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Fusco Enrico

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Traduzione di sette saggi

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Page 1: Fusco Enrico

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE

Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori

TESI DI LAUREA IN

TRADUZIONE

Traduzione di sette saggi

di Yves-Marie Duval

LAUREANDO: RELATORE: Enrico FUSCO Chiar.mo Prof. Graziano BENELLI CORRELATRICE: Chiar.ma Prof.ssa Manuela RACCANELLO

ANNO ACCADEMICO 2005/2006

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In memoria della Prof.ssa Carmen Sánchez Montero

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INDICE

I. INTRODUZIONE p. 7

1. Cenni sull’autore p. 9 2. Cenni sulle opere p. 9 3. Rufino di Aquileia p. 10 II. TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE p. 15 III. COMMENTO LINGUISTICO E TRADUTTIVO p. 261 1. Tipologia e funzioni testuali p. 263 2. Approccio traduttivo p. 264 3. Aspetti morfosintattici p. 265

3.1. Struttura del periodo p. 265 3.2. Sistema verbale p. 269

3.3. Stile nominale p. 272 3.4. Particelle pronominali en e y p. 273

4. Aspetti lessicali p. 275

4.1. Toponimi e antroponimi p. 275 4.2. Forestierismi p. 276 4.3. Tecnicismi p. 277 4.4. Espressioni idiomatiche p. 278 4.5. Citazioni e intertestualità p. 279

5. Aspetti stilistici p. 279

5.1. Il registro p. 279 5.2. La mise en relief p. 280

5.2.1. La dislocazione a sinistra p. 281 5.2.2. I presentativi p. 281 5.3. Altre peculiarità stilistiche p. 282

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6. Punteggiatura p. 284 6.1. Punto fermo p. 284 6.2. Virgola p. 284 6.3. Punto e virgola p. 286 6.4. Due punti p. 286 6.5. Punto interrogativo p. 287 6.6. Punto esclamativo p. 287 6.7. Puntini di sospensione p. 288

6.8. Virgolette p. 288 6.9. Parentesi e lineette p. 289

7. Procedimenti traduttivi p. 289 7.1. Trasposizione p. 289 7.1.1. Trasposizione delle categorie grammaticali primarie p. 290 7.1.2. Trasposizione delle categorie grammaticali secondarie p. 293 7.1.3. Trasposizione e organizzazione sintattica p. 294 7.2 Modulazione p. 296 7.3. Trascrizione p. 297 7.3.1. Trascrizione e onomastica p. 297 7.3.2. Trascrizione e titoli p. 297 7.4. Strategie di espansione e di riduzione p. 298 BIBLIOGRAFIA p. 301

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7

I. INTRODUZIONE

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1. CENNI SULL’AUTORE

Già professore all’Università di Tours e di Poitiers, attualmente professore emerito

di lingua e letteratura latina all’Università di Paris X-Nanterre, Yves-Marie Duval è

uno dei massimi esperti viventi in materia di letteratura cristiana antica e di

patrologia. Attivo da quasi cinquant’anni (il suo primo articolo risale al 1958),

Duval è autore di numerosi saggi sui più grandi Padri della Chiesa del quarto e del

quinto secolo: da Sant’Agostino, uno dei padri fondatori del Cristianesimo, a

Sant’Ambrogio, vescovo di Milano e consigliere dell'imperatore Teodosio, da Ilario

di Poitiers, grande avversario dell'arianesimo, a San Girolamo, redattore della

versione latina della Bibbia adottata ufficialmente nel Medioevo.

Duval ha altresì dedicato un’attenzione particolare ad Aquileia, importante centro

culturale della cristianità tra gli ultimi decenni del secolo quarto e gli inizi del

successivo, e ad alcune considerevoli figure dell’Italia nordorientale, quali Rufino di

Aquileia (345-410/411), monaco che tradusse in latino, con ampi rifacimenti, le

opere di vari scrittori ecclesiastici greci, Cromazio di Aquileia, amico di San

Girolamo e vescovo della cittadina dal 388 al 408, e Sulpicio Severo, illustre

biografo di San Martino di Tours.

Perennemente in viaggio tra Italia, Svizzera e Inghilterra, Yves-Marie Duval è al

momento impegnato nella stesura di un nuovo saggio, avente per oggetto Rufino e le

Recognitiones di Clemente Romano.

2. CENNI SULLE OPERE Come si è detto, le opere di Yves-Marie Duval offrono un’accorta analisi della

Storia della Chiesa e dell’antichità cristiana, incentrandosi sulle principali

personalità del tempo, sui luoghi di maggiore rilevanza storico-religiosa (Aquileia e

Roma per l’Occidente, Alessandria e Gerusalemme per l’Oriente), sui primi Concili

Ecumenici e sulle relative ripercussioni, senza tralasciare di descrivere con dovizia

di particolari le aspre lotte ai filoni ereticali portate avanti dai più celebri difensori

del Cristianesimo.

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La traduzione effettuata in occasione del presente elaborato riguarda sette saggi

del patrologo francese, composti tra il 1976 e il 2001. Gli articoli tradotti vertono, in

particolare, su Aquileia e sulle invasioni barbariche, sui rapporti tra la cittadina

friulana e la Palestina, su Rufino di Aquileia e sulla controversia con l’amico

Girolamo (entrambi, ricordiamolo, figure fondamentali nel campo della traduzione

cristiana) intorno all’ortodossia della dottrina di Origene, grande filosofo e teologo

di lingua greca.

3. RUFINO DI AQUILEIA Tirannio Rufino nasce a Iulia Concordia, a 30 miglia da Aquileia, intorno al 345,

da famiglia agiata, se ebbe la possibilità di completare gli studi a Roma, dove

conobbe Girolamo di Stridone (347-420), cui fu legato da profonda amicizia fino

all’insanabile dissidio provocato dalla questione origeniana. Dalla capitale rientrò in

patria intorno al 366; fino alla partenza per l’Oriente nel 373, Rufino fu membro del

gruppo ascetico di Aquileia.

Conversione, istruzione catecumenale e battesimo avvennero dunque ad Aquileia,

sua patria d’adozione, giacché Concordia non aveva ancora, a quel tempo, una

Chiesa gerarchicamente costituita. Nel 373 Rufino si metteva in viaggio per l’Egitto,

la terra dell’anacoresi, dimostrando una profonda attenzione verso le sorgenti della

più genuina vita ascetica, quale quella che nella tradizione orientale veniva praticata

da monaci e anacoreti.

L’alta ascesi non eludeva la cultura religiosa, necessaria per ribattere gli eretici

con argomenti calzanti, ma il panorama teologico di Aquileia era troppo angusto di

fronte alle nuove urgenze: era dall’Oriente che provenivano le maggiori eresie e,

oltre all’Antico e al Nuovo Testamento, occorreva conoscere i metodi esegetici

maturati nelle grandi scuole di Antiochia e di Alessandria, come pure le novità

introdotte da Origene, l’astro del tempo, che aveva scritto in greco.

Durante i cinque lustri del suo lungo soggiorno orientale, Rufino ebbe sempre

presenti due poli d’interesse: l’ascetismo monastico o anacoretico e la teologia di

Origene. Salvo la breve interruzione di un viaggio in Siria nel 378, Rufino trascorse

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in Egitto otto anni, fondamentali per la sua formazione dottrinale, presso la scuola di

Didimo il Cieco, venerato maestro e capo della celebre scuola catechetica di

Alessandria, che lo introdusse al pensiero e alle opere di Origene (185-253), il più

grande erudito dell’antichità cristiana, sotto molti aspetti il più importante tra i

teologi della Chiesa greca.

Partito per Gerusalemme non prima del 381, Rufino vi fondò un monastero sul

Monte degli Ulivi, la cui comunità si dedicava anche alla trascrizione di manoscritti

di classici e di Padri della Chiesa, che Girolamo stesso commissionava dal proprio

monastero di Betlemme per i propri studenti dopo essersi trasferito definitivamente

in Palestina.

Lo scontro con il grande Stridoniate si verificò nel 393, all’insorgere della

polemica tra Epifanio, vescovo di Salamina, e Giovanni, vescovo di Gerusalemme,

intorno a Origene.

La controversia origeniana, scoppiata appunto in seguito all’attacco condotto dal

vescovo Epifanio contro alcune tesi del maestro alessandrino (come un certo

subordinazionismo da lui introdotto fra le persone della Trinità, l’allegorismo spinto

nell’interpretazione delle Scritture, la dottrina sull’origine delle anime e

l’escatologia), ebbe scarsa risonanza in Occidente, se si eccettua il contrasto tra

Girolamo e Rufino.

Epifanio, oltre a combattere Origene nei suoi scritti, si adoperò anche per ottenere

che fosse condannato, riuscendo, in Palestina, a tirare dalla sua parte Girolamo, fino

ad allora fervente origeniano, ma incontrando una decisa ostilità da parte del

vescovo Giovanni di Gerusalemme e dello stesso Rufino. Il voltafaccia di Girolamo

provocò la rottura con Rufino, complice anche una certa gelosia insorta tra i due

monasteri da loro stessi fondati rispettivamente a Betlemme e a Gerusalemme.

Il doloroso contrasto tra gli amici di un tempo fu innescato dalla prefazione di

Rufino (398) alla sua traduzione dell’opera teologica più importante di Origene, il

Peri Archôn o De principiis, in cui Rufino dichiarava di aver voluto eliminare i passi

di carattere eterodosso che supponevano mere interpolazioni di eretici o comunque

inaccettabili alla fine del quarto secolo, e in cui indirettamente presentava Girolamo

come ammiratore e propagandista di Origene; in effetti lo Stridoniate era stato spinto

a tradurre in latino più di settanta opere minori di Origene, così da renderlo

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comprensibile ai Romani colti. Non era difficile concludere che Rufino avesse inteso

avvalersi dell’autorità di Girolamo per diffondere più facilmente la sua traduzione,

con il rischio di far passare quest’ultimo per un fautore del teologo alessandrino.

La reazione di Girolamo non si fece attendere; sollecitato anche da alcuni amici

degli ambienti antiorigeniani di Roma, lo Stridoniate tradusse integralmente il De

Principiis, onde mostrare i numerosi punti emendati da Rufino; mandò poi una

lettera a quest’ultimo per lamentarsi del torto subito, difendendosi, in un’altra

epistola indirizzata agli amici Pammachio e Oceano, della presunta taccia di

origenista e attaccando i sostenitori di Origene.

Rufino si difese con una breve Apologia indirizzata a papa Anastasio, volta a

riaffermare la sua retta fede, e con la più ampia Apologia contro Girolamo in due

libri (400-401). Girolamo, temendo che un suo possibile coinvolgimento nella

condanna dell’origenismo avrebbe potuto insidiare la larga fama da lui ormai

acquisita, reagì pesantemente con i tre libri dell’Apologia contro Rufino;

quest’ultimo, consigliato in tal senso anche da Cromazio, preferì non replicare più,

ponendo fine alla polemica e dedicandosi a un’intensa attività letteraria di traduzione

di fonti greche.

Al di fuori degli scritti sollecitati dalla controversia con Girolamo sulla questione

di Origene, vale la pena ricordare la traduzione della Storia Ecclesiastica di Eusebio

di Cesarea, che Rufino intraprese su richiesta del vescovo Cromazio di Aquileia,

nonché l’Expositio Symboli, opera originale di Rufino che offre per la prima volta il

testo latino del Simbolo detto Apostolico e propone una completa catechesi

dottrinale, compendiata con chiarezza e aggiornata con gli esiti della più recente

riflessione teologica.

Di fronte alle invasioni dei Goti di Alarico, Rufino abbandonò Aquileia: fra il 407

e il 408, nel monastero del Pineto presso Terracina, dettò i due libri sulle

Benedizioni dei patriarchi, una spiegazione allegorica delle benedizioni di

Giacobbe. Morì in Sicilia tra il 410 e il 411, dopo aver tradotto parte del Commento

al Cantico dei Cantici e una raccolta di omelie sui Numeri di Origene.

Rufino ebbe un peso profondo nella vita culturale dell’Occidente cristiano: fu

stimato da una schiera di dotti del suo tempo, da Cromazio a Palladio, da Gaudenzio

di Brescia a Paolino di Nola e allo stesso Agostino. Con Rufino è avvenuta la prima

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feconda trasfusione della cultura religiosa orientale nel mondo latino, ad opera di

chierici della Chiesa di Aquileia, arricchiti di esperienza universale dai lunghi

soggiorni in privilegiati centri della cristianità, come Roma, Alessandria,

Gerusalemme.

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II. TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE

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Yves-Marie Duval

AQUILEIA SULLA VIA DELLE INVASIONI (350-452)

Se dovessi trattare l’argomento annunciato dal titolo nella sua interezza,

sarei costretto a scrivere tutta la storia militare e politica di Aquileia a partire

dalla fondazione della città: è infatti per opporsi ai Galli, che avevano varcato

le Alpi e cominciato a insediarsi ai piedi delle Alpi Giulie, che la colonia fu

dedotta nel 181 a.C. (di fatto, già nei primi anni, Aquileia dovette far fronte

alle incursioni dei Galli). In realtà non si tratta nemmeno di seguire quello che

chiamerò il movimento di riflusso dell’Impero romano, che ha avuto inizio,

potremmo dire, ad Aquileia, sotto Marco Aurelio, quando i Marcomanni e i

Quadi si aprirono un varco nel fronte del Danubio, giunsero fino alle mura di

Aquileia e, non riuscendo a conquistare la città, andarono a distruggere

Opitergium. Da questo segnale d’allarme si deve trarre una lezione: le vie

romane, che sono state vie strategiche perfette e hanno contribuito in modo

determinante alla conquista, sono state anche meravigliose vie di penetrazione

per i barbari, già nella seconda metà del II secolo, ma soprattutto a partire

dalla metà del IV, che segna l’inizio del presente studio1.

Nel corso del secolo da me scelto (350-452) per illustrare il ruolo di «porta

d’Italia» rivestito da Aquileia, non mi limiterò alle invasioni barbariche.

Tenterò di seguire tutti gli eserciti romani e barbari che si sono

presentati sotto le mura di Aquileia, o che sono stati anche solo avvistati

1 Un esempio è dato dall’incursione dei Leti su Lione, come descritta da Ammiano (XVI,

11). Giuliano, per ostacolarli sulla strada del ritorno, «tria obseruauit itinera, sciens per

ea erupturos procul dubio grassatores. Nec conutas ei insidianti inritus fuit!» (XVI, 11,

5).

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dall’alto dei colli delle Alpi Giulie. Vedremo che questi eserciti si somigliano,

e che le guerre civili e le incursioni barbariche sono spesso collegate, come i

contemporanei hanno avuto più volte modo di notare.

Riprenderò quindi con voi, ad Aquileia, alcuni testi, scritti ad Atene, a

Milano, a Roma, a Betlemme e in Gallia, a una distanza che va da qualche

mese a una decina d’anni dagli avvenimenti cui si riferiscono, se non

addirittura secoli, testi che non sempre hanno parlato di Aquileia2. A

mio avviso, e non per spirito campanilista3, tale rilettura consente di

esaminare molti eventi da un «punto di vista» inedito4. D’altra parte i

2 Indicherò, in conclusione, gli altri limiti di questi documenti scritti. 3 Mi terrò più vicino possibile ad Aquileia e all’arco orientale delle Alpi, il che non è

privo d’inconvenienti, perché Aquileia è legata non soltanto all’Italia settentrionale, ma

anche alle province d’oltralpe, come figura pure nella nostra documentazione, per quanto

frammentata. Non parlerò della Pannonia e degli studi successivi di A. ALFÖLDI, Der

Untergang der Römerschaft in Pannonien I-II, Berlin 1924-1926 e di L. VARADY, Das

letzte Jahrhyndert Pannoniens (376-476), Amsterdam 1969, quest’ultimo molto discusso

(J. HARMATTA, The Last Century of Pannonia, in Ac. Ant. Hung., 18, 1970, pp. 361-369;

T. NAGY, The Last Century of Pannonia in the Light of a new Monograph, Ibid., 19,

1971, pp. 299-345; A. MÓCSY, recensito in A. Arch. Hung., 23, 1971, pp. 347-360 – con

risposta di L. VARADY, Pannonica, Ibid., 24, pp. 271-276), benché presenti una

frammentazione che rende molto bene l’idea di quanto sia spezzettata la nostra

documentazione. 4 Di grande utilità è stato il confronto tra le mie interpretazioni e quelle di O. Seeck

(Geschichte des Untergangs der antiken Welt, t. IV-VI, Stuttgart, s.d.); E. Stein - J.R.

Palanque (Histoire du Bas-Empire, trad. fr., t. I, Paris 1958); in seguito verranno citati

altri studi più o meno particolari che ho utilizzato. Ma oltre a qualche testo nuovo da

allegare al dossier o la cui datazione va corretta, Aquileia risulta essere un buon

osservatorio per esaminare le ripercussioni di quanto avviene nelle due partes

imperii, il che, a mia conoscenza, è stato fatto solo di rado, anche per quanto riguarda A.

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testi5 che rievocano Aquileia devono poter essere controllati dall’archeologia;

vanno interpellati sia gli scavatori di Aquileia6 e della regione, sia quelli che

operano al di là delle Alpi. Indubbiamente, nonostante questa duplice via, ci

avvicineremo solo in parte alla gente di Aquileia, che nel corso di questo

secolo ha visto passare gli eserciti, uno dopo l’altro, gli imperatori, vincitori e

vinti, e i capi barbari, trionfanti e sconfitti. Riguardo a tale periodo non

abbiamo nessuna Cronaca della città di Aquileia. Che io sappia, soltanto due

abitanti di Aquileia hanno rievocato, per la loro cittadina, la vicinanza dei

barbari: Cromazio, in un sermone pasquale, e Rufino, nel testo celebre, ma

forse mal compreso, della Prefazione alla Storia della Chiesa. Tuttavia è a

questa folla, ora all’ippodromo e ora sui bastioni, ora coinvolta suo malgrado

nei rovesci e nei successi, ora nell’angoscia dell’invasione, dell’assedio

o della prigionia, che bisogna guardare. Probabilmente, durante i primi

venticinque anni del secolo, il pericolo non è da considerarsi

incombente; ma a partire dal 378 Aquileia si sentirà sempre meno

Calderini (Aquileia romana, Milano, s.d. (1930), pp. 71-90). Sulle questioni

topografiche, che sono state rivedute dai recenti scavi jugoslavi, cfr. O. CUNTZ, Die

römische Strasze Aquileia-Emona, ihre Stationem und Befestigungen, in Jahresh, d. Öst.

Arch. Inst., 5, Beiblatt, 1902, pp. 139-159; K. PICK - W. SCHMID, Die Grenzbefestigung

der Julischen Alpen, Ibid., 21-22, 1922, pp. 295 sgg.; S. STUCCHI, Le difese romane alla

porta orientale d’Italia e il vallo delle Alpi Giulie, in Aevum, 19, 1945, pp. 342-356; A.

DEGRASSI, Il confine Nord-orientale dell’Italia romana, Berna 1954. 5 Per le rappresentazioni figurate cfr. la vignetta del Comes Italiae nella Notitia

dignitatum (Ed. O. Seeck, II ediz. (1962), p. 173) e la rappresentazione di Aquileia sulla

Tabula Peutingeriana. Cfr. fig. 1 e 2. 6 Sulle fortificazioni di Aquileia cfr. G. BRUSIN, Le difese della romana Aquileia e la

loro cronologia, in Corolla memoriae Erich Swoboda dedicata, 1966, pp. 84-94; B.

FORLATI-TAMARO, Le cinte murarie di Aquileia e il suo porto fluviale, in «Atti della

deputazione di Storia patria delle Venezie», 1974, estr.

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al sicuro dietro il baluardo delle Alpi, e a poco a poco il pericolo si avvicinerà,

con una serie d’ondate che solo di rado raggiungeranno il punto di partenza.

Tali ondate hanno un che di monotono, se così si può dire. Cercheremo di

vedere assieme da dove proviene questa monotonia. Non sono lontano dal

credere che le «ondate» siano state sempre meno violente. Probabilmente è per

questo che Aquileia ha impiegato così tanto tempo a morire, se è morta a

causa delle invasioni, se mai è morta!

I. AQUILEIA E LE ALPI GIULIE

DURANTE L’USURPAZIONE DI MAGNENZIO

Aquileia e le usurpazioni

Il secolo che analizzerò si apre con un’usurpazione. Un altro conflitto

interno ci ha portati ad Aquileia dodici anni prima, quando Costantino II viene

ucciso ad Aquileia o nei dintorni. Vedremo spesse volte il destino dell’Impero

decidersi in questo anello di congiunzione tra Oriente e Occidente; ma a dire il

vero, nel conflitto tra Costantino II e Costante, è difficile dire se la città e i

colli alpini abbiano avuto un ruolo considerevole, anche se le nostre fonti

contengono strane e sfortunate lacune. La loro importanza è invece innegabile

nella guerra tra Costanzo II e l’usurpatore Magnenzio. Aquileia e i passi delle

Alpi Giulie avranno la triste particolarità di veder terminare nelle vicinanze un

certo numero di usurpazioni, che si tratti di quella di Massimo nel 388, di

Eugenio nel 394 o di Giovanni nel 425, fino al tempo di Odoacre e di

Teodorico, quando il possesso dei colli segnerà, come all’epoca di Magnenzio

e di Costantino, una svolta nel conflitto.

I cavalieri illirici

Per quanto riguarda l’usurpazione di Magnenzio7 bisogna cominciare

7 Su quest’usurpazione e sul le r ipercuss ioni nel l ’ I ta l ia nordor ienta le e

n e l l ’ I l l i r i c o c f r . s o p r a t t u t t o , o l t r e a l l e o p e r e c i t a t e

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Fig. 1 – Notitia dignitatum, Occid., XXIV: Vignetta

del Comes Italiae, con la rappresentazione del

Tractus Italiae circa Alpes e delle fortificazioni

poste a difesa delle montagne (Bodleian Library,

Ms. Canon. misc. 378, XV s., f. 155).

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Fig. 2 – Tabula Peutingeriana. L’Alto Adriatico, con la

città di Aquileia e la via che, attraverso Ponte Sonti,

Fluvius Frigidus, In Alpe Iulia (= Ad Pirum), Longaticum

e Nauportus, porta a Emona oltrepassando le Alpi Giulie.

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col recarsi in Gallia, ad Autun, dove il 18 gennaio 350 quest’ufficiale mezzo

barbaro è proclamato Augusto8. Zosimo assicura che, in questo

pronunciamento, le truppe illiriche hanno rivestito un ruolo indiscutibile9.

L’Illirico a quel tempo appartiene, certo, a Costante, e non stupisce che le

truppe d’élite costituite dai Pannonici siano state condotte verso il Reno. Allo

stesso modo non va dimenticato che una ribellione di truppe trasferite porterà

all’usurpazione di Giuliano, sempre in Gallia, dieci anni dopo, e soprattutto

che i contingenti illirici spostati dalla Pannonia da Giuliano si fermeranno ad

Aquileia, invece che recarsi in Gallia. Le informazioni di cui disponiamo sono

insufficienti per poter costruire solide ipotesi, ma è lecito pensare che la

presenza di queste truppe illiriche spieghi, anche solo in parte, la rapidità con

cui Magnenzio diventa, in un mese, padrone di tutta l’Italia. Il 28 febbraio 350 entra in

di O. Seeck e di E. Stein - J.R. Palanque, P. BASTIEN, Le monnayage de Magnence, Paris

1964; A. JELOČNIK, Les multiples d’or de Magnence découverts à Emona, in «R. Num»,

1967, pp. 209-235; Quelques remarques sur les émissions de maiorinae frappées par

Magnence à Aquilée, Ibid., pp. 246-251; V. NERI, Il miliario di S. Maria in Acquedotto

alla luce dei più recenti studi magnenziani, in «Studi Romagnoli», 20, 1969, pp. 369-

374; J. SAŠEL, The Struggle between Magnentius and Constantius II for Italy and

Illyricum, in «Živa Antika», 21, 1971, pp. 205-216. 8 L. Laffranchi (Commento numismatico alla storia dell’imperatore Magnenzio e del suo

tempo, in «Atti e Memorie dell’Istituto Italiano di Numismatica», 1930, t. 6, pp. 170-

171) proponeva di vedere nella data del 18 gennaio 350, fornita in modo indifferenziato

dai Consul. Constantinopolitana (Chronica Minora, I; Ed. Th. Mommsen, MGH, AA IX,

p. 237), la data della morte di Costante a Elna e non quella dell’usurpazione di Autun.

P. Bastien (Le monnayage de Magnence, Paris 1964, pp. 9-10) invalida tale ipotesi. 9 ZOSIMO, Historia nova, 2, 42, 4 (Ed. Fr. Paschoud, pp. 114-115). L’intervento dei

cavalieri illirici è un aspetto trascurato dagli storici moderni, che sono soliti opporre,

nello svolgimento dell’usurpazione, truppe «galliche» e truppe illiriche. Magnenzio non

poteva che vedere di buon occhio questa riunione, approfittandone.

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carica, a Roma, il Prefetto della città nominato da Magnenzio, Fabio Tiziano10,

che rivestirà un ruolo fondamentale durante l’usurpazione di Magnenzio11.

Nelle settimane che precedono Aquileia è caduta nelle mani di Magnenzio,

giacché l’officina monetaria mostra che la città di Aquileia accoglie

Magnenzio acclamandolo con il titolo di Liberator Reipublicae12, dopo avergli

conferito il titolo di Restitutor libertatis13.

I claustra Alpium Iuliarum

Aquileia era una semplice tappa secondo i piani di Magnenzio; in gioco

c’era il vecchio appannaggio di Costante, che andava fino alla Tracia, al cui

riguardo ci si domandava se spettasse a Magnenzio, «successore» di Costante,

o se sarebbe stato accaparrato da Costanzo II, i cui possedimenti erano rimasti

gli stessi dopo la divisione del 337. Magnenzio poteva e doveva trarre

vantaggio dall’effetto sorpresa e dall’allontanamento di Costanzo, fermato

sulle rive dell’Eufrate14. Molti aspetti della vicenda sono noti; inoltre c’è una data che

consente di collocare nel tempo l’insuccesso di Magnenzio: il primo marzo del 350, a

Mursa, è proclamato Augusto il magister peditum Vetranione15, che funge in

10 Cronografo del 354 (Ed. Th. Mommsen, MGH, AA XI; Chron. Min., I, p. 69) – A.

CHASTAGNOL, La préfecture urbaine à Rome, Paris 1960, p. 420. 11 Sarà lui a insultare Costanzo dopo i primi rovesci del 351: ZOSIMO, Hist. nov., 2, 49, 1. 12 Multipli d’oro emessi ad Aquileia: Liberator reipublicae (BASTIEN, op. cit., p. 11;

Catal., n. 302), con la città di Aquileia che si inchina all’imperatore che avanza a

cavallo, non diademato (A. JELOČNIK, Les multiples d’or de Magnence découverts à

Emona, in «R. Num», 6e s., IX, 1967, p. 216 e pl. XXXV, 2, 3, 4). 13 P. BASTIEN, op. cit., pp. 48-49 e Catal., n. 301. 14 Dal 340 Costanzo è intento a difendere la frontiera orientale dalle ripetute offensive di

Shapur. Nel 350 Nisibis per poco non è caduta. Al tempo dell’usurpazione si trova a

Edessa, secondo Filostorgio (Hist. eccles., 3, 22 – Ed. J. Bidez, GCS 21, p. 49, l. 5). 15 I Consul. Constant. (Ed. Mommsen, I, p. 237) propongono Sirmio; ma Girolamo

(Chron. ad. a. 351; Ed. Helm, GCS 47, p. 238) colloca la scena a Mursa.

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realtà da prestanome per gli intrighi familiari e dinastici di Costantina, sorella

maggiore di Costanzo II16, e del Prefetto del pretorio dell’Illirico, Vulcacio

Rufino, fratello di Galla, moglie di Giulio Costanzo e madre del futuro Cesare,

Gallo17.

Il primo marzo Magnenzio ha dunque fallito. Ci si può chiedere se i ritardi

subiti nel passare le Alpi Giulie abbiano influito su questo fiasco. A tale

proposito esiste un testo di Ammiano Marcellino alquanto enigmatico. Gli

storici18 sono soliti far risalire il suo contenuto al 352; ma la sua struttura

invita a collocarlo nel 350, anno dell’arrivo delle truppe di Magnenzio nei

pressi di Aquileia19. Nel racconto relativo agli avvenimenti dell’estate del 378

Ammiano narra il destino di una piccola truppa, condotta dal magister peditum

Sebastiano, che si vede negare l’accesso alla città di Adrianopoli; gli abitanti

temono di ritrovarsi davanti gli uomini fatti prigionieri dai Goti20, i quali, una

volta accolti nella città, la consegneranno ai Goti. Ammiano aggiunge che i

difensori di Adrianopoli temono che succeda loro ciò che accadde «per

colpa del Conte Atto, il quale, fatto prigioniero dai soldati di

Magnenz io , aveva aper to con l ’ inganno i c laus t ra d e l l e A l p i

16 FILOSTORGIO, Hist. eccles., 3, 22 (Ed. J. Bidez, GCS 21, p. 49, ll. 7 sgg.). 17 È lui che sarà mandato da Costanzo II per conto di Vetranione, insieme con altri

inviati di Magnenzio, e sarà il solo a non essere imprigionato: PIETRO PATRIZIO, fr. 16

(Ed. K. Müller, FHG 4, p. 190). Quest’ambasciata si colloca dopo l’insuccesso di

Magnenzio sull’Illirico e dopo la presa dei Claustra. 18 Così O. SEECK, op. cit., IV, p. 115 e numerosi storici dopo di lui. 19 Che io sappia, il primo ad aver proposto la data del 350 per tale avvenimento è J.

SAŠEL, The Struggle between Magnentius and Constantius II for Italy and Illyricum, in

«Živa Antika», 21, 1971, p. 207, n. 11), senza però fornire nessuna giustificazione, salvo

quella strategica. 20 Per poco non saranno sorpresi da un trucco del genere subito dopo il disastro del 9

agosto: AMMIANO, Res Gestae, 31, 15, 7-9.

Page 21: Fusco Enrico

25

Giulie»21. Benché non motivino la loro interpretazione22, gli storici moderni

pensano forse a quanto successe a Ravenna nel 425, allorché Ardabur, fatto

prigioniero da Giovanni, riuscì a entrare in contatto con le truppe del figlio

all’esterno, a prezzolare la guarnigione ravennate e a consegnare così la città.

In realtà il confronto tra le situazioni del 378 e del 350 impone, se è corretto23,

di vedere nei difensori dei claustra non la schiera di Magnenzio, bensì quella

di Costante24 o di Vetranione25.

La proclamazione di Vetranione a Mursa fu i l punto di

partenza di una serie di trat tat ive diplomatiche, su l l e qu a l i non

21 AMMIANO, Res Gestae, 31, 11, 3: «Qui (Sebastianus) itineribus celeratis conspectus

prope Hadrianopolim obseratis ui portis iuxta adire prohibebatur, ueritis defensoribus ne

captus ab hoste ueniret et subornatus atque contingeret aliquid in ciuitatem perniciem

quale per Actum acciderat comitem quo per fraudem Magnentiacis militibus capto

claustra patefacta sunt Alpium Iuliarum». 22 Seeck (op. cit., IV, p. 115) sembra far dipendere per fraudem da capto e non

dall’insieme della frase o da patefacta sunt. 23 Gli abitanti di Adrianopoli temono che / Sebastiano (a) / preso dai Goti (b) / consegni

(c) / Adrianopoli (d) // come Atto (a’) / preso dai soldati di Magnenzio (b’) / ha

consegnato (c’) / i claustra (d’). In entrambi i casi è necessario che il traditore (a-a’) sia

stato «comprato» dal nemico (b-b’: i Goti o i soldati di Magnenzio) e che appartenga alla

schiera delle future vittime del tradimento: i Romani di Adrianopoli o i difensori (non di

Magnenzio) dei Claustra. 24 Non disponiamo di nessun’altra informazione su Atto; non è possibile dire se si tratti

di un comes di Costanzo (Seeck) invece che di Costante. D’altra parte Magnenzio non ha

dovuto attendere la morte effettiva di Costante per cercare di prendere il sopravvento in

Italia. Atto è forse stato sorpreso ad Aquileia e usato per impadronirsi dei Claustra,

verso cui sarebbe venuto come se restasse fedele a Costante? Va comunque ricordato che

nel 361-362 Aquileia resisterà oltre la morte di Costanzo II. 25 Se gli avvenimenti si verificano dopo il primo marzo.

Page 22: Fusco Enrico

26

mi soffermerò26. Mi limiterò a dire che i possedimenti iniziali di Costante

nell’Illirico passano in via definitiva a Costanzo II quando, il 25 dicembre del

350, Vetranione depone la porpora a Naisso27. Filostorgio, che attribuisce a

Vetranione ambizioni personali nascoste, dichiara che la posizione ambigua

dell’usurpatore fu risolta quando egli prese la decisione di occupare il passo di

Succi, che impediva a Costanzo l’accesso dalla Tracia. A tale proposito

rievoca «le gole delle Alpi Giulie», senza dire che a quel tempo erano sotto il

suo controllo e tacendo la località esatta di queste gole28.

Atrans come porta d’ingresso d’Italia

Forse si tratta del passo di Atrans29, che Costanzo cercherà di varcare

nella primavera del 351. Fu un insuccesso, tanto che le truppe di Costanzo

dovettero ritirarsi30 inseguite da Magnenzio, p r e s e n t e o r a s u l t e a t r o

26 Cfr. in particolare ZONARA, XIII, 7, 17-21; ZOSIMO, II, 44, 1-2; FILOSTORGIO, 3, 22;

PIETRO PATRIZIO, fr. 16; quadro d’insieme in J. SAŠEL, art. laud., p. 209. 27 Data presente nei Consul. Constant. (Ed. Mommsen, I, p. 238); la scena in Giuliano,

Zosimo ecc; il luogo in Girolamo (Chron. ad. a. 351 – p. 238). 28 FILOSTORGIO, Hist. eccles., 3, 24 (Ed. J. Bidez, GCS 21, p. 50, ll. 13-19). 29 Potrebbe trattarsi del Colle del Pero, ma non bisogna mai dimenticare che la Venetia

et Histria si estende, a nord delle Alpi Giulie, fino ad Atrans, a 45 km a est di Emona,

sulla via Emona-Celeia-Poetovio, luogo in cui si entra a tutti gli effetti, per il rilievo e

per il clima, nel bacino della Drava. L’Itinerarium Burdigalense (Ed. P. Geyer – O.

Cuntz, CC 175, p. 5) riporta: «Mansio Hadrante milia XIII – Fines Italiae et Norci»; la

Tabula Peutingeriana colloca prima di Atrans una stazione Ad Publicanos, altamente

significativa. Cfr. A. CALDERINI, op. cit., pp. 243-244. 30 Il nome di Adrana è indicato da Zosimo (II, 45, 3) in un racconto ingarbugliato e

palesemente errato. Giuliano parla nei suoi due discorsi (I, 28-29 e III, 36)

dell’insuccesso dell’avanguardia di Costanzo, presentato altrove come una trappola tesa

a Magnenzio (III, 7).

Page 23: Fusco Enrico

27

delle operazioni. Il vantaggio resta, grosso modo31, a favore di Magnenzio fino

alla fine di settembre e fino alla sanguinosa battaglia di Mursa, che graverà

pesantemente sulla debolezza dell’esercito romano, nel mezzo secolo a

venire32. La battaglia era stata troppo incerta e ottenuta a un prezzo troppo

elevato perché Cromazio, definito da Ammiano amministratore del sangue

delle truppe33, abbia cercato di far pendere definitivamente la bilancia dalla

propria parte. D’altronde l’anno era già inoltrato34 e Costanzo preferì lanciare

un’offensiva generalizzata contro tutto il Mediterraneo.

31 Per la testimonianza delle monete e in particolare per le emissioni di Siscia durante

l’estate del 351 cfr. P. BASTIEN, op. cit., pp. 18-19 e A. JELOČNIK, art. cit., p. 228; per il

piano della campagna J. SAŠEL, The Struggle cit., pp. 211-213. Mi sembra che gli eserciti

di Costanzo siano prima avanzati e si siano poi ritirati lungo le due valli della Drava e

della Sava; da qui il passaggio dalla Drava alla Sava (Siscia) lungo l’asse Poetovio-

Andautonia (a N-O di Siscia). Probabilmente Costanzo aveva provato a prendere Emona

da entrambi gli accessi. Confronta la campagna di Teodosio contro Massimo nel 388. 32 Sul disastro romano di Mursa: AURELIO VITTORE, De Caesaribus, 42: «in quo bello

paene nusquam amplius Romanae consumptae sunt uires totiusque imperii fortuna

pessumdata»; GIROLAMO, Chron. ad a. 351 (Helm, p. 238): «Magnentius Mursae uictus;

in quo proelio Romanae uires conciderunt». Zonara fornisce numeri impressionanti

(54.000 morti su circa 120.000 uomini) e dichiara che Costanzo piangerà sul campo di

battaglia cosparso di corpi (XIII, 8, 16-17). Il giudizio più dettagliato, interessante in

quanto illustra le conseguenze di quest’ecatombe sulla difesa delle frontiere, è dato da

Eutropio (Breu. X, 6): «Ingentes romani imperii uires ea dimicatione consumptae sunt ad

quaelibet bella externa idoneae quae multum triumphorum possent securitatisque

conferre». 33 AMMIANO, Res Gestae, 21, 16, 3: «in conseruando milite nimium cautus...». 34 La battaglia di Mursa si tiene il 28 settembre. Giuliano insiste su questo motivo (Or. I,

3, 38 b). Ciò solitamente basta perché lo si consideri insufficiente. Aurelio Vittore

(Caesar. 42, 5) rievoca l’hiems aspera clausaeque Alpes. L’autunno fu forse brutto in

quell’anno?

Page 24: Fusco Enrico

28

Magnenzio ad Aquileia

Mentre Costanzo festeggiava la vittoria facendo erigere un arco di trionfo

nella Pannonia35, restaurava le vie d’accesso verso l’Italia che doveva

conquistare36 e tentava di vincere le popolazioni dell’Illiria e d’Italia con varie

misure37, Magnenzio si trovava ridotto alla difensiva: da Aquileia sorvegliava

sia le vie delle Alpi Giulie, sia le coste del golfo dell’Adriatico, dove avrebbe

potuto aver luogo uno sbarco che lo avrebbe attaccato da dietro. Un certo

numero di misure e di avvenimenti relativi alla campagna del 352 ci è noto

grazie a due panegirici di Giuliano, da cui tuttavia non si può pretendere

un’obiettività assoluta38, specie nel descrivere l’attività di Magnenzio ad Aquileia.

Riguardo ad Aquileia, Giuliano dichiara che si tratta di una

«città voluttuosa e opulenta»39, un «mercato assai florido e

traboccante di ricchezze»40. Ma al quadro oggettivo si mescola la

35 AMMIANO, Res Gestae, 21, 16, 15; GIULIANO, Or., I, 30 (37 b). Su questo trionfo in

una guerra civile cfr. le mie Remarques sur la venue à Rome de l’empereur Constance II

en 357 d’après Ammien Marcellin, in Caesarodunum, 5, 1970, pp. 299 sgg. 36 Lavoro attestato nel miliare del CIL III, 3705 (ILS 732), datato 353, che rievoca

l’usurpazione: «... viis munitis, pontibus refecti[s], recuperata re publica, quinarios

lapides per Illyricum fecit ab Atrante ad flumen Savum milia passus CCCXLVI». Si

tratta dell’ingresso in «Italia»; Costanzo si vede elogiato in un territorio che possiede per

la prima volta. 37 GIULIANO, Or., I, 31 (38 b-c). Poiché la storia religiosa è relativamente ben nota, si

amplifica l’interesse di Costanzo per la «teologia», mentre egli si comporta da

imperatore romano, attento in egual misura agli aspetti religiosi e politici del suo

incarico. 38 Il primo panegirico risale alla fine del 356 – inizio del 357 (Or. I: Elogio di Costanzo).

Su alcune questioni è più preciso rispetto al Costanzo o sulla regalità (Or. III), datato

358-359. Ma in entrambi i casi bisogna tener conto sia del genere letterario, sia dei

rapporti molto particolari tra Giuliano e Costanzo. 39 GIULIANO, Or., I, 31 (39 d). 40 GIULIANO, Or., III, 17 (71 d).

Page 25: Fusco Enrico

29

volontà di dipingere il «tiranno» immerso nel lusso e nella dissolutezza. Da

buon filosofo, Giuliano descrive Magnenzio «in mezzo alle feste e ai

piaceri»41; sembra che questi sia occupato a guardare le corse all’ippodromo42,

quando gli arriva la notizia che Costanzo si è impadronito delle fortificazioni

del colle43.

La fortezza del Colle del Pero

È la prima volta nel IV secolo che appare la menzione di questi castra.

Giuliano dice esplicitamente che si trattava di un’«antica fortezza che il

tiranno scelse per la fuga, e che mise a nuovo con l’aiuto di nuove

fortificazioni»44. Stando a quanto afferma Giuliano, non si poteva «né piantare

un accampamento, né uno steccato a portata della fortezza, né far avanzare le

macchine da guerra e le elepoli»45. Ma i due racconti di Giuliano differiscono

quanto alla maniera in cui fu presa questa temibile fortezza. Nel secondo

racconto Costanzo non perse nemmeno un uomo durante l’attacco46. Nel

primo l’attacco avviene in due tempi: un assalto ebbe luogo alle prime luci

dell’alba, a partire da un «sentiero sconosciuto da tutti»47. Solo

quando il nemico è alle prese con questo commando, Costanzo fa avanzare il

grosso dell’esercito48. Manovra di accerchiamento, possibile se consideriamo

41 GIULIANO, Or., I, 31 (39 d). 42 Ibidem (39 c-d). Nel secondo discorso Giuliano riconosce che Magnenzio «si

allontanava poche volte» dalle fortificazioni (Or. 3, 17 – 71 d). 43 Secondo A. Degrassi (Il confine nord-orientale dell’Italia romana, Berne 1954, p.

140) si tratterebbe della fortezza di Ajdovščina, alle falde occidentali del Colle del Pero,

dove si terrà la battaglia del fiume Frigido. Ciò però contrasta con la descrizione di

Giuliano di una fortezza inaccessibile, senza neanche un filo d’acqua nelle vicinanze

(Or. III, 18-72 d). Così A. JELOČNIK, art. cit., p. 229 e n. 6. 44 GIULIANO, Or., III, 17 (71 c). 45 Ibidem, III, 18 (72 d). 46 Ibidem (73 a-b). 47 GIULIANO, Or., I, 32 (39 b). 48 Ibidem (39 b-c).

Page 26: Fusco Enrico

30

che Arbogaste nel 394 ne tenterà una – dello stesso genere? – contro Teodosio,

ma che cozza con la presentazione di una fortezza inaccessibile, specie per

gran parte dell’esercito49.

È qui che andrebbe collocata, secondo Seeck, l’allusione di Ammiano

Marcellino, che abbiamo visto collocata nel 350. Magnenzio e i suoi ufficiali

si sarebbero lasciati prendere da uno stratagemma già tentato contro Costanzo,

secondo il racconto di Zonara50: l’avvenimento si colloca dopo la sconfitta di

Mursa, senza ulteriori precisazioni. Non sappiamo chi fossero i vescovi che

Magnenzio mandò, senza successo, da Costanzo51. Fortunaziano di Aquileia

faceva forse parte della delegazione? È impossibile dirlo, come impossibile è

sapere in quale momento ottenne la fiducia di Costanzo. Zonara dice che molti

soldati di Magnenzio, di fronte all’avanzata dell’esercito di Costanzo, lo

abbandonarono e consegnarono le piazzeforti (φρούρια) in cui si trovavano52,

ma la reazione attribuita a Magnenzio lo mostra in Gallia, sicché è impossibile

sapere in quale posto e in quale preciso momento si collochino tali defezioni e

se queste riguardino la frontiera delle Alpi Orientali e la città di Aquileia, che

Magnenzio non lasciò prima della fine dell’estate del 35253.

49 Si può pensare che il commando abbia interrotto le comunicazioni del forte con

Aquileia e che, non potendo più essere soccorsi, i difensori abbiano preferito capitolare.

Anche il denaro e le promesse hanno fatto il loro dovere. 50 ZONARA, XIII, 8, 20. 51 Ibidem, XIII, 8, 21-22. 52 Ibidem, XIII, 8, 23. 53 Il 27 maggio 352 Costanzo è ancora a Sirmio secondo C. Theod. VII, 1, 2, risalente

allo stesso anno. La prima misura che presuppone la sua presenza in Italia

ha come data il 26-9-352 (Cronogr. del 354; Ed. Mommsen, Chron. Min. I, p. 69); P.

Bastien (op. cit., pp. 68-69) e A. Jeločnik (art. cit., p. 230 e n. 2) collocano quindi la

presa di Aquileia a inizio settembre, il che mi sembra plausibile, ma come data

limite, perché Magnenzio nomina Settimio Mnasea alla Prefettura della città il

9 settembre, s e c o n d o i l C r o n o g r a f o d e l 3 5 4 ( M O M M S E N , C h r o n .

Page 27: Fusco Enrico

31

La spedizione marittima

Se Magnenzio fu colto di sorpresa e non si trovava né a Emona54 né al

Castellum alpino, bensì ad Aquileia, non era solo per stare, da bravo

imperatore, in mezzo al suo popolo all’ippodromo55. Il soggiorno ad Aquileia

è dovuto alla volontà di opporsi a un’operazione marittima di Costanzo56. A

tale proposito vorrei fare un’osservazione, che andrebbe ripetuta ogni qual

volta Aquileia vedrà affrontarsi nei suoi paraggi truppe romane (intendendo

cioè le truppe di due contendenti romani all’Impero), riguardante il

coordinamento di una spedizione terrestre e di una manovra marittima. È forse

quello che differenzia maggiormente le guerre civili dalle incursioni barbariche:

i barbari non possiedono nessuna flotta fino alla metà del V secolo circa57. Partita la

campagna contro Magnenzio, Costanzo lancia la sua flotta contro l’Italia, l’Africa,

Min., I, p. 69 – A. CHASTAGNOL, op. cit., p. 422). Le ultime emissioni monetarie di

Aquileia sarebbero cominciate nel luglio del 352 (A. JELOČNIK, Quelques remarques sur

les émissions de Maiorinae frappées par Magnence à Aquilée, in «R. Num.», 1967, p.

251). Come si spiega, però, che Magnenzio non abbia cercato di resistere ad Aquileia,

che viene descritta come una città inespugnabile? Oltre al timore di essere accerchiato

dalla spedizione marittima di cui si parlerà qui di seguito, mi domando se non si debbano

chiamare in causa gli avvenimenti occorsi in Gallia, dove, dopo le vittorie rievocate

dall’emissione in argento Triumfator gentium barbarorum (BASTIEN, p. 63 – Catal. n.

346), avviene la cruenta invasione del 352 (J. SCHWARTZ, Trouvailles monétaires et

invasions germaniques sous Magnence et Décence, in «Cahiers alsaciens d’archéologie,

d’art et d’histoire», 33, 1957, pp. 33-49). 54 La città è troppo poco fortificata per resistere a un lungo assedio. 55 Non è infatti per gusto personale, ma per dovere nei confronti della sua carica, che

Magnenzio si trova all’ippodromo; ci si può chiedere se l’ora indicata – mezzogiorno –

non sia scelta da Giuliano per screditare Magnenzio. 56 Giuliano cita le spedizioni contro la Sicilia, contro l’Africa e contro le foci del Po (Or.

III, 1974 c-d). 57 Prima menzione nel Cod. Theod., 9, 40, 24, con data 24-9-419, di punizioni nei

confronti di coloro «qui conficiendi naues incognitam ante peritiam barbaris

tradiderunt», sul Ponto Eusino.

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32

la Spagna, ma innanzitutto contro l’Alto Adriatico, descritto due volte da

Giuliano58. Nel 387 è la flotta che permette a Valentiniano II di sfuggire a

Massimo; vedremo in seguito l’importanza della spedizione marittima del 388

contro Massimo. Si comprende allora che Stilicone, nel 408, ha chiuso i porti

d’Italia59, cominciando probabilmente da quello di Aquileia, per impedire

l’accesso alla flotta orientale; capiamo inoltre perché Attalo, nel 409-410, fece

di tutto per non consegnare ad Alarico la flotta che gli avrebbe consentito di

passare in Africa60. Il pericolo barbaro, fino al 440 per l’Italia occidentale e

fino a molto più tardi per l’Adriatico, giungerà solo via terra; si profila così il

destino di Aquileia, che la condurrà su di un’isoletta difficile da raggiungere

dall’interno, pur permettendole di rimanere in qualche modo quel «mercato di

mesici, di pannonici e di italiani dell’interno» che Giuliano ritrae in piena

attività nel secondo Panegirico di Costanzo61. Ciò che ha fatto l’opulenza di

Aquileia e l’ha trasformata in granaio per gli eserciti, in centro di scambio per

i vari commerci e in quartier generale per unire le operazioni terrestri e

marittime fa anche la sua disgrazia, attirando verso di essa le incursioni

barbariche, che iniziano a moltiplicarsi in questa metà di secolo.

Guerre civili e invasioni barbariche

Giuliano paragona l’irruzione delle truppe di Magnenzio in Italia e verso

Aquileia a una vera e propria invasione barbarica. Alle fila dell’esercito

dell’usurpatore, infatti, si sono uniti non soltanto i Celti e i Galli, ma

anche i Franchi e i Sassoni62. Questo esercito fa «tremare gli Illirici, i

Pannonic i , i Trac i , g l i Sci t i e l ’Asia s tessa» 63, f a c e n d o t e m e r e

58 GIULIANO, Or., I, 31 (38 d); III, 17 (72 d). 59 Cod. Theod., VII, 16, 1. 60 ZOSIMO, Hist. nov. 6, 12. 61 GIULIANO, Or., III, 17 (71 d). 62 GIULIANO, Or., I, 28 (34 d). 63 Ibidem (35 b-c).

Page 29: Fusco Enrico

33

una nuova invasione gallica64. Ma oltre al riferimento storico al tumultus

gallicus e al desiderio di trasformare Magnenzio nel capo di un esercito

barbaro, c’è dell’altro. Giuliano rimprovera a Magnenzio di aver utilizzato

contro l’Impero «i preparativi che aveva messo in atto contro i barbari»65 e

soprattutto di aver evacuato «dalle loro guarnigioni tutte le città e le fortezze

vicine al Reno e di averle consegnate, senza difese, ai barbari»66. Non sarà

l’ultima volta in cui constateremo la coincidenza tra guerra civile in Italia e

attacco barbarico sul Reno, nonché sul Danubio. Ma su Costanzo grava

un’accusa che sarà ribadita dallo stesso Giuliano, seppure dopo l’usurpazione

del 360: quella di aver provocato l’attacco degli Alamanni contro Magnenzio,

in Alsazia e nel Palatinato. Se l’accusa è fondata, gli avvenimenti che riguarda

– e che in ogni caso hanno avuto luogo, a prescindere dall’origine – mettono

in luce un fenomeno che comparirà più volte nel secolo successivo: il

collegamento tra il Danubio e il Reno attraverso la Baviera e la Svevia e le

ripercussioni in una delle due regioni di tutto quel che riguarda l’altra, con

conseguenze immediate sull’Italia settentrionale, se non addirittura sulla

regione di Aquileia.

II. AQUILEIA DAL 352 AL 375

Spostamento degli assi strategici

Paradossalmente, infatti, Aquileia si ritroverà al sicuro dalle minacce barbariche per

un quarto di secolo. Cionondimeno, da circa due secoli, il pericolo barbaro non è mai

troppo lontano e dopo la tetrarchia non è più stato possibile sguarnire né le

64 Ibidem (34 c-d). 65 Ibidem, I, 27 (34 b-c). 66 Ibidem, I, 28 (c. 35 a).

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34

rive del Danubio, né le alte valli alpine. Al contrario, una pressione sulla

Raetia si rivela in diverse occasioni un modo per alleggerire l’attacco dei

barbari sul Reno. Vediamo così che Costanzo attacca, nei pressi del Lago di

Costanza67, gli Alamanni Lentiensi nel 355, più a nord nel 35668 e più a est gli

Iutungi nel 35769. Nello stesso anno Costanzo deve lasciare Roma a fine

maggio, per rispondere a un attacco degli Svevi nella Raetia, dei Quadi nella

Valeria e dei Sarmati nella Mesia Superiore e nella Pannonia II70. Passa per

Trento, racconta Ammiano, fortifica le vie d’accesso alla Raetia71, prima di

raggiungere Sirmio attraverso la Pannonia72.

Vale la pena fermarsi un istante per segnalare un fatto frequente nel corso

del secolo: Aquileia non è più un punto di passaggio obbligato tra est e ovest,

e viceversa73. È del tutto normale che l’Imperatore, da Ravenna, abbia

raggiunto la Raetia attraverso la valle dell’Adige. Ma lo vediamo poi seguire il

Danubio per raggiungere, attraverso la Pannonia I e la Valeria, la città di

Sirmio, dove trascorre l’inverno74. Lo stesso vale per Giuliano, quando lascia

la Gallia nel 360, segue il Danubio e coglie di sorpresa Sirmio. Non credo

abbia considerato in quel momento Aquileia e i claustra dell’Illirico un

ostacolo75. La lunga resistenza di Aquileia fu quasi inaspettata. La spedizione

di Giuliano mostra che la via di Costantinopoli verso la Gallia settentrionale passa

67 AMMIANO, Res gestae, 15, 4. 68 Ibid., 16, 12, 15-16. 69 Ibid., 17, 6. 70 Ibid., 16, 10, 20. 71 Ibid., 17, 13, 28. 72 Ibidem. 73 Questo corridoio di penetrazione verso il Reno sarà usato dai Vandali nel 405-406 e da

Attila nel 450-451. 74 AMMIANO, Res gestae, 17, 17, 1. 75 Memore degli errori di Magnenzio, Giuliano voleva evitare quanto accaduto a Mursa

nel 350. Da qui la fretta di impadronirsi di tutta quella parte dell’Impero che non era di

sua competenza.

Page 31: Fusco Enrico

35

ora più a nord, il che è attestato più volte. Ma tale situazione non durerà a

lungo, perché il pericolo barbaro riporterà viaggiatori e soldati sulla via più

meridionale.

Giuliano e Aquileia

L’importanza strategica di Aquileia è indicata chiaramente da Ammiano e

riconosciuta da Giuliano. Quando questi viene a sapere, a Naisso, che le

truppe trasferite dall’Illirico in Gallia si sono fermate ad Aquileia, invia

immediatamente il comandante di cavalleria Giovino, perché, come informa

Ammiano, «sapeva, grazie alle letture e a quanto gli era stato detto, che la città

era stata più volte invasa, ma non era mai stata presa, né si era mai arresa»76.

La situazione avrebbe potuto prendere una brutta piega per Giuliano, se si

fosse seguito l’esempio di Aquileia77 e se il nuovo Augusto fosse stato

bloccato nella Pannonia o nella Mesia, mentre gli eserciti di Costanzo

marciano a est, verso il Passo di Succi, e a ovest, attraverso il Colle del Pero78.

In ogni caso, ancora una volta Aquileia non smentì la sua fama e non fu presa,

nonostante i vari assalti e i tentativi che si susseguirono contro di essa79.

Bisogna pensare a questa fama per comprendere l’emozione con cui un giorno

si acclamerà la presa e la distruzione. Ma ci vorranno quasi due secoli, durante

i quali, fortunatamente, le ondate barbariche non oltrepasseranno, per lo meno

non tutte, i colli delle Alpi Giulie.

Minacce sul Danubio

Il primo grave allarme si registrò nel 373. Nel narrare la rivolta dei Quadi e dei Sarmati,

Ammiano sottolinea come questi popoli avessero fortunatamente perso parte del loro

76 AMMIANO, Res gestae, 21, 12, 1. 77 Ibid., 21, 11, 3. 78 Ibid., 21, 12, 21-22. 79 Il lungo racconto è offerto solo da Ammiano (21, 12, 4-20). Non mi soffermerò su

questo punto.

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potere e rievoca l’assedio di Aquileia e il sacco di Opitergium, sotto Marco

Aurelio, il che permette di intuire uno dei precedenti storici scoperti da

Giuliano nelle sue letture80. Ad ogni modo la minaccia doveva essere seria,

giacché si arrivò quasi a evacuare Sirmio81 di fronte all’avanzata del nemico,

che alla fine cambiò rotta verso la Valeria82. Ignoriamo completamente quello

che accadde l’anno successivo e non abbiamo nessuna informazione riguardo

a ciò che successe nell’Illirico occidentale nel 375-377. La gente di Aquileia

ha forse visto passare le truppe di Tribigildo, che venivano in soccorso della

Tracia83? Deve aver visto arrivare i Taifali prigionieri, sistemati nella regione

«di Modena, di Reggio (Emilia) e di Parma»84. Poco dopo arrivarono i

profughi, che fuggivano l’avanzata dei Goti, degli Unni e di tutte le tribù

messe in moto per la traversata in massa del Danubio inferiore85.

III. LA PROTEZIONE DELL’ITALIA ORIENTALE

SOTTO GRAZIANO E VALENTINIANO II Il dopo-Adrianopoli

Conosciamo i famosi testi di Ambrogio del 378 e del 379 e quelli

di poco successivi di Girolamo86: «Gli Unni si sono scagliati contro

80 AMMIANO, Res gestae, 29, 6, 1. 81 Ibid., 29, 6, 9. 82 Ibid., 29, 6, 12. 83 Ibid., 31, 7, 3. 84 Ibid., 31, 9, 4. 85 Vediamo insediarsi i profughi illirici nella regione di Imola, secondo l’Ep. 2, 28 di

Ambrogio a Costanzo (da Claterna?). 86 GIROLAMO, In Sophoniam, 1, 2-3, nel 391-392, sulla Tracia, sull’Illirico e sulla

regione natale; De uiris, 135, nel 392, su Stridone; Ep. 60, 16, nel 396, sui vari disastri,

dalla Tracia alle Alpi Giulie. Nuovo grido di dolore nel 406, sulla decadenza diffusa

dalla Propontide e dal Bosforo fino alle Alpi Giulie (In Osee, I, 4, 3).

Page 33: Fusco Enrico

37

gli Alani, gli Alani contro i Goti, i Goti contro i Taifali e contro i Sarmati; noi,

in Illiria, siamo stati esiliati dalla nostra patria dai Goti esiliati. E non è ancora

finita. Carestia ovunque, peste bovina e umana; tanto che, senza aver subito la

guerra, la peste ci ha resi simili a un paese conquistato!»87. All’inizio del 379,

di fatto, Ambrogio conosce a Milano le vie dell’invasione: dalla Tracia un

«diluvio», come dirà poco dopo Pacato88, si è diffuso su tutto l’Illirico,

seguendo il Danubio attraverso la Dacia Ripensis, la Mesia, la Valeria, fino

alla Pannonia89, per raggiungere, informa Ammiano, «i piedi delle Alpi Giulie,

che gli Antichi chiamano Venete»90. All’inizio del 379 Ambrogio nutre

fiducia nell’azione di Graziano, che «ha protetto l’Italia»91; ma qualche mese

prima non era così, quando Ambrogio pronunciava l’orazione funebre

del fratello Satiro92. Questi era rientrato dall’Africa a Roma non appena

87 AMBROGIO, In Lucam, X, 10. 88 PACATO, Pan. lat., XII (II), 3, 3. 89 AMBROGIO, De fide, II, 140 – Su questa data cfr. P. NAUTIN, Les premières relations

d’Ambroise avec l’empereur Gratien: Le De fide, livres I et II, in Ambroise de Milan,

XVIe centenaire de son élection épiscopale, Dieci studi riuniti da Y.M. Duval, Paris

1974, pp. 231 sgg. 90 AMMIANO, Res gestae, 31, 16, 7. Il che non significa che tutte le città furono prese.

Mursa capitola (Ep. Nisi Clementiae di Massimo a Valentiniano II nel 386 – Coll.

Avellana I; Ed. O. Günther, CSEL 35, p. 89, ll. 21-26), ma non Sirmio (AUSONIO,

Gratiarum actio, 42) né, a quanto pare, Poetovio (R. EGGER, Die Zerstörung Pettaus

durch die Goten, in Jahresh. d. österr. Inst. In Wien, 18, Beiblatt, 1915, pp. 253-266).

Sulla decadenza della Pannonia a partire da questo periodo cfr. A. MÓCSY, art. cit., p.

350. 91 AMBROGIO, De fide, II, 1942 (Ed. O. Faller, CSEL 78, p. 107): «(Italia) quam dudum

ab hoste barbaro defendisti, nunc etiam uindicasti». Contrariamente a quanto dice Faller

(ad. loc.) non si tratta della campagna di Graziano contro gli Alamanni Lentiensi, bensì

della difesa delle Alpi Giulie e successivamente dell’offensiva ripresa contro i Goti. 92 È nel 378 e non nel 374 che va collocata la morte di Satiro e la sua Orazione funebre.

Cfr. O. FALLER, CSEL 73, pp. 81-88.

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38

riaperti i porti e, nonostante i consigli di Simmaco, che era già a conoscenza

delle minacce incombenti sull’Italia settentrionale93, era arrivato a Milano,

dove sarebbe morto di lì a poco. Durante la sua ultima malattia Ambrogio gli

fa esprimere il suo timore di fronte all’avanzata del nemico, con tutto il

seguito di saccheggi e di atrocità, nonché l’inadeguatezza della fortificazione

dei passi alpini, unico rimedio contro l’avanzata dei barbari94.

Ci troviamo, pare, ad Aquileia e nelle Alpi Giulie, e non nei colli della

Raetia, dato che l’asse d’attacco degli Alamanni Lentiensi era rivolto a ovest

e a nordovest, e non verso sud95. Possiamo così intuire che fu attuata la

difesa delle Alpi Giulie e che la cittadina di Aquileia dovette stare all’erta

dopo il 377, a fortiori dopo il crollo di Adrianopoli. Nonostante le vittorie

riportate nel 37996 e nel 38097, l’insicurezza regnerà ormai sovrana oltre le

montagne. Le testimonianze che ci sono giunte fanno il conto dei danni, in

termini di uomini da riscattare, di città distrutte, di campagne devastate e

mezze rovinate, di regioni abbandonate dai funzionari nelle quali è

imprudente spingersi.

Il foedus di Graziano in Pannonia

C iononos t an t e l a v i t a ha r i p re so , i n t u t t i i t e r r i t o r i , neg l i

a n n i 3 8 0 e s e g u e n t i , g r a z i e n o n s o l t a n t o a l t r a s f e r i m e n t o

93 AMBROGIO, De excessu fratris, I, 32 ad f. 94 AMBROGIO, De excessu fratris, I, 31 (Ed. O. Faller, CSEL 73, pp. 226-227): «Nam qui

eras sanctae mentis misericordia in tuos, si nunc urgeri Italiam tam propinquo hoste

cognosceres, quantum ingemisceres, quam doleres in Alpium uallo summam nostrae

salutis consistere lignorumque concaedibus construi murum pudoris!». 95 AMMIANO, Res gestae, 31, 10, 4: «(Lentienses) conferti in praedatorios globos,

Rhenum gelo peruium pruinis...». Il Reno alpestre non ha bisogno di essere ghiacciato

per essere attraversabile. 96 SIMMACO, Ep. I, 95, 2: Consul. Constant., ad a. 379 (Ed. Mommsen, Chron. Min., I, p.

243). 97 Consul. Constant., ad a 380 (Ed. Mommsen, Ibid., p. 243 c).

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39

di Teodosio in Oriente e alla «riconquista» quanto meno della Tracia, se non

addirittura di tutti i Balcani, al di qua dei quali s’insediano i Goti, dopo il

foedus del 382. Questo, com’è noto, è stato preceduto da un altro patto,

firmato da Graziano, che consente l’insediamento degli Ostrogoti e degli Unni

nella Pannonia, vale a dire molto più vicino alle nostre Alpi Giulie e sempre al

di qua del Danubio98. Bisogna forse pensare che questi popoli raggiungano in

quegli anni la città di Iovia, che Egger collega al vescovo Amanzio, la cui

pietra tombale è stata trovata proprio qui, e di cui viene detto che fu «degno di

essere voluto da un popolo straniero», che fece conoscere la fede cristiana «a

due capi, guidandoli con i suoi consigli» e si trovò «alla testa di un doppio

popolo (binis populis), per due volte dieci anni» (bis denis)99? Non credo si possa

98 Spesso viene taciuto questo foedus di Graziano, attestato in Zosimo (Hist. nov., 4, 34,

1-2) e in Giordane (Getica, 140-141), i quali mettono entrambi in relazione il trattato con

la malattia di Teodosio, che ha posto fine ai successi del 379-380. Cfr. L. VARADY, op.

cit., p. 36. 99 CIL V, 1623 – R. EGGER, Amantius Bischof of Iovia, in «Jahreshefte des österr.

Archäolog. Institutes in Wien», 21-22, Beiblatt, 1922-24, pp. 327-341, seguito da L.

VARADY, Das letze Jahrhundert Pannoniens (376-476), Amsterdam 1969, pp. 168 sgg.

Si pongono numerosi problemi. Il primo riguarda la sede di Amanzio, presente ad

Aquileia nel 381. Come si può immaginare per un nome proprio e per una tradizione

manoscritta molteplice, l’accordo è lungi dall’essere unanime. Egger si è basato sul

Paris. 8907 e sui relativi manoscritti per difendere la grafia Ioviensium e proporre la

borgata di Iovia; ma la tradizione più comune riporta Nicensis o Niciensis, il che rimanda

a Nizza. F. Quai, riprendendo un’ipotesi degli scopritori dell’epitaffio di Amanzio,

confida in una deformazione paleografica del nome della città e suggerisce di leggere

Iuliensium, ovvero Iulium Carnicum, l’attuale Zuglio. Per difendere Nizza anche J.R.

Palanque (Saint Ambroise et l’Empire romain, Paris 1933, p. 82, n. 16) si basa sulla

località di Amanzio, dopo i nomi dei vescovi di Orange, di Octodurum e di Grenoble (PL 16, c. 939

B-C). È pur vero che l’ordine d’intervento durante la seduta del 3 settembre è analogo (§ 62-64 – c.

935 C – 936 A), ma è difficile vedere una ripartizione strettamente geografica in questi elenchi, in

cui sono in gioco gli ordini di varie prerogative. L’elenco dei partecipanti (§ 1 – c. 916 A-B)

Page 36: Fusco Enrico

40

identificare questo Amanzio con colui che tiene la cattedra episcopale

di Aquileia nel 381100; pertanto l’identificazione proposta da Egger dei

«due capi» con Alateo e Safrace, capi degli Ostrogoti nella battaglia

non presenta lo stesso ordine di quello delle firme; a sua volta questo è diverso dalla fine

della Sinodale Benedictus Deus (AMBROGIO, Ep. X), per la quale il Par. 8907, fol. 339-

332 (KAUFFMANN, pp. 37-38) fornisce un elenco di firme non pubblicato (l’elenco

comprende qualche nome sconosciuto). D’altra parte Iovia (l’attuale Felsöheténypuszta,

secondo J. Harmatta, art. cit., p. 368, n. 10), piccolo borgo a est di Poetovio, sulla via di

Mursa, non avrebbe altre testimonianze, oltre a questa, della presenza di un vescovo.

Nessun vescovo attestato nemmeno a Iulium Carnicum, prima della fine del V secolo.

Per quanto riguarda Nizza, se la sede è attestata solo dopo il celebre Concilio di Orléans

del 549, in cui un prete rappresenta «il vescovo di Cimiez e di Nizza» (Ed. Ch. de

Clercq, CC 148 A, p. 160), il «porto di Nizza» è rappresentato al Concilio di Arles del

314 da un diacono e da un esorcista (Ed. Ch. de Clercq, CC 148, p. 14, 16 ecc), alla

stregua di altre sedi episcopali. Tuttavia conosciamo le metamorfosi delle due sedi nel V

secolo, sotto Leone e sotto Ilario (L. DUCHESNE, Fastes épiscopaux de l’Ancienne Gaule,

t. I, Paris 1907, pp. 296-297). L. Duchesne, che non esita a riconoscere nell’Amanzio del

381 un vescovo di Nizza (Ibid., p. 296), fa tuttavia notare come, vista la dipendenza di

Nizza nei confronti di Marsiglia, la presenza o l’assenza di un rappresentante di Nizza a

un Concilio sia legata a quella del vescovo di Marsiglia, sempre assente, in realtà, nei

Sinodi in cui interviene il vescovo di Ales. Le lacune riguardanti i titolari di Nizza

sarebbero quindi giustificate, mentre per Iovia potrebbe essere invocata solo la fine

dell’impresa romana. Stupisce dunque che Varady abbia riposto tutta questa fiducia in

Amanzio e in Iovia. Nessuno dei suoi recensori, che riprendono tutti questo problema

(HARMATTA, p. 365; NAGY, p. 331; MÓCSY, p. 355), sembra riconoscere la fragilità dell’ipotesi.

«Molto incerta», asseriva L. Schmidt (Die Ostgermanen, II ediz., München 1934, p. 261). 100 L’interpretazione di F. Quai (La sede episcopale del Forum Iulium Carnicum, Udine

1973, pp. 35-85), se può essere sostenuta sul piano paleografico, non regge quando

propone di riconoscere in Amanzio colui che avrebbe portato le Sinodali ai due

imperatori (in realtà a quel tempo sono tre, fino al 383), presentando le conclusioni con

buon senso (p. 59), e colui che sarebbe stato vescovo, prima di Iulium Carnicum, poi di

Como, per vent’anni da ambo le parti (pp. 61-62). Si fa fatica a immaginare il

trasferimento di un vescovo viste le condizioni canoniche dell’epoca, senza contare le

altre difficoltà.

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41

di Adrianopoli, di cui sappiamo che hanno raggiunto l’Illirico occidentale,

diventa problematica101. Ma la menzione dei «due popoli» corrispondenti ai

«due capi» lascia chiaramente intendere che ci troviamo di fronte a due

popolazioni barbare, e non semplicemente a una comunità composta sia da

Romani sia da barbari102. In particolare, a fortiori, se Amanzio era davvero

originario di Aquileia103, abbiamo in quest’epitaffio una prova, forse, del ruolo

svolto da Aquileia nell’evangelizzazione dei nuovi arrivati, e sicuramente dei

legami intercorsi con i vicini più o meno lontani, per i quali, al tempo in cui ci

troviamo, cristianizzazione e romanizzazione andavano di pari passo. Il caso

mi sembra analogo a quello della regina dei Marcomanni, negli anni 395-397:

il marito di Fritigilde ha organizzato la difesa sulle sponde del Danubio alpino,

difesa che, dietro cessione territoriale, è stata affidata da Graziano ai

contingenti che, nel 378-379, come viene detto, avevano raggiunto i piedi

delle Alpi Giulie.

Graziano e la frontiera nordorientale dell’Italia

Non bisogna dimenticare che l’insediamento degli Ostrogoti e degli

Unni nell’Illirico è collegato alla minaccia sul Reno, che si era fatta

sentire già nel 378 e che si ripresenterà, in vari punti del Reno e

dell’Alto Danubio, nel decennio successivo. Si spiega così l’andirivieni

101 AMMIANO, Res gestae, 31, 12, 17; ZOSIMO, Hist. nov., 4, 34. 102 Come suggerisce E.A. Thompson (Christianity and the Northern Barbarians, in The

Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, by A. Momigliano,

Oxford s.d. (1963), p. 66, n. 3). 103 Come sembra suggerire la menzione della plebs aliena. Solo la data è in dubbio; si è

indecisi tra il 398 (Egger) e il 413, date che appartengono entrambe a un’indizione XI.

Egger stabiliva un nesso tra quest’epitaffio e il ripiegamento delle comunità dinanzi

all’invasione di Alarico. L’ipotesi è verosimile, a prescindere dal luogo, purché sia

situato o a nord, o a est di Aquileia.

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42

di Graziano, dal 380 al 383, tra Treviri, Milano, Aquileia e Sirmio. Questo

viavai ha come scopo sia quello di sorvegliare l’insediamento – il che

presuppone espropriazioni104, approvvigionamenti ecc. – sia quello di far

fronte a nuove minacce e contenere l’attacco di questi «federati», che

potrebbero voler avanzare ancora. Diverse nuove incursioni hanno luogo nella

Raetia, cosicché Aquileia si ritrova nelle immediate vicinanze di due pericoli,

andando forse a costituire l’obiettivo delle due vie d’invasione. Se ritroviamo

Graziano ad Aquileia nel maggio105 e nel dicembre 381106, egli non ha

trascorso lì l’estate, e non mi pare verosimile che si sia trovato ad Aquileia a

inizio settembre, mentre si teneva il Concilio di Aquileia: allora doveva essere

in spedizione nella Raetia o nell’Illirico107. In ogni caso lo vediamo prendere

la via dell’Illirico nella primavera del 382, quando lascia Milano108 per

trovarsi poi a Viminiacum ai primi di luglio109, il che fa supporre che la

campagna sia stata concertata con Teodosio110 e che s’inserisca nel contesto

del foedus del 382. L’anno successivo troviamo Graziano a Verona, a

metà giugno111. Questa presenza si ricollega alle affermazioni di

Ambrogio riguardo a un’incursione di barbari affamati nella Raetia II112,

104 Da qui l’allusione di Ambrogio ai «Romani esiliati dai Goti esiliati». 105 Cod. Theod., XV, 7, 7 e 8, dell’8 maggio. 106 Ibid., XI, 1, 18, del 26 dicembre. Varie costituzioni invece non riportano nessuna

indicazione di luogo. 107 Palladio avrebbe richiesto che l’Imperatore venisse informato se questi era stato

presente ad Aquileia il 3 settembre. 108 Cod. Theod., XII, 12, 9: Graziano è a Brescia il 10 maggio. 109 Cod. Theod., I, 10, 1 e XII, 1, 89, del 5 luglio. Il 22 novembre è nuovamente a Milano

(Cod. Theod., I, 6, 8). 110 Cod. Theod., XI, 16, 15, del 9 settembre 382, rievoca, con tutta una serie di misure e

di privilegi, l’expeditio Illyrica. 111 Cod. Theod., I, 3, 1, dopo essere avanzato fino a Padova, gli ultimi dieci giorni di

maggio. 112 AMBROGIO, Ep. 18, 21: «secunda Rhetia fertilitatis suae nouit inuidiam. Nam quae

solebat tutior esse ieiunio, fecunditate hostem in se excitauit».

Page 39: Fusco Enrico

43

mentre la Pannonia conosce raccolte abbondanti e, dichiara Ambrogio,

«vendeva il grano che non aveva seminato»113, probabilmente perché i barbari

che vi abitavano erano stati – temporaneamente – scacciati.

Valentiniano II e la frontiera nordorientale

A prescindere dal senso di quest’ultima frase, mi sembra che sia il

proseguimento della politica di Graziano che bisogna vedere negli

spostamenti di Valentiniano II verso est114, in particolare verso Aquileia,

durante le estati che vanno dal 384 al 387. Di fatto sappiamo che gli Iutungi

113 Ibid. Sull’interpretazione di L. VARADY, op. cit., pp. 39-41, cfr. J. HARMATTA, art.

cit., p. 367; A. MÓCSY, art. cit., pp. 43-44 e la ripresa più prudente di VARADY,

Pannonica, p. 265. L’Ambrosiaster, che scrive sotto Damaso e, stando a quel che

conosce Girolamo della sua opera, verso la fine, sembra, del pontificato, non prende

forse di mira la carestia del 383, quando attacca la concezione del fatum dei pagani:

«Ecce scimus fame laborasse Italiam et Africam, Siciliam et Sardiniam. Dicant

mathematici si omnes hi unum fatum habuerunt (...)? Erubescant et taceant, et Deo

subplices manus tendant in cuius potestate sunt omnia! Sed hoc forte subreptum est

fatis? Qui dicemus de Pannonia quae sic erasa est ut remedium habere non possit?»

(Quaestio 115, 49 – Ed. A. Souter, CSEL 50, p. 334, ll. 11-17)? 114 Non credo, come neppure V. Grumel (L’Illyricum de la mort de Valentinien I – 375 –

à la mort de Stilicon – 408 –, in REByz. IX (1951), p. 16, n. 5), che Teodosio sia giunto

fino a Verona nell’estate del 384: è materialmente impossibile che Teodosio, che si trova

a Eraclea il 25 luglio (C. Theod., XV, 9, 1), sia a Verona il 31 agosto (C. Theod., XII, 1,

107) e soprattutto che sia nuovamente a Costantinopoli il 16 settembre (C. Theod., VII,

8, 3). Bisogna quindi pensare a una corruzione del luogo di origine; il pensiero va, con

Godefroy (Comm. ad., XII, 1, 107; t. IV, Leipzig, 1740, p. 478, n. «i», che rinvia alla

Tabula Peutingeriana dove, di fatto, Verona è indicata come Beroea), a Berea di Tracia,

dove Teodosio sorveglia la via dell’importantissimo colle di Šipka, porta del Grande

Balcano. Il che non implica che non vi fosse con Massimo un accordo, esplicitamente

menzionato da Pacato (Pan., 30, 1) e da Zosimo (Hist. nov., IV, 37, 5). Sulla data cfr. A. CHASTAGNOL

Page 40: Fusco Enrico

44

devastarono i Rezi115 e che furono mobilitati contro di loro, alle loro spalle, gli

Unni e gli Alani116. Si andò oltre l’effetto sperato, poiché i tumulti causati

dall’avanzamento degli Unni e degli Alani furono tali che le ripercussioni si

fecero sentire sul Reno e si dovette dirottare gli invasori verso nord117.

D’altronde è noto che nel 384 Bautone riporterà più a est una vittoria sui

Sarmati, che gli valse il consolato nel 385118. L’estate di quell’anno (385) la

passa nuovamente lontano da Milano119; ritroveremo il giovane imperatore ad

Aquileia nell’estate del 386120. Ritornato a Milano, adotta alcune misure

contro i procuratori delle miniere della Macedonia, della Dacia Inferiore, della

Mesia e della Dardania, che, con la scusa del pericolo barbaro, non si

trovano al proprio posto121. Il pericolo esisteva, benché non fosse

particolarmente grave e minaccioso. Se negli anni 385 e 386

Valentiniano II si era già allontanato da Milano per paura di Massimo,

come sostiene Seeck122, mentre Ambrogio mette in guardia il giovane

imperatore dalle intenzioni dell’usurpatore, che di pacifico hanno solo

(in Les empereurs romains d’Espagne, Paris 1965, p. 264), che fornisce

un’argomentazione a silentio molto importante contro un accordo nell’agosto del 384.

Bisognerebbe scendere di 6-8 mesi. 115 AMBROGIO, Ep. 24, 8. Gli Iutungi approfittano della controversia interna. 116 Ibidem. 117 Ibid., 24, 8. 118 SIMMACO, Relat. 47. 119 Il 4 agosto Valentiniano II è a Verona e passa la fine dell’anno ad Aquileia. 120 Il 20 aprile (Cod. Theod., XIII, 5, 17) è ad Aquileia; ma è ritornato a Milano il 6

giugno (Cod. Theod., VI, 35, 13). 121 Cod. Theod., I, 32, 5, del 29-7-386. 122 O. SEECK, op. laud., V, p. 202, secondo cui il viaggio del 385 è motivato dalla paura

nei confronti di Massimo e Valentiniano ritorna a Milano nel cuore dell’inverno, quando

le vie delle Alpi sono chiuse. Secondo Palanque l’allontanamento da Milano è dovuto

alla questione ariana (op. cit., p. 145 e n. 35).

Page 41: Fusco Enrico

45

l’apparenza123, come mai il giovane imperatore e la sua cerchia avrebbero commesso

l’errore di chiamare in loro aiuto l’imperatore di Treviri, agli inizi del 387? È da Aquileia che

Zosimo fa partire l’ambasciata di Donnino verso Massimo124 ed è quanto meno certo che

123 AMBROGIO, Ep. 24, 13: «Esto tutior aduersus hominem pacis inuolucro bellum

tegentem», se l’epistola risale alla fine del 386. Tale presentazione infatti dipende dalla

presupposizione, comunemente ammessa da Palanque in poi (op. cit., pp. 172 sgg.; pp.

516-518 – mantenuta nel suo art. L’empereur Maxime, in Les empereurs romains

d’Espagne, Colloque du C.N.R.S., Paris 1965, pp. 259 sgg.), che la seconda ambasciata

di Ambrogio a Treviri risalga all’estate del 386. Questo avvertimento alla fine

dell’epistola 24, composta prima ancora del ritorno a Milano, precederebbe di qualche

mese l’invasione dell’Italia da parte di Massimo. Ma la mia presentazione di un

Valentiniano attento al pericolo barbaro verso l’arco orientale, nonché al di là delle Alpi

Giulie, mi sembra ancora più solida, se l’ambasciata e la lettera sono precedenti (fine del

384) e se Valentiniano si è sottratto alla minaccia proveniente da Massimo grazie al

foedus, che Ambrogio non è riuscito a redigere alla fine del 384, ma che deve essere

stato concluso nel corso del 385. Certo, la datazione di ottobre 384 di La seconde

mission d’Ambroise auprès de Maxime non è fissata da V. Grumel (REByz. IX (1951),

pp. 154-160) sulla base di argomentazioni altrettanto solide, ma la critica da parte di

Palanque (L’empereur Maxime, pp. 259-260) non le smonta tutte. Vale la pena prendere

in considerazione la nota della Chronica gallica an. CCCCLI (Ed. Th. Mommsen, MGH,

AA, IX, p. 646: «Maximus timens orientalis imperii principem Theodosium cum

Valentiniano foedus iniit»). Ed. Ch. Babut (Priscillien et le Priscillianisme, Paris 1909,

p. 243, n. 2) ha osservato che il corpo di Graziano, che costituiva la prova della pace

anche a detta di Ambrogio (Ep. 24, 10: «Habeat Valentinianus imperator uel fratris

exuuias pacis tuae obsides»), probabilmente è stato portato a Milano, dove si trova nel

392 (De obitu Valentiniani, 79), in questa occasione; in ogni caso il foedus ha avuto

come conseguenza la nomina di Evodio, prefetto del pretorio di Massimo, a console

occidentale per il 386. Non si può quindi scendere troppo in là nel 385 e bisogna

supporre tutta una serie di negoziati bi e trilaterali, sebbene Zosimo e Pacato parlino solo

dei rapporti tra Massimo e Teodosio. Nulla di sorprendente, vista la natura dei

documenti e degli avvenimenti. Sulla «rottura» del foedus nel 387, cfr. nella nota

seguente i testi di Rufino di Aquileia e della Chronica Gallica. 124 ZOSIMO, Hist. nov., 4, 42, 4. Per quanto concerne l’invasione dell’Italia,

Rufino di Aquileia ( H i s t . e c c l e s . , X I ( o I I ) , 1 8 – P L 2 1 , c . 5 2 4 C )

Page 42: Fusco Enrico

46

non abbiamo più alcuna traccia della presenza di Valentiniano a Milano dopo

la fine di maggio del 387125. Che ne fu della spedizione lanciata nella Raetia,

nel Norico e nella Pannonia126? Non ne sappiamo nulla, come neppure

sapremmo dire se la fuga per mare fu decisa a causa del pericolo barbarico

nell’Illirico127. Parimenti ignoriamo la data in cui Massimo arrivò ad Aquileia

e «si aprì un varco tra le Alpi Giulie»128, e se tale presenza fosse legata sia al

controllo delle frontiere contro i barbari sul Danubio, sia al controllo delle due

parti dell’Impero nuovamente ricostituite.

