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THE DAY AFTER TOMORROW Una nuova glaciazione minaccia la terra, una catastrofe annunciata dalla scienza a cui la politica non sa – o non vuole – rispondere. La calotta polare si scioglie all'improvviso, le correnti degli oceani si raffreddano e sulla terra si scatena l'inferno. Lo sconvolgente scenario tratteggiato dal regista di “Independence Day” e “Godzilla” prende di mira il menefreghismo dell’amministrazione Bush, il suo grave disinteressamento agli accordi di Kyoto e alle pressioni ambientaliste in generale, un governo che continua a premere l'acceleratore del progresso come se disponesse a piacimento di ogni centimetro del pianeta. Il film basa tutto il suo impatto visivo sull'utilizzo di straordinari effetti speciali, quantomeno al servizio di un chiaro messaggio politico. La lavorazione è durata oltre un anno: tonnellate di acqua che seppelliscono New York, tifoni che devastano Los Angeles, auto che si rovesciano, palazzi che si sradicano, neve e ghiaccio che cadono in continuazione. Tutto virato attorno a dei blu/bianchi/grigi che raggelano sguardi e visioni. Un film “glaciale” in tutti i sensi, che se da una parte è un chiaro tentativo di speculare sul sentimento di terrore che investe l'inconscio collettivo spettacolarizzando la catastrofe, proprio come fanno abitualmente i mass media, se visto con occhi critici e spogliato delle tante banalità drammatico-narrative tipiche delle grandi produzioni Hollywoodiane, è comunque uno spietato ritratto iper-realista dei “tempi che corrono”. «Mi auguro che l'ecologia ne tragga lo stesso beneficio che lo studio della preistoria trasse da “Jurassic park”», ha dichiarato l’oceanografo Tim Barnett. Inizialmente ostili a «The Day After Tomorrow», gli scienziati statunitensi hanno finito per appoggiarlo persuasi che l’immagine produca più effetto sul pubblico della parola scritta. Il climatologo Dan Scharg, che lo ha visto in anteprima, ammette di esserne rimasto sconcertato: «È così apocalittico da temere che faccia perdere fede nella scienza. Ma potrebbe anche scuotere la gente dall'apatia». A quanto pare, il governo americano ha tentato di bloccarlo per via dell'implicita critica alle politiche antiecologiche del presidente Bush: dopo avere criticato il protocollo di Kyoto contro l’emissione di gas naturali, l’amministrazione Bush ha adottato nuove misure a favore delle maggiori industrie inquinanti, generato la rivolta dei Verdi. Non a caso, a New York il

Eco Apocalypse

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“Il riscaldamento globale causato dall’uomo non può essere controllato se non convinciamo i nostri governi a modificare il nostro stile di vita”

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THE DAY AFTER TOMORROW

Una nuova glaciazione minaccia la terra, una catastrofe annunciata dalla scienza a cui la politica non sa – o non vuole – rispondere. La calotta polare si scioglie all'improvviso, le correnti degli oceani si raffreddano e sulla terra si scatena l'inferno. Lo sconvolgente scenario tratteggiato dal regista di “Independence Day” e “Godzilla” prende di mira il menefreghismo dell’amministrazione Bush, il suo grave disinteressamento agli accordi di Kyoto e alle pressioni ambientaliste in generale, un governo che continua a premere l'acceleratore del progresso come se disponesse a piacimento di ogni centimetro del pianeta.

Il film basa tutto il suo impatto visivo sull'utilizzo di straordinari effetti speciali, quantomeno al servizio di un chiaro messaggio politico. La lavorazione è durata oltre un anno: tonnellate di acqua che seppelliscono New York, tifoni che devastano Los Angeles, auto che si rovesciano, palazzi che si sradicano, neve e ghiaccio che cadono in continuazione. Tutto virato attorno a dei blu/bianchi/grigi che raggelano sguardi e visioni. Un film “glaciale” in tutti i sensi, che se da una parte è un chiaro tentativo di speculare sul sentimento di terrore che investe l'inconscio collettivo spettacolarizzando la catastrofe, proprio come fanno abitualmente i mass media, se visto con occhi critici e spogliato delle tante banalità drammatico-narrative tipiche delle grandi produzioni Hollywoodiane, è comunque uno spietato ritratto iper-realista dei “tempi che corrono”.

«Mi auguro che l'ecologia ne tragga lo stesso beneficio che lo studio della preistoria trasse da “Jurassic park”», ha dichiarato l’oceanografo Tim Barnett. Inizialmente ostili a «The Day After Tomorrow», gli scienziati statunitensi hanno finito per appoggiarlo persuasi che l’immagine produca più effetto sul pubblico della parola scritta. Il climatologo Dan Scharg, che lo ha visto in anteprima, ammette di esserne rimasto sconcertato: «È così apocalittico da temere che faccia perdere fede nella scienza. Ma potrebbe anche scuotere la gente dall'apatia».

A quanto pare, il governo americano ha tentato di bloccarlo per via dell'implicita critica alle politiche antiecologiche del presidente Bush: dopo avere criticato il protocollo di Kyoto contro l’emissione di gas naturali, l’amministrazione Bush ha adottato nuove misure a favore delle maggiori industrie inquinanti, generato la rivolta dei Verdi. Non a caso, a New York il film è stato lanciato da MoveOn, un’associazione di attivisti nemica di Bush secondo cui “l'effetto serra è una minaccia equivalente a quella del terrorismo”.

Il regista Roland Emmerich, compiaciuto delle polemiche, scientifiche e politiche, che circondano la pellicola, ha dichiarato che il suo non è stato “né un lavoro da scienziato né da ideologo”. Pur riconoscendo che il suo film potrebbe impressionare il pubblico di tutte le età, e spingerlo a difendere l'ambiente: «Presumo che non sarà percepito solo come uno spettacolo e che genererà un dibattito nazionale. L'effetto serra lo avvertiamo già tutti».

A hard rain's a-gonna fall The Guardian 14 maggio 2004

When Manhattan Freezes Over New York Times 23 maggio 2004

Climate flick favors fantasy over fact CNN 30 maggio 2004

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PERICOLO IMMANENTE

Dalla fantascienza alla fantarealtà. James Lovelock, il divulgatore dell' “ipotesi Gaia”, ovvero della Terra come super-organismo in grado di auto-evolversi e auto-regolarsi, considerato un guru dell’ambientalismo, ha dichiarato su un articolo pubblicato dall'Independent che l'umanità è in pericolo imminente e che non c'è più tempo per sperimentare fonti di energia utopistiche. Secondo Lovelock, l'energia nucleare è l'unica soluzione ecologica sostenibile.

Sir David King, responsabile scientifico del governo inglese, ha affermato che il riscaldamento del pianeta rappresenta una minaccia più seria del terrorismo. Nell'Artico, il riscaldamento è più del doppio rispetto all'Europa e in estate torrenti di acqua provenienti dallo scioglimento dei ghiacciai chilometrici della Groenlandia si riversano in mare. Lo scioglimento completo dei ghiacciai della Groenlandia avverrà in un lungo periodo di tempo, ma avrà come conseguenza l'innalzamento di sette metri del livello del mare, abbastanza da rendere inabitabili tutte le città costiere del mondo, come Londra, Venezia, Calcutta, New York e Tokyo. Già due soli metri di innalzamento bastano per sommergere gran parte dei territori del sud della Florida.

Il ghiaccio galleggiante nell'Oceano Artico è ancora più vulnerabile al riscaldamento: in 30 anni l'area americana, ora ghiacciata, bianca e riflettente, potrebbe trasformarsi in marea scura in grado di assorbire il calore del sole estivo e accelerare ulteriormente la fine dei ghiacciai della Groenlandia. Il Polo Nord, meta di esploratori, diventerebbe quindi niente più che un puntino nella superficie dell'oceano.

Ma non solo l'Artico sta cambiando: i climatologi avvertono che un aumento delle temperature di quattro gradi è in grado di causare l'eliminazione delle vaste foreste amazzoniche, causando una catastrofe per le popolazioni residenti, le biodiversità, e per il mondo intero, privato di uno dei grandi sistemi naturali di condizionamento dell'aria, già pesantemente compromesso dall’opera di barbarie neo-liberista.

Di pari passo con l'aumento della temperatura si sono verificati fenomeni naturali del tutto quantificabili e misurabili; ad esempio, negli ultimi 30 anni si è manifestata una diminuzione del 40% nella solidità minima della calotta artica durante la stagione estiva. A partire dal 1999 è iniziata una lunga e impressionante serie di fenomeni di inaudita violenza: nel maggio del 1999 un numero di tornado senza precedenti si è abbattuto sul Kansas, l'Oklahoma e il Texas, causando distruzione e morte; nel mese di ottobre, sempre del 1999, due cicloni consecutivi hanno provocato 10.000 morti nell'est dell'India; nel dicembre 1999 due uragani hanno flagellato il nord e il centro della Francia provocando danni enormi e 81 morti; nel febbraio del 2000 una serie impressionante di cicloni hanno devastato il territorio del Mozambico provocando la peggiore alluvione della storia del paese, con migliaia di morti e oltre 250.000 profughi.

Nel 2001, gli scienziati membri della Commissione Intergovernativa sul Cambiamento del Clima (IPCC) hanno evidenziato che la temperatura potrebbe aumentare da due a sei gradi Celsius entro il 2100. Questa terribile previsione è stata ben percepita durante la "lunga estate calda" del 2003: secondo i metereologi svizzeri, la calura diffusa in tutta Europa ha causato più di 20.000 morti ed è stata superiore ad ogni altra precedente ondata di caldo. In Italia, il caldo intenso e duraturo ha causato fra gli anziani (oltre 65 anni) 7.659 morti in più rispetto al 2002 oltre ad una grave siccità, di certo anch'essa tra le più gravi mai vissute dal Nord Italia. In Francia nella prima decade d'agosto le temperature della regione centro-settentrionale hanno toccato o superato i 40 °C, provocando migliaia di morti tra le persone anziane. A Londra è stato toccato il picco massimo mai registrato con oltre 37 °C. La probabilità che si verificasse un tale scostamento dalla normalità era di 300.000 a 1. E' stato un avvertimento.

Ciò che rende il problema del riscaldamento globale così serio e incalzante è che il grande sistema planetario, Gaia, è intrappolato in un circolo vizioso di reazioni a catena. Il riscaldamento aggiuntivo proveniente da qualsiasi sorgente, i gas dell'effetto serra, lo scioglimento dell'Artico o la foresta amazzonica,

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viene amplificato, portando ad effetti additivi. È come se avessimo acceso un fuoco per tenerci caldi e non ci fossimo accorti che, mentre stiamo accatastando la legna, il fuoco è fuori controllo e sta bruciando tutta la mobilia. In situazioni come questa c'è poco tempo per spegnere il fuoco prima che distrugga tutta la casa. Il riscaldamento globale, come il fuoco, sta accelerando e non c'è quasi più tempo per agire.

Cosa fare allora?

Possiamo continuare a goderci un ventunesimo secolo sempre più caldo, con qualche intervento "cosmetico", tipo il trattato di Kyoto, per nascondere il disagio politico sul riscaldamento globale, e questo è ciò che probabilmente succederà in gran parte del mondo. Quando nel diciottesimo secolo vivevano solo un miliardo di persone sulla terra, il loro impatto era sufficientemente contenuto da non doversi preoccupare per il tipo di fonte energetica da utilizzare. Ma con sei miliardi, in crescita, rimangono poche opzioni: non possiamo continuare a ricavare energia dai combustibili fossili e non ci sono grandi possibilità che le fonti rinnovabili, cioè il vento, le maree e i sistemi idrici, siano in grado di fornire l'energia necessaria nei tempi richiesti. Se avessimo 50 anni o più potremmo renderle le nostre fonti energetiche primarie. Ma non abbiamo 50 anni a disposizione: la Terra è già così malridotta dai veleni insidiosi dei gas serra che anche se smettessimo immediatamente di bruciare combustibili fossili, le conseguenze di tutto ciò che abbiamo fatto si farebbero sentire per 1000 anni.

Peggio ancora, se bruciamo le colture per farne carburante, non facciamo altro che accelerare il nostro declino. L'agricoltura già utilizza una parte troppo grande dei terreni di cui necessita la Terra per regolare il proprio clima e la propria chimica. Un'automobile consuma da 10 a 30 volte il carbone consumato dal suo autista; immaginiamo quanta terra coltivabile sarebbe necessaria in più per supplire all'appetito delle automobili. Una sola fonte di energia non causa riscaldamento globale ed è immediatamente disponibile: l'energia nucleare. È vero che bruciare il gas naturale invece del carbone o del petrolio rilascia solo la metà dell'anidride carbonica, ma il gas non combusto è un'agente dell'effetto serra 25 volte più potente dell'anidride carbonica. Anche una sola piccola perdita è in grado di neutralizzare i vantaggi del gas.

Le prospettive sono tristi, e pur agendo con interventi migliorativi ci aspettano tempi duri, come in guerra, e peggio sarà per le generazioni a venire. Abbiamo vissuto nell'ignoranza per molte ragioni: tra queste una importante è stata il rifiuto dell'accettazione dei cambiamenti climatici negli Stati Uniti, dove i governi non hanno dato ai propri scienziati del clima il supporto necessario. Le lobby verdi, che avrebbero dovuto dare priorità al riscaldamento globale, sembrano più interessate alle minacce dirette alle persone, piuttosto che a quelle dirette alla Terra.

Non c'è più tempo per sperimentare fonti di energia utopistiche: l'umanità è in pericolo imminente e secondo Lovelock deve utilizzare il nucleare ora, oppure soffrire le pene che presto gli verranno inflitte dal nostro pianeta oltraggiato.

James Lovelock: Nuclear power is the only green solution We have no time to experiment with visionary energy sources; civilisation is in imminent danger The Independent 24 maggio 2004

US Climate Policy Bigger Threat to World than Terrorism commondreams 09 gennaio 2004

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(Effetto Serra, Osservatorio Mauna Loa, Hawaii, USA)

Il 28 maggio 2004 una devastante inondazione ha colpito Haiti e la vicina Repubblica Dominicana. Quasi 2.000 le vittime accertate, senza contare i numerosi dispersi. Le temperature del globo crescono. Molti scienziati ritengono a causa dell'uomo. "Per quanto l'atmosfera sia immensa, noi la stiamo influenzando", dice John Barnes, il fisico a capo dell'osservatorio Muna Loa alle Hawaii.

Due secoli fa la concentrazione di biossido di carbonio nell'atmosfera era di 280 parti per milione. Oggi è a quota 379 parti per milione. L'impressionante incremento si è avuto con l'avvio della rivoluzione industriale, cioè quando l'uomo ha iniziato a bruciare carbone, petrolio e altri combustibili fossili. Mai negli ultimi 450mila anni così tanto Co2 ha avvolto il pianeta. Il biossido di carbonio intrappola il calore così come fanno altri gas, responsabili dell'effetto serra, prodotti dall'uomo. La prima conseguenza è l'innalzamento delle temperature, cresciute di quasi mezzo grado negli ultimi 18 anni, un periodo relativamente breve secondo un rapporto di esperti della NASA. Il caldo distruggerà il nostro clima, rendendo aridi i campi, producendo tempeste violente e facendo crescere il livello dei mari.

Le previsioni dell'IPCC (Intergovernamental Panel On Climate Change) dell'ONU, che raggruppa meteorologi e ricercatori, vanno anche più in là. Ma studiare il clima non è così semplice. Il comportamento di Gaia, il pianeta Terra concepito come un unico super-organismo, a livello chimico, fisico e biologico, è in

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realtà una rete estremamente complessa di reazioni e ricicli tra atmosfera, oceani, terra e tutti i loro componenti, incluso l'uomo. Alle certezze si contrappongono enormi dubbi, per quanto si conosce, c'è sempre molto che si ignora.

È per questo che il presidente americano George W. Bush si può permettere di dichiarare, come ha fatto nel 2001, quando rifiutò di sottoscrivere il "Protocollo di Kyoto", che metteva un tetto alle emissioni industriali di biossido di carbonio: "La conoscenza scientifica del fenomeno è incompleta". Per poi essere smentito tre mesi dopo da uno studio della National Academy of Science, commissionato dallo stesso Bush, che affermava: "Per via delle attività umane i gas serra si stanno accumulando nell'atmosfera terrestre causando così l'aumento delle temperature in superficie e negli oceani".

L'incremento delle temperature è il più rapido mai registrato negli ultimi 10mila anni. Nelle università e nei maggiori centri mondiali, come il National Center for Atmospheric Research di Boulder in Colorado, il futuro viene visto con l'occhio di supercomputer in grado di sviluppare modelli su scala globale. Ma, nonostante la loro potenza, sono comunque approssimativi. "Siamo costretti a prendere decisioni sulla base di prove insufficienti", spiega Wallace Broecker della Columbia.

Nel frattempo, sale il timore per una nuova era glaciale che potrebbe colpire i paesi del Nord Europa e provocare nuove migrazioni di massa. Lo dice un rapporto del Pentagono dal titolo: "Immaginando l'Impensabile".

Climate Change 2001: The Scientific Basis

Bush Rejects Global Warming Treaty Associated Press 30 marzo 2001

Scientists warn Bush on global warming BBC News 07 giugno 2001

'Imagine the Unthinkable' San Francisco Chronicle 01 aprile 2004

IL PROTOCOLLO DI KYOTO

Nel giugno del 2004, l'Unione Europea è riuscita finalmente a strappare alla Russia l'impegno a ratificare il Protocollo di Kyoto per la limitazione delle emissioni di gas nell'atmosfera. Ma è stata solo una “vittoria di Pirro”: il mondo industrializzato tende perlopiù a fregarsene di ogni ripercussione ambientale e ancora oggi tende a negare che il rischio clima è più urgente dei rischi che si corrono sui tassi o sui cambi. Spalleggiato dai governi pseudo-democratici che continuano a rinviare le misure da adottare al medio e lungo termine.

I mercati, in realtà, mentre possono offrire coperture certe e sempre più precise sul fronte tassi e cambi, ben poco possono fare rispetto al clima, che esige soprattutto urgenti interventi politici.

Nel 1997, la Conferenza ONU di Kyoto adottò un Protocollo che nell'arco di un decennio avrebbe dovuto ridurre, seppure in modo modesto, le attuali emissioni di gas. Peccato che non sia stato ratificato dal Paese con maggior peso inquinante: gli Stati Uniti. Questi infatti hanno obiettato che

l'accordo avrebbe una scarsa efficacia preventiva mentre aumenta fortemente i costi a carico delle economie.

Il Protocollo di Kyoto ha ideato un meccanismo commerciale che si basa sulla creazione di certificati di credito che danno la facoltà sia di immettere nell'aria prefissate quantità di gas inquinante sia di trasferirne la titolarità ad altri Paesi. Si tratta di certificati corrispondenti, paradossalmente, alla vendita di “diritti ad inquinare”. In tal modo, si sta configurando un mercato in cui i Paesi più industrializzati possono comprare ulteriori diritti oltre a quelli loro assegnati mentre i paesi più poveri potranno vendere i crediti non utilizzati. In pratica, nessun Paese si trova in concreto obbligato a ridurre i propri eccessi perché in teoria può sempre comprare altri certificati per ulteriori inquinamenti.

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Un'idea folle, totalmente anti-democratica, però teoricamente sostenibile perché in una logica di mercato in cui ogni maggior costo spinge le imprese, alla lunga, alla ricerca di innovazione e quindi alla individuazione di energie da fonti rinnovabili. Il dramma di tutto ciò, è che, in questo delirio neo-liberista, l'inquinamento è considerato come qualcosa di inevitabile, perfino di non-dannoso, perfino “un incentivo allo sviluppo”.

Ma non può esistere, in democrazia, una libertà o un diritto ad inquinare e a lasciar inquinare giacché l'atmosfera non è di proprietà dei governi o degli stati, bensì è un patrimonio collettivo. La verità è che non sussiste alcuna democrazia. Le leggi le decidono le potenze economiche e le ratificano i governi vassalli.

Kyoto Protocol - Wikipedia

(Pubblicato su Ecplanet 03-06-2004)

Il PIANETA MORENTE

Il mondo vive oltre le sue possibilità.

A dirlo è il rapporto annuale del WWF, il Living Planet Report 2004, che punta l'indice soprattutto contro l'America settentrionale. Il succo del rapporto in breve è il seguente: le risorse del pianeta sono sfruttate in modo irresponsabile dai pesi ricchi che ne consumano più di quante il pianeta ne produce, moltiplicando il loro già pesante “debito ecologico”.

Se non si provvederà in fretta, con adeguate politiche mondiali, questa corsa verso l'auto-distruzione, si rischia il collasso entro i prossimi 50 anni. Secondo il rapporto, presentato ieri alla sede delle Nazioni Unite a Ginevra, l'uomo consuma in media il 20% delle risorse in più rispetto alla capacità rigenerativa delle stesse.

Uno stile di vita “ecocida” che negli ultimi 30 anni ha fatto sì che siano diminuite più del 30% delle specie terrestri, e circa il 50% delle specie di acqua dolce e marina, con un conseguente calo della biodiversità agroalimentare. Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF, dice che si rende quanto mai necessario un intervento politico per frenare questo sfruttamento “insostenibile”.

Se pensiamo che in prospettiva la globalizzazione estenderà questa situazione di consumo selvaggio anche al miliardo di persone che vivono in paesi come India, Cina, Brasile e Russia, stiamo freschi.

“Basterebbe ridurre i consumi e dividere in modo equo le risorse”, dice Bologna.

Bella scoperta, è quello che diceva Marx. Stai a vedere che ora improvvisamente ci scopriamo tutti comunisti. Il comunismo reale e globale sarebbe una proposta niente male. Ma quale governo sarà mai disposto a vagliarla?

Di quanti rapporti catastrofici come questo avremo ancora bisogno per capire che il futuro del pianeta dipende da ognuno di noi, dipende dal popolo e non dai governi.

Potere al popolo significa anche responsabilità al popolo. Significa presa di coscienza. Significa rivoluzione. Di questi governi criminali e eco-assassini possiamo anche fare a meno.

(Pubblicato su Ecplanet 10-11-2004)

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Living Planet Report 2004

Il GIORNO DELLA LOCUSTA

“E le locuste salirono su tutto il paese d'Egitto e si posarono su tutto il territorio in gran quantità. Non c'era mai stato un simile flagello di locuste prima e non ce ne sarà più un altro”.

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Così è scritto nella Bibbia. Accadde al tempo di Mosè: era l'ottava delle dieci piaghe che Dio scatenò contro gli egiziani e il faraone. Ma, checché ne dica la Bibbia, il flagello si è verificato di nuovo, mercoledì 17 movembre 2004: sciami di locuste rosa, provenienti dalla Libia, hanno invaso il Cairo e l'Egitto. Milioni di locuste hanno oscurato il cielo e la grande piramide di Giza. Dirette verso Israele.

Il 28 luglio 2004, la FAO, organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, aveva lanciato da Algeri un appello “pressante” alla comunità internazionale per fronteggiare la calamità dell'invasione di locuste che interessava i nove paesi del Maghreb e del Sahel e riguardava 6,5 milioni di ettari di terra complessivamente. Per sostenere la lotta, secondo la FAO, ci sarebbe stato bisogno di quasi 83 milioni di dollari. Secondo il ministro algerino dell'agricoltura: “l'invasione rischia di provocare un'autentica catastrofe specialmente nei paesi del Sahel dove i mezzi di lotta sono più deboli”.

Il 25 settembre 2004, una grandiosa e devastante invasione di locuste colpisce, in Africa, Mauritania, Senegal, Mali e Niger, distruggendo dai tre ai quattro milioni di ettari. “L'invasione di locuste in Africa del nord-ovest è probabilmente più estesa di quella dell'ultima primavera”, ha riferito Keith Cressman, responsabile FAO. “Il successo di operazioni di controllo in Africa Occidentale è cruciale se vogliamo ridurre la minaccia ai Paesi del Maghreb”, ha aggiunto. È stato valutato che dai tre ai quattro milioni di ettari di terra sono ormai infestati dalle locuste in Africa Occidentale. Secondo i rapporti, è andato perso il 40% di pascoli e il 10% di verdure.

Uno sciame di locuste copre fino a 200 chilometri in un giorno. Una tonnellata di locuste (una porzione molto piccola di uno sciame medio) mangia quanto 2500 persone. Le locuste vivono tra tre e sei mesi. Lentamente gli insetti si spostano facendo piazza pulita dei pascoli al ritmo contenuto di un chilometro al giorno. Poi, attaccano gli alberi e si affollano sui tronchi con una densità di parecchie migliaia per metro quadro. Da piaga biblica a «arma di distruzione di massa africana», come l'ha definita un giornalista della Mauritania, l'invasione delle locuste è un fenomeno stagionale come gli uragani del Golfo del Messico solo che - esattamente come gli uragani - il cambiamento climatico ne ha accresciuto la virulenza e le dimensioni. L'invasione di quest'anno è la peggiore dal 1987, che causò danni per 500 milioni di dollari.

Fino a questo momento, la crisi delle locuste ha colpito principalmente i paesi dell'Africa Occidentale. Dalla Mauritania al Niger, considerati l'epicentro del fenomeno. Nella scorsa primavera gli sciami sono migrati verso il Senegal e il Mali dove, inaspettatamente, si sono affacciati anche nelle città. Si tratta di paesi dipendenti dall'agricoltura e dall'allevamento con endemici problemi di sottoalimentazione. Paesi nei quali la distruzione del 50% del raccolto significa una cosa sola: fame e morte. Fino a questo momento, malgrado gli appelli che risalgono al febbraio scorso e malgrado gli stanziamenti immediatamente annunciati alla stampa, di soldi veri ne sono arrivati ben pochi: dei 24 milioni di dollari promessi dai paesi donatori solo 4 si sono effettivamente materializzati.

Il direttore generale della FAO, Jacques Diouf, che nel settembre scorso ha presenziato a Roma - in collegamento diretto con Ginevra - una conferenza stampa sulla piaga delle cavallette, è stato categorico: se non si riuscirà a mettere sotto controllo l'invasione e contenere i danni, nella primavera del 2005 si potrebbe assistere a un fenomeno inedito. Approfittando dell'avanzata del deserto gli sciami si stanno infatti lanciando alla conquista di nuovi territori: verso sud, in Gambia e Guinea, dove ci si aspetta che arrivino a dicembre;

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verso nord, dove si apre lo sterminato Magreb, dal Marocco alla Libia, passando per Algeria e Tunisia; e verso oriente dove, nella peggiore delle ipotesi, potrebbero imboccare la lunga strada che, attraverso il Golfo conduce fino al nord dell'India. Intervenire prima che si formi lo sciame è più efficace e meno costoso perché quando le locuste sono in volo serve molto più pesticida - circa tre volte tanto - che a quel punto va irrorato con gli aerei, con danni ambientali facilmente immaginabili.

