...».

Ma la Gdo, la grande distribuzione organizzata,non può chiamarsi fuori.«Molto dev’essere fatto in ordine alla trasparenzanelle trattative commerciali per garantire equità.

Personalmente, acquisendo Auchan, ho trovatoritardi di almeno 45 giorni nel pagamento ai fornito-ri rispetto ai tempi prescritti. Me la sono presa conchi accettava quelle condizioni, perché danneggiavame, che pagavo correttamente. Industria e distribu-zione, quasi tutti, abbiamo firmato un accordo il 24novembre che ci impegna su questi fronti, integran-do la direttiva europea e l’art.62 della legge del 2012.Abbiamo aperto un tavolo con i produttori, aspettia-mo il legislatore sul caporalato».

Se ne uscirà mai?«Contro il lavoro da schiavi occorre specializzarela manodopera. La raccolta del pomodoro puòessere a mano come al Sud o meccanizzata comeal Nord. Chi opera nei vigneti è sempre specializza-to ed è inquadrato anche se è un migrante. Tuttociò che va nella direzione della meccanizzazionee della specializzazione comporta maggior legalitàe maggior economicità».

Quale ruolo può avere il consumatore?«Deve sapere che quando l’insalata costa troppopoco c’è qualcuno che ci sta rimettendo. Siamo tuttid’accordo che non bisogna sfruttare l’uomo, maquando dobbiamo mettere mano al portafoglio,scegliamo il prezzo più basso».

Come funziona l’asta al doppio ribasso?«Chiamo i fornitori e do un prezzo base per unacerta quantità di prodotto. Si fa una prima tornatadi ribasso e alla fine si ottiene un prezzo. A questopunto si restringe la rosa ai produttori più vicinialla quota e si fa un secondo giro di ribasso. Se sonoun fornitore e già di partenza il prezzo d’asta èinsostenibile, perché partecipo, sapendo che peg-giorerà ulteriormente?».

Forse perché poi mi tagliano fuori. Conad cosa fa?«Dichiariamo la qualità che vogliamo e la quantità,poi scegliamo il prezzo migliore. Abbiamo rapportistabili con i fornitori, che proseguono per moltianni, in media otto. È l’unico modo per garantirequalità e trasparenza al consumatore. È un discorsocomplessivo di comunità».

Cioè se sono il solo a rifiutare certe condizionimi strozzano, se siamo in tanti, no.«Diciamo che mentre i cattivi sono bravi ad allearsi,i “buoni” non ci riescono. Ci dicono che siamo piùcari di altri, ma noi vogliamo crescere legalmente,con fornitori pagati equamente. I nostri fornitorisono al 90% italiani – restano fuori i prodottiesotici - e certifichiamo la filiera. La sostenibilitàsociale come quella ambientale hanno un costo,dobbiamo esserne consapevoli tutti. Altrimentivincono le catene di produzione non chiare».

Il prodotto più a rischio?«Tanti. Gli agrumi. Ma forse il pomodoro più di tutti,perché ha una filiera lunga e frammentata, a ognipassaggio il costo aumenta. Accorciamo la filieracomperando direttamente da consorzi d’impreseagricole: ci garantisce qualità e legalità. Conad nasce60 anni fa da dettaglianti e continua a essere moltocapillare sul territorio. La selezione è fatta da chisui territori vive, così si riescono ad avere informa-zioni rilevanti da tutti i punti di vista, compresoquello etico. La grande distribuzione tradizionalesi muove in modo diverso e può essere più difficileil controllo. Ricordo quando anni fa gli allevatoriandarono in piazza sul prezzo troppo basso per illatte alla stalla. Scoprii che a noi le multinazionalidel latte dicevano che aumentavano il prezzo per-ché la stalla costava, e ai produttori che non poteva-no pagarli di più perché la grande distribuzionebloccava il prezzo... Uscii con una pagina sui quoti-diani che diceva: “Il latte si fa mungendo la vaccanon gli allevatori”... Uscì un pandemonio».

Sostenibilità economica, sociale e ambientalevanno insieme. Se è così, quale è il ruolo delconsumatore, oltre alla questione dei prezzi?«La grande distribuzione chiede ai produttori icalibri maggiori per frutta e verdura, perché sonoquelli che il consumatore vuole. Quindi, gran partedella produzione dell’albero non è venduta comeprodotto fresco, ma va all’industria di trasformazio-ne che lo paga come materia prima, secondo i prezzidella Borsa mondiale agroalimentare, che sono piùbassi. Così il costo medio della pianta è troppo alto,ma questo non lo dice nessuno. Come consumatorisiamo abituati male. Abbiamo condotto una ricercasulle mele nelle scuole primarie. In Italia producia-mo un centinaio di varietà. I bambini conosconodue tipi di mela: quella gialla e quella rossa».Susanna Pesenti

Un reparto

di ortofrutta

in un punto

vendita Conad.