IV. LE GUERRE CIVILI

E LA SCOPERTA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE

DA PARTE DEI BARBARI Massimo ad Aquileia

Tutto ciò che conosciamo del 388 riguarda la guerra civile. Non

mi addentrerò nei particolari della campagna di Teodosio, della

sua risalita della Sava e poi della Drava, né della spedizione

n a v a l e c h e f o r s e , i n i z i a l m e n t e , m i r a v a a d A q u i l e i a , i l c h e

e la Chronica gallica del 451 (Ed. Mommsen, Chron. Min., I, 648: «Maximus, indignum

dicens contra ecclesiam statum agi, locum inrumpendi quod cum Valentiniano iunxerat

foederis inuenit...») mettono in primo piano motivi religiosi e non militari. Gli uni

(ribaditi da Massimo sin dalla metà del 386) non escludono gli altri, e non stupisce che

Zosimo non abbia parlato dei primi. 125 Cod. Theod., XI, 30, 48, del 19 maggio. 126 Secondo Sulpicio Alessandro, i generali di Massimo si trovano sul Reno: GREGORIO

di Tours, Hist. Franc., II, 9. 127 Questa fuga in nave è un evento unico, spiegabile o con il timore di essere raggiunti

dagli emissari di Massimo prima di Costantinopoli, o con l’insicurezza delle vie causata

dai barbari. Zosimo parla di intrighi da parte di Massimo nei confronti dei barbari, al

momento della spedizione di Teodosio nel 388 (Hist. nov., IV, 45, 4). 128 PACATO, Pan., 30, 2: «... Iulia quoque claustra laxaret...».

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spiegherebbe in parte perché Massimo sia rimasto a Emona, alla confluenza

della via delle due valli, senza avanzare oltre. Vorrei invece soffermarmi su

due punti, che ci interessano direttamente. Sia Ambrogio129 sia Pacato130

insistono sull’irresolutezza di Massimo, dopo le sue due sconfitte: egli va e

viene, senza sapere dove; alla fine si chiude ad Aquileia con i suoi Mauri131,

ma esce per arrendersi a Teodosio. Probabilmente Massimo, che sapeva, per

varie ragioni, di non dover disperare della clemenza di Teodosio, ha risentito,

da un lato, della defezione di una parte dell’esercito, dopo la battaglia di

Poetovio132, nonché dell’allontanamento della flotta, che era andata incontro a

Valentiniano II133 e l’aveva probabilmente inseguito fino in Sicilia134. A quel

punto era meglio non continuare la guerra, che poteva essere prolungata, ma

non più vinta135. Non pare ci sia stata resistenza nei colli delle Alpi Giulie136, il

che permette a Pacato di dire che l’esercito coprì il tragitto Emona-Aquileia in

un giorno – più di 100 km! –, spinto dalle ali della Vittoria137.

In rea l tà s iamo lontani da l conoscere l ’u l t imo c a p i t o l o d e l l a

129 AMBROGIO, Ep. 40, 22: «Ego perturbaui hostis tui consilia...». 130 PACATO, Pan., 38, 1 sgg. 131 ZOSIMO, Hist. nov., 4, 46, 4; PACATO, Pan., 45, 5. 132 PACATO, Pan., 35. 133 ZOSIMO, Hist. nov., 4, 46, 1-2. 134 AMBROGIO, Ep. 40, 23. 135 Massimo è forse venuto a conoscenza degli insuccessi dei suoi generali sul Reno? 136 Zosimo, che non parla degli scontri in Pannonia, dice che Teodosio sorprese i posti di

guardia degli Appennini (=le Alpi Giulie) e scese inaspettatamente sulle truppe di

Massimo (Hist. nov., 4, 46, 3). Stessa presentazione in Orosio (Histor., VII, 35, 3-4), che

insiste sul fatto che le Alpi e le vie di accesso ai fiumi (il Po? Il porto di Aquileia?) erano

state bloccate («Qui cum [...] omnes incredibiliter Alpium et fluminum aditus

communisset [...], sponte eadem quae obstruxerat claustra deseruit»), ma non fa nessun

cenno alla campagna nella Pannonia. 137 PACATO, Pan., XII, 39.

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vicenda; forse va chiamata in causa anche l’ostilità della popolazione di

Aquileia138 e d’Italia139. Tuttavia – ecco la seconda osservazione che vorrei

fare, importantissima al nostro scopo anche perché Ambrogio concorda con il

racconto di Pacato, un contemporaneo, ma non con quello di Orosio e di

Zosimo – solo una piccola parte dell’esercito di Teodosio ha raggiunto

Aquileia. Ambrogio fa dire a Teodosio attraverso Dio: «... Sono Io che,

quando era molto pericoloso che gli spiriti poco sicuri dei barbari penetrassero

i segreti delle Alpi, ti ho dato la vittoria anche al di qua del baluardo delle

Alpi!»140. Da qui vediamo come la popolazione fosse cosciente, a un tempo,

dell’importanza dei colli e della loro difesa, del pericolo che li minacciava

nonché, in quel momento, della loro fragilità.

La difesa delle Alpi Giulie nel 391-392

L’Italia vive per due anni al sicuro141: data la presenza di

T e o d o s i o e d e l s u o e s e r c i t o , i b a r b a r i n o n o s a n o f a r e

138 La città cede senza alcuna resistenza: ZOSIMO, Hist. nov., 4, 46, 4. Se Andragazio ha

fatto ritorno verso Aquileia, come lascia intuire Ambrogio («Quos ante disperseram [...]

ad supplementum tibi uictoriae congregaui», Ep., 40, 23), forse si è «gettato nel vicino

fiume» di Aquileia, come afferma Socrate (Hist. eccles., 5, 14). Ma la geografia

dell’Italia di Socrate è alquanto incerta, visto che colloca Aquileia in Gallia, parlando del

Fiume Frigido (Ibid., 5, 25). 139 Proprio su questa fa affidamento Teodosio, quando invia Valentiniano a Roma via

mare: ZOSIMO, Hist. nov., 4, 45, 6. Lo storico aggiunge che i Romani erano ostili a

Massimo. Ambrogio (Ep. 40, 23) rievocherà nel 389 l’animosità dei cristiani di Roma, in

seguito all’ordine dato da Massimo di ricostruire una sinagoga. Ne avrebbero tratto un

cattivo presagio. Indubbiamente il fatto si colloca tra la metà del 387 e la metà del 388. 140 AMBROGIO, Ep. 40, 22 (PL 16, c. 1109 B-C): «Ego, cum periculum summum esset ne

Alpes infida barbarorum penetrarent consilia, intra ipsum Alpium uallum uictoriam tibi

contuli ut sine damno uinceres». 141 Risalgono forse a questo periodo, come invitano a pensare gli editori successivi, i

frammenti dell’iscrizione trovata nel 1877 nella Basilica di Aquileia, riguardanti le mura

(unica parola completa) della città: H. PÄIS, CIL. Supp. Ital., I, Rome, 1884, n. 178: T]heo-

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incursione da questo lato, e le truppe affidate ad Arbogaste tappano i buchi

lasciati aperti dai Franchi nella Gallia nordorientale durante l’assenza di

Massimo142, che forse hanno influito sulla sua disfatta ad Aquileia143. La

situazione cambierà alla fine del 391. Teodosio è ritornato a Costantinopoli in

luglio, dopo aver soggiornato per almeno una decina di giorni ad Aquileia,

sulla strada del ritorno. Zosimo racconta che, in occasione del passaggio a

Tessalonica, Teodosio deve far fronte alle incursioni barbariche all’interno

della Macedonia e della Tessaglia144. Egli potrà fare la sua «entrata» ufficiale a

Costantinopoli appena il 10 novembre145. Le operazioni continuano nella

Tracia l ’anno successivo146; ma le incursioni barbariche s i sono

d[osii.] ./.arian[us] [v.c. prae] fectus pr[aetorio] muros ac [turres] tii [ . G. Brusin

propone una diversa ricostruzione in Le difese della romana Aquileia e la loro

cronologia, Corolla memoriae E. Swoboda dedicata, 1966, p. 92, n. 43. Secondo la

fotografia consultata al Museo Nazionale di Aquileia, il nome proprio della seconda riga

potrebbe essere HI]LARIANUS, dato che la base della L è plausibile. In compenso il TII

dell’ultima riga va sostituito, secondo la fotografia, con TIA o TIM (secondo la lettura di

G. Brusin). Il T(urres) della quarta riga non è impossibile. Non è noto nessun prefetto del

pretorio con un nome simile a quello della nostra iscrizione, per il periodo 379-395.

Vista la grafia dell’iscrizione, forse bisogna scendere fino a Teodosio II, se non

addirittura fino a Teodorico. Per una datazione compresa tra il 391 e il 394 cfr. S.

STUCCHI, art. cit., p. 355. 142 AMBROGIO (Ep. 40, 23) parla degli attacchi dei Franchi e dei Sassoni. Cfr. il testo di

Sulpicio Alessandro riportato da Gregorio di Tours riguardo ai Franchi. 143 La data è discussa. O. Perler (in Les voyages de saint Augustin, Paris 1969, Exc. II.:

La date de la mort de l’usurpateur Maxime, pp. 197-203) trova in sant’Agostino buone

ragioni per scegliere la data del 28 luglio, al posto di quella del 28 agosto. Aggiungerò

che le difficoltà di approvvigionamento di Teodosio si spiegano meglio con la prima

piuttosto che con la seconda. La raccolta del 388 sarebbe stata disponibile. La marcia fu

così veloce che l’intendenza fece fatica ad adeguarsi. 144 ZOSIMO, Hist. nov., 4, 48. È qui che appare Alarico, secondo Claudiano (VI. Cons.

Honorii, 105). 145 SOCRATE, Hist. eccles., 5, 18 f. 146 ZOSIMO, Hist. nov., 4, 50, 2 sgg.

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estese almeno fino al Medio Danubio, dato che l’Italia si è sentita minacciata.

Tale ricostruzione è il risultato delle informazioni, alquanto incomplete,

fornite da Ambrogio nell’Orazione funebre di Valentiniano II: il giovane

principe residente in Gallia avrebbe voluto raggiungere l’Italia, perché i

barbari minacciavano le Alpi147. Quali? Le Cozie, le Centrali, le Giulie?

Sembrerebbe trattarsi delle Alpi Giulie, dato che Ambrogio informa che i

barbari rilasciarono i prigionieri, quando seppero che appartenevano al

«territorio di Valentiniano»; dicevano di ignorare che fossero «italiani»148. Ciò

implica che ci troviamo alla cerniera tra due partes Imperii e lascia intendere

che i barbari avevano forse approfittato dei problemi di Teodosio nella Tracia,

o comunque del suo allontanamento. L’Italia settentrionale incitò Ambrogio a

intervenire presso Valentiniano149, che aveva di fronte a sé un’ottima

occasione per allontanarsi da Arbogaste e sfuggire alla sua tutela150, imitando

l’esempio del fratello, che era corso, lo abbiamo visto, da una frontiera

all’altra. Vorrei segnalare come l’atteggiamento di Arbogaste, che rifiuta di lasciare

allo scoperto il nord della Gallia151 a favore dell’Italia settentrionale, sia opposto a

quello adottato da Stilicone nel 401152, quando, prima contro i barbari che attaccano la Raetia,

147 AMBROGIO, De obitu Valentiniani, 2 e 22. 148 Ibid., 4: «sed cognito quod de Valentiniani essent partibus (captiui) liberi

reuerterunt... Laxauit (barbarus) sponte quos ceperat, excusans quod ignorasset Italos».

Ambrogio rievoca poi l’Alpium uallum, il che conferma la localizzazione. Cfr. S.

STUCCHI, art. cit., pp. 355-356; VARADY, op. cit., pp. 75 sgg. 149 Ibid., 24. 150 Tale punto è taciuto da Ambrogio, ma appare in tutti i racconti della fine di

Valentiniano II. Se, come ho suggerito sopra, gli spostamenti di Valentiniano tra il 384 e

il 387 sono legati alla protezione dell’Italia settentrionale contro i barbari, questo

«precedente» poteva essere rilevante nel 392. 151 Sull’attività di Arbogaste tra il 388 e il 392 cfr. le pagine di Sulpicio Alessandro in

GREGORIO di Tours, Hist. Franc., 2, 9. 152 CLAUDIANO, Bel. Get., 419-429.

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poi contro Alarico che scende le Alpi Giulie, sguarnisce l’Alsazia e la

frontiera del Reno. Il pericolo sul Reno non era inesistente, visto che

Arbogaste lancerà nuovamente una spedizione contro i Franchi nel 392-393.

Gli imperatori passano il tempo correndo da un capo all’altro dell’Impero;

sarebbe stata nuovamente necessaria una tetrarchia, non più due o tre

imperatori, a un secolo di distanza dalla prima.

Comunque sia non sappiamo nulla riguardo alla situazione sull’Alto e sul

Medio Danubio negli anni 393 e 394. I «barbari» che arriveranno nei pressi

dell’Italia orientale sono quelli che Teodosio si porta dietro contro Eugenio e

Arbogaste. Almeno conosciamo questi, dato che la documentazione dell’epoca

è incentrata su questo scontro di due eserciti al tempo stesso «romani» e

barbari, nonché di due religioni, poiché pagani e cristiani si aspettavano che il

fiume Frigido stabilisse la vera religione dell’Impero. Furono i barbari e la

bora a fornire la risposta, questa volta al di là delle Alpi Giulie153.

Il fiume Frigido

Devo forse raccontare di nuovo questi due giorni di battaglia, seguiti con

un’attenzione tale ad Aquileia che non stupisce che uno dei migliori informatori

risulti essere Rufino, benché non si trovasse ad Aquileia a quel tempo154? Non

credo sia necessario dilungarsi sugli aspetti topografici della battaglia, dopo quanto

153 Sul cambio di strategia si veda il confronto operato nel 398 da Claudiano tra Massimo

ed Eugenio, nel De IV Cons. Honorii, 73 sgg. e in particolare 79-80. Il poeta non illustra

i vantaggi di questa strategia (cfr. O. SEECK, op. laud., V, pp. 251-252), limitandosi a

sottolineare come le montagne e i claustra siano per Teodosio come la pianura (v. 102-

103). Esagerazione notevole, in quanto la strategia stava quasi per riuscire. 154 RUFINO, Hist. eccles., XI, 33 (PL 21, c. 539 A – 540 B). Non è da escludere che

R u f i n o , i l q u a l e n e l 3 9 4 e r a a G e r u s a l e m m e , u t i l i z z i i l

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detto da Petru circa i nuovi scavi di Aidussina/Haidenschaft155. Dirò soltanto

che non sono assolutamente convinto che si debba cercare di identificare il

promontorio su cui, secondo Rufino, Teodosio avrebbe chiamato Dio a

testimone della sua buona fede e da dove sarebbe stato visibile ai due eserciti

in lotta156. Probabilmente è normale che il posto di comando si trovasse in un

punto da cui Teodosio potesse dominare il campo di battaglia; ma, oltre al

fatto che accorpa in una le due giornate di combattimento e non concorda, sul

momento della preghiera di Teodosio, con il racconto di sant’Ambrogio157, la

presentazione di Rufino presenta l’inconveniente, per chi volesse ritrovare

l’avvenimento storico, di somigliare un po’ troppo, come ho osservato in altra

sede, a una battaglia dell’Antico Testamento158.

Alarico

Non mi dilungherò nemmeno sugli aspetti propriamente religiosi159. Al contrario vorrei

spendere qualche parola, giacché anche i contemporanei ne hanno colto le conseguenze,

Panegirico di Teodosio scritto da Paolino di Nola, suo (futuro) amico. Cfr. il mio art.

L’éloge de Théodose dans la Cité de Dieu (V, 26, 1), sa place, son sens, ses sources, in

«Rech. Augustiniennes», 4, 1966, p. 169; P. COURCELLE, Jugements de Rufin et de saint

Augustin sur les empereurs du IVe siècle et la défaite suprême du Paganisme, in REAnc.,

71, 1969, pp. 111, n. 5. 155 Cfr. le conclusioni di P. Petru, Claustra Alpium Iuliarum, in AAAd. VII, Aquileia e

l’arco orientale, Udine 1976. 156 RUFINO, loc. cit., (c. 539 C-D): «Stans in edita rupe unde et conspicere et conspici ab

utroque posset exercitu...». 157 AMBROGIO, De obitu Theodosii, 7 (Ed. O. Faller, CSEL 73, p. 375): «Cum locorum

angustiis et inpedimentis calonum agmen exercitus paulo serius in aciem descenderet et

inequitare hostis mora belli uideretur, desiluit equo princeps et ante aciem solus

progrediens...». 158 Éloge, p. 155 e n. 81. P. Courcelle preferisce vedere un ricordo di Tito Livio che

rievoca Annibale (art. cit., p. 117, n. 3). 159 Conto di ritornare sulla questione in un articolo intitolato Saint Augustin et la bataille

de la Rivière froide, in cui riprenderò parecchi punti sollevati dall’articolo di P.

Courcelle.

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sulla composizione degli eserciti in lotta, in particolare quello di Teodosio.

Sappiamo che erano scesi dalla Gallia molti Franchi, richiamati probabilmente

dal compatriota Arbogaste. Ma è soprattutto l’esercito di Teodosio che deve

attirare la nostra attenzione: a fianco degli Iberi di Bacurio, che hanno rivestito

un ruolo decisivo nel combattimento, come descritto da Rufino160, figurano gli

Unni, di cui non sappiamo molto161, gli Alani, comandati forse da Saulo162,

che ritroveremo nell’esercito occidentale schierato contro Alarico nel 402,

nella battaglia di Pollenzo163, e infine – soprattutto – i Goti, comandati, a

quanto pare, da Gaina164. Questi, di fatto, possedeva una personalità già

consolidata, che gli avvenimenti successivi hanno sicuramente messo in luce e

fatto conoscere meglio. Ma non bisogna dimenticare che tra le fila dei Goti

prendono posto alcuni personaggi di cui la storia parlerà presto, uno su tutti il

giovane Alarico.

La scoperta dell’Occidente fu determinante sul suo carattere, in quanto fu

accompagnata da una delusione. Zosimo racconta che Stilicone tenne con sé in Occidente le

forze più valide e rimandò le altre in Oriente165. Sappiamo, grazie a Claudiano, che Alarico

160 RUFINO, loc. cit. (c. 540 A-B). La loro presenza è confermata dal computo

dell’esercito di Stilicone in Claudiano (In Rufinum, II, 104-114). Cfr. ZOSIMO, Hist. nov.,

4, 57, 4. Essi fanno già parte dell’esercito di Teodosio al tempo dell’usurpazione di

Massimo (TEMISTIO, Or., 18-219 b). 161 GIOVANNI d’Antiochia, Frag. 187 (Ed. K. Müller, FHG IV, p. 609 B-C). 162 Ibidem; ZOSIMO, Hist. nov., 4, 57, 3. 163 OROSIO, Histor., VII, 37, 2. 164 GIOVANNI d’Antiochia, Frag. 187; ZOSIMO, Hist. nov., 4, 57, 3. 165 Senza contare il fatto che i Goti sono stati le principali vittime di questo sanguinoso

combattimento, come sottolinea Rufino e come nota con piacere Orosio (Hist., VII, 35,

19). Cfr. il mio Éloge, p. 154 e n. 77. I Goti si sono sicuramente accorti di essere i più

esposti. Sul loro numero cfr. GIORDANE, Getica 145 (Ed. Mommsen, p. 96): «plus quam

uiginti milia armatorum».

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non tarda a minacciare le mura di Costantinopoli dopo il ritorno in Oriente166.

È forse per sfuggire alle orde di Alarico che il giovane Onorio ha raggiunto

Milano, passando per la via Egnatia prima, e costeggiando poi l’Adriatico167?

Non si sa esattamente: come ho già segnalato, quando si tratta di guerre civili,

la nostra documentazione perde spesso di vista quel che succede alle frontiere.

Nuove minacce verso est

Durante l’inverno del 394-395 gli Unni si riversano nella pianura del Basso

Danubio168 e, nel decennio che segue, le incursioni sul Basso e Medio

Danubio si confonderanno con gli spostamenti più o meno ostili dei Visigoti,

per non parlare degli Ostrogoti e degli Alani, che ricominciano ad agitarsi

nella Pannonia, fino alle frontiere della verdeggiante Dalmazia169. Tali

evoluzioni non ci appaiono molto chiare ed è sicuramente un rischio per

l’esattezza dei fatti che Claudiano sia la nostra principale fonte

d’informazione. Stando a quanto dice, quando Stilicone, marciando verso

l’Oriente, varca le Alpi nel 395, tutti i barbari se ne stanno quieti170. Anzi,

Stilicone sarà presto acclamato come il liberatore e il restauratore dei Pannonici,

nonché dei rivieraschi della Sava e del Danubio171. Forse perché Stilicone ha impedito

166 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 4, 4; CLAUDIANO, In Ruf., II, 54. Riguardo agli avvenimenti dal

395 al 410, l’opera moderna più ricca è sicuramente quella di É. DEMOUGEOT, De l’unité

à la division de l’Empire romain, Paris 1951. 167 CLAUDIANO, In Rufinum, II, 36; III Consul. Honorii, 111 sgg. 168 FILOSTORGIO, Hist. eccles., XI, 8; CLAUDIANO, In Rufinum, II, 25 sgg. 169 CLAUDIANO, In Rufinum, II, 37-38. 170 Ibidem,II, 124. 171 CLAUDIANO, Éloge de Stilicon, II, 191-207; III, 13.

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il ritorno di Alarico verso la Pannonia172, o perché la sua presenza ha

contenuto gli invasori del nord173? Difficile a dirsi. Vari negoziati sono stati

svolti, sia al di qua sia al di là delle Alpi. Paolino di Milano ci aiuta a datare

l’insediamento dei Marcomanni nel Norico174 nel 396-397, e una legge del

399, rivolta al Prefetto del Pretorio d’Italia, reprime gli abusi verificatisi in

seguito all’insediamento di barbari a danno di «numerosi popoli»175,

verosimilmente nelle province frontaliere.

Tuttavia il gioco che, nello stesso periodo176, conducono Stilicone e Arcadio

con Alarico nell’Illirico si rivelerà presto pericoloso per l’Italia e per la sua

porta d’ingresso, Aquileia (e la sua regione). I responsabili occidentali

sembrano aver dimenticato che Alarico conosceva ormai la strada, in

particolare il Colle del Pero. Claudiano spiegherà, a cose fatte, che l’impresa

di Alarico non aveva niente di sorprendente e che non era degna di suscitare il

panico che si diffuse allora177; in realtà la grande paura che fece tremare

l’Italia intera e fece temere, «quando la barriera delle Alpi cedette», che non

sarebbe rimasta nemmeno l’ombra del Lazio178, fu accresciuta dalla data di

quest’invasione.

172 Con la sua avanzata verso la Tracia e poi verso la Macedonia, nell’estate del 395: É.

DEMOUGEOT, op. laud., p. 152. 173 É. DEMOUGEOT (op. laud., p. 152, n. 175) non esclude, seguendo Schmidt,

un’invasione proveniente da nordest. Mi sembra che i Marcomanni si trovino più a

ovest. 174 PAOLINO di Milano, Vita Ambrosii, 36. 175 Cod. Theod., XIII, 11, 10. 176 Non posso seguire le numerose trattative, opposizioni e riconciliazioni tra Occidente e

Oriente negli anni 397-401, con le ripercussioni sulle marce e sulle contromarce di

Alarico, sul suo ruolo all’interno dell’Impero ecc. Cfr. É. DEMOUGEOT, op. laud. 177 CLAUDIANO, Bellum Geticum, 218-288. 178 CLAUDIANO, Bellum Geticum, 197-198.

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V. L’INVASIONE DI ALARICO NEL 401-402

La sorpresa

È tipico dei barbari non rispettare le «leggi di guerra» e attaccare fuori dal

tempo prestabilito per le azioni di guerra. La sorpresa fu così grande che

conosciamo la data di questa mossa audace grazie ai Fasti di Vienna: 18

novembre 401179. Claudiano dirà che, in tal modo, Alarico ha approfittato

dell’inverno180, stagione propizia per quei popoli abituati a un cielo poco

clemente. Ciò è probabile. Ma forse il Goto ha pensato anche che comparendo

così all’improvviso sulle pianure dell’Italia settentrionale, avrebbe fatto man

bassa delle raccolte accumulate. Era inoltre a conoscenza del fatto che le

truppe di Stilicone erano state occupate contro i Vandali nelle strette valli della

Raetia, del Norico e della Vindelicia e che dovevano continuare a sorvegliare

a vista il posto181. Non sembra che gli attacchi degli Ostrogoti e dei Vandali

negli anni 400-401 riguardassero Aquileia182 e non si capisce come mai si sia

protetta la città dalle incursioni da nord. Fu questa la disgrazia, perché il

pericolo sarebbe venuto da est.

La sorte di Aquileia

Stando al Bellum Geticum, che parla di «ferita inflitta al Timavo», uno

scontro ebbe luogo sulle sponde o nella regione del Timavo183. Se si tratta

d i geogra f ia rea le e non poe t ica , c iò l a sce rebbe in tendere che

179 Fasti Vindobonenses priores, ad a. 401 (Ed. Th. Mommsen, Chron. Min., I, p. 299):

«et intrauit Alaricus in Italiam XIIII Kl. Decembr.». 180 CLAUDIANO, VI Consul. Honorii, 444-445. Tale indicazione esclude la data del 23

agosto fornita dagli Additamenta Prosperi Hauniensis (Ed. Th. Mommsen, Ibid., p. 299). 181 CLAUDIANO, Bellum Geticum, 279-280. 182 Ibidem, 363-365. 183 Ibidem, 563-564. Cfr. É. DEMOUGEOT, op. laud., p. 269, n. 196.

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Alarico arrivava dalla Dalmazia, come farà un giorno l’esercito che riporterà

Valentiniano III ad Aquileia. Ciò non è impossibile184, ma è in contraddizione

con il passo di Claudiano sopra citato, secondo cui il Goto conosceva bene la

strada, avendola percorsa nel 394. D’altra parte il Bellum Geticum parla più

volte185, anche nel rievocare il Timavo186, del passaggio delle Alpi. C’è forse

stata una battaglia ai piedi delle Alpi?

A prescindere da un’eventuale battaglia e dalla sua precisa localizzazione, una

questione più importante per il nostro proposito riguarda la sorte di Aquileia. La

città fu forse conquistata, alla fine del 401 o agli inizi del 402? Per un buon numero

di storici187 non ci sarebbe alcun dubbio; pare addirittura di capire che la città non

oppose molta resistenza, se Alarico, dopo l’inutile assedio di Milano, si trova già,

con truppe e bagagli, nei pressi di Pollenzo il 6 aprile 402. A dire il vero non

conosco nessun testo che affermi esplicitamente che Aquileia sia stata presa188;

184 Per il viaggio di Onorio nel 394: III Consul. Honorii, 113 sgg. 185 CLAUDIANO, Bellum Geticum, 285 sgg.; 548; VI Consul. Honorii, 442. 186 Ibidem, 564. Giordane (Getica, 147) parla del passaggio di Alarico a Sirmio, il che

esclude la via costiera. 187 O. SEECK, op. cit., V, p. 329, l. 8 e p. 572; A. CALDERINI, op. cit., p. 83; L. SCHMIDT,

op. cit., pp. 437-438; É. DEMOUGEOT, op. cit., pp. 269-270. Formulazioni più caute in G.

BRUSIN, art. cit., p. 93; J. LEMARIÉ, Chromace d’Aquilée, Sermons, I, SC. 154, Paris

1969, p. 50: «ignoriamo se la città resistette». 188 Il testo di Claudiano (Bellum Geticum, 213-217) utilizzato da Seeck (V. Anhang, p.

572 su p. 329, l. 8), da P. Courcelle (Hist. littéraire des grandes invasions germaniques,

3e éd., Paris 1964, p. 32, n. 3) e da É. Demougeot (op. cit., p. 270, n. 198) non riguarda le

città dell’Italia settentrionale e, ad ogni modo, si tratta di una domanda retorica. Sarebbe

meglio utilizzare il testo del VI Consul. Honorii, 270, che è molto generico e riguarda

tutta la marcia di Alarico a partire dalla Grecia. Cfr. ibid., v. 440 sgg.

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58

a meno che l’archeologia non dimostri a mia insaputa il contrario189, crederei

invece che Alarico si sia allontanato dalla città senza riuscire a conquistarla190,

così come non ha conquistato Verona e Brescia191.

Rufino ha lasciato Roma alla fine del 398 o agli inizi del 399192. Risponde a

un’intimazione di Simpliciano da Milano, dove si trova prima della metà di

agosto del 400, e invia da Aquileia la sua Apologia ad Anastasio alla fine del

400 o agli inizi del 401. L’Apologia contro Girolamo circola abbastanza

velocemente, visto che Paoliniano, che rientra a Betlemme nella primavera del

401 – di ritorno da Stridone, dove è andato a vendere quel che restava del

patrimonio familiare dopo il passaggio dei barbari nel 378-379193 –,

conosce almeno una parte del contenuto194. Nella risposta che si affretta a

comporre, Girolamo cita il soggiorno di Rufino ad Aquileia, dove risiede

«da due anni»195, ma non teme in nessun modo un’invasione dell’Italia

189 Consultati ad Aquileia in questa sesta settimana, G. Brusin e L. Bertacchi mi hanno

entrambi assicurato di non conoscere nessun indizio dell’assedio né della conquista della

città nel 402 o nel 408. 190 Nella sua descrizione dell’invasione di Alarico nel 401, Prudenzio (Contra

Symmachum, II, 700-702) parla per la Venetia di devastazioni delle campagne, tutt’al più

del territorio:

«Iamque ruens Venetos turmis protriuerat agros

Et Ligurum uastarat opes et amoena profundi

Rura Padi Tuscumque solum uicto amne premebat»

In ogni caso Rufino di Aquileia sembra restringere il senso del termine agros a «campagne». 191 Se si può ricondurre a quell’anno il Sermone 17, 2 di Gaudenzio, che dichiara che la

presenza dei barbari ha impedito a diversi vescovi di venire ad assistere alla dedicazione

della Basilica dei santi (Ed. A. Glück, CSEL 68, p. 141, ll. 15-17; P. COURCELLE,

Histoire littéraire, p. 36, n. 2). 192 RUFINO, Apologia contra Hieronymum, 1, 17 e 20; GIROLAMO, Ep. 83. 193 GIROLAMO, Ep. 81, 2. 194 GIROLAMO, Apol. adu. Rufinum, I, 21, 23, 28. 195 GIROLAMO, Apol. adu. Rufinum, II, 2 (PL 23, c. 426 B): «...biennio Aquileiae

sedens», al momento in cui scrive Girolamo.

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settentrionale, che Paoliniano, nonostante il viaggio nell’Illirico, non sembra

aver previsto e che non era ancora imminente al tempo in cui il commerciante

orientale entrò in contatto con Aquileia per due giorni, consegnò a Rufino la

risposta di Girolamo e portò via con sé due lettere di Rufino e di Cromazio196.

Al contrario, quando scrive la seconda parte dell’Apologia (III), nel 402,

Girolamo cita l’assedio di Aquileia, ma non fa il minimo cenno alla conquista

della città197. Ora, i probabili informatori di Girolamo sono partiti da Roma

non prima della metà di marzo e non potevano ignorare che Alarico non fosse

più sotto le mura di Aquileia. Tanto meno avrebbero ignorato la conquista

della città.

Che cosa dice Rufino? Egli dichiara che i claustra Italiae sono stati abbattuti,

ma mostra l’esercito di Alarico diffuso solo nelle campagne198. Poiché il male

può raggiungere anche le città, Cromazio ha domandato a Rufino di tenere alto il

morale dei cristiani, mostrando loro che Dio protegge la Chiesa e l’Impero. La

popolazione di Aquileia e la gente radunata sulle mura non sembrano dunque

aver subito l’invasione, quanto meno di persona; ma ciò non vale al di fuori della

città, dove si può sempre temere che il pericolo si avvicini. Risulta impossibile

datare in maniera precisa questa Prefazione. Certo, nulla impedisce che sia stata

scritta tra il momento in cui Alarico si è allontanato da Aquileia – non riuscendo a

conquistarla – verso Milano e la sua ritirata dopo la sconfitta di Pollenzo e la

battaglia di Verona. Ma la Prefazione potrebbe anche essere

successiva alla partenza di Alarico, se v i è s ta to un vero «ordine»

196 Ibidem, 3, 10 (c. 464 D). 197 Ibidem, 3, 21 (c. 472 C-D): «Romanae urbis iudicium fugis ut magis obsidionem

barbaricam quam pacatae urbis uelis sententiam sustinere». Secondo Girolamo Rufino,

colpevole, va incontro a una punizione. Che direbbe se la città fosse stata davvero

conquistata? 198 RUFINO, Hist. eccles., Praefatio (PL 21, c. 462-463 = CC 20, p. 267, ll. 5-7):

«tempore quo diruptis Italiae claustris Alarico duce Gothorum, se pestifer morbus infudit

et agros, armenta, uiros, longe lateque uastauit...».

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da parte di Cromazio199. Questi menziona la vicinanza dei barbari anche in un

sermone pasquale che, sfortunatamente, è ancora più difficile datare200. È

interessante notare come la fiducia che Cromazio dimostra nella protezione

accordata da Dio al suo popolo sia la stessa che sottende all’opera di Rufino

nella Storia della Chiesa. Tuttavia, a prescindere dalla data del sermone

pasquale201, dopo il 402 il pericolo sussiste e non sarà mai troppo lontano202,

anche quando il Goto avrà riattraversato le Alpi, per qualche breve o lungo

anno.

Nel frattempo ad Aquileia la vita riprende: vediamo Cromazio in contatto

con Giovanni Crisostomo, in esilio203. Forse egli lascia la città per recarsi a

Roma204. Negli anni successivi Girolamo, da Betlemme, è in contatto

199 Ibidem (c. 433-434, l. 3 = p. 267, l. 10): «iniungis mihi» (c. 463-464, ll. 16-17 = p.

267, l. 33): «agressus sum exequi ut potius quod praeceperas». Se tali ordini vanno intesi

in senso stretto, Rufino ha avuto bisogno di un certo periodo di tempo non soltanto per

tradurre la Storia Ecclesiastica di Eusebio, ma anche per aggiungere i suoi due libri. 200 CROMAZIO, S., 16, 4 (Ed. J. Lemarié, p. 266): testo analizzato nel mio art. Passage du

Danube et passage de la Mer Rouge à l’époque des grandes invasions. Il tono è molto

più angoscioso rispetto al S. 12, 2 f. (p. 224), in cui il riscatto dei prigionieri diventa

oggetto di un paragone. Su questo riscatto abbiamo, a quel tempo, numerosi testi di

AMBROGIO, De Officiis, 2, 70-71; 136-143; ZENONE di Verona, Tractatus, I. 10, 5. 201 Basti notare che la primavera segna, come la festa di Pasqua, l’inizio della campagna

militare. 202 Onorio si lamenta con il fratello Arcadio dell’excidium pereuntis Illyrici (Ep.

Quamuis super imagine muliebri, Coll. Avellana, Ep. 38, 1; Ed. O. Günther, CSEL 35, 1,

p. 85, l. 10). 203 GIOVANNI CRISOSTOMO, Ep. 155 (PG 52, c. 702-703) – PALLADIO, Dial. de uita S.

Iohannis, 3, ad finem (PG 47, c. 14-15). 204 PALLADIO, Dial. de uita S. Iohannis Chrysostomi, 3 (Ibid., c. 15) rievoca il concilio

tenuto all’inizio del 405, in cui Innocenzo riunisce i vescovi italiani. Si può pensare che

chi aveva già preso le parti di Giovanni volle a tutti i costi essere presente. Gaudenzio di

Brescia sarà uno degli inviati a Costantinopoli. Si noti che il viaggio fu fatto via mare.

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con un dalmata, che ha sofferto a causa dei barbari205. Probabilmente è rimasto

in contatto anche con Aquileia, dove Rufino si trovava ancora. Questi forse ha

lasciato la città solo quando si preparava la seconda invasione di Alarico,

quella del 407-408; a meno che non abbia abbandonato l’Italia settentrionale

subito dopo l’avvicinarsi di Radagaiso, anche se questi sembra essere arrivato

attraverso il Brennero, piuttosto che attraverso i colli settentrionali delle Alpi

orientali206. Ad ogni modo nel 407-408 Aquileia vede passare i profughi

illirici, stando a una legge del 10 dicembre 408207, mentre le leggi datate aprile

407 mostrano che l’Oriente sta sul chi va là208. Alarico, infatti, si è

nuovamente messo in cammino all’interno dell’Illirico. Avanzerà verso est o

verso ovest?

VI. L’INVASIONE DEL 408

L’entrata in Italia

Per quanto riguarda le ultime tappe della marcia di Alarico verso

Occidente, Zosimo è la nostra pressoché unica fonte di informazioni. Le

s u e i n d i c a z i o n i s o n o s u c c i n t e e n o n s e m p r e m o l t o c h i a r e ,

205 GIROLAMO, Ep. 118, 2. Sono forse questi rapporti che spingono all’osservazione

contenuta nell’In Osee (I, 4, 3) nel 406, in merito alla desolazione di Israele: «Hoc qui

non credit accidisse populo Israel cernat Illyricum, cernat Thracias, Macedoniam atque

Pannonias omnemque terram quae a Propontide et Bosphoro usque ad Alpes Iulias

tenditur et probabit cum hominibus et animantia deficere...» (PL 25, c. 847 A-B)? 206 Nonostante l’opinione di L. Schmidt (Die Ostgermanen, 2e édit., München 1934, p.

265), secondo cui Radagaiso è passato per il Colle del Pero e per Aquileia. É.

DEMOUGEOT, op. cit., p. 356 e n. 20. 207 Cod. Theod., X, 10, 25. Secondo É. DEMOUGEOT (op. cit., p. 368, n. 92 e p. 403, n.

257) ci sarebbero state due ondate di profughi illirici, una nel 405-406, l’altra nel 408.

Ma la legge del 10 dicembre 408 non presuppone che l’invasione abbia avuto luogo:

«Cum per Illyrici partes barbaricus speraretur incursus, numerosa incolarum manus

sedes quaesiuit externas... ut Illyricianos omnes quos patria complectitur uel alia

quaelibet terra susceperit...». 208 Cod. Theod., XI, 17, 4; XV, 1, 49.

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forse perché egli riassume la testimonianza di Olimpiodoro. Zosimo afferma

che Alarico «varcò i passi che separano la Pannonia dalla Venetia e si

accampò a Emona, città situata tra la Pannonia Superiore e il Norico»209.

Poiché Alarico raggiunge Emona dopo aver varcato «i passi», bisogna

riconoscere in questi il passo di Atrans e ricordare la geografia amministrativa,

secondo cui la Venetia et Histria si estende oltre i colli delle Alpi Giulie. La

seconda indicazione geografica fornita da Zosimo è davvero interessante, nella

misura in cui suggerisce una seconda direzione, non più est-ovest, ma sud-

nord-ovest, verso il Norico ma anche verso l’Italia, attraverso il colle di

Tarvisio. La scelta di Emona è motivata dall’interesse strategico di «centro

nevralgico»: Alarico poteva sia aspettarvi Stilicone, sia scegliere la via di

accesso verso l’Italia, verso ovest o verso nord-ovest210.

Egli muove immediatamente «verso il Norico», informa Zosimo211, e dal Norico

manda un’ambasciata a Stilicone212, nelle ultime settimane del 407 o nelle prime

209 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 29, 1. 210 Zosimo fornisce due indicazioni, di cui la prima è difficilmente localizzabile. Parla

(Ibid., 5) del fiume Akulis, che, se l’ordine è corretto, si trova a est delle Alpi Giulie e

dei Monti Appennini che attraversa. Questi vanno identificati, secondo Zosimo (Hist.

nov., 4, 45, 6 e 46, 3), con le Alpi Giulie, nella loro parte settentrionale, dove formano,

come afferma lo storico (5, 29, 6), il confine tra la Pannonia Superiore e il Norico. Se si

segue la via di Alarico da Emona verso il Norico, bisogna riconoscere la Drava

nell’Akulis, ma nulla induce a pensare che Alarico sia passato per il Colle del Pero. Sulle

diverse opinioni e soluzioni cfr. É. DEMOUGEOT, op. cit., p. 404 e n. 260-262. 211 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 29, 5. Questa strada doveva essere mal difesa, in quanto

Zosimo, che ne descrive le difficoltà, dichiara che «bastano poche guardie, anche qualora

una moltitudine cerchi di passare in massa» (5, 29, 6). La stessa osservazione varrà per il

Colle del Pero al tempo di Attila. 212 Ibidem, 5, 29, 7.

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63

del 408. L’ambasciata, che forse passò per Aquileia, trovò Stilicone solo a

Ravenna213. Il ministro raggiunse Onorio a Roma, dove ottenne a fatica dai

senatori le 400 libbre d’oro richieste da Alarico, come compenso per il tempo

passato nell’Epiro ad aspettare gli ordini di Onorio e come controparte (sic)

per la «spedizione in Italia e nel Norico»214. Quando esprime la volontà di

fermarsi a Ravenna invece che a Roma, Onorio, secondo Zosimo215, fa notare

che intende incitare le truppe contro un nemico che è «entrato in Italia». Tale

dichiarazione riguarda forse la presa iniziale e il controllo attuale di Emona e

dintorni? Oppure Onorio ci informa in merito al dominio esercitato da Alarico

su una parte dell’Italia settentrionale raggiunta attraverso Tarvisio? È difficile

pronunciarsi con certezza sulla questione216.

Quel che è certo è che, quando gli inviati di Alarico ritornarono da lui, la

situazione era già notevolmente cambiata nel campo romano; la notizia della

morte di Arcadio (1 maggio 408), la cui voce si era sparsa a Roma prima

ancora della partenza di Onorio per Ravenna, fu confermata poco dopo e

dovette giungere all’imperatore durante il viaggio verso Ravenna217. Stilicone,

ostinato a voler recuperare l’Illirico orientale ed estendere la sua influenza su

tutto l’Impero, architettò un piano che gli avrebbe permesso anche di

sbarazzarsi dell’usurpatore, il quale, l’anno precedente, aveva a poco a poco

esteso il proprio potere in Gallia e si era fatto minaccioso nelle Alpi Occidentali: non

bisognava permettere che si concretizzasse una minaccia dall’altra parte dell’Italia

settentrionale. Stilicone ottenne per Alarico una lettera, che faceva di lui un alleato

213 Ibidem, 5, 29, 8. 214 Ibidem, 5, 29, 7. 215 Ibidem, 5, 30, 2. 216 Tuttavia vorrei ricordare che Emona dipende dall’Italia Annonaria. 217 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 31, 1.

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64

e che gli avrebbe consentito di attraversare la Venetia in amicizia218. Alarico

avrebbe ripreso la via delle Alpi Cozie e, lungi dal vedersi sbarrare la strada

come nel 402, sarebbe stato accompagnato e si sarebbe stabilito nella Gallia,

che avrebbe liberato, da un lato, da Costantino III e, dall’altro, dai Vandali e

dagli Alani, che erano penetrati attraverso il Reno l’anno prima.

Il concentramento delle truppe «romane» e di quelle di Alarico ebbe luogo a

Ticino, ai piedi delle Alpi che si sarebbero potute scavalcare al più tardi la

primavera successiva, dopo averle protette nell’estate del 408 con la sola

presenza delle truppe ricongiunte da Onorio. Forse Stilicone – che sarebbe

andato in Oriente219 e avrebbe trovato Alarico sulla sua strada – aspettava che

il Visigoto muovesse verso la Venetia e dimostrasse la sua buona fede?

Sappiamo quel che successe. Il partito antigermanico ebbe la meglio a Ticino

e il 23 agosto Stilicone cadeva a Ravenna220, scatenando con la sua morte una

violenta reazione antibarbarica tra tutte le componenti dell’esercito contro gli

ausiliari goti e le loro famiglie221.

I sopravvissuti si rifugiarono in gran numero presso Alarico222, che non si

dimostrò vendicativo, né sembrò interessarsi troppo alla spedizione in Gallia.

Era forse la presenza di Saro che lo infastidiva? Egli propose un nuovo

accordo a Onorio e si dichiarò pronto a ripassare «dal Norico alla Pannonia»

qualora gli si pagasse il ritorno e a procedere con lui a uno scambio di

ostaggi223. Questo senso della misura parve come una ritirata, giustificabile

con l’esplosione del nazionalismo romano e con l’esagitazione che fece seguito

alla scomparsa di Stilicone. Ci si sarebbe forse sbarazzati di Alarico, complice

218 Ibidem, 5, 31, 6. 219 Ibidem – Da qui deriva forse la chiusura dei porti d’Italia. 220 Ibidem, 5, 34, 12. 221 Ibidem, 5, 35, 8. 222 Ibidem, 5, 35, 9. 223 Ibidem, 5, 36, 2.

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65

di Stilicone, capace soltanto di «arricchire e incitare i barbari»224, con la stessa

facilità con cui ci si era liberati dei Goti dell’esercito imperiale? I giorni

successivi alla morte di Stilicone sono caratterizzati da una serie di leggi,

molte delle quali mostrano un’enorme fiducia di fronte all’avversario, quando

non svelano la cupa situazione in cui versa l’Italia e in particolare la regione

oggetto del nostro studio. Davanti alla marcia di Alarico i profughi sono

scappati dall’Illirico in Italia, senza trovare molta cordialità. Una legge del 10

dicembre 408 interviene contro gli abusi commessi nei loro confronti225;

un’altra parte della stessa legge sembra affidare i prigionieri liberati o quelli

sfuggiti ai barbari e ai cristiani, in assenza di decurioni226. Non è difficile

immaginare le atrocità inflitte a chi era fuggito dinanzi ai barbari o a chi

conosceva la prigionia da anni ormai. Per mantenere queste persone e per

cercare di risollevare la vita economica, ci si affretta a riaprire i porti227.

Tuttavia è impossibile sapere come furono applicate queste misure adottate a

Ravenna, e se sortirono effetti positivi nella Venetia, in un momento in cui la

minaccia di Alarico si fa più grave sulla regione.

L’invasione dell’autunno 408

La reazione di Alarico di fronte all’atteggiamento di Onorio e della sua

nuova cerchia non si fece attendere: Alarico passò infatti all’attacco, ma

non senza adottare qualche precauzione sulle retrovie. Zosimo ricollega

ai «grandi progetti che meditava» l’appello di Alarico al cognato

Ataulfo, che a quel tempo risiedeva nella Pannonia Superiore ed era

a c a p o d e i G o t i e d e g l i U n n i 228. M i d o m a n d o s e n o n f o s s e

224 Cod. Theod., IX, 42, 22. 225 Cod. Theod., X, 10, 25. 226 Cod. Theod., V, 7, 2 = Const. Sirmond., 16. 227 Cod. Theod., VII, 16, 1: «ne rarior sit diuersarum mercium commeatus». 228 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 37, 1-2.

Page 62: Fusco Enrico

66

invece per coprire le retrovie nella corsa in cui stava per lanciarsi, e per

stanziare nelle città le guarnigioni che si sarebbero ricongiunte dopo il suo

passaggio. Se è così, non mi pare affatto certo che le città che Alarico trova sul

suo cammino siano state prese. Zosimo dice che «παρατρέχει Aquileia e le

città situate al di qua dell’Eridano», Concordia, Altino e, molto più in là,

Cremona. Lo storico sottolinea la mancata resistenza e la specie di festa

(πανήγυρις) che rappresenta per Alarico questo raid-inseguimento229. Più che

catturare l’imperatore, egli vuole spaventarlo e costringerlo a negoziare.

Abbandona così i luoghi in cui trova o teme una resistenza. Ciò spiegherebbe

come mai Alarico si sia trovato sotto le mura di Roma durante il mese di

dicembre, dopo una cavalcata di almeno 900 km in due mesi, con armi e

bagagli, nonché con colonne di prigionieri. I Romani stessi si chiedevano se

non fossero stati assediati da un complice di Stilicone, tanto l’arrivo di Alarico

sembrava loro impossibile230.

Se παρατρέχει significa nel nostro caso «conquista rapidamente»231, ciò implica

che le mura (e forse le persone) non soffrirono più di tanto e che i superstiti

poterono ritornare a chiudersi nella città dopo il suo passaggio. Vediamo così che

Rimini – che Alarico «παρατρέχει» secondo Zosimo, come Aquileia232 – ha ancora

i suoi bastioni e le sue porte qualche mese dopo, secondo Sozomeno233, quando il

Visigoto viene mandato sul posto da Onorio e da Giovio234. Comunque

229 Ibidem, 5, 37, 3. 230 Ibidem, 5, 40, 3-4. 231 Senso meno frequente rispetto all’altro. 232 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 37, 5. Ma Zosimo dichiara poi che nella marcia verso Roma

saccheggia «tutte le città e le piazzeforti sulla sua strada» (5, 37, 6). 233 SOZOMENO, Hist. eccles., 9, 7. 234 A mio avviso ciò non intende sminuire l’importanza dei danni provocati dall’invasione,

ma precisare che, in questa corsa, Alarico non si concesse il tempo di fermarsi per

conquistare le città più importanti, dato che queste erano protette da muraglie e gli

resistevano. Il che si ridimostra vero dopo Rimini, anche se Zosimo dichiara

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sia, Aquileia vide passare altre truppe, amiche e nemiche, tra il 408 e il 409.

Sappiamo che cinque unità dalmate, composte da 6000 uomini, arrivarono a

Ravenna, «scacciate dalla loro regione d’origine», afferma Zosimo235. Era una

truppa notevole, se si considera che i 300 uomini (al massimo) di Saro

rappresentavano un gruppo pericoloso236. A questo punto si abbandonava forse

l’Italia settentrionale? Tutto questo mentre un nuovo arrivato varcava «le Alpi

che dalla Pannonia si affacciano sulla Venetia»: Ataulfo237. Non sappiamo

molto circa il tragitto di quest’ultimo, tranne che non fu fermato dai 300 Unni

e dall’«insieme di soldati, fanti e cavalieri che si trovavano in ogni città»238.

Questi uomini erano forse capaci di proteggere le mura, ma non di opporsi in

aperta campagna all’avanzata di Ataulfo, che raggiunse Alarico. Dopo il

suo passaggio le truppe furono adunate da Generido, messo da Onorio a

capo di «tutti i soldati della Dalmazia», nonché «di tutti quelli che

sorvegliavano la Pannonia Superiore, il Norico e la Raetia e tutto ciò che si

che Alarico prese «tutte le città e le piazzeforti che trovava», perché sappiamo grazie a

Sozomeno (Hist. eccles., 9, 6) che Narnia, sulla stessa strada della Flaminia, non fu

presa. Durante l’assedio di Roma Zosimo segnala che i Visigoti si ritirarono in Toscana

(Hist. nov., V, 42, 4), il che non impedisce a queste orde di errare (Ibid., V, 42, 6). La via

per Ravenna era così poco sicura che Alarico offrì una scorta a Innocenzo e alla sua

ambasciata (Ibidem, V, 45, 10). È durante questo periodo – e non nel corso della marcia

forzata iniziale – che va collocata la presa di Urbs Salvia – nel Piceno –, di cui parla

Procopio (Bel. Got., II, 16). Le stazioni di posta localizzate lungo le strade ebbero vita

dura, da qui la disorganizzazione del Cursus publicus negli anni successivi al 410. 235 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 45, 1. 236 Ibidem, 5, 45, 11. 237 OLIMPIODORO, Fr. 3 (FHG IV, p. 58): 200 o 300. Lo stesso vale per i 300 Unni

affidati da Onorio a Olimpio (ZOSIMO, Hist. nov., 5, 45, 13). 238 ZOSIMO, Hist. nov., 5, 45, 12.

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68

trova fino alle Alpi»239. Zosimo elogia le sue doti militari e dichiara che

suscitava timore nei barbari e sicurezza in chi doveva proteggere. Da

quest’uomo e dalle sue truppe dipese la sorte della Venetia, per un periodo di

tempo non precisato.

La Venetia nelle trattative di Alarico

Tuttavia Alarico bramava questa regione agricola, distretto di frontiera

dell’Italia. Durante l’incontro di Rimini dell’estate del 409 chiede di trasferirsi

nella Venetia, nel Norico e in Dalmazia, oltre a domandare tributi e

approvvigionamenti annuali240. La richiesta non sembrò esorbitante al

successore di Olimpio, Giovio. L’affare si arenò solamente per questioni di

prestigio. Il paese non era certo rovinato, visto che, poco dopo, Onorio fa

arrivare dalla Dalmazia – via mare? – approvvigionamenti di grano e di

bestiame per gli Unni che aveva arruolato e che, ancora una volta, passarono

per Aquileia241. Di fronte a questa minaccia, ma anche perché il re dei Visigoti

tentennava all’idea di portare al massacro «la città che dominava il mondo

intero da più di mille anni»242, le pretese diminuirono, e Alarico chiese solo «il

Norico», facendo notare che la regione, confinante col Danubio, era

sottomessa di continuo alle incursioni barbariche e che rendeva al fisco solo

un magro tributo. Alarico si offriva di difendere la regione e domandava

soltanto i viveri243, niente più denaro.

Le trattative non ebbero più successo delle precedenti. Tuttavia, quando

Alarico conquistò Roma, preferì allontanarsi verso i granai della Campania e

soprattutto dell’Africa, invece che risalire verso il Norico o verso la Venetia.

Quando tornerà sui propri passi, Ataulfo condurrà i suoi non già verso

239 Ibidem, 5, 46, 5. 240 Ibidem, 5, 48, 4-5. 241 Ibidem, 5, 50, 1 sgg. 242 Ibidem, 5, 50, 4. 243 Ibidem, 5, 50, 5-6.

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69

est, bensì verso la Gallia e verso la Spagna. Forse è un segno del cattivo stato

in cui versavano le regioni lasciate qualche anno prima, a meno che non

avesse preferito fuggire lontano nell’Impero, per non dovere far fronte, nel

Norico o nella Pannonia, ai barbari rievocati da Alarico nel 409, che, di fatto,

non tarderanno a farsi vivi.

VII. AQUILEIA TRA IL 410 E IL 435

Nel decennio successivo risulta difficile seguire gli avvenimenti politici nei

pressi di Aquileia. La città non è particolarmente esposta, visto che i Pelagiani

vi trovano protezione e accoglienza. I rapporti sono intensi tra l’Africa e

Ravenna, nonché con la costa dalmata. Ma non bisogna farsi illusioni. Il

pericolo non è lontano dall’Illiria né dalla Venetia, benché lo si scongiuri in

vari modi. Quando nel luglio 418 ci fu un’eclissi di sole accompagnata da una

lunga siccità, gli animi furono pronti a scoprire l’ultimo annuncio della fine

del mondo. Il vescovo di Salona consulta quindi sant’Agostino. Nello scambio

epistolare intrattenuto negli anni 419-420, i barbari d’Europa vengono citati

solo una volta da parte di sant’Agostino, che ricorda che al tempo

dell’imperatore Galliano anche i cristiani avrebbero potuto pensare che la fine

del mondo fosse vicina, di fronte al dilagare dei barbari244. Indirettamente i

barbari sono presenti negli animi, dato che il messaggero di Esichio di Salona

ha parlato della loro presenza fisica e della loro continua minaccia, anche se

questa, per quanto riguarda l’Occidente, è temperata dalle misure finanziarie e

dalle cessioni di terre.

Non stupisce quindi che il nuovo pericolo che affronterà

Aqui le ia ne l 425 s ia accompagna to da un ’ inv as ione b a rb a r i ca

244 AGOSTINO, Ep. 199, 35.

Page 66: Fusco Enrico

70

che, fortunatamente per la città, cambiò bruscamente direzione: mi riferisco

agli avvenimenti del 424-425, successivi all’usurpazione del capo dei notai

Giovanni Primicerio, perpetrata alla morte di Onorio, e contemporanei

all’esilio di Galla Placidia e del figlio di Costanzo (e della stessa Placidia), il

futuro Valentiniano III. L’esercito comandato dall’alano Aspar, che riporta in

Occidente il giovanissimo Cesare e la madre costeggiando le coste dalmate,

s’impadronisce senza fatica di Aquileia, secondo quanto riporta Filostorgio245.

Lo storico aggiunge che la città era «grande»246. Questa «grande città»

proteggerà la corte fino alla sconfitta di Giovanni, e per qualche giorno ancora.

Se Aspar non continua subito il viaggio verso Ravenna, dove doveva sbarcare

la flotta proveniente da Salona e condotta da suo padre, non è solo perché sa

che la flotta ha fatto naufragio e che il padre è caduto nelle mani di

Giovanni247; è perché sa anche che Giovanni ha inviato Ezio ad assoldare un

esercito di Unni, incaricato di prendere alle spalle l’esercito orientale248, non

essendo riuscito a ostacolare la sua marcia in Pannonia. Aquileia è rimasta al

sicuro, mentre Aspar rispondeva agli appelli del padre e s’impadroniva di

Ravenna e di Giovanni. Ezio prenderà il comando degli Unni solo tre giorni

dopo la barbara esecuzione dell’usurpatore tradito249.

Non è detto che nel 424 gli Unni abbiano varcato le Alpi da nemici250.

La loro influenza sulla Pannonia è anzi diminuita negli anni successivi,

dato che la nota – molto discussa – della Cronaca del Conte Marcellino

dichiara, per il 427, che la Pannonia, dopo cinquant’anni di occupazione, fu

245 FILOSTORGIO, Hist. eccles., 12, 13 (Ed. J. Bidez, GCS 21, p. 149, l. 13). 246 Ibidem (l. 11). 247 Ibidem (ll. 13 sgg.); SOCRATE, Hist. eccles., 7, 23. 248 RENATUS FRIGERIDUS: GREGORIO di Tours, Hist. Franc., II, 8. 249 FILOSTORGIO, Hist. eccles., 12, 14 (p. 150). 250 PROSPERO, Chron. ad. a. 425 (Chron. Min. I, p. 471): «...data uenia Aetio eo quod

Chuni quos per ipsum Iohannes acciuerat eiusdem studio ad propria reuersi sunt...».

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71

sottratta agli Unni251. La regione ebbe quanto meno l’impressione di un netto

miglioramento della situazione. Ma nel 433 Ezio, che due o tre anni prima era

apparso come il salvatore della Raetia e del Norico252, ritorna in Italia a capo

degli Unni, che è andato a cercare presso il re Rua, zio di Attila, e che lo

riportano alla dignità di patrizio253. Le informazioni sono troppo limitate

perché possiamo sapere cosa successe ad Aquileia e nella regione. Non sembra

che i danni siano stati irreparabili, a giudicare dall’ultimo episodio, che farà

entrare in scena Attila. Probabilmente Valentiniano III aveva molto da fare in

Gallia, in Spagna, in Africa e, poco dopo, in Sicilia; tuttavia, cedendo parti

della provincia sul fianco nordorientale e lasciando alquanto egoisticamente

l’Oriente alle prese con gli Unni254, egli non faceva altro che far crescere il

pericolo che, ineluttabilmente, si sarebbe poi avvicinato all’Occidente.

251 MARCELLINUS COMES, Chron. ad a. 427 (Ed. Th. Mommsen, MGH, AA XI, Chron.

Min., II, 76): «Pannoniae quae per quinquaginta annos ab Hunnis retinebantur a Romanis

receptae sunt». Cfr. A. Alföldi (Der Untergang der Römerschaft in Pannonien, Berlin

1926, pp. 66-67; 94-95), secondo cui la «riconquista» è dovuta a Costantinopoli; E. Stein

– J.R. Palanque (op. cit., p. 318), secondo cui la riconquista è dovuta a Felice, il magister

di Placidia, rivale di Ezio. La prima opinione sembra la più verosimile. Cfr. A. MÓCSY,

art. cit., p. 358. 252 IDAZIO, Chron., § 93 e 95 (Chron. Min., II, p. 22); SIDONIO APOLLINARE, C. 7, 233-

234; Chronica Gallica, § 106 (Chron. Min., II, p. 658). 253 PROSPERO, Chron. ad. a. 432 (Chron. Min. I, pp. 473-474); Chron. Gallica, § 112

(Chron. Min., II, p. 658). Sulle circostanze di questa nuova competizione per il potere

cfr. E. STEIN – J.R. PALANQUE, op. cit., pp. 322-323. Risale a questo momento la

cessione della regione della Sava, ovvero delle porte dell’Italia Annonaria? L’allusione

di Prisco (Frag. 7, inizio - Ed. Müller, FHG 4, p. 76) è interpretata in vario modo:

ALFÖLDI, op. cit., p. 90. 254 Per il 442 Prospero nota che l’esercito – orientale – della Sicilia è richiamato a

difendere «la Tracia e l’Illirico, che sono devastati dagli Unni» (Chron. Min. I, p. 479),

senza segnalare nessun’azione coordinata tra Oriente e Occidente, liberatosi ormai

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72

VIII. LA PRESA DI AQUILEIA DA PARTE DI ATTILA

Attila e l’Occidente

Fino al 450 vediamo che Attila e gli Unni preoccupano più l’Oriente che

l’Occidente (per lo meno a ovest delle Alpi Giulie). Valentiniano III ha

concesso al barbaro il titolo di Magister militum255, lasciandogli una parte

della Pannonia II; Ezio e Valentiniano III hanno per lungo tempo assoldato gli

Unni, senza suscitare le proteste che Costantinopoli si era vista rivolgere dopo

il trattato di Margo del 435. Ecco però, forse perché l’Oriente, devastato da

decenni ormai, dà segni di sfinimento, che Attila coglie l’occasione per

intervenire in Occidente, fornita da un lato dagli appelli – a partire dal 434? –

di Onoria, sorella di Valentiniano III256, e dall’altro dall’invito di Genserico,

che a Cartagine temeva le rappresaglie di Teodorico di Tolosa, dopo la

fine che aveva fatto fare a sua figlia257. È verso la Gallia che mosse Attila,

sulla scia delle orde del 405: forse temeva una strenua resistenza da parte

dell’Italia, e probabilmente sapeva che per penetrare in Italia non poteva

puntare sulla forza e sulle evoluzioni della cavalleria, che sarebbe stata

messa in d i f f i co l t à da l l a s t re t t a de i co l l i . È no to l ’ e s i t o d e l l a

dalla minaccia di Genserico (su queste operazioni relative al 441-442 cfr. MARCELLINO,

Chron. ad a. 441 e 442 – Chron. Min. II, pp. 80-81). Allo stesso modo la Chronica

Gallica nota per il 447 che un nuovo disastro si abbatte sull’Oriente, dove vengono

devastate 70 città «senza che l’Occidente porti loro soccorso» (§ 132, Chron. Min. II, p.

662 – Cfr. MARCELLINO, Chron. ad a. 447 – Chron. Min. II, p. 82). 255 PRISCO, Frag. 8 (Ed. Müller, FHG 4, p. 90). Su Attila cfr. F. ALTHEIM, Attila et les

Huns, trad. fr., Paris s.d. (1952), cap. 5 e 6. 256 Questa data, fornita dal Conte Marcellino (Chron. ad a. 434 - Chron. Min. II, p. 79),

appare troppo lontana: a quel tempo Attila non può fare nulla senza il fratello Bleda. Cfr.

al riguardo PRISCO, Frag. 16 (Ed. Müller, FHG 4, p. 99). 257 GIORDANE, Getica, 184 sgg. (Ed. Mommsen, MGH, AA 5, 1, pp. 106 sgg.).

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73

spedizione, che si spinse fino a Orléans prima di dover fare definitivamente

marcia indietro, dopo la battaglia dei «Campi Catalaunici».

Le cicogne di Aquileia

Tuttavia Attila, ancora nel pieno delle forze, era lungi dall’essere sconfitto;

bisognava ancora temere un attacco concertato con Genserico sulla Gallia,

dove il giovane Torrismondo non aveva ancora consolidato il proprio potere

sul popolo. Ciò fa sì che Prospero possa affermare, non senza criticare Ezio,

che Attila ha potuto fare irruzione in Italia attraverso la Pannonia, senza

nemmeno servirsi dei clusuriae Alpium che avrebbero potuto sbarrargli la

strada258. Da questa parte la sorpresa fu totale259. Ciò non toglie che Aquileia

oppose una strenua e lunga resistenza, grazie al coraggio della sua

guarnigione. Prisco racconta, ripreso da Giordane, che furono le cicogne a

rovinare Aquileia. Non era ancora autunno; ciononostante Attila si accorse che

le cicogne lasciavano la città, portando con loro i piccoli in campagna. Il

condottiero trasse il presagio che le cicogne abbandonavano la città prima

della conquista e della distruzione dei loro nidi260.

Semplice stratagemma per tirare su il morale delle truppe? A quanto pare non solo,

se accettiamo il ritratto di Attila abbozzato da Altheim261, che lo mostra, attraverso

258 PROSPERO, Chron. ad. a. 452 (Chron. Min. I, p. 482): «Attila redintegratis uiribus

quas in Gallia amiserat, Italiam ingredi per Pannonias intendit, nihil duce nostro Aetio

secundum prioris belli opera prospiciente ita ut ne clusuris quidem Alpium – quibus

hostes prohiberi poterant! – uteretur, hoc solum spebus suis superesse existimans si ab

omni Italia cum imperatore discederet». 259 La Chronica Gallica dichiara che Attila avanzò senza resistenza in Italia «quam

incolae, metu solo territi, praesidio nudauere» (Chron. Min., II, p. 662, § 141); il che

appare come uno scarico di responsabilità. Fa ancora più piacere ammirare la resistenza

di Aquileia, che gestì da sola la propria difesa. 260 GIORDANE, Getica, 220 (p. 114). 261 ALTHEIM, op. cit., pp. 188-189.

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74

il racconto di Prisco e gli avvenimenti degli anni 445-450, particolarmente

sensibile a tutte le manifestazioni del divino262 e, al tempo stesso, ai segni

d’onore lusinghieri263. Aggiungerei al quadro una considerazione: mi permetto

di chiedermi, benché la storia non si possa cambiare, che cosa sarebbe

avvenuto se il vescovo di Aquileia avesse tentato d’interporsi e di salvare

almeno la popolazione. Quando papa Leone, infatti, scelto come ambasciatore

insieme con il console Avienno e con il prefetto Trigezio, raggiunse il re sul

Mincio, egli non solo ricevette con tutti gli onori quest’ambasciata composta

da persone così importanti, ma fu molto «contento – racconta Prospero – della

presenza del sommo pontefice (summus sacerdos)»264. Il barbaro era

sensibilissimo al denaro, certo, ma anche ai segni d’onore. Vedere davanti a

sé, pur senza scorgere Pietro e Paolo, la più alta personalità religiosa

dell’Impero cristiano, non poteva che lusingarlo oltremodo.

Che cosa sarebbe successo se fosse intervenuto il vescovo di Aquileia?

262 Ibid., pp. 169-170, 177. 263 Ibid., p. 167. 264 PROSPERO, loc. cit.: «...nihilque inter omnia consilia principio ac senatus populique

Romani salubrius uisum est quam ut per legatos pax truculentissimi regis expeteretur.

Suscepit hoc negotium cum uiro consulari Auieno et uiro praefectorio Trygetio

beatissimus papa Leo, auxilio Dei fretus quem sciret numquam piorum laboribus

defuisse. Nec aliud secutum est quam prasumpserat fides. Nam, tota legatione dignanter

accepta, ita summi sacerdotis praesentia rex gauisus est ut, et bello abstinere

praeciperet, et ultra Danuuium promissa pace discederet». Altheim rievoca la scena (p.

190), nella quale vede solo l’incontro delle due religioni: «istante memorabile, scena

davvero simbolica» – e celebrata dai pittori. Altre considerazioni dovettero entrare in

gioco; in particolare, stando alla Cronaca di Idazio (§ 154 – Chron. Min., II, pp. 26-27),

un attacco alle spalle dell’imperatore d’Oriente, Marciano. È preoccupante che Giordane,

che si rifà esplicitamente a Prisco, non rievochi in nessun modo questa minaccia

orientale, mentre Attila esita a scendere su Roma (Getica, 222-223 – pp. 114-115).

Giordane comunque non nega questi avvenimenti d’Oriente (Getica, 225). ALTHEIM, op.

cit., pp. 190-191. Sulla sensibilità di Attila ai segni d’onore cfr. A. LOYEN, art. cit., pp.

71-72.

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75

La situazione si era forse spinta troppo oltre? L’astio delle truppe di Attila,

rinvigorite dal presagio delle cicogne, si fece maggiore, tanto più che erano

state sul punto di far marcia indietro, dopo una disfatta analoga a quella

dell’anno precedente265. Le truppe ripresero l’assedio e si trasformarono, da

cavalieri, in genieri e in artiglieri266. Che io sappia è l’unica volta in cui si

vedono gli Unni servirsi di materiale da assedio267. La città fu presto presa.

Giordane riassume così, in maniera alquanto stringata: «Entrano in massa

nella città, saccheggiano, si dividono il bottino, devastano tutto brutalmente, al

punto che lasciarono quasi solo le fondamenta, come appare»268. Le note

lapidarie delle Cronache sono altrettanto poco eloquenti: «Aquileia ciuitas ab

Attila Hunnorum rege excisa est»269.

La sorte della città

Per rievocare questo saccheggio si può citare anche il racconto

d i P r i s c o r e l a t i v o a l s u o p a s s a g g i o a N a i s s o , d u r a n t e

265 GIORDANE, Ibid.: «exercitu iam murmurante et discedere cupiente». Secondo Paolo

Diacono (Hist. romana, 14, 9 – Ed. H. Droisen, MGH, AA, 2, p. 203, l. 18) l’assedio

sarebbe durato tre anni. Forse bisogna intendere tre mesi? Inoltre Paolo è il solo a parlare

del suicidio di una donna chiamata Digna. L’indicazione è valida soprattutto per le

informazioni archeologiche che contiene sui baluardi e sulle abitazioni (Ibid., 10 – p.

204, ll. 4-11). 266 Ibid., § 221. 267 Sull’«assedio» e sulla presa di Orléans nel 451, dove le porte della città furono aperte

dopo una breve resistenza, cfr. A. LOYEN, Le rôle de saint Aignan dans la défense

d’Orléans, in CRAI, 1969, pp. 64-74. 268 Ibid.: «Nec mora et inuadant ciuitatem, spoliant, diuidunt uastantque crudeliter ita ut

uix eius uestigia ut appareat reliquerunt». Che significa l’ut appareat alla fine? Tracce

del racconto di Cassiodoro? 269 MARCELLINUS COMES, ad a. 452 (Chron. Min., II, p. 84). Add. ad Prosperum

Hauniensis, ad a. 452 (Chron. Min., I, p. 302): «Aquileia et Mediolanum et nonnullae

aliae urbes ad Attilane subuersae»; AGNELLO, Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis

(Ibid.): «et capta et fracta est Aquileia ab Hunis».

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76

l’ambasciata presso Attila: «Arrivammo a Naisso: la città era deserta, perché

devastata dai nemici. Nelle locande pubbliche si trovavano i malati. Le sponde

del fiume erano cosparse di ossa dei caduti in battaglia, perciò fummo costretti

a risalire il fiume per trovare un posto libero dove accamparci»270. Anche ad

Aquileia «lasciarono quasi solo le fondamenta». Una parte della popolazione

era forse riuscita a fuggire sulle isole o verso l’interno, senza essere raggiunta

dalle orde che conquistarono Milano e Pavia, demolendo tutta la serie di città

situate lungo la Via Postumia? Quel che è sicuro è che la vita riprese,

facilitata, più che dalle promesse, dalla morte di Attila, avvenuta nel 453, e

dalle divisioni che colpirono il suo impero. È a questi disordini e alle

campagne di Marciano (e forse anche di Avito)271 che dobbiamo attribuire il

ritorno dei prigionieri, che valse a Niceta di Aquileia e a Neone di Ravenna di

ricevere le epistole di Leone nel 458. Non si confidava più nel ritorno dei

prigionieri, indi per cui molte donne si sono risposate272. Alcuni adulti sono

stati portati via così giovani che non sanno se sono stati battezzati273.

D’altronde la dispersione dei prigionieri ha fatto sì che risiedessero chi tra gli

Unni pagani, presso cui hanno dovuto mangiare carni sacrificate agli idoli274,

chi tra gli Ostrogoti ariani, che li hanno battezzati o ribattezzati275. Ma della

vita economica non vi è nessuna traccia; con tutta probabilità, visto che i

mercati erano praticamente chiusi verso il Norico e verso la Pannonia, ci si

preoccupa soprattutto di sopravvivere sul piano agricolo, pensando forse a rifornire

270 PRISCO, Frag. 8 (Müller, p. 78). 271 SIDONIO APOLLINARE, C. 7, 589-590. 272 LEONE il Grande, Ep. 159, 1. 273 LEONE il Grande, Ep. 166, 1. Si potrebbe al limite pensare che questi bambini sono

stati portati via nel 402 o nel 408. Non bisogna dimenticare che queste lettere sono

inviate a Neone e a Niceta in quanto metropoliti. 274 LEONE il Grande, Ep. 159, 5. 275 LEONE il Grande, Ep. 159, 6-7; Ep. 166, 1-2.

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77

Roma, tagliata fuori dai granai africani, e Ravenna, che non è meno dipendente

dalle regioni agricole che la circondano, come mostrerò in conclusione.

***

Chiudo qui questa breve analisi. Sarebbe errato credere che la presa di

Aquileia da parte di Attila segni la totale scomparsa della città e del suo ruolo

di avamposto d’Italia, o addirittura la fine della vita della regione, che

conoscerà ancora molte invasioni. Non occorre attendere la fine del secolo

perché la sorte dell’Italia – non si può più dire dell’Impero d’Occidente – si

decida di nuovo sull’Isonzo, dove Odoacre viene sconfitto da Teodorico

nell’estate del 489.

Ci troviamo di fronte a una nuova invasione barbarica? Ufficialmente no,

perché l’Amalo ha ricevuto da Zenone il compito di riconquistare l’Italia. Lo

stesso vale per Narsete, che porterà a termine la riconquista dell’Italia a capo

di contingenti lombardi. Poco dopo si ripeterà quanto visto nel 402 e nel 408

con Alarico: i Lombardi, dopo aver scoperto l’Italia, preferiranno prenderla

con la forza, piuttosto che dover venire alle mani con gli Avari, che li

attaccano, aspettando l’arrivo degli Ungari.

Per quanto riguarda il nord, la situazione differisce appena. Se Odoacre –

che la conquista della Dalmazia nel 481 ha portato nella regione di Aquileia –

affronta i Rugi sul Danubio, è perché questi sono spinti da Zenone, così come

Costanzo II ha lanciato gli Alamanni contro l’Alsazia di Magnenzio e di

Giuliano. Nel caso dei Rugi e di Teodorico, il connubio tra i barbari e

Costantinopoli viene esplicitamente affermato. Si può dire altrettanto delle

invasioni di Alarico nel 401 e nel 408? Forse corriamo un po’ troppo; ma i

contemporanei, constatando l’inoperosità della Pars Orientis, hanno pensato

probabilmente che una vera e propria alleanza tra Oriente e Occidente

avrebbe allontanato il pericolo barbarico dal Danubio e dall’Italia. In ogni

caso i dissidi tra le due metà dell’Impero a partire dal 395, cos ì come le

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78

usurpazioni avvenute tra il 350 e il 395, hanno giocato a favore dei barbari,

che ad ogni guerra civile hanno approfittato dell’abbassamento della guardia

alle frontiere.

Le nostre fonti letterarie non sempre segnalano questi fatti, poiché

s’incentrano sugli imperatori e sulla lotta per il potere, sulle capitali piuttosto

che sulle province, soprattutto quando queste diventano sempre meno

accessibili. Ecco che dovrebbe subentrare, a questo punto, l’archeologia. Ma

per quanto riguarda le sponde del Danubio, della Drava e della Sava o le varie

pendici alpine, temo che non siamo ancora giunti a una conoscenza

sufficientemente completa, né sufficientemente precisa. Mi sembra che

bisognerebbe tenere in maggior considerazione la frammentazione delle Alpi,

che fa sì che le conclusioni desumibili da una scoperta isolata non debbano

superare il territorio in cui essa si situa. Quanto meno queste scoperte

consentono di precisare, e in molti casi di moderare in un senso o nell’altro, le

affermazioni spesso generiche e assolute delle fonti letterarie.

Raramente, infatti, si tratta di opere obiettive. Il genere letterario – che si

tratti di panegirici, di elogi, di orazioni funebri o d’invettive – e le passioni

religiose e politiche abbassano, spesse volte, il grado di sicurezza su cui si

dovrebbe poter contare. Le indicazioni numeriche, quando riportate, sono

spesso poco attendibili e, aspetto su cui vorrei insistere per concludere, le

parole non hanno lo stesso valore nelle diverse epoche. Non parlo

semplicemente dell’allontanamento più o meno evidente dei «testimoni»

rispetto ai fatti riportati; mi riferisco soprattutto a quella sorta di adattamento

che il ripetersi delle disgrazie ha creato e che possiamo constatare per Aquileia

e per la sua regione. Tanto per citare un esempio, Ammiano Marcellino

descrive con orrore gli avvenimenti degli anni 376-378. Ma egli scrive prima del

401, e a fortiori prima del 410, anche se non può non considerare quanto successo

tra il 378 e il 395 circa. La sensibilità s’inasprisce o si smorza a contatto con

calamità ricorrenti? Le parole, a forza di essere le stesse, non generano forse solo monotonia,

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mentre queste invasioni sono state, per ogni generazione, «la» calamità? Per

non dimostrarsi sempre tragico, il tono deve forse assumere l’impassibilità

delle note presenti nelle Cronache? Ci piacerebbe poter seguire fra le pietre

dei suoi bastioni, delle sue case, delle sue chiese e del suo porto la storia di

Aquileia, del suo livello di ricchezza e del numero della popolazione. Il

contatto con le realtà economiche oggettive permetterebbe altresì di non farsi

ingannare dalle pagine più ottimistiche. Citerò l’ultimo esempio, che

meriterebbe una lunga trattazione. Non conosco elogio di Aquileia e di tutta

l’Histria più eclatante dei testi delle Variae, in cui Cassiodoro dipinge la

regione come la «Campania di Ravenna», vantando la ricchezza di grano, di

vino e di olio d’oliva276. Ma è evidente che sono, in buona parte, miraggi di un

affamato!

(1976)

276 CASSIODORO, Variae, XII, 22-24. Sul contesto economico di questi testi cfr. L.

RUGGINI, Economia e Società nell’Italia Annonaria, Milano 1961, pp. 321-349.

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80

Yves-Marie Duval

AQUILEIA E LA PALESTINA TRA IL 370 E IL 420

Le due date, entro le quali mi è stato chiesto di collocare il presente lavoro,

lasciano intendere che mi è stato assegnato in primo luogo lo studio delle

opere di Girolamo e di Rufino. Si tratta di un campo immenso, che

richiederebbe di essere approfondito molto più di quanto non possa fare in

questa sede. Per iniziare vorrei richiamare l’attenzione sui limiti e sui rischi di

un simile studio, se ci si attiene strettamente alle frontiere geografiche e

cronologiche imposte.

Se facciamo partire l’analisi da Aquileia, non si può certo prescindere dagli

ambienti ebraici di Aquileia e della regione. Non posso far altro che rimandare

all’articolo di Lellia Cracco-Ruggini sulle colonie, sui luoghi di culto e sugli

interventi degli ebrei nelle questioni cristiane1. Qualche anno fa Mons.

Biasutti, in merito a Santa Sabida, ha rivelato tracce di sincretismo giudeo-

cristiano nelle campagne del Friuli2. Per motivi professionali e commerciali gli

ebrei viaggiano, entrando così in stretto contatto con i correligionari di

Alessandria, della Palestina e della Mesopotamia. Lo stesso vale

pe r i S i r i an i , r i evoca t i da Bruna For la t i Tamaro 3. Non par le rò

1 Cfr. L. CRACCO-RUGGINI, Ebrei e orientali in Aquileia, in AAAd. XII, Aquileia e

l’Oriente mediterraneo, Udine 1977, pp. 353-382. 2 G. BIASUTTI, Sante Sabide. Studio storico-liturgico sulle cappelle omonime del Friuli,

Udine 1956; S. TAVANO, La religiosità popolare nella valle padana, in Atti del II

convegno di studi sul folklore padano, Modena 1966, pp. 386 sgg. 3 B. FORLATI TAMARO, Iscrizioni greche di Siriani a Concordia, in AAAd. XII, Aquileia e

l’Oriente mediterraneo, Udine 1977, pp. 383-392.

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dei vari gruppi di Aquileia e dintorni. In compenso parlerò brevemente dei

cristiani di altre cittadine dell’Italia settentrionale, giacché talvolta bisogna

andare fino in Gallia per seguire le tracce di un viaggiatore o di un pellegrino

che è passato per Aquileia andando in Palestina o sulla strada del ritorno.

L’opera stessa di Rufino e di Girolamo, dati i rapporti che implica, impone di

allargare l’area geografica di partenza; tutte queste persone sono in contatto

con Aquileia, dove alcune sono anche vissute per un breve periodo.

Parimenti non possiamo limitarci alla Palestina come unico punto d’arrivo e

scopo unico del viaggio. Un viaggio in Palestina implica tutto un giro,

comprendente, com’è stato ampiamente provato, un passaggio per Alessandria

e per i monasteri d’Egitto, una deviazione per Edessa nonché, se si prende da

un capo all’altro la via di terra, la traversata della Siria, della Cappadocia e il

passaggio per Costantinopoli. Il presente studio ci condurrà spesso a Edessa e

a Costantinopoli. In compenso lascerò a Mons. Biasutti il campo libero per

l’analisi dei rapporti particolari tra la chiesa di Aquileia e quella di

Alessandria4, e non andrò fin nel deserto con Françoise Thélamon5. Mi

limiterò a due osservazioni che mi sembrano altamente simboliche. La prima: i

due carissimi amici, Girolamo e Rufino, quando lasciano Aquileia per l’Oriente, si

recano a Gerusalemme seguendo vie differenti, ma dirette. Girolamo passa per la

Cappadocia e per Antiochia, Rufino per l’Egitto. Entrambi impiegheranno

anni prima di arrivare a Gerusalemme. Di solito ci si mette meno tempo.