LOCUSTE SU GIZA

Il 1 novembre 2004, uno sciame di locuste locuste rosse africane invade Cipro. Il ministero dell'Agricoltura ha reso noto che gli insetti sono stati avvistati prima nella riserva naturale di Akamas, sulla costa occidentale dell'isola, poi si sono rapidamente spostati verso la città costiera meridionale di Limassol. "Sono migliaia, prima avevo visto queste scene solo alla televisione", ha detto Andreas Kazantzis, funzionario del ministero nella regione occidentale di Paphos. Il 17 novembre 2004, l'invasione di locuste, favorita dai forti venti, oscura il cielo sopra le piramidi di Giza, al Cairo, rievocando la narrazione biblica delle piaghe d'Egitto.

Le locuste, che raramente fanno la loro comparsa a Cipro, hanno divorato patate e banane, e ancora non è stata fatta una stima dei danni; gli agricoltori hanno cercato di correre ai ripari chiudendo le serre e irrorando i campi con pesticidi. Gli insetticidi normalmente usati contro le locuste degradano entro sette giorni, un tempo piuttosto limitato. Si tenta di contenere l'inquinamento attraverso un approccio integrato pensato, fra l'altro, per ridurre il rischio che le cavallette sviluppino una resistenza ai prodotti, come sempre accade quando si fa uso d'insetticidi. La FAO ha perfino avviato un programma sperimentale per l'uso di agenti di controllo biologici, la cui l'efficacia deve essere tuttavia dimostrata.

FORMICHE KILLER

Secondo uno studio pubblicato dalla dottoressa Leah Poldi dell'Università Ben Gurion del Negev, alcune formiche soldato della specie “Camponotus Saund”, originarie della Malesia, se attaccate reagiscono lasciandosi “esplodere” e spargendo in tal modo un veleno paralizzante sugli avversari. Le formiche, molto combattive e veloci, presentano una caratteristica particolare: riconoscono immediatamente il loro obiettivo principale e lo attaccano in pochi secondi, disponendosi in una formazione “a cuneo”. Secondo l'entomologa, “modificando geneticamente le formiche con l'inserimento di un gene accrescitore del veleno che secernono e stimolandone la naturale aggressività le stesse si potrebbero rivelare un'ottima arma di contenimento naturale delle invasioni di locuste o di altri parassiti delle colture, attaccando i nemici coi loro feromoni”.

L'INVASIONE CONTINUA

Il 21 novembre, la piaga si sposta in Israele: un nugolo di milioni di cavallette si è riversato nel deserto del Negev, investendo numerose località, anche turistiche. Il Ministero dell'Agricoltura ha decretato lo stato di allarme e inviato aerei carichi di insetticidi.

Se, nei centri abitati, tra cui la località balneare di Eliat, le locuste hanno causato il panico tra gli abitanti, sono gli agricoltori ad essere i più preoccupati perché temono danni ingenti alle piantagioni, memori dell'invasione in In Burkhina Faso, nell'agosto 2004, che ha distrutto il 90% dei raccolti.

Locust invasion threatens summer crops in Sahel countries FAO 05 agosto 2004

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"Locust crisis in Mauritania, Senegal, Mali, Niger deteriorates" afrolnews 17 settembre 2004

Plague of locusts hits Egypt Mail&Guardianonline 17 novembre 2004

Locust Plague Hits Israel Wired News 21 novembre 2004

Israele studia formiche biotech per combattere le locuste molecularlab 06 maggio 2004

(Pubblicato su Ecplanet 30-11-2004)

CLIMATE PREDICTION EXPERIMENT

Le temperature globali sono destinate ad alzarsi di 20 gradi sopra la media entro i prossimi 50 anni. È il risultato del primo esperimento di previsione climatica affidata alla potenza di elaborazione di una rete di 90.000 personal computers.

I PC, situati in 150 paesi, hanno consentito a scienziati britannici di far girare simultaneamente 50.000 diverse simulazioni del futuro clima globale, "un numero assai superiore alle 128 simulazioni utilizzate in precedenza con lausilio di supercomputers", ha dichiarato Myles Allen, di climateprediction.net e fisico alla Oxford University.

Il progetto di calcolo distribuito sviluppato da climateprediction.net coinvolge diverse università britanniche oltre all'Hadley Centre for Climate Prediction and Research.

L'esperimento intende concentrare gli sforzi tecnologici nel tentativo di prevedere con la massima precisione possibile quali condizioni climatiche ci attendono nei prossimi anni.

Secondo i calcoli del "super-cervello" reticolare, le temperature globali potrebbero innalzarsi dai 4 ai 20 gradi Fahrenheit se i gas serra raddoppierranno i livelli pre-industriali. Stando all'attuale tasso di emissione, i valori raddoppieranno intorno al 2050. Le migliori stime, tra quelle fatte in precedenza, avevano stimato un aumento tra i 2 e gli 8 gradi Fahrenheit.

La nuova previsione rivela che la Terra potrebbe essere molto più sensibile alle emissioni di gas serra di quanto finora ritenessero gli scienziati. "Anche se le emissioni si interrompessero del tutto da domani, rimarrebbe un alto rischio di problemi legati alle condizioni climatiche", dice Allen.

L'esperimento promosso da Climateprediction.net si basa sul modello di calcolo distribuito già sfruttato con successo da SETI@home, lanciato nel 1999 dalla SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), che è riuscito a coinvolgere milioni di persone in tutto il mondo. Semplicemente scaricando sul proprio pc un software che analizza i dati provenienti da galassie lontane in cerca di segni di vita aliena (il programma lavora mentre il pc è in stand-by e poi spedisce in rete i risultati settimanalmente).

Il programma equivalente usato per la predizione del clima, cerca di simulare il maggior numero di fattori possibile, come le radiazioni, il modo in cui l'aria si muove, la formazione delle nuvole, le precipitazioni, ecc.

È' stato possibile grazie a David Anderson, direttore del progetto SETI@home presso lo Space Sciences Laboratory della University of California di Berkeley, che ha sviluppato BOINC (Berkeley Open Infrastructure for Network Computing), un protocollo apposito che permette ad un qualsiasi utente internet di partecipare, sia con sistemi Windows, che Macintosh o Linux.

Anderson si augura di aver aperto la strada al coinvolgimento di altri supercomputers come l'IBM ASCI White del Lawrence Livermore National Laboratory, l'ASC Purple e il Blue Gene/L che ha una potenza di 400,000 PC.

(Wired News 31-01-2005)

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climateprediction.net

Hadley Centre for Climate Prediction and Research

SETI@home

CLIMA ARTIFICIALE

Negli ultimi 120 anni, la temperatura globale media si è alzata di 0.7 gradi. Più o meno nello stesso periodo, la concentrazione di ossido di carbonio nell'atmosfera è aumentata dallo 0.28 allo 0.37 percento.

L'ossido di carbonio è uno dei cosiddetti “gas serra”. La loro concentrazione nell'atmosfera, a partire dal 1750, è salita fino a due volte e mezzo. I climatologi, da tempo ritengono che siano la maggiore causa artificiale dell'attuale emergenza globale, insieme a diversi fattori naturali come l'attività solare e le eruzioni vulcaniche.

Ma le proprietà particolari delle particelle sulfuree prodotte dall'opera umana, potrebbero aiutare la riduzione degli effetti causati dai gas serra. È quanto sostiene un gruppo di metereologi di Bonn, sulla base di 30 differenti modelli climatici simulati dal computer: “Senza l'influenza dei gas serra, la temperatura media annuale sarebbe aumentata solo di 0.4 gradi”, ha puntualizzato il professore Andreas Hense, a capo della ricerca finanziata dalla DFG (German Research Association), “tuttavia, le fluttuazioni alla fine del 19imo e nella prima metà del 20imo secolo sono dovute principalmente all'intensificarsi dell'attività solare e dell'attività vulcanica”.

Anche se vi sono molti scettici riguardo l'affidabilità dei modelli climatici, il team del prof. Hense, insieme a ricercatori del Korean Meteorological Service, hanno sfruttato le enormi capacità di calcolo del supercomputer in dotazione al Max Planck Institute che ha elaborato l'evoluzione dei fattori “sospetti” dal 1860 al 2000, e per ben sei volte ha restituito i medesimi risultati.

Il computer è stato programmato in modo da escludere la possibilità del noto “effetto farfalla”, alla base della teoria del caos, che esclude la possibilità di stabilire con esattezza le condizioni climatiche terrestri risalenti al Primo Gennaio del 1860, dato che anche la più minima variazione della situazione iniziale potrebbe aver causato, nel tempo, le ripercussioni più imprevedibili. “Per bypassare l’effetto farfalla”, spiega Hense, “abbiamo ricreato diversi scenari plausibili da cui partire per i calcoli successivi”.

Il gruppo ha poi provato a calcolare, in base agli stessi modelli che pare abbiano funzionato per il passato, i possibili scenari futuri, da qui al 2100: la temperatura globale continuerà a salire fino al 2050, quando comincerà a ristabilizzarsi, ma solo se si riuscirà a ridurre in modo drastico le emissioni di gas serra. “In caso contrario”, dice Hense, “i nostri modelli prevedono un aumento di quasi 3.5 gradi”, previsione che non si discosta molto da quella effettuata di recente da ricercatori americani, e pubblicata su Science.

(pubblicato su Ecplanet, 20-06-2005)

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At Least Part Of Climate Change Is Man-Made Space Daily 14 aprile 2005

DOV'E' IL CALORE? Un gruppo di scienziati guidati dal Dr. James Hansen, del NASA's Goddard Institute for Space Studies, ha pubblicato un nuovo studio che dimostra come la Terra stia assorbendo più energia dal Sole di quella che emette nello spazio.

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Il modello usato dagli scienziati ha mostrato come l'ammontare crescente di gas serra prodotti dall'uomo intrappoli le radiazioni solari e provochi il surriscaldamento del pianeta. Secondo i nuovi calcoli, nel corso degli ultimi dieci anni, il livello del calore degli oceani è cresciuto drammaticamente, e corrisponde esattamente all'eccesso di energia calcolato dal modello usato nello studio.

"Gli oceani sono in grande subbuglio", dice il Dr. Josh Willist, ricercatore del JPL, "dobbiamo esaminare un'enorme quantità di dati per capire quello che stà succedendo". Willist è co-autore, insieme a Hansen, della ricerca sugli squilibri dell'energia terrestre pubblicata su Science. Il precedente studio di Willis  aveva fornito delle misurazioni fondamentali che sono state comparate con il modello climatico simulato, insieme ai dati forniti dal satellite Topex/Poseidon, da Jason e altri altimetri oceanici.

"La temperatura media degli oceani è allarmante", dice Willis, "negli oceani si concentra il calore extra che la Terra non riesce a smaltire". Occorre considerare che ci vuole un notevole ammontare di energia per alzare la temperatura degli oceani al livello attuale, almeno 1000 volte più che nell'atmosfera. "L'unica spiegazione è che tutto questo calore extra sia dovuto alle emissioni di gas serra", dice ancora Willis.

I valori hanno confermato un grave squilibrio. Hansen, Willis e i loro colleghi, hanno concluso che, anche se senza ulteriori incrementi delle emissioni di gas, la temperatura della Terra crescerà ancora di 0,6 gradi centigradi (1,1 gradi Fahrenheit).

Nel rapporto, Hansen definisce i dati raccolti la “pistola fumante” che fa svanire ogni dubbio sul surriscaldamento della Terra e sulle nefaste previsioni per il futuro. In sostanza, i dati forniscono la prova che la Terra assorbe molto più calore di quanto non emette, il che dà manforte al progressivo intensificarsi dell'effetto serra.

Secondo Hansen, se continueranno ad aumentare, come previsto, le emissioni di anidride carbonica e altre sostanze che assorbono il calore, la situazione potrebbe “sfuggire ad ogni controllo”, soprattutto se il livello degli oceani salirà in seguito allo scioglimento dei ghiacci dell’Antartide e del Polo Nord.

(Space Daily 25 luglio 2005)

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Global warming 'proof' detected BBC News 29 aprile 2005

http://data.giss.nasa.gov/gistemp/2005/

http://www.jpl.nasa.gov/ 

DISTRUZIONE RECORD IN AMAZZONIA

Scomparsa, disboscata: lo ha annunciato il ministero dell'ambiente brasiliano. È un dato allarmante, sia in assoluto che come tendenza. In assoluto è un tasso di deforestazione secondo solo a quello verificatosi nell'anno 1994-'95, il record assoluto

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nella storia dell'Amazzonia, quando scomparvero 29mila chilometri quadrati di foresta (come l'intero Belgio). Come tendenza, è un segno di accelerazione, perché rappresenta un aumento del 6% rispetto all'anno precedente e segue altri anni di deforestazione in aumento - in effetti è dal 2001 che il ritmo continua a salire. Gli ultimi dati inoltre sono una delusione per il governo, che sperava di aver contenuto l'aumento della deforestazione entro il 2%.

La ministra brasiliana dell'ambiente, Marina Silva, ha commentato che le azioni prese dal governo federale per proteggere la foresta amazzonica richiedono tempo per sortire effetti: «Continueremo a combattere la deforestazione in modo sistematico e strutturato, coinvolgendo tutti i settori della società in azioni efficaci e durature», ha detto la ministra. L'ultimo dato «dimostra che la deforestazione non è una priorità per il governo di Lula», ha tuonato invece Greenpeace Brasile. Ma sarebbe troppo facile prendersela con il presidente Luiz Ignacio da Silva, Lula.

Il governo federale, in effetti, ha adottato l'anno scorso un piano per proteggere l'Amazzonia dalla distruzione ambientale in sé ineccepibile. Un progetto di legge sulla gestione delle foreste pubbliche è in discussione al Congresso Nazionale (il parlamento federale); il Ministero dell'Ambiente fa la sua parte creando nuove aree protette. Si va facendo strada una strategia di gestione multipla delle risorse forestali, con esperimenti di «uso della biodiversità» combinata alla conservazione dell'ecosistema, di uso collettivo e tentativi di valorizzare le attività tradizionali.

Questa primavera, il governo federale ha completato la demarcazione della riserva degli indigeni Xavantes, concludendo una vicenda annosa. Ma le forze che premono sulla foresta amazzonica sono molte, e potenti. I dati diffusi dal governo brasiliano, guardati più da vicino, lo confermano. Dei sette stati considerati nel rapporto governativo, cinque in effetti hanno rallentato la deforestazione (Parà, Amazonas, Acre, Maranhão e Tocantins). Altri due, il Mato Grosso e Rondonia, hanno invece registrato un balzo in avanti tale da annullare i progressi visti altrove. Sono la parte più consistente di quello che veniva chiamato «l'arco di fuoco», la zona di sfruttamento più intensivo e selvaggio della foresta, del commercio illegale di legno e soprattutto delle grandi piantagioni industriali - soprattutto la soia. Da qualche anno poi, la vera forza trainante della deforestazione è l'allevamento del bestiame.

È la «hamburger connection»: l'export di carne brasiliana è triplicato tra il 1995 e il 2002 e continua a crescere, e tre quarti dell'aumento si registra nella regione amazzonica. Allevare bovini su scala massiccia (nel 2002 se ne contavano 175 milioni di capi) significa creare nuovi pascoli, dunque tagliare alberi in zone vergini, finché il pascolo si esaurisce e si va a tagliare altrove. E questo si somma ai mali cronici - traffico illegale di legname tropicale, occupazione abusiva di grandi estensioni di foresta da parte di coloni che si «ritagliano» grandi piantagioni, l'espansione della soia...

La stampa brasiliana ha messo in risalto che il capo del governo dello stato del Mato Grosso, Blairo Maggi, è anche il maggior produttore di soia del mondo - e che quasi metà della deforestazione registrata nell'anno è avvenuta proprio nel suo stato. Greenpeace lo ha definito «il re della deforestazione». Vincere le forze che premono sulla foresta amazzonica non è cosa semplice. Resta l'allarme: il WWF stima che ormai il 17% della copertura forestale dell'Amazzonia brasiliana è scomparsa.

(Pubblicato su Ecplanet 15-08-2005)

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Soya Farmers to Blame for Amazon Forest Loss earthhopenetwork 20 maggio 2005

The Rape of the Rainforest... and the Man Behind it commondreams 20 maggio 2005

DEMENTI CLIMATICI

La calotta polare si sta restringendo: non è mai stata così ridotta. L'annuncio è stato fatto da alcuni scienziati americani

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del Centro Nazionale Dati su Nevi e Ghiacci (NSIDC), secondo i quali, il fenomeno, dovuto, come noto, al riscaldamento globale, va accelerando. Le osservazioni sono state fatte grazie all'aiuto di satelliti della NASA, l'ente spaziale americano. È la quarta estate consecutiva che la superficie ghiacciata dell'Artico va riducendosi. Di questo passo, «l'Artico non avrà più ghiaccio durante la stagione estiva ben prima della fine del secolo», ha detto Julienne Stroeve.

Stando agli ultimi rilevamenti, il 21 settembre 2005 la banchisa polare era ampia solo 5,32 milioni di chilometri quadrati, la più piccola superficie mai misurata dai satelliti. «Questo - ha sottolineato lo scienziato Walt Meier dell'NSIDC - significa che si verificando un fenomeno di lunga durata, che non si tratta semplicemente di una anomalia a breve termine». Dai dati ottenuti, gli esperti hanno calcolato che la calotta glaciale artica si sta riducendo dell'8% ogni dieci anni. Mentre la formazione del ghiaccio ha subito una drastica riduzione - del 20% - nel periodo che va dal 1978 al 2000.

Le cause? «In buona parte si devono all'effetto serra», ha detto un altro scienziato, Mark Serreze.

Lo stesso dicasi per la crescente violenza di uragani come Katrina e Rita. Lo ha ribadito recentemente Sir John Lawton, presidente della Royal Commission sull'inquinamento ambientale: gli uragani diventano più intensi, come hanno mostrato le simulazioni al computer, a causa della crescente temperatura dei mari. Sir Layton ha preso di mira i “neocon”, che negli Stati Uniti ancora negano questa realtà tragicamente evidente, definendoli dei “dementi climatici”: “Ci sono persone in varie parti del mondo che non riescono ad accettare l'idea che le attività umane possano cambiare il clima e che lo stiano già facendo. Io li paragono a quelli che negavano che fumare potesse causare cancro ai polmoni”.

Sir Lawton è la terza figura chiave degli ambienti scientifici britannici che attacca gli Stati Uniti per l'ostinazione del governo Bush a negare che il riscaldamento globale sia un fenomeno reale. I commenti di sir John seguono e corroborano recenti ricerche, molte delle quali fatte in America, che dimostrano come la crescente violenza degli uragani sia legata in maniera causale con il riscaldamento globale.

Un documento prodotto da alcuni, pubblicato dalla rivista USA Science, dimostra come la frequenza di uragani dell'intensità di Katrina è quasi raddoppiata negli ultimi 35 anni: sebbene la frequenza generale delle tempeste tropicali in tutto il mondo è rimasta al livello del 1970, il numero di casi di uragani di intensità 4 e 5 è salita drasticamente; negli anni 70 vi erano in media 10 uragani di categoria 4 e 5 all'anno ma, dal 1990, essi sono quasi raddoppiati, raggiungendo la media di 18 all'anno; durante lo stesso periodo, le temperature delle superfici marine, tra gli elementi chiave dell'intensità degli uragani, sono aumentate di una media di 0,5 gradi Celsius.

(Pubblicato su Ecplanet 20-10-2005)

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Sea Ice Decline Intensifies NSIDC 28 settembre 2005

This is global warming, says environmental chief The Independent 23 settembre 2005

Nuove evidenze provenienti da registrazioni climatiche del passato confermano il collegamento esistente tra il riscaldamento del clima tropicale e l'incremento dei livelli dei gas serra. Lo hanno annunciato gli scienziati della University of California di Santa Barbara, che avvertono anche che il riscaldamento globale avrà l'effetto di intensificare ulteriormente la potenza devastatrice degli uragani come Katrina e Rita.

La nuova ricerca è stata pubblicata su Science Express, la pubblicazione on-line della rivista Science, a cura di Martin Medina-Elizalde, studente al Department of Earth Science e dell'Interdepartmental Program in Marine Science dell'UC di Santa Barbara, e David Lea, professore al Department of Earth Science e al Marine Science Institute della stessa università.

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Il collegamento tra l'aumento del livello di gas serra nell'atmosfera e l'innalzamento delle temperature globali, spiegano gli autori, può essere stabilito con l'ausilio dei modelli climatici computerizzati e le osservazioni dirette. Oppure, attraverso le osservazioni paleoclimatiche che ricostruiscono le condizioni climatiche del passato attraverso gli archivi naturali. È questo il metodo che è stato usato dai ricercatori dell'UC di Santa Barbara: hanno analizzato la composizione chimica di resti fossili di plancton prelevati dal fondo dell'oceano nel cuore del pacifico equatoriale.

“Le relazioni tra il clima tropicale e i gas serra è particolarmente critica perché le regioni tropicali ricevono la più alta proporzione di emissioni solari e agiscono come un motore di calore per il resto della terra”, spiega Lea. Recenti osservazioni delle temperatura di superficie del mare tropicale indicano un aumento da 1 a 2 gradi Fahrenheit avvenuto negli ultimi 50 anni a causa dell'aumento di anidride carbonica nell'atmosfera, in gran parte prodotta dall'uomo (dovuta soprattutto alla combustione dei carburanti, ndr).

La ricerca dimostra che negli ultimi 1.3 milioni di anni, la temperatura delle superfici marini nel cuore del pacifico tropicale occidentale è stata regolata dagli effetti atmosferici causati dal cambiamento della frequenza di oscillazione dei gas serra, che non sono mai stati così abbondanti nell'atmosfera. In sintesi, sono queste fluttuazioni dei gas serra nell'atmosfera le principali responsabili degli sconvolgimenti climatici che, da un milione di anni a questa parte, sono andati progressivamente peggiorando.

Detto ancora più in sintesi: il principale responsabile dell'eco-apocalisse verso cui stiamo andando inesorabilmente incontro è uno e soltano uno: la follia del genere (dis)umano. Che, oltretutto, continua, sfacciatamente, a negare le proprie responsabilità.

A quando il processo?

(pubblicato su Ecplanet, ultima modifica 28-10-2005)

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Study: link between tropical warming and greenhouse gases stronger than ever physorg 13 ottobre 2005

Il più vasto e comprensivo modello climatico mai sviluppato in precedenza negli Stati Uniti ha previsto temperature sempre più estreme in tutto il paese e precipitazioni ancora più estreme lungo la costa del golfo

nel Pacifico nord-occidentale e a est del Mississippi. Fatto girare sui supercomputers della Purdue University, il modello ha preso in considerazione un largo numero di fattori che in precedenza non erano stati completamente incorporati, come gli effetti dell'energia solare riflessa nello spazio o il ruolo delle catene montuose rispetto alle perturbazioni che le attraversano.

Noah S. Diffenbaugh, a capo del team scientifico, ha detto che l'inclusione di questi fattori in un sistema più potente di elaborazione dati ha permesso di generare una immagine molto più coerente di cosa attenderà gli Stati Uniti continentali nei prossimi decenni. “Si tratta della

più dettagliata proiezione dei cambiamenti climatici futuri mai realizzata negli Stati Uniti”, ha dichiarato Diffenbaugh, che è professore di Scienze Atmosferiche e Terrestri al College of Science della Purdue University e anche un membro del Purdue Climate Change Research Center. “I cambiamenti predetti dal nostro modello saranno così vasti da distruggere sostanzialmente la nostra economia e le infrastrutture”, ha aggiunto.

Il team comprende anche Jeremy S. Pal e Filippo Giorgi dell'Abdus Salam International Centre for Theoretical Physics di Trieste. I risultati della ricerca sono stati pubblicati il 17 ottobre sull'edizione on-line dei Proceedings of the National Academy of Sciences.

I modelli climatici sono in pratica dei sofisticatissimi programmi per computer tesi ad incorporare il più possibile numero di dettagli riguardo le complesse dinamiche del nostro ambiente: correnti oceaniche, formazione delle nuvole, il ruolo della vegetazione, l'aumento nell'atmosfera dei gas inquinanti, ecc. ecc. Tutti input che poi il cervellone dovrà elaborare per formulare una previsione degli effetti sul lungo termine.

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Sono talmente tante le variabili e le interazioni dinamiche che una analisi completa può richiedere anche dei mesi, e stiamo parlando di supercomputers, ovvero di processori dalle capacità eccezionali.

Al team di Diffenbaugh sono serviti 5 mesi per far girare il loro modello sul supercomputer Sun del Rosen Center for Advanced Computing, all'interno del campus della Purdue. “I risultati ci hanno fornito una proiezione dei cambiamenti climatici ad una risoluzione senza precedenti”, ha detto Diffenbaugh.

Tra le previsioni più inquietanti:

- il deserto sud-ovest conoscerà ondate di calore di altissima intensità, insieme ad una diminuzione delle precipitazioni estive. Il che renderà sempre più drammatico il problema della scarsità di acqua che già oggi tormenta le popolazioni limitrofe.

- la costa del golfo diventerà sempre più calda mentre le precipitazioni aumenteranno di volume e si verificheranno ad intervalli sempre più brevi.

- nel nord-est - a est dell'Illinois e a nord del Kentucky - le estati saranno sempre più lunghe e più calde.

- similarmente, gli Stati Uniti continentali conosceranno un aumento complessivo del riscaldamento e le temperature che attualmente si registrano durante le due settimane più fredde dell'anno saranno un ricordo del passato. Si avranno dunque inverni sempre più brevi.

Tutto questo si deve in larga parte al fatto che il modello ha assunto come punto fermo che i gas serra raggiungeranno una concentrazione pari al doppio degli attuali livelli.

“Appare chiaro che ogni qualvolta aumentiamo il dettaglio preso in esame, l'immagine risultante appare sempre più severa. Per migliorare questo modello avremo bisogno di un computer 100 volte più potente”, ha detto in conclusione Diffenbaugh.

A quando un modello che ci dica anche come correre ai ripari?

(pubblicato su Ecplanet 03-11-2005)

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Climate model forecasts dramatic changes in U.S. Purdue 17 ottobre 2005

GLOBAL MURDER

La salute delle popolazioni più povere del pianeta si aggrava a causa dei cambiamenti del clima e dei maggiori rischi ambientali. Secondo l'ultimo rapporto della World Bank - “Environment Matters 2005”, elaborato in collaborazione con la WHO (l'Organizzazione Mondiale della Sanità delle Nazioni Unite), circa un quinto delle infezioni e delle malattie nei paesi in via di sviluppo sono causate da fattori ambientali compresi i cambiamenti climatici e l'inquinamento atmosferico ed idrico.

In aggiunta ai cambiamenti del clima ed agli altri fattori ambientali, ci sono anche cause antropiche quali il crescente uso di pesticidi, di sostanze chimiche tossiche e di rifiuti pericolosi che aggravano ulteriormente la situazione sanitaria.