Francesco

Pugliese spiega

che Conad ha

rapporti stabili

negli anni con gli

stessi fornitori:

garanzia di

qualità e

trasparenza

Uniamo le forzeper i diritti di tuttiFrancesco Pugliese (Conad). «Accorciamo la filiera comperando

direttamente da consorzi d’imprese agricole: ci garantisce qualità e legalità»

Chi èAlleanzastrategicain Europa

COOPERATIVE

Francesco Pugliese è ammini-stratore delegato di Conad, la maggiore organizzazione di imprenditori dettaglianti indipendenti associati in coope-rativa. È membro del board di AgeCore, l’alleanza strategica tra i sei maggiori gruppi del retail europeo: Conad (Italia), Eroski (Spagna), Intermarchè (Francia), Edeka (Germania), Colruyt (Belgio) e Coop Suisse (Svizzera). È presidente di GS1 Italy, l’asso-ciazione che riunisce 35 mila imprese di beni di largo consumo con l’obiettivo di facilitare la collaborazione tra aziende nel segno dell’innovazione e dell’ef-ficienza e fa parte del comitato esecutivo di Adm - Associazione distribuzione moderna.Nato in Puglia nel 1959, vive a Parma, è sposato e ha tre figli.

L’intervista

DOMENICA / AMMINISTRATORE DELEGATO

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Page 9: DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020 DOMENICA...DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020 F ar la spesa con il Vangelo nella borsa? Magari fosse cos. Potrebbe essere l'inizio di una strategia per sbaragliare

L’ECO DI BERGAMO / 19DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

A gli agricoltori pratica ungiusto prezzo concordato,ma chiede il rispetto di uncodice etico che prevede laraccolta meccanizzata dei

pomodori per contrastare il caporalato. La Fiam-mante, marchio di punta di Icab Spa, aziendaconserviera di Buccino, in provincia di Salerno, 350dipendenti da luglio a ottobre, 55 in inverno, èanche ecosostenibile: porta avanti la lotta integratae le coltivazioni biodinamiche o biologiche, hascelto l’irrigazione a goccia e, in collaborazione conil Cnr di Napoli, sta sperimentando varietà cherichiedono minori quantità di acqua.

«Abbiamo la certificazione FootPrint, che atte-sta il rispetto dei diritti dei lavoratori su tutta lafiliera - dice con orgoglio il ceo Francesco Franzese- e presto avremo anche My Story, una blockchainche attraverso un codice QR permette di ricostrui-re ogni singolo passaggio dal campo alla tavola».

Dal 2005 a oggi La Fiammante è passata da 3,5milioni di fatturato a 22 nel 2019 senza sfrutta-mento di manodopera. Vuol dire che etica eprofitto possono coesistere.«Sì che si può. Ci riesco perché ho a che faredirettamente con l’agricoltore, al quale chiedo ilrispetto di certe regole. La maggior parte delleaziende, invece, passa attraverso cooperative oorganizzazioni di produttori che comprano dal-l’agricoltore a un prezzo e rivendono all’industriaa un prezzo maggiorato: lucrano non solo sull’indu-stria, ma anche sul produttore agricolo e, spesso,anche sul lavoro, perché sono loro stessi a fornirela manodopera per la raccolta. Ovviamente, se c’èun intermediario, l’industria non può imporredeterminate regole».

La Fiammante paga la materia prima fino al 40%in più. Come ci riesce?«Noi chiediamo agli agricoltori che il prodottorispetti determinate caratteristiche. Avendo unamateria prima selezionata, riusciamo a recuperaremarginalità durante la vendita. Per esempio, chie-diamo di eliminare i corpi estranei, in particolarela terra, che altrimenti andrebbe conferita in disca-rica con i relativi costi: già questo ci consente unrisparmio. Poi lavoriamo su varietà di pomodoriad alta performance, che riescono a rispettare certistandard di colore e integrità e hanno un’elevataconcentrazione di zuccheri, ottenendo un prodot-to trasformato migliore. E facciamo anche uncronoprogramma, in modo da avere sempre lostabilimento in attività, a pieno regime per tuttii 95 giorni di produzione, cioè da luglio sino aottobre».

Un lavoro molto complesso, quindi…«Un insieme di tante attenzioni che ci permettononon solo di stare in piedi, ma di avere indici finan-ziari più alti della media del settore. Prima l’agri-coltura era più alla buona, oggi noi cerchiamo difare agricoltura tailor made. In questo periodo, per

esempio, stiamo già facendo le analisi sui campidove pianteremo i pomodori, in modo da sceglierele varietà più adatte ad ogni specifico terreno. Dovec’è un alto contenuto di potassio, che conferisceun rosso brillante al pomodoro, pianterò una varie-tà da pelato: restando intero, deve essere belloanche da vedere. In più, applichiamo i principidella coltura a rotazione: piantiamo i pomodorisullo stesso terreno solo ogni tre anni, per evitareche la terra si stanchi e abbia rese più basse».