Seconda osservazione: la Vita di Antonio, padre dei monaci, scritta da

Atanasio, ospite prestigioso di Aquileia, è stata tradotta ad Antiochia6 per un

4 G. BIASUTTI, Aquileia e la chiesa di Alessandria, in AAAd. XII, Aquileia e l’Oriente

mediterraneo, Udine 1977, pp. 215-229. 5 Fr. THÉLAMON, Modèles de monachisme oriental selon Rufin d’Aquilée, in AAAd. XII,

Aquileia e l’Oriente mediterraneo, Udine 1977, pp. 323-352. 6 Tuttavia credo sia possibile ritenere che la traduzione sia stata fatta prima del ritorno in

Oriente, poiché Innocenzo non viene qualificato come prete all’interno della stessa.

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occidentale senza dubbio originario dell’Italia settentrionale, se non proprio di

Aquileia7.

Ma al di là dei simboli, vi sono dati di fatto. Mi soffermerò, durante questo

studio, sugli itinerari e sulla variazione degli stessi, in funzione di fattori che

probabilmente non potremo cogliere con esattezza (come il costo rispettivo di

un viaggio via terra e di un viaggio via mare), nonché in funzione di eventi

politici e religiosi. C’è forse bisogno di ricordare che il periodo compreso tra il

370 e il 420 ha visto, nelle regioni oggetto del nostro studio, la fine di due

usurpazioni e quasi cinquant’anni d’insicurezza, che è andata crescendo

soprattutto tra il 378 e il 4088? Aquileia è stata direttamente legata a tali eventi

e ne ha subito il contraccolpo, in sé e nei rapporti con l’Oriente.

All’allargamento geografico imposto dal presente lavoro per avvicinarci alla

realtà vissuta ne vanno aggiunti altri due, onde evitare di falsare le prospettive.

Il primo è un invito a non lasciarsi ipnotizzare dalle opere e ancor meno dalle

persone di Girolamo e di Rufino. La loro opera è mastodontica, ma non deve

eclissare altre opere, non meno interessanti al fine di chiarire la natura e

l’importanza degli scambi tra l’Italia settentrionale e l’Oriente. Per quanto

riguarda i due importanti personaggi, va detto che fanno numero con parecchi

altri, che in parte citerò. Non sarebbe esagerato intravedere l’esistenza di molti

altri personaggi. Si potrebbe persino affermare che i progetti di Rufino e di

Girolamo rientrano in un ampio movimento, che comincia ben prima di loro,

addirittura nel IV secolo. È l’ultimo allargamento di cui vorrei parlare. Due date e

due fatti consentono di suggerire i punti principali. Innanzitutto la presenza di

Atanasio ad Aquileia e, di conseguenza, tutti i rapporti dottrinali che susciterà e manterrà

7 Secondo l’Ep. 3, 3, in cui Girolamo racconta della sua morte, Innocenzo è noto agli

amici di Girolamo ad Aquileia. 8 Cfr. il mio studio Aquilée sur la route des Invasions (350-452), in AAAd. VII, Aquileia

e l’arco orientale, Udine 1976, pp. 255-280.

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l’arianesimo tra Alessandria e l’Occidente, nonché tra la Cappadocia e

l’Occidente: Ilario di Poitiers, di ritorno da Costantinopoli e da Seleucia, ed

Eusebio di Vercelli, di ritorno dalla Palestina e da Alessandria, sono passati

per Aquileia nel 3609. L’interesse da parte dell’Occidente nei confronti della

teologia e della spiritualità orientali è aumentato grazie a loro. Dopo la morte

di Atanasio, Basilio di Cesarea entrerà in contatto con Valeriano di Aquileia e

con Ambrogio10. La seconda data è quella dell’Itinerarium Burdigalense: il

333. Un anonimo si reca a Gerusalemme e fornisce, a chi vuole andare in

Terra Santa, i dettagli delle tappe su strada. Le basiliche di Costantino non

sono ancora terminate, la vera Croce è appena stata scoperta, e in Occidente

già si vuole andare a visitare il posto in cui Cristo è nato, il Golgota e il

Sepolcro. L’espressione letteraria di tale desiderio appare ben oltre la

realizzazione11. Quando Girolamo e Rufino partirono, seguendo vie differenti,

verso Gerusalemme, nella cittadina esisteva già una sorta di «centro di

accoglienza» per occidentali, gestito da almeno un occidentale12. Non bisogna

quindi considerare il periodo 370-420 un punto di partenza, e nemmeno un

periodo propizio, se si desidera cogliere appieno la vita reale dell’epoca. Sarà

un periodo propizio unicamente per le «importazioni» di opere letterarie e di

reliquie, che tratteremo nella seconda e nella terza parte. Prima vorrei seguire,

negli imprevisti, nelle crisi e nei riavvicinamenti, i rapporti che Girolamo e

Rufino intrattennero con Aquileia, compresi quelli che possiamo individuare

nelle loro opere.

9 Y.-M. DUVAL, Vrais et faux problèmes concernant le retour d’exil d’Hilaire de Poitiers

et son action en Italie du Nord (360-363), Athenaeum, 48 (1970), pp. 251-275 e

soprattutto pp. 268 sgg. 10 BASILIO, Ep. 91-92. Cfr. Les relations doctrinales entre Milan et Aquilée dans la

seconde moitié du IVe siècle, AAAd. IV, Aquileia e Milano, Udine 1973, pp. 180 sgg. 11 GIROLAMO, Ep. 46 (passim), 47, 2; PAOLINO di Nola, Ep. 31. 12 GIROLAMO, Ep. 4, 1.

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I - I RAPPORTI TRA AQUILEIA E LA PALESTINA

ATTRAVERSO LE OPERE DI GIROLAMO E DI RUFINO

Il silenzio di Rufino dal 373 al 397

Inizierò da Rufino, nonostante egli abbia lasciato Aquileia dopo Girolamo,

in condizioni

altrettanto misteriose. Sappiamo che ad Alessandria è stato colpito dalle

misure adottate contro i Niceni poco dopo la morte di Atanasio, nel maggio

37313. Il suo arrivo definitivo in Palestina si colloca intorno al 380. Di Rufino

non abbiamo neanche una riga, né prima né dopo il 380, e nulla sappiamo

circa i suoi rapporti con Aquileia, né con Concordia, dove ha lasciato la

madre14 e da dove il vecchio Paolo gli richiede alcuni libri15. Ma ciò non

significa affatto che siano stati tagliati i ponti, né che Rufino sia partito senza

più tornare. Occorre invece tener presente che Rufino aveva probabilmente

concluso la propria vita all’insegna del silenzio e del lavoro, visto che, a

partire dal 398, Girolamo non lo aveva più perseguitato con i suoi attacchi e

con i suoi pamphlets. Sono proprio questi, grazie alle risposte che hanno

suscitato ad Aquileia, a informarci maggiormente, seppur in ritardo, sulla vita

di Rufino ad Alessandria e a Gerusalemme, senza però fornire sempre la

chiarezza desiderabile.

Il viaggio di Girolamo verso Gerusalemme

Tutto è lungi dall’esser chiaro per quanto concerne Girolamo, a cominciare dalla

partenza e dall’itinerario fino ad Antiochia, dove si fermerà. Ritroviamo per cinquant’anni

un’alternanza di periodi bui e di periodi chiari. I periodi in cui gli scambi sono stati più intensi

13 RUFINO di Aquileia, Apologia ad Anastasium, 2 (Ed. M. Simonetti, CC 20, p. 25).

Sulla cronologia e sui relativi problemi cfr. F.-X. MURPHY, Rufinus of Aquileia, his Life

and Works, Washington 1945, pp. 28 sgg. 14 GIROLAMO, Ep. 81, 1. 15 GIROLAMO, Ep. 5, 2.

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e più ricchi forse non coincidono con quelli in cui i rapporti sono stati più tesi.

Tuttavia è proprio su questi ultimi che disponiamo di maggiori informazioni.

Girolamo sembra essere partito da solo. Le circostanze della partenza sono

poco note, come pure l’itinerario. Nella lettera in cui, da Antiochia, illustra a

Rufino come passa il tempo dopo che «un’improvvisa tempesta lo ha portato

lontano da lui», Girolamo, iniziando con l’evocare due tempeste virgiliane,

quella del libro III e quella del libro V, dichiara: «Allora una cupa burrasca si

abbatté sulla mia testa», quindi «cielo e mare ovunque»; e continua: «Dopo le

mie peregrinazioni incerte ed erranti: Tracia, Ponto e Bitinia, traversata della

Galazia e della Cappadocia, caldo bruciante della regione dei Cilici, ero

sfiancato, quando la Siria si offrì a me come un porto sicuro a un naufrago»16.

Questa immagine marittima al termine di un itinerario terrestre potrebbe far

pensare che le allusioni iniziali a Virgilio siano meramente letterarie, tanto più

che ritornano, identiche, in molte di queste prime lettere e in contesti in cui

hanno un valore puramente decorativo e letterario17. Tuttavia mi sembra

plausibile invocare un testo più tardo, apparentemente impersonale, a favore di

un itinerario marittimo nella prima parte. Nella Prefazione alla sua traduzione

dei Paralipomeni sulla Bibbia dei Settanta, due libri ricchi d’informazioni

sulla geografia e sulla storia della Palestina, Girolamo dichiara: «Così come si

comprendono meglio gli storici greci dopo aver visto Atene, e il libro terzo

dell’Eneide dopo aver navigato dalla Troade, attraverso Leucade e i Monti

Acrocerauni, fino in Sicilia, per arrivare alle foci del Tevere, allo stesso modo

si comprende meglio la Scrittura dopo aver contemplato con i propri occhi la

Giudea, visitato i monumenti delle antiche città e constatato ciò che è rimasto e ciò che è

16 GIROLAMO, Ep. 3, 3. 17 Cfr. H. HAGENDHAL, Latin Fathers and the Classics, Göteborg 1958, pp. 100-101, che

ha trovato tracce di ricordi recenti e concreti.

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cambiato nei nomi delle località»18. Certo, il viaggio in questo caso è

incompleto e viene fatto al contrario19; certo, si potrebbe pensare che il

passaggio per Atene, peraltro attestato20, abbia potuto aver luogo all’arrivo di

Girolamo da Costantinopoli a Roma nel 38221, ma non penso che, a quel

tempo, la via marittima da Costantinopoli a Roma risalisse ancora così a nord

nel mar Ionio, quando si vuole raggiungere non già Brindisi, ma lo stretto di

Messina o la parte meridionale dell’isola22. Sarei quindi pronto a vedere nei

ricordi letterari della lettera a Rufino l’espressione di ricordi reali. Ciò

porterebbe a supporre che per Girolamo fosse fondamentale non tanto arrivare

a Gerusalemme, sempre che fosse questa l’intenzione al momento della

partenza23, quanto piuttosto partire, e che si sia lasciato portare dai battelli che

ha avuto modo di prendere. Una volta doppiato il Capo Malea24 è risalito verso

il Pireo, poi verso Tessalonica o verso Costantinopoli e da lì ha preso la via di

18 GIROLAMO, In librum Paralipomenon, Praefatio (PL 29, c. 401 A-B). 19 Lo stesso vale per il viaggio di Paola nel 385: Ep. 108, 7. 20 GIROLAMO, In Zachariam, 12, 3 (CC 76 A, p. 862, ll. 58-64); In Titum, 1, 12 (PL 26, c. 572 C). 21 Paolino di Antiochia ha soggiornato per un breve periodo a Tessalonica. 22 Sul viaggio di Enea e sulle vie marittime primitive cfr. P. MARTIN, Le sillage d’Énée,

in Athenaeum, 53 (1975), pp. 212-244. 23 Se possiamo considerare un’intenzione primitiva la dichiarazione dell’Ep. 22, 30, in

cui Girolamo afferma che «andava a Gerusalemme per mettersi al servizio di Cristo».

Nell’Ep. 5, 1 Girolamo scrive a Fiorentino che il desiderio di andare a Gerusalemme «si

è riacceso». 24 Secondo P. MONCEAUX (Saint Jérôme, sa jeunesse, l’étudiant et l’ermite, Paris 1932,

pp. 99-100), Girolamo è andato via mare soltanto da Aquileia a Durazzo, dove ha preso

la Via Egnatia, che gli ha permesso di attraversare la Macedonia e giungere così a

Costantinopoli. Era, di fatto, la via ordinaria all’epoca, per chi veniva da Roma. Non è da

escludere che Girolamo, specie se partito a stagione inoltrata, abbia interrotto la

navigazione a Durazzo. Ma Monceaux non conosce il testo della Prefazione del Libro

dei Paralipomeni, che può contenere ricordi autobiografici. F. CAVALLERA (Saint

Jérôme, sa vie et son oeuvre, Louvain-Paris 1922, I, 1, p. 25) resta sul vago circa tale

viaggio.

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terra attraverso l’Asia Minore. Lo abbiamo visto arrivare ad Antiochia; prima

del 385 non andrà oltre. Ma è da qui che lo vedremo in contatto con Aquileia e

soprattutto constateremo che la gente di Aquileia viaggia e si reca in Palestina.

Gli incontri di Girolamo

Ad Antiochia Girolamo ritrova Evagrio, che ha soggiornato nell’Italia

settentrionale, nonché il prete Innocenzo, cui Evagrio dedica la traduzione

della Vita di Antonio. Innocenzo è noto alla gente di Aquileia25; probabilmente

è originario dell’Italia settentrionale, ma si trova ad Antiochia presso Evagrio,

con cui forse è tornato, non sappiamo con quale intenzione. Più conosciute

sono invece la provenienza e le intenzioni delle altre persone citate da

Girolamo. Girolamo ha percorso un tratto di strada con Nicea, suddiacono

della Chiesa di Aquileia; questi aveva lasciato Aquileia prima del ritorno di

Girolamo dalla Gallia, visto che l’amicizia tra i due sembra essere nata «da

poco», vale a dire durante il viaggio. I due pellegrini hanno fatto conoscenza

lungo la strada26. Invece nella persona di Eliodoro, Girolamo ritrova una

vecchia conoscenza. Questi ritorna da Gerusalemme quando Girolamo lo

incontra ad Antiochia27. La sua partenza ha preceduto nuovamente quella di

Girolamo. Né Nicea né Eliodoro rimarranno in Oriente, malgrado gli sforzi di

Girolamo per trattenere almeno il secondo, più libero nei movimenti28.

25 GIROLAMO, Ep. 3, 3. 26 GIROLAMO, Ep. 8. 27 GIROLAMO, Ep. 3, 2; 4, 1. 28 Nel 384 Girolamo non esita a far partire Presidio di Piacenza, benché vincolato dalla

carica di diacono (Ed. G. Morin, in BAnclit, 3 (1913), pp. 56-57, ll. 71-125). Innocenzo

era prete, ma non si sa di quale chiesa.

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Le lettere al paese

La gente che ritorna al paese si vede ovviamente affidare delle lettere.

Benché non contengano nessun’indicazione circa i portatori, le lettere che ci

sono pervenute sono altre, visto che indicano spostamenti piuttosto frequenti,

in entrambi i sensi. Al monaco Antonio di Emona Girolamo dichiara di aver

scritto «dieci volte», senza ottenere risposta29. Probabilmente c’è

dell’esagerazione in tale cifra, anche se accade un episodio simile con le

Vergini della città, che rimangono anch’esse in silenzio30. Per quanto riguarda

la zia Castorina, Girolamo dice esplicitamente di averle già scritto, invano,

l’anno prima31. Un rimprovero analogo è rivolto al monaco di Aquileia

Crisocomas, cui Girolamo aveva scritto o fatto portare i propri saluti mediante

Eliodoro32.

Le lettere dal paese

Possibile quindi che i rapporti siano più frequenti nel senso Antiochia-

Aquileia che non nel senso opposto? No, perché Girolamo è il primo a

ricevere una lettera di Cromazio, del fratello Eusebio e di Giovino33. Allo

stesso modo il diacono Giuliano ha preso l’iniziativa di scrivere, per

rimproverare a Girolamo il suo silenzio34. Quest’ultimo, nel piccolo alterco

che immagina con il suo corrispondente, dichiara: «Se dirò (per giustificare il

mio silenzio): “Non ho trovato nessuno che portasse le mie lettere”, tu dirai

che in parecchi (quam plurimos) sono andati da qui a lì»35. Anche Paolo di Concordia

29 GIROLAMO, Ep. 12: «decem iam, nisi fallor, epistulas (...) misi». 30 GIROLAMO, Ep. 11: «totiens uobis tribuenti officium». 31 GIROLAMO, Ep. 13, 2. 32 GIROLAMO, Ep. 9. 33 GIROLAMO, Ep. 7, 2: «ut scribitis, ante non scripsi». 34 GIROLAMO, Ep. 6, 1: «ego a te obiurgatus de silentio litterarum». 35 Ibid.

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ha scritto a Girolamo, incaricandolo di richiedere alcuni libri a Rufino36.

Probabilmente sapeva che erano partiti entrambi per Gerusalemme, pur

seguendo strade diverse, e che si sarebbero ritrovati lì. I rapporti erano forse

più frequenti tra l’Italia settentrionale e la Palestina che non tra l’Italia

settentrionale e l’Egitto? Il vecchio Paolo ha forse scritto anche a Rufino in

Egitto? Sono domande a cui è impossibile fornire una risposta certa. Tuttavia

aggiungerò due osservazioni. Innanzitutto è ad Antiochia che Girolamo è

venuto a sapere della presenza di Rufino in Egitto. L’ardore con cui parla dei

monaci di Nitria e di Macario lascia supporre che ne conoscesse già piuttosto

bene le imprese, e che non fossero sconosciuti nemmeno ad Aquileia37.

Girolamo sarebbe prontissimo a raggiungere Rufino in Egitto, se non fosse per

il suo stato di salute. D’altra parte è al corrente degli eventi più recenti di

Alessandria, grazie a coloro che sono stati inviati a portare soccorso a chi è

stato esiliato da Alessandria, per volontà dell’imperatore Valente, nel 373-

374. Girolamo parla di un monaco incaricato di questa missione38. Non è

inverosimile che lo schiavo di Melania, che muore ad Antiochia, fosse venuto

per lo stesso motivo39. Sappiamo infatti che Melania l’Anziana seguì, per

breve tempo almeno, un gruppo di esuli nella regione di Diocesarea di

Palestina40. Il cerchio si chiude, ma si chiude sia ad Aquileia sia ad Antiochia,

poiché non vi è ragione di pensare che le notizie riguardanti le

persecuzioni contro i Niceni non siano state diffuse ad Aquileia, in un

36 GIROLAMO, Ep. 5, 2. 37 Cfr. Ep. 3, 1: «Audio te Aegypti secreta penetrare, monachorum inuisere choros...

etc.»; 3, 2: «Rufinum Nitriae esse et ad beatum perrexisse Macarium...». 38 GIROLAMO, Ep. 3, 2. 39 GIROLAMO, Ep. 3, 3. 40 PALLADIO, Historia Lausiaca, 46, 3.

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periodo in cui l’arianesimo era appena stato sradicato41 e in cui si sarebbe

iniziata a manifestare l’azione di Ambrogio42.

Il Concilio di Aquileia e l’Oriente

Non ritornerò più sulla questione dell’arianesimo. Ho già avuto occasione di

parlarne a proposito di Aquileia43. Non c’è dubbio che l’affare non abbia

occupato molto spazio nelle affermazioni di chi tornava dall’Oriente e poteva

testimoniare i progressi dell’ortodossia, a partire dal 381 almeno. Prima, sotto

Valente, vediamo Girolamo alle prese con le varie tendenze, più o meno

eterodosse, del deserto della Calcide. Nel 381 appunto Paolino di Antiochia

scriverà ai membri del Concilio di Aquileia per chiedere appoggio44; invierà

forse Evagrio, il miglior legato che potesse trovare in tale circostanza45. Non

mi soffermerò su questo punto, come pure non mi dilungherò sull’arrivo

dell’alessandrino Massimo, né sull’intervento del Concilio di Aquileia a

favore di Timoteo di Alessandria46.

Rottura delle comunicazioni attraverso l’Illirico?

Vorrei invece richiamare l’attenzione su un altro punto, che riguarda i

rapporti con l’Oriente in quegli anni e che va oltre la figura di un individuo o

di un piccolo gruppo di monaci e di chierici. Innanzitutto dobbiamo constatare

che tra il 375 e il 381 non abbiamo neanche una lettera di Girolamo destinata alla gente

41 GIROLAMO, Ep. 7, 6. 42 Cfr. Les relations doctrinales entre Aquilée et Milan, pp. 183 sgg. 43 Ibidem, pp. 188 sgg. 44 AMBROGIO, Ep. 12, 4. 45 Se lo si può identificare con l’Evagrius presbyter che appare negli Atti del Concilio del

381. Cfr. Les relations doctrinales, p. 186. 46 AMBROGIO, Ep. 12, 4.

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di Aquileia, mentre vediamo che il nostro monaco scrive due volte a Roma. Le

ragioni di questo interesse per Roma non mancano, ma appare meno chiara la

rottura dei rapporti con Aquileia, a meno che non si tratti del contraccolpo

della situazione politica. Già nel 375, infatti, Basilio, che abbiamo visto

scrivere a Valeriano e che è in contatto con Ambrogio nel 375 o nel 376,

rievoca le difficoltà incontrate nel raggiungere Roma d’inverno, via terra47.

Nel 374 e nel 375 il medio Danubio viene invaso ripetute volte e, a partire dal

376, si palesa (prima sul basso Danubio e poi sul medio) la minaccia che, per

sei anni, incomberà sulle comunicazioni tra Costantinopoli e l’Italia

settentrionale. Alla fine del 381 i vescovi presenti ad Aquileia chiedono,

seguiti da Ambrogio, la convocazione di un nuovo Concilio, suggerendo che si

tenga a Roma48 o ad Alessandria49, città che presentano un facile accesso al

mare, proprio a causa dei disordini che rendono poco sicuri i viaggi attraverso

l’Illirico50. I Padri del Concilio non affermano forse di aver avuto l’intenzione

di mandare «qualche loro membro» ad Antiochia per risolvere la questione

dello scisma, e di essere stati bloccati dall’hostilis irruptio e dai tumultus

publici51? Non si sa con esattezza a quale data vadano ricondotte tali

intenzioni52.

Il pasticcio scatenato dalle lettere e gli intempestivi interventi del Concilio di

Aquileia nelle questioni d’Oriente lascerebbero intendere che i vescovi

dell’Italia settentrionale fossero allora, nonostante le lettere cui si fa allusione,

poco o male informati circa la reale situazione delle chiese d’Oriente. Nel primo caso

la rottura delle relazioni è forse dovuta agli eventi politici dell’ultimo lustro; nel secondo

47 BASILIO di Cesarea, Ep. 215. 48 AMBROGIO, Ep. 12, 5. 49 AMBROGIO, Ep. 13, 6. 50 AMBROGIO, Ep. 14, 7. 51 AMBROGIO, Ep. 12, 5. 52 Viene invocata la «uetusta communio» (Ep. 12, 4; 13, 2).

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caso – che non esclude il primo – informatori come Massimo, come Evagrio o

(per quanto riguarda Paolino) come Girolamo erano troppo di parte. In ogni

caso Ambrogio esprime il desiderio di veder ristabilita e mantenuta l’unione

tra le chiese d’Occidente e quelle d’Oriente53. Sembra rispondere alle

affermazioni di Basilio quando nega, presso Teodosio, di essere intervenuto a

sproposito nelle questioni d’Oriente, adducendo che gli orientali si

lamentavano, un tempo, dell’indifferenza che sembravano mostrare nei loro

confronti le chiese d’Occidente54. Nonostante gli insuccessi, Ambrogio

continuerà a occuparsi della questione di Antiochia. A tale proposito entrerà in

contatto con Teofilo di Alessandria55. Non so se il comportamento di

Girolamo sia in qualche modo legato all’irritazione che il vescovo di Milano

finirà per provare56. In ogni caso Girolamo non sembra aver gradito l’abbandono

dell’amico Evagrio da parte di Ambrogio; quest’animosità ha condizionato i primi

– difficili – rapporti tra Girolamo e Teofilo di Alessandria57, che peraltro a quel

tempo era amico di Rufino.

Girolamo a Betlemme

Non siamo ancora arrivati a quegli anni. Eppure dobbiamo constatare un

immenso vuoto nei rapporti di Girolamo con Aquileia, stando a quanto risulta dalla

sua opera. Nel 381 Girolamo si trova a Costantinopoli. È a Roma dal 382 al 385,

53 AMBROGIO, Ep. 14, 1. 54 Ibid., 14, 2. 55 Su un aspetto misconosciuto di questi rapporti cfr. il mio Saint Ambroise de Milan de

son élection à sa consécration épiscopale, in Ambrosius episcopus, «Congresso

internazionale di Studi Ambrosiani nel XVI centenario della elevazione di S. Ambrogio

alla cattedra episcopale», Milano 1976, II, p. 254 e n. 44. 56 AMBROGIO, Ep. 56. 57 Cfr. Sur les insinuations de Jérôme contre Jean de Jérusalem, in RHE 65 (1970), p.

362 e n. 7.

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ma non è dimostrato che sia venuto ad Aquileia58 o a Stridone, da cui arriva

Paoliniano (suo fratello), che lo raggiunge a Roma. Qui Girolamo ha visto

Valeriano e ha frequentato per qualche settimana Ambrogio, in occasione del

Concilio del 382. Attraverso un giudizio malevolo sull’opera di Ambrogio

possiamo constatare che Girolamo, trasferitosi a Betlemme, si tiene informato

su quel che succede in Italia settentrionale59. In precedenza aveva espresso

soltanto complimenti per il De uirginibus di Ambrogio60; ma già a Roma

faceva capolino una certa malignità nel suo progetto di tradurre per Damaso il

Trattato sullo Spirito Santo di Didimo, che Ambrogio aveva appena

utilizzato61. A Betlemme, dove si trasferisce definitivamente nel 386,

Girolamo riceve presto l’Explanatio in Lucam di Ambrogio; per tutta risposta

traduce le Omelie di Origene, cui si ispirava Ambrogio. Parecchi punti mi

sembrano degni di essere presi in esame. Innanzitutto la data, che non è nota

con certezza. Si può supporre che ci troviamo non prima della fine del 388,

visto che, nei due anni precedenti, i rapporti con l’Italia settentrionale erano

già stati interrotti. Nel giugno (?) 387 Valentiniano lascia Aquileia per

Tessalonica. Poco dopo Massimo occupa non soltanto l’Italia settentrionale,

ma anche buona parte dell’Illirico occidentale. Il mare è chiuso e i rapporti

vengono ridotti notevolmente, fino alla sconfitta di Massimo62. Alla

58 Sarebbe interessante sapere dove e come Girolamo sia entrato in contatto con Presidio

di Piacenza e dove si trovasse Girolamo quando ha preso i faseli che l’hanno riportato a

Roma (Ep. ad Praesidium, ll. 161-162). 59 GIROLAMO, Prefazione alla traduzione delle Omelie su Luca di Origene. 60 GIROLAMO, Ep. 22, 22. 61 GIROLAMO, Prefazione alla traduzione di DIDIMO, De Spiritu Sancto (PL 23, c. 102 A). 62 Sui rapporti tra Italia e Africa abbiamo la testimonianza di Agostino. Poiché l’attacco

proveniva da Oriente, è poco probabile che sia stato più facile navigare da questo lato.

Per quanto riguarda la via di terra, è occupata dagli eserciti che si affronteranno

nell’estate del 388. Tuttavia sappiamo che Teofilo di Alessandria aveva mandato i propri

complimenti al vincitore.

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ripresa dei rapporti Girolamo viene a sapere dell’elezione di Cromazio sulla

cattedra di Aquileia. Nessun indizio indica che abbia accolto favorevolmente

tale elezione. Anzi, la Prefazione alla traduzione delle Omelie su Luca fa

allusione, senza citare l’autore, ai Commenti a Matteo di Fortunaziano di

Aquileia. Il tono non è più lo stesso di quando Girolamo chiedeva a Paolo di

Concordia di inviargli la «perla del Vangelo»63. Tra le due affermazioni sono

passati dai dodici ai quindici anni, durante i quali Girolamo ha avuto modo di

scoprire le «ricchezze d’Oriente». Alla fine della Prefazione rivela l’intenzione

di farle conoscere all’Occidente, traducendo il maggior numero possibile di

omelie di Origene, in particolare quelle della maturità. Tuttavia non farà nulla,

e sarà Rufino a mettersi al lavoro, richiamandosi proprio a questa promessa

non mantenuta64. Una di queste traduzioni di un Origene ormai vecchio sarà

effettuata proprio ad Aquileia e sarà dedicata a Cromazio.

I rapporti durante l’usurpazione di Eugenio

Il decennio 390-400 è molto ben documentato, nonostante sia un

periodo molto agitato sul piano politico: nel 392-394 abbiamo

l’usurpazione di Eugenio; tra il 395 e il 402 le incursioni barbariche

attraverso l’Illirico, che porteranno, passo dopo passo, al primo assedio di

Aquileia. Occorre tener conto di tali tumulti per spiegare certi silenzi,

certe difficoltà di trasmissione. Parimenti si notano certi spostamenti

d’itinerario, che forse non sono fortuiti: Girolamo è in contatto sia con

Roma, sia con Aquileia, e varie persone che vediamo giungere nell’Italia

settentrionale dalla Palestina passano prima per Roma. Forse alcune sono

sbarcate a Brindisi.

N e l 3 9 3 G i r o l a m o d e d i c a a C r o m a z i o

63 GIROLAMO, Ep. 10, 3. 64 RUFINO, Apol. contra Rufinum, II, 26; Praefatio in librum I Origenis Peri Archôn, 1.

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il Commento ad Abacuc65; nel frattempo si piega alla volontà del prete

Nepoziano di Altino, per riguardo verso suo zio Eliodoro. Stando all’inizio

della lettera, Girolamo aveva ricevuto già varie volte tale richiesta negli anni

precedenti66. Ricorderà l’episodio qualche anno dopo, aggiungendo che

Eliodoro ha interceduto per il nipote67. A quanto pare non era la prima opera di

Girolamo che arrivava nell’Italia settentrionale: secondo quanto affermato,

Nepoziano talvolta leggeva le opere di Girolamo68.

La prima fase della controversia intorno a Origene

Tuttavia si dà il caso che in quello stesso anno, il 393, in cui constatiamo la

continuità, se non addirittura la ripresa dei rapporti di Girolamo con Aquileia,

ha inizio, a Gerusalemme e a Betlemme, la controversia che separerà per

sempre i due amici. Girolamo sperava di inviare a Cromazio altri Commenti ai

profeti minori69. In realtà si deve fermare, preso com’è da altri lavori meno

decorosi, che passa sotto silenzio, sebbene non riesca a evitare che la notizia

delle dispute giunga fino a Roma e ad Aquileia. Non è Rufino a spargere la

voce, bensì alcuni viaggiatori, come Vigilanzio, di cui Girolamo dirà che,

ritornato dalla Palestina e dall’Egitto, ha «tra i flutti dell’Adriatico e le Alpi

del re Cozio, fatto proclami» contro di lui70. Vigilanzio, che porta una risposta

a Paolino di Nola, è probabilmente sbarcato in Italia a Brindisi, invece che ad

Aquileia. Tuttavia non è del tutto escluso un passaggio per Aquileia,

v i s t o c h e , l ’ a n n o s u c c e s s i v o , r i t r o v i a m o t r a c c e d e l

65 GIROLAMO, In Habacuc, Prologus (CC 76 A, p. 579). Il commento è citato nel De

uiris. 66 GIROLAMO, Ep. 52, 1. 67 GIROLAMO, Ep. 60, 11. 68 GIROLAMO, Ep. 60, 10. 69 GIROLAMO, In Habacuc, Prologus (CC 76 A, p. 579, ll. 21-22). 70 GIROLAMO, Ep. 109, 2 f.

Page 92: Fusco Enrico

96

malcontento di Cromazio dinanzi al comportamento di Girolamo nei confronti

di Giovanni di Gerusalemme, suo vescovo, e di Rufino, suo compatriota.

Cromazio non sembra essersi rivolto a Girolamo direttamente, bensì, stando

all’interessantissima interpretazione di un testo scomodo offerta recentemente

da P. Nautin71, tramite Pammachio, amico romano di Girolamo. È lui che ha

chiesto a Girolamo di dedicare a Cromazio il suo In Ionam, nella speranza di

dimostrargli la sua buona volontà. Tuttavia Girolamo riceve notizie dall’Italia

settentrionale: apprende che Cromazio ha perso il fratello Eusebio72 e che ha

scritto in questa seconda metà del 396 l’Elogio funebre di Nepoziano73.

Il 397 è l’anno del ritorno di Rufino in Italia, o quanto meno a Roma. A

Cromazio, che lo ha invitato al lavoro, Girolamo offre la traduzione

dall’ebraico del libro dei Paralipomeni74. In questi anni le occasioni per

viaggiare sembrano più frequenti; se non altro conosciamo, in parte, i nomi di

chi lascia la Palestina per Roma e per l’Italia settentrionale. Rufino era stato

preceduto dal prete Vincenzo75; l’anno successivo partono Eusebio di

Cremona – nuovamente un italiano del nord – e Paoliniano, fratello di

Girolamo, che si reca a Stridone per soggiornare poi brevemente ad Aquileia,

nelle condizioni che vedremo fra poco. È lui ad aver portato la traduzione dei

Libri di Salomone, che Girolamo ha dedicato congiuntamente a Cromazio e a

Eliodoro. Secondo la Prefazione, entrambi i vescovi hanno risposto al

doppio invio dell’anno precedente, e hanno consigliato a Girolamo di

continuare i Commenti ai profeti minori. R i t o r n e r e m o i n s e g u i t o

71 P. NAUTIN, Études de chronologie hiéronymienne, REAug 20 (1974), pp. 270-272. 72 GIROLAMO, Ep. 60, 19 ad f. 73 Sulla data dell’Ep. 60, cfr. Ep. 77, 1. La lettera è di poco precedente all’In Ionam,

dove viene citata. 74 GIROLAMO, Praef. in librum Paralipomenon (PL 28, c. 1323). 75 Cfr. P. NAUTIN, art. laud., pp. 275-276.

Page 93: Fusco Enrico

97

sulla Prefazione, molto interessante per altri motivi, ma avremo altresì modo

di notare che i Commenti ai profeti minori che Girolamo scriverà circa dieci

anni dopo non saranno dedicati né a Cromazio né a Eliodoro.

C’è da dire che, nel frattempo, la riconciliazione tra Girolamo e Rufino è

stata a dir poco minata da spropositi e da spiacevoli indelicatezze. Ricordiamo

i punti principali: l’anno successivo al suo rientro a Roma Rufino traduce,

emendandolo e smorzandone i toni, il Peri Archôn di Origene, collocando

però l’impresa sotto il patrocinio di Girolamo. Fino ad allora erano state

tradotte soltanto opere pastorali di Origene, non opere di ricerca dottrinale,

ormai superate, se non addirittura erronee su più di qualche punto. È facile

immaginare la reazione di Girolamo. Sarebbe stata più comprensiva se

Eusebio di Cremona, amico di Girolamo, non avesse sottratto, appena giunto a

Betlemme, il lavoro di Rufino, prim’ancora che ricevesse l’ultima mano.

Siamo in un periodo di sospetto, in cui fioccheranno accuse e apologie.

L’unica nota positiva – per così dire – che si può trovare in tali processi, alle

intenzioni e non, è l’attaccamento che i due antagonisti dimostrano alla

purezza della propria fede, benché non la intendano esattamente allo stesso

modo.

Il ritorno di Rufino ad Aquileia

Questa spiacevole controversia ha per noi tutt’altro interesse, visto che ha

dato luogo a molteplici scambi tra Aquileia e la Palestina, in un periodo in cui

la minaccia barbarica si avvicinava all’Italia settentrionale76. Nell’estate del

398 Girolamo era già stato informato riguardo alla traduzione del Peri Archôn

di Rufino. La primavera successiva vede l’arrivo, dalla Palestina, del prete

Rufino il Siriano, colui che diffonderà a Roma il pelagianesimo, che Girolamo

76 Cfr. Aquilée sur la route des Invasions, pp. 275-279.

Page 94: Fusco Enrico

98

in seguito combatterà aspramente e che troverà seguaci nella regione di

Aquileia. Rufino (il Siriano) porta da Betlemme una lettera di Girolamo a

Rufino (di Aquileia). È la risposta di Girolamo a una lettera di Rufino, in cui

questi si era lamentato degli intrighi degli amici di Girolamo e gli aveva

annunciato la sua partenza per Aquileia77. Si avverte, nelle affermazioni di

Girolamo, il desiderio di contenersi. Questo formalismo, nel rispetto

dell’amicizia restaurata a fatica, ha un che di freddo. Tuttavia una sua

affermazione è troppo reale e riceverà un’eclatante conferma: Girolamo si

lamenta di esser soverchiato, sopraffatto dagli amici78. In ogni caso la lettera

di Girolamo, portata in Italia da Rufino il Siriano, incaricato di inoltrarla a

Rufino (di Aquileia) a Milano, sarà intercettata a Roma da Pammachio e da

Marcella, e non sarà quindi consegnata al destinatario.

I due pii laici, infatti, avevano giudicato troppo conciliante la lettera di

Girolamo, in un periodo in cui erano intenti a cercare di ottenere da papa

Siricio la condanna di Rufino, nonché quella di Origene. Rufino il Siriano

aveva portato anche una traduzione meno edulcorata del Peri Archôn, oltre a

varie lettere e prefazioni in cui Girolamo attaccava i traduttori e i sostenitori di

Origene, accusandoli, con parole appena velate, di condividere gli errori più

plateali del loro eroe. Sono gli unici scritti che arrivarono a Rufino. In

precedenza avevano impressionato il nuovo papa, Anastasio. Dopo aver

ricevuto una lettera di Teofilo di Alessandria, che era appena passato

clamorosamente dall’altra parte, il vescovo di Roma scrisse a Simpliciano di

Milano. Simpliciano aveva l’incarico di far condannare Origene da tutti i

vescovi dell’Italia settentrionale79. Ha scritto a Cromazio e, informato da

Eusebio di Cremona, ha menzionato Rufino. Resta il fatto che Rufino si recò

77 Cfr. GIROLAMO, Ep. 81, 1. 78 GIROLAMO, Ep. 81, 2. 79 GIROLAMO, Ep. 95, 2; ANASTASIO, Ep. 9, Dat mihi plurimum à Venerio di Milano (Ed.

J. Van den Gheyn, RHLR 4 (1899), pp. 7-8 = PLS 1, cc. 791-792).

Page 95: Fusco Enrico

99

a Milano per rispondere di un’accusa da parte di Eusebio di Cremona. La

questione non andò come previsto, ma Rufino trovò utile difendersi anche

presso Anastasio. Di questa breve Apologia ricorderò la conclusione. Rufino

dichiara: «Tranne la fede che ho esposto poc’anzi, che è quella della Chiesa di

Roma, di Alessandria, di Aquileia e che è altresì proclamata a Gerusalemme,

non ne ho mai avute, né ho – nel nome del Signore – né avrò mai altre»80.

Ritroveremo tra poco quest’attenzione per i diversi simboli di fede in un altro

scritto di Rufino.

L’Apologia contro Girolamo

Mentre inviava quest’Apologia ad Anastasio, Rufino componeva una

risposta ai documenti che avevano accompagnato fino a Roma la nuova

traduzione di Girolamo, offrendo ai romani la propria versione sugli eventi di

Milano e sugli intrighi degli amici troppo zelanti di Girolamo. L’opera

attaccava altrettanto apertamente Girolamo81, mediante una requisitoria molto

istruttiva. Tuttavia Girolamo non conobbe inizialmente questi scritti attraverso

gli amici, bensì grazie al fratello Paoliniano, di ritorno da Aquileia, che era

riuscito a ottenere informazioni prima della pubblicazione dell’opera.

Girolamo si mette seduta stante al lavoro. Comincia a commentare, confutare,

sospettare, denunciare l’Apologia ad Anastasio e quanto conosce dei due libri

dell’Apologia a lui rivolta. L’opera si presenta come una lettera indirizzata a

Pammachio e a Marcella, ma Girolamo ha cura di farla arrivare personalmente ad

80 RUFINO, Apol. ad Anastasium, 8 (CC 20, p. 28). Tale Apologia precede probabilmente

il processo di Milano. 81 RUFINO, Apol. contra Hieronymum, I, 22 (CC 20, p. 56).

Page 96: Fusco Enrico

100

Aquileia da Rufino, tramite un commerciante che toccò terra solo per due

giorni: giusto il tempo di scaricare e ricaricare la nave82.

Questa fretta trova forse giustificazione nell’insicurezza data dalla

situazione? Ci troviamo nell’estate del 402, e Aquileia ha appena subito un

lungo assedio. I viaggi erano disorganizzati, le vie terrestri attraverso l’Illirico

impraticabili. Il commerciante ripartirà con due lettere, che volevano essere

personali. Una proveniva, ovviamente, da Rufino; l’altra era invece

un’esortazione di Cromazio rivolta a Girolamo, in cui gli veniva

probabilmente chiesto di dedicare il proprio tempo a un lavoro più utile83.

Purtroppo Girolamo non ottempererà subito. Rispose, infatti, a Rufino con una

letteraccia, portata ad Aquileia non si sa da chi. Ormai era meglio tacere, come

seppe fare Rufino, in larga parte84.

Non è la fine dei rapporti di Girolamo con Aquileia, ma bisognerà aspettare

almeno due anni per ritrovare una traccia sicura. Nel frattempo Girolamo

aveva avuto modo di lasciarsi coinvolgere in un’altra brutta controversia, la

cui eco si è fatta sentire ad Aquileia per diversi anni. Mi riferisco all’aiuto che

prestò a Teofilo di Alessandria nella lotta contro Giovanni Crisostomo.

Quest’ultimo ricevette, a partire dal 405, l’appoggio di Cromazio85 ed ebbe la

consolazione di vedersi venire incontro Gaudenzio di Brescia, che aveva

conosciuto durante un precedente viaggio86. Vedremo che questi contatti si

sono rivelati preziosi, giacché equilibrano l’influenza orientale, che

82 GIROLAMO, Apol. contra Rufinum, 3, 10 (PL 23, c. 464 D). 83 Ibidem. 84 È possibile trovare numerose allusioni a Girolamo e alla controversia nelle varie

prefazioni di Rufino. 85 GIOVANNI CRISOSTOMO, Ep. 155; PALLADIO, Dialogus de uita S. Iohannis, 3 f. e 4

inizio. 86GIOVANNI CRISOSTOMO, Ep. 184; PALLADIO, Dialogus, 4.

Page 97: Fusco Enrico

101

potremmo esser tentati di veder trasparire soltanto attraverso le opere di

Girolamo e di Rufino.

Aquileia, l’Aquitania e la Palestina

Una nuova, insistente richiesta da parte di Cromazio e di Eliodoro riallaccerà

forse i rapporti nel 405 o nel 406? Direi piuttosto che le traduzioni dei libri di

Tobia e di Giuditta, dedicati ai vescovi e riconducibili, di norma, agli anni

successivi alla morte di Paola, in realtà precedono di molto sia tale morte, sia

gli ultimi episodi della controversia con Rufino87. Ciò non significa che i

rapporti con Aquileia si siano interrotti o che in quegli anni, caratterizzati dal

delinearsi di nuove minacce sul piano politico, Aquileia sia isolata o

inaccessibile dall’Oriente88. Un indizio molto eloquente consente di vedere

come Girolamo si metta – maldestramente – al riparo dai rimproveri che

potevano giungergli da Aquileia e da Cromazio. Ho già avuto occasione di

ricordare più volte il modo con cui Cromazio ed Eliodoro, nel 392-393 prima e

nel 397 poi, avevano incitato Girolamo a continuare i Commenti ai profeti

minori. L’intenzione da parte sua allora c’era, ma si rimetterà al lavoro appena

nel 406. In ogni caso dedicherà l’opera a due aquitani, e non a Cromazio, né a

Eliodoro. Non che abbia dimenticato la promessa, né che pensi che i due

vecchi amici potessero non sapere nulla di tale infedeltà. Cerca anzi di

scusarsi, dichiarando apertamente, all’inizio dell’In Zachariam, che coloro ai

quali erano stati promessi i Commenti possono considerarsi dedicatari alla

stregua di coloro cui gli scritti sono ufficialmente dedicati, poiché tra amici

tutto è in comune89.

87 Sulla data consueta cfr. F. CAVALLERA, Saint-Jérôme, pp. 290-291; A. PENNA, S.

Gerolamo, Roma 1949, p. 438 e § 381. 88 Sulla chiusura dei porti nel 408 cfr. Aquilée sur la route des Invasions, p. 284. 89 GIROLAMO, In Zachariam, Praefatio (CC 76 A, p. 748, ll. 43 sgg.).

Page 98: Fusco Enrico

102

Avrò modo di ritornare in seguito sulla questione, affrontandola da un altro

punto di vista. Tuttavia s’impongono tre osservazioni, riguardo a questa scusa

sfrontata. Girolamo si sente ancora obbligato nei confronti di Cromazio. La

rottura, quindi, non è totale; si può supporre che i rapporti siano continuati,

sebbene manchino tracce evidenti. D’altronde basterebbe considerare

l’attenzione perversa con cui Girolamo seguirà le attività di Rufino fino alla

morte, e anche oltre. In secondo luogo, sarebbe rischioso focalizzare la propria

attenzione sulla controversia con Rufino, nella convinzione che occupi tutta

l’attività di Girolamo e tutti i suoi rapporti con l’Arco Adriatico. Infine la terza

considerazione: mentre vediamo che gli interessi – in senso strettamente

materiale, almeno da un lato – di Girolamo si spostano verso la Gallia, vale la

pena osservare che l’aquitano Sisinio, che porta i Commenti del 406, non è al

suo primo viaggio a Betlemme. Nel 402 ha consegnato a Girolamo una lettera

di Agostino, di cui aveva avuto notizia «quasi cinque anni prima» in un’isola

dell’Adriatico90. Le isole non mancano nell’Adriatico, e non bisogna per forza

pensare a quelle più vicine ad Aquileia. Tuttavia, se Sisinio ha trovato la

lettera durante un suo viaggio verso l’Egitto o verso la Palestina, ciò è potuto

accadere unicamente partendo da Aquileia, invece che da Brindisi; il che

suggerirebbe che i Galli prendono la via di terra fino ad Aquileia, dove

s’imbarcano per evitare di traversare l’Illirico, troppo poco sicuro. Così

facendo, riescono a portare a Betlemme notizie sull’Italia settentrionale e su

Aquileia.

90 GIROLAMO, Ep. 105, 1.

Page 99: Fusco Enrico

103

La costa dalmata

Vi sono altre testimonianze che allargano il cerchio dei rapporti di Girolamo

nella regione e che informano sulle reali condizioni dei viaggi in Palestina. Mi

riferisco alla corrispondenza di Girolamo con Amabile, Vitale e Castriziano. I

documenti in nostro possesso risalgono agli anni 397-398. Il cieco Castriziano

è, per usare i termini di Girolamo, un «Pannonico, cioè un abitante

dell’entroterra» – homo Pannonius, id est terrenum animal – che, nel desiderio

di visitare la Terra Santa, ha raggiunto la costa dell’Adriatico per imbarcarsi91,

il che costituirebbe un’ulteriore prova dell’insicurezza delle vie di terra verso

Costantinopoli. Tuttavia la prima parte del viaggio ha stancato a tal punto il

nostro cieco, che questi si è fermato al porto di Cissa, con la speranza di

accompagnare il diacono Eraclio in un nuovo viaggio, l’anno successivo. O

almeno questo è l’augurio formulato da Girolamo. L’anno successivo Eraclio

vi farà ritorno; ma non sappiamo se accompagnato da Castriziano92. Vitale,

prete di una città a noi sconosciuta, aveva consegnato una lettera a Eraclio;

Girolamo gli risponde, informandolo che il capitano della nave, Zenone, non

gli ha consegnato mai niente da parte sua, mentre gli ha portato una nuova

lettera di Amabile. Nulla suggerisce che Eraclio abbia viaggiato sulla nave di

Zenone, anzi. Lo stesso anno, dalla stessa regione, vale a dire dalla costa dalmata,

arrivano diversi viaggiatori, che testimoniano la molteplicità di rapporti tra il golfo

dell’Adriatico e la Palestina. Un’altra attestazione arriva dall’unica lettera a noi

pervenuta della corrispondenza di Girolamo con un tale Giuliano, che viveva

anch’egli, probabilmente, non lontano dalla costa dalmata93. In data imprecisata,

91 GIROLAMO, Ep. 68, 2. 92 GIROLAMO, Ep. 72, 1. 93 GIROLAMO, Ep. 118, 3 e 5.

Page 100: Fusco Enrico

104

ma sicuramente successiva al 395, Girolamo riallaccia i rapporti con il grande

proprietario, che si è appena visto devastare i propri possedimenti dalle

invasioni barbariche94.

L’ultimo decennio

Potrei fermarmi qui. Non che non sia possibile risalire ulteriormente nella

vita di Girolamo e trovare testimonianze più tarde dei suoi rapporti con la

regione. Nel 415 vediamo che Fermo si reca a Ravenna per conto di

Eustochio95; a partire dal 407 segue abbastanza da vicino quel che accade nella

nuova capitale da poter esprimere affermazioni ritenute disfattiste96. La

scoperta di lettere inedite andrà probabilmente a colmare le lacune della nostra

documentazione, ma non vi è dubbio che questa, nonostante la sua importanza,

resti ben al di qua della realtà vissuta da Girolamo. Tra le fonti scritte quali

danno maggiori informazioni sugli ultimi decenni dell’Illirico occidentale o

sul primo assedio di Aquileia, rispetto alle poche, semplici allusioni di

Girolamo? Sono molte, ma allo stesso tempo pochissime. L’itinerario

dell’invasione della Gallia nel 407 è conosciuto per filo e per segno da

Girolamo97. Come si può pensare che non abbia cercato di informarsi nei

minimi particolari riguardo a quel che succedeva nella propria regione, e che

non abbia provato l’ansia che lo attanaglia durante l’assedio e la presa di

Roma98? Quanti abitanti dell’Italia settentrionale c’erano tra i numerosi rifugiati

94 GIROLAMO, Ep. 118, 1: «longum silentium rumpo». L’Apologia contra Rufinum, 3, 7

(PL 23, c. 463 C-D) rievoca i rapporti con la Dalmazia in quegli anni (400-403). 95 GIROLAMO, Ep. 134, 20. 96 É. DEMOUGEOT, Saint Jérôme, les Oracles sibyllins et Stilicon, in REAnc. 54, 1952,

pp. 83-92. 97 GIROLAMO, Ep. 123, 15. 98 Egli «segue» gli spostamenti e i lavori di Rufino. La traduzione della Regola di

Pacomio è facilmente interpretabile, a mio avviso, come una replica alla traduzione di

Rufino delle Regole di Basilio.

Page 101: Fusco Enrico

105

di cui Girolamo segnala la presenza a Betlemme99? Benché continui a spiare

gli spostamenti di Rufino, Girolamo non fa neanche un cenno alla morte di

Cromazio. È inconcepibile che non lo sapesse, così come è poco probabile che

tale morte abbia interrotto i rapporti di Aquileia con la Palestina e con l’Egitto,

anche solo negli ambienti ecclesiastici.

S’impone a questo punto una seconda riserva o avvertenza. Quanto precede

si basa, in larga misura, sull’opera di Girolamo e, in misura minore, su quella

di Rufino. I rapporti personali tra i due fratelli-nemici, entrambi figli di

Aquileia, ci hanno occupato a lungo; ma sarebbe rischioso ridurre i rapporti tra

Aquileia e la Palestina a uno scambio di pamphlets, o ai diverbi tra le due

«personalità». Basta ritornare al punto di partenza per notare che i rapporti tra

le due regioni non risalgono alla partenza di Girolamo e di Rufino per

l’Oriente, e che sono andati avanti a prescindere da loro e senza di loro.

Tuttavia, siccome «i popoli felici non hanno storia», dobbiamo fare appello a

chi ha scritto e alle opere giunte fino a noi. Con una documentazione più vasta

sarebbe possibile tracciare l’evoluzione dei rapporti e dei relativi itinerari.

Ho cercato di raccogliere le indicazioni contenute nei testi. La via di terra ha

probabilmente risentito delle condizioni politiche che regnavano nell’Illirico.

A questo livello si è operata la divisione dell’Impero, complice anche, in

un certo qual modo, molto prima di Attila, il decadimento di Aquileia, dato

che via mare, mancando l’entroterra, i trasporti non erano frequenti, nemmeno

per le persone. Né i codices né le reliquie pesavano troppo per queste

navi, che non dovevano nemmeno trasportare sarcofagi. Aquileia non aveva

più, per lungo tempo, altri raccolti da esportare. Per quanto riguarda

l a v i t a i n t e l l e t t u a l e , n o n o s t a n t e l a p r e s e n z a d i

99 GIROLAMO, In Ezechiel III, Prologus (PL 25, c. 75 D-E); VII, Prologus (c. 199 A-C).

Page 102: Fusco Enrico

106

Pelagiani in contatto con la Siria e addirittura con la Palestina, è difficile

seguire gli sviluppi successivi alla morte di Cromazio e di Rufino.

II - «MERCES ORIENTALES»: LE OPERE LETTERARIE

Le donazioni come pagamento

Tra Aquileia e la Palestina gli scambi vanno considerati in entrambi i sensi.

Le persone che lasciano Aquileia non partono a mani vuote. Anzi, la maggior

parte dei lavori di Girolamo dedicati a Cromazio e a Eliodoro non rappresenta

altro che il «pagamento» delle offerte e delle donazioni convogliate in

Palestina. Girolamo lo afferma esplicitamente nel 398, nella Prefazione alla

traduzione dei Libri di Salomone che offre ai suoi due compatrioti:

Che la mia lettera possa unire coloro che sono uniti dalla dignità episcopale, o

meglio, che la carta non separi chi è unito dall’amore di Cristo! Mi chiedete dei

Commenti a Osea, Amos, Zaccaria e Malachia. Li avrei scritti se la salute me lo

avesse permesso. Inviate denaro per confortarci, sostentate i nostri stenografi e

copisti affinché la nostra mente lavori innanzitutto per voi. Ma ecco che una

moltitudine di persone non cessa di rivolgermi richieste varie, come se fosse giusto

che mentre siete affamati io lavorassi per altri o come se, nei miei conti dei crediti e

dei debiti, fossi debitore a un altro piuttosto che a voi. Ecco perché, sfiancato da una

lunga malattia, per non passare completamente in silenzio quest’anno e rimanere

muto nei vostri confronti, ho dedicato a vostro nome il lavoro di tre giorni, vale a

dire la traduzione dei tre libri di Salomone...100.

I l t e s t o è i n t e r e s s a n t e s o t t o d i v e r s i a s p e t t i . V e d i a m o

100 GIROLAMO, In libros Salomonis, Praefatio (PL 28, c. 1241 A-B).

Page 103: Fusco Enrico

107

che Girolamo sostituisce una «merce» con un’altra, prendendo come scusa la

malattia. Non vuole passare un anno senza scrivere al paese: «ne penitus hoc

anno reticerem». Invia quindi un lavoro che gli ha richiesto molto meno

tempo. D’altro canto va notato che gli inviati di Cromazio e di Eliodoro sono

venuti con richieste molto precise: i Commenti a quattro profeti minori.

Eccetto uno, sono gli unici profeti minori che restano ancora da commentare a

quel tempo101, e due dei precedenti sono già stati dedicati a Cromazio nel 393

e nel 396. Si può pensare che nel 392, o forse anche nel 393, Cromazio avesse

commissionato l’In Habacuc con le stesse modalità102. Tuttavia la Prefazione

di cui sopra non dice, probabilmente, tutta la verità quando lascia intendere

che le spedizioni di denaro fossero destinate a pagare i notarii e i librarii di

Betlemme. Parte di questi fondi deve, più in generale, provvedere al

mantenimento dei monasteri di Betlemme. Prova ne è il modo in cui Girolamo

inveisce, nel 406, contro Vigilanzio, che andava dicendo, in Occidente, che

tali donazioni erano inutili103; ringrazia invece Esuperio di Tolosa, che gli ha

inviato questo tipo di donazioni, senza richiedere esplicitamente il Commento

a Zaccaria, che Girolamo «doveva» a Cromazio e a Eliodoro104. Ecco

però che lo dedica al vescovo di Tolosa, mentre invia ai monaci

Minervio e Alessandro, due aquitani, l’In Malachiam105, che avrebbe

dovuto arrivare innanzitutto in Italia settentrionale106.

Quest’indelicatezza non si spiega soltanto con il raffreddamento dei

101 Neanche Gioele è stato ancora commentato. 102 GIROLAMO, In Habacuc, Prologus (CC 76 A, p. 580, ll. 47 sgg.). 103 GIROLAMO, Contra Vigilantium, 13-14. 104 GIROLAMO, In Zachariam, Prologus (CC 76 A, p. 747, ll. 3-5). 105 GIROLAMO, In Malachiam, Prologus (CC 76 A, p. 902, ll. 35 sgg.). 106 GIROLAMO, In Habacuc, Prologus (CC 76 A, p. 578, l. 22) e In Zachariam, Prologus

(CC 76 A, p. 748, ll. 43 sgg.).

Page 104: Fusco Enrico

108

rapporti di Girolamo con Cromazio e con Eliodoro. È facile pensare che siano

in gioco anche ragioni pecuniarie. Nel 404-406 ci troviamo, in Italia

settentrionale, all’indomani dell’incursione di Alarico, e probabilmente c’è

molto da lavorare per far risorgere la zona dalle rovine107, per aiutare chi si è

visto spogliato dei propri beni. Invece l’Aquitania non ha ancora subito simili

devastazioni. È naturale, quindi, che essa lasci approfittare della sua prosperità

i «santi di Gerusalemme».

Le commissioni di opere

C’è forse bisogno di dire che non tutte le «commissioni» corrispondono a

interessi reali di chi le formula? Non mancano le ragioni per pensarlo; ne

illustrerò una, nell’ambito di ciò che ci interessa108. Tuttavia mi sembrerebbe

rischioso voler vedere solo una semplice «formulazione» nelle dediche, che

mettono in luce richieste esplicite, se non addirittura domande precise. Certo,

nessuna di queste domande è stata posta a Girolamo dall’Italia settentrionale,

il che non è privo di significato109. In ogni caso si possono individuare alcune

preoccupazioni nelle commissioni affidate a Girolamo: un certo gusto per

l’hebraica ueritas e, dinanzi all’impresa di Girolamo di fornire una traduzione

dell’Antico Testamento dall’ebraico, una grande larghezza di vedute.

Spinto da Cromazio, Girolamo traduce i Paralipomeni, un libro (o forse due)

di carattere spiccatamente storico e geografico. Secondo l’In

H a b a c u c , C r o m a z i o c h i e d e a G i r o l a m o d i f o r n i r g l i l a b a s e

107 Anche se Aquileia non ha ancora sofferto molto (cfr. Aquilée sur la route des

Invasions, pp. 276 sgg.). Le costruzioni delle chiese e in particolare delle Basiliche degli

Apostoli richiedono somme ingenti. 108 Le traduzioni bibliche di Girolamo non lasciano molte tracce nell’opera di Cromazio. 109 Ambrogio è più vicino. La sua corrispondenza contiene numerose risposte a

«domande» scritturali.

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109

storica su cui costruire i palazzi incantati dell’allegoria110. È forse pensando

al debole dei due vescovi per i problemi pastorali che Girolamo dedica loro

la traduzione dei Libri di Salomone. Si è stupito, infatti, che gli venisse

richiesta la traduzione del Libro di Tobia e del Libro di Giuditta, che non

appartengono al canone ebraico e non sono nemmeno scritti in ebraico111. Il

fatto è che, da molto tempo, le figure di Tobia e di Giuditta occupano uno

spazio considerevole all’interno della predicazione morale112. Probabilmente

i due vescovi sono curiosi di conoscere la vera cornice storica dei testi.

Eppure Cromazio non sembra aver fatto uso di questa traduzione per le

proprie opere.

La spedizione di opere occidentali

Cromazio ed Eliodoro hanno più volte reclamato le opere di Girolamo. Non

sembra che gliene abbiano inviate di proprie, anche ammettendo che Eliodoro

abbia scritto qualcosa. Ciò tuttavia non significa che da Aquileia non sia

partito qualche libro per la Palestina. Non mi riferisco ai libri che Girolamo

reclama da Antiochia a Paolo di Concordia, quanto piuttosto alle opere di

Ambrogio, di cui Girolamo segue la produzione. Non mi sbilancerò troppo

nel dire, sebbene le mie uniche prove siano soltanto ipotesi, che Aquileia è

stata, al pari di Roma, il centro nevralgico della diffusione dell’opera di

Ambrogio. Ho già avuto modo di mostrare che Cromazio conosceva bene

l’opera di Ambrogio, e che questa gli era servita più volte da tramite nei confronti

110 GIROLAMO, In Habacuc, Prologus (CC 76 A, p. 580, ll. 47 sgg.). 111 GIROLAMO, In librum Tobiae, Praefatio (PL 29, cc. 23-25). 112 Basti pensare allo spazio che occupano in Cipriano o in Novaziano.

Page 106: Fusco Enrico

110

del pensiero greco113. In un certo senso Rufino, ritornando ad Aquileia due

anni dopo la morte di Ambrogio, continuerà, seppur in modo diverso, l’opera

del vescovo di Milano, su richiesta di Cromazio.

Importazione di opere orientali

Mentre ci rivolgiamo all’altro senso della via «commerciale», in direzione

Oriente-Aquileia, bisognerebbe far posto all’opera di Ambrogio. Non ho

trovato, finora, nessuna traccia dell’impiego da parte di Ambrogio delle opere

di Girolamo scritte in Palestina. Ma c’è davvero bisogno di soffermarsi sullo

spazio che occupano negli scritti di Ambrogio le opere di Origene, di

Atanasio, di Didimo, senza contare Basilio di Cesarea e Gregorio Nazianzeno?

È sufficiente ricordare questo aspetto. Vorrei invece, pur non potendo offrire

nient’altro che studi e note di lettura, soffermarmi un po’ di più su tre opere,

che consentono di render conto in qualche modo della complessità della

situazione: l’opera di Cromazio, quella di Rufino e quella del Commentatore

anonimo delle Epistole di san Paolo, nel quale l’editore vede un abitante della

regione di Aquileia.

Cromazio e l’opera di Girolamo

Cromazio aveva amici in Palestina, era in contatto con loro, poteva utilizzare

i loro scritti; da questi amici ha ricevuto i lavori che lo mettevano in contatto

con le realtà storiche e geografiche della Bibbia. Che cosa traspare di tutto

questo nella sua opera? Non molto, sembra, nonostante la prima impressione

sia del tutto favorevole. In un sermone di Natale, infatti, ripreso nei suoi punti principali dal

113 Cfr. Les relations doctrinales entre Milan et Aquilée, pp. 193-230 e pp. 233-234.

Page 107: Fusco Enrico

111

Tractatus che commenta il testo di san Matteo sulla nascita di Cristo a

Betlemme, Cromazio si sofferma a tessere le lodi di Betlemme, con termini

che Girolamo non avrebbe in alcun modo rinnegato. «Se si celebrano – dice –

tante città che hanno prodotto grandi principi, cosa c’è di più sublime del

luogo in cui il principe della terra e il padrone di tutto l’universo si è degnato

di nascere!»114; nel Tractatus 4, poi, vede in una citazione di Abacuc

un’allusione alla «bellezza e alla dolcezza del paesaggio» di Betlemme115, che

testimonia anche una certa attenzione ai dati concreti, attribuibile ai rapporti

con la Palestina di Girolamo e di Rufino. In realtà simili indicazioni sono rare

e si perdono in una geografia simbolica, cui fungono al massimo da

introduzione. La Palestina che scopriamo nei Sermoni e nei Tractatus è

sempre figurativa116. Cromazio lo deve ai propri modelli, che si tratti di

Fortunaziano, di Vittorino di Petovio o di Ambrogio. Lo stesso Girolamo ha

contribuito a portare avanti la tendenza con il Liber interpretationis

hebraicorum nominum, nei primi anni di soggiorno in Palestina. Nonostante la

data, non si ritrova nessuna traccia nell’opera di Cromazio. Le interpretazioni

di Alleluia117 e di Joseph118 fornite da Cromazio non corrispondono

minimamente a quelle fornite da Girolamo. Basandosi sul silenzio mantenuto

da Girolamo nei confronti di Cromazio nel De uiris, si è concordi nel ritenere

che i Tractatus in Matthaeum non siano ancora stati pubblicati nel 393, e

nemmeno nel 398, data in cui Girolamo compone il suo Commento

a M a t t e o , p o r t a t o a R o m a d a E u s e b i o d i C r e m o n a 119.

114 CROMAZIO, S. 32, 1 f. 115 CROMAZIO, Tr. 3, 3, 2 (CC 9 bis, p. 213, ll. 87-88): «Per quae uerba situm loci ipsius

amoenitatemque designat». 116 CROMAZIO, Tr. 15, 1; 16, 2; 16, 4; 44, 3-4 ecc. 117 CROMAZIO, S. 33, 1: «Canta ei qui est» o «Benedic nos Deus simul in unum» -

GIROLAMO, Ep. 26, 3: «Laudate Dominum». 118 CROMAZIO, Tr. 2, 3 (l. 71): «Joseph=sine opprobrio»; GIROLAMO: «Joseph: auctus,

adaugens». 119 J. LEMARIÉ, CC 9 bis, p. VII.

Page 108: Fusco Enrico

112

Se la trascrizione dei Tractatus in Matthaeum risale ai suoi ultimi anni di vita,

ci si potrebbe aspettare che Cromazio abbia usato le veloci annotazioni di

Girolamo. Dom Lemarié opera qualche collegamento120; se ne possono fare

altri121, ma non va dimenticato che tali confronti si possono spiegare con una

comunanza di fonti, nonché con una dipendenza di Cromazio nei confronti di

Girolamo. L’approccio che ho tentato in altre due direzioni si è rivelato inutile.

Abbiamo visto che Girolamo aveva dedicato a Cromazio varie traduzioni

dall’ebraico. Ma le citazioni di Cromazio dal Libro di Tobia e dal Libro delle

Cronache non sono tratte dalle traduzioni di Girolamo122. Neanche i

Commenti dedicati a Cromazio hanno lasciato qualche traccia nella sua opera.

Costituisce forse un’eccezione il caso dell’In Ionam, dato che non disponiamo

del Tractatus sul «segno di Giona»123, ma il caso è piuttosto chiaro per

Abacuc, il cui Cantico viene usato e commentato due volte. Il testo che cita

Cromazio non è la traduzione dall’ebraico di Girolamo, né la traduzione latina

dei Settanta trascritta da Girolamo nel suo Commento124. L’interpretazione che

fornisce Cromazio del testo di Habacuc 3, 3 può essere confrontata con

un’opinione riportata da Girolamo, che Cromazio non prende in considerazione e che

120 Cfr. la tabella a p. 534, in AAAd. XII, Aquileia e l’Oriente mediterraneo, Udine 1977. 121 Confronta CROMAZIO, Tr. 7, 2 (ll. 31 sgg.) e GIROLAMO, In Matthaeum, 2, 23; Tr. 11,

1 e In Matthaeum, 3, 10; Tr. 11, 4 e In Matthaeum, 3, 11. 122 Tuttavia va notato che la traduzione di Tobia ad opera di Girolamo è tarda. 123 È giunto fino a noi soltanto il Tract. 54 su Mat. 16, 4, che riprende – almeno in parte

– quanto era stato detto su Mat. 12, 39-40. Sul Tractatus 54 cfr. Le Livre de Jonas dans

la littérature chrétienne grecque et latine, Paris 1973, pp. 503-506. Va notato che,

contrariamente ai consigli di Girolamo, Cromazio non pone nessun limite

all’applicazione a Cristo dell’avventura del profeta. 124 Confronta CROMAZIO, Tract., 4, 3 che cita Hab. 3, 3 e GIROLAMO, In Habacuc, 3, 3

(CC 76 A, p. 622, ll. 156-158).

Page 109: Fusco Enrico

113

figurava già in un altro Commento125. In compenso, per quanto concerne

l’interpretazione di Habacuc 3, 10 l’origine sembra essere più certa.

Ritroviamo infatti in Tertulliano un dossier analogo a quello presente nel

Tractatus 52 di Cromazio126. L’esempio mi pare significativo e invita a

ritornare sulla conclusione che avevo già formulato nel 1972: Cromazio gode

di una formazione occidentale, che non è stata profondamente modificata, a

giudicare dalle sue opere, dai successivi contributi «orientali», che si tratti

dell’opera di Ambrogio, di Girolamo o di Rufino.

Rufino e l’opera di Girolamo

Non intendo mostrare come Rufino, grande importatore di merci orientali,

rimanga anch’egli uno spirito latino. Vorrei invece, in primo luogo, segnalare

rapidamente che Rufino, di ritorno ad Aquileia, possiede gran parte dell’opera

di Girolamo, e forse ne fa uso nei propri scritti. Non mi soffermerò sul primo

punto, benché importante ai nostri scopi, dato che prova che ad Aquileia, nel

399-400, si trova una biblioteca geronimiana, che Rufino non ha

gelosamente riservato per sé, anzi. L’Apologia di Rufino indirizzata a

Girolamo contiene, dai due terzi del primo libro in poi, un catalogo degli

elogi rivolti da Girolamo a Origene nei suoi scritti. Si susseguono così un

125 Girolamo riporta un’opinione che vede nel mons umbrosus il Padre o il Paradiso.

Cromazio celebra in quest’ombra l’amoenitas loci. Una simile opinione può venire da

Vittorino di Petovio, che ha composto un Commento a Matteo e uno ad Abacuc. 126 Confronta CROMAZIO, Tr. 52, 2: Giobbe 9, 8; Sir. 24, 7-8; Ps. 76, 20; Hab. 3, 10;

Exod. 14, riguardo alla camminata sulle acque, e TERTULLIANO, Adu. Marcionem 4, 20, 3

riguardo alla tempesta placata: Ex. 14; Ps. 28, 10 (cfr. Ps. 76, 19-20); Hab. 3, 10. Ma il

testo biblico non è quello di Tertulliano, e neppure quello di Girolamo; si può quindi

pensare a una fonte comune a Tertulliano e a Cromazio, o a un intermediario tra i due

latini.

Page 110: Fusco Enrico

114

certo numero di traduzioni e di Commenti di Girolamo, senza contare le varie

lettere e pamphlets127. L’elenco e la requisitoria sono impressionanti. Essi

provano, inoltre, che questi libri di Girolamo sono stati letti da Rufino e non

soltanto a fini polemici, come testimoniano parecchie Prefazioni di traduzioni

di opere greche e, tra le altre128, la dedica a Cromazio delle Omelie su Giosuè

di Origene129. Anche l’opera sulle Benedizioni dei patriarchi, scritta dopo che

Rufino ha lasciato definitivamente Aquileia, dimostra che questi ha lavorato avendo sotto

127 RUFINO, Apol. contra Hieronymum, I, 21 sgg. 128 Ho mostrato in L’influence des écrivains africains du IIIe siècle (in Aquileia e

l’Africa, AAAd. V, Udine, 1974, pp. 224-225 e n. 129-130) come Rufino dipendesse da

Girolamo nel giudicare lo stile di Cipriano. 129 RUFINO, Prologus in Omelias Origenis super Iesum Naue (CC 20, p. 271), sulla

differenza delle offerte portate per la costruzione del Tempio. Girolamo si è già servito

di tale esempio nella Prefazione alla sua traduzione del Pentateuco dall’ebraico (PL 28,

c. 147), ma soprattutto nel Prologus galeatus (PL 28, c. 557 A-B). Girolamo ha

rivendicato questa traduzione come propria: «Lege ergo primum Samuel et Malachim

meum. Meum inquam, meum. Quidquid enim crebrius uertendo et emendando sollicitius

et didicimus et tenemus nostrum est. Et cum intellexeris quod antea nesciebas, uel

interpretem me aestimato si gratus est, uel παραφραστην si ingratus» (PL 28, c. 557 B).

Rufino risponde: «Totum ergo hoc (opus) translationis de tuo (Chromatii) iudicio

pendeat. Si quid sane est quod placere potest, hoc sit auctoris. Neque enim quae aliis

labore parata sunt diripere et nostrae laudi applicare iustum putamus. Si uero uim

sensuum oratio inculti sermonis exasperat, hoc uel mihi, uel, ut cum tui uenia dixerim,

tibi ipsi reputato qui opus quod eruditis deberet iniungi expetis ab indoctis» (CC 20, pp.

271-272). Anche la fine riconduce a Girolamo, poiché gli eruditi ai quali pensa Rufino

rimandano, in realtà, a lui. Rufino ha detto altrove di continuare l’opera di traduzione

intrapresa da Girolamo e da lui abbandonata per una «res maioris gloriae» (in Peri

Archôn librum I, Praefatio; CC 20, p. 245, ll. 15 sgg.). Girolamo viene definito eruditus

(Ibidem, l. 3) e Rufino dichiara che il proprio stile non eguaglia quello di Girolamo

(Ibidem, ll. 18-19).

Page 111: Fusco Enrico

115

gli occhi qualche pagina delle Questioni sulla Genesi di Girolamo, salvo poi

fare l’esatto contrario. Girolamo si sofferma, infatti, sul senso letterale,

sottolineando più volte, per il capitolo 49 della Genesi, le differenze tra

l’ebraico e il greco dei Settanta. Rufino non si esprime sull’ebraico; offre una

traduzione diversa del testo greco e si concentra sull’interpretazione spirituale

e su quella morale, non contemplate nel lavoro di Girolamo. Inoltre Rufino

sottolinea più volte le difficoltà dell’historia. Ora, se anche ciò che attribuisce

alle fabulae iudaicae130 e agli adsertores litterae131 non proviene da

Girolamo132, mi sembra alquanto verosimile, nonostante l’ampiezza e la

varietà della documentazione di Rufino, poter rimandare all’opera di

Girolamo, forse non tanto per i punti in comune133, quanto per i punti in cui

Rufino sottolinea l’insufficienza della storia134, nonché il carattere forzato e

impossibile della spiegazione135. In un caso viene curiosamente influenzato dal testo di

Girolamo136. Ma bisogna riconoscere che ciò vale soprattutto a titolo di indizio. Per il

resto, rispetto a Paolino che conosce anch’egli Girolamo, Rufino è ben lungi dall’avere

130 RUFINO, De benedictionibus Patriarcharum, 1, 8. 131 RUFINO, De benedictionibus Patriarcharum, 2, 21. 132 M. SIMONETTI, Osservazioni sul De benedictionibus Patriarcharum di Rufino di

Aquileia, «Riv. di cultura Classica e Medievale» 4 (1962), pp. 3-44 e Note sugli antichi

commenti alle Benedizioni di Patriarchi, «Ann. della Facoltà di Lettere di Cagliari» 28

(1960), pp. 403-473. Non viene lasciato nessuno spazio a Girolamo, che tuttavia ne

merita uno, seppur piccolo. La documentazione di Rufino è molto vasta e, in parte,

orientale. 133 RUFINO, De benedictionibus Patriarcharum, 2, 6 (e GIROLAMO, Hebraicae

quaestiones in Genesim 29, 32 su Ruben); 2, 7 (e Hebraicae quaestiones 49, 5-49, 7, su

Simeone e Levi). Alla fine di 49, 7 Girolamo cita l’esistenza di un’interpretazione

tipologica, che troviamo sviluppata in Rufino 2, 8. 134 RUFINO, De benedictionibus Patriarcharum, 2, 15. 135 Ibidem, 2, 28. 136 Ibid., 2, 18 su Gad il «pirata», dove pirata, che traduce il piraterium (πειρατηριον dei

LXX), è probabilmente influenzato dal latrunculus di Girolamo.

Page 112: Fusco Enrico

116

gli occhi fissi solo su Betlemme come fonte di ogni sapienza. L’Oriente è

molto più vasto, benché comprenda la Palestina, come mostreremo in seguito.

Rufino e Cirillo di Gerusalemme

Una terza opera personale di Rufino, l’Expositio Symboli, scritta ad

Aquileia, merita un’attenzione particolare, sia in virtù dell’influenza che ha

avuto durante il Medioevo137, sia in virtù delle fonti, che ci ricondurranno a

Gerusalemme, se non addirittura a Betlemme. In precedenza ho citato la

conclusione dell’Apologia ad Anastasio, in cui Rufino celebrava l’unità di

fede delle chiese di Roma, di Alessandria, di Aquileia e di Gerusalemme.

Nell’Expositio Symboli Rufino confronta varie volte non soltanto il simbolo di

Aquileia con il simbolo di Roma, ma anche i «simboli delle chiese

d’Oriente»138. In realtà, com’è stato dimostrato139, si riferisce al simbolo di

Gerusalemme. Inoltre sono state ampiamente utilizzate le Catechesi di

Cirillo di Gerusalemme. Probabilmente non era la prima volta140, ma i

prestiti in questo caso sono molto più numerosi141. Ritroviamo anche

pres t i t i da Or igene 142, da Atanas io 143, da Gregor io d i Nissa 144 e ,

137 M. VILLAIN, Rufin d’Aquilée commentateur du Symbole des Apôtres, in Sciences

religieuses (=Rech. S.R. 32), 1944, pp. 129-130. F.-X. MURPHY, Op. laud., p. 185.

L’edizione di M. Simonetti non segnala, purtroppo, nessuna dipendenza di Rufino nei

confronti delle fonti. 138 RUFINO, Expositio Symboli, 4 (l. 2); 5 (l. 1); 16 (l. 6). 139 M. VILLAIN, art. laud., pp. 135 sgg. 140 E.J. Yarnold ha risposto positivamente alla controversa domanda: Did St Ambrose

know the Mystagogic Catecheses of St Cyril of Jerusalem? (in Studia Patristica, XII, TU

115, Berlin, 1975, pp. 184-189). 141 Cfr. M. VILLAIN, art. laud., p. 142, n. 1; 144-145; 153. 142 Ibidem, p. 142, n. 3. 143 Ibidem, p. 149, n. 1. 144 Ibidem, p. 144, n. 1.

Page 113: Fusco Enrico

117

forse, da Girolamo145; cosicché, in mancanza di un’originalità che non ci si

aspetta in una relazione catechetica sulla fede, bisogna richiamare l’attenzione

sulla ricchezza della documentazione greca di cui dispone Rufino ad Aquileia

per comporre l’opera.

Rufino e la Biblioteca di Cesarea

Conosciamo, in parte, l’origine della documentazione. Non c’è dubbio,

infatti, che Rufino, il quale nel 402 tradurrà per Cromazio la Storia

Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, abbia potuto, come fa Girolamo a

Betlemme146, prendere in prestito un certo numero di opere dalla famosa

Biblioteca di Cesarea, per farle copiare al Monte degli Ulivi dai copisti,

occupati peraltro a trascrivere i Dialoghi di Cicerone. Conosciamo piuttosto

bene la storia di questa Biblioteca, che conteneva, tra l’altro, le opere più

importanti di Origene147. Vediamo che Eusebio, dopo Panfilo, continua, senza

paraocchi, ad arricchire la Biblioteca. I successori hanno sicuramente seguito

il suo esempio e non si sono limitati a salvaguardare l’antico patrimonio.

Probabilmente è così che Rufino ha potuto disporre di opere relativamente più

recenti dei Cappadoci. Ma ciò non lascia alcun dubbio riguardo a Origene: è

da Cesarea che ha trasportato i codices che abbiamo visto in suo possesso e di

cui ha tradotto, con successo, una parte.

145 Non tanto l’etimologia di Gesù (§ 6), quanto il modo con cui Rufino ribatte ai pagani

che non vogliono ammettere la nascita verginale di Cristo, dicendo loro che ammettono

leggende molto meno credibili. Confronta GIROLAMO, In Ionam, 2, 2-3. Il procedimento,

in ogni caso, non è inedito. 146 Girolamo (De uiris illustribus, 75) esprime la propria gioia per aver trovato i

Commenti ai profeti minori di Origene, copiati da Panfilo. 147 R. DEVREESSE, Introduction à l’étude des manuscrits grecs, Paris 1954, pp. 122 sgg.

Page 114: Fusco Enrico

118

Un Commento anonimo a san Paolo

Un simile lavoro di traduzione era notevole per l’epoca, visto che, segno dei

tempi e della rottura psicologica che sta per prodursi definitivamente tra

Oriente e Occidente148, il greco è sempre meno conosciuto negli ambienti di

Aquileia dove vive Rufino, così come a Roma e a Pineto. Ma Rufino non è il

solo, nell’Italia settentrionale, e forse anche ad Aquileia, a saper leggere il

greco. Vorrei spendere qualche parola su un’importante scoperta di questi

ultimi anni: un Commento dell’insieme delle Epistole di san Paolo, che

l’editore attribuisce alla regione di Aquileia, se non addirittura alla cerchia di

Cromazio149. Dal canto mio penso sia meglio astenersi dall’avanzare qualsiasi

nome di autore, e che non sia nemmeno sicuro che ci troviamo ad Aquileia,

benché vediamo che un monaco di Aquileia s’interessa al Commento di

Origene all’Epistola ai Romani e ne richiede la traduzione a Rufino150. Alla

fine della traduzione del Commento all’Epistola ai Romani, Rufino manifesta

il desiderio di riprendere le altre Epistole di san Paolo151. Considerando

quindi la «regione di Aquileia» in senso lato, due serie di fatti meritano

148 Quest’interruzione mi sembra uno dei rimproveri più fondati che si possano muovere

a Stilicone e alla sua politica tra il 395 e il 408. La frattura non sarà mai riparata. 149 H.J. FREDE, Ein neuer Paulustext und Kommentar, I-II, Freiburg 1973-1974. Sulla

regione di Aquileia come origine cfr. I, pp. 248 sgg.; sul nome di Eliodoro, il cui unico

titolo per il Commento di tendenza «antiochena» è il fatto di aver soggiornato ad

Antiochia, cfr. p. 251, n. 3 ad f. Tuttavia la presenza di Girolamo alle lezioni di

Apollinare si colloca durante il secondo soggiorno di Girolamo ad Antiochia (P. JAY,

Jérôme auditeur d’Apollinaire de Laodicée à Antioche, in REAug. 20 (1974), pp. 36-41).

Eliodoro non è più ad Antiochia in quel periodo. 150 RUFINO, Praefatio in explanationem Origenis super epistulam ad Romanos (CC 20, p.

275). Non conosciamo questo Eraclio: è un monaco, che probabilmente apparteneva alla

comunità della città in cui risiede all’epoca Rufino. 151 RUFINO, Epilogus (...) (CC 20, p. 277, ll. 52-53).