Per quanto riguarda i cambiamenti del clima, il rapporto mette in evidenza come le variazioni di temperatura ed umidità in molte aree del pianeta abbiano favorito la ploriferazione di batteri e parassiti e, di pari passo, di malattie infettive tipiche della zona intertropicale, come la malaria e la dengue. Inoltre, la diminuzione delle precipitazioni in molte aree subtropicali ha prodotto una maggiore scarsità d'acqua che aumenta i fenomeni di inquinamento idrico e impedisce la creazione di adeguati servizi igienico sanitari.

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Mentre l'eccesso di precipitazioni, e le conseguenti alluvioni ed inondazioni, causato dall'intensificazione dei cicloni tropicali ha creato situazioni catastrofiche che hanno penalizzato soprattuto le popolazioni più povere e le agricolture di sopravvivenza, finendo coll'aggravare le già precarie condizioni sanitarie.

Secondo il rapporto, quantunque l'AIDS, l'alcool ed il tabacco siano le principali cause di morte nei paesi poveri, almeno 150mila morti premature vanno attribuite direttamente ai cambiamenti climatici.

Poi vano considerati anche i fattori indiretti: per esempio, 2 milioni di decessi l'anno attribuibili alla mancanza d'acqua o all'inquinamento idrico; più di due milioni di morti per inquinamento atmosferico; milioni di morti (il numero è imprecisato) per l'uso di pesticidi e sostanze tossiche che colpiscono soprattutto i bambini, in particolare quelli sottoposti a sfruttamento nell'ambito del lavoro minorile.

In conclusione, il quadro delineato dalla World Bank prefigura un “omicidio” di proporzioni globali, che, secondo la legge della causa-effetto, può essere ragionevolmente attribuito ad un unico mandante: la follia del genere umano.

(Pubblicato su Ecplanet 18-11-2005)

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Environment killing millions says World Bank report 07 ottobre 2005

Rapporto in Internet

Tigri, elefanti, rinoceronti, balene, delfini, tartarughe marine, panda, gorilla, oranghi: tutti animali a rischio estinzione per i quali gli ambientalisti combattono da sempre. Oggi la ricetta da adottare, secondo gli oltre 80 esperti dell'associazione WWF provenienti da 60 Paesi, riunitisi nella Capitale in occasione del meeting internazionale voluto per festeggiare i 40 anni dell'associazione italiana, è una sola: «Bisogna partire dalla collaborazione con le popolazioni nate e cresciute a fianco di questi animali, poter rispondere alle loro necessità – ha detto Fulco Pratesi, Presidente del WWF Italia - laddove riusciamo a garantire le necessità del futuro delle popolazioni locali possiamo dare un futuro anche alle specie

animali che condividono gli stessi ambienti naturali. Gli animali rappresentano spesso una ricchezza per queste popolazioni: salvare tigri ed elefanti vuol dire quindi offrire un futuro alle comunità di Paesi ancora in via di sviluppo o in rapido sviluppo».

Il rapido declino di alcune specie sta avvenendo proprio nelle aree dove lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali supera i livelli di sostenibilità: balene, delfini e tartarughe marine sono minacciate dal cosiddetto “by-catch”, la pesca non selettiva, che uccide 300.000 cetacei l'anno. Per questo gli ambientalisti si battono contro lo sfruttamento illegale ed intensivo delle foreste che ha ridotto, ad esempio nel Borneo, gli oranghi a 7.500 individui sparsi in aree ormai frammentate dal

taglio, dagli incendi, dalla sostituzione con piantagioni di palma da olio.

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Vi sono poi le responsabilità del commercio del legname proveniente dalle foreste degli Oranghi, come il ramino, un legno pregiato che cresce nel Borneo e in altre aree del sud est asiatico, il cui commercio è stato regolamentato solo di recente. Gli esperti del WWF hanno registrato anche in Italia il declino di specie importanti come il falco lanario, la lontra, il capovaccaio, la gallina prataiola, la pernice bianca, l'aquila del Bonelli, la foca monaca, ma anche di specie un tempo comuni come la starna e la coturnice.

"Il nostro paese è un consumatore vorace di risorse naturali e di territorio: la sfida quotidiana è quella di saper amministrare le nostre risorse e poter garantire gli obiettivi che l'Onu ci ha indicato e che l'Italia ha sottoscritto, ovvero, l'arresto del declino della biodiversità entro il 2010", ha affermato Michele Candotti, segretario generale del WWF Italia.

Per concentrare risorse economiche e impegno sul territorio e svolgere i progetti di conservazione il WWF ha identificato nel mondo 238 Ecoregioni, individuate insieme alla comunità scientifica. Sono grandi serbatoi di biodiversità, come la foresta Amazzonica, la Grande Barriera Corallina ma anche l'Ecoregione Mediterraneo e l'Ecoregione Alpi, che interessano la nostra penisola.

(pubblicato su Ecplanet 09-02-2006)

I grandi fiumi del mondo sono al collasso. È l'allarme lanciato dal WWF, a conferma dei peggiori timori espressi anche in un rapporto dalle Nazioni Unite.

La maggior parte dei corsi d'acqua sta perdendo lo sbocco al mare e, cosa ancora più grave, quasi un quarto di quelli che ancora ce l'hanno rischia di restarne privo nei prossimi 15 anni. Principali imputati l'effetto serra, la siccità, ma soprattutto le opere artificiali dell'uomo.

Come rileva l'ONU, più di metà dei cinquecento maggiori fiumi della Terra sono parzialmente o completamente in secca, ridotti a poco più di un rigagnolo: dal Giordano al Colorado che attraversa le Montagne Rocciose, dal Fiume Giallo in Cina al Rio Grande lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, dal Nilo al Rio delle Amazzoni.

Un caso su tutti: il Rio Grande, che negli atlanti continua ad essere indicato come uno dei venti fiumi più lunghi del mondo, non solo non riesce più a fare arrivare la sua acqua al mare, ma scompare a metà del suo corso, fermandosi dopo appena 1.300 chilometri, all'altezza di El Paso, la città del Texas che lo priva di tutta la sua acqua.

Secondo il WWF, solo un terzo circa dei 177 fiumi più lunghi al mondo (oltre i 1.000 km) scorre senza incontrare dighe o altri sbarramenti. In realtà, solo 21 di questi sono fiumi senza ostacoli dalla sorgente alla foce, gli altri 43 sono tributari di altri grandi fiumi (come per esempio del Congo, del Rio delle Amazzoni e della Lena).

Come sottolinea il rapporto “Fiumi senza Ostacoli Lusso Economico o Necessità Ecologica?”, la sempre più rapida diminuzione di fiumi non imbrigliati è una tendenza pericolosa che mette in forse la disponibilità di acqua per uso alimentare, sanitario, agricolo e ittico. “Ora che sono rimasti così pochi fiumi senza ostacoli artificiali, siamo sul punto di perdere un altro fenomeno naturale, e ci renderemo pienamente conto dei costi da pagare solo quando sarà troppo tardi”, sostiene il WWF.

I fiumi senza ostacoli sono naturali regolatori dei livelli d'inquinamento e di sedimentazione, la cui mancanza è stata tragicamente messa in evidenza dall'alluvione di New Orleans seguita all'uragano Katrina. L'uragano Katrina ha posto in risalto i gravi effetti negativi dei fiumi su cui l'uomo è intervenuto, come appunto il Mississippi. Dighe e canalizzazioni a monte del fiume hanno causato la riduzione dei sedimenti necessari

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per salvaguardare le terre umide costiere, una delle cause principali delle devastazioni e delle perdite di vite umane.

Il WWF afferma inoltre che non bisogna sottovalutare la minaccia che gli ostacoli artificiali costituiscono per gli animali. L'impatto sui fiumi degli sbarramenti costruiti dall'uomo rappresenta un grave pericolo per le vaste popolazioni di pesci gatto nel rio delle Amazzoni e nel bacino del Mekong, per i delfini di fiume nel bacino del Gange, per gli gnu nel fiume Mara.

I fiumi cosiddetti “naturali” si trovano in massima parte in Asia, e in quantità di poco inferiore in sud e nord America. In coda sono invece l'Australia e l'area del Pacifico, con solo tre fiumi, e l'Europa (con le zone a ovest degli Urali), dove un solo grande fiume, il russo Pechora, fluisce liberamente dalla sorgente al mare.

In Italia abbiamo il caso del Tagliamento - uno degli ultimi fiumi naturali delle Alpi - oggetto di un devastante progetto di casse di espansione, cioè di artificializzazione delle sponde. È solo un esempio della politica italiana “contro le acque interne” che è stata suggellata recentemente dalla Corte di Giustizia europea con la condanna del nostro Paese - ultimo dell'Unione europea a riguardo - per il mancato recepimento della Direttiva Quadro acque 2000/60/CE. Inoltre, l'Italia (dal Governo agli enti locali) non sta facendo nulla per “impedire il deterioramento dei corpi idrici superficiali”, come espressamente richiesto all'art. 4 della direttiva europea: vi sono progetti previsti, o in corso, di nuovi ponti sul Po o sull'Oglio, di interventi devastanti su fiumi come il Maira o il Sesia (Piemonte), sul torrente Pontebbana (Friuli), su Seveso e Lambro (Lombardia), di nuove captazioni sulle aree sorgentizie dei fiumi Sele e Calore Irpino (Campania) solo per citare qualche esempio.

La necessità di una nuova politica per le acque in Italia è testimoniata anche dalle oltre 700 firme di scienziati ed esperti di acque italiani, raccolte dal WWF, per chiedere il recepimento e l'adeguata applicazione della Direttiva europea sulle acque.

(Pubblicato su Ecplanet 23-02-2006)

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http://assets.panda.org/downloads/freeflowingriversreport.pdf

http://www.wwf.it/ambiente/dossier/i_grandi_fiumi_dossier.pdf

STATE OF THE WORLD

Prima ancora di fondare il Worldwatch Institute, Lester Brown ha sempre insistito sull'importanza che i sistemi naturali dovrebbero avere rispetto a quelli economici. Brown ha sempre ricordato che proprio dalla

salute dei sistemi naturali dipendono le economie nazionali. Persino la più avanzata delle società umane dipende dai processi di fotosintesi che si svolgono nelle sue foreste, nelle sue praterie e nelle sue aree coltivate.

Nello “State of the World 1988”, Brown scriveva: “Solo a patto che la volontà di assicurare un futuro sostenibile divenga una delle principali preoccupazioni dei governi nazionali, sarà possibile evitare che il continuo deterioramento dei sistemi naturali che presiedono alla vita economica vanifichi ogni sforzo teso a migliorare la condizione umana”.

Il rapporto “State of the World”, pubblicato in ben trenta lingue diverse, fornisce il quadro riassuntivo dei trend degli andamenti socio-economici

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affiancati a quelli ambientali. Emerge chiaramente come la nostra è una specie che sta compiendo un grande esperimento sulla biosfera, ad esempio nella modificazione dell'equilibrio dei gas che compongono l'atmosfera e nella modificazione dei processi evolutivi, giungendo persino ad intervenire, con le biotecnologie, nel patrimonio genetico degli esseri viventi.

Un esperimento i cui esiti, lo stiamo vivendo sulla nostra pelle, si sono dimostrati catastrofici. Abbiamo creato un mondo artificiale complesso ed articolato che annienta quello naturale. Le 225 persone più ricche del mondo possiedono congiuntamente una ricchezza di oltre mille miliardi di dollari, una cifra equivalente al reddito annuale del 47% più povero della popolazione mondiale, costituito da 2,5 miliardi di persone. Anche nei paesi ricchi va incrementandosi il numero dei poveri.

La ricchezza della vita sulla Terra (la cosiddetta biodiversità) è stata pesantemente distrutta dalla nostra specie: è difficile dire quante specie vengano distrutte ogni anno a causa del nostro devastante intervento, anche perché non sappiamo bene quante specie esistano sul pianeta. Secondo alcune stime del noto biologo Edward Wilson dell'Università di Harvard, nel 2000 si estinguevano 74 specie al giorno, 3 all'ora. Il nostro intervento, soprattutto in alcuni ambienti particolarmente delicati, quali le foreste tropicali, ha portato il livello di estinzione a superare da 1.000 a 10.000 volte il tasso naturale.

Nessun biologo serio dubita del fatto che la specie umana stia causando una delle più importanti ondate di estinzione della storia geologica del pianeta. La vita sulla Terra esiste grazie all'energia solare che viene poi trasformata dai processi di fotosintesi, dovuti ai vegetali, in materia organica a disposizione per tutta la vita sul pianeta. Gli ecologi dell'Università di Stanford hanno calcolato che la specie umana si appropria del 25% della disponibilità di energia fissata nella materia organica dai vegetali (la cosiddetta produttività primaria netta).

Il famoso bioeconomista Herman Daly ha scritto ne “Lo Stato Stazionario”: “Pochissimi mettono in discussione la desiderabilità o la possibilità di una ulteriore crescita economica, obiettivo universalmente accettato nel mondo. Capitalisti, comunisti, fascisti, socialisti, tutti vogliono la crescita economica e si sforzano di renderla massima. Il sistema che cresce al tasso più alto è considerato il migliore. Il fascino della crescita è che su di essa si fonda la potenza della nazione e rappresenta un'alternativa alla ridistribuzione come mezzo per combattere la povertà”.

Aurelio Peccei, fondatore e presidente del Club di Roma, fino alla sua scomparsa, figura dalle straordinarie qualità umane ed intellettuali, scriveva, nel 1981, che sia dal punto di vista della teoria sia da quello delle sue applicazioni concrete, l'economia è entrata in dissonanza con gli interessi fondamentali dell'umanità. La specie umana, nonostante le sue straordinarie capacità scientifiche e tecnologiche che le hanno consentito di estendere i limiti imposti dalla natura, non può andare più oltre. È impossibile vivere al di fuori dei limiti naturali.

(Pubblicato su Ecplanet 27-02-2006)

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State of the World | Worldwatch Institute

PIANO B PER SALVARE IL MONDO 2.0

Il governo britannico lo scorso mese ha sponsorizzato la pubblicazione di uno studio sull'emergenza dei cambiamenti climatici in cui si sostiene che le emissioni di gas serra devono essere tagliate drasticamente, “qui e ora”. In gennaio, l'ecologista Lester R. Brown ha pubblicato la seconda edizione del suo “Piano B per

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Salvare il Mondo”. Il Piano originale proponeva azioni concrete per “salvare un pianeta sotto stress e una civiltà in crisi”.

Di seguito, alcuni brani dell'intervista pubblicata da Wired News.

Lester R. Brown: Oystein Dahle, dopo il collasso dell'Unione Sovietica, dichiarò: “Il socialismo è collassato perché non ha permesso al mercato di esprimere la verità economica. Il capitalismo collasserà perché non consente al mercato di esprimere la verità ecologica”.

WN: Il mondo ha dunque bisogno di più economisti che pensino come ecologisti?

Brown: “Sappiamo oggi, senza più alcun dubbio, che il contributo umano ai disastri ambientali è stato ed è determinante. Non possiamo continuare a ragionare solo in termini economici, se questo significa distruggere il pianeta e tutti i suoi abitanti”.

WN: Il Piano B 2.0 mette in discussione il ruolo della Cina.

Brown: “Da tempo andiamo dicendo che gli Stati Uniti rappresentano il 5% della popolazione mondiale e consumano un terzo (40% circa) delle risorse planetarie. La Cina si è spinta perfino oltre. Se prendiamo agricoltura - grano e carne - energia - carburante e carbone - industria - acciaio - il consumo cinese è oggi superiore a quello statunitense, eccetto che per il carburante. Il consumo di carne è il doppio di quello americano: 67 milioni di tonnellate contro 38 milioni di tonnellate. Il consumo di acciaio è più che raddoppiato: 258 milioni di tonnellate contro 104 milioni. Di questo passo, entro il 2031 i circa 1,5 miliardi di cinesi consumeranno delle quote di risorse esagerate intaccando gravemente le riserve mondiali.

Lo sviluppo economico cinese insegna che il modello economico occidentale - basato su carburanti fossili, automobili, economia usa e getta - non può funzionare per la Cina. E se non funziona per la Cina non funziona neanche per l'India, che entro il 2031 avrà una popolazione molto maggiore. E non può funzionare neanche per gli altri 3 miliardi di persone che popolano i paesi in via di sviluppo e sognano lo stile di vita americano. E, soprattutto, in una sempre più integrata economia globale, dove tutti dipendiamo dallo stesso carburante, dallo stesso grano e dallo stesso acciaio, non può funzionare neanche per noi”.

Occorre, pertanto, secondo Brown, costruire un sistema non più basato sulla logica meramente affaristica e produttivistica in senso quantitativo ma, bensì, costituire uno sviluppo di impostazione qualitativa. Si deve pensare ad attivare una forma di controllo dell'avanzamento incessante dell'alto tasso di natalità e una cultura educativa in campo demografico, mentre è compito rimuovere ogni forma di sottosviluppo economico e sociale, che ha depauperato l'80% della popolazione mondiale della propria possibilità e del proprio diritto di disporre liberamente delle risorse naturali presenti nel proprio ambito territoriale, con senso razionale e responsabile. Infine occorre garantire il passaggio a forme di erogazione dell'energia di natura naturale e rinnovabili e non esauribili, cercando di promuovere una cultura del riciclaggio delle risorse utilizzate e una conservazione delle medesime.

WN: Che cosa dici invece dei cambiamenti climatici?

Brown: “C'è un movimento 'grass-roots' (ecologista) in grande crescita che spinge massicciamente verso il protocollo di Kyoto. E sta diventando un movimento politico nazionale, in risposta alla totale e sprezzante indifferenza mostrata da Washington. Soprattutto dopo il disastro provocato da Katrina, c'è ora una maggiore sensibilità verso l'emergenza climatica, anche da parte di politici. Tutti quanti hanno visto che cosa significa dover governare un flusso su larga scala di rifugiati climatici. Oggi sappiamo che una tempesta con la capacità distruttiva di Katrina è possibile; sappiamo che la superficie delle acque nel Golfo del Messico è calda come mai prima. E sappiamo anche che i livelli dei mari si stanno innalzando sempre più velocemente. Abbiamo capito che eventi catastrofici come Katrina non possono essere considerati come isolati, ma sono frutto dei cambiamenti climatici globali, in gran parte dovuti all'azione dell'uomo. Tutto è collegato. E, purtroppo, indietro non si torna. Almeno, però, questi eventi stanno provocando un cambiamento nelle coscienze”.

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Il Piano B propone i seguenti 3 punti chiave:

1 - una ristrutturazione dell'economia globale in modo tale da poter sostenere la civiltà;

2 - uno sforzo comune per sradicare la povertà, stabilizzare la popolazione, restituire la speranza in modo da suscitare partecipazione nei paesi in via di sviluppo;

3 - un lavoro sistematico di ripristino dei sistemi naturali.

Brown propone la promozione di uno sviluppo della ricerca scientifica che sappia valorizzare le nuove tecnologie per produrre sistemi di trasporto ecosostenibile, come automobili all'idrogeno, oppure automezzi elettrici a energia solare. Questi presupposti sono gli unici che potranno salvare il mondo da un cataclisma non solo di tipo ambientale, dove aumentano fenomeni naturali eccezionali e devastanti in risposta a un aumento del clima dovuto all'effetto serra, ma anche di tipo sociale, economico e, soprattutto, civile.

“Ciò significa comporre un bilancio di risanamento della terra: la riforestazione, il ripristino delle specie ittiche, l'eliminazione dell'eccesso di pascolo, la protezione della diversità biologica, l'aumento di produttività dell'acqua sino al punto in cui sia possibile stabilizzare il livello delle falde e ripristinare il flusso dei fiumi. Adottate a scala mondiale, tutte queste misure richiedono spese aggiuntive per 93 miliardi di dollari l'anno”.

“Il mondo ora spende 975 miliardi di dollari annualmente per scopi militari. Il bilancio militare USA del 2006 è stato di 492 miliardi, ovvero metà del totale mondiale. Questa armi sono di scarsa utilità nell'arginare il terrorismo, né sono in grado di invertire la deforestazione del pianeta o di stabilizzare il clima. Le minacce di tipo militare alla sicurezza nazionale oggi impallidiscono di fronte alle prospettive di distruzione e squilibrio ambientale che minacciano l'economia e di conseguenza la stessa civiltà del ventunesimo secolo. Nuove minacce chiamano nuove strategie. Queste minacce sono il degrado ambientale, il mutamento climatico, il permanere della povertà, la perdita di speranza”.

“È difficile trovare le parole adatte ad esprimere la gravità della nostra situazione e la gravità delle decisioni che dobbiamo prendere. Come possiamo riuscire a trasmettere l'urgenza di agire in fretta? Domani sarà troppo tardi? In un modo o nell'altro, deciderà la nostra generazione. Su questo non c'è alcun dubbio. Ma sarà una decisione tale da condizionare la vita sulla Terra per tutte le generazioni a venire”.

(Pubblicato su Ecplanet 06-04-2006)

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Saving the Planet With Plan B 2.0 Wired News 22 marzo 2006

Defra, UK - Environmental Protection - Climate Change - Action internationally

Contents of Plan B 2.0 Rescuing a Planet Under Stress and a Civilization in Troubleby Lester R. Brown - Earth Policy Instit

Negli Stati uniti, James E. Hansen, direttore del Goddard Institute for Space Studies, uno dei massimi climatologi della Nasa, ha denunciato che l'amministrazione Bush sta cercando di togliergli la parola, in particolare da quando ha parlato in una conferenza pubblica dell'urgenza di ridurre le emissioni di gas serra che alterano il clima.

Hansen ha descritto le pressioni subite al New York Times (citando anche un addetto alle pubbliche relazioni della Nasa che dichiara, in una riunione interna: «il mio lavoro è far apparire bene il presidente»).

Nella capitale britannica, invece, il governo ha pubblicato un rapporto scientifico secondo cui il cambiamento del clima avrà conseguenze più gravi di quanto si creda, e che abbiamo ormai poche chance di riuscire a mantenere le emissioni di gas di serra sotto i livelli di pericolo. Il rapporto “Avoiding Dangerous Climate Change” raccoglie i documenti presentati a una conferenza ospitata nel febbraio 2005 dall'Ufficio Meteorologico del Regno unito. Quella conferenza aveva raccolto il meglio dei dati e studi esistenti per

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rispondere a due domande: qual è la concentrazione di gas di serra oltre la quale il pianeta è in pericolo, e quali opzioni esistono per evitare di raggiungere quel livello?

Le due domande danno per assodato che il cambiamento del clima è già visibile e che avrà conseguenze drammatiche sulla vita del pianeta: si tratta di agire subito per limitarlo, e prevenire conseguenze più gravi. Il rapporto, presentato a, Londra lancia dunque l'ennesimo messaggio di allarme.

Per la verità, la risposta alla prima domanda - quale sia il livello di pericolo nella concentrazione dei gas di serra - è quasi impossibile: gli scienziati tendono piuttosto a dire quali rischi sono associati a quali concentrazioni di gas di serra. Il rapporto fa notare che finora l'Unione Europea si era data l'obiettivo di prevenire un aumento della temperatura media globale superiore a 2 gradi Celsius: ma anche solo quei due gradi possono portare allo scioglimento della copertura di ghiaccio perenne della Groenlandia.

La cosa più allarmante è che il riscaldamento della superficie terrestre si sta verificando in modo assai più veloce del previsto - e lo si vede proprio dalla regione artica (come ha dimostrato un autorevole studio internazionale pubblicato alla fine del 2004 dal Consiglio Artico). Il rapporto britannico fa notare che con un aumento della temperatura media globale sopra ai 2 gradi il rischio di scioglimento dei ghiacci artici aumenta «in modo sostanziale», e questo comporterà «potenzialmente un gran numero di estinzioni e il collasso di interi ecosistemi».

L'innalzamento del livello dei mari avrà effetti disastrosi in primo luogo su molti tra i paesi più poveri del pianeta, più bassi sul livello del mare. «Rischiamo di arrivare al punto in cui il cambiamento diventa irreversibile», ha commentato la ministra dell'ambiente britannica Margaret Beckett alla BBC.

Attualmente, l'atmosfera terrestre contiene circa 380 parti-per-milione (ppm) di anidride carbonica, uno dei principali gas che determinano l'effetto serra: due secoli fa, prima della rivoluzione industriale, erano 275 ppm. Per rispettare l'obiettivo di non aumentare ulteriormente la temperatura più di 2 gradi bisognerebbe stabilizzare la concentrazione di anidride carbonica entro le 450 ppm.

Il capo-consigliere scientifico del governo britannico, Sir David King, ha dichiarato alla BBC il suo pessimismo: «Nessun paese spegnerà una centrale elettrica che dà energia alla sua popolazione per affrontare questo problema, dobbiamo prenderne atto. Credo che l'obiettivo di 450 ppm sia non fattibile».

Quanto alla seconda domanda - quali opzioni per evitare le concentrazioni pericolose di gas di serra - il rapporto dice che le alternative esistono: ad esempio aumentare l'efficienza energetica o l'uso di energie rinnovabili.

È opportuno dunque che i governi comprendano e decretino lo stato emergenza.

(pubblicato su Ecplanet 11-04-2006)

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Climate Expert Says NASA Tried to Silence Him New York Times 29 gennaio 2006

Stark warning over climate change BBC News 30 gennaio 2006

Morti, carestie, siccità: questo l'effetto dell'ormai inevitabile surriscaldamento della temperatura globale. Si parla di almeno 3 gradi centigradi entro la fine del secolo. Il severo monito questa volta giunge da Sir David King, il principale

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consigliere scientifico del governo britannico, che già in passato si era espresso in termini allarmistici e per questo criticato aspramente.

Le sue ultime recenti affermazioni, ai microfoni della BBC, sono però difficili da contestare, poiché si basano su una ricerca dell'Hadley Centre for Climate Change and Prediction, tra i laboratori più famosi al mondo per le proiezioni climatiche. Lo studio, elaborato al computer, chiamato “Avoiding Dangerous Climate Change”, evidenzia il terribile impatto sul sistema umano provocato dall'innalzamento della temperatura, dal cambiamento delle precipitazioni e dall'aumento degli eventi estremi.

Secondo il rapporto, la temperatura della Terra è destinata a salire di 3 gradi entro il 2100, anche prendendo in considerazione le stime più ottimistiche sulle nostre capacità di contenere l'emissione di anidride carbonica. Il Regno Unito e l'UE hanno siglato un accordo che prevede di contenere il surriscaldamento terrestre entro i 2 gradi. Ma il consigliere capo di Tony Blair sembra non avere dubbi: il limite dei due gradi non verrà rispettato.

Se le previsioni del modello elaborato dal computer per conto del governo sono esatte, l'innalzamento di 3 gradi metterebbe 400 milioni di persone a rischio di malnutrizione, lascerebbe senza acqua tra l'uno e i tre miliardi di uomini, causerebbe una riduzione dei raccolti di grano dai 20 ai 400 milioni di tonnellate e distruggerebbe metá delle risorse naturali mondiali.