Per il pomodoro San Marzano Dop, però, anchevoi ricorrete alla raccolta a mano, come richiedeil disciplinare di produzione.«Sì, ma siccome il San Marzano ha un prezzo dimercato quattro volte più alto rispetto a un pomo-doro normale, si riesce a pagare di più anche lamanodopera, che generalmente è italiana, perchéserve competenza. Il problema non è la raccoltamanuale in sé, ma appunto il prezzo del pomodoro,che è troppo basso».

Il prezzo è condizionato anche dalla grandedistribuzione. Lei nel 2017 ha presentato unesposto contro le aste a doppio ribasso. Comefunziona questo meccanismo?«È una pratica sleale per acquistare materie prime

a prezzi bassissimi. In pratica, diverse catene simettono insieme creando un gruppo di acquistoper volumi altissimi di materia prima. I produttorivengono invitati a fare la loro offerta: il prezzo piùbasso diventa la base di un’asta online che si tienedopo otto giorni. A quel punto, i partecipanti hannodue minuti per proporre un ribasso, poi scattanoaltri due minuti per permettere un ulteriore ribas-so. Siamo a livello di gioco d’azzardo, e spesso sifinisce per vendere a un prezzo inferiore a quellodi costo. Ma c’è di peggio: il prezzo finale diventail prezzo di riferimento del mercato, quindi condi-ziona anche chi all’asta non partecipa».

Dopo la sua denuncia queste aste al ribasso sipraticano ancora?«Dopo il mio esposto nel 2017, in Italia sono statebloccate. C’è una legge passata alla Camera, oraferma in Senato, che dovrebbe vietare questa prati-ca che va a fare pressione sull’industria, che poifa pressione sul produttore agricolo, che scaricatutto sul bracciante. All’estero, però, queste asteci sono ancora. Se si vuole un mercato equo, ènecessario che prenda provvedimenti anchel’Unione europea».Lucia Ferrajoli

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Una delle sale di

lavorazione dei

pomodori

nell’azienda

conserviera

«La Fiammante»

a Buccino,

in provincia di

Salerno: 350

dipendenti

in estate

«LA FIAMMANTE»

Francesco Franzese, nato a

Napoli nel 1979, nel 2005 ha

rilevato, a seguito di un

riassetto societario, la società

di famiglia Icab Spa e il

marchio La Fiammante

puntando su qualità ed etica

per dare il giusto compenso a

tutti gli attori della filiera

agricola. Grazie a questo

modello nel 2016 e nel 2017 la

sua azienda ha vinto il premio

«Eccellenza dell’Anno - Le

Fonti Awards» come «leader

ed eccellenza del made in

Italy nel mondo, esempio

concreto della possibilità di

fare filiera in Italia creando un

circolo virtuoso».

LA DENUNCIA

Franzese ha anche

denunciato le aste a doppio

ribasso organizzate dalla

grande distribuzione

organizzata, riuscendo a far

approdare il problema in

Parlamento, che sta ora

discutendo una legge in

materia.

Chi è

Un leaderdel Made in Italynel mondo

Etica e profitto non sono nemiciecco la ricetta per farli coesistereFrancesco Franzese. «In azienda abbiamo la certificazione FootPrint, che attesta il rispetto dei diritti dei lavoratori

su tutta la filiera e presto avremo un codice QR che permette di ricostruire ogni singolo passaggio dal campo alla tavola»

L’intervista

DOMENICA / PRODUTTORE

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20 /L’ECO DI BERGAMO

DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

S iamo nel 2015, i giorni di Expo aMilano. Il 13 luglio in un vignetodi Andria, in Puglia, muore perinfarto Paola Clemente, 49 anni,mamma di tre figli e bracciante

sfruttata. Era della provincia di Taranto e veniva portata da caporali italiani nei vigneti di imprendito-ri italiani. In piedi, sotto il sole per 12 ore e più, perun salario della paura e della vergogna: 27 euro algiorno. Paola è l’ennesima vittima di una piaga madein Italy, esplode il caso a livello nazionale. «Il capora-lato – disse a caldo in quel frangente Maurizio Marti-na, allora ministro delle Politiche agricole – va com-battuto come la mafia e da adesso in poi serve ina-sprire urgentemente le pene e tutta l’attività repres-siva». Il deputato bergamasco del Pd è il padre dellalegge 199, la normativa anticaporalato varata l’annosuccessivo, nel 2016, d’intesa con il Guardasigilli Andrea Orlando, secondo firmatario del dispositivo,

che per la prima volta ha aggredito in modo struttu-rale, già nel suo formarsi, la catena del lavoro illegale.