Page 115: Fusco Enrico

119

di essere sottolineate, nell’ambito del nostro studio dei rapporti tra Aquileia e

la Palestina. La prima è stata messa in rilievo da H.J. Frede e riguarda il lungo

elenco d’indizi che mostrerebbero che l’autore del Commento è in contatto

con i testi greci152 e che, per la natura dell’esegesi, dipende in maggior misura

dal metodo «antiocheno» che non dal metodo «alessandrino»153. Questa

fedeltà letterale al testo deriva forse da Girolamo, dato che, come ha notato

H.J. Frede, l’autore accenna due volte all’hebraica ueritas154, formula tipica di

Girolamo, di cui conosce probabilmente il De optimo genere interpretandi e la

Prefazione alla traduzione del Libro dei Paralipomeni155, dedicato proprio a

Cromazio e a Eliodoro156. Vorrei aggiungere altre letture, di cui H.J. Frede

sembra non aver colto l’importanza. Dinanzi a un Commento alle Epistole di

san Paolo, si pensa subito alle opere che Girolamo ha dedicato alle Epistole ai

Galati e agli Efesini, nonché alle Epistole a Tito e a Filemone. Purtroppo si

possono confrontare soltanto le spiegazioni dell’Epistola ai Galati e

dell’Epistola agli Efesini, giacché il nostro Anonimo riserva alle altre due

lettere solo qualche piccola osservazione. D’altro canto, così come lo

conosciamo, il Commento non ha niente di omogeneo; vengono inserite nel

testo di san Paolo note di ogni tipo, che variano da qualche parola a un’intera

pagina, nei punti che sembravano meritare o richiedere un’osservazione o una

spiegazione. Il paragone con i lunghi commenti di Girolamo non è dunque

facile. Tuttavia va sottolineato come la maggior parte delle

«questioni» a f f ronta te dal nost ro Anonimo abb ia co lp i to an che

152 FREDE, I, pp. 210 sgg. 153 FREDE, I, pp. 217 sgg. 154 FREDE, I, p. 216. 155 FREDE, I, p. 216, n. 6. 156 Non segnalato da Frede. Per quanto riguarda l’Ep. 57, strettamente legata all’intera

questione origeniana, è stata portata ad Aquileia come il resto del dossier.

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120

Girolamo, sebbene la soluzione non sia poi la stessa157. Le opinioni

dell’Anonimo sono del tutto personali; egli parla di letture diverse dai

Commenti di Girolamo; paragona la propria traduzione latina delle Epistole ai

testi greci158, criticando alcune interpretazioni. Sono indizi, questi, che

mostrano un uomo munito di una vasta biblioteca greco-latina, che forse, per

conoscere certi modi di vivere159, ha anche viaggiato in Oriente. La presenza

di un tale personaggio ad Aquileia o nell’Italia settentrionale non stupisce,

anzi, illustra ancora meglio il ruolo di porta dell’Occidente che ha rivestito la

regione nella diffusione delle opere e delle idee orientali.

III - LA DIFFUSIONE DI RELIQUIE ORIENTALI

NELL’ITALIA SETTENTRIONALE

Non si tratta delle uniche importazioni di Aquileia in ambito religioso.

Non intendo parlare delle tradizioni monastiche; vorrei affrontare questioni

apparentemente più tangibili, sebbene molto meno facili da comprendere,

non soltanto per la mia incompetenza in materia archeologica. Vorrei fare

un cenno alla circolazione di reliquie orientali – se non addirittura

palestinesi – e alle chiese cruciformi. Questi due argomenti,

c h e s i r i v e l a n o d a s u b i t o s t r e t t a m e n t e c o r r e l a t i ,

157 Per l’Epistola ai Galati, oltre ai rimandi operati da Frede, confronta 05 (II, p. 221) e

GIROLAMO, In Galatas, 1, 16 (PL 26, c. 326 C-D); 06 (p. 221) e GIROLAMO, In Galatas,

2, 1-2 (c. 332 C-D); 09 (p. 223) e GIROLAMO, In Galatas, 3, 4 (c. 350 D-E); 012 (pp.

224-225) e GIROLAMO, In Galatas, 3, 15 (c. 365 A-C); 020 (p. 229) e GIROLAMO, In

Galatas, 4, 14 (c. 381 B 6 sgg); 021 (p. 229) e GIROLAMO, In Galatas, 4, 19 (c. 386 B 4

sgg.). 158 V. g. In Ephes., 5, 30 (19 - II, p. 245). 159 In 1 Cor. 11, 20-22 (53 A - 054 - II, p. 144 - Cfr. I, p. 210): «per rura Aegypti et

Syriae».

Page 117: Fusco Enrico

121

ci ricondurranno, per strade diverse, a Gerusalemme, e ci faranno incontrare

lungo la via un certo numero di viaggiatori che attestano, alla fine del IV

secolo, la frequenza degli scambi che abbiamo constatato già da prima della

partenza per l’Oriente di Girolamo e di Rufino.

La vera Croce

Ricorderò innanzitutto che i racconti latini più antichi circa l’invenzione

della vera Croce si devono a sant’Ambrogio, con il suo De obitu Theodosii del

395160, a Paolino di Nola, dopo il ritorno di Melania che gli ha portato un

insigne regalo da parte del vescovo di Gerusalemme161, e infine a Rufino di

Aquileia, con la sua Storia della Chiesa, del 402-403162. La scoperta, come

lascia intendere Paolino, ha moltiplicato il numero di quelli che si recavano a

Gerusalemme per venerare, secondo la descrizione di Egeria, una pellegrina, il

legno della Croce163. Le costruzioni costantiniane e il lusso che le

contraddistingue hanno sicuramente contribuito a conferire alle rievocazioni

della Croce un aspetto meno simbolico e più trionfale: la Croce diventa un

oggetto concreto, che possiede, inoltre, la uirtus trasmessa dal contatto con

Cristo164.

Le chiese cruciformi

Queste costruzioni ne hanno fatto nascere altre, direttamente o indirettamente.

Possiamo ricordare un altro testo molto importante di sant’Ambrogio:

l’iscrizione conservata dalla Silloge di Lorsch riguardante la Basilica degli

Apostoli di Milano. Ambrogio dichiara di aver dato alla costruzione la

160 AMBROGIO, De obitu Theodosii, 41-47. 161 PAOLINO di Nola Ep. 31, 4 sgg. 162 RUFINO, Hist. Eccles., XI (I), 7-8. 163 EGERIA, Diario di viaggio, 37. 164 Cfr. AMBROGIO, De obitu Theodosii, 41 (Ed. O. Faller, CSEL 73, p. 393): «auxilium

quo inter proelia quoque tutus adsisteret (Constantinus)...».

Page 118: Fusco Enrico

122

forma della Croce165. Non sorprende una simile scelta da parte di chi ha

valorizzato così tanto il simbolismo sepolcrale del fonte battesimale a otto

lati166.

Le chiese dedicate agli Apostoli

Un primo problema, almeno per quanto riguarda l’Italia settentrionale,

consiste nel sapere se le Basiliche degli Apostoli, che fioriscono in questo

periodo nella regione, adottino questa pianta cruciforme. Lascio agli

archeologi la briga di rispondere per le singole città e di dire se l’influenza di

Gerusalemme o di Milano sia percettibile a questo livello. Sono altri i

problemi che ci riguardano, non meno importanti: la data di queste basiliche,

l’identità degli «Apostoli» venerati nelle stesse, la provenienza delle reliquie e,

da ultimo, l’identità dei viaggiatori che le hanno portate in queste regioni. Non

ho nessuna soluzione da proporre per questo insieme di domande. Vorrei

invece mettere in luce alcune difficoltà167. È il modo migliore, credo,

165 «Condidit Ambrosius templum Dominoque sacrauit,

Nomine Apostolico, munere, reliquiis.

Forma crucis templum est, templum uictoria Christi

Sacra triumphalis signat imago locum...». 166 Cfr. Les relations doctrinales, pp. 165-166. 167 Riprendo un problema affrontato in Latomus 28, 1969, p. 239. L’argomento è già

stato trattato molte volte, spesso in modo marginale, ma anche più approfondito in E.

VILLA, Il culto agli apostoli nell’Italia settentrionale alla fine del sec. IV, Ambrosius, 33

(1957), pp. 245-264. Il problema è complicato dall’interferenza degli interrogativi posti

(datazione, identità e provenienza delle reliquie) e in parte falsato da premesse errate:

Villa (p. 249) fa risalire l’Ep. 4 di Ambrogio al 380, il che non è possibile; a suo modo di

vedere il sermone di Concordia viene pronunciato da Ambrogio (pp. 259 sgg. – con

esitazione a pp. 263-264). Secondo molti autori Milano è il centro di diffusione di tutte

le reliquie nell’Italia settentrionale, ma si è divisi sul come queste reliquie siano arrivate

a Milano.

Page 119: Fusco Enrico

123

per avvicinarsi a una soluzione, sempre che ve ne sia solo una.

L’identità degli Apostoli

Innanzitutto quali sono le reliquie che vengono deposte nelle varie basiliche

in occasione della dedicazione? Non abbiamo elenchi certi, tranne che per due

luoghi. A Brescia Gaudenzio, nel suo sermone di dedicazione della Basilica

sanctorum, fa i nomi di Giovanni Battista, Andrea, Tommaso e Luca; cita poi i

martiri milanesi: Gervasio e Protasio, Nazario; quindi i martiri anauniensi:

Sisinio, Martirio e Alessandro; infine coloro su cui si sofferma maggiormente

il predicatore, i quaranta martiri di Sebaste, in Armenia; 50 reliquie in tutto,

come segnala Gaudenzio168. Successivamente, a Concordia, Cromazio parla di

Giovanni Battista, Giovanni l’Evangelista, Andrea, Tommaso e Luca169.

Manca, purtroppo, la fine del sermone. Ci troviamo sicuramente dopo il 388,

ma non possiamo sapere, a causa di questa lacuna, se le reliquie milanesi siano

arrivate fino in Veneto, o quanto meno fino a Concordia.

Per quanto riguarda Aquileia e Milano disponiamo soltanto dei dati del

Martirologio Geronimiano. In data 3 settembre ha luogo ad Aquileia la

dedicazione della basilica di Andrea, di Luca e di Giovanni170. Per Milano

abbiano due date. Il 9 maggio ha luogo l’«ingressus» delle reliquie degli

apostoli Giovanni, Andrea e Tommaso, «nella basilica di Porta Romana»171; il 27

novembre, in una chiesa non ben precisata, è la volta di Luca, Andrea, Giovanni, Severo

168 GAUDENZIO di Brescia, Tract. 17. 169 CROMAZIO, S. 26. 170 Martyrologium Hieronymianum (Acta Sanctorum Novembris, II, 2, Bruxelles, 1931,

p. 485): «III Non. Sept. (...) In Aquileia dedicatio basilicae et ingressio reliquiarum

sanctorum Andreae Apostoli, Lucae, Iohannis et Eufemiae». Riguardo a Eufemia cfr. la

nota di H. Delehaye, p. 486. 171 Ibidem (p. 241): «VII Id. Mai (...) Mediolano de ingressu reliquiarum apostolorum

Johannis, Andreae et Thomae in basilica ad portam Romanam...».

Page 120: Fusco Enrico

124

ed Eufemia172. La presenza non tanto di quest’ultima, quanto di Severo173 fa

supporre che questa dedicazione sia tardiva, e che possa essere ignorata. In

compenso va citata la Basilica degli Apostoli di Lodi174, sebbene sia

impossibile precisare quali apostoli fossero venerati al suo interno175.

La data delle dedicazioni

La datazione delle varie dedicazioni presenta altrettante difficoltà. Nessun

testo è datato con sicurezza. Il più facile da datare è quello di Gaudenzio,

successivo al 397176, che fa allusione alla minaccia barbarica177. Questo ci

porta non prima del 401-402, ma potrebbe farci andare fino al 407-408.

Riguardo agli altri testi le informazioni si possono ottenere solo facendo

riferimento ad altri fatti o ad altre date, altrettanto discutibili. La «basilica

romana» di Milano è stata consacrata prima del giugno 386, mediante la

deposizione di reliquie178. Anche ammettendo che si tratti delle reliquie di

Giovanni, di Andrea e di Tommaso179, nulla suggerisce che i l 9 maggio

172 Ibidem (p. 623): «V Kal. Dec. (...) In Mediolano Lucae, Andreae, Iohannis, Severi

et Euphemiae». 173 Severo di Ravenna secondo Duchesne, seguito da H. Delehaye, p. 624. 174 Nota grazie all’Ep. 4, 1 di Ambrogio a Felice di Como. 175 Lo stesso vale per le basiliche di Como, di Verona e di Padova. Su quest’ultima cfr.

P.L. ZOVATTO, La Pergula paleocristiana del Sacello di S. Prosdocimo di Padova e il

ritratto del santo titolare in RACrist 34 (1958), pp. 137-167 e in particolare l’iscrizione

(p. 149): «reliquiae sanctorum apostolorum et plurimorum martyrum». 176 Perché Gaudenzio (Tract. 17, 13) possiede le reliquie dei martiri anauniensi (†29 maggio 397). 177 GAUDENZIO di Brescia, Tr. 17, 2. 178 AMBROGIO, Ep. 22, 1. 179 I l che viene, in genere, accettato, ma non mi sembra affat to cer to. Si

p o t r e b b e p e n s a r e c h e s i t r a t t i d i b r a n d e a d i P i e t r o e P a o l o

Page 121: Fusco Enrico

125

citato dal Martirologio Geronimiano sia il 9 maggio 386180. L’inizio della

lettera di Ambrogio alla sorella Marcellina non fa supporre un evento così

recente181. Per quanto riguarda Concordia la data è successiva alla

consacrazione di Cromazio182. Quanto ad Aquileia non può essere fornita

nessun’indicazione in base ai dati di riferimento. La famosa iscrizione di

Parecorius Apollinaris è troppo mutilata per poter ricavare un indizio sicuro. Il

mio amico S. Tavano ha insistito con successo sulla data del 3 settembre, in cui vede la volontà

(come sostiene Villa: art. cit., p. 262), analoghi a quelli che il ministro Rufino otterrà da

Siricio per il Martyrium dei Rufiniani, dedicato nel 394. Sulla celebrazione di Pietro e

Paolo a Milano, che richiama assembramenti forse analoghi a quelli di Roma, cfr. il Tr.

20 di Gaudenzio di Brescia, pronunciato un 29 giugno a Milano. Milano rivaleggia con

Roma e Costantinopoli? 180 La data del 9 maggio 386, accettata da numerosi studiosi, implicherebbe che a Milano

fossero state dedicate due basiliche con soltanto un mese di intervallo. Sarebbe la

dimostrazione, probabilmente, dell’attività febbrile di Ambrogio nella primavera del

386. Tuttavia mi chiedo se non sia possibile un’altra soluzione. La consacrazione iniziale

potrebbe essere precedente e la data del 9 maggio suggerita dal Martirologio potrebbe

indicare semplicemente la successiva deposizione di nuove reliquie all’interno della

Basilica, che portava già il nome degli Apostoli e che riceverà ancora, mentre Ambrogio

è in vita, le reliquie di Nazario (PAOLINO, Vita Ambrosii, 32), al punto di cambiare, in

seguito, il proprio nome. 181 Spesso si fa riferimento alla data del 380, indicata dai Maurini nell’Ep. 4, 1, che parla

della Basilica Apostolorum di Lodi. Tuttavia nulla giustifica una simile datazione. F.

Lanzoni (Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII, Faenza 1927, p.

977) propone invece la data del primo novembre, indicata da Ambrogio (Ep. 4, 2) come

giorno della consacrazione episcopale di Felice. Tra il 374 e il 396, il primo novembre

cade di domenica soltanto nel 375, nel 380 e nel 386. Siccome Felice non si trova ad

Aquileia nel 381, poiché scrive la lettera Recognouimus contro Gioviniano, la data più

probabile è quella del 386. Ma nulla suggerisce che l’anniversario cui allude Ambrogio

sia il primo dopo l’ordinazione di Felice. Sull’attenzione di Ambrogio per gli anniversari

cfr. il mio Ambroise de son élection à son ordination (citato n. 56), pp. 282-283. 182 Di norma la consacrazione si fa risalire al 388. Cfr. J. LEMARIÉ, Introduction aux

Sermons, SC 154, p. 46.

Page 122: Fusco Enrico

126

di festeggiare l’anniversario del Concilio di Aquileia del 381183. Ciò è

possibile, ma quanto affermato da Cromazio a Concordia sullo stato dei lavori

ad Aquileia184 ci conduce al 389-390, non prima, e non pochi anni dopo il

Concilio del 3 settembre185.

Le traslazioni

È possibile avvalersi dell’identità delle reliquie per datare le

traslazioni e le deposizioni, nonché per precisare le vie di diffusione?

Quattro nomi meritano di essere citati. Il primo è quello di Luca, che

appare a Brescia, a Concordia e a Milano, le cui reliquie costituiscono

l’oggetto di varie traslazioni in Oriente, sotto Costanzo e sotto Valente.

Lo stesso vale per Andrea, celebrato a Costantinopoli nello stesso periodo186. Ma

due nomi sembrano richiedere date più tarde: Giovanni Battista e Tommaso. Le

reliquie del primo sono state «scoperte» a Sebaste di Palestina nel

183 S. TAVANO, Aquileia Cristiana, Antichità Altoadriatiche, III, Udine 1972, pp. 150-

151. 184 CROMAZIO, S. 26, 1: «... tardius coepistis sed prius consumastis». 185 S. Tavano (Op. laud., p. 152 e p. 153) separa l’ingressio, che sarebbe stato il deposito

temporaneo delle reliquie su un altare provvisorio della Teodoriana meridionale, dalla

dedicatio, che avrebbe avuto luogo una volta terminata la Basilica degli Apostoli. Ma il

Martirologio Geronimiano riporta esplicitamente: «dedicatio et ingressio...». Si tratta di

una ridondanza o vi è forse, da parte dell’autore, la volontà di mostrare che le due

operazioni coincidono, mentre è possibile avere un’ingressio di reliquie in una basilica

già dedicata? È quanto successe a Milano nel giugno del 386, prima della scoperta di

Gervasio e Protasio: «Cum ego basilicam dedicassem, multi tamquam uno ore

interpellare coeperunt dicentes: “Sicut Romanam basilicam dedices”. Respondi: “Faciam

si martyrum reliquias inuenero”». 186 GIROLAMO, Chron., ad a. 357 (Ed. Helm, GCS 47, pp. 240-241): «Constantio Romam

ingresso, ossa Andreae Apostoli et Lucae Evangelistae a Constantinopolitanis miro

fauore suscepta». Chronicon Paschale, ad a. 357 (CSHB, 1, p. 542).

Page 123: Fusco Enrico

127

362187 e arrivano ad Alessandria prima del 373188, eccetto la testa, che passa

per varie tappe prima di giungere a Costantinopoli sotto Teodosio189. Tengo a

sottolineare che le reliquie alessandrine vengono collocate da Teofilo nella

chiesa costruita dopo il 391 sul Serapeo distrutto190, e che Teodosio si reca

nella chiesa di Giovanni Battista, che ha eretto all’Hebdomon, prima di

dichiarare guerra a Eugenio191. La notorietà di cui godono nell’Italia

settentrionale c’entra forse in qualche modo con questi trasferimenti e

avvenimenti? Sarebbe possibile supporre, nonostante il silenzio di Rufino di

Aquileia192, che in occasione della deposizione al Serapeo sia stata fatta una

ripartizione, di cui avrebbe usufruito l’Occidente193? Oppure bisogna pensare

che le reliquie siano arrivate passando per Costantinopoli? In ogni caso non lo

si può escludere.

Il caso di Tommaso, di cui troviamo reliquie a Milano, a Brescia, a Concordia e

a Pola, è relativamente più semplice, se ammettiamo che il suo «corpo intero»194

è stato venerato, nel 384195, da Egeria, nel Martyrium di Edessa a lui dedicato,

187 RUFINO di Aquileia, Hist. Eccles., XII (II), 28. 188 Cioè prima della morte di Atanasio. 189 Sulla storia di questi trasferimenti cfr. SOZOMENO, Hist. Eccles., 7, 21; TEODORETO,

Hist. Eccles., 3, 7. Il Chronicon Paschale (CSHB, 1, p. 564) colloca l’arrivo delle

reliquie all’Hebdomon nel febbraio del 391, data in cui Teodosio non è ancora ritornato

da Milano, dove soggiorna dalla fine del 388. Vi è quindi un errore di uno o due anni.

Sull’«autenticità» assai dubbia delle reliquie cfr. H. DELEHAYE, Les origines du culte des

martyrs, Bruxelles2 1933, pp. 82-83. 190 RUFINO, Hist. Eccles., XII (II), 27-28. 191 SOZOMENO, Hist. Eccles., 7, 24. 192 Tanto più sorprendente in quanto lo vediamo interessarsi a questi trasferimenti

persino in Oriente. 193 In quel periodo, in seguito al Concilio di Capua del 392, Teofilo è in contatto

epistolare con Ambrogio. Per quanto riguarda le reliquie è tutto ciò che sappiamo. 194 EGERIA, Diario di viaggio, 17, 1: «ad martyrium sancti Thomae Apostoli, ubi corpus

illius integrum positum est...». 195 P. DEVOS, Égérie à Édesse, in Anal. Bollandiana 85, 1967, pp. 386-387.

Page 124: Fusco Enrico

128

dieci anni prima di esser trasferito, il 22 agosto del 394196, nella chiesa della

città197. Ricordo che è durante questo viaggio verso Edessa che Egeria,

oltrepassando l’Eufrate, lo paragona al Rodano, che ha potuto vedere venendo

dalla Spagna a Costantinopoli e a Gerusalemme198. Egeria fornisce un’altra

indicazione preziosa: secondo lei non esiste cristiano «venuto nei luoghi santi,

a Gerusalemme, che non si rechi a Edessa per pregare» sul corpo di

Tommaso199, che Rufino definisce la gloria di Edessa200. Egeria indica la

distanza da Gerusalemme: 25 giorni di viaggio. Anche Rufino ci è andato201.

Ma nessuno dei due, a quanto pare, ha portato una qualsiasi «reliquia». Non si

parla mai, infatti, della loro diffusione prima degli anni (quali?) in cui le

ritroviamo in vari luoghi dell’Italia settentrionale. Non sarà forse in occasione

del trasferimento del 394 che ha avuto inizio questa dispersione? Senza

cercare una precisione illusoria, possiamo pensare che le «reliquie» di

Tommaso siano state prelevate nel 394, per esser poi o inviate a

Costantinopoli, o riservate a distribuzioni analoghe a quelle che

osserviamo a Gerusalemme – con i frammenti della vera Croce offerti a

Me lan i a e ad a l t r i 202 – , a Bo logna 203 e a T ren to 204, d o v e , n e l l o

196 Cronaca di Edessa, 38 (Ed. L. Hallier, Untersuchungen über die Edessenische

Chronik, Leipzig 1892, TU IX, p. 103: «Il 22 Ab1 dell’anno 705 (=22.8.394) fu portato il

sarcofago dell’Apostolo Tommaso nella sua grande chiesa, al tempo del vescovo Kûrê». 197 P. DEVOS, art. cit., pp. 391-392. 198 EGERIA, Diario, 18, 1. 199 Ibidem, 17, 2. 200 RUFINO, Hist. Eccles., XII (II), 5. 201 Ibidem, XII (II), 8: «... Ipsi per nos apud Edessam et in Carrarum partibus uidimus...». 202 Paolino (Ep. 31, 6) lascia intendere che questi regali sono tutt’altro che rari. 203 Le reliquie di Agricola e dei suoi compagni si trovano a Firenze, a Nola, a Rouen... 204 Le reliquie dei martiri anauniensi si trovano a Brescia e arrivano fino a

Costantinopoli.

Page 125: Fusco Enrico

129

stesso decennio, assistiamo a distribuzioni simili. Si trovava forse a Edessa, in

quegli anni, qualche occidentale?

Prima di cercare di rispondere alla domanda dobbiamo allargare il campo

d’indagine, dato che gli «apostoli» e i «martiri» non sono legati soltanto

all’Italia settentrionale. Nel gennaio del 403, a Nola, Paolino porta l’amico

Niceta di Remesiana nelle nuove costruzioni che ha intrapreso in onore di

Felice. Paolino elenca le reliquie che possiede: Andrea, Giovanni Battista,

Tommaso, Luca, Agricola, Procolo, Vitale, Eufemia, Nazario205. Riguardo alle

reliquie di quest’ultimo, dichiara esplicitamente che si tratta di un regalo di

Ambrogio206, il che di per sé escluderebbe la provenienza ambrosiana delle

altre reliquie. Un ulteriore indizio cronologico è costituito dalla presenza, a

Nola, delle reliquie dei martiri bolognesi sottratte da Ambrogio al cimitero

ebraico durante l’usurpazione di Eugenio, nel 393-394207. È grosso modo il

periodo in cui Paolino si trasferisce a Nola, ed è probabilmente in questo

momento, non molto lontano dalla scoperta di Nazario208, che Paolino ha

cominciato a collezionare reliquie. Sfortunatamente non dice presso chi abbia

avuto le cinque reliquie orientali.

La risposta potrebbe arrivare da Vittricio di Rouen, se solo le sue affermazioni fossero

più chiare e meglio datate. Il suo De laude sanctorum elenca le reliquie che si trovano a

Rouen: Giovanni Battista, Andrea, Tommaso, Gervasio, Protasio, Agricola,

205 PAOLINO di Nola, C. 27, 406-439. A Fondi, secondo l’Ep. 32, 17, si trovano le

reliquie di Andrea, Luca, Protasio, Gervasio e Nazario. 206 PAOLINO, C. 27, 436-437: «Hic et Nazarius martyr quem munere fido/nobilis

Ambrosii substrata mente recepi». Non ha ricevuto solo dopo la morte di Ambrogio le

reliquie di Gervasio e di Protasio che si trovano a Fondi? Il Liber Pontificalis attribuisce

a Innocenzo (401-417) la dedicazione di una basilica agli stessi santi. 207 PAOLINO di Milano, Vita Ambrosii, 29; AMBROGIO, Exhort. Virginitatis, 7-8. 208 PAOLINO di Milano, Vita Ambrosii, 32.

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130

Eufemia209 e Luca210. Forse ve ne sono altre, la cui origine ci porterebbe sulla via

della Tracia, fino a Costantinopoli211. Anche la datazione presenta alcune difficoltà,

benché fornisca indicazioni preziose. Vittricio, nel ringraziare colui che ha portato

le reliquie a Rouen, cita Ambrogio, Teodulo, Eustachio e Cario212. Soltanto i primi

tre nomi sono noti, e ci conducono tutti e tre nell’Italia settentrionale. Troviamo,

infatti, un Theodorus e un Eustasius tra i firmatari della lettera inviata da Milano a

Siricio nel 393213. Purtroppo non vengono indicate le rispettive cattedre. Il fatto che

Ambrogio sia citato per primo lascia supporre che sia il personaggio più

importante; inoltre nulla fa pensare che sia morto. Si tratta quindi del

vescovo di Milano; siamo, al più tardi, nel 397214. N o n p o s s i a m o

209 VITTRICIO di Rouen, De laude sanctorum, 6 (PL 20, c. 448 A-B). 210 Ibidem (c. 448 C-D). La natura dell’enumerazione potrebbe far pensare che questa non sia esaustiva. 211 Ibidem, 11 (c. 453 B-C): l’Apostolo Giovanni di Efeso, Procolo di Bologna, Antonino

di Piacenza, Saturnino e Traiano di Macedonia, Nazario di Milano, Muzio (di Bisanzio),

Alessandro (di Drusipara), Datiso (Dacio di Durostoro), Cindeo (di Axiopolis), Rogata e

Leonida, Anastasia, Anatoclia (?). I luoghi tra parentesi sono quelli proposti da H.

Delehaye (Les origines du culte des martyrs, 2e éd., Bruxelles 1933, pp. 355-356 e

passim). Anche qui il pensiero di Vittricio è lungi dall’esser chiaro.

212 VITTRICIO, De laude sanctorum, 2 (c. 441 B-D). 213 Ep. 42 Recognouimus (PL 16, c. 1129 A-B). Il confronto è stato proposto dal primo

editore di Vittricio. Al posto di Cario, Herval nell’ultima edizione (Paris-Rouen, 1966)

cita Catio, non meglio conosciuto. 214 Ambrogio muore il 4 aprile del 397. Il viaggiatore può aver lasciato Milano prima di

questa data. Il De laude sembra essere ben noto a Paolino a partire dal 398, data dell’Ep.

18 di Paolino a Vittricio (P. FABRE, Essai sur la Chronologie de l’oeuvre de saint Paulin

de Nole, Paris 1948, pp. 68-69, che non fa nessun confronto. Non c’è dubbio che Paolino

sia stato informato oralmente da Pascasio, diacono di Vittricio, ma il testo

dell’Ep. 18, 5, con le allusioni ai monaci e alle monache, p r e s u p p o n e l a

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131

risalire molto in là, a causa della presenza di Agricola, il cui trasferimento ha

luogo nel 393-394. Data la situazione politica di quegli anni, i viaggi non

devono esser stati facili prima del 395215. Per quanto concerne l’origine

dell’invio delle reliquie a Rouen, questo non sembra essere dovuto unicamente

ad Ambrogio, il che tenderebbe a confermare l’indicazione ricavata dalle

affermazioni di Paolino a Niceta. Uno dei due vescovi era forse andato

lettura del De laude, 3). In merito alle reliquie, questo è quanto scrive Paolino: «... Nunc

Rotomagnum, et uicinis ante regionibus tenui nomine peruulgatum, in longinquis etiam

prouinciis nominari uenerabiliter audimus et inter urbes sacratis locis nobiles cum diuina

laude numerari. Haud immerito cum totam illic qualis in Oriente memoratur Hierusales

faciem apostolorum quoque praesentia meritum tuae sanctitatis aduexerit qui peregrinam

memoriis suis urbem affectu sanctorum spirituum et effectu operum diuinorum sedibus

suis comparant qui in te ipsum aptissimum sibi diuersorium repererunt» (Ep. 18, 5 - Ed.

G. Hartel, CSEL 29, p. 132). Paolino, che accondiscende alle dichiarazioni di Vittricio,

farebbe forse certe affermazioni se fosse già in possesso delle stesse reliquie a Nola? 215 Ci sono davvero stati due trasferimenti di reliquie a Rouen, come solitamente si

afferma? È difficile dare una risposta certa. Stando ad alcune affermazioni i martiri

vengono accolti a Rouen da altri santi (§ 6 - c. 448 A-B; 448 C-D), tra i quali figurano

gli Apostoli Andrea e Tommaso. Altri passi invece lasciano intendere che l’arrivo degli

Apostoli e dei martiri è recente (§ 5 - c. 447 C; § 12, c. 545 C-D), che è dovuto allo

stesso portatore (§ 2 - c. 445 A 2-3), che è stato a lungo desiderato (§ 1 e § 2) e che essi

costituiscono un gruppo unico (§ 12 - c. 454 D), sin da prima del loro ingresso nella

Chiesa che Vittricio ha eretto per loro in modo inatteso (§ 12 - cc. 457-458). Forse

bisognerebbe collocare il § 6 all’interno della trattazione in cui Vittricio afferma che i

santi sono presenti allo stesso tempo in cielo e in qualunque altro posto, così come

bisognerebbe tener conto del fatto che Vittricio non cerca un secondo (alter) luogo, bensì

un altro (alius - § 6; c. 448 B 6) luogo, cioè più degno di tale insieme di santi. Ad ogni

modo Agricola, il cui trasferimento a Bologna risale al 393-394, fa parte del gruppo di

quelli che «accolgono», insieme con Giovanni Battista, Andrea, Tommaso, Gervasio,

Protasio ed Eufemia (§ 6 - c. 448 B). Agricola non può essere a Rouen da molto e

bisognerebbe davvero moltiplicare gli invii per poter asserire che le reliquie di Gervasio

e di Protasio – e forse di altri – sono arrivate a Rouen poco dopo il 386, come sostiene

qualcuno.

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132

in Oriente, e in particolare a Edessa, o aveva ricevuto le reliquie da un illustre

viaggiatore?

I portatori: Gaudenzio

Disponiamo di un certo numero di informazioni riguardo alcune delle

persone che hanno trasportato in Occidente le reliquie orientali. Più difficile è

invece precisare quali siano le reliquie portate dai vari viaggiatori. Il più

conosciuto tra questi è Gaudenzio di Brescia, che ha compiuto due viaggi in

Oriente. Il primo lo ha portato, prima del 397216, fino a Gerusalemme,

passando per la Cappadocia e per Antiochia. È il viaggio rievocato quando

parla delle reliquie dei quaranta martiri, in occasione della dedicazione della

Basilica del Concilium Sanctorum a Brescia217. Il secondo viaggio lo ha

condotto verso Costantinopoli, nel 405-406, in circostanze poco favorevoli a

un trasferimento di reliquie, che non può avvenire senza il consenso del clero

locale218. Poiché Gaudenzio non fornisce nessun dettaglio circa l’invio delle

reliquie di Giovanni Battista, di Andrea, di Tommaso e di Luca, di cui segnala

in maniera vaga soltanto il luogo del martirio219, viene decisamente da pensare

che non sia stato lui a portare le reliquie, e che i numerosi dettagli forniti sui

martiri della Cappadocia non siano realmente volti a far conoscere martiri

molto meno noti agli ascoltatori, di cui vorrebbe precisare l’autenticità.

Il primo vescovo di Concordia

C’è un altro personaggio che potrebbe aver portato le reliquie dei santi della prima

generazione cristiana. Nel sermone pronunciato per la dedicazione della Chiesa

216 Visto che è stato consacrato da Ambrogio (Tr. 16, 2). Nel 386-387 Agostino ha visto

Filastrio a Milano. 217 GAUDENZIO di Brescia, Tr. 17, 14-15. 218 PALLADIO, Dialogus, 4. 219 GAUDENZIO, Tr. 17, 11.

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133

di Concordia, Cromazio lascia intendere che il primo vescovo della città deve la

propria consacrazione all’aver portato qualche reliquia a Concordia220, salvo poi

cederne una parte ad Aquileia221. Se le cose stanno davvero così e se il sermone

non è troppo mutilato222, si può pensare che il primo vescovo di Concordia non

abbia veramente ottenuto le reliquie – essendo ancora un semplice prete223 – in

Italia, da Ambrogio ad esempio. Questi avrebbe piuttosto trattato da vescovo a

vescovo con Cromazio. D’altronde, se il movimento è partito da Milano, è strano

che le reliquie propriamente milanesi non abbiano raggiunto il Veneto, quando

invece si trovano a Brescia e, soprattutto, che siano arrivate nella lontana

Provincia Lionese Seconda e Terza224.

I l n o m e d e l n u o v o v e s c o v o è s c o n o s c i u t o 225. T a l v o l t a è

220 CROMAZIO, S. 26, 1: «Ornata est igitur Ecclesia Concordiensis et munere sanctorum et

basilicae constructione et summi sacerdotis officio. Meruit enim sanctus uir frater et

coepiscopus meus summo sacerdotio honorari, qui per huius modi munera sanctorum

honorauit Ecclesiam Christi sacerdotis ueterni». 221 Ibidem: «Nos a uobis reliquias sanctorum accepimus... Tulimus quod adlatum uobis

fuerat de munere sanctorum...». 222 Il sermone s’interrompe nel bel mezzo delle informazioni riguardanti Tommaso, in

particolare sul ritorno del corpo a Edessa. Poco prima era stato citato Luca (S. 26, 4

inizio) nel gruppo degli Apostoli e degli Evangelisti. Non è da escludere che facessero

seguito altri gruppi o altri nomi. 223 Non è pensabile, in quegli anni, che un laico abbia potuto essere ordinato vescovo. La

legislazione è diventata molto più severa. 224 Sull’assenza di reliquie milanesi in Veneto cfr. J. LEMARIÉ, La liturgie d’Aquilée et

de Milan au temps de Chromace et d’Ambroise in Aquileia e Milano, AAAd. IV, Udine

1973, p. 268 in fondo. Ma i trasferimenti di reliquie continueranno. Cfr., per il Norico,

EUGIPPIO, Vita Seuerini, 9, 3; per la regione di Aquileia G.C. MENIS, Plebs de Nimis,

Ricerche sull’architettura romanica ed altomedioevale in Friuli, Udine 1968, pp. 96-

101. 225 Dobbiamo forse vedere in lui uno dei tre nomi citati da Vittricio? In questo caso,

però, non si capisce perché il vescovo di Concordia sarebbe venuto a Milano nel 392-

393, mentre non c’è né il vescovo di Brescia, né quello di Verona, né quello di Aquileia.

Page 130: Fusco Enrico

134

stato avanzato il nome di Lorenzo226, vescovo cui Rufino ha dedicato la sua

Expositio Symboli227. L’opera, di cui ho ricordato prima qualche fonte

orientale e palestinese, sarebbe in realtà un manuale per un nuovo vescovo,

analogo, mutatis mutandis, al De catechizandis rudibus di Agostino? A

sostegno di questa mera ipotesi aggiungerei che l’opera è datata 404 – il che

non l’allontana molto dalla dedicazione di Brescia – e che forse non è un caso

se, in quegli stessi anni, Rufino dedica a Cromazio la traduzione delle Omelie

su Giosuè di Origene228. Nella Prefazione il vescovo di Aquileia viene

acclamato come il nuovo Beseleel, cioè come il nuovo costruttore del

Tabernacolo. Rufino, dal canto suo, non può portare né metalli, né pietre, né

legni pregiati adatti alla decorazione. La metafora è continuata, secondo

l’esempio di Girolamo. Ma ciò non esclude che possa riguardare anche una

realtà materiale recentissima e d’attualità: la costruzione e la dedicazione della

Basilica degli Apostoli di Aquileia.

Silvia

In ogni caso Rufino sembra essere tornato in Italia senza reliquie. Sappiamo che

Melania aveva ricevuto in dono da Giovanni di Gerusalemme alcuni frammenti della

vera Croce. Sempre grazie a Paolino di Nola sappiamo che Sulpicio Severo, nel 403229,

226 Nessun dato manoscritto consente d’identificare questo Lorenzo con Maurenzio, il cui

sarcofago è stato ritrovato a Concordia «ante limina domnorum Apostolorum».

Maurenzio è peraltro un semplice presbiter. Sull’ubicazione del sarcofago e sui relativi

problemi cfr. G. FOGOLARI, La maggior basilica paleocristiana di Concordia in Atti del

III Congresso Nazionale di Archeologia cristiana, AAAd. VI, Udine 1974, pp. 270 e 294-

295. 227 RUFINO, Expositio Symboli, 1. 228 Sulle datazioni cfr. F.-X. MURPHY, Rufinus of Aquileia, p. 185: Expositio Symboli; pp.

189-190: In Iosue homiliae. 229 P. FABRE, Essai, pp. 34-35, 40.

Page 131: Fusco Enrico

135

aveva chiesto a Paolino di inviargli qualche reliquia per la basilica che stava

costruendo a Primuliacum. Paolino si scusa di potergli inviare soltanto un

frammento della Croce230 e rimanda l’amico a una certa Silvia, che ha

promesso a Vittore, corriere abituale di Sulpicio e di Paolino, «le reliquie di

numerosi martiri d’Oriente»231. Questa Silvia232 è, con ogni probabilità, la

persona cui Rufino aveva promesso di tradurre le Recognitiones Clementis,

che alla fine saranno dedicate, nel 406, a Gaudenzio di Brescia, in seguito alla

morte di Silvia233. Cognata del ministro Rufino, altro appassionato di reliquie,

si trovava in Egitto nel 400234. Nel 403 non era quindi ritornata da molto.

Tuttavia ignoriamo completamente quali reliquie trasportasse, nonché la

provenienza e la destinazione delle stesse, nell’Italia settentrionale così come

in Aquitania.

CONCLUSIONE

Non nascondo la fragilità di certe supposizioni e mi guardo bene

dall’affrontare i problemi strettamente archeologici delle basiliche

in cui sono deposte le reliquie. Tali supposizioni saranno sbagliate

n e l l a m i s u r a i n c u i i t r a s f e r i m e n t i d i r e l i q u i e

230 PAOLINO di Nola, Ep. 31, 1 (Ed. G. Hartel, CSEL 29, p. 268, ll. 3-9). 231 Ibidem (p. 268, ll. 1-3): «et ille (Victor) se spem eiusdem gratiae copiosam habere

dixit a sancta Silvia quae illi de multorum ex Oriente martyrum reliquiis

spopondisset...». 232 Su Silvia cfr. E.D. HUNT, St Silvia of Aquitaine. The role of a Theodosian Pilgrim in

the Society of East and West, JThS 23 (1972), pp. 351-373, da integrare con P. DEVOS,

Silvie la sainte pélerine, ABoll., 91 (1973), pp. 105-117: in Oriente; 92 (1974), pp. 321-

343: in Occidente. 233 RUFINO di Aquileia, In Clementis recognitiones, Prologus (CC 20, p. 281, ll. 6-9):

«opus quod olim uenerandae memoriae uirgo Siluia iniunxerat (...) et tu deinceps iure

hereditario deposcebas...». 234 P. DEVOS, art. cit., p. 114.

Page 132: Fusco Enrico

136

si rivelano esatti e attestano un certo numero di rapporti con l’Oriente e con la

Palestina, quali che siano le vie di comunicazione. Nella prima parte del

presente lavoro ho voluto sottolineare le ripercussioni – vere o verosimili –

delle invasioni barbariche e delle tensioni tra Oriente e Occidente sulle

comunicazioni terrestri tra le due parti dell’Impero attraverso l’Illirico. I fatti

conosciuti sono pochi e le circostanze precise sono mal note. Tuttavia si può

notare come gli scambi continuino anche nei momenti di maggior tensione.

Vigilio di Trento, tra il 399 e il 404, affida al conte Giacomo le reliquie dei

martiri anauniensi per Giovanni di Costantinopoli235. Abbiamo anche visto

Sisinio di Tolosa, che va a imbarcarsi ad Aquileia per la Palestina e, nel 404-

405, la delegazione inviata da Innocenzo, dai vescovi di Milano e di Aquileia

a Giovanni Crisostomo, che prende, da Roma, la via di mare236. I pellegrinaggi

verso la Palestina continueranno anche dopo la conquista araba. Per quanto

riguarda Aquileia la prova viene dall’ampolla di Terra Santa resa nota,

recentemente, da Margherita Guarducci237; inoltre Piussi ci ha intrattenuti ieri

sul Santo Sepolcro della Basilica.

Si tratta di oggetti «materiali», se così si può dire, pensando sia alle Prefazioni

di Rufino, in cui si parlava di merces orientales, sia alla dualità delle fonti

informative. Se è piacevole, infatti, fantasticare riguardo ad Aquileia su scoperte

letterarie interessanti quanto quelle avvenute negli ultimi quindici anni

nell’ambito dei testi, credo sia più ragionevole aspettarsi dal suolo di Aquileia i

235 VIGILIO di Trento, Ep. 2, 1 (PL 13, c. 552 C-E). J. Matthews (Western Aristocracies

and Imperial Court, Oxford 1975, p. 190, n. 5) identifica in modo plausibile questo

conte Giacomo con la «vittima» dell’Epigramma 50 di Claudiano. Tuttavia entrambi gli

scritti sono difficili da datare con maggior precisione. 236 PALLADIO, Dialogus, 4. 237 M. GUARDUCCI, Un ricordo di Terra Santa ad Aquileia, AN, XLV-XLVI (1974-75),

617-630.

Page 133: Fusco Enrico

137

documenti che miglioreranno la conoscenza sia della città, sia dei suoi contatti

con le altri parti dell’Impero. Si tratta di ricchezze che il tempo ha lasciato ad

Aquileia, seppur sepolte.

Altre, invece, sono state lasciate alla luce del sole. Nella Prefazione alla

traduzione della Regola di san Basilio, Rufino si congratula con il monaco

Ursacio per non aver imitato chi è solito interrogare coloro che tornano

dall’Oriente circa i suoi luoghi e le sue ricchezze238, informandosi invece sulle

osservanze monastiche orientali. Ha posto quindi la propria curiosità a un

livello un po’ più alto, curiosità soddisfatta da Rufino nel tradurre per lui la

Regola di san Basilio, che prega di diffondere239. Non dirò di più; mi limito a

citare ancora la Prefazione delle Recognitiones Clementis dedicata a

Gaudenzio, in cui Rufino si vanta del «bottino» strappato alle biblioteche greche,

nonché delle «spoglie della Grecia» trasportate in Occidente240. Non è sicuramente

l’aspetto più importante di queste affermazioni; tuttavia non posso non rimaner

colpito dalle metafore marittime e militari contenute in queste proclamazioni241.

Rufino fa ritorno, via mare, a Roma con una nave carica di merci, o di bottino.

L’ultimo termine non è meno importante: lascia trapelare la fierezza del

238 RUFINO di Aquileia, In regulam sancti Basilii, Prologus (CC 20, p. 241, ll. 7-11): «...

non ut aliquibus mos est uel de locis uel de opibus Orientis sollicite percontatus...». 239 Ibidem (ll. 24-26). 240 RUFINO, In Clementis recognitiones, Prologus (CC 20, p. 281, ll. 10-12): «praedam,

ut opinor, non paruam graecorum bibliothecis direptam nostram usibus et utilitatibus

conuectamus...»; (ll. 24-26): «Peregrinas merces multo in patriam sudore transuehimus

et nescio quam gratus me ciuium uultus accipiat magna sibi Graeciae spolia deferentem

et occultos sapientiae thensauros nostrae linguae claue reserantem». 241 Non sono certo proprie né di Rufino, né dell’Occidente. Temistio, parlando dei porti

di Costantinopoli, oppone in modo analogo le importazioni materiali e le merci

intellettuali importate (Or. 4 - 60 D-61 C). L’immagine di merces orientales, prima di

Rufino, si trova già in Girolamo, nella lettera a Paolo di Concordia, cui Girolamo

promette opere personali «quae cum plurimis orientalibus mercibus ad te, si Spiritus

sanctus adflauerit, nauigabunt» (Ep. 10, 3 f.).

Page 134: Fusco Enrico

138

vincitore, nonché un certo disprezzo per gli orientali. Ci troviamo alla vigilia

di una frattura che si accentuerà sempre più col passare del tempo; va

riconosciuto che, senza l’opera di Rufino e di Girolamo, la separazione

sarebbe stata ancora più netta. L’Occidente deve tutto ad Aquileia e ai propri

figli se è rimasto in contatto con il pensiero orientale per un millennio,

nell’attesa che si potesse avere nuovamente accesso al greco. Ne ha

approfittato, prima ancora di Venezia, soprattutto Aquileia. Certo, Lemarié ha

rievocato l’anno scorso l’esiguo numero di manoscritti bavaresi contenenti

l’opera di Cromazio242, ma ricordo che il Commento alle Epistole di san

Paolo, su cui ho speso qualche parola prima, è stato scritto a Salzburg intorno

all’800243. In quel periodo Juvavum-Salzburg dipendeva ancora da Aquileia.

Non tutti i testi hanno fatto la fine di questo Commento, rimasto poco

utilizzato, come neppure dei Sermoni e dei Tractatus di Cromazio. Sono stati

letti e riletti, copiati e ricopiati, benché ci si dimenticasse ciò che dovevano ad

Aquileia.

Vi è poi una terza serie di «importazioni», difficili da fissare sulla carta

nella misura in cui si tratta di informazioni orali, così come circolano nei

porti. Per concludere vorrei suggerirne l’importanza mediante due testi. Il

primo è di Girolamo, e riguarda non già Aquileia, bensì Porto e lo

Xenodochium di Pammachio e di Fabiola. Credo non sia controindicato

applicare al porto di Aquileia le affermazioni di Girolamo in merito alla

circolazione delle notizie: «In un’estate sola – dichiara – la Bretagna

(all’estremo nord) venne a sapere ciò che l’Egitto e la Partia (cioè la

Mesopotamia e i territori romani dell’estremo est) sapevano dalla primavera»244.

242 J. LEMARIÉ, Chromace d’Aquilée, Sermons, t. 1 (SC 154), pp. 25 sgg. - La diffusion

des oeuvres de saint Chromace d’Aquilée dans les scriptoria bavarois du Haut Moyen-

Age in AAAd. IX, Udine, 1976, pp. 421-435. 243 H.J. FREDE, op. cit., I, p. 258. 244 GIROLAMO, Ep. 77, 10.

Page 135: Fusco Enrico

139

Il secondo testo è tratto dalla lettera di Vigilio di Trento a Giovanni

Crisostomo. Ho già citato tre anni or sono il passo in cui Vigilio, in un «si

dice», oppone il comportamento dei martiri anauniensi a quello dei Donatisti

in Africa245. In un altro passo, parlando del nome di uno dei tre martiri,

Alessandro, Vigilio rievoca Alessandria. Il quadro tracciato sulla religione

egizia non mi sembra né libresco, né costituito unicamente da luoghi

comuni246. Trovano spazio anche informazioni orali, che non per forza gli

sono arrivate dal cappadocio Sisinio né, lo riconosco senza difficoltà, da

Aquileia. Volevo semplicemente mostrare come un individuo sperduto in una

vallata delle Alpi si trovi in contatto con la Cappadocia e con Costantinopoli, e

disponga di informazioni su Alessandria e sull’Africa. L’Impero era ancora

abbastanza unificato perché le notizie potessero circolare senza ostacoli. In

ogni caso, per concludere con la Palestina, le vie dei Luoghi santi rimarranno

sempre, anche nei periodi più bui, la via di trasmissione delle notizie, delle

idee e delle forme. I testi, dal canto loro, viaggeranno molto meno tra le due

comunità linguistiche.

(1977)

245 Y.-M. DUVAL, L’influence des écrivains africains du IIIe siècle sur les écrivains

chrétiens de l’Italie du Nord dans la seconde moitié du IVe siècle in Aquileia e l’Africa,

AAAd. V, Udine, 1974, p. 196.

246 VIGILIO di Trento, Ep. 2, 10 (PL 13, c. 557 B-C).

Page 136: Fusco Enrico

140

IL LIBER HIERONYMI AD GAUDENTIUM:

RUFINO DI AQUILEIA, GAUDENZIO DI BRESCIA

ED EUSEBIO DI CREMONA

Fatte le debite proporzioni, la vita e l’opera di Girolamo sono tra le più conosciute

dell’antichità cristiana. Attraverso la vita e l’opera di Girolamo si può cogliere la vita

di molti altri personaggi più o meno importanti del IV e V secolo, se non addirittura

interi squarci della vita politica dell’epoca.

Eppure quando l’occhio dello specialista si avvicina, non ha difficoltà a scoprire

ampie zone d’ombra − o di profonda oscurità −. Allo stesso modo si accorge che

alcune ricostruzioni biografiche poggiano su basi fragili, o che le concatenazioni che

si crede di poter operare non s’impongono con forza. Ciò significa che qualsiasi

elemento nuovo, con il suo contributo particolare, con i riesami che comporta e

anche con le sue conferme, costituisce una conquista preziosa, e ne lascia sperare

altre.

In questi ultimi anni la scoperta, da parte di J. Divjak, di una trentina di lettere e di

memorie sconosciute di Agostino non è stata soltanto ricca di insegnamenti

sull’Africa, sulle difficoltà della Chiesa e su Sant’Agostino, ma ha anche fornito

numerosi documenti importanti su Girolamo, poiché, oltre a una lettera di Agostino a

Girolamo del 416, ha reso nota una lettera di Girolamo ad Aurelio di Cartagine

risalente circa al 391-392, periodo di cui non possediamo nessuna lettera di

Girolamo1.

Non è questo il momento di addentrarsi nei particolari di tale importante lettera,

anche se l’indicazione data da Girolamo ad Aurelio secondo cui i vescovi della

Gallia e d’Italia − intendiamo dell’Italia settentrionale, annonaria − mandano persone

a prendere copia delle sue opere2 potrebbe, vista la data, rafforzare l’opinione

1 Sancti Aureli Augustini, Epistolae ex duobus codicibus nuper in lucem prolatae,

recensuit J. DIVJAK, CSEL 88 (Vindobonae, 1981), Ep. 19* e 27*. Una nuova edizione di

tali lettere costituisce il volume 46 B della Bibliothèque Augustinienne (Paris, 1987). Le

due lettere sono state da me annotate a pp. 507-516 e 560-568 rispettivamente. 2 Ep. 27*, 3. La lettera, scritta prima del De uiris e dopo l’ordinazione di Aurelio a

Cartagine, risale al 391-392.

Page 137: Fusco Enrico

141

di P. Meyvaert circa i rapporti tra Girolamo e Gaudenzio di Brescia prima dello

scatenarsi della controversia origeniana, vale a dire prima del 393. Vorrei riprendere

l’esame dei due frammenti che P. Meyvaert ha da poco reso noti3, proponendo di

collocarli nel quadro degli anni 400-401.

Se è questa la data del «Libro a Gaudenzio», avremo occasione di sondare

nuovamente le nostre lacune, ma anche, se l’opera proviene davvero da Girolamo, di

scoprire l’esistenza di una rete di relazioni tra la Palestina e l’Italia settentrionale ben

più fitta di quanto i testi attualmente a disposizione consentano di mettere in

evidenza4, salvo essere invitati dallo studio di questi frammenti a proporre un’altra

soluzione e un altro autore.

***

Non occorre ritornare sulla scoperta di tali frammenti, che figurano su tre fogli del

manoscritto 3 della Bibliothèque Municipale (S. 2) di Autun, datati 754. Tutto ciò

che è utile sapere è stato detto da P. Meyvaert, il quale ha offerto una trascrizione

quasi diplomatica dei due frammenti, seguita da un tentativo di ricostruzione5.

Il testo di seguito riportato è anch’esso un tentativo di ricostruzione, seppur

leggermente diverso. Il testo comprende anche le rubriche, per una delle quali

propongo due, se non addirittura tre correzioni significative. L’apparato critico non

cita le grafie e le variazioni a/e, e/i, o/u, os/us, sebbene alcune siano rilevanti per la

comprensione del testo. P. Meyvaert ha già segnalato6, dopo E.A. Lowe7, l’elevato

numero di tali indecisioni, per non parlare dell’«ortografia barbara» di Gundohinus,

denunciata dall’autore del vecchio Catalogue du Grand Séminaire di Autun. Ho

rivisto il manoscritto, soltanto su microfilm, all’Institut de Recherche et d’Histoire

des Textes, che ho il piacere di ringraziare.

3 P. MEYVAERT, Excerpts from an Unknown Treatise of Jerome to Gaudentius of

Brescia, in Rev. bénéd. 96 (1986), pp. 203-218. 4 Su queste relazioni cfr. il mio Aquilée e la Palestine entre 370 et 420, in AAAd. XII

(1977), pp. 263-322. 5 P. MEYVAERT, Art. laud., pp. 204-206. 6 Ibid., p. 204. 7 E.A. LOWE, Codices Latini Antiquiores VI (Oxford, 1953), n. 716.

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142

I − fol. 1r. EXCERPTA DE LIBRO SANCTI HIERONIMI PRESBITERI:

Omnis qui qualemcumque differentiam facit in substantia Trinitatis et inferiorem Filium dicit a Patre uel Spiritum Sanctum (fol. 1v) a Filio, ita ut non uideat Filius Patrem et Spiritus 5 Sanctus non uideat Filium, anathema sit in aeternum.

Nos enim et corde credimus et ore confitemur (cf. Rom. 10, 10) quia sic uidet Filius Patrem et Spiritus Sanctus sic uidet Filium et Patrem quomodo Pater Filium et Spiritus Sanctus sic uidet Filium et Patrem quomodo Pater et Filius uident Spiritum 10 Sanctum, id est quomodo Deus Deum et Lux Lucem.

Anathema sit ergo qui aliter uel crediderit umquam uel credit. Haec est nostrae fidei professio, haec est ecclesiasticae traditionis adsertio, quae non solum Arrium excludit, qui inferiorem et alterius naturae Patre Filium uel Spiritum 15 Sanctum dicit, sed et Valentinianos et Anthropomorphitas repellit, qui Deum uidere corporaliter putant. Et quantumquidem ad nostram personam pertinet, sufficit anathematizari a nobis ea quae contra fidem ueram dicuntur. Amen. Explicit. EXCERPTA DE LIBRO SANCTI PRESBITERI HIERONIMI AD PAPAM

20 GAVDENTIVM DE HIS QVAE FALSAVIT EVSEBIVS CREMONENSIS ET DE QVIBVS CALVMNIATVR. II − fol. 13r. ITEM EXCERPTA EX LIBRO SANCTI HIERONIMI CVIVS EST SVPRA: Quantum ad meam propriam sententiam respectat, ne <in> qua 25 forte aemulus noster uoluntarie incidat obliuio<ne>, iterum ac saepius eadem repeto: Omnis qui negat Trinitatem unius esse uirtutis et aeternitatis atque substantiae anathema sit. Omnis qui negat ita uidere Filium Patrem et Spiritum Sanc- 30 tum Filium sicut uidet Pater Filium et Spiritum Sanctum anathema sit. Si quis negat Filium Dei, <natura> humanae carnis suscepta passum esse et sepultum et in ipsa carne resurrexisse a mortuis,

6 Nos Mey: non A. ║ 7 sic uidet Mey: sicut de A ║ 8 quomodo Mey: quodo A ║ 9 filium et patrem Mey: filium et a patrem A: filium et a Patre uidetur forte ║ 9 uident ego: uidet Mey: uidit A ║ 10 quomodo Mey: quando A ║ 14 Patre ego: patrem A Mey ║ 17 anathematizari Mey: -e A ║ quae ego (Mey p. 206): qui A Mey (i.t.) ║ 20 falsauit Mey: falsa(m)uit A: falsauerit forte (uide commentarium) ║ 20 Eusebius ego: Eusebium A (i.t.) ║ 20 Cremonensis ego (uide commentarium): Emisinus A Mey ║ et de quibus Origenes add. Mey (p. 206, in commentario) ║ 24 sententiam respectat Mey: sententiam (?) expectat (rasura unius litterae) ║ 24 ne <in> qua forte ego: ne forte Mey: ne qua forte A ║ 25 aemulus noster uoluntarie ego: aemolusnostru9uoluntariae A (-u9 = -uo- et repetitum? - Non rarum apud Gun). ║ 29 Filium Patrem et Spiritum Sanctum Filium A: Filius Patrem et Spiritus sanctus Filium Mey ║ 32 natura humanae carnis suscepta ego: anathema humanae carnis suscepta A: humanae carnis suscepta Mey

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143

ascendisse in caelos, consedisse in dexteram Dei et rursum 35 uenturum ad iudicium uiuorum et mortuorum anathema sit. Si quis negat resurrectionem carnis huius nostrae futuram secundum eam similitudinem qua Christus resurrexit a mortuis integre et perfecte anathema sit. Aduersus haec omnia, siue Origenes siue quis Apostolus siue 40 etiam angelus de caelo nuntiauerit aliter quam adnuntiatum est nobis, anathema sit in ista regula fidei. LIBER MEMORIAE EVSEBII HIERONIMI PRESBITERI AD PAPA<M> GAVDENTIVM.

All’infuori di due o tre correzioni fondamentali, non sono molti i punti in cui mi

allontano da P. Meyvaert e comunque non sono determinanti; ritorno di tanto in tanto

al manoscritto, evitando di imputargli un errore inutile (costruzione infinitiva);

rispetto la grammatica dell’autore e il suo vocabolario (rursum/rursus); trasformo

una svista o una distrazione (anathema) del copista in una parola non troppo lontana

dal punto di vista grafico (natura) e che presenta il vantaggio di rispettare la sintassi

e il senso della frase; ma non accordo fondamentale importanza né al mio

suggerimento per la l. 9 (: et a Patre uidetur), né all’esatta sintassi dell’inizio del

secondo frammento8. Si potrebbe anche suggerire: «ne qua forte aemuli nostri

uoluntaria incidat obliuio» − e altre soluzioni ancora −, senza che cambi il senso

generale o l’insinuazione.

In compenso le correzioni che riguardano la seconda rubrica sono di grande

rilevanza. Fornirò una spiegazione «paleografica», prima di giustificarle attraverso lo

studio del contesto dei frammenti. Si può ammettere senza difficoltà che si è passati

da quae a que e a qui9; falsauit viene preferito da Meyvaert al falsamuit che il copista

sembra aver prima letto e poi scritto. Lo si può forse lasciare; ma mi chiedo se non sia falsauerit

Per

34 rursum A: rursus Mey ║ 36 nostrae Mey: nostri A ║ 38 integre et perfecte ego: intecre et

perfectae A: integrae et perfectae Mey.

8 La seconda o del «blocco» senza cesura «nostruouoluntariae» presenta una piccola

coda curva che la fa sembrare una g, senza però essere una g. Propendo per una

dittografia; non sarebbe l’unica nel manoscritto. 9 D’altronde, all’interno dell’articolo (p. 206), P. Meyvaert legge a giusto titolo quae.

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144

la giusta lettura del testo che il copista aveva sotto gli occhi10. Quanto a Eusebio

Cremonensis − al posto di Eusebio Emisinus del manoscritto − non arriverò fino al punto

di asserire che il copista trovasse già questo nome nel proprio modello; tuttavia credo che

l’intera questione cui si riferiscono i nostri frammenti inviti a riconoscerlo, senza troppa

difficoltà, nei panni e al posto di colui del quale Meyvaert ha cercato, invano, di

giustificare la presenza.

***

Dopo aver presentato il proprio tentativo di ricostruzione, P. Meyvaert intraprende lo

studio dei frammenti attraverso una lunga trattazione su Eusebio di Emesa, sulle

menzioni che Girolamo fa di lui e, in particolare, sulla denuncia che viene fatta nella

Cronaca circa il ruolo svolto dal protetto di Costanzo II, amico di Ariani ben noti11:

«Eusebius Emisenus, Arrianae signifer factionis, multa et uaria conscribit» (ad a. 347).

Visto che, nel Contro Rufino, è Eusebio di Cesarea a essere definito «Arianae quondam

signifer factionis»12, P. Meyvaert si domanda se, tra il 381 e il 401, Girolamo non abbia

«rivisto la propria opinione sull’identità dei due scrittori chiamati, entrambi, Eusebio» e

non abbia − continuo − abbandonato le accuse contro Eusebio di Emesa, per farle

ricadere, iniziando dalla controversia origeniana, soltanto su Eusebio di Cesarea13. I

frammenti del «libro a Gaudenzio» sarebbero precedenti a tale evoluzione e andrebbero

collocati prima del 39314.

La spiegazione è plausibile15, ma piuttosto complicata. Non credo che Girolamo riservi

in modo definitivo un’«etichetta» a un autore, senza permettersi di affibbiarla anche a un

altro. Le sue opere polemiche dimostrano semmai il contrario16. Eusebio di Emesa ed

10 Ricordo che ho visto solo un microfilm, la cui raschiatura non lascia intravedere il

substrato. 11 P. MEYVAERT, Art. laud., pp. 206-207. 12 GIROLAMO, Contra Rufinum, I, 8 (ed. P. LARDET, SC 303, p. 24, ll. 12-13). 13 P. MEYVAERT, Art. laud., pp. 207-208. 14 Ibid., p. 204; pp. 213-214. 15 Tuttavia va notato che nel 398 (Ep. 70, 4 ed Ep. 73, 2) e nel 404 (Ep. 112, 4) Girolamo

distingue Eusebio di Cesarea da Eusebio di Emesa. In ogni caso mi sembra difficile credere

che Girolamo si sia confuso. Eusebio di Cesarea occupa molto spazio nel Contro Rufino. 16 Cfr. il mio Pélage est-il le censeur inconnu de l’΄Aduersus Iouinianum΄ à Rome en

393? e: Du «portrait-robot» de l’hérétique chez S. Jérôme, in RHE 75 (1980), pp. 525-

557 e in particolare pp. 532-536.

Page 141: Fusco Enrico

145

Eusebio di Cesarea possono essere stati allo stesso tempo per Girolamo «alfieri della

fazione ariana», senza che questi abbia dovuto modificare i propri giudizi. Spiegare

come un − o il − copista abbia trasformato l’eventuale Cremonensis in Emesinus non

presenta alcuna difficoltà. Il secondo, a partire dal IV secolo, credo, ma soprattutto a

partire dal V, è uno scrittore conosciuto − per giunta in latino − in Occidente. Lo

testimonia il corpus del manoscritto 523 di Troyes scoperto da Dom Wilmart, per non

parlare dell’Eusebius Gallicanus, la cui diffusione è stata notevole. Non penso quindi che

ci sia bisogno di fare appello a Eusebio di Emesa per comprendere la rubrica o il

frammento in questione, così come non è necessario determinare un «de quibus Origenes

calumniatur», come suggerisce P. Meyvaert17. È sempre Eusebio di Cremona a essere

chiamato in causa da tale verbo, e sono assai stupito che il suo nome non sia stato citato

in questo studio, quando invece ha rivestito un ruolo decisivo in tutta la questione che è

qui in secondo piano (e che P. Meyvaert riporta solo in parte).

Certo, nell’Apologia contro Girolamo Rufino non cita né il nome di colui che ha

modificato una copia provvisoria della sua traduzione del Peri Archôn18, né quello di

colui che, a Milano, ha prodotto un testo falsificato19; ma i nomi, o meglio, il nome

dell’unico personaggio è citato da Girolamo in vari punti delle sue risposte a

Rufino20. Che io sappia, non sono in molti a esitare sugli autori, nonostante Girolamo

abbia cercato di imbrogliare le carte e sebbene la questione presenti, di per sé,

qualche punto oscuro, che i moderni hanno reso ancora più fitto mediante il sospetto

sistematico di Rufino. Non è quindi inutile riprendere rapidamente lo svolgersi dei

fatti.

Durante la Quaresima del 39821 Rufino intraprende la traduzione del Peri Archôn di Origene,

ma non va oltre i primi due libri, che correda di una Prefazione dedicata a Macario. Qualche

17 Art. laud., p. 207, fine del primo paragrafo del commento. 18 RUFINO, Apologia contra Hieronymum, I, 17-21 (ed. M. SIMONETTI, CC 20, pp. 50-

56). Non mi soffermo sulla questione delle schedae, che meriterebbe un’analisi

approfondita. 19 Ibid., I, 19 (p. 53, ll. 10-12). 20 GIROLAMO, Contra Rufinum, 1, 4; 1, 10; 3, 4-5; 3, 6; 3, 20. 21 La data è quella dell’In Matthaeum di Girolamo dedicato a Eusebio, quando questi

s’imbarca per Roma.

Page 142: Fusco Enrico

146

mese dopo la Prefazione ai libri III e IV lascia intendere che gli avversari sono già in

subbuglio. Non occorre esaminare le ragioni; è sufficiente precisare, con l’aiuto dei

documenti successivi, chi siano questi avversari, a Roma, dove si trova Rufino.

Sappiamo che Eusebio di Cremona è ritornato dalla Palestina nella primavera del

398. Rufino dirà di averlo incontrato più volte, senza che vi sia la benché minima

osservazione22. Ora, Eusebio non tarda a procurarsi le famose schedae della

traduzione del Peri Archôn23. Prima della fine della navigazione del 398 Pammachio

può inviarle a Girolamo, con la Prefazione ai libri I-II, chiedendogli una traduzione

letterale del trattato sospetto24. Questa sarà realizzata da Girolamo durante l’inverno

del 398-399 e arriverà a Roma nella primavera del 399. A quel tempo Rufino ha già

lasciato Roma per Aquileia, giacché non gli viene consegnata la lettera che Girolamo

gli aveva indirizzato.

Era già stato oggetto di attacchi presso le autorità religiose? Sappiamo che ha lasciato

Roma munito di una lettera di comunione di Siricio25, il che forse non costituiva pura

obbedienza alle regole canoniche. Rufino ha anche scritto a Girolamo e gli ha

probabilmente chiesto di calmare i suoi amici26. D’altra parte Girolamo racconterà, a sua

lode, che Marcella è intervenuta diverse volte presso Siricio per denunciare gli errori

origeniani27. Siricio è morto il 26 novembre 39928. Gli attacchi di Marcella precedono

quindi la partenza di Rufino − e, probabilmente, l’arrivo della traduzione di Girolamo −.

Questa non occupa, infatti, nessun posto all’interno del racconto riguardante Marcella.

D’altronde l’autore afferma, nella lettera ad Avito, che questa nuova traduzione, una

volta giunta tra le mani di Pammachio, sembrò così pericolosa che chi l’aveva richiesta

22 RUFINO, Apol. c. Hieron., I, 20 (p. 55, ll. 24-29). Sulla data del ritorno di Eusebio di

Cremona cfr. GIROLAMO, Contra Rufinum, 3, 24 (ed. P. LARDET, SC 303, p. 280, ll. 17-

19). 23 GIROLAMO, Contra Rufinum, 3, 20 (ed. P. LARDET, SC 303, p. 268, ll. 30-32). 24 GIROLAMO, Ep. 83 (CUF 4, pp. 124-125). 25 GIROLAMO, Contra Rufinum, 3, 21 (p. 268, l. 1); 3, 24 (p. 278, ll. 1-3); Ep. 127, 10

(CUF 7, p. 144, l. 28 - p. 145, l. 2). 26 GIROLAMO, Ep. 81, 1 e 2 (CUF 4, pp. 124-125). 27 GIROLAMO, Ep. 127, 9 (CUF 7, p. 144, ll. 18-25). 28 Su tale data cfr. L. DUCHESNE, Le Liber Pontificalis, t. Ier (Paris 1886), pp. CCL-CCLI.

Il giorno e il mese sono sicuri; l’anno è stato calcolato per deduzione.

Page 143: Fusco Enrico

147

cominciò a nasconderla29. Strano comportamento, chiarito a malapena dai dibattiti

successivi.

Le istanze degli amici di Girolamo non avevano funzionato presso Siricio. Le

richieste ripresero presso Anastasio. Ciò spiega la reazione di Rufino, che compone in

quel periodo l’Apologia ad Anastasio. Non si trova in tale difesa la benché minima

allusione alla piega che hanno preso gli avvenimenti nel corso del processo di Milano,

né al rilievo dato dai documenti romani, né soprattutto al voltafaccia di Teofilo di

Alessandria30.

Nell’Apologia ad Anastasio Rufino dichiara fiducioso che Teofilo professa la fede

delle Chiese di Roma, di Alessandria, di Aquileia e di Gerusalemme; ignora che

Teofilo ha cambiato schieramento e che il suo intervento ha avuto grande peso sulla

decisione di Anastasio. Nella sua lettera a Simpliciano di Milano (precedente al 15

agosto 400), il vescovo di Roma parla di una lettera del vescovo di Alessandria31;

sappiamo grazie a Girolamo che questa è arrivata a Roma poco dopo una delle sue32.

Anastasio fornisce un’altra informazione, che mi sembra determinante. Presentando il

portatore della lettera a Simpliciano, dichiara: «il prete Eusebio, traboccante di fervida

fede e pieno di amore verso Dio, ci ha presentato un elenco di blasfemie (quaedam

capitula blasphemiae). Non soltanto le abbiamo condannate con orrore, ma sappi che,

se ve ne sono altre esposte da Origene, sono state ugualmente condannate assieme al

loro autore»33.

29 GIROLAMO, Ep. 124, 1 (CUF 7, p. 95, ll. 15-17). 30 F.X. MURPHY (Rufinus of Aquileia, His Life and Works [Washington 1945], pp. 133-137) e C.P. HAMMOND-BAMMEL (The Last Ten Years of Rufinus’ Life and the Date of his Move South from Aquileia, in J.T.S. 28 [1977], pp. 388-389) collocano la stesura di questa Apologia dopo il processo di Milano, quindi alla fine del 400, il che mi pare alquanto inverosimile. Rufino ignora palesemente che ad Alessandria le cose sono cambiate. La sua Apologia ad Anastasio rievoca troppo ingenuamente le persecuzioni di Alessandria del 373 e invoca con troppa fermezza la fede di Alessandria – vale a dire quella del suo vescovo – perché possa avere la minima informazione sul rovesciamento di alleanze appena prodottosi. Ritornerò in seguito sulla «Professione di fede» dell’Apologia. Anche P. Lardet (Introduction du Contre Rufin, SC 303, pp. 59*-60*) colloca l’Apologia alla fine del 400, dopo la morte di Simpliciano, ma nota che Rufino ignora «con ogni probabilità il recente voltafaccia di Teofilo». Ciò sarebbe impossibile a quel tempo. A Milano Eusebio ha richiesto l’intervento di Teofilo, citato da Anastasio nella Lettera a Simpliciano. In seguito Rufino non dirà più nulla riguardo ad Alessandria. 31 GIROLAMO, Ep. 95, 1 (CUF 4, p. 160, l. 24 - p. 161, l. 2). 32 GIROLAMO, Ep. 88 (CUF 4, p. 143, ll. 14-19). 33 GIROLAMO, Ep. 95, 3 (CUF 4, p. 161, ll. 18-23). «Haec Sanctitati tuae pe r Eusebium presby te rum, qu i ca lorem f ide i ges tans e t amorem c i r ca

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148

Tali affermazioni non danno a intendere che Anastasio abbia letto il Peri Archôn.

La lettera che invierà poco dopo a Venerio di Milano farà riferimento alle

«blasfemie» che Teofilo ha trovato nei «libri di Origene»34. La lettera a Giovanni di

Gerusalemme non lascia trasparire una migliore conoscenza dell’opera di Origene,

né della traduzione incriminata35. Dobbiamo quindi ritornare ai capitula rievocati

nella lettera a Simpliciano.

Sarei propenso a credere che questi fossero costituiti dalle tesi denunciate da

Girolamo nel suo Contro Giovanni di Gerusalemme36, indirizzato a Pammachio nel

397, tesi che non facevano altro che riprendere le accuse di Epifanio37. In ogni caso

sono stati in molti a notare che il punto che ha scatenato l’incidente di Milano38 non è

altro che la prima delle affermazioni trovate da Girolamo e presentate come tratte dal

Peri Archôn39. Rufino non collegherà la traduzione incriminata al Contro Giovanni,

che pur conosceva; tuttavia, oltre a permettere di riconoscere questa prima proposta,

lascia immaginare l’azione di Marcella. Quando Eusebio, infatti, lesse la «scedula»

interpolata, dinanzi ai dinieghi di Rufino, gli venne chiesto da chi avesse avuto

l’esemplare40. La matrona quaedam che glielo ha fornito e di cui Rufino non vuole

fare il nome è sicuramente Marcella, e questa, grazie ai legami con Pammachio, era

di sicuro al corrente dei rimproveri che Girolamo muoveva a Origene41.

Deum habens, quaedam capitula blasphemiae obtulit, quae nos non solum horruimus et iudicauimus, uerum et si qua alia sunt ab Origene exposita, cum suo auctore pariter a nobis scias esse damnata». 34 ANASTASIO, Ep. Dat mihi plurimum (PLS I, c. 791 C-D). 35 ANASTASIO, Ep. Probatae quidem (Ed. SCHWARTZ, A.C.O., V, 1, p. 3, ll. 18 sgg.). 36 GIROLAMO, Contra Iohannem, 7 (PL 23 [1845], c. 360 B-D). 37 GIROLAMO, Ep. 51, 4-6 (CUF 2, pp. 161-167). 38 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 19-20 (CC 20, pp. 53-55). 39 GIROLAMO, Contra Iohannem, 7 (PL 23, c. 360 B): «Et primum, de libro Περί αρχών ubi loquitur: sicut enim incongruum est dicere quod possit Filius uidere Patrem ita inconueniens est opinari quod Spiritus Sanctus possit uidere Filium». Cfr. Ep. 51, 2 (CUF 2, p. 161, l. 29 - p. 162, l. 2). 40 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 19 (CC 20, p. 54, ll. 41-46). 41 È plausibile che Eusebio, in quanto prete, fosse un richiedente più qualificato presso il vescovo di Roma rispetto a una vedova o a un laico conuersus. D’altro canto arrivava dalla Palestina. Girolamo afferma che la lettera di Teofilo andò a rafforzare la propria denuncia (Ep. 88 [CUF 4, p. 143, ll. 14-20]). Qual era questa denuncia? Quella che accompagnava la sua traduzione letterale – di cui

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149

A dire il vero non possiamo sapere come si presentasse «l’esemplare» di Marcella.

Aveva forse individuato il passo preso di mira da Girolamo sulla «visione» e sulla

«conoscenza»? Aveva forse riportato a margine il capitulum di Girolamo? È difficile

saperlo. Non è nemmeno detto che l’«esemplare» in questione sia stato prodotto in

udienza; nel qual caso Rufino avrebbe potuto fornire informazioni ancora più

concrete. Certo, ha raccontato le cose piuttosto dettagliatamente, ma non mi sembra

che abbia capito il meccanismo del «montaggio». Mi limiterò a presentare il passo

controverso della traduzione42 così come lo trascrive Rufino, aggiungendo, a titolo

informativo, la «ricostruzione» del Peri Archôn che Kötschau ha proposto,

inserendovi la prima accusa del Contro Giovanni. Questa ha per lungo tempo falsato

la visione delle cose e la comprensione di questa pagina del Peri Archôn.

Il testo della traduzione di Rufino RUFINO, Apologia c. Hieronymum, I, 19 (CC 20, p. 51, ll. 32-37 e p. 53, ll. 3-6): Quod si requiras a me quid etiam de ipso Vnigenito sentiam, si ne ipsi quidem uisibilem dicam naturam Dei quae naturaliter inuisibilis est, non tibi statim uel impium uideatur esse uel absurdum; rationem quippe dabi-mus consequenter. Aliud est uidere aliud

Il testo falsificato RUFINO, Apologia c. Hieronymum, I, 19 (CC 20, p. 53, ll. 7-10):

(...) uideatur43 esse uel absurdum quia sicut Filius Patrem non uidet, ita nec Sanctus Spiritus Filium uidet44.

La ricostruzione (errata) di Kötschau ORIGENE, Peri Archôn, I, 1, 8 (ed. Kötschau, GCS, 22, p. 25, l. 15 - p. 26, l. 3):

(...) uideatur43 esse uel ab-surdum; rationem quip-pe dabimus consequen-ter. <Sicut enim in-congruum est d icere

non si fa parola né a Roma dinanzi ad Anastasio, né a Milano dinanzi a Simpliciano – o il Contra Iohannem del 397, che non aveva sortito alcun effetto su Siricio e viene brandito nuovamente contro Origene e Rufino? 42 Il passo incriminato di cui sopra, ripreso nella prima colonna, è contenuto nel Peri Archôn, I, 1, 8 (nell’edizione SIMONETTI-CROUZEL, SC 252, p. 108, ll. 274 sgg. e nota 36). Purtroppo la traduzione è inesatta. Bisogna infatti tradurre: «Se mi si chiede qual è la mia opinione anche sull’unigenito Figlio – riguardo alla questione della visione –, non bisogna, se dico che la natura divina, che è per natura invisibile, è invisibile anche per lui, non bisogna trovare ciò empio o assurdo. Forniremo una spiegazione logica: vedere è una cosa, conoscere un’altra. Essere visto e vedere appartiene ai corpi, essere conosciuto e conoscere alla natura intellettuale...». 43 Quanto precede non è contestato; presenta pertanto la medesima stesura dell’inizio della prima colonna dal testo completo. 44 Sfortunatamente Rufino non continua. 45 Questo passo proviene dal Contra Iohannem, 7 (PL 23, c. 360 B 2-4).

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noscere: uideri et uidere corporum est, nosci et noscere intellectualis naturae est...

quod possit Filius uidere Patrem, ita inconueniens est opinari quod Spiritus sanctus possit uidere Filium>45. Aliud est ui-dere, aliud cognoscere...

Non occorre dimostrare che il testo che Rufino considera autentico (prima colonna)

è del tutto sufficiente di per sé e corrisponde alla perfezione, come spiegherà

ampiamente Rufino, al pensiero di Origene, che del resto conosciamo, sulla

differenza tra visione corporale e conoscenza intellettuale46. Origene era troppo

sensibile ai pericoli degli antropomorfismi47 per pensare a un intervento di Didimo,

come asserirà Girolamo48. D’altra parte l’inserimento di Kötschau, collocato lì dov’è

− indipendentemente dalla sua origine49 −, ripete inutilmente − e in modo così brusco

che si scredita da solo − quanto preparato con cautela nelle righe precedenti.

Resta da soffermarsi su ciò che Rufino definisce «falsificazione». Non vi è dubbio

alcuno che, letta al di fuori del proprio contesto, la frase diventi pericolosa o quanto

meno inopportuna. Tuttavia il senso non è affatto evidente. Prima di mostrarlo farò

notare, con rammarico, che Rufino non ha formalmente detto come si concatenava il

seguito del testo. In compenso ha forse indicato come egli leggeva il testo

interpolato. Bisogna leggere, infatti: «... Non deve sembrarti immediatamente empio

o assurdo che, così come il Figlio non vede il Padre, allo stesso modo lo Spirito

Santo non vede il Figlio»? Oppure: «Se dico che la natura di Dio, che, per natura, è

invisibile, non è visibile nemmeno all’unigenito Figlio, ciò non deve sembrarti

46 Cfr. H. CROUZEL, Origène et la «connaissance mystique» (Bruges-Paris, 1961), p. 96,

p. 380. 47 Cfr. ad esempio, nel Commento alla Genesi, 1, 26 (PG 12, c. 93 A-C), l’attacco contro

Melitone di Sardi. 48 GIROLAMO, Contra Rufinum, 2, 11 (ed. P. LARDET, SC 303, p. 128, ll. 66-70). 49 Nel Contra Iohannem, 7 Girolamo lo considera proveniente dal Peri Archôn, e lo

ripeterà nell’Ep. 124, 2 (CUF 7, p. 96, ll. 9 sgg.), ma più a mo’ di sintesi del pensiero di

Origene che non come citazione letterale, peraltro frequenti. Probabilmente, nel Contra

Iohannem, tale inserimento non rappresenta altro che la ripresa dell’Ep. 51, 2.

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151

immediatamente empio o assurdo, poiché, così come il Figlio non vede il Padre, allo

stesso modo lo Spirito Santo non vede il Figlio»? In altre parole, il quia è

dichiarativo o causale? Rufino, rimandando Aproniano e Macario al testo che hanno

tra le mani50, consente di vedere la sua interpretazione, e la conoscenza dei dossier di

tesi imputate a questo o a quell’altro invita a pensare che il quia introduca

semplicemente, come ότι, un’affermazione. Non avremmo allora a che fare con uno

di quei capitula di cui parlava Anastasio riguardo a Eusebio?