«Mi rivolgo ai leader politici mondiali. Occorre agire adesso» ha dichiarato Sir King, «non dobbiamo cadere in uno stato di sconforto per il quale diciamo che non c'è nulla da fare e continuiamo a vivere come se nulla fosse. È importante rendersi conto che possiamo gestire i rischi per la nostra popolazione e per quella mondiale. Bisogna dare il via ad una serie di investimenti. Sarà una vera e propria sfida per i paesi in via di sviluppo e non ci sono certezze».

Lo scenario devastante preconizzato da Sir King è finito in prima pagina, a otto colonne, sul quotidiano The Independent: «2100, temperatura del globo aumentata di 3 gradi. I ghiacci dell'Antartico si stanno sciogliendo. L'orso polare sta scomparendo. Le popolazioni che vivono sulle coste dell'Africa e dell'Asia rischiano devastanti inondazioni. La foresta amazzonica diventa come la savana e la biodiversità mondiale cessa di esistere. Gli uragani e le alluvioni diventano sempre più frequenti e distruttivi. I grandi laghi dell'Africa si asciugano e la siccità è ormai una piaga insanabile. Il 40% dei mammiferi africani rischia l'estinzione come pure il 38% dei volatili europei e il 20% delle piante».

Blair sembra ormai rassegnato all'impossibilità di ottenere il “Kyoto mark 2”, un nuovo protocollo sul cambiamento climatico, molto più rigoroso del protocollo di Kyoto, che trova però l'opposizione degli Usa, della Cina e dell'India. Sir David si è lasciato sfuggire un sottile e velato attacco all'approccio usato dal presidente americano George W. Bush dopo che il suo consigliere, James Connaughton, aveva dichiarato che la riduzione dell'emissione dei gas serra poteva danneggiare l'economia mondiale.

L'ammonimento dello studioso inglese è inequivocabile: «Quei politici che credono semplicemente di poter fare affidamento su nuove tecnologie in grado di produrre combustibili meno inquinanti dovrebbero invece dare più ascolto agli scienziati. C'è una grossa differenza tra l'essere ottimisti e nascondere la testa sotto la sabbia».

(pubblicato su Ecplanet 30-04-2006)

Il riscaldamento climatico e quindi l'innalzamento della temperatura delle acque degli oceani sta provocando una devastazione permanente delle barriere coralline, con conseguenti fenomeni, gravi, di sbiancamento (fenomeno noto come “bleaching”) per i prossimi 30 anni.

Lo dicono i risultati di una ricerca condotta da un team di esperti internazionali pubblicata in America. Lo studio ha preso in considerazione l'anno più nero per le barriere coralline, il 1998, quando le acque bollenti hanno “ucciso” il

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16% delle barriere coralline mondiali, con picchi nell' Oceano Indiano, e una devastazione quasi totale (90%) dei coralli delle Seychelles.

Lo sbiancamento dei coralli si verifica quando vengono espulse le alghe che vivono simbioticamente con i polipi di coralli vivi e che conferiscono a questi il colore tipico. I coralli sbiancati possono in seguito morire e influire sull'ecosistema della barriera, e dunque sulla pesca, sul turismo regionale e sulla protezione costiera.

Il fenomeno è collegato a temperature marine superiori alle normali temperature estive nonché a radiazioni solari. Lo sbiancamento può avvenire sia su scala localizzata che su larga scala; nel 1998 e nel 2002 si sono verificati fenomeni di sbiancamento dei coralli piuttosto estesi, collegati agli eventi del Niño. “I fenomeni di sbiancamento - ha detto uno dei responsabili dello studio, Nick Graham, dell'Università di Newcastle, in Inghilterra - stanno diventando sempre più frequenti e diventeranno sempre più gravi nei prossimi decenni”.

Negli ultimi sette anni, il degrado ha recato dei danni così pesanti che la ripresa appare difficile. A rischio è la conservazione della biodiversità: si parla di estinzione, relativa al collasso dei coralli, di quattro specie di pesci e di altre sei seriamente minacciate. L'unica speranza viene dall'Australia, dove la Grande Barriera sembra essere in grado di scampare al fenomeno dello sbiancamento. Di qui si potrebbe ricominciare un'opera di ripopolamento per le aree maggiormente devastate.

(pubblicato su Ecplanet 25-05-2006)

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Global Warming Has Devastating Effect on Coral Reefs, Study Shows National Geographic 16 maggio 2006

NASA Helps Researchers Diagnose Recent Coral Bleaching at Great Barrier Reef Goddard Space Flight Center 04 maggio 2006

Alla Giornata Mondiale dell'Ambiente (World Environment Day) promossa dall'ONU è stato lanciato l'allarme desertificazione: il problema colpisce soprattutto Arabia Saudita, Siria, Pakistan, Cina occidentale, Ciad, Irak e Niger, ma che riguarda sempre di più anche l’Italia, dove il 5,5% del territorio è soggetto a desertificazione. Le zone più colpite da questo fenomeno sono soprattutto le isole grandi e piccole, le coste del Mezzogiorno, in particolar modo Sicilia, sensibile a questo problema per quasi il 36%, Puglia e Sardegna.

“I deserti sono minacciati come mai prima d'ora dal cambiamento climatico, dall'eccessivo sfruttamento delle falde freatiche, dalla salinizzazione e dalla scomparsa della fauna”, ha osservato Andrew Warren, professore di geografia alla University College London, fra i curatori del rapporto ONU sulle terre aride presentato a Londra. Le temperature delle regioni desertiche sono aumentate infatti tra lo 0,5 e i 2 gradi Celsius in 24 anni (tra il 1976 e il 2000), ben più dei 0,45 gradi di rialzo registrati in media nel resto del pianeta. Non solo: le temperature nei deserti potrebbero aumentare da 5 a 7 gradi da oggi al 2071-2100.

Un terzo della popolazione mondiale abita le terre aride e 2 miliardi di persone vivono in condizioni disagevoli, con poca acqua e pochi terreni coltivabili. Il problema investe soprattutto l'Africa meridionale dove il 66% dei terreni è arido o semiarido, come conseguenza dell'accumulo di gas serra nell'atmosfera.

Eppure, i deserti potrebbero rappresentare una preziosa risorsa in vari settori: dall'energia che sfrutta il sole e il vento a piante e animali utili per la ricerca farmaceutica. Secondo Zaveh Zahedi, direttore aggiunto del centro di sorveglianza per la difesa dell'ambiente del PNUE (Cambridge), un deserto delle dimensioni del Sahara potrebbe catturare energia solare sufficiente per rispondere ai bisogni di elettricità del mondo intero. Piante scoperte nel deserto del Negev in Israele potrebbero invece aiutare la lotta contro il cancro e la malaria.

“Lontano dall'essere terre aride, i deserti appaiono come dinamici sul piano biologico, economico e culturale”, ha detto Shafqat Kakakhel, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente.

(Pubblicato su Ecplanet 02-07-2006)

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Desert life threatened by climate change and human exploitation The Independent 05 giugno 2006

L'IMPERO DI CINDIA

Il secolo cinese non sarà dominato solo dalla Cina. L'impetuoso sviluppo economico conosciuto negli ultimi anni da quello che fu l' “lmpero celeste” ha infatti coinvolto molti paesi asiatici, primo fra tutti l'India. L'ex colonia britannica sta rapidamente diventando una nuova grande potenza economica: la diffusa conoscenza della lingua inglese e un buon tasso di istruzione tecno-scientifica ha fatto sì che molte aziende americane e inglesi abbiano deciso di delocalizzare nel territorio indiano alcuni servizi fondamentali e che siano nate non poche delle più importanti aziende informatiche del pianeta, tanto che persino Microsoft ha recentemente deciso di spostarvi la propria produzione. Federico Rampini, corrispondente di Repubblica da Pechino, in questo libro racconta la Cina e anche l'India, i due Paesi che si stanno imponendo sulla scena mondiale grazie al “boom” economico, industriale e tecnologico che stanno vivendo ormai da alcuni anni.

“Se il boom cinese” – scrive Rampini – “ha preso la sua rincorsa dall’inizio degli anni Ottanta, è di recente che l'India si è imposta di prepotenza come l'altro miracolo. Dal 1991 le riforme economiche di New Delhi hanno liberato l'energia del Paese e dal 2004 Cina e India sono diventate le mete predilette degli investimenti delle multinazionali”.

Il decollo della potenza tecnologica indiana coincide con l'invenzione di un microchip, ad opera di un 35enne indiano, finito nello stomaco di vacche che fino al 2003 giravano indisturbate per le vie della capitale ed a cui ora è stato attribuito un codice d'identità che ne registra razza e proprietario. Ebbene, quel sensore “made in India” è oggi un successo mondiale: negli Usa, in Europa e in Argentina è usato per monitorare eventuali ritorni del morbo della mucca pazza.

Questa è la “New India”, divenuta centro dell'innovazione mondiale, il Paese dove la Microsoft di Bill Gates lancia nuovi software a basso costo per miliardi di utenti, assume migliaia di ingegneri e incontra una concorrenza che ha spostato lì, a Bangalore, nella Silicon Valley indiana, il baricentro della fabbricazione di hardware e microchip. Dunque, scrive Rampini, non ci sono alternative, la crescita è in questo Paese. E in Cina. La tigre indiana e il dragone cinese, rispettivamente, una democrazia da 1 miliardo e 100 milioni di abitanti e un regime totalitario da 1 miliardo e 300 milioni di persone. Due Paesi dal passato glorioso che trainano tutto il continente asiatico come due locomotive dello sviluppo industriale e demografico.

Questa realtà è “Cindia”, un'area che fra 30 anni, secondo accreditati studi internazionali, produrrà il 42% del Pil mondiale, lasciando agli Usa il 23% e all'Europa solo il 16: la partita del XXI secolo si gioca qui, nel nuovo centro del mondo. Rampini raccoglie storie di vita quotidiana, ritratti di grandi capitalisti dei quali a stento si comprende il nome, e racconti di viaggio dall'interno dell'impero nascente.

Cindia, a detta di Rampini, è il vero ostacolo degli Usa per il comando supremo del globo. Basti pensare a un dato: già oggi la Cina è il più grande costruttore di prodotti high-tech; e l'India il più grande serbatoio di operatori software (i Pc americani vengono riparati via Internet da tecnici di New Delhi o Bombay) e contemporaneamente la sede mondiale dei nuovi laboratori di ricerca. I due giganti, spesso complementari, talora alleati (in Nigeria hanno avviato un'operazione congiunta di sfruttamento energetico) stanno rivoluzionando la geografia economica mondiale.

Lo sconvolgimento sarà epocale, sottolinea Rampini, perché nel pianeta non c’è posto per altri tre miliardi di produttoriconsumatori al livello occidentale. Non ci sono fonti energetiche (e già si vede), né materie prime, ma nemmeno elementi primari come l'aria e l'acqua. Quindi, all’emergere di Cindia, si pongono tre soluzioni. La prima, e la più tradizionale, è la guerra. D'altronde il pianeta va avanti così: di fronte alle risorse scarse, gli uomini si scontrano e i più deboli scompaiono. La seconda potrebbe essere una auto-limitazione dei consumi (una “decrescita felice”), ma è difficile vedere il propagarsi a livello generalizzato di quelle che sembrano utopie pauperiste. Oppure, un nuovo riassetto della produzione, che implichi la compatibilità ambientale come vincolo. Ciò implicherebbe una rivoluzione tecnologica e un riorientamento morale della società. Ma anche quest'ultima soluzione appare più che mai utopica.

In Cina e India a che livello è il dibattito/consapevolezza su questi temi?

“Entrambi rifiutano di essere additati come i responsabili dei problemi ambientali: sarebbe come accettare che alcuni paesi possono inquinare, altri no – dice Rampini – ma si rendono conto che l'impatto del loro

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sviluppo è enorme e sostanzialmente insostenibile. Si pongono quindi il problema di cosa fare e, almeno a parole, in Cina la sostenibilità è diventata una priorità”.

Rimane il problema globale, il consumo di risorse del pianeta, la necessità di stringenti accordi e controlli internazionali.

“Su questo sono abbastanza in ritardo”, continua Rampini, “né l'una né l'altra hanno partecipato al trattato di Kyoto, che peraltro le esentava in quanto considerate paesi emergenti. Il fatto è che debbono ancora affrontare passaggi culturali e tecnologici che noi abbiamo già superato. Tokyo era una città inquinatissima, oggi non più. Cina e India sono come noi all'inizio della motorizzazione di massa. E non aiuta certo la posizione degli Usa, nella cui atmosfera arriva, pesante, l'inquinamento cinese, ma che devono solo tacere, perché pur essendo i primi inquinatori del mondo, con Bush hanno sabotato Kyoto, smantellato la legislazione ambientale interna e rifiutato, finché hanno potuto, i collegamenti tra inquinamento ed effetto serra”.

(Pubblicato su Ecplanet 05-09-2006)

DEMENTI CLIMATICI 2

Ogni giorno che passa nuovi segnali dal clima impazzito sembrano metterci in guardia. Ma come sta reagendo il governo globale di fronte alla catastrofe ambientale?

Il protocollo di Kyoto non à mai stato rispettato da nessuno dei paesi aderenti, tanto meno da quelli (come gli USA, che sono anche i maggiori inquinatori) che nemmeno lo hanno firmato. La biodiversità su scala globale si sta riducendo ogni giorno di più mentre i cambiamenti climatici evolvono rapidamente e drammaticamente.

Il disastro ambientale sta colpendo soprattutto i paesi in via di sviluppo, che stanno diventando (grazie ad una astuta e subdola clausola del suddetto protocollo di Kioto) la discarica dei paesi sviluppati.

L'ultimo grande polmone verde del pianeta, la foresta amazzonica, continua ad essere distrutta a ritmi spaventosi (secondo molti studiosi, si trasformerà in un arido deserto entro una ventina di anni). La foresta del Peten (in Guatemala) si è ormai ridotta al 20% della sua estensione iniziale, e, di questo esiguo territorio, il 75% è stato dato in concessione a multinazionali straniere dell'estrazione petrolifera e mineraria.

A sentire i “dementi climatici” che governano il mondo, il problema principale è la mancanza di fondi. Proprio di recente, il premio Nobel per la Pace Wangari Maathai ha proposto di piantare un miliardo di alberi nel 2007: tutti gli enti internazionali (compreso l'ONU) hanno appoggiato la proposta moralmente, ma hanno negato il supporto economico.

In questo scenario tragico e surreale, l'Europa, e l'Italia in particolare, non fanno eccezione. Nel Belpaese sono già scomparse le foreste primarie, l'inquinamento di aria, acqua e suolo sta portando alla distruzione di quel poco di natura che ci resta, la biodiversità è ormai ridotta a minimi storici. E i fondi da destinare alla conservazione diventano ogni giorno più scarsi (mentre quelli per la spesa militare, ad esempio, si fanno sempre più ingenti, ndr).

L'unico dato positivo è quello delle aree protette, i parchi naturali. Ogni parco del mondo (con l'Europa in testa) potrebbe e dovrebbe contribuire alla salvaguardia dell'ambiente locale e globale. Ma anche su questo fronte si risponde la stessa solfa: mancano i fondi.

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(Pubblicato su Ecplanet 03-10-2006)

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UNEP-BillionTree Campaign Site

LIVING PLANET REPORT

La presenza dell'uomo sulla Terra è sempre più ingombrante. La sua «impronta» sta lasciando un segno che rischia di essere indelebile. Il pianeta non basta più: nel 2050 ce ne vorranno «due», se continua l'attuale ritmo di consumo di acqua, suolo fertile, risorse forestali, specie animali tra cui le risorse ittiche.

È quanto si legge nel “Living Planet Report 2006”, il rapporto del WWF giunto alla sua sesta edizione, diffuso proprio da uno dei paesi a più rapido sviluppo, la Cina: gli ecosistemi naturali si stanno degradando ad un ritmo impressionate, senza precedenti nella storia della specie umana. Negli oltre trent'anni presi in considerazione, le specie terrestri si sono ridotte del 31%, quelle di acqua dolce del 2% e quelle marine del 27%. Il secondo indice, l'Impronta Ecologica, misura la domanda in termini di consumo di risorse naturali da parte dell'umanità. Il «peso dell'impatto-umano» sulla Terra è più che triplicato nel periodo tra il 1961 e il 2003: la nostra impronta ha già superato del 25%, nel 2003, la capacità bioproduttiva dei sistemi naturali che utilizziamo per il nostro sostentamento.

Nel rapporto precedente (quello pubblicato nel 2004 e basato sui dati del 2001) era del 21%. In particolare, l'Impronta relativa al CO2, derivante dall'uso di combustibili fossili, è stata quella con il maggiore ritmo di crescita dell'intera Impronta globale: il nostro “contributo” di CO2 all'atmosfera è cresciuto di nove volte dal 1961 al 2003. L'Italia ha un'impronta ecologica (sui dati 2003) di 4.2 ettari globali pro capite, con una biocapacità di 1 ettaro globale pro capite, mostrando quindi un deficit ecologico di 3.1 ettari globali pro capite.

I paesi con oltre un milione di abitanti con l'Impronta ecologica più «vasta», calcolata su un ettaro globale a persona, sono gli Emirati Arabi, gli Stati Uniti, la Finlandia, il Canada, il Kuwait, l'Australia, l'Estonia, la Svezia, la Nuova Zelanda e la Norvegia. La Cina si pone a metà nella classifica mondiale, al 69imo posto, ma la sua crescita economica (che nel 2005 è stata del 10,2) e il rapido sviluppo economico che la caratterizza giocheranno un ruolo chiave nell'uso sostenibile delle risorse del pianeta nel futuro. Questo è uno dei motivi per cui Living Planet Report quest'anno è stato lanciato proprio in Cina. Il WWF crede che sia vitale per il pianeta che la Cina e gli altri paesi di nuova industrializzazione (che globalmente raggiungono oltre il miliardo di abitanti e che stanno raggiungendo un livello di consumo paragonabile ai paesi dell'area OCSE) non segua i modelli di sviluppo dell'Occidente, ma persegua il proprio sviluppo in una chiave di sostenibilità.

«La popolazione umana entro il 2050 raggiungerà un ritmo di consumo pari a due volte la capacità del pianeta Terra», si legge nel documento. «Siamo in un debito ecologico estremamente preoccupante, considerato che i calcoli dell'impronta ecologica sono per difetto. Consumiamo le risorse più velocemente di quanto la Terra sia capace di rigenerarle e di quanto la Terra sia capace di metabolizzare i nostri scarti - dichiara Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia - e questo porta a conseguenze estreme ed anche molto imprevedibili. È tempo di assumere scelte radicali per quanto riguarda il mutamento dei nostri modelli di produzione e consumo».

(Pubblicato su Ecplanet 30-10-2006)

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WWF - Human footprint too big for nature 24 ottobre 2006

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ALLARME WWF. Pubblicato il ’’Living Planet Report 2006’’: entro il 2050, il collasso della TERRA lavocedifiore 24 ottobre 2006

RAPPORTO STERN

I cambiamenti del clima, con l'innalzamento generalizzato delle temperature medie, non sono solo una minaccia all'ambiente, ma rappresentano anche un pericolo gravissimo per l'economia mondiale. Lo afferma un autorevole rapporto curato dall'economista britannico Nicholas Stern, ex dirigente della Banca Mondiale, che per lo scenario peggiore prevede un calo del 20% del prodotto economico mondiale a causa dei mutamenti climatici. Un costo calcolato attorno ai 5,5 trilioni di euro, se non si affronterà il problema in maniera risolutiva entro i prossimi dieci anni.

Evviva! Si sono svegliati anche gli economisti. Improvvisamente, si sono resi conto che quella del

“global warming” è una seria minaccia, non tanto alle persone e alle forme di vita, ma all'economia (ovvero agli interessi dei padroni del mondo, ndr). Stern ha studiato quali potrebbero essere le conseguenze dei cambiamenti climatici sul pil mondiale da qui al 2100, concludendo che, nella migliore delle ipotesi, l'1% del prodotto economico mondiale andrà in spese volte a sanare le conseguenze dei cambiamenti climatici.

Il governo di Londra, di fronte alle conclusioni preoccupanti della ricerca, ha deciso di far accettare all'opinione pubblica una serie di tasse “ecologiche”, dagli aumenti delle accise sulla benzina, a tasse su chi viaggia in aereo, già individuate dal ministro dell'Ambiente David Milliband. Stern, invece, avverte che di fronte alla concreta possibilità di ritrovarsi con 200 milioni di possibili profughi (sarebbe la maggiore migrazione della storia moderna), causa distruzione di intere zone da parte di siccità e alluvioni, occorre varare in fretta, entro il prossimo anno (e non entro il 2010/11 come previsto), un nuovo trattato di Kyoto per tagliare drasticamente le emissioni dannose. Al tempo stesso, i governi dovranno quanto meno raddoppiare gli investimenti nella ricerca di fonti energetiche pulite.

Stern sostiene che, con il trend attuale, la temperatura media del pianeta salirà di 2-3 gradi centigradi entro i prossimi 50 anni, rispetto alle temperature nel periodo 1750-1850. Se le emissioni continueranno a salire, la Terra potrebbe riscaldarsi ulteriormente, con gravi conseguenze, avverte Stern. I paesi poveri sarebbero i più colpiti mentre lo scioglimento dei ghiacciai aumenterà il rischio di alluvioni e ridurrà le risorse d'acqua - finendo con il minacciare fino a un sesto della popolazione mondiale.

Non servono - dice Stern - misure unilaterali, ma serve un sforzo mondiale: se la Gran Bretagna chiudesse tutte le sue centrali elettriche domani, ad esempio, la riduzione di emissioni dannose verrebbe vanificata entro soli 13 mesi dalla crescita inquinante della Cina, che insieme all'India rappresenta la sfida decisiva per la riduzione delle emissioni nel futuro immediato.

Il primo ministro britannico Tony Blair ha definito questi dati “una sveglia suonata a ogni paese del mondo”. “Il rapporto è chiaro: stiamo andando verso punte catastrofiche sul piano climatico se non agiamo”, scrive Blair in un particolo per il quotidiano Sun, “creare un'energia più pulita usandone di meno deve essere la chiave”.

UP IN SMOKE 2

Le anticipazioni del rapporto Stern coincidono con l'allarme lanciato da un altro studio sul clima, “Up in Smoke 2”, fatto da un gruppo di Ong britanniche - Oxfam, la New Economics Foundation e il Working Group

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on Climate Change and Development, che raccoglie organizzazioni umanitarie ed ecologiste - per il quale gli aiuti economici all'Africa vengono vanificati proprio dall'aggravarsi delle conseguenze dell'effetto serra.

L'aumento delle temperature medie - 3,5 gradi negli ultimi 20 anni in alcune zone - rende le zone aride sempre più aride e quelle umide sempre più umide. Risultato: nella sola Africa sub-sahariana, 25 milioni di persone hanno sofferto la fame lo scorso anno.

(Pubblicato su Ecplanet 05-11-2006)

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Stern Review - Wikipedia

http://www.occ.gov.uk/activities/stern.htm

Up In Smoke

Orsi affamati che vagano per le steppe, costretti a rimandare il letargo; piante che gemmano e fiori che sbocciano; lepri già diventate bianche per mimetizzarsi nella neve che non c'è, diventando così facile preda di cacciatori ed altri animali: sono alcuni degli effetti delle temperature insolitamente calde registrate a novembre in due regioni della Siberia centrale: Kemerovo e Tomsk, dove il termometro durante il mese di novembre si è fermato a pochi gradi sotto lo zero, a temperature tra i 7 e 10 gradi superiori alla media stagionale.

In Giappone, a Tokyo, sempre più spesso vengono avvistati rapaci (aquile e falchi)

aggirarsi tra le vette dei grattacieli, nei parchi e sui ponti della capitale nipponica. L'insolito fenomeno ha messo in allarme gli esperti del settore, che temono per il possibile impatto negativo sull'ecosistema. I rapaci, infatti, sembrano i responsabili numero uno per la forte diminuzione di tortore, anatre selvatiche (il cui numero si è dimezzato negli ultimi trenta anni) e per le stragi di piccioni, i cui resti vengono spesso rinvenuti nelle zone “abitate” dai falchi.

“Sono almeno cento i rapaci che vivono nella metropoli - ha spiegato Hiroshi Kawachi, esperto di uccelli della Urban Bird Society of Japan - ma nessuno sa ancora perché essi abbiano optato per questo inusuale ecosistema. L'unica cosa certa riguarda la scelta dei luoghi da abitare: preferiscono grattacieli e ponti molto alti poiché queste costruzioni ricordano ai rapaci alture naturali e scogliere, dalle quali é possibile dominare la zona circostante”.

Molti rapaci sono stati notati anche sui davanzali di famosi edifici, all'altezza di circa 100 metri da terra. Nei giorni scorsi, una signora del quartiere di Chiyoda, zona centrale di Tokyo, ha addirittura fotografato e filmato due grossi falchi che sostavano tranquillamente sul davanzale di un palazzo di fronte al suo. Altre postazioni per ammirare i rapaci sono segnalate nel quartiere amministrativo di Shinjuku e nella baia all'altezza del Rainbow Bridge.

E non si tratta di un fenomeno esclusivo della capitale nipponica: negli ultimi tempi gli imponenti volatili hanno fatto apparizioni anche in altre metropoli, tra cui Osaka e Hiroshima. In estate, aveva invece guadagnato le prime pagine dei giornali l'emergenza delle cornacchie, che sempre più numerose invadono le metropoli (e non solo) per attaccare, oltre ai bidoni della spazzatura, i numerosi cavi a fibre ottiche da cui passa buona parte del traffico Internet.

Secondo uno studio che raccoglie ben 886 ricerche scientifiche, pubblicato sull'Annual Rewiev of Ecology, Evolution and Systematics, aree sempre più ampie del pianeta registrano un'impennata della temperatura e

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gli animali non sanno più dove andare. Per questo, almeno 70 specie rare di montagna si sono già estinte e circa 200 animali polari, come orsi e pinguini, sono a rischio. Molte piante invece stanno strvolgendo la loro natura e fioriscono molto prima del tempo. In più, c'è stato un incremento del numero di parassiti.

Sono tutti effetti largamente previsti dagli scienziati. Quello che stupisce, è la eccezionale rapidità con cui questi eventi si stanno verificando.

(Pubblicato su Ecplanet, 30-11-2006)

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Tokyo invasa dai falchi. Allarme fra gli abitanti Libero 23 novembre 2006

EMISSIONI PASSATE E FUTURE

Un articolo pubblicato su Science dell'8 dicembre 2006 analizza un fenomeno di riscaldamento globale avvenuto circa 50-55 milioni di anni fa, durante l'era Cenozoica: durante il passaggio tra Paleocene ed Eocene, la temperatura terrestre è aumentata di circa 5° C in meno di 10000 anni (è il cosiddetto PETM: Paleocene-Eocene Thermal Maximum).