Onorevole Martina, rivediamo l’impianto concet-tuale della legge.«È stato un duro lavoro svolto con le forze dell’ordinee con la magistratura, e utilizzando i riferimenti dell’Organizzazione internazionale del lavoro. È stato riscritto l’articolo 603 del Codice penale, conla novità del 603 bis che introduce una forma piùstringente d’intermediazione illecita di manodoperae di sfruttamento del lavoro. Con questa fattispeciesi punisce anche l’impresa che utilizza l’intermedia-zione illegale e non solo l’intermediario. Sono poiprevisti l’arresto in flagranza e la possibilità del controllo giudiziale delle aziende segnalate. L’ideacentrale è stata quella di chiarire con più forza gliindici che identificano la condizione di sfruttamen-to: il reclutamento di manodopera, la condizioni dilavoro e di vita, e soprattutto lo stato di vulnerabilitàe di bisogno della persona sfruttata. Oggi è una leggericonosciuta da tutti come fondamentale».

Lei aveva parlato di battaglia vera e propria.«All’inizio non tutto il mondo agricolo aveva capitol’importanza di questo atto legislativo, alcuni hannoanche cercato di ostacolarci. Abbiamo vissuto mo-menti difficili. Certi ambienti avevano l’infondata

preoccupazione che il nuovo reato potesse esserecontestato anche a situazioni che illegali non erano.Sei anni dopo i numeri ci dicono che la “199” funzio-na. Solo l’anno scorso quasi 300 persone sono statedenunciate e in questi giorni il quotidiano Avvenirecitava il dato di 260 inchieste avviate da 99 Procuresullo sfruttamento dei lavoratori dopo l’approvazio-ne della legge, e di queste 15 hanno riguardato lavora-tori italiani».

La pericolosità del caporalato deriva dall’essereuna forma economica ibrida.«Una frontiera magmatica che si muove in manieraveloce, nascondendosi nelle filiere organizzate dellaproduzione. È molto insidiosa e si avvale dell’attivitàdi cooperative spurie, che producono un danno pesantissimo alle tante cooperative che invece agi-scono in modo legale. La sua forza è nella dispersionedi valore della filiera agroalimentare, dove al produt-tore spesso restano pochi euro rispetto al costo finaledel prodotto: le stime per alcune filiere in Italia rivelano, infatti, che su 100 euro di costo al consuma-tore, cioè allo scaffale, il produttore ne intasca due.A questi livelli bassi della catena il caporalato lucrasui costi».

Piaga atavica del Sud?«Particolarmente al Mezzogiorno, ma non in modoesclusivo. Le aree d’insediamento critico e diffusosono Puglia, Campania, Calabria, Sicilia, ma ancheil Lazio, in particolare nella provincia di Latina. Ilfenomeno, però, è presente anche al Nord come dimostrano alcune indagini della magistratura: Lan-ghe, alcune zone romagnole, Veneto, Bassa lombar-da. Ormai questa piaga riguarda l’intero Paese, puressendo radicata in modo specifico nei territori dovesono insediate la stagionalità dei raccolti e una certatipologia di agricoltura».

Intanto dall’agricoltura si passa pure ad altro.«Il caporalato è presente anche nell’edilizia, ma afarla da padrone (un termine mai così appropriato)è l’agricoltura. C’è un motivo fisiologico: la gran partedelle persone impiegate nell’agricoltura lavora trai 101 e i 150 giorni l’anno. Ne consegue che lo sfrutta-mento di manodopera diventa pervasivo là dove cisono picchi di produzione ed è la stagionalità a dareil ritmo: i braccianti vengono arruolati solo quandoc’è bisogno e per il tempo in cui servono».

Italiani o immigrati, o tutti e due?«Le ultime statistiche riferiscono che nella rete finiscono in modo assolutamente omogeneo tuttii lavoratori, italiani compresi. C’è comunque un’arti-colazione che riflette la composizione etnica: delle900 mila persone che nel 2018 lavoravano nei campi,l’82% era italiano, l’11% extra Unione europea e il6,5% della Ue, in particolare dall’Est Europa».

Una guerra fra poveri? «Temo ci sia anche questo, nel senso che il caporalatoè una realtà poliedrica. Da un lato c’è la brutalità dellacriminalità organizzata e di forze economiche chesfruttano al massimo, senza preoccuparsi minima-mente della dignità della persona. Dall’altro, vittimedi un meccanismo perverso, ci sono sventurati cheper sopravvivere devono lucrare su altri poveri. L’illegalità tiene insieme una complicità consapevo-le e perseguita e uno status subalterno, obbligatodalla disperazione».

E le mafie che ruolo giocano? «L’intreccio con la criminalità organizzata è moltostretto e, soprattutto al Sud, evidente in alcune zone.Il caporalato presuppone una solida organizzazionealle spalle, perché bisogna provvedere ad esempioai trasporti e alla gestione degli alloggi. L’area grigia,quella più difficile da far emergere riguarda le societàche intermediano: qui ci sono le frontiere più delica-te per combattere il fenomeno».

Tipica piaga italiana?«Purtroppo siamo tristemente noti, ma si tratta diuna devianza che ha messo piede anche altrove inEuropa: Francia, Spagna, Paesi dell’Est. In questoperiodo una sessione dell’Europarlamento è statadedicata a questi problemi e ne è uscito un quadroallarmante».