***

Dobbiamo ritornare su Gaudenzio e sul testo dei due frammenti. Innanzitutto è

verosimile che il vescovo di Brescia fosse presente a Milano, quando fu sostenuta

l’accusa contro Origene e contro Rufino − indirettamente anche contro Giovanni di

Gerusalemme −. Il vescovo di Milano aveva, come ai tempi di Ambrogio, riunito

intorno a sé i propri vescovi51. In ogni caso, nella sua lettera a Venerio, Anastasio

lascia ben intendere che tutta l’Italia settentrionale è chiamata in causa. Anastasio

traccia per lui la cronistoria della resistenza della regione alle persecuzioni ariane52,

prima di rievocare Origene e ricordare che aveva domandato a Simpliciano di

comunicare agli altri vescovi la sua condanna di Origene53. Certo, si può

argomentare che non si tratta di un sinodo; ma si può parimenti rispondere che questa

seconda lettera non sarebbe stata necessaria, se Simpliciano si fosse limitato a

convalidare la condanna contenuta nella lettera 95. A dire il vero, tra l’altro, la lettera

95 non conteneva nessun invito formale a trasmettere la condanna nell’Italia

settentrionale. Il vescovo di Roma rispetta le regole che vogliono che non si

condanni un assente (in questo caso Rufino) e che si lasci la decisione ai

50 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 19 (CC 20, p. 54, ll. 46-50). 51 La questione è analoga a quella di Gioviniano: Siricio aveva trasmesso ad Ambrogio

la condanna di Gioviniano e dei suoi, mentre questi giungevano a Milano e alla Corte;

Ambrogio e il suo sinodo emettono a loro volta una condanna, che motivano e inviano a

Siricio. Tra il 380 e il 395 sono frequenti questi sinodi di vescovi riuniti a Milano intorno

ad Ambrogio. Se conoscessimo meglio l’episcopato di Simpliciano, diremmo che questi

doveva festeggiare l’anniversario del suo episcopato in aprile. 52 ANASTASIO, Ep. Dat mihi plurimum (PLS I, c. 791 A-C). 53 Ibid. (c. 791 C - 792 B).

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152

vescovi della provincia o del capoluogo in cui risiede l’imputato54. Nel nostro caso

né la formazione intellettuale di Simpliciano né il recente passato della sede di

Milano invitavano a seguire, senza ulteriori indagini, una decisione presa a Roma.

D’altra parte, rievocando le persecuzioni ariane55, Anastasio consente di cogliere

ancora meglio l’importanza delle affermazioni rimproverate a Origene sulla non-

«visione» del Padre da parte del Figlio. Traspariva da queste affermazioni una prova

dell’inferiorità del Figlio e dello Spirito e, di conseguenza, Origene appariva come

predecessore di Ario. Si poteva probabilmente asserire ciò senza tenere minimamente

conto dello sviluppo storico; ma di certo non con l’aiuto di questo testo. Ad ogni modo

né Rufino, né Girolamo erano attaccabili su questo punto. Tutto il loro passato di

italiani del nord li metteva in guardia contro ogni minimo sospetto «di arianesimo».

Rufino era prevenuto a causa del modo in cui Girolamo aveva attaccato le «ambiguità»

di Giovanni di Gerusalemme, sia sull’uguaglianza tra Padre e Figlio56, sia sulla

resurrezione della carne57. Da qui la precauzione che adotta nella Prefazione alla sua

traduzione dell’Apologia di Panfilo esponendo il proprio Credo, insistendo al tempo

stesso sulla Trinità coeterna e sulla resurrezione della carne58. Non soltanto respinge le

affermazioni di Girolamo sull’uso della parola corpo al posto della parola carne59,

bensì dichiara che quella è la sua Professione di fede, nonché quella di Giovanni di

Gerusalemme60. Allo stesso modo la Prefazione ai primi due libri del Peri Archôn è

attenta a proteggere Origene da ogni sospetto, «spiegando», secondo la tesi del De

adulteratione, che Origene non ha potuto fare le affermazioni che si trovano talvolta

nelle sue opere61. Rufino aggiunge: «Ho lanciato questo monito nella Prefazione,

affinché i calunniatori non pensino di aver nuovamente (iterum) trovato materia d’accusa»62.

54 Rufino non risiedeva a Milano, dov’è tuttavia andato, convocato probabilmente da

Simpliciano. Con ogni probabilità ha potuto contare sull’appoggio di Cromazio, per non

parlare dei Laurentius e dei Jobinus, ai quali dedicherà una delle sue opere o traduzioni. 55 Tutta la prima parte della lettera a Venerio, circa metà del testo. 56 GIROLAMO, Contra Iohannem, 9 (PL 23, c. 362 B-D). 57 Ibidem, 27-28 (c. 379 A - 380 C). 58 RUFINO, Prologus in Apologeticum Pamphili (CC 20, p. 233, ll. 24 sgg.). 59 Ibidem (p. 234, ll. 30-38). 60 Ibidem (p. 234, ll.47-49). 61 RUFINO, Prefazione alla traduzione del Peri Archôn, 3 (CC 20, p. 246, ll. 40-61). 62 Ibidem, 4 (p. 246, ll. 62-64).

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153

Spiegherà, nell’Apologia contro Girolamo, che questo nuovamente si ricollegava

all’accusa formulata contro Giovanni l’anno precedente63.

Fatta eccezione per l’ultima, queste affermazioni precedono il processo di Milano.

Gaudenzio di Brescia, che conosceva sia Rufino sia Giovanni di Gerusalemme64,

sarebbe forse intervenuto presso Girolamo, che aveva probabilmente incontrato

anche durante il viaggio in Oriente intorno al 390? Era noto che Cromazio65 fosse

intervenuto presso Girolamo nel 401, nel qual caso gli estratti del Liber ad Papam

Gaudentium − che forse non era altro che una lunga lettera − mostrerebbero che

Girolamo è stato in contatto, a quel tempo, anche con il vescovo di Brescia.

Ma bisogna andare oltre, e altrove: le rubriche del manoscritto di Autun consentono

di scoprire il motivo celato dietro al Liber; queste probabilmente non rappresentano

«l’apologia» − o l’attacco − che Girolamo poteva sostenere in un simile scritto. È

verosimile, infatti, che Girolamo non potesse riconoscere così facilmente

63 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 16 (CC 20, p. 49, ll. 14-21). 64 Sappiamo grazie a Gaudenzio (Tr. 17, 14 – Ed. A. GLÜCK, CSEL 68, p. 144, ll. 102-104) che è andato a Gerusalemme. Questo viaggio si colloca tra il 386-387 (anni in cui Filastro di Brescia è ancora in vita, stando alla testimonianza di Agostino) e il 397, data della morte di Ambrogio, che ha consacrato Gaudenzio al ritorno affrettato dal pellegrinaggio (Tr. 16, 2-3 - pp. 137-138). Poiché la morte di Filastro avviene nel mese di luglio (Tr. 21, 14 - p. 188), si può considerare il 396 come terminus ante quem, anche se è possibile risalire di ancora un anno almeno, perché Gaudenzio predica a Milano un 29 giugno precedente al 397. Sia nel 396, sia nel 395, Rufino è ancora a Gerusalemme. Gaudenzio ha forse viaggiato con Silvia? Sappiamo che Gaudenzio era in rapporti di amicizia con Silvia, cognata del Prefetto del Pretorio d’Oriente, Rufino († alla fine del 395), la quale lascia Gerusalemme per Alessandria nel 399-400, per ritornare poi in Italia, a Brescia. Forse Silvia era arrivata a Gerusalemme nel 395-6, come sua sorella, visto che ha avuto il tempo di fare la conoscenza di Rufino. Questi le prometterà di tradurre le Recognitiones di Clemente, di cui Gaudenzio sarà il dedicatario «iure hereditario» (Clementis Recognitiones, Praef. – CC 20, p. 281, ll. 5-10). Essa è già morta quando Rufino traduce il Commento alla Lettera ai Romani di Origene (Postface, CC 20, p. 277, ll. 41-45: «... quod olim quidem iniunctum est, sed nunc a beato Gaudentio episcopo uehementius perurguetur»), nel 404; ma è ancora in vita al tempo dell’Ep. 31 di Paolino di Nola, solitamente datata 403. Probabilmente è ritornata dall’Oriente tra il 400 e il 403; forse Rufino le ha fatto visita a Brescia. Sull’odissea di Silvia cfr. P. DEVOS, Silvie la Sainte Pèlerine, in A.B. 91 (1973), pp. 105-120 (I. En Orient); 92 (1974), pp. 321-341 (II. En Occident). Silvia è legata a Melania l’Anziana, il che spiega i buoni rapporti con Rufino. Ma Gaudenzio legge Girolamo e non è potuto andare a Betlemme senza vederlo, specie se il viaggio è precedente al 393. Nel suo sermone su Pietro e Paolo, tenuto a Milano nel giugno del 396 al più tardi, utilizza il De uiris di Girolamo, datato 393 (Tr. 20, 5 - p. 182, ll. 87 sgg.). 65 GIROLAMO, Contra Rufinum, 3, 2 (SC 303, p. 218, ll. 23-27).

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154

che Eusebio di Cremona fosse un calumniator, dato che l’uso comune del verbo era,

a quel tempo, alla forma deponente66, né che avesse davvero «falsificato» le schedae

di Rufino. Il terzo libro del Contro Rufino si sforzerà di mostrare che la

presentazione da parte di Rufino dell’incidente di Milano non regge all’analisi67. In

realtà Girolamo non sembra aver compreso meglio di Rufino come si spiegasse

l’interpolazione, così come ho cercato di ricostruirla sopra68. Forse placherà Eusebio,

non sembra averlo condannato, e questi si ritroverà presto uno sporco lavoro da

compiere, forse per zelo religioso, ma anche con molta cecità.

Viene da chiedersi se, per quanto siano mutuati, forse, da un «libro di Girolamo»,

questi frammenti non rappresentino il pensiero di Rufino come quello di Girolamo, se

non di più. Ciò spiegherebbe senza alcuna difficoltà come le affermazioni che

figurano nei due frammenti possano presentare così tante somiglianze con alcune

pagine realmente appartenenti a Rufino. Meyvaert ha rilevato alcune di queste

somiglianze e ritiene di poterle spiegare mediante la conoscenza da parte di Rufino,

nel 400-401, di questo Liber di Girolamo, che risale, a suo avviso, a un periodo

precedente il 393. Rufino avrebbe «provato piacere nel mutuare le parole di Girolamo

per aiutarsi a definire la propria opinione, senza citare direttamente il nome di

Girolamo»69.

Non reputo affatto Rufino incapace di simili sottigliezze. Il suo modo di chiamare in causa

Girolamo nella Prefazione alla traduzione del Peri Archôn è un esempio eclatante. Ne

conosco di meno evidenti che confermerebbero la supposizione di Meyvaert. Tuttavia, in

questo caso, mi pare che Rufino abbia ripetuto troppo spesso il proprio Credo perché si

debba attribuire ogni volta la formulazione a Girolamo, e a un Girolamo che, prima del 393,

66 Si trova, beninteso, usato anche al passivo. L’uso al passivo in Rufin, Apol. c.

Hieronymum, I, 9, 3, segnalato da M. Simonetti, non mi sembra accertato, di fronte a

molteplici casi di uso alla forma deponente, riguardo a Girolamo e a Eusebio di

Cremona: I, 5, 16; I, 13, 13; I, 16, 6; I, 19, 12. Si tratta sempre di false accuse, secondo la

definizione del Digeste (48, 16, 1, 1): «Calumniari est falsa crimina intendere». 67 GIROLAMO, Contra Rufinum, 3, 3-5. 68 Questo punto meriterebbe di essere trattato con maggiore attenzione, ma ci

allontanerebbe troppo dai nostri frammenti. 69 P. MEYVAERT, Art. laud., p. 215.

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se non addirittura prima del 395, non si è mai preoccupato della questione della «visione» del

Padre da parte del Figlio70.

La prima Professione di fede di Rufino figura nella Prefazione alla sua traduzione

dell’Apologia di Panfilo, dopo una citazione di Romani, 10, 10, «Corde creditur ad

iustitiam, ore autem confessio fit ad salutem», collocata sotto l’inizio (l. 6) del primo

frammento trovato da P. Meyvaert71:

... Nos autem, sicut traditum nobis est a sanctis patribus, ita tenemus quod sancta Trinitas coaeterna sit et unius naturae uniusque uirtutis atque substantiae et quod Filius Dei in nouissimo tempore homo factus est et pro peccatis nostris passus est et in ea ipsa carne in qua passus est resurrexit a mortuis, propter quod et resurrectionis spem humano generi tribuit. Carnis uero resurrectionem, non per aliquas praestigias, sicut nonnulli calumniantur, dicimus, sed hanc carnem in qua nunc uiuimus resurrecturam credimus...72.

È qui che Rufino attacca l’accusa (di Girolamo) di distinguere corpo e carne,

affermando che bisogna credere in una «resurrectio carnis integrae atque perfectae»73.

Chiaramente, in questa occasione, Rufino non ha intenzione di soffermarsi sulla

propria fede trinitaria.

La situazione fondamentalmente non è cambiata al tempo dell’Apologia ad

Anastasio; ma il «genere letterario» della Professione di fede dinanzi a un giudice

richiede una trattazione più dettagliata74, specie riguardo agli articoli contestati o

scottanti. Rufino sa di essere attaccato75 sulla resurrezione della carne, sul giudizio e

sulla salvezza del Diavolo, nonché sull’anima. Proprio a questi punti riserva le

70 La sola e unica menzione precedente al 399 si trova nel Contra Iohannem, 9, risalente al 396-397. 71 Segnalo, senza accordargli troppa importanza, che Gaudenzio utilizza questo testo (Tr. 16, 11 - p. 140, ll. 85-87). 72 RUFINO, Prologus in Apologeticum Pamphili Martyris pro Origene (CC 20, p. 233, l. 24 - p. 234, l. 33). 73 Ibidem (p. 234, ll. 34-45). 74 Non credo che Rufino segua un protocollo romano, come sostiene chi ha voluto spiegare le somiglianze tra il De fide di Bachiarius e l’Apologia di Rufino. 75 Audiui, dichiara all’inizio Rufino (§ 1); l’articolo sulla resurrezione (§ 4) rievoca le calunnie, quello sul giudizio del Diavolo (§ 5) allude a chi accusa i propri fratelli; per quanto concerne l’anima spetta a «Audio et de anima quaestiones esse commotas» (§ 6), prima che un ultimo Audio riguardi la traduzione del Peri Archôn. Nessun’allusione a un’eventuale accusa sulla Trinità.

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trattazioni più lunghe, mentre sorvola piuttosto rapidamente sui primi articoli76.

Tuttavia questi sono trattati in maniera analoga a quanto si può trovare nei due

frammenti del manoscritto di Autun, fatta eccezione per la questione della visione.

(2) ... de Trinitate ita credimus quod unius naturae sit, unius deitatis, unius eiusdemque uirtutis atque substantiae, nec inter Patrem et Filium et Spiritum sanctum sit prorsus ulla diuersitas, nisi quod ille Pater est et hic Filius et ille Spiritus Sanctus, trinitas in subsistentibus personis, unitas in natura atque substantia. (3) Filium quoque Dei in nouissimis diebus natum esse confitemur ex Virgine et Spiritu Sancto, carnem naturae humanae atque animam suscepisse in qua et passus est et sepultus et resurrexit a mortuis, in eadem ipsa carne resurgens quae deposita fuerat in sepulchro; cum qua carne simul atque anima post resurrectionem ascendit in caelos unde et uenturus expectatur ad iudicium uiuorum et mortuorum. (4) Sed et carnis nostrae resurrectionem fatemur integre et perfecte futuram, huius ipsius carnis in qua nunc uiuimus. Non, ut quidam calumniantur, alteram pro hac resurrecturam dicimus, sed hanc ipsam77...

Il seguito verte sulla natura della carne resuscitata, prima di passare al giudizio e, in

particolare, alla condanna del Diavolo. Di nuovo Rufino, che ignora ciò che si sta

preparando a Milano, non intende mantenersi sul piano trinitario.

Invece l’Apologia contro Girolamo, ora che è sopraggiunta la controversia di

Milano, si sofferma relativamente di più sulla Trinità − e in particolare sulla visione

del Padre da parte del Figlio − che non sulla resurrezione e sul giudizio del Diavolo.

P. Meyvaert ha trovato la prima menzione già nel capitolo 4, ben prima che venga

narrato l’incidente di Milano78. Rufino fa appello ai propri catechisti, Cromazio,

Giovino ed Eusebio, dichiarando:

Illi ergo sic mihi tradiderunt et sic teneo Quod Pater et Filius et Spiritus Sanctus unius deitatis sit uniusque substantiae, coaeterna, inseparabilis, incorporea, inuisi-bilis, inconprehensibilis Trinitas et sibi soli, ut est, ad perfectum

76 Nell’edizione di M. Simonetti i paragrafi hanno, rispettivamente, la seguente

lunghezza: 6 righe sulla Trinità, 7 righe sull’Economia, 12 righe sulla resurrezione della

carne, 10 righe sul giudizio, 18 righe sull’anima. 77 RUFINO, Apologia ad Anastasium, 2-4 (CC 20, p. 25, l. 5 - p. 26, l. 4). 78 P. MEYVAERT, Art. laud., p. 215.

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nota, quia «Filium nemo nouit nisi Pater, neque Patrem quis nouit nisi Filius» (Mat. 11, 27) et «Spiritus Sanctus est qui scrutatur etiam alta Dei» (1 Cor. 2, 10). Et ideo caret quidem omni uisibilitate corporea, sed intellectuali illi deitatis oculo sic uidet Patrem Filius et Spiritus Sanctus sicut Pater uidet Filium et Spiritum Sanctum. Nec est prorsus ulla in Trinitate diuersitas nisi quod ille Pater est et hic Filius et ille Spiritus Sanctus, trinitas in personarum distinctione, unitas in ueritate substantiae. Et quod unigenitus Filius Dei, per quem a principio omnia quae sunt facta sunt, siue uisibilia, siue inuisibilia, in nouissimis diebus, carne et anima humana suscepta, homo factus et passus est pro salute nostra, et tertia die suscitata illa ipsa carne quae posita fuerat in sepulchro resurrexit a mortuis et cum ipsa eadem glorificata ascendit ad caelos unde et expectatur uenturus ad iudicium uiuorum et mortuorum. Sed et simili modo nobis quoque spem resurrectionis dedit, ut eodem ordine, eadem consequentia, pari eademque forma qua ipse Dominus resurrexit a mortuis, nos quoque resurrecturos esse credamus, non nubes et auras tenues ut calumniantur, sed haec ipsa in quibus nunc uel uiuimus uel morimur nostra corpora recepturi. Nam, quomodo uerum erit quod resurrectionem credimus, nisi in ea uerae et integrae carnis natura seruetur? Absque ullis ergo praestigiis, uerae et integrae carnis huius nostrae in qua nunc sumus resurrectionem fatemur...79.

Anche qui Rufino tratta in seguito ciò che riguarda la resurrezione della carne, al

punto di trovare lunga la sua confutazione di Girolamo80. Ma si sarà notata la prima

menzione della «visione» del Padre da parte del Figlio, sebbene Rufino − ed è lecito

dubitarne − attribuisca questo «Credo» alla catechesi di Aquileia una trentina di anni

prima. È questa la principale novità di tale Professione di fede, i cui termini sono

molto spesso identici a quelli dei due testi precedenti.

In compenso la questione della «visibilità» del Padre viene affrontata a

proposito del Peri Archôn. Rufino inizia con lo spiegare che Origene attaccava

principalmente i Valentiniani e gli Antropomorfiti81 − proprio come nei nostri

frammenti − e si preoccupava di difendere l’incorporeità divina. Rufino cita la

pag ina d i Or igene secondo l a p ropr ia t r aduz ione 82 e l a commenta 83,

79 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 4 (CC 20, p. 39, ll. 12-40). 80 Ibidem, I, 5-9 (pp. 40-43 e l’osservazione a p. 43, ll. 1-3). 81 Ibidem, I, 17 (p. 50, ll. 6-15); 18 (p. 52, ll. 11 sgg. e 23-25). 82 Ibidem, I, 17 (p. 50, ll. 17-54). 83 Ibidem, I, 18 (pp. 50-51).

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prima di far riferimento alla falsificazione che era stata fatta e che venne fuori

durante l’udienza di Milano84. Dopo aver rimandato Aproniano e Macario al testo

autentico, Rufino termina con alcuni anatemi, che si avvicinano molto a quelli dei

nostri frammenti:

Si qui negat quod non ita uidet Filius Patrem sicut Pater Filium et non ita uidet Spiritus Sanctus Filium et Patrem sicut uidet Pater Filium et Spiritum Sanctum, anathema sit. Videt enim et uerissime uidet, sed ut Deus Deum et Lux Lucem et non ut caro carnem sed ut spiritus spiritum, non corporeis sensibus sed uirtutibus deitatis. Si qui haec negat, sit anathema in aeternum...85.

Ritroviamo qui non soltanto l’uso generale del verbo vedere, ma anche la

precisazione che si tratta di una visione spirituale, incorporea, «ut Deus Deum et Lux

Lucem». Rufino preferisce usare il verbo vedere piuttosto che conoscere, per evitare

qualsiasi sospetto.

Tuttavia non è l’ultima volta che Rufino si occuperà di tale questione. La sua

Expositio Symboli contiene, riguardo all’articolo sulla «santa Chiesa», un elenco di

false chiese, con la menzione dei loro errori. Alle eresie note Rufino aggiunge una

serie di errori che Girolamo avrebbe definito «origeniani», da cui egli prende le

distanze, chiedendosi se queste chiese siano rette da qualcuno:

... Has ergo omnes (falsas ecclesias), uelut congregationes malignantium (Ps. 1, 2) fuge. Sed et eos, si qui illi sunt, qui dicuntur adserere quod Filius Dei non ita uideat uel nouerit Patrem sicut ipse noscitur et uidetur a Patre, uel regnum Christi esse finiendum, aut carnis resurrectionem non integra naturae suae substantia reparandam, futurum Dei iustum erga omnes negare iudicium, diabolum debita absoluere damnatione poenarum, ab his, inquam, omnis fidelis declinet auditus. Sanctam uero ecclesiam tene, quae Deum Patrem omnipotentem et unigenitum Filium eius Iesum Christum Dominum nostrum et Sanctum Spiritum concordi et consona substantiae ratione profitetur,

84 Ibidem, I, 19 (p. 53, ll. 1-10). 85 Ibidem (p. 54, ll. 52-59).

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Filiumque Dei natum ex Virgine et passum pro salute humana ac resurrexisse a mortuis in eadem carne qua natus est credit, eundemque uenturum iudicem omnium sperat, in qua et remissio peccatorum et carnis resurrectio praedicatur86.

Subito al principio figura l’errore sulla «visione» − o sulla «conoscenza» − del

Padre e non si tarda a ritrovare quello sulla resurrezione della carne, sotto il

medesimo aspetto che era controverso da una decina d’anni. La parte positiva

dell’esposizione è più vicina all’ordinario svolgimento di un Credo. Se nel testo di

cui sopra la resurrezione della carne viene appena citata, è perché Rufino si appresta

a parlarne ex professo nelle pagine successive87. In realtà questo semplice cenno è

soltanto di transizione.

Si troverà nelle pagine seguenti un appello al Credo di Aquileia, che precisava:

«huius carnis resurrectio»88. È la formula che si ritrova nei nostri due frammenti,

come pure nell’Apologia ad Anastasio, 4, e nell’Apologia contro Girolamo, I, 5. P.

Meyvaert attribuisce la precisazione contenuta nei frammenti al fatto che Girolamo

ha risieduto ad Aquileia, e sostiene che Rufino rievoca indirettamente a Girolamo un

simbolo che deve conoscere89. Certamente. Ma non sarebbe più semplice pensare che

sia Rufino il vero autore di tali frammenti, sebbene questi appartengano, forse, a

un’opera di Girolamo?

Mi sembra che un’analisi dettagliata del vocabolario inviti a pensarlo, nonostante le

trascurabili somiglianze che comporta, almeno da un lato, l’esposizione dogmatica90.

Tuttavia credo sia più illuminante ricorrere a elementi apparentemente più marginali,

tanto più che potrebbero costituire temibili obiezioni all’attribuzione dei frammenti a

Rufino.

86 RUFINO, Expositio Symboli, 37 (CC 20, p. 173, l. 54 - p. 174, l. 68). 87 Ibidem, 39-45. 88 Ibidem, 41 (p. 177, ll. 17-25); 43 (p. 179, l. 2). 89 P. MEYVAERT, Art. laud., p. 216. In ogni caso tale argomentazione non vale sul piano trinitario; le precisazioni di Rufino a tal riguardo compaiono solo dopo la questione di Milano. 90 Espressioni quali adsertio fidei, traditio fidei, traditio ecclesiae, regula fidei, traditionis regula, fidei professio, differentia Trinitatis sono lungi dall’essere rare in Rufino. Ritroviamo anche l’anathema in aeternum (Apol. c. Hieronymum, I, 19 - CC 20, p. 54, ll. 58-59).

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Non ritornerò sui Valentiniani e sugli Antropomorfiti del primo frammento. Per

cominciare m’interrogherò sull’inizio del secondo frammento, sulla menzione di un

aemulus e del suo obliuio volontario, che obbliga chi scrive a enunciare «una nuova

volta» la propria Professione di fede. Abbiamo visto Rufino fare appello più volte

alla propria Professione di fede ed esporla anche laddove non richiesta. Quella del

nostro frammento non costituirebbe forse un’ulteriore esposizione? Ora, che cosa

rimprovera Rufino ai nemici di Origene e ai propri detrattori, se non l’inuidia e il

liuor? Questo è quanto dichiara ad Anastasio91; ma le due Prefazioni al Peri Archôn

denunciavano già gli obtrectatores e i peruersi et contentiosi homines92 e, prima

ancora, Rufino aveva ricordato che il Diabolus è padre di coloro che accusano i

propri fratelli93. Lo ripete a Girolamo, in merito all’incidente di Milano e alla falsa

accusa formulata contro di lui94. In compenso, benché Girolamo abbia dovuto

difendersi contro l’aemulatio e si sia visto accusato di una simile colpa95, che io

sappia non ha mai accusato Rufino di aemulatio, mentre ha negato di provare

gelosia per lo scarso talento del suo vecchio amico.

Vi sarebbe una seconda obiezione alla «candidatura» di Rufino, la fine del secondo

frammento: Rufino avrebbe potuto parlare in quel modo di Origene? In realtà, se va

riconosciuta in questo passo, secondo P. Meyvaert, un’allusione a Gal. 1, 8, bisogna

prima vedere la progressione dell’anatematismo che da Origene arriva all’angelo

passando per l’Apostolo. È certamente possibile che Rufino stia pensando alle

rigidissime affermazioni del Contro Giovanni96, ma è parimenti opportuno tenere

conto delle altre affermazioni di Rufino. Ora, che si tratti dell’Apologia ad Anastasio

o dell’Apologia contro Girolamo, Rufino ha sempre voluto separare il proprio caso

da quello di Origene, riservando quest’ultimo al giudizio di Dio.

91 RUFINO, Apol. ad Anastasium, 8 (p. 28, ll. 5-8). 92 De Principiis, Praef. in Librum I, § 4 (CC 20, p. 246, ll. 62 sgg.) – Cfr. Apol. c.

Hieronymum, II, 35 (p. 110, ll. 1-3). 93 RUFINO, De adulteratione, 16 (CC 20, p. 17, ll. 14-18). 94 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 16 (CC 20, pp. 48-49, ll. 5-12, con un Et iterum ac

saepius audiant che si avvicina al nostro iterum ac saepius repeto, riga 25-26); I, 19 (p.

54, l. 41). 95 Cfr. il mio Pélage est-il le censeur, pp. 540-555. 96 GIROLAMO, Contra Iohannem, 8 (PL 23 [1845], c. 361 C-D).

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161

Scrive al Papa di Roma: «Origenis ego neque defensor sum neque adsertor neque

primus interpres»97. In merito alla traduzione del Peri Archôn dichiara: «Ego nunc

nihil pro Origene ago nec Apologeticum pro ipso scribo. Siue enim stat apud Deum

siue lapsus est, ipse uiderit: suo Domino stat aut cadit (Rom. 14, 4)»98. Fa notare

poco più avanti che ha avuto cura di esporre innanzitutto la propria fede, prima di

tradurre le opere di Panfilo e di Origene99. Tali precauzioni possono apparire sospette

e faranno arrabbiare Girolamo, non sempre a torto; tuttavia, come ricorderà Rufino,

non è lui bensì Girolamo ad aver osannato Origene e ad averlo definito apostolo,

profeta e simili100. Abbiamo visto che Rufino condannava nell’Expositio Symboli non

soltanto qualsiasi inferiorità nella Trinità o qualsiasi falsa resurrezione della carne,

ma anche le tesi più comunemente attribuite a Origene: la fine del regno di Cristo e il

perdono concesso al diavolo101. Non stupiamoci dunque se questo frammento

preferisce attenersi alla «regola di fede» emanata dalla «tradizione della Chiesa»,

piuttosto che credere a qualsiasi altra predicazione, che sia quella di Origene, di un

Apostolo o addirittura di un Angelo. Rufino sarebbe solo coerente con sé stesso.

***

Non bisogna dimenticare che il manoscritto 3 di Autun è un Evangeliario

− famoso in quanto tale − e che i nostri due frammenti inquadrano, da un

lato, la Lettera di Girolamo a Damaso sulla traduzione dei Vangeli e una

parte della Prefazione del suo In Matthaeum separate dal Prologo

«monarchico» su Matteo e, dall’altro lato, l’insieme dei canoni sui quattro

Vangeli . Regna un certo «disordine» in questi primi quindici fogli 102.

97 RUFINO, Apol. ad Anastasium, 7 (p. 28, ll. 17-18). 98 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, I, 10 (CC 20, p. 43, l. 7 - p. 44, l. 9). 99 Ibid., 12 (p. 45, ll. 1-5). 100 Ibid., 16 (p. 49, ll. 39-43). 101 RUFINO, Expositio Symboli, 37. 102 Dopo il titolo iniziale, che annuncia, formulati in maniera quanto meno maldestra, i

«Canones uel Prologi libri huius euangelii», troviamo una tavola dei pesi e delle misure (Ratio

ponderum omnium), seguita da un conteggio degli anni da Adamo a Cristo (Ratio annorum ab

Adam usque ad Christum). È qui che si collocano il primo frammento (Excerpta de libro sancti

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162

Ciò che ha interessato chi ha adottato i due frammenti è probabilmente il contenuto

dogmatico. Ma ben poco è stato detto circa il contesto nel Liber di origine.

Questi frammenti sollevano più interrogativi di quanti ne risolvano. Vanno

paragonati a quella che è stata a lungo chiamata la «Fides Rufini», all’inizio della

Collectio Palatina, «attribuita» a Rufino di Aquileia o a Rufino il Siriano, quando

invece l’autore della collezione probabilmente confondeva l’uno con l’altro103.

Se si accettano le indicazioni delle rubriche, siamo di fronte a due frammenti di un

«Libro di Girolamo», indirizzato a Gaudenzio di Brescia. L’analisi del contenuto ha

mostrato che l’opera va fatta risalire agli anni 400-405, periodo che segue l’incidente

di Milano, non lontano dagli eventi legati alle questioni trattate nei frammenti, in

particolare alla questione della «visione» del Padre da parte del Figlio.

Forse bisognerebbe tagliar la testa al toro e attribuire questi frammenti, e con ogni

probabilità il «Liber» stesso, a Rufino, il quale poteva così, mediante la dedica a un

vescovo rinomato, mettersi al riparo da un certo numero di attacchi. Ricordiamo che

Gaudenzio sarà uno dei «legati» occidentali inviati a Costantinopoli nel 405 durante

il caso di Giovanni Crisostomo104. L’elogio che tesse di lui Rufino nella Prefazione

alla traduzione delle Recognitiones è probabilmente interessato105, ma i sermoni del

vescovo sono lungi dall’essere trascurabili.

C’è forse da meravigliarsi che un «libro» di Rufino ci sia giunto sotto il

nome di Girolamo? Il nostro manoscritto è della metà dell’VIII secolo;

Hieronimi presbyteri) e la successione indicata nel testo di cui sopra. Il «disordine» proviene

unicamente dal fatto che la Prefazione a Damaso e i Canoni riguardavano tutti e quattro i

vangeli, e non soltanto Matteo? Al contrario l’ordine è regolare per gli altri tre vangeli, con

in testa, ogni volta, il frammento dei «Prologhi monarchici». 103 Questa serie di anatematismi, tra cui la rubrica finale intitolata «De fide de nomine

Rufini», contiene un anatematismo sulla «visione»: «Qui dicunt quolibet modo et quolibet

sensu Filium Patrem non uidere, anathema sint» (§ 6 - Ed. SCHWARTZ, A.C.O., V, 1, p. 5). 104 PALLADIO, Dialogo sulla vita di Giovanni Crisostomo, 4. È importante tener conto di

quest’assenza di Gaudenzio ai fini della datazione dell’opera sia di Rufino, sia di Girolamo.

Difendere Giovanni Crisostomo, infatti, non conveniva affatto al traduttore di Teofilo. 105 RUFINO, Prologus in Clementis Recognitiones (CC 20, p. 281, ll. 1-5). Gennadio, oltre

alle traduzioni di Rufino non pervenuteci, è a conoscenza di «numerose lettere» morali (De

uiris illustr., 17). Una lettera a Gaudenzio potrebbe essere scomparsa, così come le lettere di

Rufino a Girolamo.

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163

a quel tempo la traduzione di Rufino delle Omelie sull’Ottateuco di Origene circola

già sotto il nome di Girolamo106. Ogni testo ha la sua storia. Molti sono andati

distrutti, altri hanno cambiato bandiera. Ma anche sotto falsa bandiera, qualsiasi

nuovo testo apporta informazioni preziose e consente di comprendere meglio il

passato, per quanto questo comporti lidi sconosciuti o mal conosciuti.

Yves-Marie DUVAL.

(Università di Poitiers, 1987)

P.S. − Paul Meyvaert, a cui è stato inoltrato questo studio, ha non soltanto dato il proprio

consenso per l’attribuzione a Rufino, ma ha anche richiesto che venga menzionato questo

pieno consenso alla fine dell’articolo. Tengo a ringraziarlo, a nome mio e di tutti coloro che

s’interessano a Rufino e a Girolamo, per averci fatto scoprire questi due preziosi frammenti.

106 W.A. BAEHRENS, Überlieferung und Textgeschichte des lateinischerhaltenen

Origeneshomilien zum Alten Testament (T.U. 42, 1 [Leipzig, 1916]), pp. 74, 121-122,

130. Forse sotto l’influenza di Cassiodoro; cfr. il mio Cassiodore et Jérôme: de

Bethléem à Vivarium, in Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (Atti della Settimana di

Studi, Cosenza-Squillace, 19-24 settembre 1983 [Cosenza 1986], pp. 344 sgg.

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164

SULPICIO SEVERO

TRA RUFINO DI AQUILEIA E GIROLAMO

NEI DIALOGHI, 1, 1-9

Nel 1960, in un periodo in cui non ci si era ancora del tutto liberati del ritratto di un

Martino semplice copia di Antonio, abbozzato nel 1912 da E.-Ch. Babut, Dom

Gribomont, in occasione del XVI Centenario della fondazione di Ligugé, ha scritto

su Sulpicio Severo uno studio che considero ancora oggi uno dei migliori che

esistano, in particolare per i Dialoghi1. Sicuramente la questione martiniana si è

evoluta notevolmente in questa trentina d’anni2 e più di uno studio corretto è stato

dedicato alle pagine dei Dialoghi che vorrei qui riprendere3; tuttavia mi sembra che, oltre alle

1 J. Gribomont, L’influence du monachisme oriental sur Sulpice Sévère, in Saint Martin et son temps [Studia Anselmiana, 46] Roma 1961, pp. 135-149 e in particolare pp. 141-147 per i Dialoghi. Tutti i rimandi si riferiscono all’edizione di C. Halm, CSEL 1, Vienne 1866, in attesa di una nuova edizione. 2 È forse necessario ricordare i titoli della quindicina di studi di J. Fontaine che ha accompagnato l’edizione commentata della Vita Martini del 1967-1969 (SCh 133, 134, 135) e ha portato a rivedere l’approccio alla questione martiniana? Mi limiterò a rimandare alla bibliografia delle opere di Fl. Ghizzoni e di Cl. Stancliffe, citate nella nota seguente, che forniscono un elenco considerevole. 3 Mi riferisco all’articolo di G.K. Van Andel (Sulpicius Severus and Origenism, in VigChr 34 [1980] 278-287), che porta avanti un’osservazione di J. Fontaine (SCh 135, pp. 981-985). Ma è l’opera di Cl. Stancliffe (St Martin and His Hagiographer, Oxford 1983) ad avermi spinto a riaprire il dossier che avevo redatto prima del 1970. Ho già svelato una parte della mia risposta nella recensione da me scritta nella REL 62 (1984), 569-572. Ho potuto aver accesso solo tardivamente, grazie all’amicizia di J. Fontaine, all’opera di Fl. Ghizzoni (Sulpicio Severo, Roma 1983), che dedica un capitolo ai Dialoghi (pp. 135-175) e, all’interno di questo, numerose pagine alla controversia origeniana (pp. 168-174). Riprendo subito una sua osservazione (p. 173, n. 8 alla fine): «I rappor t i t ra Sulpic io Severo e S . Girolamo, a quanto

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165

nuove idee che sono state più volte riprese, Dom Gribomont abbia delineato varie

soluzioni e posto vari interrogativi che gli avrei chiesto ben volentieri di esplicitare.

Girolamo era già presente in quelle pagine, il che è del tutto naturale, dal momento che

lo stesso Sulpicio menziona diverse volte il suo nome4. Vorrei iniziare col mostrare che

egli è ancora più presente in questi Dialoghi. In compenso il nome di Rufino appare

soltanto una volta nelle pagine del nostro amico5. Credo che questi gli dedicherebbe

molto più spazio oggi, e quando cerco di ridare a Rufino il posto che merita, non faccio

altro che seguire le orme dell’autore del Salterio di Rufino.

In queste brevi pagine mi limiterò all’inizio del racconto di Postumiano circa il viaggio

che avrebbe dovuto condurlo in Egitto e che l’ha costretto a una deviazione di sei mesi

per Betlemme. Tuttavia non mi soffermo né sulla cornice letteraria del racconto e di

questo primo Dialogo, né sulla storicità del viaggio6 e delle tappe in Africa, nella

pare, non sono ancora stati studiati». Egli ignora, beninteso, le pagine contemporanee di Cl. Stancliffe (cap. 21: «Jerome, Vigilantius and the Dialogues», pp. 297-312), che riprendono e portano avanti la tesi di E.Ch. Babut (Saint Martin de Tours, Paris [1912], pp. 48 sgg.; Sur trois lignes inédites de Sulpice Sévère, in Le Moyen Age 19 [1906] 205-213). Sono questi rapporti che vorrei iniziare a trattare. Su Girolamo e Sulpicio cfr. anche Cl. Stancliffe, pp. 66-69. 4 Oltre ai capitoli 6-9 del Dialogo I, il nome di Girolamo viene citato più volte nel capitolo 21, 5. Dom Gribomont scorge «certi sorrisi alle spalle di san Girolamo» (p. 142), mentre in seguito intravede – più giustamente – un’alleanza tra Sulpicio e il «satirista di Betlemme» (p. 143). 5 J. Gribomont, L’influence, p. 144: «Forse il carattere più impegnato dei Dialoghi è legato a una nuova ondata di propaganda orientale, costituita dalle opere di Girolamo e dalle traduzioni di Rufino». In compenso, benché egli rievochi la tesi delle interpolazioni delle opere di Origene (p. 145), non menziona il nome di Rufino. 6 Una parola soltanto sul suo eroe Postumiano. Costui è forse un monaco, un «discepolo di Paolino di Nola» (Gribomont, art. cit., p.141. Cfr. H. Delehaye, Saint Martin et Sulpice Sévère, in AB 38 [1920] 85)? Pierre Fabre (Essai sur la chronologie de l’oeuvre de saint Paulin de Nole, Paris 1948, p. 45, n. 5) ha raccolto un certo numero di argomentazioni a favore della distinzione tra il Postumiano amico di Sulpicio e il Postumiano dell’ep. 27 di Paolino. Tuttavia scarso è stato l’interesse rivolto allo status sociale di questo Postumiano (eccezion fatta per una breve nota di Ghizzoni, che, pur identificando i due Postumiano, sottolinea la ricchezza dell’amico di Sulpicio, op. cit., p. 138 e n. 3). Ora, ci sono due fatti (forse tre) che evidenziano l’elevata posizione sociale del personaggio: egli offre dieci aurei al prete della Cirenaica, presso il quale ha passato una settimana (Dial. 1, 5, 6, p. 157, l. 19); viene ricevuto da Teofilo (Dial. 1, 7, 5, p. 159, ll. 14-16), come accadrà a grandi personaggi del calibro di Piniano e Melania con Cirillo nel 418 (Geronzio, Vita di Melania 34, SCh 90, 190); infine, per poter ritornare più agevolmente da Betlemme ad Alessandria, affida a Girolamo i propri servitori, nonché (forse) la famiglia e i bagagli: Dial. 1, 9, 6 (p. 161, ll. 14-15): «Huic (Hieronymo) traditis adque commissis omnibus meis omnique familia...». Postumiano

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Cirenaica, ad Alessandria e infine a Betlemme, che ammetto senza discussioni.

* * *

La prima tappa, l’Africa, apparentemente senza problemi di nessun ordine –

Postumiano non sottolinea forse come la facilità e la rapidità della navigazione siano

dovute alla volontà di Dio?7 –, racchiude più di un’indicazione importante per la

serie dei Dialoghi e con tutta probabilità per il loro inserimento nella cornice

cronologica e dottrinale8. In seguito riparleremo più volte di Cipriano. L’Africa deve

sapere che il suo martire non è l’unico santo esistente9. Lo sa già in parte, dato che il

viaggiatore ha raccontato che lì era nota la Vita Martini, questo nuovo «ramoscello

d’oro» della vita spirituale10. Va forse paragonata alla Vita Cypriani? La domanda

non è nemmeno suggerita, così come non sono esplicitamente menzionate la Vita

Pauli e la Vita Hilarionis, che Sulpicio tuttavia conosce11. In compenso è menzionato

il sepolcro di Cipriano e quello di santi meno celebri: Postumiano ha passato quindici

giorni «a visitare i loca sanctorum e soprattutto a prostrarsi davanti al sepolcro di

Cipriano – ad sepulchrum Cypriani martyris adorare –»12. Tutte queste annotazioni,

viaggia quindi con tutto un equipaggio, com’è tipico di un certo numero di persone in quegli anni (Silvia d’Aquitania, l’innominata dell’ep. 54 di Girolamo, senza contare Egeria; ricordo che il giovane Idazio ha accompagnato i genitori poco dopo). Si potrebbe pensare anche al Postumiano senator, noto grazie all’ep. 49, 15 di Paolino, che possiede una proprietà nel Bruttium, ma che può essere aquitano come l’amico di Sulpicio, benché, a quanto pare, si trovi a Roma al tempo dell’epistola 49. I Postumiano, insomma, non sono pochi. 7 Dial. 1, 3, 1-2 (p. 154, ll. 22-27): «... quinto die Portum Africae intrauimus, adeo prospera Dei nutu nauigatio fuit. Libuit animo adire Carthaginem, loca uisitare sanctorum et praecipue ad sepulchrum Cypriani martyris adorare. Quinto die ad portum regressi prouectique in altum, Alexandriam petentes, reluctante Austro paene in Syrten inlati sumus». 8 Sorvolo sul luogo di sbarco di Postumiano. Qual è questo Portus Africae? Il porto della Cartagine del IV secolo – non ancora identificato – oppure Utica? In ogni caso vi è una certa distanza tra il Porto e la città di Cartagine, secondo il racconto di Postumiano. 9 Dial. 2 (3), 17, 5 (p. 215, ll. 25-29). 10 Dial. 1, 23, 5 (p. 176, ll. 6-7). Sul ramoscello d’oro cfr. ibid. 1, 23, 2 (p. 175, ll. 26-27): «et aperit librum qui ueste latebat». Cfr. Aen. 6, 406: «... aperit ramum qui ueste latebat». 11 Per quanto riguarda la Vita Pauli le tracce abbondano. 12 Su questi loca sanctorum cfr. Yvette Duval, Loca sanctorum Africae, Paris 1982, che non utilizza questo testo, ma mostra che Postumiano poteva, nei dintorni di Cartagine e a Cartagine stessa, venerare numerose memoriae. Si noti l’espressione adorare ad, che non è comune e che con tutta probabilità fa il paio c o n i l p i ù b r u t a l e a d o r a r e , c h e V i g i l a n z i o m e t t e v a s o t t o a c c u s a e

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sempre discrete ed equilibrate, non sono casuali, a prescindere dalla data in cui abbia

avuto luogo il viaggio, tra il 399 e il 400-401, e da quella in cui i Dialoghi siano stati

composti, tra il 403 e il 406-407. Mi limiterò per il momento a notare che, nel resto

del periplo, Postumiano non dedicherà più neanche un attimo ai «luoghi santi»,

nemmeno in Palestina, e che per descrivere lo spavento dei posseduti dinanzi a

Martino in vita, Gallo si serve degli stessi termini impiegati da Ilario per tratteggiare

la stessa scena davanti ai sepolcri dei martiri13. In realtà tutto è lungi dall’essere

semplice nel racconto di questa tappa africana apparentemente tranquilla.

La seconda tappa, sebbene non prevista, è lungi dall’essere priva di significato

o di lezioni più facilmente percepibili. Benché le reminiscenze classiche,

soprattutto sallustiane14, diano a questa scoperta delle dune della Cirenaica

che Girolamo respinge nel suo Contra Vigilantium, 4-5 (PL 23, 342 B 13 - 343 A 10). La costruzione è biblica e si riferisce al Tempio: «Adorabo ad templum sanctum tuum» (Ps. Rom. et Gall. 5, 8 e 137, 2). Si possono facilmente intuire tutte le analogie che comporta. 13 Confronta Dial. 2 (3), 6, 2-4 (p. 204, ll. 4-20) e Ilario, Contra Constantium 8 (ed. A. Rocher, SCh 334, p. 182). Il confronto è segnalato da Babut (p. 84), ma viene portato avanti in modo alquanto discutibile. L’imitazione della pagina di Ilario da parte di Girolamo risale al 404, nell’Elogio funebre di Paola (ep. 108, 13, CUF 5, p. 174, ll. 12-18), in cui troviamo mescolate, come in Ilario, reminiscenze di Cipriano. Sull’influenza di queste pagine sull’ep. 2, 9 di Sulpicio cfr. J. Fontaine, Commentaire (SCh 135, p. 1218). Va notato che Sulpicio non dice nulla circa il sepolcro di Martino. 14 Com’è noto, questo capitolo contiene l’unica menzione esplicita di Sallustio da parte di colui che è stato definito il «Sallustio cristiano». Le reminiscenze dello storico e del «geografo» abbondano sia nei Dialoghi sia nella Cronaca, com’è stato ampiamente dimostrato, nel secolo scorso, dalle dissertazioni di H. Pratge (Quaestiones Sallustianae ad Sulpicium Seuerum pertinentes, Göttingen 1874) e di Joseph Schell (De Sulpicio Severo Sallustianae, Liviniae, Tacitae elocutionis imitatore, Münster 1892), nonché, in modo più generale, da E. Bolaffi (Sallustio e la sua fortuna nei secoli, Roma 1949, pp. 239 sgg.). Su tali studi cfr. J. Fontaine (L’affaire Priscillien ou l’ère des nouveaux Catilina in Classica et Iberica. A Festschrift in honor of the Rev. Jos. M.-P. Marique, 1975, pp. 355-392), che mostra l’importante influenza dello storico, del moralista e dello stilista, in particolare sulla fine della Cronaca. L’intera opera meriterebbe di essere analizzata in tal senso, anche se Sallustio è lungi dall’essere l’unico modello di Sulpicio. Si potrebbe fare qualche altra aggiunta alle note esistenti (cfr. la nota seguente), ma sarebbe un errore trascurare un’altra indicazione fornita da Sulpicio, di carattere storico-geografico. Egli rievoca la traversata del deserto della Cirenaica da parte di Catone, in fuga da Cesare (1, 3, 6). Il pensiero va al libro IX di Lucano, che contiene il racconto drammatico della vicenda. Come Sulpicio (1, 6, 4), Lucano segnala che le tempeste di sabbia sono pericolose quanto quelle di mare (cfr. 445 sgg.), che in queste regioni cresce solo un’erba rara (cfr. 435-438; cfr. Dial. 1, 6, 5) e che non si conoscono né il bronzo né l’oro (cfr. 424-426; cfr. Dial. 1, 5, 5); ma Sulpicio non parlerà dei serpenti prima di essersi recato nella Tebaide (1, 10, 2-3). Probabilmente Lucano conosce Sallustio (per i venti di sabbia cfr. Jugurtha, 78, 3; 79, 6).

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l’apparenza di una semplice esplorazione curiosa15, Postumiano si informa

immediatamente sulla vita e sui costumi dei cristiani16 in quei luoghi di libertà17. Le

due lezioni che egli ne trae mescolano i precetti della morale sallustiana con quelli

dell’ascesi monastica.

Soltanto la seconda lezione sarà commentata subito, prima di diventare un leitmotiv

nel seguito del racconto di Postumiano. Essa riguarda il cibo. Il parco menù

dell’asceta, che si rivela essere per di più un prete18, fa arrossire – o lascia insoddisfatti

– i robusti appetiti dei Galli. Gallo, loro degno rappresentante, non si accontenta di

quel pane d’orzo – eppure eccezionale in quelle regioni – e di quell’erba che, avendo il

gusto del miele – come il loto19 –, non può saziare il suo appetito20. Le allusioni

successive sono meno tinte di reminiscenze classiche. In compenso esse sono

direttamente riconducibili a Girolamo, giacché la prima non è altro che una citazione

della Lettera a Eustochio21 e una delle seguenti è con tutta probabilità un ricordo della

Vita Pauli22, cui Sulpicio renderà nuovamente omaggio in seguito23.

15 Sbarcato sulla riva delle Sirti, Postumiano dichiara: «Ego studiosius explorandorum locorum gratia longius processi» (1, 3, 3, p. 155, ll. 2-3). Segue la descrizione «fisica» dei luoghi. Successivamente, quando racconta la propria odissea al primo anziano che incontra, dichiara: «egressos in terram, ut sit mos humani ingenii, naturam locorum cultumque habitantium uoluisse cognoscere» (1, 4, 2, p. 156, ll. 5-6). L’osservazione proviene da Sallustio, Jugurtha, 93, 3, secondo cui il soldato ligure continua l’esplorazione per il desiderio di compiere un atto difficile «more ingeni humani». 16 Dial. 1, 4, 2 (p. 156, ll. 7-8). Sul cultus cfr. la nota precedente; sui mores cfr. Dial. 1, 5, 5 (p. 157, ll. 14-18). 17 Dial. 1, 3, 6 (p. 155, ll. 18-20). Forse si tratta di una trasposizione dell’osservazione di Sallustio riguardante gli abitanti di Leptis, che sfuggono con il loro allontanamento al potere regale della Numidia (Jugurtha, 78, 3); ciò la dice lunga sul «darsi alla macchia», l’anachôresis – o la bagaude, come dicono in Gallia – per scampare al fisco imperiale alla fine del IV secolo. Sono i cristiani ad agire in tal modo, in un Impero capeggiato da cristiani. Né Postumiano né Sulpicio faranno la benché minima osservazione. Sul comportamento di Sulpicio nei confronti dell’«Impero cristiano» cfr. il mio studio su Les métamorphoses de l’historiographie aux IVe et Ve siècles: Renaissance, fin ou permanence de l’Empire romain in Actes du VII Congrès de la FIEC, Budapest 1979 (=Acta Antiqua Hungarica, 1983), pp. 147-151. 18 Il che non è privo di significato, né di lezioni; ma ciò sarà rivelato solo in seguito, dopo la scoperta della povera chiesa. 19 Odissea, 9, 94. 20 Dial. 1, 4, 4-7 (p. 156, l. 11 - p. 157, l. 1). Sui banchetti in Gallia e in particolare in Aquitania cfr. la testimonianza contemporanea di Ammiano Marcellino (Res gestae, 15, 12, 4-5 e 16, 8, 8). 21 Dial. 1, 8, 5 (p. 160, ll. 7-8). 22 Dial. 1, 20, 4 (p. 172, ll. 20-23) e Vita Pauli 6 (PL 23, 21 B-C). Già segnalato da Babut (Saint Martin de Tours, p. 49, n. 6, 3°). Altri riferimenti alla gula o alla cucina in Dial. 1, 13, 4; 2, 8, 2. 23 Postumiano dichiara di aver visitato anche il luogo in cui Paolo, il primo eremita, ha soggiornato (Dial. 1, 17, 1, p. 169, ll. 18-19). Un bell’omaggio alla veridicità contestata di Girolamo!

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L’altra lezione del soggiorno in Cirenaica concerne il denaro. Postumiano crede di

sapere che gli uomini si sono stabiliti in quelle regioni inospitali per essere liberi da

qualunque tassa24; egli ha inoltre appreso che queste genti non praticano fra loro

nessun tipo di commercio e pertanto ignorano cosa siano la frode e il furto. Non

hanno né oro né denaro e non desiderano, dichiara questo nuovo Sallustio, «ciò che i

mortali mettono in cima» alle loro preoccupazioni25. Ma ci troviamo in epoca

cristiana. Postumiano ha notato l’umiltà della chiesa del luogo26 e, quando ha voluto

dare dieci aurei al prete, si è visto consegnare un apoftegma sull’oro che «distrugge»

più di quanto «costruisce» la Chiesa27. Anche qui siamo già in compagnia di

Girolamo28.

In verità Postumiano non aveva intenzione di andare a trovare

Girolamo. L o c o n o s c e v a g i à d a u n p r e c e d e n t e v i a g g i o 2 9 . A l

24 Dial. 1, 3, 6 (p. 155, ll. 18-20). 25 Dial. 1, 5, 5 (p. 157, ll. 14-18): «Cum hominum mores quaereremus, illud praeclarum aduertimus nihil eos neque emere neque uendere. Quid sit fraus aut furtum nesciunt. Aurum uero adque argentum, quae prima mortales putant esse, neque habent neque habere cupiunt». Due osservazioni: 1) la parte di frase in corsivo non è altro che una ripresa dal Catilina, 36, 4, sulla ricerca di ricchezze; 2) il «nihil eos neque emere neque uendere» rappresenta la messa in pratica, potremmo dire spontanea, di un precetto di Martino a Marmoutier: «Non emere aut uendere, ut plerisque monachis moris est, quicquam licebat» (V.M. 10, 6). In questo passo l’osservazione di Sulpicio è in linea con la constatazione e con la critica di Girolamo nella Lettera a Eustochio (ep. 22, 34), in un capitolo citato dalle pagine successive dei Dialoghi. 26 Dial. 1, 5, 4 (p. 157, ll. 10-14). 27 Dial. 1, 5, 6 (p. 157, ll. 18-20): «Nam cum ego presbytero illi decem nummos aureos obtulissem, refugit, altiore consilio protestatus ecclesiam auro non instrui sed potius destrui». 28 Girolamo, ep. 52, 10 (CUF 2, p. 185, ll. 12 sgg.): «Multi aedificant parietes et columnas ecclesiae subtrahunt...». Tutta la trattazione che segue è una condanna del denaro e del lusso della Chiesa. L’autore dei Dialoghi conosce bene questa Lettera a Nepoziano sul chiericato. 29 Dial. 1, 8, 2 (p. 159, ll. 24-26): «... mihi iam pridem Hieronymus superiore illa mea peregrinatione conpertus». C’è da perdersi nel calcolare la data di questa visita. Ricordo semplicemente che Desiderio, che potrebbe essere il dedicatario della Vita Martini, giunge a Betlemme nel 398. Ma il iam pridem non si riferisce a un tempo precedente? Nel 395 è Vigilanzio a giungere in Palestina. A favore del 398 citerei quanto segue. Postumiano dichiara di aver constatato il successo editoriale della Vita Martini a Roma (Dial. 1, 23, 4, p. 176, ll. 3-7), dove però non è passato durante il viaggio in questione, visto che sottolinea la rapidità della traversata tra Narbonne e l’Africa. Se il racconto è coerente, ciò ci rimanda non prima del 397, qualora la Vita sia stata diffusa prima della morte di Martino (nov. 397); ci rimanda invece al 398 se la Vita, scritta nel 397, è stata diffusa solo dopo il decesso del vescovo di Tours (cfr. A. Chastagnol, Autour de la mort de saint Martin, in Bulletin de la Soc. nationale des Antiquaires de France 1982, pp. 134-140).

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termine di un soggiorno di sei mesi a Betlemme30, che conferma la vastità delle sue

risorse, Postumiano rivelerà che lo scopo primo del viaggio era l’Egitto31. Ma

quando, dopo una settimana in Cirenaica, la loro nave approda ad Alessandria,

Postumiano e il suo piccolo gruppo arrivano nel pieno della controversia «tra vescovi

e monaci», ovvero tra Teofilo e i suoi monaci32.

Ci troviamo non prima dell’estate del 399, ma più verosimilmente nel 400, perché

si sono svolti i frequentes synodi rievocati da Postumiano33. Questi hanno

convalidato la condanna di Origene e dei suoi scritti, ma hanno anche provocato, con

l’aiuto attivo del potere politico34, l’espulsione e la messa al bando di un certo

numero di monaci.

La questione è piuttosto conosciuta ed è inutile riprenderla in questa sede. Certo,

il racconto di Postumiano non basterebbe a illuminare un lettore che non ne fosse

già al corrente. Tuttavia le due lunghe pagine nelle quali Postumiano, non pago di

esporre le tesi avverse, non si priva di esprimere la propria opinione – e quella

di Sulpicio – sono di enorme interesse per comprendere la posizione di

S u l p i c i o e , p r o b a b i l me n t e , l ’ i mp o r t a n z a d e i D i a l o g h i 3 5 . T a l v o l t a

30 Dial. 1, 9, 4 (p. 161, ll. 3-4). 31 Dial. 1, 9, 5-6 (p. 161, ll. 12-19): «Nisi mihi fuisset fixum animo et promissum Deo ante propositam eremum adire, uel exiguum temporis punctum a tanto uiro discedere noluissem. Huic ergo traditis adque commissis omnibus meis omnique familia, quae me contra uoluntatem animi mei secuta tenebat implicitum (...), regressus ad Alexandriam...». 32 Dial. 1, 6, 1 (p. 157, ll. 22-25). 33 Ibid. (p. 157, l. 26). 34 Dial. 1, 7, 2 (p. 159, ll. 1-4). 35 Riporto per intero il testo riguardante la tappa alessandrina, adottando il testo di Halm, ma modificando la punteggiatura e la presentazione. Dialoghi, 1, 6-7 (p. 157, l. 22 - p. 159, l. 20): 6 (1) «Quod cum ille benigne accepisset, reuocantibus ad mare nautis discessimus, prosperoque cursu septimo die Alexandriam peruenimus, ubi foeda inter episcopos adque monachos certamina gerebantur ex ea occasione uel causa quia, congregati in unum saepius, sacerdotes frequentibus decreuisse synodis uidebantur ne quis Origenis libros legeret aut haberet, qui tractator scripturarum sacrarum peritissimus habebatur. (2) Sed episcopi quaedam in libris illius insanius scripta memorabant, quae adsertores eius defendere non ausi, ab haereticis potius fraudulenter inserta dicebant et ideo non, propter illa quae in reprehensionem merito uocarentur, etiam reliqua esse damnanda, cum legentium fides facile possit habere discrimen ne falsata sequerentur et tamen catholice disputata retinerent. Non esse autem mirum, si in libris neotericis et recens scriptis fraus haeretica fuisset operata, quae in quibusdam locis non timuisset inpetere euangelicam ueritatem. (3) Aduersum haec episcopi obstinatius renitentes pro potestate cogebant recta etiam uniuersa cum prauis et cum ipso auctore damnari, quia satis superque sufficerent libri quos ecclesia recepisset: respuendam esse penitus lectionem, quae plus esset nocitura insipientibus quam profutura sapientibus.

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considerata un excursus36, questa presentazione merita un’analisi più dettagliata

rispetto a quelle tentate dopo le pagine che gli aveva dedicato a giusto titolo Dom

Gribomont37. Cercheremo anche con lui i motivi per i quali Sulpicio ha tenuto a farci

conoscere il suo punto di vista su Origene, nonché sui rapporti tra vescovi e monaci.

(4) Mihi autem ex illis libris quaedam curiosius indaganti admodum multa placuerunt, sed nonnulla deprehendi, in quibus illum praua sensisse non dubium est, quae defensores eius falsata contendunt. (5) Ego miror unum eundemque hominem tam diuersum a se esse potuisse ut, in ea parte qua probatur, neminem post Apostolos habeat aequalem, in ea uero qua iure reprehenditur, nemo deformius doceatur errasse. 7 (1) Nam cum ab episcopis excepta in libris illius multa legerentur, quae contra catholicam fidem scripta constaret, locus ille uel maxime parabat inuidiam, in quo editum legebatur quia Dominus Iesus, sicut pro redemptione hominis in carne uenisset et crucem pro hominis salute perpessus mortem pro hominis aeternitate gustasset, ita esset eodem ordine passionis etiam diabolum redempturus, quia hoc bonitati illius pietatique congrueret ut, qui perditum hominem reformasset, prolapsum quoque angelum liberaret. (2) Cum haec adque alia istius modi ab episcopis proderentur, ex studiis partium orta seditio. Quae cum reprimi sacerdotum auctoritate non posset, scaeuo exemplo ad regendam ecclesiae disciplinam, praefectus adsumitur, cuius terrore dispersi fratres ac per diuersas oras monachi sunt fugati, ita ut propositis edictis in nulla consistere sede sinerentur. (3) Illud me admodum permouebat, quod Hieronymus uir maxime catholicus et sacrae legis peritissimus, Origenem secutus primo tempore putabatur, qui nunc idem praecipue uel omnia illius scripta damnaret. Nec uero ausim de quoquam temere iudicare; praestantissimi tamen uiri et doctissimi ferebantur in hoc certamine dissidere. (4) Sed tamen, siue ille error est, ut ego sentio, siue haeresis, ut putatur, non solum reprimi non potuit multis animaduersionibus sacerdotum, sed nequaquam tam late se potuisset effundere, nisi contentione creuisset. (5) Istius modi ergo turbatione, cum ueni Alexandriam, fluctuabat. Me quidem episcopus illius ciuitatis benigne admodum et melius quam opinabar excepit et secum tenere temptauit. (6) Sed non fuit animus ibi consistere, ubi recens fraternae cladis feruebat inuidia. Nam etsi fortasse uideantur parere episcopis debuisse, non ob hanc tamen causam multitudinem tantam sub Christi confessione uiuentem, praesertim ab episcopis, oportuisset adfligi». 36 Così anche Fl. Ghizzoni, op. cit., p. 165. H. Delehaye, Saint Martin et Sulpice Sévère, in AB 38 (1920) 86, parla di «episodi estranei alla faccenda come il soggiorno a Betlemme e soprattutto come la pagina, alquanto curiosa, sulle controversie origeniane ad Alessandria». Respinge, giustamente, J. Gribomont, art. cit., pp. 145 sgg. Si ricordi però che Delehaye rispondeva a Babut, il quale negava sia la storicità del viaggio di Postumiano (op. cit., p. 49 e n. 2), sia la reale esistenza del personaggio di Gallo. 37 J. Gribomont, art. cit., pp. 145-147. Van Andel (art. cit., n. 3, p. 284 e n. 43) e Cl. Stancliffe (op. cit., pp. 308-309) sono i soli, che io sappia, ad aver segnalato analogie tra Sulpicio e Rufino. Van Andel, in una breve nota, rimanda a Rufino, De adulteratione, 1, 2, 3, 7, 16 e alla Prefazione 1, 2, 3 di Rufino alla sua traduzione del Peri Archôn. Cl. Stancliffe, che rinvia alla propria tesi inedita in cui discute tali somiglianze, non è d’accordo con Van Andel circa la Prefazione di Rufino: secondo l’autrice le somiglianze si limiterebbero ai capitoli 1, 7 e 16 del De adulteratione. Eliminerei anch’io i capitoli 2 e 3, che portano avanti e illustrano la tesi del cap. 1; tuttavia sostituirei il cap. 7 con il cap. 9. Per quanto riguarda la Prefazione di Rufino alla traduzione, essa contiene l’elogio (da parte di Girolamo) di Origene, definito «capo delle

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I dettagli della requisitoria dei vescovi sono poco esplicitati e lascerebbero

qualunque lettore nell’incertezza, se questi fosse informato solo da Sulpicio.

Postumiano tratterà un punto soltanto; egli dichiara di averlo ricavato dagli estratti di

Origene, che i vescovi avevano riunito per giustificare la condanna. Ritorneremo su

questo punto in seguito38. Al di fuori di questa specifica accusa, Postumiano si limita

ad affermazioni generali e sottolinea soprattutto il modo con cui i vescovi avevano

usato il proprio potere per condannare in blocco un’opera nella quale il falso si

mescolava al vero, e anche il suo autore; dicevano che i libri ricevuti dalla Chiesa

non mancavano e che bisognava respingere in blocco quelli di Origene, perché la

loro lettura era più suscettibile di nuocere agli ingenui che di essere utile ai saggi39.

Postumiano non si è lasciato intimorire da quest’atto di autorità. Ha cercato di

condurre da sé la ricerca, senza per questo condividere le tesi dei difensori di

Origene. Questi dichiaravano infatti che i passi errati fossero opera di eretici, che li

avevano inseriti nelle opere di Origene; bisognava lasciare che il lettore operasse la

facile distinzione tra errore e verità, senza privarsi degli ulteriori sviluppi. Essi

sostenevano, per giustificare la tesi sulle interpolazioni eretiche nelle opere di

Origene, che anche i Vangeli avevano subito attacchi simili40.

Questa perorazione della difesa, sebbene la parola adulteratio non sia utilizzata più

di qualunque altro termine propriamente tecnico, rievoca la tesi e l’argomentazione

del De adulteratione Origenis librorum, composto a Roma nel 397-398 da Rufino di

Aquileia, come postfazione alla sua traduzione dell’Apologia di Origene di Panfilo.

È a quest’opera – e non a conversazioni tenute ad Alessandria – che Sulpicio deve le

proprie informazioni. Rufino – ma lui solo, a quanto pare41 – asseriva che erano state operate interpolazioni

Chiese dopo gli Apostoli», nonché due delle affermazioni presenti nel De adulteratione sulle incoerenze e sulle interpolazioni. Non credo pertanto che si possa escludere la lettura del Peri Archôn, quanto meno nella traduzione di Rufino. 38 Dial. 1, 7, 1. 39 Dial. 1, 6, 1 (p. 157, ll. 25-28), 3 (p. 158, ll. 8-12). 40 Dial. 1, 6, 2 (p. 158, ll. 1-7). 41 La tesi figura nel Codex 117 di Fozio, che riassume un’anonima Apologia di Origene. Secondo P. Nautin (Origène, Sa vie et son oeuvre, Paris 1977, pp. 106 sgg.) si tratterebbe dell’Apologia di Panfilo. Ma oltre al fatto che l’Apologia di Panfilo è riassunta nel Codex 118, Fozio dichiara che l’Apologia anonima si basa su Panfilo e su Eusebio. D’altra parte l’elenco dei 15 rimproveri confutati non corrisponde a quello di Panfilo-Rufino, e lascia supporre una data successiva all’inizio del IV secolo. Risalirebbe infatti alla fine del IV secolo o al V secolo. Sulle interpolazioni cfr. p. 89, ll. 12-16 (ed. Henry). La lettera di Origene menzionata potrebbe essere quella citata in parte da Rufino.

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da parte degli eretici nei Vangeli e deduceva che questi eretici avevano avuto a

fortiori meno rispetto per opere più recenti, meno conosciute e meno protette42.

Postumiano si spinge fino a mutuare dal primo capitolo di Rufino lo stupore

professato da quest’ultimo di fronte alle incoerenze di Origene43. Ciononostante egli

esplicita il proprio giudizio, facendo appello a un elogio che Girolamo aveva più

volte proclamato44, prima di abbandonarsi al voltafaccia rievocato in seguito da

Postumiano: «Da parte mia – afferma questi – trovo sorprendente che un solo e unico

uomo abbia potuto essere diverso a tal punto da sé stesso che, nella parte in cui lo si

loda, non ha uguali presso gli Apostoli, mentre nella parte in cui viene a giusto titolo

criticato, non viene indicato nessuno che abbia commesso errori così grossolani».

Rufino, nel difendere Origene, si era ben guardato da qualsiasi ditirambo; rinfaccerà a

Girolamo di aver usato nei confronti di Origene frasi eccessivamente laudative45.

Tuttavia Rufino si era richiamato a queste per coprirsi le spalle, nella Prefazione alla

traduzione del Peri Archôn46, che viene ripresa, sebbene sia controbilanciata da un

giudizio altrettanto negativo, che accentua e sottolinea il disaccordo, senza fornire altra

spiegazione se non quella dell’«errore» – errasse –.

Postumiano non accetta la tesi dell’interpolazione47. Così facendo, si schiera dalla parte

di Girolamo. Secondo lui tale sotterfugio evita ai sostenitori di Origene di dover difendere

tesi manifestamente insostenibili e permette loro di discolpare Origene, che le ha realmente

42 Rufino, De adulteratione, 9 (ed. M. Simonetti, CCL 20, 13): «De haereticorum uero temeritate quia credi istud scelus facile possit, illa res maximum credulitatis praestat exemplum quod abstinere impias manus ne a sacrosanctis quidem Euangelii uocibus... Quid ergo iam erit magnum si Origenis scripta temerarunt hi qui Saluatoris Dei nostri dicta ausi sunt temerare...?». 43 Dial. 1, 7, 5 (p. 158, ll. 15-16); Rufino, De adulteratione, 1 (p. 7, ll. 17-26): «Dubitari non puto quod hoc nullo genere fieri potuit ut uir tam eruditus (...) ipse sibi contraria et repugnantia suis sententiis scriberet». Si entra poi nel dettaglio. L’argomentazione è già stata avanzata da Panfilo nella sua Apologia, 3 (PG 17, 560 C 7-11). 44 Girolamo, Praef. translationis Hom. in Ezechielem Origenis (PL 25, 583=GCS 33, p. 318): «et hominem, iuxta Didymi uidentis sententiam, alterum post apostolos ecclesiarum magistrum»; Liber interpretationis hebraicorum nominum, Praef. (CCL 72, 59-60): «Quem post Apostolos ecclesiarum magistrum nemo nisi inperitus negat». Questa volta Girolamo parla a proprio nome. 45 Cfr. ad esempio Rufino, Apologia c. Hieronymum 1, 22 (CCL 20, 56-57). 46 Rufino, Praefatio in librum I Peri Archôn (CCL 20, 245, ll. 19-21): «quem ille (Hieronymus) alterum post apostolos ecclesiae doctorem scientiae ac sapientiae merito conprobauit». 47 Dial. 1, 6, 2 (pp. 157-158): «quae adsertores eius defendere non ausi, ab haereticis potius fraudulenter inserta dicebant».

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sostenute48. Ma come dirà in maniera esplicita, per lui si tratta di un «errore» di

Origene, non di un consapevole partito preso come pretendono alcuni – «siue ille

error est, ut ego sentio, siue haeresis, ut putatur»49–. Tale distinzione è importante.

L’opinione si basa sulle letture personali che Postumiano assicura di aver fatto. Ne

distingueremo due tipi. Postumiano dichiara, in primo luogo, che ha avuto cura di

esaminare «qualche passo dei libri di Origene» e che ha trovato, affianco a molti

eccellenti sviluppi, alcuni manifestamente errati50. Sfortunatamente il vocabolario di

Sulpicio non consente di conoscere la natura degli «estratti» da lui letti. Se ci

atteniamo alla presentazione generale che è stata fatta di Origene (un «commentatore

delle Scritture»)51, nulla invita a pensare che tali «estratti» provenissero dal Peri

Archôn, accessibile a Sulpicio a partire dal 398, ma che non includeva più, nella

traduzione «censurata» di Rufino, passi qualificabili come praua52. Parimenti, le

traduzioni di Omelie realizzate da Girolamo avevano cancellato o attenuato i passi

più discutibili53. La traduzione del Peri Archôn di Girolamo è forse pervenuta a

Sulpicio per mezzo di Paolino54?

Si potrebbe anche pensare all’Apologia di Panfilo55, il cui primo libro, tradotto

da Rufino nel 397, è una collezione di estratti di Origene che risponde a nove capi

d’accusa56, ponendo l’accento sull’opera predicata57 del prete di Cesarea, ma

48 Dial. 1, 6, 4 (p. 158, ll. 14-15): «nonnulla deprehendi, in quibus illum praua sensisse non dubium est, quae defensores eius falsata contendunt». 49 Dial. 1, 7, 4 (p. 159, ll. 10-11). 50 Dial. 1, 6, 4 (p. 158, ll. 12-15). 51 Dial. 1, 6, 1 (p. 157, ll. 27-28). 52 Girolamo intraprenderà la sua traduzione alla fine del 398 proprio perché la traduzione di Rufino gli sembrava edulcorare gli «errori» di Origene. 53 Cfr. Rufino, Apologia c. Hieronymum 2, 31 (CCL 20, 106, ll. 6-107, l. 34). 54 Girolamo consiglia a Paolino di domandarla a Pammachio, per la questione del libero arbitrio. Ma stando a quanto afferma, nel trattato vi è «più male che bene» (ep. 85, 3). 55 Panfilo, Apologia pro Origene (PG 17, 541-616). Indirizzata ai confessori egiziani condannati alle miniere della Palestina, quest’Apologia contava sei libri, sui dettagli e sull’autenticità dei quali si è discusso molto, non appena Rufino ha tradotto il primo libro. Soprattutto Girolamo ha messo in dubbio l’origine dell’Apologia, che Fozio tuttavia conosceva (Cod. 118). Non occorre entrare nel merito di questa controversia, né delle discussioni attuali. 56 Apologia, 5 (PG 17, 577-579). Ognuna di queste accuse è confutata, facendo ricorso a vari estratti, nei capitoli successivi (c. 579-616). 57 Apologia, Prefazione (PG 17, 547-548).

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citando solo Commenti o opere dotte – principalmente Peri Archôn e Commenti alle

varie epistole di Paolo58 –. Una tale lettura è tanto più verosimile in quanto va di pari

passo con quella del De adulteratione59, di cui abbiamo percepito gli echi innegabili

in queste pagine. La moderna edizione del De adulteratione rischia di far dimenticare

che le pagine di Rufino sono soltanto una postfazione alla traduzione dell’Apologia

di Panfilo, e che le due parti che siamo indotti a distinguere, ora anche per ragioni

materiali, hanno sempre costituito in latino un insieme unico, specie al tempo della

loro pubblicazione, nel 397.

Se dunque, come diventa del tutto naturale, Sulpicio – o Postumiano – ha letto

l’insieme di Rufino e non la sola postfazione del De adulteratione, di fatto ha potuto

trovare, negli estratti riuniti da Panfilo, proprio come nelle Omelie fino ad allora

tradotte da Girolamo, alcune bellissime pagine di Origene, ed è probabile che queste

gli siano piaciute60. Non vi è da stupirsi che egli utilizzi i rimproveri indirizzati da

Panfilo agli avversari di Origene, riguardo alla condanna in blocco delle sue opere,

senza lasciare a ognuno la possibilità di trarre ciò che c’è di buono61. Né va escluso

che la distinzione fra eresia e errore, piuttosto difficile da mantenere, sia in parte

dovuta al modo in cui Panfilo, dopo aver citato un lunghissimo testo di Origene

sull’eresia e sulle sue molteplici forme62, si chiedeva come un uomo simile potesse

essere accusato di eresia, dopo aver enumerato così bene non soltanto tutti gli errori

ereticali, ma anche tutte le verità cattoliche63. Postumiano rifiuta la denominazione eresia;

58 Panfilo giustifica tale scelta (PG 17, 548-549) dicendo che sceglierà le citazioni tra le opere dotte, le più contestate. Cfr. anche c. 557 A-B. 59 Il lettore moderno utilizza, a giusto titolo, l’edizione di M. Simonetti (CCL 20, 7-17), forse senza prestare attenzione al fatto che la Prefazione di Rufino alla traduzione dell’Apologia si trova a pp. 233-234. Quanto all’Apologia, essa non ha conosciuto nuove edizioni dopo quella dei de la Rue, che è stata ripresa da Migne. Le diverse parti si possono quindi trovare nella PG 17, secondo l’ordine «rufiniano»: (1) Prefazione di Rufino (PG 17, 539-542); (2) (Primo libro dell’) Apologia di Panfilo (PG 17, 541-616); (3) Liber de adulteratione librorum Origenis (PG 17, 615-632). 60 Dial. 1, 6, 4 (p. 158, ll. 12-14). 61 Apologia, Praefatio (PG 17, 543 A). 62 Si tratta, secondo Panfilo, di una serie di estratti dal Commento all’Epistola a Tito, 3, 10 (PG 17, 553A-556, ripreso in PG 14, 1303-1306), il che è confermato dalle analogie con l’In Titum, 3, 10-11 di Girolamo (PL 26, 596-598). A. Le Boulluec ha analizzato con cura queste pagine degne di nota nell’opera La notion d’hérésie dans la littérature grecque des IIe-IIIe siècles, t. 2, Paris 1985, pp. 524 sgg. 63 Panfilo, Apologia 1 (PG 17, 557 A-C).

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si limita a dire che Origene si è materialmente sbagliato – senza avere l’intenzione,

così sembra, di professare l’errore64 –.

Tuttavia non è né tra gli errori confutati dall’Apologia di Panfilo65, né fra le tesi

presentate nel Peri Archôn che Postumiano ha potuto trovare l’accusa

particolarmente odiosa di cui si fa propagatore. Se avesse tenuto conto della parte

della lettera di Origene riportata nel De adulteratione di Rufino66, avrebbe taciuto

questa tesi scandalosa. Si impongono due interrogativi: dove ha trovato Sulpicio tale

accusa? Perché l’ha riportata?

Lo stesso Postumiano risponde al primo interrogativo; dice di aver avuto accesso a

un altro dossier, redatto dai vescovi ostili a Origene. Nonostante la sua ricchezza,

egli cita soltanto un estratto, il più scandaloso, riguardante la redenzione del

diavolo67. Qui s’impongono diverse considerazioni. Il riassunto offerto da Sulpicio

dimostra che la tesi incriminata non è semplicemente quella della penitenza del

diavolo o dell’apocatastasi, bensì quella di una nuova economia, che assicura la

salvezza del diavolo, così come la prima aveva procurato la salvezza dell’umanità.

Tale affermazione è in netta contraddizione con la Scrittura, al punto che non si

riesce a capire molto bene come Origene abbia potuto considerarla. Abbiamo infatti

testi di Origene che assicurano il contrario68. Ma ciò non vuol dire che Postumiano e

Sulpicio abbiano inventato quest’accusa. Essa figura nella Lettera sinodale che

64 La natura della distinzione di Postumiano è chiara; ma questa non può soddisfare un eresiologo. Credo si possa trovare un’altra analogia tra l’Apologia di Panfilo e quanto afferma Postumiano riguardo alle misure adottate dai vescovi, anche se queste erano presenti sia in Occidente sia in Oriente. Panfilo rimprovera agli avversari di Origene di proibire in blocco qualsiasi lettura delle sue opere, come se il lettore non fosse capace, come avviene per le opere pagane, di fare una cernita (Praefatio, PG 17, 543 A-B; 546 A-B e D). Postumiano ha ignorato l’interdizione, peraltro reale, dei vescovi. Non si fa scrupoli nemmeno nel riprendere l’elogio di Origene, che lo paragona agli Apostoli (1, 6, 5, p. 158, ll. 17-18), benché questo costituisse un rimprovero che si muoveva, agli inizi del IV secolo, ai sostenitori di Origene (Panfilo, Apologia, Praefatio, PG 17, 543 B-C; 545 B-C). 65 Apologia, cap. 5 (PG 17, 577-579). La confutazione del nono errore, riguardante la metensomatosi, termina con un testo che afferma l’eternità delle pene dell’inferno, anche se saranno previsti vari gradi a seconda del peccato (c. 615-616), sia per i demoni sia per gli uomini. 66 Liber de adulteratione, 7 (CCL 20, 11-12=PG 17, 624-626). Su questa lettera di Origene, sul contesto e sulla ricostruzione cfr. P. Nautin, Lettres et écrivains chrétiens des IIe et IIIe siècles, Paris (1961), pp. 132-133, 245-248; Origène, sa vie et son oeuvre, Paris 1977, pp. 161-167. 67 Dialoghi, 1, 7, 1 (p. 158, ll. 19-27). 68 Origene, Commento a Giovanni, 1, 35, 255-256 (SCh 120, 186, n. 2).

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Teofilo d’Alessandria fece ratificare nel 400 in Palestina e a Cipro, e che l’Occidente

ha potuto leggere con tutto il dossier nella traduzione di Girolamo69. Anche se

Postumiano ha potuto aver accesso agli atti del sinodo egiziano, non penso che

Sulpicio, dal canto suo, avesse altre fonti oltre alle traduzioni di Girolamo, non prima

del 401 per il dossier del 400, ma anche per la Lettera pasquale del 40170.

È in queste denunce di Teofilo che Sulpicio ha trovato la tesi della redenzione del

diavolo, e non nella traduzione del Peri Archôn di Girolamo, giacché la Lettera ad

Avito, che ritornerà sull’argomento parecchi anni dopo, sarà obbligata a convenire

che Origene non ha esplicitamente sostenuto tali affermazioni, bensì queste erano

insite nella logica del discorso71. Postumiano non evoca forse esplicitamente alcuni

«ab episcopis excepta»? Resta da capire perché Sulpicio e Postumiano abbiano scelto

di riportare questa accusa tra i «numerosi» errori che, negli scritti di Origene, si

opponevano alla fede cattolica72.

Si è voluto mettere in rapporto la vigorosa condanna da parte di Sulpicio della

redenzione del diavolo con la compassione di cui Martino avrebbe dato prova,

secondo la Vita, arrivando fino al punto di promettere il perdono al diavolo, qualora

facesse penitenza: Sulpicio «avrebbe riparato», nei Dialoghi, a un’imprudenza della

Vita73. Quest’ingegnosità è certamente degna di Sulpicio. Tuttavia mi domando se

non vi siano ragioni più semplici per questa condanna, maggiormente connesse con

l’ascetismo.