In una news release dell'Università di Yale, uno degli autori, Mark Pagani, così commenta la ricerca: «Il PETM è un esempio lampante di riscaldamento globale indotto dalle emissioni di CO2, in contrasto con i critici che sostengono che la temperatura della Terra è poco sensibile alle variazioni di anidride carbonica. Se il PETM è stato causato dalla combustione di biomasse, allora la sensibilità del clima al biossido di carbonio è più di 2,5 °C per un raddoppio della concentrazione di CO2. Se invece la causa è nel metano rilasciato dal sottosuolo, il clima della Terra è estremamente sensibile all'effetto serra, con un aumento di oltre 5,6 °C per un raddoppio della concentrazione di CO2».

Dal lontano passato del nostro pianeta giunge quindi una chiara smentita a tutti gli scettici che ritengono che l'aumento della concentrazione atmosferica di CO2 non ha effetti sul clima. Non dimentichiamo che il livello di biossido di carbonio dovrebbe raddoppiare (rispetto ai livelli preindustriali) verso la metà del secolo.

«Il nostro lavoro rappresenta un ulteriore incentivo a sviluppare fonti di energia pulita che possano fornire sviluppo senza rischi per il nostro mondo naturale», ha aggiunto Ken Caldeira, un altro degli autori dell'articolo.

(Pubblicato su Ecplanet 27-12-2006)

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Global Warming of the Future is Projected by Ancient Carbon Emission Yale 21 dicembre 2006

TRIBAL LANDS CLIMATE CONFERENCE

Vicino al fiume Colorado, terra del popolo indiano Cocopah, si è svolta, il 5 e 6 dicembre 2006, la prima “Conferenza Climatica delle Terre Tribali”, organizzata dalla Cocopah Indian Tribe e dalla National Wildlife Federation, riunendoi leaders di più di 50 tribù, associazioni non governative, leaders politici, climatologi, per discutere dell'emergenza climatica.

I Nativi Americani guardano criticamente al riscaldamento globale: tra i primi ad aver provato in prima persona gli effetti dei cambiamenti climatici, sono in grado di comparare quello che stà succedendo oggi con le esperienze tramandate di generazione in generazione conesse allo studio dei cicli e delle risorse naturali.

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In particolare, la National Wildlife Federation, organizzazione americana che si batte per la protezione dell'ambiente, ha messo sotto accusa le responsabilità dovute alle emissioni di CO2, considerando il riscaldamento globale come una questione di “giustizia ambientale”.

(Pubblicato su Ecplanet 29-12-2006)

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National Wildlife Federation

AN INCONVENIENT TRUTH

Se la maggior parte degli scienziati del mondo ha ragione, ci restano dieci anni per evitare una catastrofe che potrebbe innescare una spirale distruttiva nell'intero sistema climatico del pianeta, con condizioni meteorologiche estreme, alluvioni, siccità, epidemie e ondate di caldo letali mai registrate in precedenza. A lanciare l'ennesimo allarme questa volta è Al Gore, ex vice-presidente degli USA, sconfitto alle elezioni del 2000, sceso in campo in prima persona per denunciare i gravi pericoli che minacciano la sopravvivenza dell'umanità. Il film “An Inconvenient Truth” (“Una Scomoda Verità”), del regista Davis Guggenheim, offre un illuminante e intenso ritratto di Gore e del suo “spettacolo itinerante sul surriscaldamento globale”, molto efficace nel coinvolgere e stimolare lo spettatore comune a riflettere sulla “emergenza planetaria” (in Italia uscirà in DVD il prossimo gennaio).

Nel 2005, in America, si sono registrate alcune delle più disastrose calamità naturali della storia umana. Secondo la tesi sostenuta dall'ex vicepresidente USA, senza un cambiamento radicale della gestione delle risorse si entrerà in una dinamica catastrofica (ci siamo già entrati, ndr). “Ormai da tempo gli scienziati chiedono che vengano presi seri provvedimenti a favore dell'ambiente”, ha dichiarato il Ministro dell'Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, all'anteprima del film, “bisogna cambiare i propri stili di vita, lo ha detto anche il rapporto Stern,

commissionato dal governo britannico sulle ripercussioni economiche dei cambiamenti climatici” (se è per questo lo ha detto anche il Papa, ma tra il dire e il fare....).

Al Gore presenta fatti e nessi inquietanti, fa i nomi di chi rema contro (i “dementi climatici”, ndr) e incita a passare subito all'azione, mettendo in atto le misure necessarie. Non possiamo più permetterci di considerare il surriscaldamento globale come un semplice problema politico. È la maggiore sfida morale per gli abitanti di questo pianeta. Dal “Vertice della Terra” di Rio del 1992, evento che in teoria ha segnato una presa di coscienza collettiva sullaa necessità di uno sviluppo sostenibile per il pianeta, sono state ratificate tre importanti convenzioni delle Nazioni Unite, oggi in vigore: la Convenzione sui Cambiamenti Climatici, la Convenzione sulla Biodiversità e la Convenzione sulla Desertificazione. Inoltre, Il Fondo Mondiale per l'Ambiente (Global Environment Facility) finanzia più di 1.600 progetti in 140 Paesi. I 6,2 miliardi di dollari USA investiti a partire dalla sua istituzione (1991) hanno generato altri 20 miliardi di dollari sotto forma di co-finanziamenti.

Ma come sono stati effettivamente spesi?

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Il 2006 è stato proclamato da Kofi Annan, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, l'anno contro la desertificazione, uno dei processi più allarmanti di degrado ambientale che minaccia la salute e le condizioni di vita di oltre un miliardo di persone. Ogni anno, la desertificazione e la siccità causano una perdita di produzione alimentare del valore di 24 miliardi di dollari. Secondo le stime del Programma per l'Ambiente delle Nazioni Unite (United Nations Environment Programme), un quarto delle terre del pianeta è minacciato dalla desertificazione.

In Italia, sono interessate da questo fenomeno in particolare le Regioni Sicilia, Sardegna, Puglia e Calabria. La desertificazione spesso deriva dalla siccità, ma spesso le ragioni più significative per tale fenomeno sono rappresentate dalle attività umane. Le coltivazioni intensive esauriscono il suolo. L'allevamento del bestiame elimina la vegetazione, utile a difendere il suolo da fenomeni erosivi. Gli alberi che trattengono il manto superficiale del terreno vengono tagliati per essere utilizzati come legname da costruzione o come legna da ardere per riscaldare e cucinare. L'attività irrigua effettuata con canali e tubazioni scadenti rende salmastre le terre coltivate, desertificando 500.000 ettari all'anno, più o meno la stessa estensione di terreno che viene irrigata ex novo ogni anno.

Le cause che stanno dietro a questo fenomeno sono numerose e comprendono fattori economici e sociali nei paesi in via di sviluppo quali la povertà, gli elevati tassi di crescita della popolazione, l'ineguale distribuzione delle proprietà terriere, l'afflusso di rifugiati, la modernizzazione che fa abbandonare le tradizionali tecniche di coltivazione e le politiche governative che incoraggiano le colture commerciali al servizio del debito estero svolte sulle terre marginali.

La vita sulla terra si basa su quello strato superficiale del terreno che fornisce i nutrienti necessari alle piante, alle colture, alle foreste, agli animali ed alle persone. Senza di esso, in definitiva, nessuno potrebbe sopravvivere. Sebbene questo strato abbia bisogno di lungo tempo per svilupparsi, se non viene curato in maniera appropriata, esso può scomparire in poche stagioni a causa dell'erosione che deriva dall'attività del vento e dell'acqua.

Nel 1977, la Conferenza delle Nazioni Unite sulla Desertificazione (UNCOD, dall'inglese United Nations Conference on Desertification) adottò il Piano d'Azione per Combattere la Desertificazione (PACD, dall'inglese Plan of Action to Combat Desertification). Nonostante gli sforzi compiuti per la realizzazione di questo piano, uno studio dell'UNEP del 1991 concluse che, malgrado si possano registrare alcuni esempi localizzati di successo, il processo di degrado della terra in zone aride, semi-aride e subumide si era generalmente intensificato. Le attività specifiche di questo piano prevedevano, fra le altre, la creazione di filari di alberi, spesso eucaliptus o altre specie aliene alla flora del paese, per frenare l'avanzata del deserto.

Il concetto di desertificazione si è quindi progressivamente evoluto nel corso degli anni nel tentativo di definire un processo che, seppur caratterizzato da cause locali, sta sempre più assumendo la connotazione

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di un problema globale. Il 17 Giugno 1994, a Parigi, viene adottata la UNCCD - United Nations Convention to Combat Desertification in Countries experiencing Serious Drought and/or Desertification, Particularly in Africa (Convenzione per Combattere la Desertificazione in quei Paesi che soffrono di Gravi Siccità, particolarmente in Africa). La Convenzione è entrata in vigore a Dicembre 1996, 90 giorni dopo la ratifica del cinquantesimo paese. Ad oggi la Convenzione conta 191 Paesi.

(Pubblicato su Ecplanet, 30-12-2006)

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Una scomoda verità - Wikipedia

United Nations Convention to Combat Desertification - Wikipedia

Da campioni rilevati nelle rocce sul fondo dell'Oceano Pacifico, 1600 chilometri ad Est del Giappone, risulta che nel Cretaceo, ovvero 120 milioni di anni fa, le oscillazioni di temperatura sulla superficie dell'oceano arrivarono a 6 gradi centigradi nella media annuale (tra i 30° ed i 36°), con due episodi di raffreddamento che raggiunsero i 4 gradi sulla superfici marine ai tropici. Al confronto, oggi le temperature della superficie marine ai tropici oscillano tra i 29 e 30 gradi (i risultati degli esperimenti sono stati pubblicati su Geology).

Il nuovo studio è stato diretto da Simon Brassell, geologo dell'Università dell'Indiana, secondo il quale le prove sui cambiamenti climatici in un passato in cui gli esseri umani proprio non c'erano dovrebbe aiutare a capire il fenomeno del riscaldamento globale: “Se vi sono grandi fluttuazioni, che sono inerenti al sistema stesso, come mostrano gli studi sul paleoclima, ciò rende la determinazione del clima futuro della terra persino più difficile di quanto non lo sia già”. “Stiamo cominciando a capire come il nostro clima, negli archi lunghi del tempo, sia stato una bestiaccia selvatica” ha detto Brassell.

Anche in epoca più recente, diciamo nel periodo successivo all'anno mille, è noto che in Inghilterra e persino in Scozia si riuscisse a coltivare la vite, anche se a fatica. A questo periodo di temperatura estremamente mite, evidentemente maggiore rispetto a quello attuale, seguì una piccola glaciazione protrattasi fino al 1880, che coprì di ghiacci le regioni più settentrionali dell'Europa, a cominciare dalla Groenlandia, che prima, come dice il nome stesso, “verdeggiava”. Le colonie vichinghe groenlandesi furono costrette ad abbandonare quegli stanziamenti per il freddo eccessivo.

(Pubblicato su Ecplanet 16-01-2007)

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Earth's Crazy Climate Astrobiology Magazine 27 settembre 2006

Secondo lo scienziato tedesco Gerald Haug, la fine della grande dinastia cinese dei Tang e il crollo della civiltà precolombiana dei Maya, avvenuti quasi in contemporanea intorno al 900 a.C., furono provocate da improvvisi cambi di clima. In particolare, da un'ondata di siccità che l'interessò l'intera fascia tropicale.

Insieme a ricercatori del National Research Center for Geosciences di Postdam (Germania), Haug è riuscito ad analizzare le tracce geologiche lasciate dai venti tropicali negli ultimi 16 mila anni. Un'impresa ardua, considerando le difficoltà a rintracciare l'impronta nell'ambiente dei monsoni prima del 1950. Per riuscirvi, hanno cercato i segni imprigionati nella roccia. In Cina, la testimonianza migliore delle precipitazioni

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estive monsoniche è conservata nelle stalagmiti, perché più intense furono le piogge, maggiore la quantità di acqua penetrata nel sottosuolo. Per i monsoni invernali, invece, sono stati esaminati i sedimenti depositati dal vento sul lago Huguang Maar, nella Cina meridionale, in particolare di ferro e titanio. Le quantità accumulate sul fondale e i livelli di ossidazione dei due minerali hanno fornito una prova indiretta della forza del vento.

I dati, comparati con quelli ottenuti analogamente lungo la costa sudamericana, suggeriscono che la decadenza dei Maya e dei Tang coincise con un periodo di forti venti invernali e, di contro, deboli precipitazioni estive. L'impatto del cambiamenti climatici potrebbe aver danneggiato i raccolti di grano, contribuendo a decretare il collasso delle due antiche culture. “Non sono uno storico - dice lo scienziato tedesco - ma ci sono prove crescenti che il clima ha un effetto catalizzatore sulle società umane”.

Did worldwide drought wipe out ancient cultures? Bioedonline 03 gennaio 2007

Climate changes may lead to the collapse of ancient civilizations Chinese Academy of Sciences

CLIMA IMPAZZITO UPDATE

Le temperature al di sopra della media confondono la vegetazione con uno sfasamento stagionale nelle campagne dove sono già comparse le fioriture primaverili di mimose, primule e mandorli, con il rischio di gravi danni alle coltivazioni, impreparate all'arrivo del freddo. È quanto afferma la Coldiretti nel sottolineare che ad un autunno ed inizio inverno insolitamente mite si è aggiunta la mancata caduta di pioggia con appena un terzo delle precipitazioni normali del periodo novembre-dicembre. “A causa dell'andamento climatico anomalo si sta verificando - sottolinea la Coldiretti - la presenza di piante forestali già in attività vegetativa e piante spontanee della famiglia delle rosacee con le gemme gonfie pronte a fiorire”.

Il giallo delle mimose in Liguria, i mandorli in fiore nell'Italia centrale e meridionale e le primule fiorite sulle colline degli Appennini, segnano straordinariamente, e drammaticamente, gli effetti dei cambiamenti climatici. “Per le mimose - precisa la Coldiretti - c'è il rischio che la fioritura anticipata le renda indisponibili per le ricorrenze tradizionali di San Valentino e della Festa della Donna dell'otto marzo. Le piante si trovano in una fase di crescita tipica della primavera che le stà predisponendo alla circolazione della linfa. La recrudescenza del freddo potrebbe colpirle nel momento più critico con danni ingentissimi”.

Intanto, a New York fioriscono gli alberi di ciliegio, mentre le stazioni sciistiche della zona a nordest degli Stati Uniti hanno chiuso, almeno per ora, i battenti. I ventuno gradi di questo gennaio, ha fatto sapere il National Weather Service, hanno battuto il record precedente, segnato nel 1950, di 17 gradi. I meteorologi ritengono che alla base di questo caldo primaverile ci sia più che altro El Nino, il fenomeno che colpisce di norma l'area del nordest.

2006 SESTO ANNO PIU' CALDO DELLA STORIA MODERNA

Secondo la World Metereological Organization (Organizzazione Meteorologica Mondiale), il 2006 è stato il sesto anno più caldo dell'epoca moderna: la temperatura media della superficie del globo ha superato di 0,42 gradi la media del periodo di riferimento 1961-1990 (14 gradi). Il 2006 è stato dunque il sesto anno più

caldo dal 1861, da quando ebbero inizio le misurazioni. Nell'emisfero nord, la temperatura è stata di 0,58 gradi sopra la media, il che fà risultare il 2006 il quarto anno più caldo. Nell'emisfero sud (0,26 gradi sopra la media) si è trattato del settimo anno più caldo. In generale, l'aumento delle temperature è stato di 0,7 gradi dall'inizio del XX secolo.

Ma la crescita non è stata regolare, nell'ultimo quarto di secolo è aumentata ad un ritmo molo più rapido. Il 2006 è stato caratterizzato da

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numerose anomalie, tra cui il “torrido” autunno in Europa: si è trattato dell'autunno più caldo segnalato in Inghilterra almeno dal 17imo secolo. Anche in altre regioni del mondo sono state segnalate temperature da record, come in Australia, con 44,2 gradi a Sidney in gennaio, e in Brasile, 44,6 gradi a Bom Jesus a fine gennaio. Il 2006 è stato inoltre caratterizzato da fenomeni di siccità nell'Africa orientale ed in particolare in Somalia. Inondazioni hanno successivamente colpito numerosi Paesi africani, ed in particolare il Corno d'Africa. Il ghiaccio dell'oceano Artico ha continuato a diminuire: in settembre, la superficie ghiacciata marina era di 5,9 milioni km2. Il ritmo di scioglimento è adesso pari ad una diminuzione media dell'8,59 % ogni decennio, pari a 60.421 km2 all'anno, una superficie superiore a quella della Svizzera.

Tra gli eventi climatici estremi del 2006 vanno citati: l'eccezionale ondata di calore dell'estate 2006 in California con 140 morti; il record della temperatura di luglio nell'Europa centrale; l'autunno di caldo record nell'Europa centrale ed occidentale; l'eccezionale ondata di freddo che ha colpito la Russia e la Siberia nel gennaio 2006; l'eccezionale siccità dell'Afghanistan e di parte della Cina, con circa 20 milioni di profughi; le alluvioni nel Niger e in Algeria con 100mila persone senza casa; la forte siccità da gennaio a marzo 2006 dell'Amazzonia che ha prodotto “minime di portata” nel Rio delle Amazzoni.

E ancora: le anomalie del monsone indiano che è cominciato in anticipo (maggio 2006) e si è esteso fino alla fine di agosto producendo alluvioni continue in India, Bangladesh e sud della Cina; l'eccezionale intensità dei tifoni sul Pacifico occidentale che hanno colpito soprattutto la Cina orientale e le Filippine, dove si sono avuti complessivamente più di 1.500 morti; l'eccezionale ondata di calore primaverile e la prolungata siccità che ha colpito l'Australia.

2006 was Earth's sixth warmest year on record New Scientist 14 dicembre 2006

CALDO RECORD ANCHE NEL 2007

Secondo il Servizio Meteorologico Britannico e gli esperti del NOAA (National Oceanic & Atmospheric Administration), l'agenzia statunitense che si occupa del monitoraggio delle temperature in atmosfera e della situazione degli oceani, per il 2007 non si prevedono cambiamenti: l'inverno 2006-2007 (fino a febbraio) sarà particolarmente caldo nell'Europa occidentale e nella parte occidentale dell'Area mediterranea.

Viceversa, sarà più freddo del normale nella parte orientale dell'area mediterranea e nel vicino oriente. Piogge estese ed al di sopra della norma colpiranno il nord Europa e l'area balcanica, mentre gran parte della Spagna e tutta la sponda sud del mediterraneo andranno incontro a siccità. L'inizio della primavera 2007, invece, si prospetta piuttosto freddina e piovosa per l'Italia e tutta l'area mediterranea orientale compresi i balcani.

Per l'ente metereologico nazionale della Gran Bretagna, la corrente di El Nino sull'Oceano Pacifico farà salire la temperatura globale fino a 0,54°C sopra la temperatura media di lungo periodo di 14°C. Gli esperti hanno tratto le loro conclusioni principalmente da due fattori: l'effetto dei gas-serra e quello di El Nino, annunciato dall'arrivo di un insolito calore nelle acque delle coste nord-occidentali del Sud-America.

2007 To Be Warmest Year Yet, Say UK Forecasters ScienceDaily 05 gennaio 2007

EFFETTO SERRA: EUROPA A RISCHIO

Secondo una ricerca dell'Unione Europea, l'Italia e la Spagna sono i Paesi più a rischio degli effetti del cambiamento climatico. Il riscaldamento globale potrebbe costare all'Europa migliaia di vite e miliardi di euro

entro i prossimi 70 anni (intorno al 2071 potrebbe portare alla morte di 87.000 persone l'anno). È impietoso lo studio sul clima e sui suoi effetti in Europa elaborato dalla Commissione Europea e pubblicato dal Financial Times. Se non saranno presi seri provvedimenti sulle emissioni dannose, ammonisce Bruxelles, l'effetto serra e il relativo surriscaldamento del pianeta andranno avanti a passi sempre più veloci.

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Mentre il Nord Europa avrebbe un clima più mite e la possibilità di un'agricoltura più generosa, altrove si avrebbero siccità, gran caldo, inondazioni e colture depresse.

Il quadro più grave riguarda proprio l'Italia che, insieme alla Spagna, potrebbe essere destinata a soffrire maggiormente questa situazione catastrofica a causa, si legge nel rapporto, di “siccità, riduzione della fertilità del suolo, incendi e altri fattori dovuti al cambiamento di clima”. Lo studio non risparmia flora e fauna: “Piante e animali tipici di certe aree geografiche moriranno o si sposteranno verso altre zone”. Il riscaldamento porterà ovviamente anche all'innalzamento del livello del mare che potrebbe crescere fino a un metro con costi ingenti per far fronte al fenomeno.

Già nel 2020, in caso di innalzamento della temperatura di 2,2 gradi, la spesa per far fronte al disastro delle coste potrebbe essere di 4,4 miliardi di euro; nel caso del secondo scenario (+3 gradi) la spesa aumenterebbe a 5,9 miliardi e potrebbe crescere a 42,5 miliardi nel 2080. C'è poi il problema delle inondazioni, sempre più intense un po' in tutta Europa. In proposito l'allarme riguarda soprattutto i grandi bacini fluviali, come il Danubio, che già negli ultimi anni ha fatto sentire i suoi effetti interessando con gravi danni circa 240.000 persone.

L'allarme lanciato dalla UE trova riscontro nell'analisi del CNR. Estati italiane sempre più bollenti, con 3-5 gradi in più; precipitazioni più rare con un calo di acqua piovana estiva fino a 50 millimetri ma sempre più violente; frane e dissesto; rischi di desertificazione nel Mezzogiorno; 33 zone costiere a rischio inondazione.

allarme Ue sull'effetto serra "Anche l'Italia a rischio desertificazione" La Repubblica 06 gennaio 2007

  In Italia estati sempre più calde CNR 10 maggio 2006

EMERGENZA IN AUSTRALIA

In Australia, la stagione degli incendi, iniziata in ottobre a causa della lunga siccità che ha colpito gran parte del sud-est del continente, si avvia a diventare la più devastante degli ultimi decenni e sta causando distruzione in quattro stati. Nello stato-isola della Tasmania, almeno 18 case sono rimaste distrutte quando una tempesta di fuoco, proveniente da un incendio che aveva già bruciato più di 3000 ettari sulle colline, spinta da raffiche di vento di oltre 110 km l'ora, ha colpito la cittadina costiera di Scamander.

Gli incendi più estesi, appiccati da fulmini, hanno infuriato nelle foreste del Victoria, nell'entroterra a nordest di Melbourne, dove sono stati impegnati più di 4000 fra vigili del fuoco, alcuni accorsi dalla Nuova Zelanda, militari e volontari, con il supporto di mezzi dell'esercito, elicotteri e 45 aerei cisterna. Più di 280.000 ettari sono stati ridotti in cenere, mentre durante la notte, i due maggiori incendi si sono congiunti in un unico inferno, lungo un fronte di 250 km.

Una fitta coltre di fumo ha coperto gran parte dello stato e la stessa Melbourne, dove l'inquinamento dell'aria ha raggiunto livelli record. Il fumo ha fatto scattare gli allarmi antincendio e nell'aeroporto di Melbourne la scarsa visibilità ha ritardato numerosi voli. Le fiamme hanno minacciato anche la diga di Thomson, a est della città, che rifornisce il 60% dell'acqua di Melbourne, rischiando di contaminarla con ceneri e detriti.

Gli incendi hanno divampato anche in 24 aree del Nuovo Galles del Sud, minacciando la periferia ovest di Sydney, assediando la cittadina di montagna di Tumut a sudovest della capitale Canberra, e anche la periferia orientale di Perth, all'altra estremità del continente. Secondo gli esperti, centinaia di migliaia di animali nativi, dai koala ai canguri, dagli uccelli alle rane, sono morti fra le fiamme o moriranno di fame, e intere specie rischiano l'estinzione. Nello stato di Victoria, dove quattro grandi incendi hanno ridotto in cenere 750 mila ettari di foreste, negli altri due stati del sudest Nuovo Galles del sud e Tasmania, e in Australia occidentale all'estremo opposto del continente, sono rimaste distrutte larghe fasce di habitat animali.

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Anche se finora è morta solo una persona, più di 30 case sono rimaste distrutte e molte migliaia di capi di bestiame uccisi. ''Gli incendi sono così devastanti e avanzano così rapidamente che gli animali non hanno la possibilità di fuggire, e sono uccisi anche prima che il fuoco li raggiunga perché il caldo è troppo intenso'', ha detto alla radio ABC il presidente della Wildlife Protection Association, Pat O'Brien. I koala e gli opossum, che istintivamente si arrampicano sulla cima degli alberi per mettersi al sicuro non hanno speranza, ma neanche i canguri e gli uccelli, che si muovono rapidamente, riescono a sfuggire alle fiamme. “Per gli animali che sopravvivono non resta nulla da mangiare, non restano luoghi in cui riprodursi: questa è la stagione della riproduzione ed il loro habitat non esiste più”, ha aggiunto O'Brien. E quando finalmente verrà la pioggia, e si mescolerà con le ceneri e il carbone, avvelenerà i corsi d'acqua, uccidendo rane, pesci e altri animali acquatici.

La minaccia è particolarmente grave per le specie che vivono esclusivamente nelle aree colpite. “Questi incendi contribuiranno direttamente all'estinzione di diverse specie... non conosceremo per intero gli effetti per altri 10 anni”, ha detto ancora O'Brien. Un fattore cruciale nell'alto numero di vittime animali è la predominanza degli eucalipti nella boscaglia, poiché l'olio che contengono esplode in fiamme con il solo calore. Il fuoco quindi viaggia sopra le cime degli alberi con estrema rapidità ed è impossibile fuggire anche per gli animali più veloci. Le prospettive per il futuro sono ancora più allarmanti: il riscaldamento globale causerà sempre più spesso alte temperature e sempre meno piogge.

Clem e Cheryle Hodges lavorano da 38 anni alla fattoria di Toongarah, a sei ore di strada da Sydney, ma non hanno mai visto un simile disastro. Né i loro genitori, né i loro nonni hanno mai visto prosciugare così le loro terre. In Australia esiste anche la campagna, non è tutto di deserto rosso. È un mosaico di campi di cereali, pascoli, frutteti e vigneti, una volta verdi e fertili. Ma da cinque anni, tutto va di male in peggio.

Il 2006 ha battuto tutti i record. I flussi dei fiumi Murray e Darling, che alimentano tutta la regione, raggiungono appena il 10% del livello medio. I ruscelli si sono prosciugati. Nelle praterie, l'erba sempre più rada è color paglia. Il grano e l'orzo non crescono, o crescono male, sulla terra screpolata. Grandi eucalipti morti tendono i loro rami nudi verso il cielo di un blu impietoso. Il più piccolo passo solleva una nuvola di polvere rossastra. Le mosche, avide d'acqua, si attaccano agli occhi e alla bocca di uomini e animali. La famiglia Hodges sta finendo il raccolto. Non ci vuole molto: è crollato del 90%. «Non vale più nemmeno la pena di raccogliere, l'orzo non spunta dalla terra», dice Clem, mentre guida il suo vecchio camion.