Cosa manca alla legge?«Quel che manca ancora è una parte più forte relati-va alla prevenzione. La legge ha consentito il dispie-garsi virtuoso delle azioni repressive, ma non basta.C’è un deficit di prevenzione e su questo terreno bisogna lavorare ancora molto».Franco Cattaneo

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il caporalato

colpisce

soprattutto il Sud

(Puglia,

Campania,

Calabria, Sicilia,

Lazio) ma il Nord

non è indenne:

Langhe, alcune

zone romagnole,

Veneto, Bassa

lombarda

Ora si deve spingeresulla prevenzioneMaurizio Martina. Parla il padre della legge 199, la normativa anticaporalato:

«L’illegalità tiene insieme complicità consapevole e disperazione dei subalterni»

Chi è

Politicaagricolturascrittore

DA BERGAMO A ROMA

Maurizio Martina è nato a

Calcinate il 9 Settembre 1978 ed

è cresciuto a Mornico al Serio.

Dopo la maturità tecnica agraria

si è laureato in Scienze politiche e

delle relazioni internazionali.

Consigliere regionale e segreta-

rio del Pd lombardo (2010-13), è

designato Sottosegretario alle

politiche agricole del Governo

Letta. Dal 2014 al 2018 è ministro

delle Politiche agricole, alimen-

tari e forestali anche con delega a

Expo Milano 2015 prima del

governo Renzi e poi del governo

Gentiloni. Sal 2017 prima vicese-

gretario e poi segretario nazio-

nale del Partito Democratico. Ha

scritto per Mondadori due libri:

«Dalla Terra all’Italia» (2017) e

nel 2020 «Cibo Sovrano» (2020).

Deputato, è nella Commissione

Agricoltura della Camera.

L’intervista

DOMENICA / EX MINISTRO

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L’ECO DI BERGAMO / 21DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

Si occupa degli invisibili che lavoranochini sui campi, chi non ha identitàed è costretto al lavoro indecente,braccia governate dai caporali. Leiè un avvocato, capo del Progetto

Presidio di Caritas italiana. Si chiama Caterina Bocae spiega: «In sei anni di Progetto abbiamo visto personesfruttate di 47 nazionalità, i l 60% senza contratto, il71% retribuito a giornata, il 10% a ore, il 9% a cottimo».

Lei avvocato come li definirebbe?«Vite sottocosto. Sottocosto in tutti i sensi. Sottocostoper noi che compriamo pomodori a 90 centesimi e sottocosto per loro: la loro non è vita, ma solo muoversiscombinato e faticoso di braccia senza prospettiva».

Voi che cosa fate?«Banalmente li aiutiamo. Diamo un nome, compilia-mo un data-base e così riusciamo a capire come si

muovono sul territorio inseguendo la stagionalità della verdura e della frutta, gli raccontiamo che hannodiritti, compreso quello alla salute, che non considera-no perché perderebbero il lavoro, ed è una cosa inde-cente. E se accettano li seguiamo come consulenti legali quando non ce la fanno più e decidono di denun-ciare padroni e caporali».

La pandemia li ha ancor di più devastati?«In realtà paradossalmente ha riportato all’attenzionegenerale un fenomeno finito nell’oblio. Se abbiamopotuto avere verdura e frutta fresca lo dobbiamo pureai braccianti. Insomma ci siamo accorti di loro e se neè accorto anche il governo che ha inserito procedurespeciali di regolarizzazioni, meglio definite come diemersione, nel Decreto Rilancio».

E come è andata?«Male. L’emersione dallo sfruttamento con la possibi-lità della regolarizzazione è stata utilizzata per quasidue terzi dalle badanti e dai lavoratori domestici. Inagricoltura notiamo un sostanziale fallimento».

Eppure la ministra Teresa Bellanova si era battutacome un leone perché si facesse…«Non ho dubbi sulle sue buone intenzioni. Ricordoche alla conferenza stampa si commosse. Oggi siamotornati all’oblio. E la seconda ondata di pandemia non

è migliore della prima. L’agricoltura italiana è un siste-ma perfetto di stagionalità circolare. Quando finisceun raccolto i braccianti si spostano su un altro terreno,migrazione interna di cui nessuno si accorge, ma checi permette di mangiare. È un vantaggio per la tavolae un enorme dramma per i lavoratori, che diventanoinvisibili e ogni volta ricominciano daccapo».

E voi che fate?«Cerchiamo di tracciarli, dare un nome, mettere insie-me pezzi dello loro storie. Se hai un nome e una storiaalmeno hai dignità, anche se pochi soldi in tasca. Du-rante la pandemia per loro è tutto più difficile, sfrutta-mento costante e senza protezione. Nessuno avevamascherine, nessun distanziamento, nessuna sicurez-za. Ci siamo preoccupati per un’eventuale contamina-zione della verdura e della frutta, ma non per la salutedelle donne e degli uomini che la raccoglievano».