Se infatti può apparire sorprendente, a chi consideri nel loro insieme l’origenismo e

la controversia origeniana, che nei Dialoghi non venga fatta nessuna menzione

69 Girolamo, ep. 92, 4 (CUF 4, p. 154, ll. 22-26): «In alias quoque impietates furibundus exultat uolens eum qui in consummatione saeculorum et in destructione peccati semel passus est, Dominum nostrum Iesum Christum pro daemonibus quoque et spiritalibus nequitiis crucem aliquando passurum...». 70 Girolamo, ep. 96, 10 (CUF 5, p. 17, l. 27): «dicens eum et pro daemonibus ac spiritalibus nequitiis apud superos adfingendum cruci. Nec intellegit in quam profundum impietatis conruat barathrum: si enim Christus pro hominibus passus homo factus est, ut scripturarum testantur eloquia, consequens erit ut dicat Origenes: Et pro daemonibus passurus, daemon futurus est...». I due § 11-12 proseguono nella stessa direzione. 71 Girolamo, ep. 124, 12 (CUF 7, p. 111, ll. 5-11). Allusione più generale e più sottile nel Contra Rufinum 1, 20 (ed. P. Lardet, SCh 303, p. 57, ll. 3-5). Sulla Lettera di Giustiniano a Mena cfr. Koetschau (GCS 22, 344-345); H. Crouzel, Origène, Traité des principes I-II (SCh 263, 148-149, n. 24). 72 Dial. 1, 7, 1 (p. 158, ll. 20-21). 73 Alla base di tutto, pare, il Commentaire di J. Fontaine alla Vita Martini 22, 5 (SCh 135, pp. 981-985 e, per il ricorso a questo passo dei Dialoghi, p. 982, n. 2), ripreso e ampliato da G.K. Van Andel (art. cit., n. 3), che parla di palinodia («recantation») (p. 285); accettato da Cl. Stancliffe (op. cit., p. 309 e n. 1) e Fl. Ghizzoni (op. cit., p. 172 e n. 6).

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alle questioni trinitarie e alla natura del corpo resuscitato74, non stupisce affatto che

alcuni asceti, occidentali e orientali, siano rimasti scandalizzati dall’idea che colui

contro il quale avevano intrapreso una lotta mortale, un giorno si sarebbe salvato. La

medesima ostilità dimorava nei semplici cristiani, cui veniva ricordata la rinuncia

alla quale si erano impegnati con il battesimo. Senza sfociare in un manicheismo

consapevole e ponderato, i monaci vedevano nell’Avversario il Male assoluto e

proteiforme. Immaginare che Cristo potesse assumere una seconda missione e

potesse di nuovo soffrire la Passione per salvare il diavolo rappresentava la

negazione della propria lotta, nonché una formale contraddizione nei confronti della

Scrittura. Basta vedere come Girolamo, nella predica alla comunità di Betlemme,

colse l’occasione per ironizzare sul diavolo e sul suo destino finale75. Il suo uditorio76

era più direttamente interessato a simili questioni, che non a sviluppi più speculativi.

Negli stessi Dialoghi, se Cristo esercita la propria potenza attraverso i vari monaci

d’Egitto77, come negli atti di Martino78, cionondimeno l’Avversario, con le sue

tentazioni e con le sue illusioni, è il suo principale nemico, e quello dei monaci79. Ciò

che Martino si era sentito dire dopo il congedo dall’esercito continua ad avverarsi per

tutti: «Ovunque tu vada e qualsiasi cosa tu faccia, troverai il diavolo di fronte a te»80.

Se questi occupa dunque un posto ingombrante nella vita di tutti i giorni, non

stupisce che Postumiano e Sulpicio siano stati arrestati a causa delle proposte

scandalose attribuite a Origene, senza che venisse concessa a Sulpicio la facoltà di discolparsi

74 Già sottolineato da Van Andel (art. cit., p. 283). Dato lo spazio che occupano tali questioni tra il 395 e il 410, il silenzio di Sulpicio desta curiosità. 75 Cfr. Tr. de Ps. 7, 17 (CCL 78, 26, ll. 21-27, l. 230); 81, 7 (p. 86, ll. 129-135). Ma lo scandalo non è mai stato denunciato con la stessa veemenza del 396 e del 399, da un lato nell’In Ionam, 3, 6-9 (SCh 323, 272-274 e in particolare ll. 171-176), dall’altro nell’ep. 84, 7 (CUF 4, p. 133, ll. 6-9): «Gabriele sarà uguale al diavolo, Paolo a Caifa, le vergini alle prostitute?». 76 Su quest’uditorio formato da simpliciores cfr., ad es., il Tr. de Ps. 91, 11 (CCL 78, p. 139, ll. 197-198). 77 È una delle prime domande che Sulpicio formula a Postumiano. Dial. 1, 2, 2 (p. 153, l. 25 - p. 154, l. 1). Cfr. anche Dial. 1, 14, 6 (p. 167, l. 4); 15, 6 (p. 168, ll. 10-17) ecc. 78 L’affermazione è esplicita nel Dial. 3, 10, 5 (p. 208, ll. 4-7). 79 Mi limito alla conclusione del racconto di Postumiano sull’asceta dalla «falsa giustizia», che viene infine liberato dallo spirito del male («ab immundo spiritu liberatus»): «Haec uos de uirtutibus Domini quae in seruis suis, uel imitanda operatus est uel timenda, scire sufficiat» (Dial. 1, 22, 5, p. 175, ll. 17-18). Sappiamo che il pensiero orgoglioso gli era stato messo in testa dal diavolo (Dial. 1, 22, 2, p. 174, ll. 24-25). 80 Vita Martini, 6, 2 (ed. J. Fontaine, p. 264).

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per una parola di Martino che diventava imprudente nel clima della controversia

origeniana.

Durante questa parentesi alessandrina Postumiano, se si presta attenzione alle sue

velate indicazioni, ha saputo mostrare di non sposare ciecamente né il punto di vista

dei monaci, né quello dei vescovi. Egli ha osato ignorare le prescrizioni dei vescovi,

che vietavano la lettura di Origene; e se non esita a riconoscere di aver trovato

qualche errore palese, non nasconde che molte pagine gli sono piaciute. Rimprovera

ai vescovi di aver esercitato un’autorità brutale81 – e soprattutto di essere ricorsi alla

forza civile82 –, ma a ognuno la propria passione83, senza decidersi a biasimare

apertamente l’insubordinazione dei monaci, che «forse avrebbero dovuto ubbidire ai

vescovi»84. Non sarebbe del tutto sbagliato affermare che, in fondo, Postumiano si

schiera più volentieri dalla parte dei monaci, o quanto meno delle vittime; ma lo fa

non senza resistenza, almeno sul piano intellettuale.

Infatti mentre siamo ancora ad Alessandria, Postumiano dichiara di essere molto

turbato dalla posizione di Girolamo; dopo esser stato preso per sostenitore di

Origene, questi è ora tra i primi a condannare tutti i suoi scritti85. Questa

confessione, mascherata tra complimenti sull’ortodossia e sulla cultura

dell’esegeta86, arricchita di riserve che non vincolano Postumiano, annuncia con

ogni probabilità il lungo racconto del soggiorno a Betlemme. Tuttavia questo non

va letto isolatamente. In realtà Postumiano tiene prudentemente per sé la propria

opinione87, dicendo che i pareri dei più saggi sono discordi e che egli non ha

l’audacia né la temerarietà di dare un giudizio su chicchessia88. In questo nuovo

confronto Postumiano risparmia Rufino e la sua cerchia, senza conferire a Girolamo una

81 Dial. 1, 6, 3 (p. 158, ll. 8-10). 82 Dial. 1, 7, 2 (p. 159, ll. 1-4). Scaeuum exemplum fornisce Postumiano! 83 Dial. 1, 7, 2 (p. 158, l. 28): «ex studiis partium orta seditio»; 1, 7, 4 (p. 159, l. 13): «... nisi contentione creuisset». 84 Dial. 1, 7, 6 (p. 159, ll. 17-18). Il seguito muove un rimprovero – stilisticamente ben studiato e bilanciato – ai vescovi. 85 Dial. 1, 7, 3 (p. 159, ll. 4-7). 86 Girolamo è «sacrae legis peritissimus», così come Origene passava per un «tractator scripturarum sacrarum peritissimus». Ma è anche «uir maxime catholicus». 87 «Putabatur», dice (p. 159, l. 7) e «damnaret», al congiuntivo (l. 8). Tali sfumature corrispondono alle apologie di Girolamo, o nella lettera 84 a Pammachio e a Oceano, o nella risposta a Paolino di Nola del 399. Cfr. il testo dell’ep. 85, 3, in cui Girolamo nega sia di aver composto la palinodia, sia di condannare in blocco Origene. 88 Dial. 1, 7, 3 (p. 159, ll. 8-10).

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posizione oltranzista. Vedremo in seguito uno dei motivi di questo saggio equilibrio.

Dopo aver espresso un parere prudente sul nocciolo della controversia, Postumiano

emette un giudizio più categorico sulla piega violenta che ha preso la discussione.

Confessa di non esser potuto, nonostante le proposte del vescovo, rimanere ad

Alessandria, dove i monaci erano stati duramente maltrattati da parte dei vescovi89.

Tale dichiarazione svela sicuramente uno dei motivi per cui Postumiano si è

soffermato così a lungo sull’episodio. H. Delehaye vi vedeva soltanto un indizio

dell’autenticità del soggiorno di Postumiano ad Alessandria90, negato da E.-Ch.

Babut. J. Gribomont, pur notando che una «relazione così completa non ha potuto

essere immaginata da lontano»91, sottolinea a giusto titolo «la connessione con i

problemi dell’ambiente martiniano»92, in particolare l’analogia tra le rispettive

condanne dell’origenismo e del priscillianesimo. Cedo a lui la parola: «Non si può

fare a meno di pensare che le riflessioni sull’eccesso di severità» – aggiungerei

soprattutto: il ricorso al potere civile – «e sul carattere dubbio dell’eresia condannata

abbiano qualche relazione con la questione di Treviri del 385. Non bisogna dedurre

che Sulpicio abbia visto nel priscillianesimo un nuovo sviluppo della questione

origeniana; tuttavia egli adotta in entrambi i casi lo stesso atteggiamento riservato,

dinanzi alle severità appassionate dell’episcopato. Non intende in nessun modo

difendere le tesi incriminate, ma constata il valore dell’insegnamento ascetico che le

accompagna nell’ambiente monastico, e chiede ai vescovi di non abusare della loro

autorità»93. Non c’è molto da aggiungere a tale giudizio. Tuttavia preciserei che

l’aspetto dottrinale importa meno a Sulpicio della vita morale. I monaci forse

sbagliano a seguire Origene, ma non per questo non conducono una vita

cristiana. Ciò che addolora Postumiano è «che una così grande moltitudine di

monaci che vivevano nella confessione di Cristo» abbia potuto essere maltrattata,

89 Dial. 1, 7, 5-6 (p. 159, ll. 14-20). Va notato che Postumiano non dice nulla riguardo al voltafaccia di Teofilo, come neppure del comportamento tenuto dagli occidentali e in particolare da Anastasio. 90 H. Delehaye, art. cit., p. 86. 91 J. Gribomont, art. laud., p. 146 a metà. Tuttavia c’è da discutere. Come Babut e Delehaye, egli non segnala il materiale utilizzato da Sulpicio. 92 Art. laud., p. 145. Così Cl. Stancliffe, p. 308. Si noterà come il scaeuum exemplum del Dial. 1, 7, 2 (p. 159, l. 1) sia in linea con il pessimum exemplum di Chron. 2, 51, 5 (p. 104, l. 17). Cfr. anche Chron. 2, 47, 5 (p. 101, ll. 1-2). 93 J. Gribomont, art. laud., p. 147.

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«e soprattutto dai vescovi»94. I monaci d’Egitto che Postumiano incontra non sono

teologi95 e non sono nemmeno spirituali come gli abati di Cassiano, bensì valorosi

esempi di virtù. Appare qui l’occidentale, ed è soprattutto lui che Postumiano

riconosce in Girolamo, anche se inizia col celebrarne la cultura96.

***

Non è tuttavia né l’esegeta, né il traduttore, né l’agiografo a interessare Sulpicio,

bensì lo scrittore spirituale e il moralista. Non mi soffermerò sul lungo elogio della

Lettera a Eustochio e sul suo significato in quegli anni e in quelle regioni97. Spero di

poter ritornare sull’argomento altrove, con i dovuti dettagli98. Per iniziare il dibattito

mi limiterò a fare qualche osservazione e a porre almeno una domanda.

Innanzitutto è opportuno notare come Postumiano, stando al suo

r a c c o n t o , s a l t i l a t a p p a d i G e r u s a l e m m e p e r r e c a r s i i n v e c e a

94 Dial. 1, 7, 6 (p. 159, ll. 19-20). 95 Niente, beninteso, su Evagrio, morto nel 399. Ma nel suo periplo Postumiano non rievoca né Nitria, né Scete. Eppure ha sentito parlare di due monaci di Nitria (Dial. 1, 15, 3, p. 167, l. 19) ed è forse passato per Nitria (Dial. 1, 23, 6, p. 176, l. 11). 96 Dial. 1, 8, 2 (p. 159, l. 27 - p. 160, l. 1): «Vir enim, praeter fidei meritum dotemque uirtutum, non solum Latinis adque Graecis sed et Hebraeis litteris ita institutus est ut se illi in omni scientia nemo audeat comparare». 97 Dial. 1, 8, 4-1, 9, 3. 98 Mi limito, a mo’ di anticipazione, alle seguenti indicazioni, che riguardano la menzione da parte di Gallo e di Sulpicio della Lettera a Eustochio, nei capitoli 8 e 9: Halm, nella sua edizione, ha rilevato soltanto la citazione del cap. 14, e Cl. Stancliffe non sbaglia nel riconoscere un’altra citazione nell’«usque ad uomitum solere satiari». Ma bisogna andare oltre, e notare innanzitutto che quest’ultimo attacco concerne, in Girolamo, i remnuoth d’Egitto, la peggior razza di monaci, per Girolamo la più frequente «nella nostra provincia» (ep. 22, 34). Significa forse che questa «provincia» sarebbe la Pannonia, come afferma anche Cl. Stancliffe (op. laud., p. 310, n. 49)? Non credo. Questi monaci sono accusati di darsi non soltanto ai bagordi, ma anche a traffici più o meno leciti. Martino aveva messo un freno a tale genere di pratica: cfr. la n. 25. Gli altri vizi segnalati da Gallo (auaritia, uanitas, superbia e superstitio) meritano un capitolo a parte in Girolamo, cosicché l’utilizzo dell’ep. 22 non si limita a denunciare i monaci voraci e indisciplinati, le agapete e i loro compagni, monaci o chierici. Sarei propenso a sentire nel nihil penitus omisit (Hieronymus) quod non carperet, laceraret, exponeret di Sulpicio un’eco dell’ut, quidquid ad laudem uirginum pertinet, exquisierit, ordinarit, expresserit di Girolamo, riguardante Ambrogio e il suo elogio delle vergini (ep. 22, 22). Ma soprattutto il giudizio di Gallo, anche se non è confermato da Sulpicio, corrisponde a quanto detto da Rufino circa l’accoglienza della Lettera a Eustochio nel 384 (Apol. c. Hieronymum, 2, 5, CCL 20, 86-87) e circa il suo giudizio sulla satira presente nella lettera, che non risparmia nessuno. Girolamo lo aveva riconosciuto nel 394, nella sua Lettera a Nepoziano (ep. 52, 17, CUF 2, p. 191), nota a Sulpicio.

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Betlemme, da Girolamo99. Se si pensa che era un personaggio importante, al punto

che Teofilo voleva trattenerlo presso di lui ad Alessandria100, non stupisce forse che

non venga fatta nessuna menzione di un intervento presso il vescovo di

Gerusalemme? Eppure questi è menzionato, ma semplicemente come colui che dirige

la paroechia di Betlemme101. Il che non è meno sorprendente per chi conosce le

dispute di Girolamo con Giovanni di Gerusalemme tra il 393 e il 397, prima e dopo

l’ordinazione di Paolino da parte di Epifanio. Il monaco e la sua comunità erano stati

scomunicati102 e il vescovo di Gerusalemme aveva richiesto contro i turbolenti una

sentenza d’esilio, che per poco non venne eseguita103. Postumiano, che non visita

Girolamo per la prima volta, probabilmente conosceva tali vicende. Eppure non apre

bocca104. Forse perché nel 400, prima che saltasse fuori un nuovo episodio della

controversia tra lui e Rufino, i rapporti tra Girolamo e il suo vescovo non sono cattivi

come quelli che Postumiano ha scoperto ad Alessandria tra monaci e vescovo105?

99 Dial. 1, 8, 2 (p. 159, ll. 26-27): «Facile obtinuerat ut nullum mihi expetendum rectius arbitrarer...». 100 Dial. 1, 7, 5 (p. 159, ll. 14-16). 101 Dial. 1, 8, 2 (p. 169, ll. 23-24): «Ecclesiam loci illius (=Oppidi Bethleem) Hieronymus presbyter regit; nam paroechia est episcopi qui Hierosolymam tenet». Questa frase di Sulpicio presenta una duplice difficoltà. Come va intesa l’affermazione di Sulpicio? In cosa quest’affermazione corrisponde alla reale situazione di Girolamo? Dom Antin (L’Édition J. Fontaine de Sulpice Sévère, Vita Martini, in Revue Mabillon 58 [1970] 31-32) ha proposto la seguente traduzione: «Il prete Girolamo gestisce la comunità di quel luogo; quanto alla diocesi, essa è di competenza del vescovo di Gerusalemme», criticando la traduzione di J. Fontaine (Commentaire de l’ep. 1, 10, p. 1149): «Il prete Girolamo dirige la chiesa del luogo, essendo una parrocchia che appartiene al vescovo di Gerusalemme». La difficoltà sta non tanto nel termine ecclesia, le cui accezioni variano in Severo, quanto nel termine paroechia, che è un hapax, mentre l’autore utilizza numerose volte dioecesis, sia al singolare sia al plurale. In Oriente paroechia corrisponde alla nostra «diocesi»; ma si trova a quel tempo, in Occidente, un uso di paroechia equivalente a quello di ecclesia (Concilio di Torino, c. 1; CCL 148, 54, ll. 13-14: «assereret (Proculus) easdem ecclesias uel suas parrocias fuisse...»), in un senso che designa le chiese locali, le «parrocchie». Severo non scrive per l’Oriente, né ha il gusto dell’esotico. Tutt’altra questione è sapere quale fosse il ruolo di Girolamo a Betlemme, che cosa abbia visto o capito Postumiano, che cosa abbia voluto esprimere sottolineando che Girolamo era prete ecc. 102 P. Nautin, L’excommunication de saint Jérôme, in Annuaire de la Ve Section de l’EPHE 80-81 (1972) 7-37. 103 Girolamo, ep. 82, 10 (CUF 4, p. 121, ll. 18-21 - p. 122, ll. 5-9). 104 Allo stesso modo Sulpicio può essere al corrente di questi dibattiti grazie a Vigilanzio, che si è ritrovato coinvolto. 105 Un (fragile) indizio è dato dal S. de Quadragesima, in cui Girolamo chiede al proprio uditorio di non criticare i vescovi, e ai vescovi di non a b u s a r e d e l l o r o p o t e r e ( C C L 7 8 , 5 3 4 , l . 4 2 - p . 5 3 5 , l . 4 9 ) .

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Ciò non significa che Girolamo non abbia nemici. Postumiano, che ha passato sei

mesi presso Girolamo e che è stato iniziato alle sue controversie, dichiara: «egli porta

avanti senza tregua la lotta contro i cattivi e questa lotta perpetua ha fatto nascere

l’odio. Gli eretici lo odiano, perché egli non smette di combatterli; i chierici lo

odiano, perché attacca la loro vita e le loro colpe (crimina!); ma sicuramente tutta la

brava gente lo ammira e lo ama. Quanto a coloro che lo reputano un eretico, questi

sragionano. In realtà cattolica è la cultura dell’uomo, retto il suo insegnamento. Egli

è sempre occupatissimo nella lettura, votato anima e corpo ai libri. Non riposa né di

giorno né di notte. È sempre intento a leggere o a scrivere...»106.

Cavallera, che cita il testo e vede in esso l’equivalente del durissimo giudizio di

Palladio sulla bascania di Girolamo, crede che riguardi la cerchia palestinese di

Girolamo, che egli punzecchiava con aspre critiche107. Ora, se Girolamo prestava

sicuramente molta attenzione a ciò che accadeva nei monasteri latini di Gerusalemme

e della Palestina, era ben più preoccupato per tutto ciò che accadeva in Occidente, e

in particolare a Roma. È dunque in queste regioni occidentali che vanno cercati gli

eretici e i chierici che lo attaccano, per i motivi espressi da Postumiano.

Ma chi sono coloro che accusano Girolamo di essere un eretico e in cosa consisterebbe

la sua eresia? Cl. Stancliffe riconosce facilmente Vigilanzio108, il quale nel 395-396 aveva

sparso per l’Italia la voce che Girolamo sposava le idee di Origene109. La pista vale la pena

Un sermone di Natale viene pronunciato dinanzi al vescovo (Ibid., p. 525 Titolo (apparato); p. 529, ll. 182-184), secondo la consuetudine citata da Egeria. Diversi tractatus mostrano che Girolamo è preceduto o seguito da un altro prete (v.g. Tr. de Ps. 96, 1, CCL 78, p. 157, ll. 29-30). Ciò non toglie che dopo il 401-403 la controversia tra Girolamo e Rufino si sia riaccesa, e che essa coinvolga Giovanni. 106 Dial. 1, 9, 4-5 (p. 161, ll. 4-12): «Apud Hieronymum sex mensibus fui. Cui iugis aduersum malos pugna perpetuumque certamen conciuit odia perditorum: oderunt eum haeretici, quia eos impugnare non desinit; oderunt eum clerici, quia uitam eorum insectatur et crimina. Sed plane eum boni omnes admirantur et diligunt. Nam qui eum haereticum esse arbitrantur insani sunt. Vere dixerim: catholica hominis scientia, sana doctrina; totus semper in lectione, totus in libris est. Non die neque nocte requiescit. Aut legit aliquid semper aut scribit...». 107 F. Cavallera, Saint Jérôme, sa vie, son oeuvre, Paris 1922, I, 1, p. 196, n. 2. Sul giudizio di Palladio cfr. Hist. Lausiaca 36, 6. Così P. Lardet nella sua Introduction al Contre Rufin (SCh 303, pp. 66*-67*). 108 Cl. Stancliffe, op. laud., p. 309. 109 Da qui la reazione di Girolamo nella sua ep. 61, del 396. Cl. Stancliffe (p. 303, n. 27) mette in dubbio il ritorno di Vigilanzio attraverso l’Egitto. È vero che il «Dimisisti Aegyptum» dell’ep. 61, 1 (CUF 3, p. 111, l. 6) non va per forza inteso come una partenza fisica (cfr. Contra Rufinum 1, 2 - ed. Lardet, p. 10, ll. 10-12: «prae te rmis s i s ») . Ma i l Contr a Ru f inum 3 , 19 (p . 264) n o n c o n t e s t a

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di essere seguita110. Ma si può pensare anche alla cerchia di Rufino. Girolamo dirà di

loro che lo amano «così tanto che non potrebbero essere eretici senza di lui»111. La

lettera che Girolamo scrive a Pammachio e a Oceano al momento della traduzione

del Peri Archôn nel 399 spiegherebbe i dinieghi di Postumiano, così come la

testimonianza apportata sull’accanimento di Girolamo nello studio112. A Paolino di

Nola Girolamo fa notare, poco dopo, che egli non condanna «in blocco tutto (cuncta)

ciò che Origene ha scritto, come gli rimproverano gli zelatori importuni di Origene,

bensì soltanto le tesi errate»113. Questo nel momento in cui rimanda Paolino alla

lettura dell’Archôn a proposito del libero arbitrio e della resistenza del Faraone114 –

pur affermando che nel trattato vi è «più male che bene»115 –. Pertanto avere gli

occhi rivolti solamente verso Vigilanzio e quindi verso la Gallia significa

probabilmente restringere troppo il campo d’indagine, anche se è vero che nel 402

Girolamo avrebbe detto – ma a fatto compiuto – che rispondendo a Vigilanzio nel

396, rispondeva anche a Rufino e ai suoi amici116.

Chiunque siano le persone prese di mira, il giudizio è duro: coloro che accusano

Girolamo di eresia sragionano. Insani sunt. Si potrebbe addirittura andare oltre e

collegare a questa dichiarazione quella che definisce l’insegnamento di Girolamo

sana doctrina. Si comprenderà allora perché Severo non possa permettersi di

pronunciare uno o più nomi, se pensa a Rufino come io credo. All’epoca è in

contatto con lui, direttamente o tramite l’intermediario di Paolino di Nola. È noto

che la Cronaca utilizza il racconto dell’invenzione della Croce fa t to da

il passaggio per Alessandria, cui faceva riferimento la lettera di Rufino. Questi era ancora a Gerusalemme al tempo della partenza di Vigilanzio. Girolamo contesta l’accusa lanciata da Rufino contro Vigilanzio, non la veridicità del passaggio per Alessandria. 110 Questa pista è legata alla ripresa della tesi di Babut, sulla quale mi riservo di ritornare. 111 Girolamo, ep. 84, 1 (CUF 4, p. 125, ll. 15-16): «... et tantum me diligunt ut sine me heretici esse non possint». 112 L’epistola 84 è una lunga apologia della sua sete di sapere (nonché della sua attenzione per l’ortodossia). Cfr. ad es. il § 3 (pp. 126-128), in cui si trova la famosa frase: «i papiri di Alessandria hanno svuotato la nostra borsa». 113 Girolamo, ep. 85, 4 (CUF 4, p. 140, ll. 18-23): «... ne me putes (...) cuncta Origenis reprobare quae scripsit (quod in me criminantur ακαιροσπουδασταί eius et quasi Dionysium philosophum arguant subito mutasse sententiam), sed tantum praua dogmata repudiare». 114 Girolamo, ep. 85, 3 (CUF 4, pp. 139-140). 115 Ibidem (p. 140, l. 9): «in quibus mali plus quam boni est». 116 Girolamo, Contra Rufinum 3, 19 (ed. P. Lardet, SCh 303, 264-266).

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Paolino nella sua epistola 31 a Severo, partendo dalla relazione di Melania, sua

parente nonché protettrice di Rufino117. Il racconto accompagna l’invio di un

frammento della vera Croce a Bassula, suocera di Sulpicio, e questo in mancanza, se

così si può dire, delle reliquie che Severo aveva richiesto all’amico per la

consacrazione della sua chiesa di Primuliacum118. Nessuna di queste circostanze è

priva di importanza, specie quella che collega Severo a Rufino.

Ve n’è un’altra che è più diretta, ma che non ha ricevuto, a mio avviso, tutta

l’attenzione che merita119, quando non è stata interpretata in senso contrario120. È

noto che, per la Cronaca, Sulpicio aveva confidato le proprie difficoltà cronologiche

a Paolino. Questi ha inviato il dossier a Rufino, in quanto era la persona più capace

di rispondere a simili domande, e ha abbozzato per Sulpicio un elogio di Rufino121.

Questi non ha potuto non dare una risposta, qualunque essa fosse, alla consulenza,

nel momento stesso in cui Severo componeva, parallelamente o quasi, la Cronaca e i

Dialoghi. Simili relazioni imponevano almeno la discrezione.

***

Come si è visto, queste poche pagine dei Dialoghi, considerate per sé stesse, vanno

prese con la dovuta cautela; esse mostrano Sulpicio preoccupato di conservare in

Aquitania un prudente equilibrio tra le parti che si stanno affrontando con violenza in

altri luoghi. Ma l’analisi di queste pagine diventa ancor più difficile, se si prova a

collocarle nell’insieme dei Dialoghi e nel loro contesto cronologico.

117 Sulpicio, Chronica, II, 33-34 e Paolino, ep. 31, 4 sgg. Cfr. G.K. Van Andel, The Christian Concept of History in the Chronicle of Sulpicius Severus, Amsterdam 1976, pp. 49 sgg. 118 Paolino, ep. 31, 1 (CSEL 29, 267-268). 119 Rimando, per quanto si può ricavare allo scopo di definire lo spirito della Cronaca (che tace riguardo a Teodosio), a ciò che ho scritto nelle Métamorphoses de l’historiographie, pp. 150-151. 120 Rufino ha forse utilizzato la Cronaca di Sulpicio (Van Andel, op. cit., p. 91 e n. 295-296. Cl. Stancliffe, op. cit., p. 69)? Sulpicio ha forse utilizzato l’aggiunta di Rufino alla Storia Ecclesiastica di Eusebio, o dipendono entrambi da un’altra fonte? La questione è degna di esser presa in esame, anche se pone problemi di cronologia. Sullo spirito della Storia di Rufino cfr. le mie Métamorphoses, pp. 151-159. 121 Paolino, ep. 28, 5 (CSEL 29, 245-246).

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Si può sperare che una moderna edizione critica122 venga ad appianare alcune

difficoltà, che rendono oscura la visione dell’architettura generale dell’opera, nonché

la lettura certa di questa o di quella pagina. Tuttavia resterà ancora da determinare la

datazione dei Dialoghi, distinguendo probabilmente la data in cui si ritiene si siano

svolti gli incontri di Primuliacum e quella in cui l’opera è stata composta e

pubblicata, secondo la tradizione ciceroniana che Sulpicio ben conosce.

Concluderò porgendo una domanda a Dom Gribomont, rammaricandomi che non

sia stato più esplicito e che non possa più rispondere. Nell’articolo intorno al quale

ho scritto queste pagine, egli ripete due volte un’osservazione che presuppone un

sincronismo e che spingerebbe a ulteriori ricerche. Collocando i Dialoghi rispetto

alla Vita, dichiara innanzitutto: «Forse il carattere più impegnato dei Dialoghi è

legato a una nuova ondata di propaganda orientale, costituita dalle opere di Girolamo

e dalle traduzioni di Rufino»123. E nella conclusione: «Nei Dialoghi, verso il 404,

(Sulpicio) passa all’attacco, forse in seguito a una nuova ondata di propaganda

venuta da Betlemme o da altrove...»124. Due forse che non sono stati rispettati da

coloro che hanno notato il suggerimento125. Questo aspetto, che io sappia, non è stato

approfondito; avrei volentieri chiesto all’autore che cosa avesse in mente. Ricorderò,

non senza pensare al nostro amico, che nella Prefazione alla traduzione della Regola

di Basilio, Rufino si congratula con Ursacio per non averlo interrogato, al ritorno da

Gerusalemme, sulle regioni e sulle risorse dell’Oriente, bensì sulla vita dei monaci126.

122 Fl. Ghizzoni (op. laud., p. 145, n. 2) rivela l’esistenza di un’edizione provvisoria di G. Augello datata 1969, che non conosco, il che costituisce una buona notizia rispetto all’ultimo studio a me noto di G. Augello: La tradizione manoscritta ed editoriale delle opere martiniane di Sulpicio Severo, in Orpheus, NS. 4 (1983) 413-426, dedicata alla memoria di B.M. Peebles. 123 Art. laud., p. 144. 124 Ibidem, p. 148. 125 Così A. Hamman, nel tomo III dell’edizione italiana della Patrologia di Quasten (Roma 1978, p. 513): «Sulpizio Severo prende posizione contro un’ondata di pubblicità venuta da Betlemme e da altre parti». Cfr. anche Fl. Ghizzoni, op. cit., p. 137, n. 5. 126 Rufino, Praefatio in Regulam sancti Basili (CCL 20, p. 241, ll. 7-11=CSEL 86, ed. Kl. Zelzer, pp. 3-4): «Et inde maxime delectati sumus quod non, ut aliquibus mos est, uel de locis uel de opibus Orientis sollicite percontatus es, sed quaenam ibi obseruatio seruorum Dei haberetur, quae animi uirtus, quae instituta seruarentur in monasteriis quaesiuisti».

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La Miscellanea postuma non nasconde un pizzico di amarezza. Ma non potendo

sentire la risposta del nostro amico, mi rallegro di aver avuto con lui tanti scambi,

nell’amicizia anche con Rufino e con Girolamo, così come con Origene e con

Basilio. Non inane munus, seguendo Ambrogio, piuttosto che Sulpicio, nella ripresa

di Virgilio127.

YVES-MARIE DUVAL

(1988)

127 Per Pomponio, Sulpicio riprende nel Dial. 2 (3), 18, 2 (p. 216, ll. 14-15) l’Orazione funebre di Marcello da parte di Anchise (Aen. 6, 884-885), che Ambrogio aveva cristianizzato nel suo De obitu Valentiniani, 56 (ed. O. Faller, CSEL 73, 356; cfr. Y.M. Duval, Formes profanes et formes bibliques dans les Oraisons funèbres de saint Ambroise, in Christianisme et formes littéraires de l’Antiquité tardive en Occident [Entretiens de la Fondation Hardt, 23], Vandoeuvres-Genève 1977, pp. 271-274).

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Yves-Marie Duval

RUFINO E IL CANONE DELL’ANTICO TESTAMENTO

Fondamenti dottrinali e sfondo pastorale della

controversia con Girolamo sulla Bibbia dei cristiani Rufino di Aquileia, di Concordia, di Gerusalemme, di Alessandria, di Pineto, di

Roma? Tutte queste domande ed esitazioni, che scandiscono la vita di Rufino,

riguardano in buona parte anche la sua opera. Non tanto perché non siamo sempre

in grado di distinguere le opere scritte a Roma, ad Aquileia, a Pineto o in Sicilia,

quanto perché dobbiamo costantemente chiederci se tali opere siano scritte per un

determinato pubblico o se non traducano, in primo luogo, le preoccupazioni

personali di Rufino, nonostante le apparenti «commissioni» che si sforza di

onorare. Rufino porta forse avanti un’opera personale, con gli occhi fissi

sull’Occidente o su Gerusalemme, dove non sembra aver rinunciato a ritornare, o

forse questo pellegrino, talvolta suo malgrado, è rimasto senza fissa dimora, a

forza di cambiare residenza e orizzonti e di essere travolto dagli imprevisti della

vita e da circostanze inattese?

Può sembrare strano porsi simili domande nell’analizzare la posizione di Rufino

nei confronti del Canone delle Scritture, in particolare dell’Antico Testamento. In

realtà tali interrogativi valgono per la maggior parte dei temi affrontati dal nostro

autore. Tuttavia meritano una formulazione particolare se parliamo del Canone

della Scrittura, perché si tratta di un argomento di attualità generale1 alla fine del

IV secolo e agli inizi del V, che al tempo stesso costituisce oggetto di discussione

e di polemica particolare, a causa dello scompiglio creato da Girolamo in

Occidente e anche a Gerusalemme2, dopo che questi si è richiamato all’hebraica ueritas.

1 Mi limito a rimandare all’opera collettiva, a cura di J.D. KAESTLI e O. WERMELINGER, su Le Canon de l’Ancien Testament. Sa formation et son histoire, Genève, 1984; cfr. in particolare gli studi di E. JUNOD e O. WERMELINGER. 2 Le numerose Prefazioni di Girolamo alle sue traduzioni potrebbero far pensare c h e l ’ a g i t a z i o n e e l e c r i t i c h e f o s s e r o l a t i n e ( o i n O c c i d e n t e , o n e l l a

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È possibile distinguere in modo ancor più netto i due ordini, i due insiemi? O

forse questi si sovrappongono, s’intersecano a un punto tale che si può guardare

alle varie dichiarazioni di Rufino come a un insieme unico, che rappresenta un

pensiero unificato, pienamente cosciente e indipendente dalle circostanze del

momento? È facile intuire per quale ipotesi io propenda. Le testimonianze di

Rufino sono state più volte registrate in modo sbrigativo dagli storici del Canone,

senza interrogarsi troppo sul possibile sfondo (e su quello reale)3. Sono state

giustapposte, in un certo qual modo, le sue prese di posizione, senza analizzarne

la coerenza e la coesione. Ma soprattutto non si è prestato il dovuto interesse né

alla cronologia relativa, né all’anteriorità o posteriorità rispetto a questa o a quella

presa di posizione di Girolamo, senza dimenticare Cromazio di Aquileia, di cui

ora sappiamo che conosceva il Canone di Muratori4. Non ritroviamo forse

l’Expositio Symboli datata 380, in un lavoro che verte in modo specifico sulla

storia del Canone5, e non vediamo Girolamo che segue semplicemente l’opinione

di Rufino6? Anche senza raggiungere un tale grado di errore,

l’approssimazione non è priva di conseguenze, a seconda che si faccia

risalire l’Expositio Symboli al 404, come viene spesso affermato7, a l

cerchia latina di Gerusalemme). Il riferimento di Girolamo a Palladio di Elenopoli e alle accuse riguardanti la traduzione dall’ebraico (Dial. aduersus Pelagianos, Prologus, 2 – PL 23 (1845), c. 497 B-C) mostra che anche i Greci si sentivano chiamati in causa. L’amico Sofronio non aveva forse tradotto in greco diverse sue traduzioni (latine) dall’ebraico? In ogni caso Rufino non ha aspettato di ritornare in Occidente (397) per prendere parte alla discussione. 3 Secondo TH. ZAHN (Geschichte des neutestamentlichen Kanons, II, 1, Erlangen-Leipzig, 1890, pp. 240-244) la miglior monografia sul canone di Rufino è stata per lungo tempo quella di M. STENZEL (Der Bibelkanon des Rufinus von Aquileia in Biblica 23, 1942, pp. 43-61). O. WERMELINGER (Le canon des Latins au temps de Jérôme et d’Augustin, in Le Canon de l’Ancien Testament, pp. 153-196 e soprattutto pp. 160-166) fornisce una rapida presentazione. Il mio interesse sarà rivolto non tanto alla storia del Canone, quanto alle implicazioni in Rufino. 4 H. LEMARIÉ, Saint Chromace d’Aquilée témoin du Canon de Muratori, in REAug. 24, 1978, pp. 101-102. 5 H.H. HOWORTH, The Influence of Saint Jerome on the Canon of the Western Church, II, in JTS 11, 1910, pp. 321-347 e in particolare pp. 344-345. 6 A. LOISY, Histoire du Canon de l’Ancien Testament, Paris, 1890, pp. 112-113; p. 117. 7 È la datazione proposta da F.X. MURPHY (Rufinus of Aquileia (345-411). His life and Works, Washington, 1945, p. 179, n. 86 secondo Kattenbusch; p. 185

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4028 oppure intorno al 4009. L’opera è precedente o successiva all’Apologia

contro Girolamo, che contiene un certo numero di pagine ostili alle traduzioni

dall’ebraico del suo vecchio amico? È precedente o successiva alla traduzione

della Storia Ecclesiastica di Eusebio, all’interno della quale Rufino ha potuto

constatare l’interesse del vescovo di Cesarea nei confronti del Canone?

Altre questioni riguarderebbero la natura dell’Expositio Symboli e i legami con

gli altri scritti contemporanei di Rufino, cercando di andare oltre la prudente

risposta dell’autore a Lorenzo, vescovo di una cittadina sconosciuta, nella quale

qualcuno ha voluto riconoscere Concordia10. Non tratterò quest’aspetto, che

tuttavia considero importante. Vorrei soltanto esaminare una per una, nell’ordine

cronologico che ritengo corretto, le pagine in cui Rufino ha affrontato la

questione del Canone e del testo biblico nell’Expositio Symboli e nell’Apologia

contro Girolamo, prima di cercare un corollario o una conferma nella sola opera

di cui possediamo ancora il testo originale, la Storia Ecclesiastica di Eusebio.

In tal modo sarà possibile cogliere la diversità e al tempo stesso l’unità delle sue

affermazioni, e mostrare in che misura dipendono dalle circostanze che le hanno

viste nascere.

secondo Bardenhewer; p. 235 secondo Tableau), ripresa da M. Simonetti nell’edizione del CCL 20, p. X. Così si spiega la diffusione di questa datazione. 8 M. VILLAIN (Rufin d’Aquilée commentateur du Symbole des Apôtres, in Rech.SR 32, 1944, pp. 130-131): «o prima del 402, o piuttosto dopo il 405-406». Murphy (p. 179) scrive anche: «ca. 402». 9 Si pone la questione dei rapporti tra l’Expositio e le altre opere, in particolare l’Apologia contro Girolamo, la cui data (fine 400) non è nota in modo esatto. C.P. HAMMOND-BAMMEL (The Last Ten Years of Rufinus’ Life and the Date of his Move South from Aquileia, in JTS 28, 1977, pp. 388-9 e p. 428) mette a confronto le due opere, seguendo J.N.D. Kelly. Cfr. in tal senso il mio art. Le “Liber Hieronymi ad Gaudentium”: Rufin d’Aquilée, Gaudence de Brescia et Eusèbe de Crémone, in RBén. 97, 1987, p. 170 e pp. 178-182. 10 Va comunque notato che Rufino non ha collocato in testa al proprio libro la lettera di richiesta cui fa riferimento. Al contrario si possono trovare le richieste di Paolino di Nola in testa alle due parti del De benedictionibus Patriarcharum (ed. M. SIMONETTI – utilizzata da qui in poi nel presente studio – CC 20, p. 133, l. 5; pp. 189-190; pp. 203-204). Dal canto suo Girolamo ha collocato in testa alla traduzione del pamphlet di Teofilo contro Giovanni di Costantinopoli la lettera di richiesta del vescovo di Alessandria (GIROLAMO, Ep. 114, 3).

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I – L’EXPOSITIO SYMBOLI: DALLA DIVERSITÀ ALL’UNITÀ DEL CANONE

DEI PATRES

Una delle originalità della presentazione del Canone dell’Antico e del Nuovo

Testamento da parte di Rufino sta nel suo inserimento nella spiegazione

dell’articolo del Simbolo riguardante lo Spirito Santo11. Non intendo soffermarmi

su questo punto. Mi limiterò a notare che, se l’ispirazione delle Scritture rievocata

da Rufino ricollega da un lato «la legge e i profeti» e dall’altro «i Vangeli e gli

Apostoli»12 all’azione dello Spirito Santo nell’Antico e nel Nuovo Testamento, la

lunga trattazione che egli dedica alle Scritture compensa – o maschera – il

silenzio sulla teologia dello Spirito Santo, cui dedica solo qualche riga13, mentre

altrove14 segnala che la sua divinità è negata e pare conoscere le discussioni dei

Macedoniani a Costantinopoli15.

Un’altra originalità, decisamente più importante per il nostro proposito, è data

dall’insistenza con cui Rufino dichiara di fondarsi sull’autorità dei Maiores e dei

Patres, per redigere gli elenchi di libri. In ogni tappa della sua classificazione –

suddivisa in libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, libri «canonici»,

«ecclesiastici» e «apocrifi» – Rufino si riferisce ai Patres e ai Maiores, che hanno

«trasmesso i libri alle Chiese» e hanno «incluso i libri nel Canone»16. Tale

insistenza è significativa. Ma Rufino aggiunge che gli «sembra opportuno

indicare questi volumi, dal numero considerevole (euidente numero), così come li

abbiamo ricevuti dagli scritti dei Padri (sicut ex patrum monumentis

accepimus)»17.

Sono questi monumenta patrum che cercheremo di scoprire, domandandoci, da un lato,

se formano un insieme o una serie omogenea, e dall’altro, se Rufino è davvero fedele al

11 Cirillo di Gerusalemme (Cat. 4, 33) ricollega l’enumerazione del Canone (Cat. 4, 35-36) all’azione dello Spirito Santo nella Chiesa. Anche la traduzione della Settanta viene presentata come opera dello Spirito Santo (Ibid. 4, 34 f.). Come vedremo Rufino, che conosce questa Catechesi, va oltre. 12 Exp. Symb., 34 (CC 20, p. 170, ll. 16-18). 13 Ibid., 33 (p. 169). 14 Ibid., 37 (ll. 39-45). 15 De adulteratione, 12 (p. 15). 16 Exp. Symb., 34 (p. 170, ll. 21-22); 35 (p. 171, ll. 16-19). 17 Ibid., 34 (p. 170, ll. 22-24).

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semplice ruolo di «relatore», che trasmette quanto ha ricevuto – sicut accepimus –,

o se ha lasciato trasparire qualche preoccupazione o qualche presa di posizione

personale.

La prima cosa che colpisce, anche chi non conoscesse il nome o i nomi dei libri

riconosciuti dagli ebrei e il simbolismo a essi collegato, è che Rufino accorda un

posto importante al numero dei libri – euidens numerus –, senza però indicare tale

numero. Finché non eravamo in possesso dell’edizione critica dell’Expositio, ci

potevamo chiedere se la cifra non fosse andata persa, per una questione

paleografica o dottrinale. Oggi dobbiamo constatare che nessun manoscritto

fornisce il minimo indizio in tal senso. Spetta a noi, pertanto, fare il conto dei

libri: per l’Antico Testamento si arriva senza difficoltà al numero 22 per il

conteggio ebraico, ma saliamo a 25 se riuniamo i doppi libri che vengono citati;

quanto al Nuovo Testamento il numero ammonta a 27 libri, cifra che

nell’antichità non ha mai stimolato la fantasia, a differenza del 22 o del 24, che

corrispondono al numero delle lettere dell’alfabeto ebraico e greco, o ancora al

numero dei vegliardi dell’Apocalisse.

Significa forse che Rufino ignora l’importanza del numero 22, o che intende

liberarsene, come sostiene Stenzel? Questi invoca la traduzione delle Omelie sui

Numeri, una delle ultime di Rufino, in cui il nostro autore, riguardo ai 22.000

Leviti, avrebbe omesso il confronto che Origene non poteva non fare, rievocando

la virtù del numero 22, con i 22 libri della Scrittura18. Si tratta di un’accusa

alquanto gratuita, contraddetta dalla traduzione della Storia Ecclesiastica di

Eusebio, in cui Rufino traduce esattamente l’informazione trascritta da Eusebio a

partire dal Commento al Salmo I di Origene. Ma una cosa è rispettare il testo che

si traduce, un’altra è elidere un dato su cui non si vuole insistere, ma

che compariva nei «documenta» che si è intenti a trasmettere o a sintetizzare.

Ricordiamo che Rufino ha trovato il numero 22 (e l’importanza che gli

viene accordata) non soltanto in Origene, ma anche in Cirillo di

Gerusalemme 19, i n I l a r i o d i P o i t i e r s 20 e i n A t a n a s i o d i

18 Art. cit., p. 45. 19 CIRILLO, Cat. 4, 35 (PG 33, c. 497 C-D). 20 ILARIO, Instructio psalmorum, 15 (CSEL 22, p. 13).

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Alessandria21, senza contare Girolamo. Parecchi greci, ma solo due latini. Non

sarà stata la presenza di Girolamo a impedirgli di essere più esplicito? Ad ogni

modo va notato che il Canone non fa nessun riferimento all’esistenza di una

traduzione greca, come se Rufino, passando direttamente dagli ebrei alle chiese

occidentali, volesse evitare di sollevare – per il suo pubblico di catecumeni – una

questione delicata22, su cui torneremo in seguito.

Tuttavia oltre al numero dei libri, bisogna prestare attenzione anche all’ordine

in cui i libri sono enumerati, ai piccoli raggruppamenti operati da Rufino e alla

relativa disposizione dei gruppi così costituiti. Si può dire che l’enumerazione di

Rufino è organizzata in 4 o 5 sequenze, i cui confini sono segnalati da vari nessi

grammaticali: a. 1. Primo omnium Mosi quinque libri (...): Genesis Exodus Leuiticus Numeri Deuteronomium. b. 2. Post hos, Iesu Naue et Iudicum simul cum Ruth. 3. Quattuor post haec Regnorum libri (...) Paralipomenon (...) liber et Esdrae (...) et Esther. c. 4. Prophetarum uero Esaias Ieremias Ezechihel Daniel; praeterea duodecim prophetarum liber unus. d. 5. Iob quoque et Psalmi Dauid singuli sunt libri; Solomonis uero tres ecclesiis traditi: Proverbia, Ecclesiastes, Cantica Canticorum.23 Se è lecito esitare sul numero delle 4 (a-d) o 5 (1-5) sequenze è perché,

fidandosi della pura materialità dei termini grammaticali post hos e post haec, si

potrebbe suddividere in due gruppi (2-3), invece che in uno solo (b), la serie di

libri compresa tra «i libri di Mosè» e quelli dei «profeti». In realtà, più che per

ragioni cronologiche, probabilmente24 questo sottogruppo è stato costituito perché

presentava problemi di altro ordine: alcuni di questi libri sono doppi o quadrupli.

Da qui le precisazioni e il richiamo al conteggio ebraico, come si è visto sopra:

21 ATANASIO, Lettera festale del 367, frammento greco in PG 26, c. 1436 C-D. 22 Al contrario CIRILLO (Cat. 4, 34) rievoca ampiamente la traduzione della Settanta, citando l’accordo dei Traduttori. 23 Exp. Symb., 35 (p. 170, ll. 1-10). 24 Nessuna riflessione su un raggruppamento in pentadi (5+5+5+5+2), come in Epifanio (De ponderibus, 4). Qui l’ordine sembrerebbe più irregolare: 5+2+5+5+5+5.

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Quattuor post haec Regnorum libri, quos hebraei duos numerant, Paralipomenon qui Dierum dicitur liber et Esdrae duo, qui apud illos singuli computantur, Et Esther.

Stando così le cose, abbiamo buone ragioni di ritenere che i gruppi siano

quattro. Resta da determinare il principio di classificazione, rispettivo e relativo.

Il primo gruppo non presenta alcuna difficoltà, poiché Rufino cita, per i cinque

primi libri, il nome di Mosè. Lo stesso vale per il terzo gruppo, che riunisce i

profeti. Che dire degli altri due? L’ultimo gruppo sembra interessarsi al numero

di libri attribuito a ciascun autore: uno a Giobbe, uno a Davide, tre a Salomone;

ma non vi è alcun dubbio che il genere letterario dei Salmi, dei Proverbi e del

Cantico dei Cantici si suppone sia abbastanza conosciuto tra i cristiani da poter

intuire che ci si trova dinanzi a generi poetici. A dire il vero, solo il modello

seguito da Rufino confermerà quest’ipotesi, giacché si potrebbe esitare su Giobbe

e sull’Ecclesiaste.

Rimane il secondo gruppo, che in Rufino non è caratterizzato in alcun modo e

che consisteva, come abbiamo visto, in una lunga enumerazione un po’

traballante. Anche se non si può affermare che l’ordine sia strettamente

cronologico – Ester dovrebbe, in base al regno di Assuero/Artaserse sotto cui si

colloca, figurare prima del Libro di Esdra –, la natura dei libri è di ordine storico.

L’affermazione è ancora una volta confermata dal modello: è Cirillo di

Gerusalemme che, dopo aver enunciato per la Legge «i primi cinque libri di

Mosè» e successivamente «Giosuè e i Giudici insieme con Rut», parla del «resto

dei libri storici», enumerando i due (doppi) libri dei Regni, i libri dei

Paralipomeni e di Esdra e infine il libro di Ester, prima di riprendere «questo è

quanto per le opere storiche»25.

Si può pertanto affermare che Rufino deve la prima parte della

classificazione al vescovo di Gerusalemme, come pure le precisazioni

sul numero di libri rispettivi della Bibbia ebraica e della Settanta per i

Regni, i Paralipomeni ed Esdra. L’unico punto che non figura in

Cirillo r i g u a r d a l a d e n o m i n a z i o n e – s o m m a r i a – d i L i b e r

25 CIRILLO, Cat. 4, 35 (PG 33, c. 500 A 8-9 e 15).

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dierum per i Paralipomeni. Avremo presto l’occasione di scoprirne l’origine: la

«traduzione» più vicina al Dierum liber è quella presente nell’elenco di Origene,

che parla di logoi hèmèrôn26.

Va tuttavia notato come le indicazioni di Rufino siano più vaghe di quelle di

Cirillo: quando il primo rievoca «la Legge e i profeti»27, non si cura, nonostante

l’indicazione espressa di Cirillo, di ripetere che i primi cinque libri di Mosè

costituiscono la Legge. Parimenti non precisa la natura dei libri successivi, ben

inquadrati da Cirillo mediante il riferimento al loro carattere storico. Lo stesso

vale per la terza categoria dell’elenco di Cirillo: «le opere in versi»28. Più grave

ancora, Rufino ha invertito l’ordine della seconda parte dell’elenco: alla

successione libri poetici/libri profetici ha sostituito l’ordine inverso, tanto più

sorprendente da parte di un cristiano in quanto non fornisce nessuna

giustificazione. Ha forse voluto opporre prosa e poesia? Nulla lo suggerisce. In

ogni caso l’ordine cronologico che sembrano seguire i cristiani viene messo da

parte, dato che i profeti precedono non soltanto Giobbe, che allora veniva spesso

considerato precedente alla Legge, ma anche Davide e Salomone. Si tratterebbe

forse di un prestito dall’ebraico? Ciò mi sembrerebbe più rilevante rispetto

all’aver invertito l’ordine dei profeti maggiori e di quelli minori, unica

osservazione da parte di Stenzel in merito alla fedeltà di Rufino nei confronti di

Cirillo29.

Se non dice nulla riguardo al silenzio di Rufino circa «Baruc, i Threni e la

Lettera di Geremia», che Cirillo ricollegava espressamente al libro di

Geremia30, Stenzel nota a giusto titolo che l’inversione dei dodici profeti

(minori) rispetto ai quattro profeti (maggiori) seguirebbe l’ordine della Bibbia

ebraica31. Sarebbe interessante spingersi oltre e chiedersi se Rufino debba

questa conoscenza a Girolamo e al suo Prologus galeatus, oppure a Origene.

Stenzel ha trovato nelle Omelie su Giosuè una pagina in cui l’alessandrino

elenca in successione Isaia, Geremia, Daniele, Ezechiele e poi «Osea, in testa allo

26 ORIGENE, secondo EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 6, 25. 27 Exp. Symb., 34 (p. 170, l. 17). 28 CIRILLO, Cat, 4, 35 (PG 33, c. 500 A 15). 29 STENZEL, art. cit., p. 47. 30 CIRILLO, Cat, 4, 35 (c. 500 B 4-5). 31 STENZEL (seguito).

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squadrone dei dodici profeti»32, e sarebbe pronto a riconoscere un precedente. Ma

dimentica che un altro elenco di Origene potrebbe essere di grandissima utilità, se

solo Eusebio – o i suoi manoscritti – ci avessero trasmesso l’elenco completo: il

famoso elenco del «Canone ebraico» riportato da Eusebio33, a partire dal

Commento al Salmo I, non contiene nessun riferimento ai Dodici, il che è

sicuramente un caso, perché l’elenco non contiene 22 libri, come annunciato, ma

soltanto 21. Rimane da scoprire se Origene, in questo elenco, collocasse i profeti

minori prima o dopo quelli maggiori. È difficile trovare una risposta, tanto più

che sia Rufino, che traduce l’elenco con le semplificazioni che vedremo, sia Ilario

di Poitiers, che a tale elenco s’ispira nell’Instructio Psalmorum34, collocano i

dodici prima degli altri profeti, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da un

elenco che intende essere fedele al Canone ebraico dei 22 libri. Il solo altro posto

che io conosca, all’infuori della Bibbia ebraica e di Girolamo, in cui i profeti

minori seguono i maggiori è il Sinaitico; ma l’ordine e il contenuto sono così

diversi da quelli di Rufino che mi risulta impossibile pensare che egli sia debitore

nei confronti del manoscritto, o meglio della tradizione che rappresenta.

A quanto pare la scelta va effettuata tra il ricorso all’ebraico35 (o a Girolamo) e

un’opinione del tutto personale, che Rufino non si è preso la briga di

giustificare36. In entrambi i casi non si può fare di Rufino il testimone di una

determinata tradizione, qualunque essa sia, e ancor meno di una tradizione

generale omogenea.

Ciò appare più evidente se si passa, al di là del Canone del Nuovo

Testamento, ai libri che Rufino definisce «ecclesiastici», in

contrapposizione ai «libri canonici». Se si potesse ricollegare una parte del

s u o C a n o n e d e l l ’ A n t i c o T e s t a m e n t o a l l ’ e l e n c o e a l l a

32 Ibid., p. 47: In Iosue h. 3, 1. 33 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 6, 25. Stenzel cita tale elenco alla pagina precedente (p. 46), segnalando l’errore del testo di Eusebio. 34 ILARIO, Instructio Psalmorum, 15 (CSEL 22, p. 13, ll. 9 sgg.). 35 Ma è poco probabile che Rufino avesse accesso all’ebraico. 36 Si tratterebbe, ancora una volta, di una questione di numero di libri? Ai quattro profeti (maggiori), che costituiscono altrettanti libri, egli aggiungerebbe (praeterea) i dodici in un solo libro. Tuttavia né Cirillo né Atanasio avevano esitato.

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classificazione di Cirillo di Gerusalemme, dovremmo constatare che

quest’ultimo, nelle Catechesi, non lascia nessuno spazio ai libri che Rufino

inserirà nella categoria «libri ecclesiastici», in quanto «letti in chiesa»37. Non è

sicuro che li faccia rientrare, come talvolta affermato, nel gruppo dei libri

«discussi» o «contestati», «controversi» (amphiballomena)38. Per lui i «soli libri

che leggiamo con fiducia nella Chiesa» sono «i 22 libri dell’Antico

Testamento»39. Nulla indica che Cirillo consideri degni di pubblica lettura la

Sapienza, che peraltro cita diverse volte40, attribuendola una sola volta a

Salomone41, e l’Ecclesiastico, che utilizza qualche volta42 senza citare l’autore, e

ancor meno Giuditta, Tobia e i Maccabei. Anche ammettendo che il Canone

ristretto di Cirillo sia dovuto al pubblico di catecumeni cui si rivolge in questa

Catechesi IV, bisogna convenire che Rufino, il quale redige il suo elenco «ad

instructionem eorum qui prima fidei elementa suscipiunt»43, è molto più esteso.

Qual è l’origine di tale allargamento? Credo si debba volgere lo sguardo verso

Atanasio di Alessandria44 e verso Girolamo. Dopo aver fornito, per l’Antico

Testamento, un elenco di 22 libri, che non contiene Ester, al pari di Rufino, ma

che a differenza di questi conta a parte il libro di Rut, e per il Nuovo Testamento

un elenco analogo nei contenuti a quello di Rufino – tra i vari scritti, 14 lettere di

Paolo, 3 lettere di Giovanni e l’Apocalisse –, ma secondo un ordine ben

distinto, la Lettera festale del 367 aggiunge: «Per maggiori precisazioni mi

vedo cos t r e t to ad agg iunge re , e l o s c r ivo qu i , che e s i s tono a l t r i

37 Exp. Symb., 36 (ll. 1-2 e 10). 38 CIRILLO, Cat. 4, 33 (PG 33, c. 496). 39 Ibid., 4, 35 (PG 33, c. 497 C 7-9). Cirillo cita molti meno libri per il Nuovo Testamento. 40 CIRILLO, Cat. 6, 8; 12, 5 ecc. 41 Cat. 9, 2. 42 Cat. 2, 15; 7, 16; 9, 6 ecc. 43 Exp. Symb., 36 (ll. 14-15). 44 Non stupisce che Rufino, che è vissuto ad Alessandria, conosca la vita, ormai divenuta leggendaria, di Atanasio (Hist. Eccles. 1, 14) e abbia potuto aver accesso alla sua opera. D’altronde va ricordato che anche Atanasio ha risieduto per qualche tempo ad Aquileia, dove ha celebrato la festa di Pasqua del 345. J. RUWET (Le canon alexandrin des Écritures. Saint Athanase, in Biblica 33, 1952, pp. 1-29 e soprattutto pp. 10-11 e n. 1) ha notato questa dipendenza; tuttavia, non conoscendo Girolamo, la sua spiegazione relativa alla distinzione tra due generi di libri non soddisfa.

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libri oltre a quelli sopra elencati, che non appartengono al Canone (ou

kanonizomena), ma di cui i Padri hanno deciso la lettura per chi si avvicina alla

fede e vuole ascoltare l’insegnamento della pietà: la Sapienza di Salomone, la

Sapienza di Sirach, Ester, Giuditta, Tobia, la Didaché degli Apostoli e il Pastore.

Ma oltre ai libri «canonici» di cui sopra e oltre ai libri «letti» precedentemente,

che non si faccia menzione alcuna, carissimi, dei libri apocrifi: si tratta di

invenzioni di eretici, che li hanno scritti a loro modo inventando la data, per

presentarli come antichi e avere l’occasione di ingannare le persone dalla fede

pura»45.

Anche se condanna gli Apocrifi46, Rufino non riprende in nessun modo la

diatriba contro il processo di falsificazione e contro il suo scopo47. Tuttavia va

notato che, se pur non assegna, come fa Atanasio, la lettura di questa seconda

categoria di libri «a chi si avvicina alla fede», vale a dire ai neofiti, Rufino riserva

le proprie precisazioni alla distinzione tra libri «canonici» e libri «ecclesiastici»,

«libri che sono letti in Chiesa», «a istruzione di chi riceve i primi elementi della

fede», come sopra ricordato. Ma soprattutto, ciò che potrebbe essere solo una

vaga somiglianza formale48, che non presuppone necessariamente la

conoscenza dell’elenco di Atanasio da parte di Rufino, diventa più evidente

quando questi aggiunge: «affinché i neofiti sappiano a quali fonti attingere la

pa ro l a d i D io»49. Ruf ino pa re ada t t a r e l a f r a se c o n c u i A t a n a s i o

45 ATANASIO, Lettera festale 39 (in greco: PG 26, c. 1437 D – 1440 A). 46 Exp. Symb., 36 (ll. 12-13). 47 Il che stupisce, in quanto il De adulteratione librorum Origenis, 8-9 rievocava i processi degli eretici contro le Scritture. 48 Vista soprattutto la diversa conclusione cui giunge ognuno: per Atanasio la lettura di questi libri è buona per i neofiti, in ragione del loro facile accesso. L’osservazione è già stata fatta, per alcuni libri, in Origene (Omelie sui Numeri 27, 1). Per Rufino i libri sono secondari, giacché non possono servire a fondare la fede. Si può quindi ritenere che i neofiti, che puntano all’essenziale, possano farne a meno. D’altra parte si potrebbe pensare, dato il carattere pubblico della «lettura in Chiesa», che il catecumeno non è invitato a leggere la Scrittura e che la selezione viene fatta d’ufficio, da parte del clero. Mentalità più occidentale? In ogni caso ci allontaniamo da Atanasio. 49 Exp. Symb., 36 (ll. 15-16).

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conclude l’enumerazione delle opere dell’Antico e del Nuovo Testamento: «Ecco

le fonti della salvezza; colui che ha sete può attingere alle parole che si trovano in

questi libri. Solo attraverso questi è annunciata la dottrina della pietà...»50. Questa

volta la lettura della Lettera festale mi sembra certa.

Rimangono ancora da confrontare i due elenchi dei libri «letti in chiesa». Tali

elenchi non sono identici, né per l’Antico Testamento né per il Nuovo. Atanasio

colloca tra i libri «letti» il libro di Ester, che Rufino ha inserito tra le opere

canoniche; ma ignora Tobia, nonché i Libri – senza precisare il nome – dei

Maccabei. Per quanto riguarda il Nuovo Testamento, non soltanto Rufino inverte

l’ordine del Pastore e delle Due vie, ma aggiunge un terzo scritto, il Iudicium

secundum Petrum, la cui esistenza è nota grazie a Girolamo51; inoltre Rufino

precisa l’indicazione relativa al Pastore. L’originalità appare quindi fuori

discussione. L’eventuale domanda da porsi sarebbe se questi libri non fossero

utilizzati in modo particolare nella regione di Aquileia o di Concordia. L’uso del

Canone di Muratori da parte di Cromazio invita a pensare che in quelle zone si

fosse al corrente riguardo all’origine del Pastore52 più di quanto lo fosse Origene,

le cui esitazioni non potevano non essere note a Rufino53. Ma è verso Aquileia,

verso Altino e nuovamente verso Girolamo che bisogna guardare per il conteggio

dei libri «ecclesiastici» dell’Antico Testamento.

La parentela è già stata intravista54, senza però cogliere tutta la sua

importanza, da un lato perché va notato che la traduzione di Girolamo del

Libro di Tobia – e di quello di Giuditta –, nonché dei Libri di Salomone era

dedicata a Cromazio e a Eliodoro, dall’altro lato perché bisogna prestare

attenzione alle date delle due traduzioni. Come si evince dalle due Prefazioni,

la traduzione dei Libri di Salomone è la prima, e si è concordi nel farla risalire

al 398. Rufino l’avrebbe scoperta una volta giunto nell’Italia settentrionale,

d o v ’ e r a s t a t a p o r t a t a d a P a o l i n i a n o , f r a t e l l o d i G i r o l a m o .

50 ATANASIO, loc. cit. (c. 1437 C). 51 GIROLAMO, De uiris illustribus, 1 (PL 23 (1845), c. 609 A 6-7). 52 Sull’espressione di Rufino «libellus qui dicitur Pastoris siue Hermae» cfr. A. CARLINI, Rufino traduttore e i papiri, in AAAd. XXXI, 1987, pp. 113-114. 53 Sull’atteggiamento di Origene cfr. J. RUWET, Les “Antilegomena” dans les oeuvres d’Origène, in Biblica 23, 1942, pp. 18-42 e soprattutto pp. 33-35. 54 M. STENZEL, art. cit., pp. 50-51, che però non crede a una dipendenza.

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Niente di strano, viste le circostanze, se Cromazio ed Eliodoro hanno chiesto a

Girolamo, probabilmente l’anno successivo55, di tradurre i Libri di Tobia e di

Giuditta, di cui aveva da poco parlato in termini riservati ma al tempo stesso

laudativi. Riservati, perché notava che i libri di Giuditta, di Tobia e dei Maccabei

(senza indicazione del nome) non fanno parte del Canone; laudativi, perché

riconosceva che questi libri erano «letti in Chiesa»56. Tale dichiarazione aveva un

carattere più ampio, poiché riguardava anche la Sapienza di Gesù, figlio di Sirach

e la Sapienza di Salomone, vale a dire gli ultimi due dei cinque titoli elencati da

Rufino nell’Expositio. La coincidenza si rivela affatto casuale quando Girolamo,

prima di Rufino57, afferma che i libri possono essere «letti per l’edificazione del

popolo», ma che non possono essere usati «per confermare l’autorità dei dogmi

della Chiesa»58. Chiaramente Rufino ha letto questa Prefazione. Anche se,

intenzionalmente, ignora alcuni aspetti, è ben felice di registrare l’opinione di

Girolamo, a suo vantaggio.

Non è da escludere che abbia mutuato un altro dato, che sembra a dir poco

sorprendente. Secondo Rufino, la «Sapienza del figlio di Sirach» ha ricevuto in

latino il nome di Ecclesiastico, a causa non del suo autore, bensì della «qualità

dello scritto», che lo rende degno di essere letto in Chiesa. Rufino, che conosce

molto bene Cipriano, l’autore latino più antico che cita il Siracide, dovrebbe

sapere che l’opera porta, presso il vescovo di Cartagine, il nome di Ecclesiastico,

ma con l’aggiunta «di Salomone»59; di modo che la sua spiegazione, a

prescindere dal valore, non rivela la tradizione legata al libro. In compenso la

qualifica di ecclesiastico non è rara in Girolamo, riferita ai libri.

Certo non va confusa, benché probabilmente sia questa la sua or igine ,

55 Su questa datazione cfr. i miei articoli Aquilée et la Palestine entre 370 et 420, in AAAd. XII, 1977, p. 284; Chromace et Jérôme, in AAAd. XXXIV, 1989, pp. 170-171. P. LARDET (Contre Rufin, Introduction, SChr. 303, p. 75, n. 383) si è detto d’accordo. 56 GIROLAMO, Prologus in libris Salomonis (BS 2, p. 957, l. 19). 57 Exp. Symb., 36 (ll. 10-11): «Quae omnia legi quidem in ecclesiis uoluerunt, non tamen proferri ad auctoritatem ex his fidei confirmandam». 58 GIROLAMO, Prologus in libris Salomonis (BS 2, p. 957, ll. 20-21): «sic et haec duo uolumina legat ad aedificationem plebis, non ad auctoritatem ecclesiasticorum dogmatum confirmandam». 59 CIPRIANO, Test. ad Quirinum, 35, 3.

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con l’epiteto ecclesiastico riferito agli uomini, in particolare agli scrittori, in

Girolamo60, in Rufino61 e in Origene62, per dire non soltanto che appartengono

alla Chiesa, ma anche che hanno difeso in modo ortodosso i dogmi e la regola di

fede della Chiesa. Che io sappia, però, in Origene non si trova il termine

ecclesiastico utilizzato per definire un libro o uno scritto. Conosco almeno tre

esempi in Girolamo, senza aver condotto uno studio sistematico. Un esempio è

citato da Stenzel63, che ne ha colto i limiti, senza valutare che andava preso in

considerazione il contesto geografico e polemico: se in due passi, infatti,

Girolamo difende l’Apocalisse di Giovanni definendola «ecclesiastica», ciò

avviene a Betlemme, dinanzi a un pubblico composto anche da orientali, scettici

di fronte all’autenticità dell’Apocalisse. La giustificazione che egli adduce è che

non soltanto il libro è citato dai «ueteres ecclesiastici uiri», ma anche che è «letto

nelle Chiese» – d’Occidente –, «senza essere relegato tra le scritture apocrife»64. I

testi risalgono al 400 circa. Si può quindi pensare che il termine ecclesiastico

applicato a un libro fosse d’uso comune a Betlemme, al tempo in cui Rufino ha

lasciato la Palestina. Una quindicina d’anni dopo, nella Lettera a Dardano,

Girolamo difende l’Epistola agli Ebrei dinanzi a un occidentale. Il ragionamento

è analogo, ma questa volta fa appello all’usanza orientale: l’Epistola agli Ebrei è

letta nelle Chiese d’Oriente e citata dagli scrittori greci. E aggiunge: «Se l’usanza

latina non l’accoglie tra le scritture canoniche, neanche le Chiese greche,

che godono della stessa libertà, accolgono l’Apocalisse di Giovanni. Noi

invece accogliamo entrambe, seguendo non l’usanza della nostra epoca,

bensì l’autorità degli scrittori antichi, che spesso utilizzano i testi delle due

opere , senza considerar le apocr i fe , c o m e i n v e c e s p e s s o a c c a d e ,

60 Cfr. la mia annotazione all’In Ionam, Praefatio (SCh. 323, p. 164 e p. 329) riguardo al Libro di Tobia utilizzato dagli ecclesiastici uiri. 61 RUFINO, De adulteratione, 2 (p. 9, ll. 22-23; ll. 24-25); Apologia, 2, 34 (p. 109, l. 5). 62 Cfr. ad es. In Levitic, hom. 1, 1 (ed. M. BORRET, SCh. 286, p. 68, ll. 24-25); «ego ecclesiasticus sub fide Christi uiuens et in medio Ecclesiae positus...». 63 Art. Laud., p. 57. 64 GIROLAMO, Tr. de Ps. 1 (CC 78, p. 7, ll. 132-139); 149, 6 (Ibid., p. 351, ll. 80-82). Ovviamente considero questi Tractatus un’opera orale di Girolamo.

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giacché solo di rado utilizzano passi di opere pagane, bensì considerandole opere

canoniche ed ecclesiastiche»65. Certo, per quanto riguarda questo testo tardo,

potremmo domandarci se Girolamo non metta sullo stesso piano «canonico» ed

«ecclesiastico». Ma ciò non valeva per la sua Prefazione ai Libri di Salomone, in

cui, prima di Rufino, aggiungeva che solo gli scritti «canonici» potevano servire a

stabilire i dati della fede, mentre gli «scritti ecclesiastici» potevano servire

soltanto all’edificazione pastorale.

Se, a prescindere dal Canone ebraico, si è concordi nel riconoscere, sia in

Rufino sia in Girolamo, l’influenza dei Canoni delle Chiese greche su quegli

occidentali, che rimangono profondamente attaccati ai costumi delle proprie

Chiese – significativi i casi dell’Apocalisse e dell’Ecclesiastico –, bisogna anche

ammettere che le prese di posizione dei due hanno conosciuto uno stadio orale, in

Palestina, indipendentemente dal fatto che tale fase abbia preceduto, seguito o

accompagnato le critiche suscitate in Occidente – conosciamo soprattutto quelle

di Agostino in Africa – dalle posizioni di Girolamo. Indubbiamente Rufino ha

riflettuto sul Canone biblico prima di scrivere al riguardo, e per farlo ha pensato a

Girolamo; dal canto suo Girolamo, quando scriveva nel 398 e forse nel 399 a

Eliodoro e a Cromazio, non poteva non tenere conto del posto in cui mandava le

proprie traduzioni, di coloro che le avevano richieste, nonché dei rapporti che

Rufino intratteneva con questi vescovi, sempre che non fosse già arrivato ad

Aquileia. L’Expositio Symboli di certo non nasce come opera polemica; tuttavia

non può essere separata puramente e semplicemente dalle circostanze in cui è

stata scritta – e che forse l’hanno prodotta.

Potrà sembrare strano che Girolamo rientri tra i «patres» cui fa

riferimento Rufino66. In ogni caso va notato che questi Patres,

a prescindere da Girolamo, formano un gruppo più composito rispetto

a l l a p e r f e t t a u n a n i m i t à s u g g e r i t a d a l l ’ a p p e l l o ,

65 GIROLAMO, Ep. 129, 3. Cfr., a partire dal 386, In Titum 2, 2 (PL 26, c. 578 C-D). 66 Vi sarebbero altri esempi da poter citare. I più convincenti sono i meno visibili.

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più volte ripetuto, all’autorità della «tradizione dei Padri». Bisogna altresì notare

che tale tradizione è relativamente recente, dato che comprende autori della

seconda metà del IV secolo, per quanto riguarda gli scrittori greci – il che non

esclude, da parte di Atanasio di Alessandria e di Cirillo di Gerusalemme, il

ricorso a una pratica più antica – seppure non identica, né rigida – delle loro

chiese.

In fondo, scrivendo l’Expositio, Rufino non fa altro che applicare quanto

proclamato circa la sua Professione di fede nell’Apologia ad Anastasio: egli

espone principalmente ciò che ha appreso ad Aquileia, ad Alessandria e a

Gerusalemme67. Certo, dichiara di seguire, nell’Expositio, il simbolo in uso ad

Aquileia, ma l’ispirazione è più ampia. D’altra parte, se cita numerose differenze

rispetto al Simbolo Romano, non manca di segnalare – il che non dispiace a

eventuali censori – che la fede si è mantenuta molto pura a Roma e che le

modifiche al simbolo sopraggiunte nelle altre comunità sono state rese necessarie

da alcuni errori, rimasti sconosciuti a Roma68. Tali «finezze», degne di

Girolamo69, mostrano, come le allusioni alle «Orientales Ecclesiae»70, che Rufino

oltrepassa l’orizzonte – e le preoccupazioni – di una chiesa dell’Italia

settentrionale, per prestigiosa che sia. Sarebbe pertanto sbagliato vedere

nell’Expositio l’opera rappresentativa di una determinata regione, e ancora più

sbagliato attribuirle una qualsiasi autorità, al tempo in cui è composta. Il rispetto

arriverà in seguito: conosciamo bene il giudizio di Gennadio71. Tale giudizio sarà

confermato dai secoli a venire, che copieranno a man bassa l’Expositio (non

soltanto per il Canone). Al contrario il giudizio dell’epoca si può vedere

implicitamente nella risposta di Innocenzo I a Esperio di Tolosa, il 20 febbraio

del 405: l’elenco romano ignora con una certa superbia le classificazioni e le

distinzioni di Rufino72. Occorre notare inoltre come passi sotto silenzio anche il testo

67 RUFINO, Apologia ad Anastasium, 8. 68 Exp. Symb., 3 (p. 136, ll. 7-9); 5 (p. 140, ll. 30-38). 69 Cfr. ad es., all’indirizzo di Rufino e degli Origenisti, l’Ep. 84, 9 (CUF 4, p. 135, l. 28 – p. 136, l. 3). 70 Exp. Symb., 4 (p. 137, l. 2); 5 (p. 139, l. 1); 16 (p. 153, l. 6). 71 GENNADIO, De uiris illustribus, 17 (ed. Richardson, p. 68, ll. 8-10): «Proprio autem labore, immo gratiae Dei dono, exposuit idem Rufinus Symbolum ut in eius conparatione alii nec exposuisse credantur». 72 INNOCENZO I, Ep. 6, 7 (PL 20, c. 501-2).

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biblico, e ciò nei confronti di un vescovo73 che è già in contatto con Girolamo.

II – L’APOLOGIA CONTRO GIROLAMO: I PERICOLI DI UNA NUOVA

TRADUZIONE

Prima di lasciare l’Expositio per passare all’Apologia – abbiamo notato come

non dimostri tutta l’imparzialità e l’oggettività che ci si aspettava74 – vorrei fare

alcune osservazioni, che consentiranno di capire meglio sia il contesto pastorale

del trattato, sia certi aspetti dell’Apologia contro Girolamo, che attacca le

traduzioni di Girolamo e, di conseguenza, riguarda il Canone e la sua

composizione.

La prima osservazione concerne sia Girolamo sia Rufino. Abbiamo visto lo

spazio che occupa in entrambi il libro dell’Ecclesiastico. Non è forse

sorprendente che nessuno dei due abbia prestato attenzione alla Prefazione del

traduttore greco? Nel 38° anno di Tolomeo Evergete (probabilmente nel 132 a.C.)

questi, oltre alla tripartizione della Bibbia ebraica in «Legge, Profeti e gli altri

scritti», attesta le imperfezioni della traduzione greca esistente, invocando la

difficoltà insita nel passare da una lingua all’altra75. Per Girolamo si trattava di un

precedente, che avrebbe potuto far valere, mentre per Rufino era l’esempio di un

73 È a Esperio di Tolosa – e non a Cromazio e a Eliodoro, come promesso – che sarà dedicato l’In Zachariam di Girolamo (cfr. il mio art. Chromace et Jérôme, in AAAd. XXXIV, 1989, p. 174). Secondo Girolamo Vigilanzio, da cui Esperio di Tolosa prende le distanze, è un alleato di Rufino (C. Rufin 3, 19). D’altra parte nel Contra Vigilantium del 406, Girolamo rimprovera all’avversario di basarsi sul III Esdra e su tutti gli altri Apocrifi (PL 23 (1845), c. 344 D – 345 B). 74 Ho già segnalato la parentela tra il § 37 e il Liber ad Gaudentium, di cui P. Meyvaert ha ritrovato due frammenti dottrinali sulla visione del Padre da parte del Figlio. Questo Liber sembra seguire da vicino il processo di Milano: Y-M. DUVAL, Le Liber Hyeronimi ad Gaudentium..., pp. 179 sgg. Il carattere polemico della trattazione sulla resurrezione della carne (§ 39-44) è indubbio; questi due punti sono facilmente ricollegabili alla controversia con gli amici di Girolamo, così com’è presentata nell’Apologia contro Girolamo. Occorre quindi prestare attenzione alla formula finale dell’Expositio: «Si, inquam, haec secundum traditionis supra expositae regulam consequenter aduertimus, deprecemur ut nobis et omnibus qui haec audiunt concedat Dominus, fide quam suscepimus custodita, cursu consummato, expectare repositam iustitiae coronam...» (§ 46, p. 182, ll. 17-20). Sotto diversi aspetti, l’Expositio è anche un’Apologia. 75 Siracide, Prologo (inizio e fine).

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traduttore ebreo che, molto prima di Cristo, proclamava la superiorità del testo

originale e confessava la difficoltà del suo compito di traduttore. Ma né Rufino né

Girolamo si sono interessati alle dichiarazioni metodologiche. La sola questione

che ha attirato la loro attenzione riguarda l’iscrizione del libro nel Canone delle

Scritture.

Questa visione «globale» chiama in causa altri libri. Abbiamo visto che Cirillo

di Gerusalemme e Atanasio di Alessandria precisavano, in merito a Geremia, che

bisognava includere nella raccolta «il Libro di Baruc, le Lamentazioni e la sua

Lettera». Nel 400 Girolamo si è già espresso sulla non autenticità del Libro di

Baruc76. Rufino non apre bocca sulla questione, né sul Libro di Daniele, da cui

prenderà gli esempi utilizzati nell’aspra critica della traduzione di Girolamo

dall’ebraico, nel secondo libro dell’Apologia.

Tuttavia, per apprezzare a pieno queste celebri pagine, occorre collocarle nel

loro preciso contesto, tenendo conto delle «regole» della polemica, se non altro

per cogliere meglio lo sfondo, più pastorale che scientifico, dell’intera

controversia. Rufino si è visto contestare la fedeltà della sua traduzione

dell’Apologia di Panfilo e la qualità stessa del lavoro di Panfilo77. Risponde

denunciando l’arroganza di Girolamo nell’ergersi a critico dell’autenticità e

dell’ortodossia delle opere altrui78. Si è visto rimproverare per aver osato tradurre

in latino opere che nessuno prima di lui aveva avuto l’audacia di tradurre79.

Risponde rimproverando a Girolamo l’audacia nel tradurre la Scrittura80, cosa che

nessun cristiano si era azzardato a fare prima di lui. La ritorsione è evidente;

ciononostante comporta diversi elementi che vale la pena distinguere.

Innanzitutto, se per Rufino la traduzione non è accettabile, è perché modifica sia il

testo, sia il numero dei libri, o quanto meno la loro composizione. Intervengono a

questo proposito gli esempi mutuati dal Libro di Daniele, con la «storia di Susanna»

76 GIROLAMO, Prologus in libro Hieremiae (BS 2, p. 166, ll. 12 sgg.). 77 RUFINO, Apologia c. Hieronymum, 2, 34: cfr. GIROLAMO, Ep. 84, 11. 78 Ibid. (p. 109, l. 17 – p. 110, l. 45). 79 Ibid., 2, 35: cfr. GIROLAMO, Ep. 84, 7. 80 Ibid., 2, 36 sgg.

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e il «Cantico dei tre fanciulli», cui Rufino si dichiara capace di aggiungere molti

altri casi81. In realtà qualche pagina dopo, quando riprende l’elencazione,

aggiunge soltanto l’esempio della cucurbita trasformata in edera, il che dimostra

che ha posto una certa attenzione al testo82 e che si è ricordato di una critica che

era stata mossa a Roma una decina di anni prima83.