Mentre i maschi sono nei campi, le femmine conducono la loro battaglia nel giardino. I prati abbrustoliti fanno disperare Cheryle, che cerca accanitamente di tenere in vita due cespugli di rose dagli steli molli, e qualche legume piantato dentro vecchi pneumatici per trattenere l'umidità. Per bere e lavarsi basta ancora l'acqua piovana raccolta nelle cisterne, ma per quanto durerà? L'estate è appena iniziata. Il pozzo della fattoria, troppo salato, serve solo per abbeverare il bestiame. «Quest’anno sarà il peggiore della nostra storia», dice Clem, «con la nostra carne, i legumi, la vendita delle pecore e l’aiuto governativo, riusciamo appena a sopravvivere».

Le riserve d'acqua sono completamente a secco anche nella fattoria di Kerry e Wayne, suo marito. «È la prima volta nella vita che mi tocca portare l'acqua ai campi con un camion, per riempire gli abbeveratoi. Ma le pecore continuano ad andare ai bacini vuoti, e muoiono». L'aiuto del governo permette di «mettere il cibo sul tavolo, ma non paga i debiti». Circola la voce che ogni quattro giorni un contadino si suicida. Gli «assistenti siccità» - nuova categoria di funzionari del ministero dell'Agricoltura - non confermano, ma dicono che «il problema è serio». Nella parrocchia di Gunning, il reverendo Vicky Cullen ha sepolto quest’anno tre giovani contadini. Ma non vuole parlare di suicidio perché «sembravano incidenti d'auto». Cheryle dice di essere «sempre stata scettica sul riscaldamento climatico. Ma è evidente che sta accadendo qualcosa di nuovo. Succedeva di avere due anni di siccità di fila, ma non cinque. E non è mai accaduto in tutto il Paese contemporaneamente».

«La maggior parte degli agricoltori sono grandi ottimisti, convinti che le piogge torneranno», dice Peter Cullen, professore onorario all'università di Canberra, specialista in risorse d'acqua. «Io invece penso che il

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Paese vada verso la siccità, le temperature sono aumentate in media di 0,8 gradi dal 1960», replica Bryson Bates, direttore dell'unità clima del CSIRO (Organizzazione Scientifica e Industriale del Commonwealth). «Il regime delle piogge è cambiato, il clima è più secco, non ci sono più grandi alluvioni. I modelli prevedono un clima più caldo e secco nella parte meridionale del Paese, mentre il quadro resta incerto al Nord». Ma è nel Sud che si concentra la popolazione e la produzione agricola. Il geografo Jared Diamond giudica l'Australia una delle società più vulnerabili del pianeta, a causa del sovrasfruttamento sistematico delle terre e delle acque.

Iniziata nel 2001, questa è la peggiore siccità dell'ultimo secolo. Il 92% del New South Wales - da cui proviene 1/4 della produzione agricola - è senz'acqua. 3/4 dell'Australia sono a rischio. Il governo ha stanziato 350 mln di dollari australiani (263 milioni di dollari Usa) e inviato 60 psicologi per sostenere i 2 milioni di persone in pericolo. La media di suicidi in un anno fra gli agricoltori è infatti il doppio di quella nazionale (1 ogni 4 giorni). Si calcola che dal 2001, 150 mila persone abbiano perso il lavoro e il reddito delle fattorie sia calato del 46%. Diverse sono le misure a cui è ricorsa l'Australia tra cui la desalinizzazione dell’Oceano, il riciclaggio delle acque reflue, il razionamento delle risorse idriche e la costruzione di nuove dighe.

(Pubblicato su Ecplanet 25-01-2007)

Australia bushfires burn across three states New Zealand Herald 13 dicembre 2006

Australia suffers worst drought in 1,000 years The Guardian 08 novembre 2006

CSIRO

World Metereological Organization

National Research Center for Geosciences

Wildlife Protection Association of Australia

National Oceanic & Atmospheric Administration

GAMBLING WITH GAIA

Proprio mentre, da Parigi, arriva l'ennesimo grido di allarme sul futuro del nostro pianeta dall'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite, l'ETC Group ha diramato un comunicato con cui mette in guardia dalla “geoingegneria”. Il termine si riferisce alla manipolazione, intenzionale e su larga scala, della biosfera per fronteggiare i cambiamenti climatici. Invece di sottoscrivere il protocollo di Kyoto, e ridurre le emissioni nocive di gas serra - che significherebbe ridurre drasticamente la produzione industriale - alcuni governi hanno già concluso che l'unica possibile soluzione allo sconvolgimento climatico globale è nella “ristrutturazione” artificiale della Terra.

Proprio per discutere della questione, la NASA ha organizzato un meeting rigorosamente a porte chiuse svoltosi in parallelo al World Social Forum di Nairobi. The Guardian (1) ha riportato che il governo americano ha esercitato pressioni sull'IPCC proprio per promuovere le attività di geoingegneria, come ad esempio inquinare deliberatamente la stratosfera per deflettere la luce solare e abbassare le temperature. Praticamente, invece di ridurre le emissioni, le si vuole aumentare, in modo da formare una barriera di smog ai raggi solari. Così le industrie verranno addirittura premiate per aumentare i livelli di inquinamento.

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Una soluzione simile era stata paventata lo scorso ottobre da Paul Crutzen, Nobel 1995 per la chimica dell'atmosfera, che ha proposto esperimenti per calcolare quante particelle di zolfo bisognerebbe mandare nella stratosfera per raffreddare la temperatura globale di 0,5°. Crutzen ha detto di essere preoccupato per le emissioni di gas da effetto serra che continuano ad aumentare e per l'inerzia dei politici, e di temere che un giorno ci sia bisogno di “contromisure disperate”. Un'altra soluzione geo-ingegneristica, fu avanzata, ancor prima, nel 1997, da Edward Teller; l'autore di “Dr.Strangelove”, che propose la creazione di uno schermo solare introducendo delle particelle riflettenti in larga scala negli strati superiori dell’atmosfera. Un'operazione che, costerebbe 100 volte di meno della spesa necessaria per rispettare il Trattato di Kyoto.

Rispetto a Teller, Crutzen propone di utilizzare dei palloni ascensionali che verrebbero fatti esplodere nella stratosfera ad una altezza tale che il tempo di residenza delle particelle in quota sarebbe di 1-2 anni. Sarebbe quindi “sufficiente” mandare su un milione di tonnellate di robaccia all'anno, con un costo di 25-50 miliardi di dollari. “Conosciamo già le potenzialità della geoingegneria”, ha detto Pat Mooney, Direttore Esecutivo dell'ETC Group, “il riscaldamento globale e gli sconvolgimenti climatici sono frutto di manipolazioni deliberate da parte dell'uomo. Che ora, i governi che hanno causato il problema, sostengano di voler sperimentare nuove strategie geo-ingegneristiche al di fuori delle Nazioni Unite e senza la partecipazione del Sud del Mondo, che è quello che risente maggiormente degli effetti nefasti del cambiamento climatico, appare come un'altra follia”.

Secondo il rapporto “Gambling with Gaia” stilato dall'ETC Group, almeno 9 governi nazionali e l'Unione Europea hanno sostenuto esperimenti per diffondere limature di ferro sulla superficie degli oceani in modo da nutrire il plankton e sequester l'anidride carbonica. Almeno un'altra dozzina di paesi invece stanno portando avanti esperimenti di modificazione artificiale del clima, mentre i commercianti delle emissioni portano avanti la fertilizzazione degli oceani. Tutto questo in assenza di un dibattito pubblico.

Il rapporto dell'ETC Group conclude che la geoingegneria è una risposta sbagliata al cambiamento climatico. Tutte le sperimentazioni in corso per alterare la struttura degli oceani o della stratosfera devono essere interrotte e vietate senza l'autorizzazione delle Nazioni Unite e un dibattito pubblico sul tema. Le Nazioni Unite devono riaffermare, e se necessario rivedere, la Environmental Modification Convention (ENMOD) riconoscendo che ogni modificazione unilaterale del clima costituisce una grave minaccia all'intera comunità internazionale.

Della questione devono interessarsi subito agenzie ONU come l'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l'UN Environment Programme (UNEP), la UN Convention on Biological Diversity (CBD) e l' UN Food and Agriculture Organization (FAO). L' IPCC, soprattutto, deve rivedere il concetto e la pratica del commercio delle emissionig e sostituirla con standards direttamente misurabili per ridurre le emissioni di CO2 alla sorgente.

Note:

(1) David Adam, "US Government answer to global warming: Smoke and giant mirrors," The Guardian, 27 January 2007.

(Pubblicato su Ecplanet 06-02-2007)

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Gambling with climate change choike 02 febbraio 2007

ETC Group

Environmental Modification Convention

I 10 grandi fiumi del pianeta - il Nilo, in Africa, il Gange, l'Indo, lo Yangtze, il Mekong, il Salween, in Asia, il Danubio, in Europa, La Plata e il Rio Grande-Rio Bravo, in Sud e Nord America, il Murray-Darling, in Australia - sono al collasso.

L'allarme lanciato dal WWF - alla vigilia della Giornata Mondiale dell'Acqua - conferma i timori già espressi in precedenza da uno studio dell'ONU: si costruiscono strade, ponti, edifici, si cementificano gli argini, si rettificano gli alvei, si captano dissennatamente le risorse idriche (abbassando le falde e prosciugando gli specchi d'acqua), si estraggono ghiaia e sabbia, senza contare l'inquinamento delle acque reflue urbane, delle

colture agricole e degli impianti industriali. Risultato: un disastro in corso e uno ancora più grande in arrivo.

Indo e Nilo - spiega il WWF - subiscono più di altri l'impatto dei cambiamenti climatici: il primo è per più del 30% in condizioni di siccità per la scomparsa dei ghiacciai da cui dipende e il secondo subisce la costruzione di dighe e l'innalzamento della temperatura globale, al punto che il fiume più lungo del mondo ha cessato di riversare nel Mediterraneo acque dolci, provocando un'alterazione nei livelli di salinità in corrispondenza del delta. Dallo stato di salute di questi due fiumi-simbolo dipende una popolazione di oltre 500 milioni di abitanti.

Il Gange è depauperato dall'eccessivo sfruttamento delle sue acque per scopi domestici e industriali.

Impressionante il caso del Rio Grande: quello che negli atlanti continua ad essere indicato come uno dei 20 fiumi più lunghi del mondo, non solo non riesce più a fare arrivare la sua acqua all'oceano, ma scompare a metà del suo corso, fermandosi dopo appena 1300 chilometri all'altezza di El Paso.

Yangtze e Mekong in Cina e nel Sud-Est asiatico sono minacciati da inquinamento, iper-sfruttamento e pesca eccessiva. Lo Yangtze rappresenta il 40% delle risorse idriche della Cina e da esso dipendono più del 70% della produzione nazionale di riso, il 50% di quella di grano e più del 70% delle risorse ittiche: in una cifra questo bacino rappresenta il 40% del PIL cinese. Negli ultimi 50 anni, i livelli di inquinamento sono cresciuti del 73%, tra acque reflue e scarichi industriali. Il Mekong - il più grande bacino fluviale del Sud-Est asiatico - è tra i più intatti e quindi tra i più pescosi, con un valore commerciale dei prodotti ittici pari a più di 1,7 miliardi di dollari, ma la pesca eccessiva e le pratiche illegali rischiano di privare 55 milioni di abitanti della loro principale fonte di sostentamento (l'80% delle proteine animali viene dal Mekong).

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Il Danubio, così come il bacino La Plata, vengono invece stravolti dalle infrastrutture (nel caso del fiume europeo è enorme la pressione industriale e turistica).

In Australia, il Murray/Darling è invaso da specie ittiche estranee come la carpa europea, che provoca fanghiglia, bloccando così i processi di fotosintesi.

Il report del WWF spiega che il 41% della popolazione mondiale vive in bacini fluviali sottoposti a profondo stress idrico e che oltre il 20% delle 10 mila specie d'acqua dolce si sono già estinte oppure sono gravemente minacciate.

I sei fattori che più li minacciano, in definitiva, sono i cambiamenti climatici, le alterazioni e la perdita di habitat per colpa delle infrastrutture, l'eccessiva captazione delle acque, l'inquinamento, l'aumento di specie invasive e lo sfruttamento

non sostenibile delle risorse ittiche.

Dato che i fiumi costituiscono l'insostituibile riserva d'acqua del Pianeta (una volta distrutti, saranno a rischio le risorse e la stessa sopravvivenza dell'uomo), è necessario intervenire con misure drastiche, subito, limitando gli scarichi industriali, riducendo l'impatto dell'agricoltura intensiva e dei furti di acqua e incrementando la cooperazione internazionale per il salvataggio degli habitat.

«Come per i cambiamenti climatici, che hanno adesso l'attenzione dei governi e del mondo degli affari, vogliamo che i responsabili politici si rendano conto della crisi idrica adesso e non dopo», ha osservato Jamie Pittock, Direttore del Programma Acqua Dolce del WWF.

Drammatico è anche lo stato delle acque in Italia, in particolare in Abruzzo. I dati, pubblicati dall'Agenzia Regionale per la Tutela dell'Ambiente (ARTA) e contenuti nello Stato dell'Ambiente in Abruzzo sul livello di inquinamento dei fiumi, indicano una situazione del tutto fuori controllo, con una diffusissima presenza di inquinanti pericolosi per la salute e per l'ambiente, e un generale lassismo nei confronti delle normative ambientali.

Siamo vicini ala soglia di non ritorno. In due anni, sono scomparsi completamente i già pochi punti di rilevamento con qualità delle acque “elevato”, con un -5%, che azzera questa categoria. Nello stesso periodo, l'indice relativo allo Stato di Qualità Ambientale dei Fiumi ha visto incrementare le situazioni con stato dell'acqua “scadente” o “pessimo” (+14%).

«Se allarghiamo l'indagine a tutto il territorio regionale, comprese le aree poco abitate», spiega il WWF, «ben il 50% dei punti di campionamento delle acque sotterranee è interessato da fenomeni di inquinamento significativi e/o rilevanti. L'ARTA ha poi individuato ben 2820 siti che possono potenzialmente costituire fonti di inquinamento. Un'indagine ristretta a 108 punti d'acqua prossimi a questi siti ha evidenziato che ben il 72% ha almeno un parametro fuori legge. Nelle aree pianeggianti e collinari la quasi totalità dei punti di campionamento è del tutto fuori norma con presenza di inquinanti di estrema pericolosità, come Tricloroetilene, Cloroformio, Percloroetilene, Cloruri e Antimonio».

Per quanto riguarda la dispersione idrica dell'acqua immessa nelle reti, captando sorgenti e, dunque, sottraendo il bene al letto dei fiumi, l'Abruzzo è tra le regioni peggiori in Italia, con un dato complessivo del 58% e punte veramente incredibili del 77% nell'Ambito Territoriale Ottimale Marsicano e del 75% nell'ATO Peligno.

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La situazione dei siti inquinati da bonificare «è sconcertante», visto che non è stato ancora adottato il Piano Regionale delle Bonifiche. A questa, si aggiunge la scoperta della discarica abusiva di Bussi (la più grande d'Italia): «le notizie che stanno filtrando», dicono ancora dal WWF, «sembrano far emergere una Porto Marghera abruzzese per la quantità e la qualità delle sostanza inquinanti. Sui due siti di bonifiche nazionali già individuati, Saline e Alento, siamo molto indietro e da anni il Ministero dell'Ambiente aspetta risposte appropriate dalle autorità locali».

Gli ultimi mesi segnalano anche interi tratti fluviali massacrati da interventi per la cosiddetta “messa in sicurezza” che si tramuta nel radere al suolo totalmente qualsiasi forma di vita. È il caso del Sagittario, del Tordino e del Vezzola, per cui a nulla è valsa la diffusione in Italia delle tecniche di ingegneria naturalistica ed integrata dei fiumi.

«Quelli che presentiamo oggi», ha detto Augusto De Sanctis, referente acque del WWF Abruzzo, «sono dati allarmanti e sconfortanti che nel dossier nazionale vengono evidenziati come casi-limite per la loro rilevanza negativa in ambito nazionale. Ci

dicono che la priorità per la nostra regione è l'inquinamento e la gestione dell'acqua e non certo le infrastrutture o altri settori, pure importanti. La massiccia diffusione di inquinanti, in una regione peraltro relativamente poco antropizzata, indica una sostanziale assenza di politiche efficaci di prevenzione ed intervento. Preoccupa il fatto che la qualità delle acque stia peggiorando e che l'inquinamento si stia estendendo anche a quelle poche aree montane finora più salvaguardate. I dati che ci angosciano di più sono quelli relativi allo stato delle acque sotterranee», ha detto De Sanctis, «l'acqua che non si vede ma che permea tutti i terreni abruzzesi. Ebbene, lì l'elenco degli inquinanti, soprattutto nelle zone di pianura e collina, è impressionante e segna una vera e propria catastrofe ambientale. Le percentuali dei siti inquinanti è pazzesca, soprattutto se poi andiamo a vedere le tipologie di inquinanti. Sostanze nocive, cancerogene, tossiche come il benzene e il benzo(a)pirene. È il simbolo di una situazione ormai alla deriva la cui rotta può essere modificata solo con un impegno chiaro e deciso degli amministratori».

In questo quadro apocalittico, nella Valle di San Félix in Cile, dove l'acqua più pura del Paese che scorre nei fiumi è alimentata dai ghiacciai che si trovano 5.200 metri di altezza sulla Cordigliera delle Ande da più di 10mila anni, si stà pensando di distruggerli per poter accedere ai grandi depositi di oro, argento e altri minerali. Il progetto di estrazione «Pascua Lama» è un accordo (criminale) fra Cile e Argentina, a 150 Km ad est della Città di Vallenar Capitale della Comunità di Huasco, e 300 Km a nordovest della città argentina di San Juan. L'accordo si basa su un Trattato del 2004.

Il governo cileno ha approvato questo progetto di estrazione nel 2006 ma il progetto non è ancora partito perché i contadini della zona hanno ottenuto una proroga. Infatti, se si distruggono i ghiacciai, non solo si distruggeranno le sorgenti purissime di quest'acqua, ma l'acqua dei fiumi verrà contaminata permanentemente. L'acqua non potrà più essere usata né per l'agricoltura né per la zootecnia. Infatti, per l'estrazione, si fa uso di cianuro e acido solforico. I contadini stanno dando battaglia e sperano di ottenere solidarietà dalla sensibilità internazionale ed hanno attivato i canali di Internet: con un sito informano e inviano email per diffondere notizie di quello che sta avvenendo e formare un movimento di pressione con la raccolta di firme di personalità internazionali.

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La realizzazione di quella che gli abitanti non esitano a definire «aberrazione», e che lasciano perplessi i glaciologi, è della multinazionale canadese Barrick Gold, che sta investendo millecinquecento milioni di dollari e promette lavoro a più di seimila lavoratori fino al 2009. Secondo Carolina Sandoval, del movimento «Anti Pascua Lama» il progetto di estrazione ha già danneggiato fra 50% a 70% dei ghiacciai Toro I, Toro II ed Esperanza. Sottolinea, inoltre, che si sta parlando di ghiacciai che coprono un'area in cui piove ogni 10 anni.

(Pubblicato su Ecplanet 22-03-2007)

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No a Pascualama

Giornata Mondiale dell'Acqua

Rapporto WWF PDF (in inglese)

Alla metà di questo secolo, centinaia di milioni di abitanti della Terra non avranno acqua a sufficienza, il cibo scarseggerà e le poche terre coltivabili saranno difese militarmente. Almeno 60 Paesi si combatteranno per la sopravvivenza. Anche nazioni dove regna l'abbondanza - USA, Cina e parti dell'Europa - finiranno invischiate in una miriade di eco-conflitti e travolte da una nuova immigrazione dei «rifugiati ambientali».

È lo scenario catastrofico riportato dall'ennesimo rapporto eco-apocalittico, frutto di sei anni di lavoro che hanno coinvolto 2500 esperti, firmato dall'Intergovernmental Panel on Climate Change (uno studio coordinato dalle agenzie ONU per la protezione ambientale - UNEP - e per lo studio del clima - WMO - che sarà presentato e discusso a Bruxelles dai ricercatori del gruppo intergovernativo, a distanza di due mesi del rapporto che affermava l'inequivocabile responsabilità delle attività umane, ndr). Ormai siamo nella pura “banalità del male”. Le conclusioni ? Sempre le stesse: se non cambieremo stile di vita, dando un deciso taglio alle emissioni che alimentano l'effetto serra, entro dieci anni la temperatura del pianeta salirà di 6 gradi. E il conto lo pagheranno soprattutto le aree più povere: i Paesi del Terzo mondo saranno colpiti a ripetizione da cicloni e precipitazioni intense, affogati da inondazioni, bruciate dalla siccità.

Niente di nuovo. L'unica novità è che nel frattempo le emissioni stanno aumentando, i ghiacciai si sciolgono più velocemente del previsto, tempeste e terremoti si intensificano, mentre continuiamo a leggere rapporti inutili. Ma quando si passerà all'azione?

«I cambiamenti del clima - recita il testo - stanno influenzando i sistemi biologici e fisici di ogni continente». La conseguenza è che in molti Paesi si diffonderà un «senso di disperazione» dagli esiti appena immaginabili. Fra vent'anni, decine di milioni di cittadini dell'America Latina e centinaia di milioni in Africa «non avranno abbastanza acqua». Nel 2050, un miliardo di asiatici faticheranno a dissetarsi. I ghiacciai dell'Himalaya, che alimentano i fiumi del lontano Oriente, si scioglieranno intorno al 2035, mettendo in gioco la vita di 700 milioni di umani. Nel 2080, 100 milioni di anime saranno minacciate dall'innalzamento dei livelli dei mari. Un terzo delle specie selvatiche correrà «un alto rischio di estinzione irreversibile».

Si combatterà per un tozzo di pane e si riaffacceranno malattie tropicali debellate o sotto controllo. In particolare, nei 61 Paesi dove già oggi vi sono altissime tensioni politiche e sociali. Ci potrebbe essere una guerra fra diseredati, le economie dei ricchi saranno poste a dura prova,

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nessuno potrà pensare di essere al sicuro. Tutto ciò viene descritto come inevitabile, da quegli stessi che dovrebbero fare di tutto per evitarlo, e continuano a perdersi in chiacchiere.

(Pubblicato su Ecplanet 05-04-2007)

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IPCC WGII

World Meteorological Organization (WMO)

United Nations Environment Programme (UNEP)

Gli effetti del riscaldamento globale, in atto sugli ecosistemi del pianeta ad ogni livello della biosfera, influenzato la fenologia (il rapporto tra clima e comportamenti) e la fisiologia degli organismi, la varietà e la distribuzione geografica delle specie, e la durata delle stagioni. Quest'ultimo è forse l'aspetto più riconoscibile delle mutazioni proprio perché sotto gli occhi di tutti. La primavera, a partire dal 1960 arriva prima, aumentando la sua durata di circa 12 giorni: dal ritorno degli uccelli migratori, alla comparsa delle farfalle, alla fioritura degli alberi, tutto arriva in anticipo, stimolato dalle mitezza del clima. Con il rischio, però che bruschi cali di temperatura o gelate improvvise compromettano i nuovi germogli o le uova appena deposte. Per contro, l'aumento delle temperature ritarda l'arrivo dell'autunno, da un minimo di 0.6 a un massimo di 3.6 giorni per decade. Con la conseguenza di inverni più brevi e più miti.

I cambiamenti climatici hanno anche modificato la distribuzione delle specie: il riscaldamento ha infatti determinato lo spostamento degli habitat verso le alte latitudini. Agli organismi non rimangono che due strade per sopravvivere: adattarsi alle nuove condizioni o trasferirsi alla ricerca di luoghi più favorevoli. Per le specie che non riescono a stare al passo con gli eventi c'è solo l'estinzione. È quanto sta accadendo ad esempio ai coralli, che non trovano a latitudini minori le condizioni di luce presenti ai tropici e all'equatore (abbiamo già perso il 27 per cento dei coralli del pianeta).

La migrazione massiccia di specie in nuovi habitat, altera l'equilibrio pre-esistente dell'ecosistema: la recente invasione del Mediterraneo da parte di pesci e alghe tropicali, per esempio, ha compromesso molte specie autoctone; mentre la colonizzazione dell'Antartico da parte di muschi e invertebrati sta contaminando una nicchia ecologica rimasta fino a pochi anni fa totalmente isolata dal resto del pianeta.

Indicatori precisi e affidabili dei cambiamenti climatici sono gli anfibi e i rettili. La loro eterotermia li rende estremamente dipendenti dalla temperatura e dall'umidità. In alcune specie di tartarughe, il sesso della prole è correlato alle temperature del mese di luglio: un aumento anche modesto (2-4 gradi) è sufficiente per ridurre il numero della componente maschile del gruppo. Il riscaldamento delle acque dell'Oceano Meridionale ha messo in crisi le aree di produzione di krill (sciami di piccoli crostacei), il principale nutrimento di balene, foche, pinguini e uccelli di mare. Così come le migrazioni anticipate hanno portato alcune specie a competere per le risorse di cibo disponibile e non sufficienti a coprire questo inaspettato surplus di predatori.

(Pubblicato su Ecplanet 27-04-2007)

EARTH DAY

Rane, salamandre e tritoni, balenottere e delfini, tonni rossi e pesci spada ma anche gatti selvatici, lepri, orsi bruni, mufloni e lontre. Oltre a numerose rarissime piante delle nostre isole. In Italia, le specie a rischio di estinzione sono oltre 250. L'allarme è stato rilanciato da Legambiente in occasione della Giornata della Terra celebrata il 22 aprile in tutto il

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mondo. “I numeri riportati nella Red List dell'Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) parlano chiaro” - dice in un comunicato Roberto Della Seta, presidente nazionale di Legambiente - “ la varietà e la quantità delle specie stanno diminuendo a una velocità mai osservata prima d'ora. È degradato o sovrasfruttato il 60% dell'ecosistema del pianeta: gli equilibri sono delicati, mentre gli impatti antropici crescono a dismisura. E l'Italia è soggetta al declino generalizzato comune a gran parte della Terra, nonostante ospiti più della metà delle specie vegetali dell'intera Europa e un terzo della fauna del continente”.