Oggi è ancora così?«Peggio: nelle serre, vista la stagione, tutto si complica».

E i caporali?«Si sono specializzati, offrono servizi, suppliscono aquello che lo Stato non fa. Vuole un esempio? I centriper l’impiego. Non funzionano e il caporale li sostitui-sce con l’intermediazione tra padrone e lavoratore».

Si è molto parlato degli italiani che hanno sostituitoi braccianti stranieri nei campi…«Propaganda e retorica. È accaduto, ma poco. Noi continuiamo a registrare numeri altissimi di stranieri».

Chi sono?«Nazionalità di tutto il mondo. Anche comunitari, bulgari e romeni, soprattutto donne, braccianti spe-cializzati per la raccolta di prodotti delicati, come i grappoli d’uva. Ma oggi, visto che è saltato il vecchiosistema dei flussi stagionali, la situazione è più dram-matica e lo sfruttamento maggiore».

Le leggi di contrasto funzionano?«Sono stati fatti passi in avanti importanti. Intanto lesanzioni si sono estese ai datori di lavoro. Perché se esiste un caporale deve esserci un padrone che richiedemanodopera. La legge sanziona la filiera. Ma approcciorepressivo e pene più severe non bastano. Va scardina-to il sistema economico dietro allo sfruttamento e aumentata la consapevolezza culturale degli italiani.Nella legge si parla di rete agricola di qualità, ma sonopochissime le aziende iscritte. La burocrazia allontanaanche chi ha buone intenzioni. Occorre investire ininformazione. Se comperi le zucchine a 90 centesimiqualcosa non va. Ma nessuno si convince».

Il punto è fondamentale: pagare tutti di più o aumen-tare gli incentivi da parte dello Stato. È così?«Esattamente, accanto a misure repressive più effica-ci. Non è facile convincere le persone a denunciare.Perdono il posto, non hanno tutele e poi i processi impiegano 3 -4 anni per arrivare a sentenza, se va bene.Chi denuncia è un lavoratore stagionale che nel frat-tempo si è spostato decine di volte e i fascicoli finisconodimenticati nei cassetti delle procure. Bisogna trovaresoluzioni per una più efficace repressione del fenome-no e insieme occorre chiedere al consumatore di di-ventare un alleato nella lotta allo sfruttamento».

Come?«Cambiando il sistema del commercio. Ci sono già strumenti efficaci, come i Gas (Gruppi di acquisto solidali), le rivendite a Km 0. Più difficile spezzare i meccanismi della grande distribuzione, anche se qual-cuno si è accorto che un sistema più equo non mettein crisi i bilanci. Il problema sono i discount, che ribas-sano oltre misura, ma sono gli stessi dove poi i braccian-ti sfruttati fanno la spesa perché altro non si possonopermettere. Infine, la polverizzazione di punti di ven-dita non aiuta, così come l’eccessiva concentrazione».

Ma il problema principale è culturale?«Sì e poi, ripeto, mancano l’informazione e il coordina-mento politico. Negli ultimi mesi sono stati fatti passiavanti. C’è un tavolo nazionale con le Regioni e i mini-steri dell’Interno e del Lavoro. È stato preparato unpiano triennale di contrasto e di sensibilizzazione conspunti interessanti. Molti fondi europei per l’immi-grazione e l’integrazione sono stati utilizzati per soste-nere progetti contro lo sfruttamento lavorativo e il caporalato. Si sta cercando di creare un sistema nazio-nale di tutela. Ma si lavora poco in rete e così ogni regione e ogni ministero procede senza coordinamen-to. Bisognerebbe inoltre favorire reti tra gli imprendi-tori agricoli soprattutto piccoli e medi, in modo chepossano avere maggior potere contrattuale sui prezzidi fronte ai ribassi della grande distribuzione».Alberto Bobbio

Un’operazione

della polizia

contro

il caporalato

in Puglia.

Quando finisce

un raccolto

i braccianti

si spostano su

un altro terreno,

migrazione

interna

di cui nessuno

si accorge

Diamo un nomea chi nome non haCaterina Boca. «I braccianti si spostano, invisibili, seguendo la stagionalità

circolare. Le leggi non bastano, bisogna investire in formazione sul consumatore»

Chi è

Politichemigratoriee Caritas

AVVOCATO

Caterina Boca, avvocato,

coordina per Caritas Italiana il

«Progetto Presidio» ed è

consulente legale dell’Ufficio

politiche migratorie e Protezio-

ne internazionale di Caritas

italiana. Iscritta all’albo degli

avvocati del Foro di Roma dal

2003, si occupa di diritto delle

migrazioni, diritto del lavoro, di

famiglia e diritto minorile. Ha

partecipato alla stesura di

normative italiane e regionali

nell’ambito del diritto delle

migrazioni. Docente dal 2010

presso la Pontificia Università

Urbaniana è titolare del corso

«Tutela internazionale dei diritti

dei rifugiati, dei migranti e dei

profughi». Rappresenta Caritas

italiana al tavolo nazionale del

governo contro lo sfruttamento

lavorativo e il caporalato.