Che si tratti del testo o di parti di libri, il rimprovero che Rufino rivolge a

Girolamo è di aver cercato scienza e ispirazione tra gli ebrei. L’accusa ritorna più

volte in queste pagine84 sotto diverse forme, testimoniando un’avversione per la

Sinagoga che sorprende per la sua ferocia, benché non sia un caso isolato a

quel tempo, né sconosciuto ad Aquileia85. È noto come Rufino trasformi

Baranina86, il nome del maestro ebreo di Girolamo, in Barabba e come,

riprendendo un’etimologia e una trattazione care a Origene87, veda in

questo Barabba il Diavolo in persona88. La Sinagoga diventa addirittura la

«Sinagoga del Diavolo»89. Appare manifesto che Rufino non nutre nessuna

speranza nella conversione degli ebrei. Sebbene dimostri di conoscere90 la

L e t t e r a a d A f r i c a n o , i n c u i O r i g e n e s p i e g a i l s e n s o d e l s u o

81 Ibid., 2, 37 (p. 111, l. 9 – p. 112, l. 15). 82 Ibid., 2, 39 (p. 113, l. 19 – p. 114, l. 34). 83 Già nel 396 Girolamo menziona una critica che era stata mossa a Roma, in seguito alla sua traduzione del ricino di Giona, che diventa edera e non cucurbita come riportavano le traduzioni latine precedenti, a partire dalla Kolokunthé della Settanta (GIROLAMO, In Ionam, 4, 6 – SChr. 323, pp. 198-296). 84 Apol. c. Hieronymum, 2, 36 (p. 111, ll. 9 sgg.); 37 (p. 112, ll. 25-28); 38 (p. 112, l. 8 – p. 113, l. 18). 85 L. CRACCO-RUGGINI, Il vescovo Cromazio e gli Ebrei di Aquileia, in AAAd. XII, 1977, pp. 353-381 e in particolare pp. 373 sgg. 86 GIROLAMO, Ep. 84, 3. 87 Cfr. ad es. Om. su Geremia 18, 5 (SChr. 238, p. 192). 88 Apol. c. Hieronymum, 2, 15 (p. 95, ll. 34-49); 16 (p. 95, ll. 4-5); 37 (p. 112, l. 19): «sibi Barabba adspirante»; 38 (p. 113, ll. 23-25: «... ut uel Barabban illum, quem aliquando, ut Christo nuberet, spreuerat...». 89 Apol. c. Hieronymum, 2, 34 (p. 110, l. 38). L’espressione compare nell’Ep. 84, 3 (CUF 4, p. 127, l. 19), che Rufino conosce. In ogni caso l’espressione non è rara. 90 Quel che dice riguardo al lavoro di verifica condotto da Origene (Apol. c. Hieronymum, 2, 40 – pp. 114-115) potrebbe provenire da questa Lettera. Varie argomentazioni di Rufino contro Girolamo, il nuovo Africano, ricordano quelle di Origene. Ma non è da escludere che Rufino conosca altri testi, oltre a quelli in nostro possesso.

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lavoro di confronto tra diverse traduzioni greche91, Rufino non prende

minimamente in considerazione l’ipotesi che la traduzione latina di Girolamo

possa avere la stessa funzione in Occidente per il dialogo con gli ebrei, se non

addirittura per la loro conversione. Ogni dialogo con gli ebrei appare escluso.

Come vedremo, Rufino si trincererà addirittura dietro l’autorità degli Apostoli,

che hanno sempre messo in guardia contro «le favole ebree e le genealogie» e che

condannavano anzitempo – grazie allo Spirito Santo – l’opera di Girolamo, che

ha fatto ricorso a un ebreo92.

In realtà Rufino, più che agli ebrei, pensa ai pagani. Rievoca, infatti, la cattiva

impressione che suscita in questi il carattere incerto della Legge cristiana,

suscettibile di ricevere correzioni e modifiche93, al punto che i pagani finiscono

col mettere in dubbio l’esistenza della verità presso i cristiani. «Ecco – dichiara a

Girolamo – quel che ci hanno procurato la tua grandissima scienza e la tua

grandissima saggezza: essere considerati tutti ignoranti e insensati, persino dai

pagani!»94. Allo stesso modo possiamo constatare, se si considera l’Expositio

Symboli, che Rufino si preoccupa quasi esclusivamente dei pagani, eludendo o

confutando le loro obiezioni95, senza mai segnalare la presenza di ebrei

contemporanei con cui dover fare i conti, come ai primi tempi della storia della

Chiesa.

Arriviamo così al punto più importante dell’argomentazione di Rufino,

punto che è stato messo troppo poco in rilievo e quasi mai confrontato con

l’atteggiamento tenuto nell’Expositio Symboli. Secondo Rufino l’impresa di

Girolamo è condannabile, in quanto mette in dubbio l’«eredità degli Apostoli»

e il riferimento allo Spirito Santo. Sono gli Apostoli stessi ad aver

«consegnato alle Chiese di Cristo» i «libri delle divine Scritture»,

l’«instrumentum fidei», gli «instrumenta librorum», la «ueritas instrumenti»96

ed è questa verità che Girolamo contesta, d o m a n d a n d o a g l i e b r e i

91 ORIGENE, Lettera ad Africano, 9. 92 Apol. c. Hieronymum, 2, 38 (p. 112, l. 10 – p. 113, l. 18). 93 Ibid., 2, 39 (p. 113, ll. 7-12). 94 Ibid. (p. 113, ll. 14-15): «Hoc nobis praestitit tua ista nimia sapientia ut omnes insipientes etiam a gentilibus iudicemur». 95 Exp. Symboli, 3 (p. 136, ll. 31-34); 9 (p. 146, ll. 3 sgg.); 10 (p. 147, l. 1) ecc. 96 Apol. c. Hieronymum, 2, 36 (p. 111, ll. 7-9; 19-20; 24-27); 37 (p. 111, ll. 5-8; p. 112, ll. 22-25); 38 (p. 112, ll. 13-14).

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di correggere il testo che gli Apostoli hanno affidato alle Chiese. Rufino è ancora

più preciso: agli inizi della storia della Chiesa, afferma, c’erano nelle comunità

cristiane, specie a Gerusalemme, numerosi ebrei convertiti, che conoscevano

l’ebraico e il greco97 – e potevano quindi verificare l’esattezza della Settanta –,

ma nessuno di questi (seppur numerosi) «eruditi» ha osato fornire una nuova

traduzione dell’instrumentum diuinum. Per assistere a una simile impresa si è

dovuto attendere il lavoro di Girolamo, ispirato da quel «Barabba» di cui abbiamo

svelato l’identità. Implicitamente Rufino pensa già ai «settantatré» traduttori98

che, ognuno nella propria cellula, hanno prodotto l’unica traduzione a noi nota,

ispirati dallo Spirito Santo99.

In definitiva è lo Spirito Santo il bersaglio di Girolamo, attraverso gli Apostoli.

Una volta inviata l’Apologia a Roma, non stupisce che Rufino invochi il

comportamento di Pietro e di Paolo. Ma lo fa con un abile climax, che non poteva

non scuotere i comuni lettori. Se Pietro, durante il suo lungo soggiorno a Roma,

ha sicuramente trasmesso alla Chiesa romana i libri che riteneva autentici, Rufino

sarebbe pronto ad accogliere un’obiezione di Girolamo e a riconoscere che Pietro

non aveva una grande formazione, e non poteva pertanto verificare la qualità

della traduzione. Ma non sarebbe come offendere lo Spirito Santo che aveva

ricevuto in lui e che lo aveva omaggiato del dono delle lingue100? In ogni caso

non si può invocare l’ignoranza per Paolo: Rufino riunisce le prove della sua

competenza, ricorda i suoi avvertimenti contro i circoncisi e gli fa prevedere, per

opera dello Spirito Santo, che «circa quattrocento anni dopo» la Chiesa avrebbe

inviato qualcuno a chiedere ai circoncisi la verità che solo essa possiede101. Si

tratta, beninteso, di Girolamo e del suo «Barabba».

97 Ibid., 2, 37 (p. 111, ll. 1-8). 98 Ibid., 2, 37 (p. 112, ll. 14-15). Riguardo al numero cfr. l’apparato critico di M. Simonetti ad. loc. Più avanti si parla di 70: 2, 39 (p. 113, l. 5). Girolamo si arrabbierà per il risalto dato alla leggenda. Cirillo di Gerusalemme (Catech. 4, 34) l’aveva citata prima di parlare del Canone. 99 Ibid., 2, 37 (p. 112, ll. 15-20). 100 Ibid. (p. 112, ll. 21-34). 101 Ibid., 2, 38 (p. 112, ll. 1-18). Chiude una bella immagine: la collana che porta la Chiesa dei Gentili è fatta di pietre preziose (=una buona traduzione) o di pietre false?

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Questo riferimento agli Apostoli va paragonato a quello presente all’inizio

dell’Expositio Symboli. È noto come Rufino riconduca agli Apostoli102 il Simbolo

oggetto di spiegazione. Questi lo avrebbero composto subito dopo la discesa dello

Spirito, prima di andare a evangelizzare le singole nazioni. Ma ciò che più conta è

la ragione per cui, secondo Rufino, gli Apostoli sono ricorsi a un «segno di

riconoscimento» quale il symbolon. Forse perché «a quel tempo, come narra

l’Apostolo Paolo e come riportano gli Atti degli Apostoli, molti ebrei circoncisi si

consideravano apostoli di Cristo. Per riempirsi le tasche e la pancia andavano a

predicare, annunciando il nome di Cristo, ma senza rispettare i limiti esatti

dell’insegnamento trasmesso. Proprio per questo è stato introdotto tale segno di

riconoscimento, per poter discernere chi predicava realmente Cristo secondo le

regole degli Apostoli»103.

Ritroviamo gli ebrei104 da cui mette in guardia l’Apologia105 ed è a questo

«Simbolo» – e alle regole disciplinari – che si può pensare quando Rufino,

nell’Apologia contro Girolamo, dice che Pietro «ha trasmesso alla Chiesa di

Roma, oltre a tutto ciò che riguardava l’istruzione, i libri che venivano letti

mentre teneva le proprie sedute e insegnava»106. Da ambo le parti, quindi, si risale

agli Apostoli. Il che sicuramente appare logico, benché costituisca una grossa

novità rispetto a quanto affermato circa il Canone delle Scritture nell’Expositio

Symboli, in cui Rufino invocava unicamente l’autorità dei Patres e dei Maiores,

mai degli Apostoli, quanto meno per l’Antico Testamento. La differenza è di

notevole importanza, tanto più che abbiamo visto che i Maiores non precedevano

di molto l’epoca di Rufino.

Tale differenza di presentazione è alquanto significativa dell’unità di spirito con cui

Rufino considera la trasmissione delle Scritture, nonché del Simbolo. Non soltanto

tutto risale agli Apostoli, ma questi hanno lasciato una doppia – o meglio, un’unica –

102 Exp. Symboli, 2 (p. 134, ll. 1 sgg.). 103 Ibid. (p. 134, ll. 18-26). 104 Anche gli eterodossi? Cfr. ibid., 2 (p. 135, ll. 32-36). 105 Apol. c. Hieronymum, 2, 38 (p. 112, ll. 8-11). 106 Ibid., 2, 37 (p. 112, ll. 22-25).

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eredità completa, fissa, impalpabile, capace persino di prevedere e di confutare

anzitempo tutti gli errori sorti in seguito; abbiamo visto che Rufino fa loro

respingere anticipatamente l’impresa traduttiva di Girolamo107. Se riconosce che

certe Chiese hanno aggiunto alcune precisazioni al Simbolo, per rispondere con

maggior specificità a una determinata novità locale108, non ritiene che vi siano

state differenze geografiche nella trasmissione dei testi sacri, né, stranamente109,

che gli eretici abbiano potuto disturbare la trasmissione.

Attualmente questa visione dei fatti, per quanto ambiziosa, appare piuttosto

semplificatrice. Direi che agli inizi del V secolo era già in ritardo sui fatti

verificabili; le critiche mosse a Girolamo, poi, non tenevano conto né delle

riserve che egli stesso nutriva sull’utilizzo delle proprie traduzioni, né del valore

che riconosceva sia alla Settanta – riguardo ai Salmi – nell’uso liturgico110, sia ai

testi non considerati dal Canone ebraico. Quando Rufino rimprovera a Girolamo

di aver omesso la storia di Susanna, contenente un così bell’«esempio di castità

[…] per le persone sposate e per quelle non sposate»111, forse gli è sfuggito che

Girolamo, nella Prefazione al Libro di Giuditta, indirizzato a Eliodoro e a

Cromazio, decantava quest’«esempio di castità […] degno di essere imitato non

solo dalle donne ma anche dagli uomini»112? Si ha l’impressione che non voglia

ascoltare e sembra di assistere, in più di un’occasione, a un dialogo tra sordi.

Poteva forse accusare Girolamo di aver soppresso non solo la storia di Susanna,

ma anche il Cantico dei tre fanciulli, quando Girolamo aveva esplicitamente

dichiarato, già nella Prefazione alla sua traduzione, che avrebbe mantenuto questi

testi, così come la storia di Bel e il drago, nella traduzione del Libro di Daniele,

«per non dare l’impressione, tra gli imperiti, di aver amputato una grossa

par t e de l vo lume» 113? Po iché ques te pag ine non p r e s e n t a v a n o u n

107 Ibid., 2, 38 (p. 112, ll. 11-15). 108 Exp. Symb., 3 (p. 135, l. 4 – p. 136, l. 15) e passim. 109 Mentre ha segnalato nel De adulteratione, 9 (p. 13, ll. 1-14) le imprese degli eretici contro i Vangeli e contro le Epistole degli Apostoli. 110 Cfr. ad es. Contra Rufinum, 2, 24 (SChr. 303, p. 170, ll. 30-34). 111 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, 2, 37 (p. 111, ll. 10-11); 2, 39 (p. 113, ll. 19-21). 112 GIROLAMO, Prologus Judith (BS 1, p. 691, ll. 9-11). 113 GIROLAMO, Prologus in Danihele propheta (BS 2, p. 1341, ll. 19-24).

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grandissimo valore dogmatico, Rufino avrebbe potuto ammettere che rientravano

nei testi «ecclesiastici», destinati all’edificazione. In ogni caso Girolamo non ha

torto quando dichiara, nel Contro Rufino del 401114 e nella Prefazione al

Commento a Daniele115 del 407, che le critiche del suo avversario non sono

pertinenti e che sono state confutate prim’ancora di essere formulate.

Fare appello al Libro di Daniele non ci sembra un esempio di facile accesso,

relativamente al testo, all’origine e al contenuto. Tuttavia non è sicuro che

Rufino abbia voluto, a modo suo, riprendere la risposta di Origene ad Africano116.

Il motivo è un altro: se non si può affermare con certezza che faccia parte degli

imperiti cui si riferiva Girolamo nella Prefazione alla sua traduzione, è per gli

imperiti che scrive il più delle volte. Di conseguenza gli esempi di Susanna, del

giovane Daniele, dei tre ebrei nella fornace si rivelano persuasivi, in virtù della

loro diffusione117, anche agli occhi dei Romani, cui è indirizzata l’Apologia

contro Girolamo. La conferma arriva dall’ultimo esempio citato, quello di Giona

e, più precisamente, della cucurbita dei sarcofagi, vale a dire un dettaglio materiale,

visibile, percepibile anche dal pubblico meno istruito118. Con Girolamo119 siamo di

fronte a una discussione erudita, che bisognerebbe forse lasciare ai dotti120 –

114 GIROLAMO, Contra Rufinum, 2, 33 (ed. P. Lardet, SChr. 303, pp. 192-195). 115 GIROLAMO, In Danielem, Prol. (CC 75 A, p. 774, ll. 61 sgg.). Rufino non risponderà mai alla domanda relativa all’uso del testo di Teodozione. 116 È noto che le domande di Giulio Africano vertono principalmente sul Libro di Daniele. 117 Lo stesso Cromazio ha consacrato il suo S. 35 a Susanna, mentre l’S. 25, 2 rievoca Daniele in mezzo ai leoni. Il Museo di Portogruaro possiede un bel piatto in vetro, proveniente da Concordia, raffigurante Daniele che prega in mezzo ai leoni. Che dire di Roma? 118 Apol. c. Hieronymum, 2, 39 (p. 114, ll. 29-34). 119 Rufino avrebbe potuto far cadere Girolamo in «contraddizione», rammentandogli il numero di volte in cui aveva parlato, senza reticenze, di Susanna, dei fanciulli ebrei e di Daniele. Cfr. ad es. Ep. 1, 9; 54, 10; 58, 1; 65, 2 ecc. Ma Girolamo avrebbe potuto rispondere che si trattava di pezzi parenetici. 120 Girolamo, si sa, non ha mai cessato di ripetere che il suo lavoro non era volto a condannare la Settanta e che nessuno era obbligato a servirsene. Cfr. ad es. Quaestiones hebraicae, Praefatio (CC 72, p. 2, ll. 16-18; p. 3, ll. 5-7); Prologus in libro Iosue (BS 1, p. 285, l. 4). Girolamo proclama diverse volte la necessità di seguire la Settanta: cfr. ad es. Ep. 57, 11; 106, 46). D’altra parte, anche se ricorre spesso

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212

ma come procedere121? –. Con Rufino si tratta di rassicurare gli umili e, per

timore di turbarli, di presentare loro una visione unitaria, unanime della fede,

attraverso l’intera storia della Chiesa.

III – LA TRADUZIONE DELLA STORIA ECCLESIASTICA DI EUSEBIO DI

CESAREA: UN CANONE SENZA STORIA

Non è necessario che mi dilunghi sulle circostanze in cui è stata effettuata la

traduzione della Storia Ecclesiastica di Eusebio: il riferimento all’invasione di

Alarico presente nella Prefazione generale colloca il lavoro in un momento

successivo rispetto agli scritti sopra esaminati, riguardanti le Scritture e il

Canone; ma la distanza non è tale da non poter ritrovare una certa affinità

d’ispirazione122. Non meno importante, la Prefazione descrive il clima

morboso in cui vive la popolazione, dominata dal dubbio, dopo l’irruzione di

un barbaro in un impero ormai cristiano. Il lavoro di Rufino è presentato come

un rimedio offerto a quella popolazione disorientata123 e come un contributo a

Cromazio, alla stregua dei due pesciolini del fanciullo notato dall’apostolo

Filippo nel miracolo della moltiplicazione dei pani, per nutrire «le folle»124.

Senza attribuire alla parola «folla», utilizzata tre volte125, un senso troppo

peggiorativo, si può dire che la traduzione, «destinata alla comunità cristiana

di Aquileia»126, porta al livello di un pubblico popolare un tes to greco

ad Aquila per capire l’ebraico, non lo imita nel testo latino: v.g. Ep. 57, 11. 121 Questo il rimprovero mosso da Rufino, mentre mostra le traduzioni di Girolamo sparse «per ecclesias et monasteria, per oppida, per castella» (Apol. c. Hieronymum, 2, 36 – p. 111, ll. 13-14). 122 In Eusebii Historiam Ecclesiasticam, Praefatio (Ed. Mommsen, GCS 9, 2, p. 951). Ci troviamo dopo il mese di novembre del 401 e probabilmente non prima della primavera o dell’estate del 402. Sul significato politico del lavoro cfr. il mio art. Les métamorphoses de l’historiographie aux IVe et Ve siècles, in Actes du VIIe Congrès de la FIEC (Budapest, 1979), vol. 2, pp. 151-159, Budapest, 1983. 123 Ibid. (ll. 6 sgg.). 124 Ibid. (ll. 19 sgg.). 125 Cfr. p. 951, l. 19; 27; p. 952, l. 13. 126 Fr. THÉLAMON, Une oeuvre destinée à la communauté chrétienne d’Aquilée: l’Histoire Ecclésiastique de Rufin, in AAAd. XXII, 1982, pp. 255-271.

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213

che tradiva più volte le preoccupazioni del dotto vescovo di Cesarea – uir

eruditissimus, dichiara Rufino127–. Se ha ritrovato nello storico greco una grande

attenzione per la tradizione e l’ha rafforzata, Rufino ha riscontrato in questi libri

un notevole interesse per il Canone delle Scritture, nonché per le sue attestazioni

e varianti. Spesso ha attenuato o semplificato le esitazioni, non limitandosi più al

ruolo di traduttore fedele.

Esiste una decina di pagine, più o meno sviluppate, in cui Eusebio ha trascritto

le opinioni degli autori da lui letti, riguardanti sia un determinato libro sacro, sia

l’intero Canone128. Come si può facilmente intuire, tali pagine si riferiscono

soprattutto ai libri del Nuovo Testamento, in particolare l’Apocalisse, l’Epistola

agli Ebrei, le Epistole di Pietro, di Giacomo e di Giovanni. Non è mia intenzione

dilungarmi sul modo con cui Rufino ha trasmesso tali informazioni, benché egli

sia più eloquente rispetto alle pagine riguardanti l’Antico Testamento129. Non mi

soffermerò nemmeno sulle questioni di vocabolario, né sulla maniera con cui

Rufino rende o traspone il vocabolario tecnico della «canonicità». M’interesserò

unicamente al contenuto del Canone dell’Antico Testamento e alla

caratterizzazione dei libri che lo costituiscono.

Il primo testo appartiene al Contro Apione di Giuseppe Flavio130, oggetto di numerose

discussioni moderne, in greco. Non stupiamoci se Rufino appare alquanto disorientato

dinanzi a questo testo, che rimane piuttosto impreciso nei dettagli, eccettuata la

menzione dei 22 libri e della loro suddivisione in 5 libri di Mosè, 13 libri di «profeti

successivi a Mosè» e «altri 4 libri, contenenti gli Inni a Dio e le regole di vita per

gli uomini»131. D’altronde Giuseppe Flavio vuole insistere sul piccolo numero

127 Praefatio (p. 951, l. 12). 128 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 2, 33; 3, 3, 1-5; 3, 10, 1-5; 3, 23-25; 4, 26, 13-14; 6, 13, 6; 6, 20, 3; 6, 25 ecc. Alcune modifiche di Rufino sono già state segnalate da J. Oulton (Rufinus’ Translation of the Church History of Eusebius, in JTS 30, 1929, pp. 150-174 e soprattutto pp. 156-157). La questione meriterebbe una trattazione più ampia. 129 D’altra parte due di queste testimonianze provengono da «fonti» ebraiche (Giuseppe Flavio e Origene) e quella di Melitone intende trasmettere l’opinione degli ebrei. Pertanto Rufino non è del tutto libero di modificare questi dati. 130 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 3, 10, 1-5 (GCS 9, p. 222-225) – GIUSEPPE FLAVIO, Contro Apione, 1, 38-44. 131 Ibid. 3, 10, 2.

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214

di libri ammessi dagli ebrei132, sulla loro unità e sulla particolare cura con cui

sono conservati, senza aggiunte né modifiche. Rufino ha rispettato tali

affermazioni, che potevano confermare quelle di Girolamo; ma pare non aver

compreso la tripartizione in «Legge, Profeti e gli altri scritti», in quanto i «profeti

successivi a Mosè» diventano semplicemente «tutti i profeti di quelle epoche»133,

perdendo così il carattere tecnico dell’espressione, senza che il cristiano sembri

infastidito dal fatto che questi «profeti» siano semplici narratori.

Va comunque notato come il testo di Giuseppe Flavio resti sostanzialmente

intatto, senza che Rufino imponga la propria organizzazione. Questa appare più

evidente nella traduzione della dedica delle Eclogai di Melitone di Sardi. Si

riconoscere volentieri in quest’ultimo uno dei primi che, per interloquire con gli

ebrei, abbia avuto cura di informarsi sui libri che questi riconoscevano134.

Dichiara di essere andato in Palestina, «nel luogo in cui fu proclamata e compiuta

la Scrittura», e fornisce l’elenco dei libri dell’«antica alleanza» – ovvero

dell’Antico Testamento135– senza fissare alcun numero, contrariamente a quanto

ci si aspettava136, e senza insistere sul «loro ordine», a parte la menzione dei

«cinque libri di Mosè», all’inizio, e dei «profeti», verso la fine. Rufino conferma

tale classificazione, ma non senza completarla, introducendo alcuni nessi logici

che rendono il centro meno «confuso»137. L’intervento è comunque molto

discreto e mira semplicemente ad aiutare il lettore, offrendogli un percorso

guidato, facile da riconoscere.

Diversa è la questione per quanto concerne il terzo passo, che non è altro se non il

Canone ebraico, come presentato da Origene nel suo Commento al Salmo I. Ciò ci

riporta in parte all’Expositio Symboli, se non altro per la formula «in his

concludunt (hebraei) canonem uoluminum diuinorum»138, che è un’aggiunta di Rufino

132 Rispetto al gran numero di opere greche, spesso contraddittorie. 133 «Prophetae quique per ea tempora…» (p. 225, l. 4). 134 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 4, 26, 13-14 (pp. 386-389). 135 Rufino traduce poi con Vetus testamentum la menzione degli «antichi libri» e «i libri dell’antica diathèkè». 136 Melitone espone infatti la domanda del suo corrispondente (p. 386, l. 24), nonché quella relativa all’ordine. Rufino inverte (p. 387, l. 24). 137 L’elenco di Melitone non comporta neanche una particella. Rufino aggiunge un tum deinde e un autem. 138 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 6, 25, 2 (p. 575, l. 5 – p. 577, l. 1).

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215

e somiglia non poco all’ultima frase della sua presentazione: «Haec sunt quae

patres intra canonem concluserunt…»139. Ho già avuto modo di dire che il testo di

Rufino era più completo e corretto rispetto all’attuale testo della Storia

Ecclesiastica di Eusebio, giacché menziona il libro dei Dodici profeti, la cui

omissione rende inesatta la cifra di 22 libri indicata da Origene. Si tratta

semplicemente di un caso. L’originalità dell’elenco di Origene sta nel fornire

l’incipit dei libri ebraici, nel tradurlo e nel porre a fronte il titolo del libro nella

Settanta. Rufino ha trascurato questi dati eruditi, che Girolamo aveva ripreso e

imitato140. Forse è a lui che dobbiamo la piccola inesattezza seguente: come

Girolamo, infatti, egli scambia Dabreiamim/n, l’incipit del libro delle

Cronache141, per il titolo di un libro: «quem dicunt (Hebraei) Sermones

dierum»142; lo stesso vale per i libri dei Re, «quem appellant Regnum Dauid»143,

nonché per quello di Samuele144. Rimangono da analizzare altri due punti, in parte

oscuri: nonostante l’esplicita menzione di Origene, egli omette Rut, così come le

Lamentazioni e la Lettera di Geremia. Abbiamo visto che nemmeno l’Expositio

Symboli145 rievocava gli ultimi due testi. Non occorrerebbe soffermarsi su altri

due titoli, se Origene non si fosse preoccupato di correggere uno dei due: non

bisogna dire, come molti fanno, «Cantici dei Cantici», bensì «Cantico», al

singolare146. Rufino omette tale osservazione e scrive Cantica Canticorum, come

nell’Expositio147. Probabilmente intende rispettare l’uso dei suoi lettori. Lo stesso

potrebbe valere per il Paralipomeni (liber), sebbene l’Expositio parli di

Paralipomenon148. Altri due dettagli evidenziano la volontà di chiarezza: Rufino

attribuisce a Salomone i tre libri che gli appartengono, precisando che Isaia è un profeta,

139 Exp. Symboli, 35 (p. 171, ll. 16-17). 140 In particolare nel Prologus galeatus (BS 1, pp. 364-365). 141 Ibid. (p. 365, l. 40). Lo stesso nel Prologus in libro Paralipomenon (p. 547, l. 37). 142 Storia Ecclesiastica, p. 575, ll. 1-2. 143 Ibid. p. 573, l. 11 («E il re Davide»). 144 Ibid. p. 573, l. 10. 145 Exp. Symboli, 35 (p. 170, l. 7). 146 Storia Ecclesiastica, 6, 25, 2 (p. 571, ll. 8-9). 147 Exp. Symboli, 35 (p. 171, l. 10). 148 Alcuni manoscritti risultano corretti.

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il che deve valere anche per i successivi in lista. Ma per quale motivo inverte

Daniele ed Ezechiele, se non per riprendere l’ordine della Settanta?

Si tratta di particolari insignificanti, spesso in contraddizione tra loro. Le

intenzioni apparirebbero molto più chiare, se avessi il tempo di soffermarmi su

testi più numerosi e complessi, che riguardano alcuni libri del Nuovo Testamento.

Cito solo un esempio, mutuato dalla traduzione dei testi di Origene, in merito alle

Lettere degli Apostoli149. Per quanto concerne Paolo, non soltanto suggerisce la

cifra di 14 epistole, assente in Origene, ma integra il testo del Commento a

Giovanni con due passi, che Eusebio aveva tratto dalle Omelie sull’Epistola agli

Ebrei. L’alessandrino, dopo aver segnalato le differenze di stile, attribuiva quanto

meno il pensiero all’Apostolo, concludendo con quest’osservazione: «Se qualche

chiesa ritiene che la lettera appartenga a Paolo, merita complimenti anche per

questo; poiché non è un caso se gli Antichi l’hanno trasmessa come appartenente

a Paolo»150. In Rufino diventa: «Da parte mia io (=Origene) dichiaro, come

trasmessomi dagli Antichi, che essa è chiaramente di Paolo e che tutti i nostri

Antichi l’hanno accolta come una lettera di Paolo»151. Occorre forse insistere? I

ritocchi sono altrettanto evidenti per quanto riguarda le lettere di Pietro e di

Giovanni: mentre Origene, che intende mostrare che gli Apostoli hanno lasciato

solo un esiguo numero di scritti, insiste sui dubbi che circondano la seconda

lettera di Pietro e la seconda e terza lettera di Giovanni152, Rufino riconosce solo

qualche caso: «a nonnullis et de secunda dubitatur», «de quibus et apud quosdam

dubia sententia est»153.

Si avverte la volontà di ridurre l’impressione d’incertezza e di dispersione.

Si potrebbe addirittura aggiungere che la testimonianza che Rufino mette in

bocca a Origene non può che far apparire quest’ultimo ancor più grande al

cospetto dei lettori. Citerò un ultimo esempio d’infedeltà, tanto più

illuminante in quanto involontario (almeno così pare). Parlando di Egesippo,

149 EUSEBIO, Storia Ecclesiastica, 6, 25, 7-14 (pp. 576-580). 150 Ibid., 6, 25, 13 (p. 580, ll. 2-4). 151 Ibid., 6, 25, 13 (p. 579, ll. 3-6). 152 Ibid., 6, 25, 8-10 (p. 578, ll. 1-10). 153 Ibid., 6, 25, 8-10 (p. 579, ll. 11-17).

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217

Eusebio scrive: «Non era soltanto lui (Egesippo), ma anche Ireneo e tutto il coro

degli Antichi a chiamare Sapienza piena di virtù (Panareton Sophian) i Proverbi

di Salomone»154. Rufino traduce: «Egli stesso, Ireneo e tutto il coro degli Antichi

hanno detto che il libro avente per titolo la Sapienza era di Salomone, così come i

Proverbi e il resto»155. Il controsenso è rivelatore, poiché la Sapienza di

Salomone era contestata, da Girolamo ad esempio. D’altronde quest’ultimo aveva

parlato, nella Prefazione alla traduzione dei Libri di Salomone156, dedicata a

Cromazio e a Eliodoro, di un «Panaretos Iesu filii Sirach liber», che portava il

titolo di Parabolae, ovvero di Meshâlim in ebraico e di Paroimiai in greco. Ma si

trattava dell’Ecclesiastico157, di cui abbiamo visto il posto particolare che

occupava nell’elenco di Rufino158.

Non posso garantire che Rufino avesse in mente, in quel momento, il testo di

Girolamo, ma non vi è dubbio che faccia suo il testo di Eusebio, per riconoscere

in Salomone l’autore della Sapienza. Consapevolmente o meno, si tratta sempre

di non gettare scompiglio tra i fedeli di Cromazio e tra i loro simili.

***

È una delle conclusioni più chiare che si possa trarre da questo studio.

Rufino cerca innanzitutto di rafforzare la credibilità della fede cristiana presso

un pubblico di provenienza esclusivamente pagana. A tal proposito insiste

sull’unità della fede, sulla solidità della sua trasmissione, sull’antichità della

sua origine, poiché questo Canone sembra, come il Simbolo, risalire agli

Apostoli e, in definitiva, allo Spirito Santo che agiva in loro. Abbiamo visto

come dai Patres159 si passasse agli Apostoli160 e come i dubbi r iguardo

154 Ibid., 4, 22, 9 (p. 372). 155 Ibid. (p. 373, ll. 17-19): «Hic ipse et Irenaeus et omnis antiquorum chorus librum qui adtitulature Sapientis, Salomonis dixerunt, sicut et Prouerbia et cetera». 156 Prologus in libros Salomonis (BS 2, p. 957, ll. 10-11). 157 Su questo titolo del Libro di Ben Sira cfr. J.B. LIGHFOOT, The Apostolic Fathers, Clement of Rome, London, 1890, ad 57 (2, p. 166); E. SCHÜRER, Geschichte des Judisches Volkes4, 3, p. 220. 158 Exp. Symboli, 36 (p. 171). 159 Nell’Expositio Symboli. 160 Nell’Apol. c. Hieronymum.

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ad alcuni libri non investissero che una piccola parte di essi161. Si può

comprendere allora quanto l’impresa di Girolamo, che escludeva certi libri

dell’Antico Testamento e modificava il testo ricevuto, apparisse pericolosa, sia

per la sottomissione agli ebrei, nemici della Chiesa162, sia per il discredito che

gettava su una Legge, su una storia e su profezie che traevano buona parte del

loro valore dall’antichità. Benché i contatti riguardassero le due rive del

Mediterraneo163 e non direttamente i due uomini, certe critiche di Rufino si

riallacciano a quelle formulate da Agostino negli stessi anni164.

Non ho voluto allargare il campo d’indagine, anzi, ho preferito centrarmi in

primo luogo su Rufino e mostrare che, se la sua documentazione è più ampia di

quanto si vuol far credere, visto che comprende Atanasio e Girolamo, oltre a

Cirillo di Gerusalemme, essa può difficilmente apparire come la tradizione di una

Chiesa, si tratti di Aquileia o di Concordia, né come la tradizione di tutte le

Chiese. In realtà Rufino riunisce le tradizioni di diverse Chiese165 e le unifica, per

le ragioni sopra indicate.

Benché non possa dimostrare la certezza dell’ordine cronologico secondo cui

ho analizzato i testi – in particolare la sequenza Expositio Symboli-Apologia166–,

non mi pare possibi le considerare una qualsiasi opera di Ruf ino a l

161 Nella traduzione della Storia Ecclesiastica di Eusebio. 162 Girolamo dirà invece che il testo ebraico è più esplicito riguardo a Cristo e alla Trinità: cfr. ad es. il Prologo della traduzione del Pentateuco (BS 1, p. 3, ll. 21-25; p. 4, ll. 35-39). 163 Nel 401 Girolamo sa che una lettera, attribuita a lui, circola in Africa: in questa lettera si sarebbe pentito di aver tradotto dall’ebraico (C. Rufinum, 2, 24; 3, 25). L’anno successivo viene a sapere che Rufino ha inviato la sua Apologia in Africa (Ep. 102, 3 e 110, 6). 164 AGOSTINO, Ep. 71, 3-6 = GIROLAMO, Ep. 104, 3-6. La risposta di Girolamo (Ep. 110) ha molti punti in comune con le Prefazioni delle sue traduzioni e con il Contro Rufino. Cfr. anche AGOSTINO, Ep. 82, 35. Rapida sintesi in G. JOUASSARD, Réflexions sur la position de saint Augustin relativement à la Septante dans sa discussion avec saint Jérôme, in REAug. 2, 1956, pp. 93-99. 165 Va altresì notato che se Rufino possiede elenchi greci, non si è preoccupato di ricostruire il Canone di Cipriano o quello di Ambrogio. Nemmeno quello di Roma è stato studiato. Non mi soffermo sul catalogo del Decretum Gelasianum e sulle questioni che implica. 166 Quanto meno non è possibile separare le due opere con un intervallo di due-quattro anni.

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di fuori del contesto cronologico, né del riferimento – anche se velato – a

Girolamo e alle discussioni, orali e scritte, avute con lui. Lo vediamo dalle

numerose Prefazioni: Rufino è sempre in «dialogo» con Girolamo e con i suoi

amici. Non è difficile verificarlo anche nelle sue opere, per quanto siano

apparentemente avulse da ogni contesto polemico.

Ciò non significa che si tratti solo di attacchi, seppure velati: ho richiamato

l’attenzione sui vari prestiti, innegabili, da Girolamo. Rufino sapeva operare

alcune distinzioni. Dispiace che non abbia saputo farne altre. Ma mi sembra che

le Prefazioni indirizzate a Cromazio e a Eliodoro l’abbiano fermato167. In fondo

ha accettato l’idea di Atanasio e di Girolamo, secondo cui esistevano libri di

secondo ordine. Così facendo, sebbene non affermi esplicitamente che la

Sapienza di Salomone, l’Ecclesiastico168 e i Libri dei Maccabei non esistono in

ebraico, implicitamente rinuncia all’autorità, per lui sacra, della Settanta, in cui

trovano spazio. È soltanto una delle «contraddizioni interne» della sua posizione.

Non ne era affatto cosciente, preoccupato com’era di non far vacillare la fede

delle «folle» per le quali scriveva.

(1992)

167 Esse sono state sicuramente discusse ad Aquileia. 168 Tuttavia va ricordato che Girolamo dichiara di aver visto il testo in ebraico. L’affermazione è stata confermata dalle scoperte di Qumran e di Masada.

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220

YVES-MARIE DUVAL

Su alcune fonti latine della Storia della Chiesa

di Rufino di Aquileia

Tornato da Gerusalemme a Roma nel 397, poi ad Aquileia alla fine del 399, Rufino

si trovava in questa cittadina quando i Goti di Alarico, varcando le Alpi alla fine del

401, si diffusero nei mesi successivi nella Venetia, per riversarsi in seguito nella

pianura padana. È in questo pericoloso periodo che, su richiesta del vescovo di

Aquileia e per ridare fiducia alle popolazioni demoralizzate, Rufino tradusse la

Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, prolungandola dal 325 al 395 con due

libri più personali. Questo è per lo meno quanto dichiarato nella Prefazione generale

alla traduzione1. Senza dilungarsi troppo sul metodo e allontanandosi da Eusebio, che

trascriveva molti documenti2, Rufino dichiara di utilizzare sia le maiorum litterae o

traditiones, sia le risorse della memoria3. Nel corso di questi due libri troviamo

infatti parecchie attestazioni, che provano come Rufino ricorra a scritti e a tradizioni

orali; figurano altresì numerosi racconti, nei quali lo storico si presenta come

testimone oculare o come protagonista, garanzie che dovrebbero o potrebbero

rafforzare il valore di ciò che viene presentato.

Tuttavia a partire dal V secolo la presentazione della vita di Atanasio, e in

particolare della persecuzione che dovette subire da parte degli imperatori, è stata

messa in discussione dallo storico Socrate lo Scolastico, dopo che questi ebbe

scoperto, grazie all’analisi delle opere di Atanasio, che il vescovo di Alessandria,

contrariamente a quanto afferma Rufino, era stato mandato una prima volta in esilio

1 Eus.-Ruf., hist. eccl., prologus Rufini (ed. Th. Mommsen, GCS 9, 2, p. 951, ll. 7-15). 2 Rufino dichiara di aver accorpato al libro 9 di Eusebio una parte del libro 10 (p. 952, ll. 4-9), perché questo comprendeva panegirici che non apportavano nulla al racconto. 3 Prologus (p. 952, ll. 10-11): decimum uel undecimum librum nos conscripsimus partim ex maioribus traditionibus, partim ex his quae nostra iam memoria conprehenderat..., e nella breve prefazione ai propri libri (p. 957, ll. 3-4): quae uel in maiorum litteris repperimus uel nostra memoria attigit...

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da Costantino4. Da quel momento in poi questo palese errore ha gravato sulla credibilità

accordata a Rufino. Credibilità che si è vista diminuire ancora nel XX secolo, dopo che A.

Glas ha affermato che i due libri di Rufino derivano essenzialmente da un modello greco

che egli non avrebbe fatto altro che tradurre, salvo completarlo con qualche aggiunta5; la

stretta parentela del racconto di Rufino con il Syntagma di Gelasio di Cizico da un lato6 e

con la Cronaca di Giorgio il Monaco7 dall’altro si spiegherebbe con il debito comune nei

confronti della Storia Ecclesiastica e della continuazione di quella di Eusebio di Cesarea

da parte di Gelasio di Cesarea, nipote di Cirillo di Gerusalemme, di cui Fozio descrive

parzialmente l’opera nel Codex 89 della sua Biblioteca8. A partire dal 1914 non sono più

cessate le discussioni sull’identità di Gelasio, sull’esistenza o meno di una traduzione greca

dei libri di Rufino, nonché sulla natura e sull’importanza dell’opera di Gelasio9. Si è

creduto più volte di apportare elementi determinanti per una risposta globale. Sono stati

scoperti altri potenziali utilizzatori della Storia di Gelasio, in particolare i biografi di

Atanasio e di Costantino, senza che la questione potesse essere considerata pienamente

chiarita. Winkelmann, che ha condotto l’ultimo studio d’insieme, tempera l’ottimismo di

Glas, che attribuiva a Gelasio l’insieme dei due libri di Rufino, eccezion fatta per i capitoli

da 7 a 9 del secondo libro10, ma rivendica per Gelasio, in modo quasi certo, i primi

quindici capitoli del libro 10 e forse l’insieme del libro fino al capitolo 3 del libro 1111.

4 Socr., hist. eccl. 2, 1 (ed. G.-Ch. Hansen - M. Sirenjam, GCS, Neue Folge 1, Berlin 1995, pp. 92-93). 5 A. Glas, Die Kirchengeschichte des Gelasios von Kaisareia, die Vorlage für die letzten Bücher der Kirchengeschichte Rufins (Byzantinisches Archiv 6), Leipzig - Berlin 1914. 6 Cfr. l’edizione di G. Loeschcke - M. Heinemann, GCS 28, Leipzig 1918. 7 Per il libro 11 Mommsen ha trascritto in nota il testo di Giorgio secondo l’edizione di Muralto. Ormai viene utilizzata l’edizione di C. de Boer (Leipzig 1904, 2). Tuttavia per i rimandi al testo farò riferimento al testo latino di Rufino. 8 Ed. R. Henry, CUF 2, p. 15. Il Codex 89 e quello precedente su Gelasio di Cizico sono stati oggetto di numerose esegesi. Gli ultimi studi degni di nota sono quelli di J. Schamp, Gélase ou Rufin: un fait nouveau. Sur les fragments oubliés de Gélase de Césarée (CPG, no 3521), «Byzantion» 57, 1987, pp. 360-390; P. Nautin, La continuation de ´l’Histoire ecclésiastique´ d’Eusèbe de Césarée par Gélase de Césarée, «Revue des Études Byzantines» 50, 1992, pp. 163-183. 9 Bibliografia disponibile in E. Honigmann, Gélase de Césarée et Rufin d’Aquilée, «Bulletin de l’Académie Royale de Belgique» 40, 1954, pp. 122-161 e soprattutto pp. 122-123; e nella recentissima edizione della Storia Ecclesiastica di Socrate a cura di G.-Ch. Hansen - M. Siringan, (GCS, NF 1), Berlin 1995, p. XLV, n. 2. Storia delle discussioni in Fr. Winkelmann, Untersuchungen zur Kirchengeschichte des Gelasios von Kaisareia, «Sitzungsberichte der Deutschen Akademie der Wissenschaften zur Berlin» 1965, III, Berlin 1966, pp. 6-7. 10 Glas, Die Kirchengeschichte, cit., pp. 23-24, 65. 11 Winkelmann, Untersuchungen, cit., pp. 103-105. Tuttavia si continua a fare come se Gelasio avesse continuato la Storia di Eusebio fino al 395 e come se Giorgio non facesse altro che riprodurre tale testo.

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222

Non intendo riprendere in esame l’intera questione. Vorrei soltanto presentare a mia volta

qualche nuovo aspetto riguardante i due libri: in primo luogo l’utilizzo da parte di Rufino di

alcune pagine occidentali, che non hanno niente a che vedere con Gelasio. Comincerò dai

prestiti più evidenti; questi consentiranno di analizzare in seguito alcune pagine nelle quali

l’influenza si lascia intravedere meno facilmente, prima di ritornare alla parte che ha suscitato

le critiche di Socrate. Forse ci meraviglieremo nello scoprire l’origine degli errori di Rufino.

I

Nella vita di Ambrogio di Milano vi sono pochi episodi celebri come le dispute con Giustina,

madre di Valentiniano II, durante gli anni 385-387. Dalla testimonianza dello stesso Ambrogio

e grazie al suo biografo Paolino di Milano12 conosciamo piuttosto bene la crisi che conobbero i

loro rapporti durante il 386. Rufino vi dedica due capitoli13, inserendoli nella trama politica

dell’usurpazione di Massimo e della restaurazione di Valentiniano II da parte di Teodosio. La

resistenza di Ambrogio è ritratta in numerose sequenze drammatiche, intervallate dal racconto

e dalla messa in scena dell’atteggiamento coraggioso del «maestro della memoria», Benevolo.

Questi si rifiutò, come viene detto, di redigere «decreti imperiali contro la fede dei Padri».

Infine Rufino riporta l’intervento di Massimo, che protesta dapprima per iscritto con

Valentiniano II e che, presentandosi come difensore della fede cattolica, si avvicina all’Italia,

provocando l’allontanamento di Giustina. Rufino conclude facendo notare come Giustina sia

stata così la prima a conoscere l’esilio di cui minacciava i vescovi, in particolare Ambrogio.

In modo abbreviato ma sostanzialmente analogo e talvolta letteralmente identico, troviamo

uguale presentazione in Giorgio14. Glas non ha quindi esitato a dire che questi ha avuto lo

stesso modello di Rufino, salvo attribuire qualche aggiunta allo storico latino15. Winkelmann

non si è soffermato su questa parte. Tuttavia essa contiene il racconto di un episodio che non

troviamo né in Ambrogio né in Paolino: quello della resistenza di Benevolo. Socrate non ne fa

cenno alcuno16; Sozomeno, che ha letto sia Socrate sia Rufino, ne parla solo in breve, ma in un

modo che non può far pensare di aver dato origine al testo di Giorgio, fosse anche soltanto

perché egli lo chiama Menibolus17.

Tralasciando le pagine rufiniane, Benevolo è noto soprattutto grazie a Gaudenzio di

Brescia. Questi ha dedicato diciannove delle sue omelie, principalmente del tempo

pasquale, a questo honoratus di Brescia, che non aveva potuto ascoltarle a causa di una

12 Paol., v. Ambrosii 12-14. 13 Ruf., 11, 15-16. 14 Mommsen (testo greco in nota), p. 1020, l. 5 - p. 1022, l. 8. 15 Glas, Die Kirchengeschichte, cit., pp. 67-68. 16 Socr., hist. eccl. 5, 11, 2-12. Così Teodor., hist. eccl. 5, 13. 17 Socr., hist. eccl. 7, 13, 5-6. Su Menibolos, cfr. l’apparato critico di Bidez - Hansen, GCS 50, p. 317, 5.

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223

malattia. È quanto rievoca la Prefazione alla raccolta18, che richiama alla memoria

anche l’atteggiamento coraggioso di Benevolo, in un periodo in cui non era ancora

battezzato, al tempo della persecuzione di Ambrogio da parte di Giustina, la «Jezabel

dei giorni nostri». Il maestro della memoria, al quale questa chiedeva di redigere un

testo di legge «contro le chiese cattoliche», ha preferito «vivere da uomo privato» –

vale a dire dimettersi – rifiutando la promozione promessagli, piuttosto che compiere

ciò che gli veniva chiesto. Confrontando ciò che il vescovo dice di Benevolo, non vi

è dubbio alcuno che Rufino conoscesse questo testo e che lo abbia riscritto in

maniera più drammatica.

GAUDENZIO DI BRESCIA Praefatio ad Beniuolum 4-5 4. Nec mirum si hodie taliter in timore Domini conuerseris, qui necdum percepta baptismi gratia, ita pro fidei caelestis ueritate pugnasti... 5. Nostri namque temporis regina IEZABEL, Arrianae patrona simul ac socia, cum beatissimum persequeretur Ambrosium..., te quoque, ea tem-pestate magistrum memoriae, oblitum salutaris fides arbitrata, contra catholicas DICTARE ecclesias compellebat. Quod ne faceres, ultro et promotionis pollicitatae dignitatem et ambitionem saeculi gloriamque mundanam pro Dei gloria contempsisti, magis eligens priuatus uiuere quam militare

RUFINO Historia Ecclesiastica 11, 15-16 Sed quamuis illa HIEZABEL spiritu pugnaret armata, resistebat tamen Ambrosius Heliae uirtute repletus et gratia... Interim DICTANDA aduersus fidem patrum imperialia decreta mandantur Beniuolo tunc memoriae scriniis praesidente. Sed ille, cui ab incunabulis sacra fides et uenerabilis fuit, abnegat se impia posse uerba proferre et contra Deum loqui. Tum uero, ne inceptum reginae frustra uideretur, celsior ei honos promittitur si impleret iniuncta. Ille, qui nobilior in fide esse quam in honoribus cuperet, «Quid mihi, ait, pro impietatis mercede auctiorem promittitis gradum? Hunc ipsum quem habeo, tollite, tantum mihi conscientia fidei duret inlaesa». His dictis, ante pedes impia praecipientium cingu- lum iecit.

È quindi a Gaudenzio, e non alla sua immaginazione come vorrebbe

Glas19, che Rufino deve l’identificazione di Giustina con Jezabel. La funzione

18 Gaud., Tractatus, praefatio ad Beniuolum 7 (ed. A. Glück, CSEL 68, p. 4, ll. 33-41). 19 Glas, Die Kirchengeschichte, cit., p. 67 in fondo.

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224

di Benevolo, il cui senso è sfuggito a Giorgio20, era facile da indovinare per il lettore

dell’epoca. Essa è data in modo più tecnico, ma meno corrispondente allo stile della storia,

da Gaudenzio. Tuttavia Rufino, come Gaudenzio, enuncia con il termine dictare ciò che è il

ruolo essenziale del maestro della memoria: redigere le leggi. Per il resto Rufino ha ampliato

la scena, scomponendola in vari episodi. La promessa di una promozione viene avanzata

solo dopo un primo rifiuto21. Ma soprattutto Benevolo unisce la parola all’atto per spiegare la

propria condotta. Laddove Gaudenzio non faceva altro che rievocare il ritorno alla vita

privata, Rufino descrive colui che getta il cinturone – emblema della pubblica funzione – ai

piedi di coloro che gli danno ordini contrari alla sua fede.

Abbiamo a quanto pare un bell’esempio del modo in cui Rufino ha utilizzato le proprie

fonti, il che spiega probabilmente la frequenza delle scene in stile diretto. Non dobbiamo

cercare Gelasio di Cesarea in questo passo. Egli forse è già morto quando Gaudenzio redige

questa Prefazione22, dato che questi è diventato vescovo di Brescia negli ultimi anni

dell’episcopato di Ambrogio († 397), suo consacratore. Quanto a Rufino, sappiamo che egli

conosceva Gaudenzio. Non soltanto gli ha dedicato la traduzione delle Recognitiones

Clementis23, ma ha approfittato della sua protezione dopo esser stato messo sotto accusa a

Milano nel 40024. È quindi del tutto naturale che verso il 402-404 egli abbia conosciuto gli

scritti di un protettore che considerava un dottore del suo tempo25. Invece è poco plausibile

che Gaudenzio abbia dovuto consultare la Storia di Rufino per conoscere i fatti e le gesta di

una persona che considera la gloria della sua chiesa26.

Siamo quindi in presenza di una fonte latina indubbia e quasi contemporanea

dell’epoca in cui Rufino compone la sua Storia. Questa si lascia riconoscere molto

meglio di quelle – scritte o orali – che avvalorano il racconto dei vari tentativi di

Giustina di restaurare la fede di Rimini. Vi è tuttavia ancora un testo di cui Rufino

conosce per lo meno l’esistenza: la lettera (o le lettere) con cui Massimo si presentava

difensore della fede e della Chiesa. Di fatto conosciamo, grazie alla Collectio

Avellana, una lettera di Massimo a Valentiniano II e un’altra a Siricio27, che

20 Giorgio non indica la funzione di Benevolo e riassume in tre righe le nove righe di Rufino. 21 Si noti che, secondo Rufino, Benevolo ha sempre nutrito un profondo rispetto per la fede cristiana. Gaudenzio invece sottolineava che non era ancora battezzato. A dire il vero non c’è alcuna contraddizione. Ma si può cogliere il modo di fare di Rufino, che abbellisce la verità. 22 Honigmann (Gélase et Rufin, cit., pp. 126-127) ha mostrato che nel 400 Gelasio ha già un successore, stando alle epist. 92-93 di Girolamo. 23 Rufin, prologus in Clementis recognitiones, (CChL 20, p. 281). 24 Y.-M. Duval, Le ´Liber Hieronymi ad Gaudentium´: Rufin d’Aquilée, Gaudence de Brescia et Eusèbe de Crémone, «Revue Bénédictine» 97, 1987, pp. 163-186 e soprattutto pp. 174, 176, 185. 25 Prologus (n. 23), p. 281, ll. 1-2. 26 Praefatio (n. 18) 1-2, p. 3, ll. 4-10. 27 Coll. Avell. 39-40 (ed. O. Günther, CSEL 35, 1, pp. 88-91).

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225

corrispondono grossomodo a quanto afferma Rufino28. È poco probabile che tali lettere

fossero conosciute in Oriente. Il testo di Giorgio parla proprio di grammata29, ma la sua

frase mostra che egli non ha letto le lettere di Massimo, perché non si parla di Giustina.

La frase successiva passa invece sotto silenzio la presenza di Valentiniano II, che tuttavia

va in esilio con la madre. La stoccata finale della frase viene comunque rispettata. Ciò

che intende mostrare Rufino è la punizione dell’empietà: Giustina, che minacciava di

esilio Ambrogio, è la prima ad andarci, spinta certo dall’avvicinarsi del nemico, ma

anche «dalla coscienza della propria empietà»30. Una delle «chiavi» della Storia di

Rufino è proprio questa specie di giustizia immanente. La vedremo all’opera a proposito

della morte di Valente, per la quale egli ricorre alla Cronaca di Girolamo.

II

Rufino conosce bene questa Cronaca. Nella sua Apologia viene citata due volte31. Una

di queste, in cui appare il suo nome, riguarda l’anno 377, subito prima che Girolamo

rievochi l’invasione della Tracia da parte dei Goti, attaccati dagli Unni, nonché

l’esecuzione di Valente, che muore bruciato vivo dopo aver tardivamente richiamato

dall’esilio i Niceni32. È sufficiente stabilire un parallelo con il racconto di Rufino per

constatare numerose somiglianze, ma soprattutto un’espressione comune, rivelatrice da

sola di un prestito. GIROLAMO Chronicon a. 377-378 a. 377 Gens Hunnorum Gothos uastat. Qui, a Romanis sine armorum depositione suscepti, per auaritiam Maximi ducis fame ad rebellandum coacti sunt. Superatis in congressione Romanis, Gothi FUNDuntur in THRACIA. a. 378 Valens, de Antiochia exire conpulsus, SERA PAENITENTIA nostros de exiliis reuocat.

RUFINO Historia Ecclesiastica 11, 13 Per idem tempus, in Orientis regno, Gothorum gens, sedibus suis pulsa, per omnes se THRACIAS inFUDIT armisque urbes et agros uastare feraliter coepit. Tum uero, Valens, bella quae ecclesiis inferebat in hostem coepta conuerti SERAque PAENITENTIA episcopos et presbyteros relaxari exiliis ac de metallis resolui monachos iubet.

28 Ruf., 11, 16 (p. 1022, ll. 5-8). 29 Mommsen, p. 1022, ll. 3 sgg. 30 Ruf., 11, 16 (p. 1022, ll. 9-11). 31 Ruf., apol. c. Hieronymum 2, 28-29 (ed. M. Simonetti, CChL 20, p. 105). 32 Gir., chron. a. 377-378 (ed. R. Helm, GCS 57, pp. 248-249).

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226

Lacrimabile bellum in Thracia. In quo deserente equitum praesidio Romanae legiones a Gothis uinctae usque ad internecionem caesae sunt. Ipse imperator Valens, cum sagitta saucius FUGERET et ob dolorem nimium saepe equo laberetur, ad cuiusdam uillulae casam deportatus est. Quo, persequentibus barbaris et incensa domo, sepultura quoque caruit.

Ipse tamen ad hostibus circumuentus, in praedio quo ex bello trepidus conFU-GERAT impietatis suae poenas igni exustus dedit...

Se non fosse per l’indizio determinante costituito dalla menzione, da ambo le parti,

della sera paenitentia di Valente, si potrebbe contestare la dipendenza di Rufino nei

confronti di Girolamo e dire che questi offre un rapido riassunto delle vicende militari

occorse tra il 376 e il 378. Una volta colta, invece, la presenza di un «modello» si è in

grado di scoprire il modo di fare di Rufino. Pur mantenendo l’ordine di Girolamo33,

egli elimina sia le figure di secondo piano sia i fatti annessi, per incentrare la

presentazione sulla punizione di Valente. Non sono più le legioni romane a essere

accerchiate, ma l’imperatore stesso, che fugge tutto tremante – nessun cenno alla sua

ferita! –. Al contrario, mentre Girolamo aveva designato coloro che ritornavano

dall’esilio semplicemente con il termine generico di nostri, Rufino, che ha elencato

all’inizio del regno di Valente le varie condanne subite dai vescovi, dai preti, dai

diaconi e dai monaci34, riprende pressappoco la stessa enumerazione e mette in

relazione la «guerra» condotta fino ad allora contro i Niceni con quella che Valente

conduce contro i nemici esterni. Non aveva forse dipinto Lucio, vescovo ariano di

Alessandria, come colui che inviava contro i monaci del deserto un vero e proprio

esercito, «come se dovesse combattere contro i barbari»35? Rufino scrive queste pagine

all’indomani della prima invasione di Alarico. È a questa che pensa, quando

aggiunge che la sconfitta-punizione fu «l’inizio della disgrazia per l’Impero

33 Al contrario Giorgio il Monaco non soltanto commette un errore cronologico, collocando la morte di Valente (378) prima di quella di Valentiniano I (375) (Mommsen, p. 1019), ma ribalta il testo di Rufino, citando il voltafaccia di Valente prima dell’invasione dei Goti (ibid.). 34 Ruf., 11, 2 (Mommsen, p. 1003, ll. 5-8). 35 Ruf., 11, 3 (Mommsen, p. 1004, ll. 10-12), assente in Giorgio.

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227

romano»36. Ritroveremo questi barbari al momento della battaglia sul fiume Frigido37,

ma prima ancora durante il regno di Costantino, in una specie d’immagine antitetica.

III

Prima di tutto, forti della certezza offerta dall’uso sicuro di questa pagina della

Cronaca su Valente, dobbiamo esaminare qualche altra sequenza, in cui il quadro

cronologico proposto da Girolamo e l’indicazione degli eventi politici e religiosi

menzionati da Rufino coincidono perfettamente con i dati della Cronaca, per cui ci si

può chiedere se non sia questa che ha in qualche modo determinato la scelta di Rufino38.

Il primo esempio riguarda la presentazione di Valentiniano I, del suo governo e dei

principali eventi religiosi occorsi sotto il suo regno, prima che vengano indicate le

circostanze della sua morte.

Innanzitutto il giudizio d’insieme su Valentiniano. Quello di Girolamo è misurato,

giacché riconosce all’imperatore grandi qualità, ma spinte a un grado tale da passare,

secondo alcuni, per difetti. Rufino, che sul piano religioso vuole opporre

Valentiniano al fratello, mantiene soltanto la parte favorevole del giudizio politico,

facendo di Valentiniano un degno rappresentante dell’antica Roma. GIROLAMO Chronicon a. 365 Valentinianus, egregius alias imperator et Aureliano moribus similis, nisi quod seueritatem eius nimiam et parcitatem quidam crudelitatem et auaritiam interpretabantur.

RUFINO Historia Ecclesiastica 11, 9 Valentinianus, fide religionis inlaesus, uetere Romani imperii censura rem publicam gubernabat.

La seueritas è sostituita dalla censura, di cui il traduttore greco (oppure Giorgio il

Monaco) non ha compreso il senso nobile39. Valentiniano risulta, mediante questa

36 Ruf., 11, 13 (Mommsen, p. 1020, ll. 4-5): Quae pugna initium mali Romano imperio tunc et deinceps fuit (assente in Giorgio). Si noti come le devastazioni della Tracia (armisque urbes et agros uastare feraliter coepit) e quelle della Venetia (agros, armenta, uirosque longe lateque uastauit) vengano dipinte in termini analoghi. 37 Ruf., 11, 33 (Mommsen, p. 1038, ll. 6-8). Nessun cenno in Giorgio. 38 Non nascondo affatto che, presi singolarmente, tali passi non spingono a credere in una dipendenza. Parimenti non ho difficoltà a riconoscere che Rufino ha modificato i giudizi di Girolamo; tuttavia credo sia stato aiutato dal quadro che gli forniva Girolamo e dalla sua scelta degli eventi significativi. 39 Sostituisce censura con «authentia», che designa invece l’auctoritas, se non addirittura l’imperium.

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228

censura, degno dei tempi remoti della storia romana – uetus –, collocato

implicitamente tra i buoni imperatori. Si raggiunge così, senza mostrarlo

esplicitamente, l’egregius alias imperator di Girolamo. Rufino è solito a questo

genere di uersio. Ma Valentiniano si ritrova anche implicitamente paragonato a

Costantino, del quale la parte finale della traduzione della Storia di Eusebio lodava

proprio la censura40.

Oltre ai decessi di Ilario di Poitiers, di Eusebio di Vercelli e di Lucifero di Cagliari,

la Cronaca segnala, durante il regno di Valentiniano, solo due fatti importanti per le

chiese d’Occidente: le elezioni di Damaso a Roma e di Ambrogio a Milano,

limitandosi per Aquileia a rievocare la vita comunitaria del clero. Rufino, sulla scia

di Eusebio, molto attento alle successioni episcopali, ricorda soltanto i primi due

eventi. Il primo, completamente assente in Giorgio, senza poter trarre grandi

conclusioni41, è trattato in un modo che non è privo di attinenza con quello in cui

Girolamo ha presentato ellitticamente la controversia tra Damaso e Ursino.

GIROLAMO Chronicon a. 366 Romanae ecclesiae XXXV ordinatur episcopus Damasus et, post non multum temporis interuallum, Vrsinus, a quibusdam episcopus constitutus, Sicininum cum suis inuadit. Quo Damasianae partis populo confluente crudelissimae interfectiones diuersi sexus perpetratae.

RUFINO Historia Ecclesiastica 11, 10 Damasus post Liberium per successionem sacerdotium in urbe Roma susceperat. Quem praelatum sibi non ferens Vrsinus quidam eiusdem ecclesiae diaconus, in tantum furoris erupit ut, persuaso quodam satis imperito et agresti episcopo, collecta turbulentorum et seditiosorum manu, in basilica quae Sicinini appellatur episcopum se fieri extorquerat, legibus et traditione peruersis. Quo ex facto tanta seditio, immo uero tanta bella coorta sunt, alterutrum defendentibus populis, ut replerentur humano sanguine orationum loca...

I punti di divergenza non mancano tra i due testi. Sarebbero ancora più numerosi, se si

tenesse conto del seguito del testo di Rufino. Questo fa intervenire il «prefetto Massimino»,

contrariamente a quanto sappiamo da altre fonti42. Ma se si esamina lo schema dei due testi

40 Eus.-Ruf., 11 (=10), 9, 6 (Mommsen, p. 901, l. 3 - p. 903, l. 1). 41 Tuttavia Glas (Die Kirchengeschichte, cit., p. 65) lo fa derivare da Gelasio. Cfr. le riserve di Winkelmann, Untersuchungen, cit., p. 91. 42 Ruf., 11, 10 (Mommsen, p. 1018, ll. 2-6). Secondo Ammiano è intervenuto il prefetto della città Vivenzio (Res gestae 27, 3, 12-13). Anche le Gesta inter Liberium et Felicem

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229

di cui sopra e lo si confronta con ciò che conosciamo di questi eventi grazie ad altre fonti, si può

constatare che Rufino, senza capire molto bene l’errata presentazione di Girolamo, l’ha ampliata,

prendendo decisamente le parti di Damaso. Dalla presentazione di Rufino, infatti, risulta che

Ursino sarebbe stato consacrato dopo Damaso, e questo nella Basilica Sicinini. Ora, se si

confronta la notizia ellittica di Girolamo con il racconto offerto da un avversario di Damaso, si

scoprirà che l’occupazione del Sicininum è stata effettuata solo quando l’elezione e la

consacrazione di Ursino avevano già avuto luogo43. L’attacco dei sostenitori di Damaso,

chiaramente segnalato da Girolamo, contro la Basilica in cui si trovano i sostenitori di Ursino si

trasforma in Rufino in una serie di scontri a responsabilità condivisa. Ecco qui un nuovo esempio

del modo con cui lo storico sa rimaneggiare e colorare i fatti. Nella fattispecie, egli scredita

Ursino. A tal fine non necessita di ulteriori informazioni, anche se è passato per Roma al ritorno

dalla Palestina o ha potuto addirittura essere presente al momento dei fatti44.

Per l’elezione di Ambrogio, che nella Storia segue immediatamente quella di Damaso, seppure

di otto anni precedente, egli non poteva trovare molti dettagli in Girolamo. Questi si limitava a

segnalare la tardiva morte di Aussenzio e il ritorno all’ortodossia di tutta l’Italia settentrionale, in

seguito all’elezione di Ambrogio45. Rufino è un difensore e un ammiratore di Ambrogio46. È

venuto a Milano dopo appena tre anni dalla morte del vescovo ed è stato in contatto con i fedeli

di Ambrogio, quali Gaudenzio, già nominato, e Cromazio, il vescovo per il cui gregge compone

questa Storia. Non c’è da stupirsi che Rufino ci offra il primo racconto della movimentata

elezione di Ambrogio. Paolino di Milano non si scosterà di molto dalla sua presentazione, che

con tutta probabilità ha trovato confermata localmente47. «Giorgio», in compenso, conosce così

poco Ambrogio da affibbiargli un tis, che dimostra la sua ignoranza nei confronti di un

personaggio noto a tutti nell’Occidente della fine del IV secolo48. Il resto della presentazione, con

le relative omissioni e modifiche, mi sembra molto meno scorrevole rispetto a quella di Rufino.

La morte di Valentiniano segue cronologicamente l’elezione di Ambrogio. Rufino

concatena e precisa numerose indicazioni giustapposte da Girolamo.

fanno intervenire Vivenzio e il prefetto dell’annona Giuliano (Coll. Avell. 1, 6 - CSEL 35, 1, p. 3). 43 Gesta 5-7 (Ibid. p. 2, l. 23 - p. 3, l. 21). 44 Rufino si trovava verosimilmente a Roma (come pure Girolamo) nel 366. 45 Gir., chron. a. 374 (Helm, p. 247): Post Auxenti seram mortem Mediolanii Ambrosio episcopo constituto omnis ad fidem rectam Italia conuertitur. 46 Ruf., apol. c. Hier. 2, 25 (CChL 20, p. 101, ll. 12-14); 2, 26 (p. 102, ll. 19-21); 2, 28 (p. 104, ll. 6-16). 47 Il racconto dell’elezione offerto da Paolino (v. Ambrosii 6-7) è modellato in buona parte su quello di Rufino: cfr. M. Pellegrino, Paolino di Milano, Vita di S. Ambrogio, Roma 1961, pp. 16-17. 48 Mommsen, p. 1018, ll. 5-6 del testo greco in nota.

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GIROLAMO Chronicon a. 375 Quia superiore anno Sarmatae Pannonias uastauerant, idem consules permanere. Valentinianus, subita sanguinis eruptione, quod Graece apoplexis uocatur, Brigitione moritur. Post quem, Gratianus, adsumpto in imperium Valentiniano fratre, cum patruo Valente regnat.

RUFINO Historia Ecclesiastica 11, 12 Interea, cum ad bellum Sarmaticum Valentinianus de Galliae partibus uenisset Illyricum, ibi, uixdum coepto bello, aegritudine subita oppressus diem obiit, relictis heredibus in imperio filiis, Gratiano Augusto Valentinianoque admodum paruulo et nondum regiis insignibus initiato. Quem tamen necessitas eorum qui tamquam uacuum imperii locum conabantur inuadere, compulit, etiam absente fratre, purpura indui, Probo tunc Praefecto fideliter rem gerente.

Stessa rievocazione della guerra contro i Sarmati – mentre Ammiano parla,

attraverso le circostanze precise della morte dell’imperatore, dei Quadi49 –; stessa

morte improvvisa – senza termine tecnico in Rufino, com’è d’obbligo per uno storico

–; stessa menzione dei successori. Sicuramente le modifiche non mancano da parte di

Rufino. Girolamo, indicando la città in cui è morto Valentiano, lascia al lettore il

compito di scoprire che Valentiano vi era giunto da Treviri. Rufino lo esplicita, pur

rimanendo sul vago riguardo al luogo del decesso. Ma soprattutto Rufino è in grado

di precisare il ruolo e lo scopo di Probo, essendo un amico intimo della famiglia. Non

aveva forse scritto un insieme di lettere per la sposa del Prefetto50? Anche qui

Ammiano tace su un simile intervento51. Quanto a Giorgio, il suo testo ignora la

carica di Probo. Basta dire, come fa Glas52, che la parola huparchou è venuta meno?

Non mi spingerei fino a dire che Rufino utilizza il quadro di Girolamo, se il

seguito immediato non mostrasse, come si è visto, che la presentazione della

49 Ammiano, Res gestae 30, 6, 1-3. Ci fu sì un’incursione dei Sarmati e dei Quadi nel 373 (29, 6, 8) e Valentiniano vide effettivamente arrivare nel 375 una delegazione di Sarmati (30, 5, 1), ma è contro i Quadi che questi prepara una spedizione (30, 5, 11) ed è ricevendo un’ambasciata dei Quadi (30, 6, 1) che muore per un colpo apoplettico (30, 6, 3): erumpente subito sanguine. 50 Cfr. Gennadio, uir. ill. 17 (PL 58, col. 1070): Scripsit et epistolas ad timorem Dei hortatorias multas, inter quas praeminent illae quas ad Probam dedit. 51 Ammiano, che ha rievocato la Prefettura di Probo e ha ritratto il personaggio con tinte molto fosche (30, 5, 4-10), non dice nulla circa il suo ruolo nella successione (30, 10, 4-76) di Valentiniano. Girolamo (chron. a. 372) non era tenero nei confronti di Probo. 52 Glas, Die Kirchengeschichte, cit., p. 66.

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morte di Valente, di poco successiva, s’ispira in buona parte alla Cronaca. Questa

lettura e quest’utilizzo sono parimenti distinguibili, seppure a diversi gradi, nel primo

libro, a proposito di Costantino e degli anni successivi alla sua morte.

IV

Dopo aver mostrato la devozione di Costantino – nella riunione del Concilio di

Nicea53 – e quella della madre – con la scoperta della Croce di Cristo a

Gerusalemme, come pure nel modo di mettersi al servizio delle vergini consacrate54

–, Rufino d’un tratto dedica alcune righe all’azione di Costantino nei confronti dei

barbari, prolungandole in modo del tutto inatteso mediante la menzione di lettere

indirizzate dall’imperatore e dai suoi figli ad Antonio, il «primo abitante del

deserto»55.

GIROLAMO Chronicon a. 332: Romani Gothos in Sarmatarum regione uicerunt. a. 334: Sarmatae Limigantes dominis suis, qui nunc Argaragantes uocantur, facta manu, in Romanum solum expulerunt. a. 335: Constantinus cum liberis suis honorificas ad Antonium litteras mittit.

RUFINO Historia Ecclesiastica 10, 8 Interea, Constantinus, pietate fretus, Sarmatas, Gothos aliasque barbaras nationes, nisi quae uel amicitiis uel deditione sui pacem praeuenerant, in solo proprio armis edomuit. Et quanto magis se religiosius et humilius Deo subiecerat, tanto amplius ei Deus uniuersa subdebat. Ad Antonium quoque, primum heremi habitatorem, uelut ad unum ex profetis, litteras suppliciter mittit, uti pro se ac liberis sui Domino supplicaret. Ita, non solum meritis suis ac religione matris, sed et intercessione sanctorum commendabilem se Deo fieri gestiebat. Sane quoniam tanti uiri Antonii fecimus mentionem...

Che i Romani avessero combattuto i Goti venendo in soccorso dei Sarmati, lo

sappiamo dai Consularia Constantinopolitana56, che Girolamo probabilmente segue.

53 Ruf., 10, 1-5 (Mommsen, pp. 960-965). 54 Ruf., 10, 7-8 (Mommsen, pp. 969-971, l. 4). 55 Ruf., 10, 8 (Mommsen, p. 971, ll. 8-9). Dicendo questo, Rufino nega implicitamente ciò che Girolamo diceva di Paolo l’Eremita nella sua v. Pauli. 56 Consularia Constantinopolitana a. 332 (ed. Th. Mommsen, MGH AA 9, 1 p. 234).

Page 228: Fusco Enrico

232

Questi rievoca poi allo stesso modo la rivolta di una parte dei Sarmati contro i loro capi, che si

ritrovano espulsi dal territorio e devono cercare rifugio presso i Romani. Rufino ha non

soltanto raggruppato i due eventi, ma ha anche incrementato la potenza di Costantino: «altre

nazioni barbare» sono da lui vinte o fanno spontaneamente atto di sottomissione. Certo,

troviamo in Gelasio di Cizico l’indicazione che «molte altre nazioni barbare» gli hanno chiesto

la pace57, ma possiamo capire che i popoli di cui si tratta sono gli Indiani e gli Iberi, la cui

evangelizzazione, raccontata in seguito, dà luogo a buoni rapporti con l’Impero romano. Allo

stesso modo di Rufino, «Gelasio» nota come Costantino debba queste conquiste e

quest’amicizia alla sua devozione a Dio58, ma non fa nessun cenno ad Antonio, rievocato da

Girolamo per l’anno 335, anno che, per lui, segue cronologicamente la menzione dei Sarmati.

Glas riconosce che quanto detto da Rufino della Vita Antonii59 e in particolare della sua

traduzione latina può essere soltanto un’aggiunta dello storico60. D’altra parte la natura e il

contenuto della lettera di Costantino ad Antonio in Giorgio il Monaco sono diversi, dato

che l’imperatore avrebbe chiesto all’eremita di venirlo a trovare61. Più che altro Rufino

vede in Antonio un profeta. Ciò equivale a dire, senza attribuirgli la benché minima

profezia, che Rufino ne fa un omologo del monaco Giovanni, che rivestirà presso

Teodosio questo ruolo di consigliere e di profeta62.

V

Il 335, anno in cui Girolamo cita la corrispondenza di Costantino e dei suoi figli con

Antonio, è anche l’anno del Concilio di Tiro, in seguito al quale Atanasio venne

condannato da Costantino all’esilio in Gallia. Girolamo non fa cenno né all’uno né all’altro

evento. Ma prima di segnalare le circostanze della morte dell’imperatore nel 337, indica

che fu «battezzato da Eusebio di Nicomedia e da allora si avvicinò all’arianesimo, fatto cui

fecero seguito – fino a oggi – la confisca di chiese e la divisione degli spiriti in

tutto il mondo»63. Tuttavia appena nel 339 segnala l’inizio della persecuzione

57 Gelas. Ciz., Syntagma 3, 9, 1 (GCS 28, p. 148, ll. 3-4). 58 Ibid., p. 148, ll. 5-7. 59 Ruf., 10, 8 (Mommsen, p. 971, ll. 12-18). Il seguito contiene una dichiarazione di Rufino sulle sue scelte: egli ometterà quanto riportato da altri (da chi, a parte Atanasio nella Vita di Antonio?) e si dedicherà a ciò che è rimasto ignoto dell’Occidente a causa della distanza. Ma è stato veramente applicato un simile principio? 60 Glas, Die Kirchengeschichte, cit., p. 48. 61 Ibid., p. 48. Boor, II, p. 523, ll. 13-17. Giorgio il Monaco trascrive poi il cap. 81 della v. Antonii (Boor, p. 524, l. 9 - p. 525, l. 10). 62 Ruf., 11, 19 (Mommsen, p. 1024, ll. 1-3: spiritu profetico repleuit (Deus); 11, 32, p. 1036, ll. 14-18). 63 Gir., chron. a. 337.

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233

ariana, che attacca, sotto la protezione di Costanzo, «innanzitutto Atanasio»64. Se Girolamo rievoca

esili e prigioni, non precisa quale fu la sorte del vescovo di Alessandria. Le note che seguono

riguardano, più che le questioni religiose, le dispute e le azioni dei figli di Costantino65. Bisogna

andare al 343 per scoprire che Atanasio, «ricercato da Costanzo», viene accolto a Treviri66 e fino al

346 per apprendere che il vescovo fa ritorno ad Alessandria, «su lettera dell’imperatore Costante»67.

Disponiamo di una documentazione abbastanza precisa per sapere che gli eventi non si sono

svolti in questa maniera e che gli itinerari di Atanasio possono essere seguiti in modo ben più

dettagliato ed esatto. Ricordiamo che già Socrate si era rifatto agli scritti di Atanasio per

correggere la cronologia di Rufino. Questi ha usato il canovaccio di Girolamo, arricchendolo in

modo cospicuo, ma solo raramente verificabile. Riguardo al progetto di reintegrazione di Ario a

Costantinopoli sotto l’episcopato di Alessandria, Rufino rimanda agli «scritti di Atanasio»68 ed è

probabilmente da questi che ottiene informazioni sulla morte di Ario69. In maniera più vaga,

dichiara di tracciare la biografia di Atanasio a «partire da ciò che ha appreso da quelli che erano

vissuti con lui»70, il che ci rimanda al soggiorno di Rufino ad Alessandria, senza per questo dare

maggior solidità a quanto viene detto. È forse a questo genere di informazioni che deve il lungo

racconto del Concilio di Tiro? Non si può dire. Poiché se, da un lato, rievoca la presenza presso

Atanasio del «suo prete Timoteo»71, dall’altro non cita minimamente il suo nome. Timoteo

sapeva quel che aveva fatto Atanasio, lasciando Tiro nel 335.

Il «canovaccio» di Girolamo si lascia percepire più o meno chiaramente. Se ne intravede un

primo elemento nella precisione della data e del luogo della morte di Costantino72. Passi che lo

64 Ibid., a. 339: Ex hoc loco impietas Ariana Constantii regis fulta praesidio, exiliis, carceribus et uariis adflictionum modis, primum Athanasium, deinde omnes non suae partis episcopos persecuta est. 65 Ibid., a. 340, 341, 342. 66 Ibid., a. 343: Maximinus Treuerorum episcopus clarus habetur. A quo Athanasius Alexandriae episcopus, cum a Constantio quaereretur ad poenam honorifice susceptus est. 67 Ibid., a. 346: Athanasius, ad Constantis litteras, Alexandriam regreditur. 68 Ruf., 10, 13 (Mommsen, p. 978, ll. 21-22). Contrariamente a quanto talvolta si afferma, Rufino si richiama agli scritti di Atanasio solo per confermare che c’era realmente, a Costantinopoli, un vescovo di nome Alessandro – diverso dall’Alessandro vescovo di Alessandria. 69 Ruf., 10, 14 (Mommsen, p. 979). È noto che Atanasio ha raccontato due volte (nel 356: epist. encyclica ad episcopos Aegypti et Libyae 18-19 - PG 25, 581-5; nel 358: epist. ad Serapionem, PG 25, 685-690) la fine ignominiosa di Ario, senza presentarsi come testimone oculare. Egli rievoca Alessandro di Costantinopoli (§ 19 - col. 581 B-C), ma colloca tale morte sotto Costantino. Studio del dossier: A. Leroy-Molinghen, La mort d’Arius, «Byzantion» 38, 1968, pp. 105-111. 70 Ruf., 10, 15 (Mommsen, p. 980, ll. 19-20). Cfr. Gelas. Ciz., Syntagma 3, 15, 10 sgg. (GCS 28, p. 165, ll. 23 sgg.). 71 Ruf., 10, 18 (Mommsen, p. 984, ll. 6 sgg.). 72 Cfr. Gir., chron. a. 337: XXXI Constantinus cum bellum pararet in Persas, in Acyrone,

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234

storico sappia che Costantino è morto nei pressi di Nicomedia, ma da dove, nel suo racconto, in

cui la cronologia si limitava il più delle volte a interea e a per idem tempus, ha preso quella data

così precisa di trentunesimo anno, se non da Girolamo, che numera gli anni di regno a margine

delle note? Lo stesso vale per la menzione del luogo della morte di Costantino II73, anche se

discolpa Costante e ne fa in seguito un elogio militare, usando e trasformando le note della

Cronaca sugli scontri e infine sulla vittoria sui Franchi74.

Ora, è in queste date che Girolamo collocava l’azione degli Ariani contro Atanasio

grazie all’appoggio di Costanzo75. Forse non è necessario supporre il ricorso a «Gelasio»,

del quale non abbiamo per quel periodo nessuna attestazione, mentre la «cronologia» di

Girolamo, seguita abitualmente da Rufino, permetteva se non addirittura suggeriva a

Rufino di far iniziare anch’egli in quel momento il racconto della persecuzione di Atanasio,

cominciando dal racconto del Concilio di Tiro76, mentre nel 339, data di «inizio» per

Girolamo, Atanasio è in realtà già tornato dal (primo) esilio a Treviri dove è stato

condannato da Costantino, presso il quale si era recato venendo da Tiro77.

In Rufino Atanasio, prima ancora della fine del Concilio di Tiro, fugge ad Alessandria,

stando al seguito78. Si parla, infatti, secondo una tradizione – fertur –, del nascondiglio che gli

avrebbe offerto per sei mesi una cisterna vuota e che fu infine scoperto79. Per evitare di mettere

uilla publica iuxta Nicomediam, moritur anno aetatis LXVI. Post quem tres liberi eius ex Caesaribus Augusti appellantur e Ruf., 10, 12 (Mommsen, p. 978, ll. 5-7): Constantinus in suburbana uilla Nicomediae tricesimo et primo imperii sui anno diem functus est, liberis de successione Romani orbis testamento heredibus scriptis. 73 Cfr. Gir., chron. a. 340: Constantinus bellum fratri inferens, iuxta Aquileiam Alsae occiditur e Ruf., 10, 16 (Mommsen, p. 982, l. 11): ...Constantino fratre non longe ab Aquileia apud Alsae fluuium a militibus interfecto... Socrate non reputerà necessario fornire tali precisazioni topografiche (2, 4, 5; 2, 15, 1). Non credo si possa affermare che queste si spiegano in Rufino, come nemmeno in Girolamo, con la vicinanza ad Aquileia. 74 Cfr. Gir., chron. a. 341: Vario euentu aduersum Francos a Constante pugnatur. a. 342: Franci a Constante perdomiti et pax cum eis facta e Ruf., 10, 16 (Mommsen, p. 982, l. 12): Constans (...) Occidentem satis industrie gubernabat. L’espressione è sicuramente vaga ma elogiativa, e si trova in un passo in cui, come in Girolamo, si parla dell’attività dei tre figli di Costantino. Su Costanzo cfr. chron. a. 339. 75 Cfr. Ruf., 10, 16 (Mommsen, p. 982, ll. 13-16): Nam Constantius, natura et animo regio... per eunuchos arte in perfidiam decipitur a peruersis sacerdotibus et intento satis studio prauis eorum contentionibus obsecundat. 76 Il racconto del Concilio di Tiro inizia subito dopo (Ruf., 10, 17; Mommsen, p. 982, ll. 22 sgg.). 77 Ma nel 339 ha inizio il secondo esilio di Atanasio, questa volta per volontà di Costanzo. 78 Ruf., 10, 18-19 (Mommsen, p. 985, l. 12 - p. 986). 79 Ibid. (p. 985, l. 25 - p. 986, l. 5). Pallad. (hist. laus. 63) rievoca una vergine che aveva nascosto Atanasio per sei anni; ma secondo la fine della storia si tratta del terzo esilio (356-362), durante il quale Atanasio ha trovato rifugio soprattutto nel deserto, presso i monaci.