L'aumento della concentrazione di anidride carbonica nell'atmosfera e i conseguenti mutamenti del clima, come l'avanzare della desertificazione e la frequenza sempre maggiore degli eventi meteorologici estremi, sono tra le cause principali di questo declino delle specie viventi. Ma a incidere pesantemente sono anche i cambiamenti nell'uso del suolo, le piogge acide e l'introduzione di specie aliene che s'insediano spodestando quelle autoctone. Non a caso, ricorda Legambiente, la nostra penisola è compresa in uno degli hotspot di biodiversità del pianeta, quello del bacino del mediterraneo, importantissimo per la ricchezza di specie endemiche, ma allo stesso tempo soggetto anche a una eccezionale perdita di habitat. Le specie vegetali attualmente censite nel nostro paese sono 6.711, (in tutta Europa sono circa 12.500), a cui bisogna aggiungerne 1.130 briofite, mentre le specie animali sono 55.600. Di queste, secondo la "lista rossa", quelle a rischio tra animali e vegetali sono 266, di cui 34 gravemente minacciate, e molte si trovano nelle nostre acque: squali, mante, delfino comune, foca monaca, tartarughe marine.

Il 22 aprile 1970 negli Usa il senatore democratico Gaylord Nelson invitò alla mobilitazione per la salvezza del nostro pianeta: risposero 20 milioni di cittadini americani. La manifestazione arrivò dopo una serie di interventi sul tema della salvaguardia, che si articolarono sui media nei mesi precedenti. Tra questi, il significativo contributo di Gladwin Hill, giornalista del New York Times, che, il 30 novembre del 1969, sulle colonne del quotidiano, tracciò un quadro desolante dei danni ambientali ed annunciò la manifestazione di Nelson. Da allora, il 22 aprile è diventato l'Earth Day a livello internazionale.

«D'ora in poi ogni giorno, e non solo uno, dovrà essere dedicato alla salvaguardia del pianeta», ha detto il presidente onorario dei Verdi e capogruppo in Commissione Ambiente alla Camera, Grazia Francescato, sottolineando che «gli scienziati, Carlo Rubbia in testa, ci dicono che abbiamo ancora dieci anni per arginare i cambiamenti climatici: dei prossimi 365 giorni, dunque, non possiamo buttarne via nemmeno uno. Dobbiamo impegnarci quotidianamente nella battaglia per salvare il nostro pianeta».

(Pubblicato su Ecplanet 28-04-2007)

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Earth Day Network

“Nessuna regione del mondo sta diminuendo le sue emissioni di carbonio”. Secondo uno studio apparso sulla rivista Proceedings of the National Academy of Science, tra il 2000 e il 2004, la produzione di CO2 non solo è aumentata, ma lo ha fatto a un ritmo triplo rispetto agli anni precedenti. I ricercatori dell'Università di Stanford hanno incrociato ed elaborato i dati del Fondo Monetario Internazionale, del Dipartimento USA per l'Energia e di altre istituzioni, riscontrando che, mentre dal 1990 al 1999, l'aumento delle emissioni di anidride carbonica è stato dell'1,1%, dal 2000 al 2004 la crescita è stata del 3,1%.

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Un dato peggiore dello scenario più pessimistico previsto dall'IPCC, legato, secondo gli scienziati, alla crescita economica che ha interessato quasi tutto il pianeta. “Nonostante il consenso comune sulla necessità di ridurre le emissioni - spiega Chris Field, che ha condotto lo studio - in molte parti del mondo si sta tornando indietro”. In cima alla classifica ci sono i paesi in via di sviluppo, come Cina e Brasile, responsabili del 73% dell'aumento totale delle emissioni. Non sono molto più virtuosi i paesi sviluppati: anche se in misura minore, le emissioni di CO2 crescono anche in Occidente, con l'aggravante che sono proprio i paesi ricchi a produrre il 60% dell'inquinamento globale.

In particolare, l'Italia è in grande ritardo con gli impegni del protocollo di Kyoto e con il regolamento europeo sul contenimento delle emissioni di CO2. In base all’impegno di Kyoto, l'Italia, entro il 2012, dovrebbe diminuire le emissioni di gas serra del 6,5% rispetto alle emissioni del 1990, mentre sino oggi queste emissioni sono continuamente aumentate. L'Unione Europea ha bocciato il piano italiano - insieme a quello di altri 18 Paesi, compreso la Germania - ed ha chiesto al nostro Governo di abbassare le emissioni di CO2 di 13,2 milioni di tonnellate, cioè dalle 209, proposte dall'Italia, a 195,8 milioni di tonnellate annue nel periodo 2008-2012 - il 6,3% in meno. Ciò significa che se non riusciremo ad abbassare le emissioni di CO2 dovremo pagare multe salate di decine di milioni di euro ogni anno.

Il Dr Mike Raupach, del CSIRO Marine and Atmospheric Research and the Global Carbon Project, dice che nel 2005 sono state emesse globalmente nell'atmosfera quasi 8 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. “In media, ogni persona in Australia e in America oggi emette più di 5 tonnellate di carbone all'anno, mentre in Cina siamo su una tonnellata all'anno. L'America l'Europa fanno il 50% del totale, mentre la Cina fa l'8%. Gli altri paesi sviluppati hanno contribuito, tutti assieme, a meno dello 0,5% negli ultimi 200 anni”. L'Australia, con lo 0,32% della popolazione globale, contribuisce per l'1,43%. Il Dr Raupach, che è a capo di un team internazionale di esperti, convenuti nel Global Carbon Project, che studia le emissioni, cercando anche di quantificarle, dice: “Il nostro lavoro traccia la storia delle emissioni: dobbiamo tenere conto sia delle emissioni passate che di quelle presenti nel negoziare le riduzioni di emissioni globali”.

Dal canto loro, gli USA puntano ancora ad impedire che al vertice del G8, in programma a giugno in Germania, vengano presi impegni per un nuovo accordo per combattere il riscaldamento del pianeta. In una bozza del documento finale del G8, Washington mostra di non volere che si faccia riferimento a provvedimenti urgenti per far fronte alla crisi climatica.

Più la temperatura globale continua a salire e più sale il rischio che le malattie infettive si diffondano su tutto il pianeta. Già nel rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dello scorso aprile, si avvertiva che l'impatto dei cambiamenti climatici potrebbe provocare una “alterata distribuzione spaziale di alcuni vettori di malattie infettive”, che potrebbe portare, ad esempio, ad una maggiore diffusione della malaria in Africa. “Le malattie trasmesse dagli insetti” - dice Stephen Morse della Columbia University, che di recente ha partecipato a Toronto al 107th General Meeting della American Society for Microbiology - “saranno influenzate dai cambiamenti climatici per il semplice fatto che queste piccole creature sono molto sensibili alla vegetazione, alla temperatura, all'umidità, ecc. Tuttavia, è molto difficile prevedere cosa avverrà, perché nella trasmissione delle malattie entrano in gioco molti fattori”.

Secondo David Rogers, della Oxford University, anch'esso presente al meeting, alcuni effetti relativi all'aumento delle temperature possono essere predetti. Ad esempio, la malaria non è trasmessa al di sopra di certe altitudini, perché le temperature sono troppo fredde per le zanzare. Ma se le temperature saliranno, salirà anche la linea della malaria. Un altro effetto potrebbe riguardare la stagione dell'influenza: se la massa d'aria tropicale intorno all'equatore si espande, nuove aree perderanno le stagioni tradizionali, e potrebbero avere l'influenza tutto l'anno. Altri effetti potrebbero venire dai fenomeni atmosferici estremi. Secondo Joan Rose, della Michigan State University, “uragani, tifoni, tornado e tempeste ad alta intensità, possono rimuovere i patogeni dai sedimenti, minacciando intere popolazioni sprovviste delle adeguate protezioni”.

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La zanzara della malaria - forse la minaccia più grave per quanto riguarda le infezioni - ha raggiunto l'Europa nello scorso agosto. Come riferisce il Financial Times, in Corsica si è registrato il primo caso autoctono (con infezione avvenuta in loco) degli ultimi 35 anni. In un articolo pubblicato su The Lancet, Anthony McMichael dell'Università di Canberra, prevede un aumento del 16-28% dei casi di malaria entro il 2100. “Anche gli agenti patogeni di salmonella e colera - prosegue lo studio - crescono più rapidamente a temperature maggiori”. La febbre del Nilo occidentale, prima confinata alle latitudini africane, da una decina d'anni viene registrata anche in Europa ed è endemica negli Stati Uniti. In Italia poi, nelle ultime due estati, oltre 200 bagnanti sono finiti in ospedale intossicati dall'alga “Ostreoptis ovata”, abituata alle acque tropicali.

Il cambiamento del clima sta già causando una migrazione degli insetti e un repentino accrescimento dei parassiti molto dannosi per le piante. Le alte temperature, ad esempio, hanno favorito una “sciamatura” di api molto in anticipo rispetto ai tempi normali. Il ché mette in pericolo sia la raccolta di miele sia le persone, in quanto la proliferazione di sciami può espandersi nei centri urbani. A sostenerlo è la CIA (Confederazione Italiana Agricoltori), seriamente preoccupata per i riflessi che si stanno avendo nelle campagne del nostro Paese a causa del caldo anomalo e, soprattutto, della scarsità di piogge e di nevicate. Particolare apprensione c'è per la crescita delle malerbe e per le difficoltà che gli agricoltori incontrano nel contrastare le infezioni che colpiscono le coltivazioni (ortaggi a campo aperto), gli alberi da frutta, gli olivi e le viti.

Le temperature “tropicali” dell'autunno e dell'inverno scorsi hanno consentito alle uova degli insetti di resistere e, quindi, di provocare un proliferare anomalo in tutte le zone rurali e non solo. Anche le città fanno i conti con la continua diffusione di questi fastidiosi animaletti, zanzare soprattutto. Preoccupante è anche la situazione che si è venuta a creare nei boschi e nelle pinete dove si è diffusa la presenza della processionaria (un lepidottero defogliatore, ndr) che, oltre ad attaccare gli alberi, provoca allergie agli uomini. La permanenza di particolari patogeni fungini sulle piante, sempre più stressate dalla carenza idrica, può determinare pesantissimi danni. Corre un grave pericolo anche la frutta estiva a causa delle larve che attaccano sia i frutti che le foglie.

A ciò, si aggiungono i problemi provocati alle piante dalla tignola e dalla mosca dell'olivo, oltre che dalla cocciniglia, che si diffonde sulle conifere, sulle succulente in genere, su molte piante ornamentali, sulla vite e sugli agrumi. È segnalata anche la presenza della tignola della patata nel Centro e Nord Italia, in aree che finora non erano mai state attaccate da questo insetto. Sta di fatto che alberi da frutta (pesche, albicocche, susine), colture di angurie e meloni, ortaggi (pomodori, zucchine, melanzane) e soprattutto piante di vite, se aggrediti da questi “funghi”, possono entro breve tempo perdere completamente il frutto. Il clima siccitoso, accompagnato da un elevato tasso di umidità nell'aria, determina così condizioni favorevoli all'insorgenza di fitopatologie, quali l'oidio e la peronospora. Ma anche altri tipi di parassiti hanno fatto la loro comparsa, accrescendo i problemi per gli agricoltori che sono già alle prese con una situazione che si fa sempre più complessa. Non basta. Per la prossima estate c’è il rischio incombente anche della “piaga” delle cavallette, che, spinte dal caldo, possono spostarsi dai paesi del Nord Africa verso alcune zone del Paese. Un fenomeno che già si è verificato in passato. Basti ricordare i casi della Puglia e della Sardegna, dove sono stati completamente distrutti campi coltivati.

Insomma, le variazioni del clima influenzano anche il ciclo biologico degli insetti, dei patogeni fungini, dei batteri e dei virus, e in qualche modo concorrono a modificare il rapporto antagonista con le piante.

(Pubblicato su Ecplanet 25-05-2007)

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Alarming acceleration in CO2 emissions worldwide Carnegie Institution 21 maggio 2007

Page 48: Eco Apocalypse

CO2 emissions increasing faster than expected CSIRO 22 maggio 2007

Global Warming Alarms Infectious Disease Experts newswire 23 maggio 2007

L'Italia sempre più come i Tropici diariodelweb 08 febbraio 2007

CSIRO Australia

American Society For MicroBiology

Lo scorso 22 settembre 2007, i delegati di circa 200 paesi hanno raggiunto un accordo per eliminare le sostanze che danneggiano l'ozono più velocemente di quanto previsto. L'accordo è stato trovato ad una conferenza, svoltasi a Montreal, in Canada, per celebrare il 20esimo anniversario del protocollo di Montreal, ideato per diminuire le sostanze chimiche che danneggiano lo strato di ozono, che protegge la Terra dalle raggi ultravioletti. Gli USA - appoggiati dal programma ambientale dell'ONU (UNEP) - hanno esortato i delegati ad anticipare la data di scadenza per mettere fuori uso e produzione gli idroclorofluorocarburi (HCFC).

Nel frattempo, gli Stati Uniti continuano a fare ampio uso di bromuro di metile, una sostanza implicata nella degradazione dell'ozono (ODS), mentre il boom economico di Cina e India ha prodotto un rapido aumento del numero di condizionatori che utilizzano sostanze chimiche sostitutive. Gli accresciuti livelli di raggi UV, negli ultimi decenni sono

stati collegati alle accresciute incidenze di tumori, malattie degli occhi e altri problemi di salute negli umani e in molte altre specie.

Dalle ricerche dello scienziato statunitense Sherwood Rowland e del messicano Mario Molina, avviate nel 1974, è gradualmente emerso che due famiglie di composti chimici - i clorofuorocarburi, o CFC (contenuti negli impianti di refrigerazione, condizionatori e propellenti di aerosol), e i gas halon (usati negli estintori) - stavano riducendo la quantità di ozono presente nella stratosfera. Grazie al loro lavoro, i due studiosi, insieme allo scienziato olandese Paul Crutzen, hanno ottenuto il Premio Nobel per la chimica nel 1995.

Rowland e Molina, rivolgendosi ai delegati, hanno raccontato di aver dovuto sviluppare un nuovo tipo di chimica dell'atmosfera. I riscontri della diminuzione dei livelli di ozono di oltre il 30% sull'Antartico hanno allarmato alcune nazioni, in particolare l'Argentina. “L'accordo è stato raggiunto in nove mesi, un periodo di tempo incredibilmente breve”, ha commentato Richard Benedick, negoziatore statunitense ed ex ambasciatore. Nel 1987, 24 paesi hanno firmato il Protocollo di Montreal sulle sostanze che impoveriscono lo strato d'ozono, e oggi sono 191 i paesi che hanno aderito al trattato. Nel 1990 è stato creato un Fondo Multilaterale per l'attuazione del Protocollo di Montreal, milioni di dollari che avrebbero dovuto aiutare i paesi in via di sviluppo a ritirare gradualmente la produzione e l'uso dei composti chimici responsabili dell'impoverimento dell'ozono (49 paesi industrializzati hanno contribuito fino ad oggi con oltre 2,2 miliardi di dollari, e 146 nazioni hanno ricevuto denaro dal fondo).

Dalla conferenza di Montreal è emerso che il buco dell'ozono non sarà recuperato fino al 2060 o al 2070, e che quasi tutti gli ODS sono anche gas responsabili del riscaldamento globale. Tra il 1990 e il 2000, l'eliminazione degli ODS ha prodotto una netta riduzione dei 25 miliardi di tonnellate di gas responsabili dell'effetto serra e del riscaldamento globale. Il problema maggiore è costituito dagli idroclorofluorocarburi, i sostituti meno dannosi dei vecchi CFC ma gas serra molto potenti, ormai diffusi nei prodotti come sistemi di refrigerazione, impianti di condizionamento e schiume. Secondo il Protocollo di

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Montreal, l'uso di HCFC dovrebbe essere completamente sospeso nei paesi sviluppati nel 2030, e nel 2040 nei paesi in via di sviluppo.

Una sospensione più rapida dell'utilizzo e della produzione di HCFC, e un loro ritiro definitivo entro i prossimi 10 anni, porterebbe nei prossimi decenni ad una riduzione cumulativa delle emissioni fino a 38 miliardi di tonnellate metriche di anidride carbonica, secondo l'UNEP. Il Protocollo di Kyoto punta invece ad eliminare appena due miliardi di tonnellate metriche in una prima fase tra il 2008 e il 2012. Annualmente, questo potrebbe rappresentare un taglio di oltre il 3,5% di tutte le attuali emissioni di gas serra nel mondo. Invece, il Protocollo di Kyoto, è stato concordato con l'obiettivo di ridurre i livelli di emissioni nei paesi sviluppati nel 1990 appena sopra il 5% entro il 2012.

I paesi presenti all'incontro si dicono favorevoli a un ritiro graduale più rapido, ma i dettagli devono ancora essere negoziati.

Entro il 2050, gli Stati Uniti devono tagliare le emissioni almeno all'80% se il mondo vuole evitare un impatto disastroso dei cambiamenti climatici provocati dall'uomo. È quanto afferma un rapporto a cura di scienziati della Texas Tech University, della Union of Concerned Scientists (UCS) e della Stanford University.

“Per evitare gli effetti più gravi del cambiamento climatico, il mondo dovrebbe stabilizzare la concentrazione dei gas serra nell'atmosfera ad un livello non superiore alle 450 parti per milione”, dice Katharine Hayhoe, professoressa di geoscienze alla

Texas Tech University, che ha calcolato le riduzioni di emissioni. Si tratta di un limite stabilito per evitare che la temperatura del pianeta superi i 3.5 gradi Fahrenheit. “Siccome gli Stati Uniti sono responsabili di quasi un quarto delle emissioni inquinanti globali, devono agire subito per tagliare i consumi energetici in modo da poter raggiungere l'obiettivo”, sottolinea la Hayhoe.

“Il costo della riduzione di emissioni potrebbe essere alto”, dice Michael D. Mastrandrea, ricercatore del Woods Institute for the Environment presso la Stanford University, “ma, se aspettiamo fino al 2020 per cominciare a ridurre le emissioni, dovremo tagliarne il doppio e molto più velocemente”.

“Abbiamo 40 anni per aumentare radicalmente l'efficienza del modo in cui usiamo le fonti energetiche”, dice ancora la Hayhoe, “dobbiamo cominciare a considerare modi più estensivi di utilizzare le fonti rinnovabili come l'energia solare. Altrimenti,andremo incontro all'estinzione di molte specie e alla perdita dei ghiacci della Groenlandia e dell'Antartico Occidentale”.

“Il rapporto mostra chiaramente che gli Stati Uniti dovranno tagliare drasticamentele emissioni di gas serra se si vuole ridurre significativamente l'impatto dei cambiamenti climatici”, ha dichiarato Alden Meyer, della Union of Concerned Scientists.

Inoltre, il Congresso USA dovrà anche agire per aiutare il resto del mondo ad evitare le peggiori conseguenze del riscaldamento globale.

(Pubblicato su Ecplanet 30-09-2007)

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Ozone Treaty Could Slow Climate Change commondreams 18 settembre 2007

New Report Sets Target for U.S. Emissions Cuts Union of Concerned Scientists 20 settembre 2007

Protocollo di Montreal - Wikipedia

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A Target for U.S. Emissions Reductions

United Nations Environment Programme (UNEP)

Una delegazione della popolazione di Pigmei che abitano le foreste del Congo, si è incontrata a Washington con i vertici della Banca Mondiale (World Bank), per denunciare le politiche di distruzione della seconda foresta pluviale mondiale, dopo quella amazzonica, di cui la stessa WB si è resa complice.

Un rapporto indipendente accusa la Banca Mondiale di aver incoraggiato imprese straniere a sfruttare le foreste pluviali della Repubblica Democratica del Congo, mettendo in grave pericolo, oltre alla seconda più grande superficie forestale al mondo, anche la sopravvivenza dei Pigmei che in quelle aree sono insediati. Il rapporto, realizzato da dirigenti interni con l'aiuto di esperti esterni, esamina le attività della Banca Mondiale nella Rep. Dem. Congo dal 2002, anno di conclusione ufficiale del conflitto nel Paese, partendo dalle accuse mosse due anni fa da un'alleanza di 12 gruppi Pigmei, sottolineando come la riforma del sistema forestale, imposto dalla BM in cambio di prestiti per oltre 450 milioni di dollari, sarebbe stato interamente subordinato alle necessità industriali di un numero ristretto di aziende straniere, alcune delle quali hanno ottenuto concessioni per oltre 5 milioni di ettari (di cui molti abitati dai Pigmei). Le stime dei ritorni economici del settore sarebbero inoltre state gonfiate, in modo da spingere il governo congolese a preferire questo tipo di sfruttamento alla conservazione del patrimonio naturalistico e ad altre forme di utilizzo ecosostenibile delle foreste.

Il Programma dell'ONU per l'Ambiente (UNEP) ha pubblicato il suo quarto “Global Environment Outlook” (Geo-4) nel quale si legge che le minacce più gravi per il pianeta, in particolare cambiamenti climatici, tassi di estinzione delle specie e la crescita della popolazione, figurano tra i numerosi problemi che non sono stati ancora risolti e che mettono l'umanità in pericolo.

“Geo-4” valuta lo stato attuale dell'atmosfera, della terra, dell'acqua e della biodiversità, descrive i cambiamenti avvenuti dopo il 1987 ed identifica le azioni prioritarie. È il rapporto dell'ONU più completo sull'ambiente, preparato da circa 390 esperti e rivisto da più di mille altri in tutto il mondo. Secondo il rapporto, «nessuno dei maggiori problemi sollevati da “Our Common Future” (il rapporto della Commissione Brundtland) presenta previsioni di evoluzioni favorevoli». Per l'UNEP, «l'obiettivo del rapporto non è quello di presentare uno scenario catastrofico, ma un appello urgente all'azione».

Geo-4 riprende la dichiarazione della Commissione Brundtland secondo la quale «il mondo non affronta crisi separate... la crisi ambientale, la crisi dello sviluppo e la crisi dell’energia ne fanno una sola». Una crisi

unica, globale, eco-apocalittica, che include tutti i problemi: «declino degli stocks di pesci; la perdita di terre fertili per l'utilizzo e il degrado; una pressione non sostenibile sulle risorse; la diminuzione della quantità di acqua dolce disponibile da dividere tra gli esseri umani e le altre creature ed il rischio che il deterioramento dell'ambiente superi il punto di non-ritorno».

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Per Achim Steiner, segretario generale aggiunto dell'ONU e direttore esecutivo dell'UNEP, «nel corso degli ultimi 20 anni, la comunità internazionale ha ridotto del 95% la produzione di prodotti chimici che rovinano la cappa di ozono, ha creato un trattato per la riduzione dei gas serra ed anche un commercio di carbonio innovativo e mercati di compensazione del carbonio, ha favorito un aumento delle zone terrestri protette che coprono circa il 12% della terra e creato numerosi strumenti per fronteggiare questioni che vanno dalla biodiversità alla desertificazione al commercio di rifiuti pericolosi e alla modificazione degli organismi viventi. Ma problemi persistenti e cronici restano senza soluzione. Vecchi problemi rimangono e nuovi problemi appaiono, come il rapido aumento di zone morte negli oceani, il risorgere di malattie vecchie e nuove legate in parte al degrado dell'ambiente. Istituzioni come l'UNEP, create con lo scopo di attaccare le cause profonde dei problemi, rimangono deboli e soffrono di una mancanza di risorse».

Il rapporto avverte che stiamo vivendo molto al di sopra delle nostre possibilità: «La quantità di risorse necessarie per la sopravvivenza dell'umanità supera le risorse disponibili. L'impronta umana (vale a dire i bisogni relativi all'ambiente) è di 21,9 ettari a persona, mentre la capacità biologica della terra è, mediamente, solo di 15,7 ettari per persona».

Tra gli altri punti critici identificati, figura la gestione dell'acqua: «L'irrigazione consuma già intorno al 70% dell'acqua disponibile, mentre per raggiungere gli Obiettivi del Millennio per lo sviluppo riguardanti la fame occorrerà raddoppiare la produzione alimentare entro il 2050». Ma intanto l'acqua dolce diminuisce. Secondo le previsioni, entro il 2025 l'utilizzo d'acqua dovrebbe aumentare del 50% nei Paesi in via di sviluppo e del 18% nei mondo sviluppato. Inoltre, anche la qualità dell'acqua è in declino, perché è inquinata da patogeni microbici e da nutrienti eccessivi. E infatti, la contaminazione dell'acqua rimane la maggiore causa di malattie e morti al mondo.

Per quanto riguarda la biodiversità, «una sesta estinzione è in corso, causata dal comportamento umano». I cambiamenti in corso sono i più rapidi da quando l'uomo è apparso sulla terra. L'estinzione delle specie si produce ad una velocità superiore a quella indicata dai fossili. Il commercio di carne e legname nel bacino del Congo è stimato a 6 volte superiore al tasso sostenibile. Tra i gruppi di vertebrati, più del 30% degli anfibi, il 23% dei mammiferi e il 12% degli uccelli sono minacciati di estinzione, mentre l'introduzione di specie “aliene” è un problema crescente.

I cambiamenti climatici sono dunque «una priorità mondiale» e «la minaccia è ormai così urgente che riduzioni importanti di gas serra sono necessarie entro la metà del secolo». «Occorre una pressione

crescente su certi Paesi ad industrializzazione rapida, ormai emettitori importanti, perché accettino delle riduzioni di emissioni».

Nel frattempo, in America, la Casa Bianca ha il coraggio di parlare dei “benefici alla salute” derivanti dai cambiamenti climatici. “Secondo alcuni studi”, ha detto la portavoce Dana Perino, “in certe aree i cambiamenti climatici apporteranno dei benefici alla popolazione”.

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Il Council on Environmental Quality dell'amministrazione Bush ha citato anche il rapporto 2007 dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC): “Bisogna considerare sia gli effetti negativi che quelli positivi”, riferendosi alla sezione del rapporto in cui si parla di possibili vantaggi derivanti dal riscaldamento globale, come ad esempio un calo delle morti per freddo, in certe aree, e della diffusione di malattie infettive. Mentre il resto del mondo creperà di caldo, di fame, di sete, ecc. ecc.. Potrebbe essere un'ottima politica per risolvere almeno il problema della sovrappopolazione.

Mentre venivano rilasciate queste inquietanti dichiarazioni, i democratici sono passati all'attacco sulla vicenda del rapporto sui mutamenti climatici del 2003, a cura dell'EPA (Enviromental Protection Agency) che la Casa Bianca ha ammesso di aver “ritoccato”. Con una lettera a George Bush, Barbara Boxer ha chiesto che una copia del rapporto originale venga inviato alla White House da Julie Gerberding, la direttrice dei Centers for Disease Control and Prevention prima della sua deposizione alla Commissione Ambiente del Senato, presieduta dalla senatrice democratica, su “cambiamenti climatici e salute pubblica”.

(Pubblicato su Ecplanet 01-11-2007)

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World Bank accused of razing Congo forests The Guardian 04 ottobre 2007

Geo-4 "Global Environmental Outlook" - Bleak for Mankind 28 ottobre 2007

White House defends 'health benefits' of climate change AFP 25 ottobre 2007

White House Criticized for Editing Climate Change Testimony voanews 26 ottobre 2007

Global Environment Outlook

Council on Environmental Quality

U.S. Environmental Protection Agency

Centers for Disease Control and Prevention

Intergovernmental Panel on Climate Change

Il PARASOLE SOLARE

Roger Angel, astronomo ed esperto di ottica della University of Arizona, durante un incontro promosso dal NASA Institute for Advanced Concepts (NIAC) ha proposto di spedire in orbita un parasole grande abbastanza da tagliare le emissioni solari dell'1,8 percento, in modo da fermare il riscaldamento previsto dal raddoppio nell'atmosfera della presenza di anidride carbonica.