L’intervista

DOMENICA / L’AVVOCATO

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22/L’ECO DI BERGAMO

DOMENICA 29 NOVEMBRE 2020

Questa è una storia vera, anche sevi potrà sembrare finta, tanto èbella. È un sogno diventato realtà,è il sogno di un ragazzo africanoche ha tanto da insegnare, anchea noi italiani. Ve la raccontiamo

qui, nell’ultima pagina, perché contiene tutto quelloche abbiamo scritto in quelle precedenti, in questedue settimane. Non è proprio un lieto fine, ma ci siamomolto vicini.

Yvan Sagnet nasce a Douala in Camerun il 4 aprile1985. Nel 1990 è un bambino che impazzisce per i Mondiali di calcio, è ingenuo, è convinto che si giochi-no in Italia solo perché la nostra nazionale è la più fortedel mondo. Canta a squarciagola «Notti magiche inseguendo un gol» senza avere la minima idea delsignificato delle parole. Vuole assomigliare ai calciato-ri azzurri e vuole il codino con cui Roberto Baggio fainnamorare le sue cugine di ogni età.

I suoi genitori non sono i suoi genitori in sensobiologico. Sua madre naturale lo mise al mondo quan-do era ancora al liceo, non aveva i mezzi per mantener-lo e men che meno li aveva l’uomo che l’aveva messaincinta e con cui litigò quasi subito. Per questo lei loaffidò al fratello maggiore, che si prese cura di lui insieme alla moglie, Victorine, la donna che Yvan

ancora oggi chiama mamma. Dopo un inizio serenol’infanzia si fa difficile quando i genitori si separarono,e diventa sempre, sempre più difficile, ma il bambinocresce in fretta e diventa un ragazzo cui inizia a piacerelo studio. Appena presa la maturità va all’ambasciatae chiede informazioni sul visto per l’Italia, ottiene unaborsa di studio e si iscrive alla facoltà di Ingegneria,la scelta cade facilmente sul Politecnico di Torino pervia di Roberto Baggio, che allora giocava nella Juven-tus.

A Torino fa freddo. Douala è una delle città più caldedel Camerun, Yvan sta bene a trenta gradi, a venti deveindossare la felpa, ma le felpe, insieme ai vestiti pesan-ti, sono nella valigia che Afriqiyah Airways gli ha perduto. Se a settembre il Piemonte gli era sembratoil Polo Nord, a novembre si chiude in casa, incapacedi uscire, gli capita di saltare le lezioni anche tre giornidi seguito. Per mantenersi, trova un lavoro da cassiereal supermercato, part time, turni soprattutto sabatoe domenica, così non perde la scuola. Poiché il super-mercato è a Milano, impara a fare il pendolare. Unaborsa di studio gli consente di trovare alloggio alla Casa dello studente.

L’anno accademico 2010-2011 è duro, non riescea stare al passo per mantenere la borsa di studio. Devecercare un lavoro per l’estate e un amico di Pavia glipropone di andare a fare il bracciante per la raccoltadi pomodori a Nardò. In Puglia va a Boncuri, al centrodi accoglienza per i lavoratori stagionali. Intorno a lui,uomini malnutriti, scarpe senza stringhe, che gli fannolezione: il salario non viene calcolato sulla base delleore di lavoro, ma dei cassoni riempiti. Le ore - spiegano- sono sempre quelle, dieci o dodici, ma più cassoniriempi e più guadagni. Per guadagnare le stesse cifredi quando era al supermercato Yvan dovrebbe racco-

TUTTI

SONO

CHIAMATI

A FARE

LA LORO

PARTE

OFFRIRE

AI CLIENTI

LA MAPPA

ETICA

DEGLI

ACQUISTI

IL SOGNOADESSOÈ REALTÀ

Camerun. Studente d’Ingegneria a Torino va in Puglia e fa il bracciante

Qui organizza il primo sciopero autonomo che sprona la politica italiana

a cambiare la legge. Ha organizzato una rete che controlla tutta la filiera

2 febbraio ’17

Yvan riceve

l’onorificenza

di Cavaliere

dell’Ordine

al merito della

Repubblica

italiana

da Sergio

Mattarella

gliere cinque quintali ogni ora, cinque chili al minuto.E dormire? Su materassi, gli stessi su cui hanno dormi-to generazioni di braccianti, il tuo lo compri a 5 euroe il venditore alla fine di ogni stagione li ammucchiain un garage per rivenderli l’anno dopo.