Secondo Angel, il parasole spaziale dovrebbe avere un massa di circa 20 milioni di tonnellate, coprire un'area di circa 4-7 milioni di chilometri quadrati e dovrebbe essere costituito da 16 mila miliardi di rifrattori circolari, ognuno del diametro di 0,6 metri, spesso 5 micron e del peso di 1,2 grammi. I rifrattori verrebbero lanciati mediante un sistema basato su repulsione elettromagnetica, come quello di missili, e sull'argon come carburante. Una volta raggiunta la zona utile, ogni disco troverà la sua posizione mediante camere in miniatura in grado di rilevare la luce solare: dei piccoli specchi aggiustabili manterranno la corretta posizione e il corretto orientamento nello spazio in base alla pressione delle radiazioni solari.

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Secondo Angel, i dischi potranno rimanere in obita almeno per 50 anni, dopodiché le loro celle solari degraderanno e non saranno più in grado di mantenere la posizione. “Con i finanziamenti del NIAC”, ha detto Angel, “abbiamo realizzato un elemento ottico come prototipo, un ologramma su vetro rifrattivo spesso un micron”.

Ma come si fa lanciare nello spazio 20 milioni di tonnellate?

Ci vorranno 20 milioni di lanci, ognuno di 1 tonnellata, ovvero 800.000 dischi a lancio. E ci vorrà anche un enorme sforzo per fabbricare i 16 mila miliardi di dischi. Il tutto, dice Angel, costerà una cifra pari a 5 mila miliardi di dollari, che, se ammortizzata per 50 anni, diventerà di 5 mila miliardi l'anno, una cifra di molto inferiore a quelle dei costi stimati per i danni provocati dai cambiamenti climatici.

L'idea del parasole non è del tutto nuova. Robert Kennedy, un ingegnere di Oak Ridge, Tennessee, nel 2000, insieme ad altri colleghi, aveva proposto di piazzare dei giganteschi specchi fotovoltaici in un Punto di Langrange (L1), gli unici punti in cui si possono situare corpi minori, o gruppi di corpi minori, per condividere stabilmente l'orbita di un corpo più grande, in quanto le attrazioni gravitazionali si annullano.

(Pubblicato su Ecplanet 09-11-2007)

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The University of Arizona

Punti di Lagrange - Wikipedia

DUMPING ON GAIA

Mentre i governi si stanno per riunire a Londra per discutere se diffondere su larga scala limature di ferro sulla superficie degli oceani, in modo da nutrire il plankton e assorbire l'anidride carbonica, una compagnia privata australiana sta portando avanti un piano per scaricare tonnellate di urea - un composto chimico presente nel sangue e nell'urina - prodotta industrialmente nell'oceano del Sudest asiatico. Si tratta della Ocean Nourishment Corporation (ONC) di Sydney, autorizzata a compiere tale esperimento dal governo delle Filippine, in particolare nel mare Sulu tra le Filppine e il Borneo.

Una coalizione di gruppi della società civile ha fatto appello alla London Convention2 - stipulata nel 1972 dalle Nazioni Unite proprio con lo scopo di prevenire possibili discariche tossiche nelle acque - per fermare la ONC. La coalizione chiede anche una moratoria su tutti i progetti di geoingegneria finché non abbia luogo un ampio dibattito internazionale e un intervento intergovernativo che stabilisca i potenziali impatti sociali, economici ed ambientali. “Questa volta sono i nostri oceani ad essere presi di mira da schemi di geoingegneria ad alto rischio su cui non è stato avviato alcun consulto pubblico né un intervento intergovernativo”, dice Neth Dano del Third World Network malesiano.

Solo qualche mese fa, la Planktos Inc. aveva annunciato di voler scaricare nanoparticelle ferrose nell'oceano vicino alle Galapagos. “Quel che più fa rabbia”, dice ancora la Dano, “è che le corporations provano a far passare questi esperimenti come progetti umanitari volti a combattere i cambiamenti climatici”. “Si tratta di

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tecnologie molto pericolose e dunque inaccettabili, perché potrebbero impoverire di molto il nostro ambiente marino, che è la principale fonte di sopravvivenza per i più poveri che vivono nelle Filippine”, dice Ruperto Aleroza d Kilusang Mangingisda, un movimento formato da pescatori filippini. Wilhelmina Pelegrina, di Searice, concorda: “Lo scarico di grandi quantità di urea rappresenta una grave minaccia ai nostri ecosistemi marini, che già tanto bene non stanno. Non possiamo permettere che la ONC persegua i suoi profitti a danno della popolazione”.

Lo scorso giugno, gli scienziati che fanno capo alla London Convention avevano avvisato che i piani per fertilizzare l'oceano vicino alle Galapagos usando particelle ferrose pongono alti rischi ambientali e che non vi è alcuna prova scientifica sull'efficacia di tale strategia. La ONC dichiara invece che scaricare grandi quantità di urea disciolta nell'oceano provocherà una grande fioritura di plankton, che assorbe in teoria più gas serra di quanto ne emetta (ma non è stato dimostrato, ndr), e che quindi sarà utile per combattere gli effetti dei cambiamenti climatici. Mentre secondo l'International Panel on Climate Change (IPCC) contribuirà ad intossicare le acque e a decimare la vita marina.

“Il problema è che non esiste alcuna regolamentazione”, fa notare Jim Thomas dell'ETC Group, “che ponga dei limiti alle pratiche di geoingegneria, e non esiste nessun corpo intergovernativo con il potere di decidere su questioni così delicate”. David Santillo, della Unità Scientifica di Greenpeace International, che parteciperà al prossimo meeting della London Convention, dice: “Gli scienziati che fanno capo alla London Convention hanno mostrato una grave preoccupazione per i rischi ecologici che pone il progetto di fertilizzazione degli oceani. Occorrono subito delle decisioni politiche per prevenire speculazioni economiche come quella della ONC”.

(Pubblicato su Ecplanet 09-11-2007)

LINKS

Planktos: False Solutions to Colonize our Oceans 30 dicembre 2007

Searice

Planktos

ETC Group

Greenpeace International

London Convention - Wikipedia

Ocean Nourishment Corporation

NASA Institute for Advanced Concepts

Azione anti-nucleare al Congresso Mondiale dell'Energia di Roma: gli attivisti di Greenpeace sono entrati in azione mentre era in corso l'intervento dell'amministratore delegato dell'Enel, Fulvio Conti, e sono riusciti a srotolare dall'alto della sala un cartellone con lo slogan: «Do not export nuclear risk» (Non esportare il rischio nucleare).

«Il nucleare è un tema delicato per il nostro Paese, ma l'attuale Governo è intenzionato a

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riportare l'Italia quanto meno nel campo della ricerca dello sfruttamento dell'energia nucleare per recuperare il gap accumulatosi in questo campo con gli altri paesi», ha sottolineato il vicepremier e ministro degli Esteri, Massimo D'Alema. «L'Italia ha bisogno di diversificare le fonti», ha detto l'amministratore delegato dell'Enel, «non vuole il nucleare, vuole poco carbone, utilizza troppo il gas. Il mix dei combustibili aiuterà a contenere i costi».

«È veramente incredibile - dice Francesco Tedesco, responsabile campagna energia dell'associazione ambientalista - che per non rovinare l'immagine di Enel si blocchi un convegno mondiale». Greenpeace, si legge ancora nel comunicato, «denuncia l'intenzione di Enel di investire oltre 4 miliardi di euro in fatiscenti reattori nucleari sovietici anni 70, e chiedere alla compagnia di non esportare all'estero lo stesso rischio nucleare a cui gli italiani hanno detto no vent'anni fa. Enel - sostiene ancora Greenpeace - intende completare due reattori nucleari a Mochovce, in Slovacchia, e un'altro a Belene, in Bulgaria. Il primo progetto consiste in due reattori nucleari di seconda generazione senza alcun guscio di contenimento per prevenire la fuoriuscita di materiale radioattivo in caso di incidente grave, come l'impatto di un aereo. Il secondo è un reattore che sorgerà in un'area sismica, dove nel 1977 un terribile terremoto provocò la morte di circa 120 persone».

«Nonostante la maggior parte dei reattori nucleari in Europa occidentale abbia un guscio di contenimento e i recenti progetti prevedano un doppio guscio, a Mochovce Enel intende completare reattori obsoleti senza alcuna protezione - afferma Jan Beranek, responsabile campagna nucleare di Greenpeace International - Questo doppio standard è assolutamente inaccettabile. In Finlandia, ad esempio, per la centrale in costruzione a Olkiluoto, l'autorità di sicurezza nucleare ha richiesto un ulteriore rafforzamento del guscio di contenimento. I progetti di Olkiluoto e Mochovce hanno circa lo stesso costo, ma il secondo non ha alcuna protezione contro possibili attacchi terroristici».

Grenpeace fa notare anche come l'Italia sia in forte ritardo sugli obiettivi del protocollo di Kyoto: le emissioni di gas serra sono aumentate del 10,5% invece di diminuire del 6,5%. Questo deficit, spiegano gli ambientalisti, si trasformerà in maggiori costi (da 3 a 5 miliardi l'anno) per gli italiani. Così, per sensibilizzare i cittadini sull'emergenza climatica dovuta all'inquinamento, l'associazione ambientalista promuove due iniziative.

Le emissioni gas serra cresceranno del 57% entro il 2030, e porteranno ad un aumento della temperatura sulla superficie terrestre di almeno 3 gradi Celsius (5.4 gradi Fahrenheit). Lo ha annunciato l'International Energy Agency (IEA). Il ché significa che l'inquinamento relativo ai gas serra crescerà dell'1,8% ogni anno fino al 2030, nonostante tutti gli sforzi per limitare l'uso di energia e per mitigare le emissioni. In pratica, secondo l'IEA, il mondo ha ben poche chance di portare i livelli di inquinamento ad un livello stabile e sicuro, almeno nel breve termine.

Conclusione in linea con quelle del Panello Intergovernativo (IPCC), secondo cui per limitare un aumento medio della temperatura globale a 2.4 gradi Celsius (4.3 gradi Fahrenheit) -

lo scenario più ottimistico - le concentrazioni di gas serra dovrebbero stabilizzarsi in 450 parti per milione (ppm) di anidride carbonica (CO2) nell'atmosfera. Per raggiungere questo obiettivo, secondo l'IPCC, le emissioni dovrebbero raggiungere il picco entro il 2015 e poi scendere fino al 50-85% entro il 2050. Mentre il World Energy Outlook dell'IEA non prevede il raggiungimento del picco di emissioni prima del 2020.

“La riduzione delle emissioni potrebbe venire da una maggiore efficienza dell'uso dei combustibili fossili nell'industria, nei trasporti, nell'edilizia, dal passaggio al nucleare e alle fonti rinnovabili, e da misure volte alla cattura e allo storaggio di CO2”, dice l'IEA, “nel complesso c'è bisogno di un'azione eccezionalmente rapida e vigorosa che metta in campo le tecnologie più avanzate”. Ma anche se questo dovesse avvenire (e ci sono

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molti dubbi in proposito, ndr), nel più ottimistico degli scenari l'IEA prevede un aumento annuale delle emissioni dell'1%. “In questo caso, le emissioni declinerebbero stabilmente dopo il 2030, con un aumento delle temperature intorno ai 3 gradi Celsius (5.4 gradi Fahrnheit)”, dice l'analista dell'IEA Trevor Morgan. Nel peggiore dei casi, invece, il riscaldamento potrebbe raggiungere 6 gradi Celsius (10.8 gradi Fahrenheit), soprattutto se Cina ed India continueranno nella loro crescita selvaggia, usando il carbone come principale fonte di energia. Entro il 2030, i maggiori inquinatori mondiali saranno Stati Uniti, India, Cina, Russia e Giappone.

Gli esperti internazionali dell'IPCC - l'ente scientifico, che quest'anno ha ricevuto il premio Nobel per la Pace insieme all'ex vice presidente americano Al Gore, istituito nel '98 su iniziativa di due agenzie specializzate dell'ONU, l'Organizzazione Meteorologica Mondiale, o WMO, e l'UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo - riuniti a Valencia per la stesura del documento che dovrà fornire ai governi nazionali le linee-guida in materia per gli anni a venire, hanno annunciato che “le attività umane potrebbero condurre a cambiamenti del clima improvvisi o irreversibili”.

Entro il 2100, dice l'IPCC, la temperatura media della superficie terrestre potrebbe aumentare tra gli 1.1 e i 6.4 gradi Celsius (1.98 e 11.52 gradi Fahrenheit) comparata con i livelli relativi al periodo 1980-99. Ondate di caldo, inondazioni, siccità, tempeste tropicali, aumento dei livelli dei mari, sono alcuni degli eventi atmosferici estremi che diverranno sempre più frequenti.

THE PLANET

Il documentario “The Planet”, degli svedesi Linus Torell, Michael Stenberg, Johan So¨derberg, racconta l’emergenza climatica della terra. Gli autori hanno lavorato per più di due anni in un viaggio attraverso 25 paesi con l'intento di fare luce sulle verità e le menzogne che riguardano gli allarmanti cambiamenti globali.

Oggigiorno si sente sempre più parlare sui vari media dei problemi ecologici: riscaldamento globale, deforestazione, l'estinzione delle specie animali, l'inquinamento, scioglimento dei ghiacci, siccità, desertificazione etc etc.. Tutti questi problemi sono interconnessi l'uno con l'altro, anche se raramente si tende a fornire un quadro d'insieme del sistema Terra. “The Planet” ceca proprio di mostrare come tutti questi effetti siano parte dello stesso problema, ovvero: l'insostenibile stile di vita della parte ricca del mondo.

A raccontarci questi “fatti” sono 29 eminenti scienziati da tutto il globo: climatologi, fisici, biologhi, architetti, psicologi. Tutti d'accordo, dal loro punto di vista, sul fatto che l'impronta umana sta radicalmente e inevitabilmente compromettendo il sistema biosfera in cui viviamo insieme a tutte le altre specie (animali e vegetali).

(Pubblicato su Ecplanet 03-12-2007)

Links

Nucleare: blitz di Greenpeace al WEC energymanager 11 novembre 2007

World Energy Outlook 2007

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Cuts Urged in China’s and India’s Energy Growth New York Times 07 novembre 2007

Greenpeace

International Energy Agency

World Meteorological Organization (WMO)

United Nations Environment Programme (UNEP)

IPCC - Intergovernmental Panel on Climate Change

RESIDENT EVIL: EXTINCTION

«Per ogni grado in più, sopra una soglia limite, si assiste a un aumento del 3% nelle singole città della mortalità, legata alle ondate di calore». È l'allarme lanciato lo scorso agosto dal direttore del programma speciale Ambiente e Salute dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization) Europa, Roberto Bertollini.

Ondate di calore e umidità, che a tratti ci fanno sentire come ai tropici, aprono la via ad una «immigrazione» ancora più pericolosa. I cambiamenti climatici stanno portando nuove malattie, di cui bisogna tener conto, formulando nuovi piani epidemiologici. «Il virus Chikungunya che ha provocato l'epidemia in Romagna ne è un esempio (197 casi sospetti e 166 accertati) - ha spiegato Bertollini - la zanzara tigre è arrivata in Italia, ma anche in altri paesi, perché ha trovato un clima più favorevole. Come il Chikungunya possono arrivare altri agenti patogeni, ed è necessario predisporre sistemi di sorveglianza specifica».

Secondo gli ultimi dati disponibili, relativi al 2000, il clima risulta già responsabile del 2,4% di tutti i casi di diarrea nel mondo e il 2% di tutti gli episodi di malaria, per un totale di 150 mila morti. In Europa, l'ondata di calore del 2003 ha fatto 35 mila morti. Nello stesso anno, le alluvioni hanno causato 250 decessi, colpendo circa due milioni di persone. I casi di salmonella, poi, salgono del 5-10% per ogni grado di aumento di temperatura.

Quello che preoccupa di più è l'interazione tra ondate di calore e inquinamento da ozono. «Si è calcolato - riferisce Bertollini - che un'ondata di calore fa crescere la mortalità del 10%. Se a questo si aggiunge l'effetto ozono, la mortalità aumenta del 13% e, nella popolazione anziana, può raggiungere percentuali anche più elevate». In forte crescita sono anche le malattie gastroenteriche. Luciana Sinisi, responsabile del settore ambiente e salute dell'APAT, l'agenzia per la tutela dell'ambiente, dice: «il surriscaldamento cambia la qualità delle acque e negli alimenti si possono sviluppare micotossine.

Nel 2003, tonnellate di cereali andarono perse per questa ragione. Più aumenta il caldo, più si sviluppano fenomeni di fermentazione». Il clima causa anche il prolungamento della stagione dei pollini. «E siccome è cambiata la circolazione atmosferica - aggiunge la dottoressa - abbiamo nel nostro territorio molte varietà di piante allergeniche nuove che, trovando una temperatura più calda, attecchiscono». C'è, poi, il rischio chimico. «L'aumento della temperatura porta a una più veloce degradazione dei pesticidi che, così, perdono di efficacia. Questo fenomeno induce a un maggiore uso di prodotti. Il risultato è la contaminazione del suolo e delle acque. A medio termine, anche delle falde freatiche».

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I dati parlano chiaro: ogni anno una nuova malattia, un ritmo inquietante che ha portato a scoprire, dal 1967 ad oggi, 39 nuovi agenti patogeni. Tra questi, i virus all'origine di Aids, Ebola (febbre emorragica) e Sars (sindrome respiratoria acuta severa). Inoltre colera, febbre gialla ed infezioni epidemiche a meningococchi sono riapparse negli ultimi decenni del XX secolo. Oltre 1100 eventi sanitari di natura epidemica si sono verificati solo negli ultimi cinque anni. I progressi compiuti nelle cure delle malattie risultano compromessi dalla generalizzazione della resistenza agli anti-infettivi. Particolarmente allarmanti, i casi di tubercolosi ultra-resistente contro la quale le medicine risultano inefficaci.

A questo punto, raccomandano gli esperti, il rischio di malattie non è più esclusivo campo d’azione del ministero della Salute. La prevenzione sanitaria e quella ambientale devono andare a braccetto. Il Governo italiano, ha risposto Prodi, «si farà promotore di altre iniziative con i paesi in via di sviluppo, specie nel Mediterraneo». In riferimento alla politica interna il premier spiega che si dovranno fare «subito ingenti investimenti con ritorni non immediati. È una questione di coraggio perché sono decisioni, come i limiti alle emissioni CO2, che provocano divisioni nella società». Il presidente della Commissione Ambiente della Camera Ermete Realacci ha assicurato che «il Parlamento italiano darà il suo contributo al varo di nuove politiche per il contrasto dei cambiamenti climatici nel nostro Paese».

Da Bali, dove è in corso la Conferenza sui Cambiamenti Climatici dell'ONU, un rapporto elaborato da Germanwatch e CAN Europe posiziona l'Italia al 41esimo posto della lista dei 56 paesi più inquinanti, responsabili del 90% delle emissioni di CO2. I dati bocciano la poiltica ambientale dell'Italia: le emissioni sono aumentate del 13% rispetto al 1990 - mentre, secondo Kyoto, dovevano essere ridotte del 6,5% - a causa della mancanza di politiche e strumenti incisivi, coerenti e continuativi provenienti dai settori energetici.

“L'Italia” - sottolinea la nota - “è rimasta immobile” sul fronte delle azioni da attuare per contenere e ridurre le emissioni. Per essere coerenti con le disposizione del Protocollo di Kyoto, continua la nota, ci vorrebbe una politica energetica nazionale, come già da tempo chiede l'Europa e il WWF. Anche nel settore dei trasporti l'Italia, non è messa bene: è il paese con la maggiore concentrazione di automobili per abitante e con la più alta percentuale del trasporto merci è su gomma. Non esiste una politica dei trasporti, dice il WWF, e per anni il nostro paese ha mascherato gli incentivi alla rottamazione delle auto come politiche per il clima.

“Entro il 2030, il processo di deforestazione in Amazzonia”, denuncia il WWF presente a Bali, “potrebbe rilasciare nell'atmosfera dai 55,5 a 96,9 miliardi di tonnellate di CO2 (96,9 miliardi vuol dire più di due anni delle attuali emissioni globali di gas serra a livello mondiale)”. “La conservazione della foresta amazzonica” - ha detto Dan Nepstad, Senior Scientist al Woods Hole Research Centre in Massachussets, autore dello studio, “è essenziale non soltanto per i processi di raffreddamento delle temperature globali, ma perché garantisce un'immensa fonte di acqua dolce in grado di influenzare alcune delle correnti oceaniche, e poi è un ingente serbatoio di carbonio”.

La produzione mondiale di gas e anidride carbonica non solo non è diminuita, ma è addirittura cresciuta in misura esponenziale. In Europa, si producono ogni anno più di 35 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2), di cui quattro provengono da camini, ciminiere, autoveicoli. Nel 2050, in assenza di contromisure, le attuali emissioni raddoppieranno. Ormai, dopo il fallimento del Protocollo di Kyoto - fallito ancor prima di essere applicato - si punta al “Kyoto Plus”, ma i Paesi fra i maggiori produttori mondiali di

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gas serra, come Brasile, India e Cina, non sono disposti a sostenere il peso economico di scelte ambientali radicali.

George Monbiot, giornalista ambientalista inglese , nel suo ultimo libro - “Calore” - spiega come si potrebbe ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili: non bastano gli sforzi individuali, perché per ognuno di noi che va in bici, non prende l'aereo, spegne le spie degli elettrodomestici e fa il bucato a basse temperature ci sarà sempre un Danny Meikle che a Natale decora la sua casa in Scozia con un milione e duecentomila lampadine; occorrono decisioni ad un livello più alto.

“Il riscaldamento globale causato dall’uomo non può essere controllato se non convinciamo i nostri governi a modificare il nostro stile di vita”. Soluzioni che devono investire ogni sfera della vita, dal modo in cui vanno concepiti gli edifici all'impiego intelligente delle fonti di energia rinnovabile, dalla creazione di un nuovo sistema di trasporti, al modo in cui facciamo la spesa.

Monbiot si augura invece che il suo libro convinca i lettori che vale la pena combattere, perché siamo l'ultima generazione che può salvare il mondo.

(Pubblicato su Ecplanet 15-12-2007)

Links

New country-by-country data show in detail the impact of environmental factors on health WHO 13 giugno 2007

As Earth Warms Up, Tropical Virus Moves to Italy New York Times 23 dicembre 2007

Canada fourth-worst climate sinner, study finds CBC 07 dicembre 2007

More than half of Amazon will be lost by 2030 The Guardian 06 dicembre 2007

APAT

GERMANWATCH

Climate Action Network Europe

The Woods Hole Research Center

World Health Organization Regional Office for Europe

United Nations Framework Convention on Climate Change

FIGHT THE FUTURE

Il rapporto annuale dell'UNDP,i l Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Umano, afferma: «I Paesi industrializzati non stanno rispettando gli impegni di riduzione delle emissioni di gas serra relativi al Protocollo di Kyoto», e chiede un'azione urgente per ridurre le emissioni di gas serra dell'80% entro il 2050.

Nel suo studio intitolato «Fighting Climate Change», l'UNDP fa notare che la maggioranza dei Paesi OCSE sono in ritardo rispetto agli impegni assunti e sottolinea la discrepanza tra gli obiettivi fissati a livello politico per ridurre le emissioni di gas serra e le politiche energetiche attuali in molti Paesi dell'Unione Europea. Gli

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autori del rapporto sostengono che i Paesi ricchi stanno alimentando una crisi del debito ecologico che si ripercuoterà nel modo più immediato e profondo sui poveri del mondo.

Sebbene i Paesi in via di sviluppo rappresentino una quota crescente delle emissioni globali, i Paesi ricchi rimangono i principali responsabili dell'accumulo del debito di carbonio. Il Rapporto lo dimostra facendo notare che, se ogni povero sul pianeta generasse le stesse emissioni di un europeo medio, servirebbero quattro pianeti per far fronte all'inquinamento; sette, se si considerano le emissioni di un australiano medio; nove, per quelle di un nordamericano o un canadese.

«Nel negoziare il quadro post-2012 che darà seguito al Protocollo di Kyoto, i governi dei Paesi ricchi dovranno assumere un ruolo guida e adottare obiettivi nazionali credibili e coerenti con un accordo multilaterale che stabilisca un bilancio globale del carbonio», afferma Kevin Watkins, direttore dell'ufficio per il Rapporto sullo Sviluppo Umano. «Non abbiamo bisogno di comunicati che ci ricordino che abbiamo un problema urgente, servono soluzioni e iniziative pratiche per ridurre le emissioni».

Francia, Germania, Giappone e Gran Bretagna hanno ottenuto modeste riduzioni delle emissioni, ma il Rapporto segnala che, secondo le tendenze attuali, i Paesi ricchi nel loro insieme sono ben lontani dal conseguire i loro obiettivi di riduzione delle emissioni nel 2012.

Il Rapporto critica gli Stati Uniti, che non hanno fissato obiettivi di riduzione delle emissioni a livello federale, mentre dà risalto al ruolo guida assunto da alcuni Stati e città Usa, come la California e New York. Riguardo all'Unione Europea, viene accolto con favore l'obiettivo ambizioso di ridurre le emissioni del 30 % entro il 2020, ma si sottolinea l'ampio divario esistente tra gli impegni e le politiche, oltre alla mancanza di coerenza tra il sistema per lo scambio di quote di emissioni della UE (European Union Emissions Trading Scheme) e l'obiettivo relativo ai cambiamenti climatici.

Il Rapporto chiede infine un investimento annuale di almeno 86 miliardi di dollari entro il 2015, pari allo 0,2% del Pil aggregato dei Paesi del Nord del mondo, per l'immunizzazione delle infrastrutture dagli effetti del clima e lo sviluppo di capacità di resistenza e recupero tra la popolazione povera contro gli effetti dei cambiamenti climatici. Contestualizzando questa cifra, si afferma che «in totale i Paesi sviluppati dovrebbero mobilizzare all'incirca un decimo di ciò che attualmente stanziano per la spesa militare».

Affrontare l'adattamento significa anche salvaguardare le attività esistenti, finanziate a livello internazionale, sensibili ai cambiamenti climatici, quali i progetti nel campo dell'agricoltura e delle risorse idriche.

(Pubblicato su Ecplanet 03-01-2008)

Links

United Nations Development Programme - Human Development Report 2007 / 2008

LA VERITA’ DEL GHIACCIO

TEMPESTA GLOBALE

2022 i sopravvissuti

ESTINZIONE GLOBALE

EFFETTO SERRA ALLA SBARRA

ECO-APOCALYPSE (NOW)

ECO-APOCALYPSE (NOW) 2