Conosce i caporali che provvedono al reclutamentoma non solo, visto che sei obbligato, dall’assenza di alternative, a comprare da loro un panino a 3,50 euro,una delle tante tasse imposte. Fine giornata, rientroin pulmino e doccia: 5 docce per 500 uomini. Un giorno la tensione monta, il proprietario italiano dellacoltivazione chiede di cambiare metodo di raccolta,più accurato e quindi meno remunerativo. I bracciantifanno due conti e scoprono che un caporale, solo perfar lavorare gli altri, alla sera porta a casa tremila euronetti. L’indomani i braccianti, guidati da Yvan, chiedo-no un aumento.

Alla risposta negativa, scatta la protesta, viene orga-nizzato un blocco stradale e prende forma uno sciope-ro. Yvan e gli altri non lo sanno ancora, ma stanno scrivendo la Storia. È il primo grande sciopero autono-mo di braccianti stranieri in Italia. Picchetti, scontri,pestaggi ma alla fine il mondo si accorge di loro. Arriva-no i giornalisti e le televisioni, i sindacati fanno sentireil loro appoggio. Grazie a quello sciopero, pochi giornidopo, il 15 settembre 2011 viene introdotto nell’ordi-namento giuridico italiano il reato di caporalato (in-termediazione illecita di manodopera).

Ad agosto Yvan è già tornato alla Casa dello studentedi Grugliasco, lo chiamano da tutta Italia per espri-mergli solidarietà. Subito dopo lo sciopero di NardòYvan entra nel sindacato Flai Cgil Puglia, dove resteràfino a dicembre 2015. Nel marzo 2013 si laurea in Ingegneria delle telecomunicazioni al Politecnico.

È autore di due libri (Ama il tuo sogno e, insiemeal sociologo Leonardo Palmisano, Ghetto Italia - en-trambi per Fandango). Giovedì 2 febbraio 2017 è statoinsignito dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordineal merito della Repubblica italiana, conferita motu proprio dal Presidente Sergio Mattarella.

E adesso, Yvan, che cosa resta da fare? «Resta moltissimo da fare», ci risponde con il suo italiano perfetto. «Soprattutto perché alle istituzionimanca ancora il coraggio di affrontare il problema in maniera complessiva. Si continua ad agire sugli effetti e non sulle cause. Prendersela con i singoli caporali non basta. È il modello economico che va messo in discussione, un modello ancora troppo ap-piattito sulla grande distribuzione e sulle multinazio-nali. È tutta la filiera agroalimentare che va ridiscus-sa».

«Acquistare è un atto politico»Anche i cittadini consumatori hanno delle responsa-bilità, se non delle colpe, quando vanno a fare la spesae non si insospettiscono di fronte a certi prezzi palese-mente troppo bassi? «Sì, ma non possiamo criminaliz-zarli per questo. Perché il consumatore deve esseremesso in condizione di poter fare un acquisto ragiona-to, solidale. Se non ha alternative, se non sa dove trovare i prodotti rispettosi dei diritti del lavoratori,anche lui è impotente. Questo è un versante altrettan-to importante della riforma: il consumatore deve essere messo in grado di compiere un atto politico,quando acquista».

È per questo che è nato No-Cap? «Sì. Anno dopoanno la rete No-Cap è cresciuta e nel 2017 si è trasfor-mata in una vera e propria associazione che fornisceaiuto e strumenti a chi viene sfruttato, e insieme aiutoe strumenti a chi deve comprare. Siamo partiti dall’al-to, chiedendo ai supermercati se fossero disposti adaccettare sui loro scaffali dei prezzi compatibili coni diritti dei lavoratori. In questo modo l’agricoltore nonha più alibi. Ormai da un anno riusciamo a mantenerequesto controllo».

E come vi comportate con le aziende produttrici?«Le convinciamo ad assumere lavoratori che portia-mo noi, cioè i braccianti che andiamo a prendere neighetti, quelli sfruttati; li assumiamo noi, con contrattiregolari. In questo modo No-Cap riesce a dare lavoroa chi è privato di ogni diritto e, contemporaneamente,a svuotare il serbatoio infinito dei caporali, cui loroattingono continuamente perché la massa dei dispe-rati che si offre non diminuirà mai, se non cambiamoil sistema. Parliamo di 450 mila sfruttati in Italia nell’agricoltura. L’azienda da cui noi compriamo deveassumere una quota di personale (5/10/20/40 unità)che proviene dai ghetti, quote che dipendono dai volumi di mercato prodotti. In questo modo ciascunofa la sua parte. Ma non è finita. Noi ci preoccupiamoanche del trasporto e dell’alloggio. Sono i nostri pull-man che portano i braccianti al lavoro la mattina e livanno a prendere la sera. Ed è ovvio che non possiamofar dormire i regolari nelle baraccopoli insieme agliirregolari, per cui insieme alla Caritas abbiamo realiz-zato anche delle strutture di accoglienza».

Sul sito dell’associazione (www.nocap.it) c’è la map-pa dei punti vendita dove si possono acquistare i prodotti capo-free.Marco Dell’Oro

DOMENICA / MIGRANTE

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