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in pericolo le persone che lo nascondono, il vescovo fugge poi in Occidente, presso Costante.

Ricordiamo che Girolamo menzionava nel 343 la presenza di Atanasio a Treviri, dove veniva

accolto «con tutti gli onori» dal vescovo Massimino. In Rufino è l’imperatore Costanzo che

accoglie Atanasio satis honorifice religioseque80. Ma, come in Girolamo, è l’imperatore che

scrive al fratello e finisce per ottenere il ritorno di Atanasio ad Alessandria81. Tuttavia, laddove

Girolamo non faceva che menzionare la lettera e i suoi effetti, Rufino aggiunge numerosi

dettagli sulle minacce contenute nella lettera e riporta la reazione di Costanzo, che di fatto

finisce per ricevere Atanasio ad Antiochia nel 346, prima di lasciarlo tornare ad Alessandria82.

Girolamo non parla della partenza di Atanasio per il suo terzo esilio nel 356. Tuttavia

informerà del (nuovo) ritorno ad Alessandria nel 362, dopo la morte di Costanzo83. Tra il 350 –

usurpazione di Magnenzio – e il 356 egli segnala la partenza in esilio di numerosi vescovi

occidentali84, senza però indicare i concili in seguito ai quali sono state prese queste decisioni e

senza nemmeno mettere in relazione le decisioni imperiali con la riconquista dell’Occidente, di

cui tuttavia cita un certo numero di tappe85. Le note si susseguono, senza essere minimamente

collegate tra loro per chi non conoscesse da altra fonte la concatenazione degli eventi.

In compenso in Rufino l’esilio di Atanasio o quanto meno la sua fuga – non

si sa ben dove – comincia subito dopo l’usurpazione di Magnenzio86, prima

ancora dell’inizio della conquista dell’Occidente da parte di Costanzo, mentre

sappiamo che le prime misure contro Atanasio risalgono al 35387 e che

80 Ruf., 10, 20 (Mommsen, p. 986, ll. 6-9): Verum, ne graues alicui latebrae suae fierent et occasio calumniae innocentibus quaereretur, nihil sibi ultra iam tutum in Constantii regnum praesumens, ad Constantis partes profugus abscedit, a quo satis honorifice religioseque susceptus est. 81 Ruf., 10, 20 (Mommsen, p. 986, ll. 9-15): Quique, causa eius (=Athanasii) quam fama compererat, diligentius cognita, scribit ad fratrem... Ci furono in realtà numerose lettere, inviate dallo stesso Costanzo ad Atanasio. 82 Atanasio rievoca questo incontro nella sua apol. Const. 3 e nella apol. c. Arianos 54. Si possono trovare in quest’ultima Apologia (§ 51) le lettere di Costanzo ad Atanasio. Cfr. anche Teodor., hist. eccl. 2, 11-12, che cita il luogo dell’incontro e riprende la storia della chiesa raccontata da Rufino. 83 Gir., chron. a. 362: Athanasius Alexandriam reuertitur. 84 Paolino di Treviri e Rodanio di Tolosa nel 353 (in realtà dopo il Concilio di Arles); Eusebio di Vercelli, Lucifero di Cagliari, Dionigi di Milano nel 355 (in realtà dopo il Concilio di Milano); Ilario di Poitiers nel 356. L’esilio di Liberio, così come il suo (poco) glorioso ritorno vengono fatti risalire al 349, momento della sua consacrazione come 34o vescovo di Roma. Poiché l’anno della partenza non è indicato in modo chiaro, si può dedurre che Rufino non ha potuto disporre di un punto di riferimento sicuro. 85 Battaglia di Mursa (a. 351), suicidio di Magnenzio e del fratello (a. 353). 86 Ruf., 10, 20 (Mommsen, p. 987, ll. 9 sgg.): Sed cum Magnenti scelere imperator Constans regno simul et uita fuisset exemptus, rursum in Athanasium ueteres illi incentores principis odia resuscitare coeperunt... 87 Atan., historia acephala 1, 8 (ed. A. Martin, SChr. p. 142). Cfr. ibid., pp. 91 sgg.

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egli non lascerà Alessandria prima del 356. In un secondo momento Rufino, in modo più

preciso di Girolamo, cita i tentativi dell’imperatore contro l’episcopato occidentale per

ottenere con l’inganno, sotto l’apparenza della condanna di Atanasio, l’acquiescenza alla

fede ariana88. Cita perfino il Concilio di Milano (del 355), assente in Girolamo, ed è a

quest’unico concilio che ricollega la condanna all’esilio dei vescovi nominati da

Girolamo, ma in ordine diverso ed errato: Dionigi (di Milano), Eusebio (di Vercelli),

Paolino (di Treviri), Rodanio (di Tolosa), Lucifero (di Cagliari) e infine Ilario (di

Poitiers)89. Quest’ultimo nome era ben separato dagli altri in Girolamo; ma se si fa

riferimento alle sue note, ci si accorge che Paolino e Rodanio, che figurano al centro

della lista in Rufino, erano stati i primi a essere esiliati, un anno prima degli altri tre.

Delle indicazioni di Girolamo rimane soltanto la violenta espressione in exilium trusi90.

Quanto a Liberio, anch’egli esiliato nel 356 secondo Girolamo91, sembrerebbe, a detta di

Rufino, che abbia dovuto lasciare Roma solo dopo il Concilio di Rimini92. Di questo

sinodo viene offerta una presentazione semplificata93, se non addirittura caricaturale e

molto occidentale; egli attacca l’astuzia dei Greci callidi – come sempre! – dinanzi agli

occidentali simplices, che non conoscono il senso della parola homousios. Come credere

che un greco, che per giunta non sembra essere stato un niceno convinto94, abbia potuto

presentare in questo modo i due concili di Seleucia – in cui Acacio di Cesarea rivestì un

ruolo determinante – e di Rimini? Nel presente caso Rufino non tiene nemmeno conto

dei punti di riferimento cronologici che gli offre la Cronaca, tanto è desideroso di

passare nuovamente in rassegna le grandi sedi episcopali colpite dalla bufera95

88 Ruf., 10, 20 (Mommsen, p. 987, ll. 18-21). 89 Ruf., 10, 21 (Mommsen, p. 987, l. 22 - p. 988, l. 3): Apud Mediolanium episcoporum concilium conuocatur. Plures decepti, Dionysius uero, Eusebius, Paulinus, Rhodanius et Lucifer dolum esse in negotio proclamantes... in exilium trusi sunt. His etiam Hilarius iungitur, ceteris uel ignorantibus uel non credentibus fraudem. Riassunto (non del tutto veritiero) di informazioni che Rufino poteva trovare nell’opera di Ilario. 90 Si può trovare la stessa espressione in Girolamo, a. 349. 91 Gir., chron. a. 356: Liberius episcopus Romanus in exilium mittitur. 92 Ruf., 10, 23 (p. 988, ll. 23-25). L’esilio sembra essere la conseguenza del concilio: Igitur Liberius... in exilium truditur. 93 Ruf., 10, 22 (Mommsen, p. 988). Non si parla delle due sessioni del concilio e i dibattiti sono falsati. Si parla molto poco di Seleucia e per niente del Concilio di Costantinopoli degli inizi del 360. Girolamo (chron. a. 359), pur essendo anch’egli succinto, rievocava, senza citare nomi di località, il tradimento dei delegati occidentali a Nicea. 94 In realtà Gelasio è l’autore di un trattato contro gli Anomei, di cui però non sappiamo molto. 95 Roma (10, 23), Gerusalemme e Alessandria (10, 24), Antiochia (10, 25). È forse possibile pensare che Gelasio abbia potuto formulare sullo zio Cirillo e sui suoi voltafaccia il giudizio che leggiamo al § 25? Girolamo (chron. a. 348) non è più elogiativo: lo considera infatti un ariano, il che può spiegare il giudizio di Rufino. Viene poi rievocata l’elezione di Liberio (l’ordine è inverso rispetto a quello di Rufino). Girolamo parlerà in termini molto duri anche di Melezio (a. 360). Rufino attenua l’accusa.

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237

e di mostrare le divisioni interne che subisce l’arianesimo96, prima di arrivare alla morte di Costanzo

che rimetterà tutto in discussione, con l’avvento di Giuliano97. In compenso le precisazioni sul luogo

della morte dell’imperatore e sugli anni di regno sono quelle che si trovano nella Cronaca98.

VI

Il breve regno di Giuliano occupa molto spazio nel racconto di Rufino. Si divide in due parti

molto nette. Dopo aver rievocato il richiamo dei vescovi esiliati, attraverso cui Giuliano intende

annullare le misure di Costanzo, Rufino narra in dettaglio l’azione di Eusebio di Vercelli e di

Lucifero di Cagliari, due occidentali, in Oriente prima, poi in Occidente. Rievocherà in seguito vari

episodi della persecuzione di Giuliano contro i cristiani e della sua azione a favore degli ebrei a

Gerusalemme. È possibile determinare le sue fonti d’informazione? Girolamo gli forniva in modo

piuttosto preciso solo la menzione della legge scolastica99. Rufino fa appello, per la persecuzione di

Antiochia, alla testimonianza orale che ha raccolto presso uno dei suoi eroi100. Non vi è ragione

alcuna, allo stato attuale della nostra documentazione, di mettere in dubbio tale affermazione per

riconoscere un prestito da «Gelasio». Invece si può pensare che le informazioni sulle divisioni

ecclesiastiche ad Antiochia risalgano, in parte almeno, a quanto ha potuto raccogliere nella stessa

occasione.

Tuttavia è possibile scoprire due fonti di documentazione scritta. La prima è greca.

Riguarda quello che viene chiamato, da Rufino101 in poi, il «Concilio dei Confessori». Questo si

tiene ad Alessandria intorno ad Atanasio, subito dopo il richiamo da parte di Giuliano dei vescovi

esiliati da Costanzo. Rufino ne racconta lo svolgimento e, riguardo alle decisioni prese,

rievoca due volte il concilii decretum102. Si tratta del Tomus ad Antiochenos, in cui

96 Ruf., 10, 26 (pp. 989-990). 97 Ibid., 10, 27 (p. 990, ll. 18-21). 98 Cfr. Gir., chron. a. 361: XXIII Constantius Mopsocrenis inter Ciliciam Cappadociamque moritur... e Ruf., 10, 27 (Mommsen, p. 990, ll. 20-21): Vicensimo et quarto post occasum patris imperii sui anno in oppido Ciliciae Mopsocrenis diem functus est. Visto il modo di contare di Girolamo, ci troviamo proprio nel 24o anno. 99 Gir., chron. a. 363, e nel 364 la menzione di un Sinodo convocato da Melezio (accusato di essere diventato Macedoniano). Rufino colloca questo Sinodo già nel 363 (10, 31 - Mommsen, p. 993, ll. 17-18). Si noti che, nella Cronaca, Girolamo non rievoca in nessun modo il «Concilio dei Confessori». In compenso ne riassume l’importanza nell’Altercatio Luciferiani et Orthodoxi 20 (PL 23, coll. 174 C7 - 175 A6). 100 Ruf., 10, 37 (Mommsen, pp. 996-997 e in particolare p. 996, ll. 27 sgg.). Socr. (hist. eccl. 3, 19, 8) conosce l’episodio attraverso «Rufino». 101 Ruf., 10, 29 (Mommsen, p. 991, ll. 14-15): Confessorum concilio congregato... Cfr. Gir., Altercatio Luciferiani et Orthodoxi 20 (PL 23, coll. 174-175): Post reditum confessorum, in Alexandrina postea synodo constitutum est... 102 Ibid. 30 (p. 992, ll. 11; 13). Il IIo Concilio di Nicea (Mansi, 12, 1034 D - 1135 A)

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238

Atanasio presenta le discussioni sulla reintegrazione dei caduti in errore e annuncia le decisioni

prese103, riguardanti anche la divinità dello Spirito Santo104, il lessico trinitario nell’uso di ousia e

di hypostasis105 e, infine, la cristologia, con l’affermazione della presenza, in Cristo, di una

sensibilità e di un’anima realmente umane106. Rufino ha rispettato lo stesso ordine della lettera107.

Questo Tomus ad Antiochenos autenticava la missione affidata ad Asterio di Petra per l’Oriente

e a Ilario di Poitiers per l’Occidente108. Rufino lo rievoca, riferendosi all’autorità del Concilio109.

Ma il racconto si incentra in seguito solo su Eusebio e principalmente sulla sua azione in Oriente,

o meglio ad Antiochia, dove scopre l’ordinazione fatta da Lucifero di Cagliari. Di Asterio non si

parlerà più e ignoriamo completamente ciò che abbia potuto fare – il che stupirebbe non poco se

dovessimo sospettare la presenza di un modello greco –. Nemmeno gli storici greci successivi ne

parlano. Devono per la maggior parte le loro informazioni a Rufino110. Vero è invece che ci si

può meravigliare nel sentire Rufino che confessa di ignorare il comportamento finale di Lucifero

di Cagliari111. Tuttavia si può forse spiegare questa «ignoranza» con il rifiuto da parte di Rufino

di condannare espressamente Lucifero. Girolamo, che nella sua Cronaca celebra, per così dire,

l’ordinazione di Paolino da parte di Lucifero «e di altri due Confessori»112, è molto meno

elogiativo nei confronti di Lucifero nella sua Altercatio Luciferiani et Orthodoxi113.

Ritroviamo Eusebio in Occidente, dove trova Ilario intento a restaurare la fede ortodossa

in Italia (del nord). Rufino, dopo aver elogiato il carattere del vescovo di Poitiers,

rievoca i libri de fide per mezzo dei quali ha esposto le abilità degli eretici che,

s e n z a o m b r a d i d u b b i o , h a n n o i n g a n n a t o l ’ i n g e n u i t à d e i v e s c o v i

comprende, sotto il nome di «Rufino, prete di Roma», la traduzione di un lungo passo dei capp. 29-30 (Mommsen, p. 991, l. 14 - p. 992, l. 17). Ma comprende anche, sotto lo stesso nome, due estratti di Socrate. Cfr. Glas, Die Kirchengeschichte, cit., p. 57, n. 1 e 80; Winkelmann, Untersuchungen, cit., pp. 14-15. 103 Cfr. Atan., tomus 1-3 (PG 26, coll. 796-800 A2) e Ruf., 10, 29 (Mommsen, pp. 991-992). Ciascun punto richiederebbe un’analisi e un confronto. 104 Cfr. tomus 3 (col. 800 A2-B) e Ruf., 10, 30 (p. 992, ll. 13-17). Questa fedeltà è tanto più sorprendente in quanto Rufino non dirà nulla circa il Concilio di Costantinopoli del 381, a cui assisteva Gelasio di Cesarea. 105 Cfr. tomus 5-6 (coll. 801 A2 - 804) e Ruf., 10, 30 (p. 992, l. 17 - p. 993, l. 2). Rufino traduce con substantia e subsistentia, dopo aver trascritto le parole greche. 106 Cfr. tomus 7 (coll. 804-805) e Ruf., 10, 30 (p. 993, ll. 2-4). 107 È attraverso il tomus che Rufino conosce il «piccolo numero» di partecipanti (10, 29 - p. 991, l. 15) e la missione affidata a Eusebio e ad Asterio (10, 30 - p. 992, ll. 12-14). 108 Cfr. tomus 2 (col. 797) e 9 (col. 805). 109 Ruf., 10, 30 (Mommsen, p. 992, ll. 10-13) - Cfr. tomus 9. 110 Socr., hist. eccl. 3, 9; Soz., hist. eccl. 5, 12-13. 111 Ruf., 10, 31 (Mommsen, pp. 993-994). 112 Gir., chron. a. 362. 113 Gir., Altercatio Luciferiani et Orthodoxi 20 (PL 23, col. 175 A-B). Anche Girolamo «ignora» i veri motivi del comportamento di Lucifero: amore per la gloria? Ripresa della disputa con Eusebio di Vercelli?

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239

occidentali in occasione del Concilio di Rimini, secondo quanto ha raccontato precedentemente114.

Bisogna riconoscere in questi libri de fide non tanto ciò che chiamiamo il De Trinitate, che del

resoconto storico non ha niente, bensì ciò che Girolamo ha designato come il Liber aduersus

Vrsacium et Valentem, che conteneva la storia del Concilio di Rimini115 e che potrebbe aver

compreso parecchi libri. Lo stesso Rufino ha rievocato le falsificazioni che quest’opera aveva

subito nel suo De adulteratione librorum Origenis116. È poco probabile che tale opera sia arrivata in

Oriente, visto che non lo riguardava. Tuttavia Rufino non aiuta molto a precisare il contenuto,

giacché si limita a un’indicazione generale sul risultato dell’azione restauratrice di Eusebio e di

Ilario «nell’Illirico, in Italia e nelle Gallie»117, senza nemmeno indicare che fu contestata – come

sappiamo dall’insuccesso del Contro Aussenzio118 e da ciò che Rufino racconta circa un Concilio in

cui Ilario venne per un attimo messo in difficoltà119.

***

Opere di Gaudenzio, di Girolamo, di Ilario – senza contare Atanasio –, ecco alcune delle

opere usate da Rufino. Ciò tende a limitare e, almeno per il libro XI, a contestare la portata e

l’importanza dell’influenza di «Gelasio», di cui ignoriamo fino a che punto avesse

continuato la Storia Ecclesiastica di Eusebio. Non ci si stupirà del fatto che Rufino abbia

taciuto l’utilizzo della Cronaca di Girolamo in un periodo in cui rimaneva il bersaglio dei

sarcasmi del suo vecchio amico120. Non ha voluto nemmeno mostrare che, se accettava il suo

praticissimo quadro cronologico, si separava spesso da lui nelle valutazioni. Ciò non toglie

che la Cronaca di Girolamo, con i suoi silenzi e le sue imperfezioni, lo abbia

involontariamente fuorviato nella cronologia degli esili di Atanasio; ritroviamo dunque in

Girolamo il responsabile degli errori che Socrate rimprovererà a Rufino.

Questi era ritornato dall’Oriente con un gran numero di opere greche, nelle

quali vedeva un ricco «bottino». Il numero di traduzioni che ha intrapreso

114 Ruf., 10, 32 (Mommsen, p. 994, ll. 11-17). 115 Gir., uir. ill., 100 (ed. Ceresa Gastaldo, pp. 204-206): ...liber aduersus Valentem et Vrsacium historiam Ariminensis et Seleuciensis synodi continens... 116 Ruf., de adulteratione librorum Origenis, 11 (ed. Simonetti, CChL 20, p. 14, ll. 2-4): Hic, (=Hilarius), cum ad emendationem eorum qui Ariminensi perfidiae subscripserant libellum instructionis plenissime conscripsisset... 117 Ruf., 10, 32 (Mommsen, p. 994, l. 18). 118 Ilario, c. Auxentium 7-11 (PL 10, coll. 613-616). Ilario fu costretto a lasciare Milano dopo l’intervento del potere politico. 119 Ruf., de adulteratione (n. 121), 11 (p. 14, ll. 9 sgg.). 120 Nella sua Prefazione alla traduzione del Peri Archôn, Rufino si era proclamato semplice continuatore di Girolamo. Da qui la collera di quest’ultimo. Cfr. l’epist. 80, 1-2 di Girolamo (CUF 4, pp. 107-109), che non è altro che la Prefazione di Rufino alla traduzione del Peri Archôn.

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240

nel decennio successivo al ritorno in Occidente lo dimostra abbondantemente. Non

sembra che abbia portato con sé molti scritti di Atanasio. In compenso ha portato la

Storia Ecclesiastica di Eusebio. Traducendola e continuandola, non poteva non

essere cosciente di fare un lavoro parallelo a quanto aveva fatto Girolamo con la

Cronaca dello stesso Eusebio. Senza dirlo questa volta, Rufino portava avanti il

lavoro di Girolamo, come aveva fatto qualche anno prima traducendo il Peri Archôn

di Origene. Avrebbe potuto rievocare una promessa fatta da Girolamo, quella di

scrivere una Storia della Chiesa121.

Ma lo spirito delle due opere sarebbe stato molto diverso: Girolamo intendeva

descrivere la corruzione crescente della Chiesa; Rufino vede nella storia della Chiesa

l’azione di Dio attraverso un certo numero di eroi – vescovi e asceti – e descrive la

sconfitta finale dell’eresia e del paganesimo. Quanto agli imperatori, nei quali il

Girolamo storico vedeva personaggi pericolosi, Rufino non nega che alcuni possano

fare del male alla Chiesa – come Costanzo, Giuliano o Valente –, ma suggerisce

anche che i «buoni» imperatori – Costantino, Costante, Valentiniano, Teodosio –

fanno la gioia dei sudditi nella misura in cui si sottomettono a Dio.

(1997)

121 Gir., v. Malchi 1 (PL 23, col. 53 C): Ecclesia Christi... postquam ad Christianos principes uenerit, potentia quidem et diuitiis maior, sed uirtutibus minor facta sit. Cfr. il mio art. su Les métamorphoses de l’historiographie aux IVe et Ve siècles: Renaissance, fin ou permanence de l’Empire Romain, Actes du VIIe Congrès de la FIEC, Budapest 1979, II, 1983, pp. 137-182 e soprattutto pp. 145-146.

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241

Lo spazio e l’importanza

del Concilio di Alessandria del 362

nella Storia della Chiesa

di Rufino di Aquileia

Il concilio convocato nella primavera del 362 ad Alessandria, qualche mese dopo la

morte improvvisa dell’imperatore Costanzo II (3 novembre 361), prende il nome di

«Concilio dei Confessori» dalla Storia della Chiesa di Rufino1. La riunione,

promossa intorno ad Atanasio da un piccolo numero di vescovi esiliati da Costanzo,

in particolare nella Tebaide, aveva come scopo quello di riparare ai danni

sopraggiunti nell’Impero a causa dell’abbandono ufficiale della fede di Nicea in

occasione del concilio di Rimini-Seleucia-Costantinopoli (359-360). Più che le

questioni dottrinali in sospeso, si trattava di fissare la condotta da osservare nei

confronti dei vescovi che avevano accettato le ingiunzioni imperiali, ora che

Costanzo II era sparito e il nuovo imperatore restituiva la libertà religiosa,

consentendo agli esiliati di ritornare a casa. In questa situazione generale Rufino

dedicava uno spazio particolare al caso di Antiochia di Siria, dove due esiliati

occidentali, Lucifero di Cagliari ed Eusebio di Vercelli, erano intervenuti con esiti

diversi2, prima di citare l’azione di Eusebio e di Ilario di Poitiers in Occidente3, volta

a restaurare la vera fede.

Contrariamente a quanto avvenuto per i concili di Rimini, di Seleucia e di Costantinopoli

del 359 e del 360, il racconto dello storico di Aquileia è stato ripreso, poco completato, ma

soprattutto ridotto dagli storici greci del V secolo4. A differenza dello storico latino,

questi ritornano volentieri al metodo «documentale» di Eusebio, inserendo spesso nelle

proprie opere un certo numero di documenti ufficiali, carte, lettere che arricchiscono

1 RUFINO DI AQUILEIA, Storia della Chiesa, 1 (X), 29 (ed. Th. Mommsen, GCS 9, 2, p. 991, l. 14). 2 Ibid., 1, 28 e 31 (pp. 991 e 993). 3 Ibid., 1, 31-33 (p. 994, ll. 5-20). 4 SOCRATE, Storia Ecclesiastica, 3, 5-10 (ed. G.-Ch. Hansen, GCS, NF1, pp. 196-206); SOZOMENO, Storia Ecclesiastica, 5, 12-13 (ed. J. Bidez et G.-Ch. Hansen, GCS 50, pp. 210-212); TEODORETO, Storia Ecclesiastica, 3, 4-5 (ed. L. Parmentier, GCS 19, pp. 179-181).

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242

il discorso, o attingendo da altri storici alcune informazioni complementari più o meno

riassunte. Il modo con cui trattano questo concilio appare piuttosto particolare. Nel

presente caso, d’altronde, non ci sono pervenuti tutti gli Atti e i documenti ufficiali del

concilio di Alessandria5. Se Socrate dichiara, attingendo non si sa ben dove, che

Atanasio, in occasione del concilio del 362, fece leggere l’Apologia per la sua fuga e ne

cita molte pagine6, trova in Sabino la menzione di riunioni più o meno parallele di

Macedoniani7, ma non produce nessun documento del concilio di Alessandria. Dipende

in questo punto da Rufino, da cui taglia la prima parte, disciplinare, delle decisioni del

concilio8. Sozomeno conosce sia Rufino sia Socrate, da cui dipende strettamente, ma

riassume questo punto e tace il riferimento a Sabino, pur riprendendo le sue

informazioni9. Quanto a Teodoreto, favorevole a Melezio, lo storico si limita a un breve

riassunto, senza soffermarsi sui dettagli delle decisioni dottrinali e disciplinari10. Tuttavia

conosce i suoi predecessori; in essi ha trovato la menzione a Ilario. Ma fa assistere Ilario

al concilio di Alessandria, dopo aver collocato il suo esilio nella Tebaide11.

Gli storici moderni, per tentare di stabilire lo svolgimento dei fatti e per comprenderli nei

minimi particolari, ma anche nelle incidenze del momento, ricorrono a un materiale

eterogeneo12. Cercano di ricostruire un puzzle cui mancano sfortunatamente alcuni pezzi

principali e di cui nessun pezzo è della miglior qualità o è già stato più o meno ritoccato

per integrarsi nella composizione di uno storico antico. È così

che il Tomus ad Antiochenos presente nel patrimonio di Atanasio, il cui testo ci è

5 Disponiamo al massimo del Tomus ad Antiochenos, che, come indica il nome, riguarda principalmente la situazione di Antiochia (ATANASIO, PG 26, c. 796-809) e forse della Lettera ai vescovi ortodossi d’Egitto, della Siria, della Cilicia, della Fenicia e d’Arabia, che dovrebbe provenire dalla stessa assemblea. Sulle decisioni disciplinari, oltre a quanto dice Rufino, abbiamo soltanto la conferma apportata da Atanasio tra il 363 e il 373 a uno sconosciuto Rufiniano (ATANASIO, Ep. ad Rufinianum, PG 26, c. 1180 B 4 - 1181 A 9). 6 SOCRATE, Storia, 3, 8, 1-43 (pp. 200-203). 7 Ibid., 3, 10, 3-11 (p. 205, ll. 4-26). 8 Ibid., 3, 7, 1-2 (p. 197, ll. 12-20). Si passa subito alle precisazioni dottrinali del concilio. In Socrate nulla corrisponde all’esposizione dettagliata di Rufino sulle discussioni riguardanti la condotta da tenere nei confronti dei vescovi firmatari della formula di Nicea. 9 SOZOMENO, Storia, 5, 14, 1-3 (p. 23). 10 TEODORETO, Storia, 3, 4, 6 (p. 180). 11 Ibid., 3, 4, 2 (p. 179, ll. 23-25). 12 Così Ch. HEFELE e H. LECLERCQ, Histoire des Conciles, I, 2, Paris, 1907, pp. 963-969; C.B. ARMSTRONG, «The Synod of Alexandria and the Schism at Antioch in A.D. 362», in JThS, 22, 1921, pp. 206-221; 347-355; M. SIMONETTI, La crisi ariana nel IV secolo, Roma, 1975, pp. 353-377; ultima esposizione, dal punto di vista della storia del vescovo di Alessandria: Annick MARTIN, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au IVe

siècle (328-373), Rome, 1996, pp. 541-563.

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243

pervenuto, è stato palesemente usato direttamente da Rufino13, il che non sembra valere

per gli storici successivi. Al contrario, quel che si presenta come una sinodale del concilio

non era nota agli storici antichi14. Tuttavia è opportuno rimanere prudenti, perché i falsi

sono numerosi in quel periodo e nei decenni successivi, ed esaminare ogni presentazione

in funzione dei suoi obiettivi.

La mia intenzione non è quella di riscrivere la storia del concilio, di ispezionare

l’azione di Atanasio o di interessarmi allo «scisma di Antiochia15» e allo

«scisma luciferiano»16, bensì intendo soffermarmi solo su Rufino17 e

13 RUFINO, Storia, 1, 30 (p. 992, l. 13 - p. 993, l. 5). I punti dottrinali trattati in un secondo momento da Rufino appaiono nello stesso ordine del Tomus, 3-7 (ATANASIO, PG 26, c. 800-805). 14 Vi è un altro documento cui M. TETZ ha ridato lustro («Ein enzyklisches Schreiben der Synode von Alexandrien (362)», ZNTW, 79, 1988, pp. 262-281=PG 28, c. 81-84), ma che probabilmente non è autentico: al riguardo cfr. A. CAMPLANI, «Atanasio e Eusebio tra Alessandria e Antiochia (362-363): Osservazioni sul Tomus ad Antiochenos, l’Epistula catholica e due fogli copti...», Eusebio di Vercelli e il suo tempo, a cura di E. Dal Covolo, R. Uglione, G.M. Vian, Roma, 1997, pp. 191-246 e soprattutto pp. 219-226. Rufino era forse a conoscenza di questo documento, come Ph. R. AMIDON (The Church History of Rufinus of Aquileia, Books 10 and 11, Oxford, 1997) ritiene (p. 57, n. 41), data l’allusione alla fine delle tempeste (M. TETZ, p. 272, l. 6) che si può trovare in Rufino (RUFINO, Storia, 1, 29, p. 991, ll. 16-17)? Non direi, vista la banalità di una simile immagine (cfr., ad esempio, RUFINO, Storia, 2 (XI), 1, p. 1002, ll. 5-9). La trattazione di Rufino sulle misure disciplinari non trova nessun equivalente nei testi in nostro possesso. Essa viene semplicemente confermata dalla successiva risposta di Atanasio a Rufiniano (ATANASIO, Ep. ad Rufinianum, PG 26, c. 1180 B 15-C 5) e dall’Altercatio Orthodoxi et Luciferiani, 20 (ed. Aline Canellis, CC 79 B, p. 52, ll. 762-767): in Alexandrina postea synodo constitutum est ut, exceptis auctoribus haereseos (...), paenitentes Ecclesiae sociarentur, non quo episcopi possent esse qui haeretici fuerant, sed quod constaret eos qui reciperentur haereticos non fuisse. L’ultima frase è probabilmente un adattamento, da parte di Girolamo, alla tesi sostenuta nell’Altercatio. 15 Sullo «scisma di Antiochia» l’opera di F. CAVALLERA, Le schisme d’Antioche, Paris, 1905, è in parte superata, se non addirittura passibile di una consistente «revisione»: K.M. SPOERL, The Schism at Antioch since Cavallera, in Arianism after Arius, ed. M.R. Barnes and D.H. Williams, Edinburg, 1994, pp. 101-126. 16 Sullo «scisma luciferiano» in Occidente cfr. G. KRÜGER, Lucifer Bischof von Calaris und das Schisma der Luciferianer, Leipzig, 1886, cap. 2, pp. 58-96. M. SIMONETTI («Appunti per una storia dello scisma luciferiano», in Atti del convegno di Studi religiosi sardi, Cagliari, 24-26 maggio 1962, Padova, 1963, pp. 69-81 e soprattutto pp. 71-73) invita a distinguere nettamente lo scisma occidentale, che in un modo o nell’altro si ricollega a Lucifero, dallo scisma orientale, che, alimentato dall’azione di Lucifero, ha radici precedenti al 362. Cfr. anche «Lucifero di Cagliari nella controversia ariana», in Vetera Christianorum 35, 1998, pp. 279-399 e soprattutto pp. 291-292. 17 Non mi soffermerò sulle questioni dottrinali, sui problemi che pongono, né sulle i n t e r p r e t a z i o n i c h e h a n n o s u s c i t a t o . C f r . s u q u e s t o p u n t o M . S I M O N E T T I , « I l c o n c i l i o d i A l e s s a n d r i a d e l 3 6 2 e l ’ o r i g i n e d e l l a formula t r in i tar ia», in August in ianum 30, 1990, pp. 353-360; ID. , «Da l

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244

cercare di determinare, mediante l’analisi della sua Storia, il motivo, ancora attuale

mentre scrive, per il quale accorda un tale spazio e una tale importanza al concilio e

alle sue conseguenze. Vorrei anche mostrare, o almeno suggerire, che il suo interesse

fondamentale per quanto avviene in Occidente, sia prima sia dopo il concilio, può

difficilmente provenire, come si va ripetendo da A. Glas18 in poi, dalla semplice

traduzione o dall’adattamento di un’opera greca che nessuno storico greco

successivo ha citato o usato quando doveva trattare per l’Oriente le ripercussioni di

Seleucia-Rimini o del concilio di Costantinopoli del 360, riunioni alle quali ognuno

aveva dedicato molte pagine.

***

Partiamo, per Rufino, dalle grandi ripartizioni del contenuto e della

cronologia dei due libri personali della sua Storia. Il quadro delle successioni

imperiali non è per lui una semplice comodità. Oltre al fatto che struttura

oggettivamente la divisione degli anni 325-363 e 363-395 in due libri, per

dinastia in un certo qual modo19, la politica religiosa di ognuno degli imperatori

ha ripercussioni immediate sulla vita della Chiesa, ridotta alla fedeltà o meno

alla formula di fede definita a Nicea, la quale, raro documento esplicitamente

trascritto, apre il primo libro aggiunto da Rufino20. Nel libro X dell’insieme

della Storia, se Costantino, organizzatore di Nicea, e Costante, protettore di

Atanasio, hanno diritto agli elogi di Rufino, Costanzo appare come un ostacolo per la

nicenismo al neonicenismo. Rassegna di alcune pubblicazioni recenti», Ibid. 38, 1998, pp. 5-28; B. STUDER, «Una valutazione critica del neonicenismo», Ibid. 38, pp. 29-48. 18 A. GLAS, Die Kirchengeschichte des Gelasios von Kaisarea, die Vorlage für die letzten Bücher der Kirchengeschichte Rufin, Leipzig-Berlin, 1914. Buona parte della tesi di Glas poggia sul confronto tra il testo di Rufino e i testi di Giorgio il Monaco e di Gelasio di Cizico, come se tutti derivassero da Gelasio di Cesarea. In questo caso, dei § 19-38 di Rufino non figura nulla in questi autori (cfr. Glas, p. 57). 19 Da Costantino a Giuliano nel primo libro, da Gioviano a Teodosio nel secondo. Rufino non lo fa notare (e, di solito, nemmeno chi lo studia), ma il fatto è evidente e l’equilibrio pressoché perfetto. 20 RUFINO, Storia, 1 (X), 6, pp. 965-969, con i canoni del Concilio.

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245

Chiesa, prima che gli succeda Giuliano, rinnovando la persecuzione pagana. Tuttavia in un

primo momento Giuliano comincia col disfare l’opera religiosa di Costanzo, consentendo il

ritorno dei vescovi esiliati e servendo così indirettamente la vera fede. Da qui la bipartizione

molto marcata del suo regno, che non corrisponde del tutto alla cronologia, ma che consente a

Rufino di disporre la propria storia in due parti ben separate, annunciate sin dall’inizio21 e

ripetute nel corso dell’opera (§ 33, l. 1)22, prima di mostrare la vanità dell’impresa, dato che

Giuliano era morto prima di poter mettere in atto le sue minacce (§ 37 fine) e dato che gli ebrei,

suoi alleati, erano stati privati della speranza di restaurare il Tempio e di smentire Cristo23.

È all’interno della prima parte del regno che trova posto il racconto del concilio di

Alessandria. Questo occupa addirittura, con le relative conseguenze, la parte principale (§

28-32); tuttavia richiede, per essere colto in tutta la sua importanza, di essere collegato a ciò

che il concilio intende riparare e in particolare all’azione di Costanzo contro i sostenitori di

Nicea in Occidente durante gli ultimi anni del regno. Rufino procede per quadri e per

raggruppamenti, che non rispettano completamente la cronologia né i dettagli degli eventi,

ma che gli consentono di denunciare il modo in cui le persecuzioni condotte da Costanzo

contro Atanasio mirano in realtà a distruggere la fede di Nicea.

Questa drammatizzazione e i relativi riassunti sono evidenti nella presentazione del

concilio di Milano (355), che precede (§ 21) immediatamente (continuo: § 22, l. 2) quello di

Rimini (359-360), che secondo Rufino non farebbe altro che adottare la formula messa a

punto precedentemente (§ 22, l. 3) a Seleucia. Il seguito non si concede meno libertà nei

confronti della cronologia, dato che, dopo un patetico quadro delle discordie della Chiesa (§

22), Rufino fa il bilancio (§ 23-25) delle sciagure delle grandi sedi episcopali – occidentali e

orientali – mescolando, come riconosce una volta (§ 25, l. 1), eventi di epoche diverse.

Riguardo a Roma, Rufino rievoca l’esilio di Liberio (§ 23), che risale in realtà al 356 e che ha addirittura

avuto fine nel momento in cui egli situa questo bilancio – come riconoscerà in seguito (§ 28). Riguardo a

Gerusalemme, riprende la morte di Massimo (nel 348), ma non è in grado di attestare l’integrità della fede di

Cirillo; la sua ordinazione, la sua fede e le sue relazioni sono tacciate di un giudizio negativo24. Per Alessandria

21 RUFINO, Storia, 1 (X), 28, p. 990, ll. 22-25: Post quem (=Costanzo II), Iulianus (...) optinet principatum. Is primo, uelut arguens perperam gesta Constantii, episcopos iubet de exiliis relaxari, post uero aduersum nostros tota nocendi arte consurgit... 22 Non trascrivo tutti i testi, per alleggerire. Quando non è indicata la pagina, le righe vanno contate dall’inizio del §. 23 RUFINO, Storia, 1, 38, p. 997, ll. 11-13: Tanta uero eius (=Giuliano) ad decipiendum suptilitas et calliditas fuit ut etiam infelices Iudaeos uanis spebus inlectos, ut ipse agitabatur, inluderet...; 1, 40, p. 998, ll. 22-23: Sic deterriti Iudaei atque gentiles locum simul et inaniter coepta reliquere. − Fine del libro. 24 RUFINO, Storia, 1, 24, p. 989, ll. 3-4: Hierusolymis uero, Cyrillus, post Maximum sacerdotio confusa iam ordinatione suscepto, aliquando in fide, saepius in communione

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(§ 24, ll. 3-5) riprende ciò che aveva già detto di Giorgio (§ 20 ad f.). Per Antiochia (§ 25)

si attiene, in definitiva, all’attualità recente, commettendo tuttavia un errore enorme: non è

la morte di Eudosio (§ 25, l. 2), bensì la sua partenza per Costantinopoli nel gennaio 360 a

rendere possibile il controverso trasferimento di Melezio da Sebaste d’Armenia.

Per queste quattro grandi sedi vengono chiamate in causa o l’ortodossia (Alessandria),

o le condizioni dell’ordinazione dei titolari (Felice, Cirillo, Melezio), o le successive

compromissioni degli occupanti (Felice, Cirillo, Melezio) con gli Ariani. Ma messo da

parte – o in serbo per il seguito del racconto – il caso di Melezio, l’insieme di questo

bilancio ha ben pochi rapporti con la realtà del momento esatto in cui si presume sia

stato effettuato. Lo stesso vale per il quadro delle divisioni ariane in tre gruppi, ripartiti

piuttosto grossolanamente (§ 26): Ariani radicali, con Aezio e poi Eunomio; Omeusiani,

di cui non vengono indicati né i nomi né gli alfieri; Macedoniani, ai quali viene

rimproverata, con un certo anacronismo, la loro posizione sullo Spirito Santo.

Probabilmente a Rufino, ex monaco, dispiace dover constatare che i monaci di

Costantinopoli e dintorni hanno seguito Macedonio. Lo stesso vale per i vescovi celebri

(episcopi nobiles) di cui omette i nomi (§ 26 ad f.).

Stilati questi tristi bilanci, possono essere presentati i due eventi che modificheranno il

corso della storia: la morte di Costanzo (§ 27) e l’avvento di Giuliano, il cui regno, come

precedentemente affermato, è subito diviso in due parti: l’ordine di ritorno degli esiliati (§

28, ll. 2-3) e la persecuzione latente o diretta (§ 28, ll. 3-4). Rufino aveva redatto, sotto

Costanzo, un elenco degli esiliati che comprendeva soltanto occidentali, come se tutti fossero

stati allontanati in seguito al concilio di Milano del 35525. Può riprenderlo, rievocando la sorte

degli uni e degli altri. Ma lo fa con curiosi silenzi e con riassunti non meno sorprendenti.

Lascia così ai lettori il compito di sapere che Dionigi e Rodanio sono morti in esilio; pur

indicando che Liberio, in realtà, era già tornato dall’esilio26, dichiara di non conoscere le

condizioni e le circostanze esatte del ritorno27; di Ilario, cui dedicherà la fine della lunga

uariabat. 25 RUFINO, Ibid., 1, 21, p. 987, l. 22 - p. 988, l. 3: Ob hoc apud Mediolanium episcoporum concilium conuocatur. Plures decepti. Dionysius uero, Eusebius, Paulinus, Rhodanius et Lucifer dolum esse in negotio proclamantes adserentesque quod subscriptio in Athanasium non ob aliam causam quam destruendae fidei moliretur, in exilium trusi sunt. His etiam Hilarius iungitur, ceteris uel ignorantibus uel non credentibus fraudem. Eccezion fatta per Atanasio, nessun cenno agli esiliati orientali durante gli anni 350-361, né al loro ritorno nel 362. 26 L’esilio è stato segnalato in 1, 23, p. 988, ll. 23-25. 27 Ibid., 1, 28, p. 990, l. 25 - p. 991, l. 3: Interim, qui superfuerant episcopi de exiliis relaxantur. Nam Liberius, urbis Romae episcopus, Constantio uiuente regressus est. Sed hoc utrum quod adquieuerit uoluntati suae ad subscribendum, an ad populi Romani gratiam, a

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sequenza, non dice nulla per il momento. Tutto l’interesse si concentra sugli altri due

esiliati: Lucifero di Cagliari ed Eusebio di Vercelli (§ 28, ll. 8 sgg.), la cui azione porterà

a conclusioni molto diverse in Occidente e in Oriente, nonostante gli impegni presi non

si sa né dove né quando.

Non vi è alcun dubbio che Rufino ritiene Lucifero responsabile dell’insuccesso

orientale e delle conseguenti difficoltà in Oriente e in Occidente. Tuttavia tiene per

sé un certo numero di informazioni, che fanno tanto più difetto in quanto possiamo

identificare – e a nostra volta interpretare – una delle fonti d’informazione sul

concilio di Alessandria del 362, il Tomus ad Antiochenos, che ci è giunto attraverso

l’opera di Atanasio. In compenso ci sfuggono le circostanze esatte che precedono e

che seguono la riunione di Alessandria.

Si presume che Lucifero ed Eusebio si fossero in un modo o nell’altro messi d’accordo, vista

la prossimità dei loro luoghi d’esilio e la vicinanza all’Egitto28. Tuttavia entrambi devono già

aver avuto rapporti con Antiochia, poiché Lucifero ha fretta di giungervi senza aspettare e a

Eusebio verrà detto di ritornarvi29. L’arrivo ad Antiochia all’inizio del 362 spiegherebbe forse

l’invio da parte di Paolino di due delegati – di cui Rufino non parla –, oppure Eusebio è passato

per Antiochia cambiando luogo di assegnazione durante l’esilio? Secondo Rufino, Lucifero

invia soltanto un rappresentante ad Alessandria, mentre il testo del Tomus menziona e nomina

due diaconi di Lucifero e due diaconi di Paolino30. Questi non può esser stato già ordinato da

Lucifero; le affermazioni del Tomus non avrebbero più molto senso, dato che riguardano

innanzitutto Antiochia. Gli altri partecipanti sono quasi soltanto nomi. Solo Asterio ha un

passato31, che gli vale, più dell’età, la missione che gli sarà affidata in Oriente. Tuttavia

quo profiscicens fuerat exoratus, indulserit, pro certo compertum non habeo... Un lettore attento può intuire dalle prime parole che alcuni esiliati sono morti e, verso la fine, che Costanzo è venuto a Roma nel 357 e che è stato oggetto di suppliche a favore di Liberio. Contrariamente a quanto afferma GLAS, p. 17, l’«ignoranza» di Rufino è senza dubbio «diplomatica». Egli stesso ha risieduto a Roma nel decennio successivo e ha assistito alla difficile ordinazione di Damaso. 28 Ibid., 1, 28, p. 991, ll. 3-5: Lucifer autem cum exoraretur ab Eusebio, quia uterque in partibus uicinis Aegypto fuerat relegatus, ut ad uidendum Athanasium Alexandriam pergerent... 29 Ibid., 1, 31, p. 993, l. 6: Sed Eusebius cum redisset Antiochiam et inuenisset ibi a Lucifero contra pollicitationem ordinatum episcopum... Eusebio era stato esiliato prima a Scitopoli, in Palestina, poi in Cappadocia e infine nella Tebaide. Ha avuto occasione di passare per Antiochia e di conoscere la situazione locale. 30 Tomus ad Antiochenos, 9 (PG 26, c. 808 A 8-12). 31 Asterio era a Sardica dove si è unito agli occidentali (ILARIO, Collectanea antiariana Parisina, Series B II, 1, 7, ed. A. Feder, CSEL 65, p. 121, secondo il testo greco della sinodale trasmesso da Atanasio).

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Rufino non ne fa parola. Vero è che non precisa nemmeno il ruolo svolto da Eusebio

a Milano nel 355.

Per rievocare semplicemente il piccolo numero di partecipanti del «Concilio dei

Confessori32», Rufino dispone forse di un altro documento, oltre al Tomus ad Antiochenos? È

lecito porsi tale interrogativo. Il Tomus fa i nomi di una ventina di vescovi e di quattro diaconi,

che rappresentano rispettivamente Paolino di Antiochia e Lucifero. Rufino ricorda soltanto i

nomi di Atanasio, di Asterio, di cui non precisa né la sede né il passato, e di Eusebio. Tuttavia

riguardo ad Asterio parla dei suoi compagni – «di quelli che erano con lui» (§ 30, l. 3) –, il che,

a meno che non si tratti di una maldestra ripresa dell’elenco finale del Tomus stesso, sembra

proprio supporre l’esistenza di un documento ufficiale, che Rufino riassume senza trovare

necessario o utile per il pubblico fornire nomi che non direbbero nulla.

A ben vedere la prospettiva è infatti occidentale, benché Asterio, omologo di Eusebio,

sia esplicitamente incaricato di restaurare la fede nicena nella parte orientale. Di tale

missione non si parlerà più nel racconto di Rufino. Il solo che vediamo agire per lungo

tempo, in Oriente prima e in Occidente poi, non è altri che Eusebio di Vercelli.

Tuttavia bisogna distinguere due scopi in questa duplice azione. Se Lucifero ed Eusebio

hanno deciso di agire ad Antiochia sin da prima della riunione di Alessandria, questa aveva,

nel racconto di Rufino, e probabilmente nella realtà, un intento più generale: de statu

ecclesiae decernere33. Si trattava, dopo il disastro scatenato dal rifiuto dell’homoousios a

Rimini (§ 22), di restaurare la pace all’interno della Chiesa. Il racconto di Rufino verte

innanzitutto su questo punto, che non compare affatto nel Tomus ad Antiochenos. Presenta lo

scontro di due gruppi davanti al comportamento da adottare nei confronti di coloro che

avevano stretto un patto con l’eresia (§ 29). Il gruppo rigorista, che diventerà, se non lo è già,

il gruppo dei Luciferiani d’Occidente, predica l’intransigenza: «non dovevano più essere

riconosciuti come vescovi coloro che, in un modo o nell’altro (utcumque), si fossero

infangati e macchiati unendosi agli eretici34». Il gruppo dell’indulgenza metteva in primo

piano l’utilità generale. Invocava gli esempi di Paolo e di Cristo, non senza esigere da ognuno

dei lapsi un gesto personale, che marcasse la scelta dell’ortodossia, né omettere di escludere

gli autori dell’errore35.

32 RUFINO, Storia, 1, 29, p. 991, ll. 14-17: Pergit interea Eusebius Alexandriam ibique confessorum concilio congregato, pauci numero, sed fide integri et meritis multi, quo pacto post haereticorum procellas et perfidiae turbines tranquillitas reuocaretur ecclesiae omni cura et libratione discutiunt... 33 Ibid., 1, 28, p. 991, ll. 6-7. 34 Ibid., 1, 29, p. 991, ll. 18-19. 35 RUFINO, Storia, 1, 29, p. 991, l. 19 - p. 992, l. 3.

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Rufino sviluppa questo punto con molti riferimenti alla Scrittura36. Sarebbe bello

conoscere l’origine dell’argomentazione, poiché nessuno dei documenti che

riguardano tale decisione ne fa cenno o la ricorda37, specie il Tomus ad Antiochenos,

che Rufino utilizza in seguito come se costituisse parte delle «decisioni» del concilio.

Secondo la sua presentazione, infatti, è ex Concilii decreto che Asterio ed Eusebio

ricevono la «procura» uno dell’Oriente, l’altro dell’Occidente38. Ma – subito dopo –

è in illo Concilii decreto (§ 30, ll. 4 sgg.) che vengono aggiunte una trattazione sullo

Spirito Santo, l’equivalenza tra substantia/ousia da un lato e subsistentia/hypostasis

dall’altro, nonché alcune precisazioni sulla cristologia, tutti punti che figurano nel

Tomus ad Antiochenos ma in un contesto più complesso, che si adatta alla situazione

di Antiochia.

Pur semplificandole, Rufino ha riunito le questioni dottrinali oggetto di

controversia e le questioni disciplinari, che non riguardavano in primo luogo, né

unicamente, le comunità di Antiochia. Ciò lo porta a dare, in un certo senso, una

duplice conclusione alla riunione del concilio: in un primo tempo viene affidata una

missione ad Asterio e a Eusebio (§ 30, ll. 1-4); successivamente, dopo la menzione

delle decisioni dottrinali complementari, viene formulato un giudizio che verte

sull’insieme della riunione, prima che ognuno riprenda la propria strada: Quibus

omnibus caute moderate que compositis, unusquisque itinere suo cum pace perrexit

(§ 30 fine).

Ci si aspetterebbe di vedere Eusebio che ritorna in Occidente, e Asterio che tenta di

risolvere, tra le altre cose, la questione di Antiochia, ma anche la situazione delle

numerose chiese i cui vescovi avevano accettato il credo di Nicea-Costantinopoli.

Ma di Asterio non si parlerà più ed è Eusebio che «ritorna» ad Antiochia (§ 31, l. 1),

per trovarvi una situazione resa ancora più ingarbugliata dalle iniziative di Lucifero.

Il narratore segnala subito il fallimento di Eusebio, che lascia Antiochia (abscessit, § 31, l. 3),

prima di spiegare la ragione del fallimento e ritornare alla menzione della sua partenza dalla

36 1 Cor 10, 33 (non indicato dall’editore): Paolo; Luca 15, 11-32: Cristo. 37 Su tali misure disciplinari si dispone soltanto, oltre a queste righe di Rufino, delle indicazioni di Atanasio allo sconosciuto Rufiniano. La lettera cita un altro esempio biblico (ATANASIO, Ep. ad Rufinianum, PG 26, c. 1180-1182), ma per bocca di coloro che hanno firmato, per non lasciare spazio ai vescovi ariani dopo essere stati deposti. Cfr. GIROLAMO, Altercatio, 20 (p. 52, ll. 762-767). 38 RUFINO, Storia, 1, 30, p. 992, ll. 10-13: Cum igitur huiuscemodi sententias ex euangelica auctoritate prolatas ordo ille sacerdotalis et apostolicus adprobasset, ex concilii decreto Asterio ceterisque qui cum ipsis [sic?] erant, Orientis iniungitur procuratio, Occidentis uero Eusebio decernitur?

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città (abscessit, § 31, l. 10). Se è possibile intuire che Eusebio, senza partecipare a

una o all’altra comunità, ha comunque cercato in vano di radunare la più numerosa –

quella di Melezio –, è difficile stabilire una cronologia precisa degli eventi. La

partenza di Eusebio precede, come dice Rufino secondo l’ordine del racconto, il

ritorno dall’esilio di Melezio (§ 31, l. 11)? Il concilio che questi ha riunito «con gli

altri vescovi orientali» (§ 31, ll. 12-13) ha avuto luogo già nel 362? O si tratta del

concilio che Girolamo colloca nell’anno 363-364, cioè durante il regno di

Gioviano39? Soltanto il risultato viene dato da Rufino: Melezio non si unisce ad

Atanasio (§ 31, l. 13), riguardo al quale Rufino non dirà che è venuto ad Antiochia su

richiesta di Gioviano40. Il seguito immediato della vita cristiana ad Antiochia non

sarà trattato, benché vengano descritti alcuni episodi della persecuzione che si

produce nella seconda parte del regno di Giuliano (§ 36-37). Rufino è quanto meno

passato per Antiochia; ha incontrato Teodoro, il giovane che aveva resistito alla

tortura sotto Giuliano (§ 37, ll. 11-12); conosce l’episodio dello spostamento del

corpo di Babila (§ 36); ma mantiene un totale silenzio sull’appartenenza dei

processionari a una o all’altra comunità, così come tace la presenza del clero al

trasferimento del corpo di un martire. Avendo vissuto a lungo a Gerusalemme, non

può tuttavia non conoscere Paolino, sul quale formula altrove un giudizio laudativo

(§ 28 fine), né Evagrio, colui che sarà il suo successore, dopo aver vissuto per

qualche tempo nell’Italia settentrionale presso Eusebio di Vercelli41, il cui episcopato

provocherà discussioni senza fine in Occidente ancor più che in Oriente42.

39 GIROLAMO, Chronicon ad a. 364, ed. R. Helm, GCS 47, p. 243. 40 All’inizio del libro II Rufino scrive: honorificis et officiosissimis litteris Athanasium requirit (=Gioviano). Ab ipso formam fidei et ecclesiarum disponendarum suscepit modum (RUFINO, Storia, 2, 1, p. 1002, ll. 10-12). In base a queste righe si può decidere per una visita di Atanasio presso Gioviano. Probabilmente Rufino è a conoscenza del loro scambio di lettere. 41 Rufino non cita il nome di Evagrio, protettore di Girolamo. In 1, 8 ha menzionato, senza citare l’autore, la traduzione in latino della Vita di Antonio di Atanasio (p. 971, ll. 17-18). Sappiamo, grazie a Basilio di Cesarea, Ep. 138, 2 (ed. Y. Courtonne, CUF, 2, p. 55), che Evagrio è venuto in Occidente con Eusebio di Vercelli e, grazie a Girolamo, che ha avuto rapporti con Aquileia, dove Rufino e Girolamo hanno soggiornato. 42 Nel libro 2, 21, tracciando lo stato delle grandi Chiese intorno al 390, Rufino ritornerà sulla controversia di Antiochia nei seguenti termini: multa ibi iurgia et multae controuersiae saepe commotae nec tamen, summa ui nitentibus aliis, aliis obnitentibus ipsisque in hoc elementis terrae marisque fatigatis, potuit aliquando pacis ullus obtineri modus, cum utique fidei iam nulla uideretur subesse discordia (RUFINO, Storia, 2, 21, p. 1024, ll. 28-32). Non sappiamo molto di più da Rufino, né dagli storici greci. Tuttavia, benché egli rievochi le discussioni ad Antiochia (ibi), suppone anche la partecipazione di altre Chiese, e probabilmente dell’Occidente, parlando degli elementa terrae marisque fatigata. Ciò non si discosta molto da quanto dichiara Ambrogio riguardo a Evagrio e a Flaviano nel 392 (Ep. 70 [56M], 1, CSEL 82, 3, p. 3: propter ipsos uniuersus orbis concutitur...). Al tempo in cui Rufino colloca la sua affermazione, Paolino probabilmente è già sostituito da Evagrio, di cui tace ancora una volta il nome.

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Quali conclusioni trarre da questi silenzi, se non che la sorte di Antiochia a Rufino – e al

lettore – interessa meno delle conseguenze della controversia scoppiata tra Eusebio e Lucifero?

Lo storico, infatti, rievoca subito il malcontento di Lucifero che si vede sconfessato e la specie

di ritorsione a cui il sardo inizia a pensare (§ 31, ll. 13-22): non riconoscere le decisioni di

Alessandria. La decina di righe che seguono dipingono lo stato d’animo di Lucifero, senza

emettere giudizi troppo duri, così come lo storico si astiene dal pronunciarsi con severità sui

suoi ultimi anni. Tuttavia ricollega esplicitamente a Lucifero lo scisma che ne conseguì e che,

per essere compreso, riporta il lettore al primo oggetto del «decreto» del concilio: la

riconciliazione dei vescovi caduti in errore a Rimini, di cui si occuperà Eusebio.

Prima di seguire tale azione, osserviamo che lo scisma, a detta di Rufino, esiste ancora nel

momento in cui scrive, vale a dire quarant’anni dopo il concilio di Alessandria; ma ormai, a

suo dire, riguarda soltanto pochi, per paucos adhuc uoluitur43. Tuttavia sarebbe sbagliato

sottovalutare questa dissidenza o mettere in dubbio l’informazione di Rufino44. Già nel 397

egli rievocava le difficoltà che Ilario aveva incontrato a causa di Lucifero, al ritorno in

43 RUFINO, Storia, 1, 31, p. 994, ll. 3-5: Ex ipso (=Lucifero) interim Luciferianorum schisma quod, licet per paucos, adhuc uoluitur, sumpsit exordium. Con Girolamo e la sua Altercatio Luciferiani et Orthodoxi siamo abituati al nome Luciferiani. Ma si ricorderà che i seguaci di Lucifero rifiutano tale appellativo, asserendo di non essere altro che veri cristiani, «veri cattolici» (FAUSTINO, Libellus precum, 86-87; ed. M. Simonetti, CC 69, pp. 380-381). Socrate, quando tratta l’incontro tra Eusebio e Lucifero ad Antiochia, parla due volte delle conseguenze dell’azione di Lucifero. La prima volta gli attribuisce, ad Antiochia, «l’eresia dei Luciferiani» (SOCRATE, Storia, 3, 9, 5-6, p. 204, ll. 11-16) che separa un gran numero di persone dalla Chiesa; la seconda volta, quando rievoca, poco dopo, il ritorno di Lucifero in Sardegna, dichiara che «coloro che prima avevano preso parte al suo risentimento sono ancora adesso (eti kai nun) separati (chôrizontai) dalla Chiesa (3, 9, 8, p. 204, ll. 20-21). Sozomeno raggruppa le due informazioni di Socrate collocandole, a quanto pare, in Sardegna (5, 13, 4-5, p. 212, ll. 9-17). Teodoreto, ancor più conciso, si sofferma sullo scisma di Antiochia (3, 5, 2, pp. 180-181), di cui indica la durata (85 anni, fino all’episcopato di Alessandria), prima di parlare del ritorno di Lucifero in Sardegna, dove i suoi seguaci sono stati «a lungo chiamati Luciferiani» (3, 5, 4, p. 181, ll. 12-13). Teodoreto è il solo a dire che i Luciferiani hanno «aggiunto» qualche punto dottrinale, anche se segnala che il movimento non è più attivo (3, 5, 4, p. 181, ll. 13-14). 44 In questo racconto Rufino separa nettamente ciò che sta per succedere in Occidente, per il quale parla di scisma durevole − probabilmente controllabile per i lettori e che ricollega a Lucifero (1, 31, p. 994, ll. 3-5) −, da ciò che dirà molto più avanti, in 2, 21, della controversia tra Paolino e Flaviano, di cui non sottolinea come derivi dall’azione di Lucifero. In compenso, dopo aver rievocato nel 378 il ritorno di Melezio nuovamente esiliato da Valente, Socrate (5, 5) e successivamente Sozomeno (7, 3) parlano di un patto stipulato tra Melezio e Paolino, in base al quale l’insieme delle comunità aderirebbe alla causa dell’ultimo superstite. Viene trattato quindi il rifiuto da parte dei Luciferiani di accondiscendere a tale accordo, in quanto Melezio è stato ordinato dagli Ariani. Il patto non verrà rispettato alla morte di Melezio (Socrate, 5, 9; Sozomeno, 7, 11) e i vescovi riuniti a Costantinopoli riconosceranno Flaviano, nonostante le obiezioni degli occidentali, rimasti fedeli a Paolino. Niente di tutto ciò in Rufino.

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Occidente45. Sappiamo che tra il 374 e il 378 Satiro, fratello di Ambrogio, evita di essere

battezzato da un seguace di Lucifero46 e che Faustino e Marcellino, nella loro supplica a

Teodosio, rievocano vari nuclei fedeli a Lucifero47 e ostili ai caduti in errore di Rimini, così

come ai loro difensori passati e presenti. Damaso48 è violentemente attaccato da Faustino.

Bisognerà aspettare il pontificato di Innocenzo I per sentire l’ultimo giudizio quasi

contemporaneo su Lucifero e sulla sua pertinacia49. Di sicuro nel 402 il piccolo gruppo non ha

più un grande seguito, se esiste ancora per paucos in Occidente. Ciononostante ha complicato

l’opera di restaurazione della fede di Nicea, di cui Rufino traccia la storia dei primi anni.

A partire dagli anni 360-365 la maggior parte dell’Occidente era di fatto ritornata

alla retta fede, tuttavia non senza difficoltà. Rufino lo afferma continuando il

racconto e passando dall’attività di Eusebio (§ 31 ad f.)50 a quella di Ilario (§ 32).

Veniamo a sapere che questi era già ritornato dall’esilio e che si trovava in Italia nel

momento in cui vi giunge Eusebio dopo aver attraversato l’Oriente51. Tali indicazioni

geografiche turberebbero alquanto se non potessimo collegare varie informazioni,

spesso ellittiche, che formano per ognuno dei due confessori una specie di itinerario

tra le righe. È possibile, infatti, attribuire verosimilmente a Eusebio un ritorno via

terra, circumiens Orientem atque Italiam (§ 31 f), che gli ha fatto attraversare – e

forse percorrere – una parte della Grecia52. Ad ogni modo sappiamo che è passato per Sirmio,

45 RUFINO, De adulteratione librorum Origenis, 11 (ed. M. Simonetti, CC 20, p. 14). Lo stesso Ilario dovette difendere il suo De synodis: cfr. le note a margine pubblicate in PL 10, c. 545-548 e le nuove note scoperte da P. Smulders (Bijdragen 39, 1978, pp. 234-243). 46 AMBROGIO, De excessu Satyri, 1, 47 (ed. O. Faller, CSEL 73, p. 235). 47 FAUSTINO, Libellus precum, 62-78 (ed. M. Simonetti, CC 69, pp. 375-379). Sulla Spagna cfr. J. FERNÁNDEZ UBIÑA, «El Libellus Precum y los conflictos religiosos en la Hispania de Teodosio», in Florentia Iliberritana, 8, 1997, pp. 103-123. 48 Ibid., 79-85 (pp. 379-380); cfr. Aline CANELLIS, «Arius et les Ariens vus par les Lucifériens dans le Libellus Precum de Faustin et Marcellin», in Studia Patristica 36, Leuven, 2001, pp. 489-501 e soprattutto pp. 496-497. 49 INNOCENZO, Ep. 3, 2 (Saepe me, PL 20, c. 487 A): Quae alia causa et superioribus temporibus illius Luciferi praeter pertinaciam fuit, quae eum retraxit a concordia illorum qui Arianorum haeresim prudenti conuersione damnauerant? Così, poco dopo il 402, ai vescovi riuniti a Toledo per risolvere le conseguenze del priscillianesimo. Per Innocenzo il movimento di separazione sembra essere cessato. 50 RUFINO, Storia, 1, 31 (p. 994, ll. 5-6): Eusebius uero circumiens Orientem atque Italiam, medici pariter et sacerdotis fungebatur officio... 51 Ibid., 1, 31 (p. 994, ll. 7-10): ... Hilarium, quem dudum cum ceteris episcopis in exilium trusum esse memorauimus, regressum iam et in Italia positum haec eadem erga instaurandas ecclesias fidemque patrum reparandam repperit molientem. 52 Sappiamo che si sono tenuti diversi concili nell’Acaia e in Macedonia, regioni che possono perfettamente situarsi sulla strada del ritorno di Eusebio attraverso l’Illirico. Su questi concili cfr. LIBERIO, Ep. Imperitiae culpam, 1 (ILARIO, Collectanea antiariana Parisina, B IV, 1, CSEL 65, p. 157, ll. 3-7); ATANASIO, Ep. ad Rufinianum (PG 26, c. 1180 B-C); ID., BASILIO, Ep. 204, 6 (ed. Y. Courtonne, 2, p. 179).

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dove non riscosse grande successo53. Quanto all’Italia, senza convalidare le

indicazioni della sua Vita tardiva54, è possibile pensare che abbia fatto aderire Liberio

alla sua azione, poiché questi non ha indugiato a scrivere ai vescovi italiani55, a meno

che quest’intervento non sia dovuto a Ilario che, sulla via del ritorno in Gallia nel

360, si fermò a Roma56. Sappiamo che questi era di nuovo a Milano nel 364, senza

sapere da quando cercasse di radunare gli incerti dell’Italia settentrionale. Rufino cita

altrove una riunione di vescovi in cui i sostenitori di Lucifero – o Lucifero stesso –

tentarono di metterlo in difficoltà. Tuttavia ignoriamo se il vescovo di Poitiers tornò

più volte in Italia dopo il ritorno dall’Oriente o se si limitò ad agire «attraverso i

libri».

Di fatto Rufino, che gli attribuisce virtù e un’attività superiori a quelle di Eusebio (§ 32, ll.

1-3) – cui era stato affidato esplicito mandato dal concilio di Alessandria57 –, aggiunge che

Ilario condusse la sua azione anche attraverso gli scritti (§ 32, ll. 3-5). Ho già avuto occasione di

dire che i libri de fide rievocati da Rufino non erano verosimilmente, nonostante il titolo,

quelli che chiamiamo il De Trinitate, bensì più probabilmente il Liber aduersus Ursacium et

Valentem che, secondo Girolamo, conteneva il racconto del concilio di Rimini58. Ciò che Rufino

dice di questi libri corrisponde, infatti, a quanto si può trovare nella denuncia da parte di Ilario dei

due consiglieri di Costanzo II – di cui Rufino non ha nemmeno citato il nome –. Esponeva(no)

infatti le «manovre (uersutiae) degli eretici» e il modo con cui «i nostri erano stati ingannati

nella loro troppo credula ingenuità59» (§ 32, ll. 4-5). Abbiamo qui sia la tesi –

53 Secondo l’Altercatio Heracliani laici cum Germinio episcopo Sirmiensi (PLS 1, c. 345), che menziona anche Ilario. 54 Vita Eusebii (BHL 2748, ed. F. Ughelli, Italia sacra, 4, II ediz., Venezia, 1729, 759 A-B). Se rievoca un’intesa con il «papa romano», la Vita commette sicuramente un errore nell’affidare l’Oriente alle cure di Atanasio. 55 LIBERIO, Ep. Imperitiae culpam, 1-2: ILARIO, Collectanea antiariana Parisina, B IV, 1 (CSEL 65, pp. 156-157). Siricio, nel 385, rievoca una lettera di Liberio che non abbiamo più, che avrebbe annullato il concilio di Rimini e avrebbe proibito di ribattezzare (SIRICIO, Ep. Directa ad decessorem, 1, 2, PL 13, c. 1033-1034). Si tratta forse di un altro intervento? 56 SULPICIO SEVERO, Vita Martini, 6, 7 (ed. J. Fontaine, SC 133, p. 266): Martino accorre a Roma per raggiungere Ilario. Cfr. il mio articolo «Vrais et faux problèmes concernant le retour d’exil d’Hilaire de Poitiers et son action en Italie en 360-362», in Athenaeum 48, 1970, pp. 251-275 e soprattutto p. 262 (ripreso con qualche correzione e con una nota complementare in L’extirpation de l’Arianisme en Italie du Nord et en Occident, Variorum Reprints, Ashgate, 1998, Étude 3). 57 Rufino riprende (1, 32, ll. 2-3) la parola procurabat, che era il termine con cui era stato affidato il mandato a Eusebio (1, 30, l. 3). 58 Cfr. l’art. «Vrais et faux problèmes...», pp. 271-272. 59 RUFINO, Storia, 1, 32 (p. 994, ll. 11-17): Hilarius (...) rem diligentius et aptius procurabat. Qui etiam libros de fide nobiliter scriptos edidit, quibus et haereticorum uersutias et nostrorum deceptiones et male credulam simplicitatem ita diligenter exposuit ut et praesentes et longe positos (...) perfectissima instructione corrigeret.

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tranquillizzante – di Ilario, quale la si può dedurre dalla presentazione che Girolamo

mutua probabilmente da Ilario nella sua Altercatio Luciferiani et Orthodoxi60, sia la

tesi di Rufino dall’inizio dell’episodio.

A partire dalla presentazione dei tentativi di Costanzo contro la fede degli

occidentali fedeli a Nicea si è parlato di deceptio, attiva e passiva. Con l’inganno

Costanzo tenta di costringere gli occidentali ad aderire all’eresia ariana (§ 20 ad f.); a

Milano la maggioranza viene ingannata (plures decepti, § 21, l. 2), mentre quelli che

resistono e gridano al dolus (§ 21, l. 3) vengono mandati in esilio; Ilario viene a sua

volta esiliato, ceteris uel ignorantibus, uel non credentibus fraudem (§ 21, fine). A

Rimini gli Ariani, che sono callidi homines et uersuti, ingannano facilmente i

vescovi occidentali, che sono simplices et imperiti (§ 22, ll. 4-5), al punto tale che

molti sono decepti (§ 22, ll. 9-10). Essi rinunciano all’homoousios di Nicea e

macchiano la propria comunione associandosi con gli eretici61.

Il quadro tracciato da Rufino sul ritorno della luce «in Italia e nelle Gallie»

grazie ai «due luminari» Eusebio e Ilario62 è l’equivalente di quello che

aveva dipinto sulla crisi della Chiesa dopo Rimini63. Egli chiude in un certo

senso il cerchio. Non si parlerà più della questione ariana in Occidente –

eccezion fatta per la persecuzione di Ambrogio da parte di Giustina64 –, il

che tuttavia non significa che il lettore possa seguire meglio i dibattiti di

quegli anni in Oriente65; non sapremo niente, in particolare, del modo in cui

Asterio ha svolto la propria missione qua e là nel 362 e oltre66. Una volta

60 GIROLAMO, Altercatio Luciferiani et Orthodoxi, 17-19 (ed. Aline Canellis, CC 79 B, pp. 43-50). Cfr. il mio art. «La “manoeuvre frauduleuse” de Rimini. À la recherche du Liber aduersus Vrsacium et Valentem», in Hilaire et son temps, colloque de Poitiers, 29 septembre-3 octobre 1968, Paris, Études augustiniennes, 1969, pp. 51-103 (ripreso in L’extirpation..., Étude 2). 61 Ho mostrato la fortuna di questo testo di Rufino che continua a complicare «la storia» del concilio di Rimini: «Julien d’Éclane et Rufin d’Aquilée: du Concile de Rimini à la répression pélagienne. L’intervention impériale en matière religieuse», in REAug 24, 1978, pp. 243-271 e in particolare pp. 261-269. 62 RUFINO, Storia, 1, 32 (p. 994, ll. 17-20). Inizia poi la seconda parte del regno di Giuliano, con la persecuzione e le varie manovre contro i cristiani (ll. 33-40). 63 Ibid., 1, 22 (p. 998, ll. 16-22): Ea tempestate facies Ecclesiae foeda et admodum turpis erat... 64 Ibid., 2, 15-16 (pp. 1020-1022), con rimando a Rimini (p. 1021, ll. 3-4). 65 Rufino non dice nulla riguardo ai dibattiti teologici tra le varie correnti orientali negli anni 360-380. 66 Nessun cenno nemmeno in Socrate, Sozomeno e Teodoreto.

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conclusasi la persecuzione di Giuliano, per un po’ di tempo ignoriamo tutto della vita cristiana

ad Antiochia. Il concilio di Costantinopoli del 381 viene semplicemente citato a proposito di

Apollinare, in data tardiva67, senza che vengano definite le altre questioni e decisioni68. In

precedenza i Cappadoci sono stati celebrati per la loro scienza e per la loro ascesi, molto più

che per la partecipazione all’elaborazione dottrinale della dottrina trinitaria69. Con Didimo70

essi formano un trio di eminenti personalità che bisogna far conoscere all’Occidente71, ma la

cui azione in Oriente non è affatto descritta nei minimi particolari. Dicendo questo, sono uscito

dal libro X (I), le cui pagine che ho rapidamente esaminato formano il sesto o il settimo

capitolo. Ma l’osservazione potrebbe essere estesa al libro XI (II), mostrando le lacune delle

sue informazioni – o del suo interesse – riguardo all’Oriente tra il 363 e il 390.

Senza riconoscere tali lacune, A. Glas, nel desiderio di trovare l’origine della Storia di Rufino nella presunta

opera di Gelasio di Cesarea, per la gioia della Quellenforschung, era costretto a fare un’eccezione72

67 RUFINO, Storia, 2 (XI), 20 (p. 1024, ll. 19-20). Così dopo il ritorno di Teodosio in Oriente nel 391. Rufino segnala che gli Apollinaristi si separano dalla Chiesa, che hanno i propri vescovi, le proprie tesi e le proprie chiese. 68 Nessun cenno alla sua opera dottrinale, né alle decisioni disciplinari. Non si parla né della morte di Melezio, né della partenza di Gregorio Nazianzeno, né della decisione di riconoscere Cirillo come vescovo di Gerusalemme (Sinodale del 382: Teodoreto, HE, 5, 9, 17, GCS 19, p. 294, l. 3), misura che avrebbe dovuto interessare suo nipote Gelasio. Il nome di Cirillo appare in Rufino soltanto nel capitolo seguente, 2, 21, in cui l’autore, dopo il ritorno di Teodosio in Oriente nel 391, traccia lo stato delle (grandi) Chiese d’Occidente e d’Oriente: Roma, con Siricio (385); Alessandria, con Timoteo (381-386) e Teofilo (386); Gerusalemme (post Cyrillum Ioannes); Antiochia, alla cui sede è dedicata una lunga trattazione; Costantinopoli, con Nettario (381), ma senza che Rufino indichi che prende il posto di Gregorio Nazianzeno. Riguardo ad Antiochia, Rufino scrive: Apud Antiochiam uero, Meletio defuncto, substituitur Flauianus. Sed quod Paulinus adhuc supererat, qui in catholicorum semper societate permanserat, multa ibi iurgia et multae controuersiae saepe commotae... (2, 21, p. 1024, ll. 26-29). Nessun cenno al patto Melezio-Paolino prima della morte (avvenuta a Costantinopoli) di Melezio nel 381, al mancato rispetto del patto né agli sviluppi dello scisma dei Luciferiani di cui parleranno gli storici greci. In compenso Rufino aggiunge ad Antiochia il caso di Tiro, dove i Meleziani ordinano un vescovo contro Diodoro, che riceve, dal canto suo, tutte le patenti di ortodossia (2, 21, p. 1024, l. 30 - p. 1025, l. 3) ed estende la confusio a molte altre chiese d’Oriente (ibid., p. 1025, ll. 3-4), di cui gli storici successivi non parlano minimamente. Riguardo a Tiro, va ricordato che in questa città Rufino dichiara di aver fatto la conoscenza di Edesio, eroe della missione etiope (1, 10 ad fin., p. 973, ll. 21-23). 69 RUFINO, Storia, 2, 9 (pp. 1014-1017). Le circostanze in cui Gregorio Nazianzeno lascerà la sede di Costantinopoli non vengono precisate e il nome del successore non viene indicato (ibid., pp. 1016-1017). 70 Ibid., 2, 7 (pp. 1012-1014). 71 Rufino si atteggia ad ascoltatore di Didimo (2, 7, p. 1013, ll. 10-14) e a traduttore di Gregorio e di Basilio (2, 9, p. 1017, ll. 8-12). Ci troviamo di fronte a una sorta di promozione delle sue opere. 72 A. GLAS, op. cit. (n. 18), pp. 23-24.

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per i ritratti di Didimo, dei monaci d’Egitto e dei cappadoci Basilio e Gregorio,

perché quanto è detto nella Storia di Rufino e da lui proposto come testimonianze

personali assomiglia molto a ciò che troviamo nel resto dell’opera.

Nel periodo in cui scrive la sua Storia della Chiesa, di fatto Rufino ha già tradotto

varie opere di Gregorio e di Basilio, come egli afferma. Lo stesso vale per i monaci

d’Egitto: la Storia della Chiesa annuncia infatti la Storia dei monaci73. D’altronde si

sa che Rufino ha appena rivendicato in altra sede74 legami con Didimo più stretti di

quelli ostentati da Girolamo. Nel 406 Girolamo ricorderà che Didimo gli aveva fatto

la dedica su due Commenti75; ma già nel 401 informa che Didimo aveva scritto per

Rufino un trattato Sui bambini morti prematuramente76. Il fatto che non se ne parli

nella Storia della Chiesa non ha nulla di sorprendente; Rufino non fiata sulle

discussioni intorno a Origene, non cita il nome di Giovanni di Gerusalemme se non

come successore di Cirillo sulla cattedra di Gerusalemme77 e riesce a raccontare la

distruzione del Serapeo di Alessandria senza pronunciare il nome di Teofilo che, in

quel periodo, è passato dalla parte degli avversari di Origene78. Piuttosto che

un’eccezione, direi che questi capitoli corrispondono alla maniera solita di Rufino. Si

faticherebbe alquanto a definire la maniera di Gelasio e sarebbe davvero

sorprendente che il nipote di Cirillo non avesse parlato di più di Gerusalemme79. Vi

73 RUFINO, Storia, 2, 8 (p. 1013, ll. 24 sgg.). Cfr. Historia monachorum, 29, 5, 5 (ed. Eva Schulz-Flügel, Berlin, 1990, p. 375) e Apol. c. Hieronymum, 2, 15 (ed. M. Simonetti, CC 20, p. 94, l. 15 - p. 95, l. 25). 74 RUFINO, Apol. c. Hieronymum, 2, 15 (CC 20, p. 94). 75 GIROLAMO, Commentarius in Osee, Prologus (ed. M. Adriaen, CC 76, p. 5, ll. 129-137); Commentarius in Zachariam, Prologus (CC 76 A, p. 748, ll. 31-32). 76 GIROLAMO, C. Rufinum, 3, 28 (ed. P. Lardet, CC 79, p. 100, ll. 47-49). 77 RUFINO, Storia, 2, 21 (p. 1024, l. 25). 78 Ibid., 2, 22 (p. 1025, l. 12); 24 (p. 1030, ll. 16-17). Bisogna forse dedurre il suo nome dalla lista dei vescovi delle «sedi apostoliche» stilata in 2, 21 (p. 1024, ll. 24-25)? È chiedere troppo al lettore! 79 Non si tratta di negare l’esistenza di una qualche Storia di Gelasio, poiché Fozio (Cod 89) l’ha avuta tra le mani. Non si tratta nemmeno di stabilire i limiti e la data. Si tratta di sapere se Rufino se ne sia servito e in quale misura o per quali argomenti. Per quanto riguarda gli anni 325-381 ci si può soltanto sorprendere, se Rufino dipende dal racconto di Gelasio, che la presentazione dello storico latino tratti così poco le sventure − diciamo così − di Cirillo di Gerusalemme, quando questi era lo zio di Gelasio, su richiesta del quale, secondo quanto riporta Fozio, aveva intrapreso il seguito della Storia di Eusebio. Sarebbe come spingere un po’ troppo in là la modestia e la discrezione parlare di Cirillo solo per incriminare la sua ortodossia. Credo che questo mettere sotto accusa provenga invece, in Rufino, dalla notizia di Girolamo presente nella Cronaca (ad a. 348). L’Oriente non aveva risentito meno dell’Occidente della volontà unificatrice di Costanzo e le divisioni erano state molto più numerose tra le diverse «scuole» e regioni.

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sono silenzi che si spiegano difficilmente, per lo meno se si può sospettarne

l’esistenza. Ma non mi sembra sia così. A differenza di Rufino.

***

Nonostante il prudente silenzio che Rufino osserva sui dibattiti dottrinali nei quali

si trova coinvolto nel periodo in cui compone il seguito della Storia Ecclesiastica di

Eusebio80, non si può prescindere dall’insieme della sua opera e dalle preoccupazioni

che può nutrire allora un membro della Chiesa di Aquileia, se si vuole comprendere

questa Storia e scoprirne gli obiettivi. Certo, se ve ne fosse bisogno, la difesa di

Nicea e quella di Atanasio – di cui non ha tradotto nulla – poteva fungere da garanzia

della sua ortodossia trinitaria contro i sospetti seminati dagli avversari; ma

probabilmente non è questo lo scopo primo di Rufino che, come dice nella

Prefazione, scrive ad Aquileia, su richiesta di Cromazio. Negli anni 370-380 questi

era stato celebrato da Girolamo per essersi opposto al «veleno ariano» nella propria

città81. Benché non abbiamo informazioni precise sulla sua condotta nel 360,

sappiamo che il vescovo Fortunaziano aveva contribuito alla resa di Liberio due anni

prima82. Probabilmente aveva fatto parte dei firmatari di Rimini e aveva potuto – o

dovuto – beneficiare delle misure comprensive dei «Confessori» ad Alessandria.

Così si comprenderebbe meglio il silenzio totale di Rufino riguardo alla sede di

Aquileia – che comunque non era priva d’importanza già nel IV secolo e che

rivendicava legami con i tempi apostolici – e la sua «ignoranza», probabilmente

volontaria, circa le circostanze e le condizioni del ritorno di Liberio nella sua città83.

Ma il pubblico di Aquileia per il quale scriveva Rufino non poteva trovare molto interesse né edificazione in queste discussioni, talvolta sottili e spesso superate. 80 Lo stesso vale per l’Expositio symboli, che è lungi dall’esser separata dalle questioni dottrinali in cui si trova coinvolto Rufino. Su questo punto cfr. il mio art. «Le Liber Hieronymi ad Gaudentium: Rufin d’Aquilée, Gaudence de Brescia et Eusèbe de Crémone», in RBén 97, 1987, pp. 163-186 e in particolare pp. 181-182. 81 GIROLAMO, Ep. 7, 6 (ed. J. Labourt, 1, p. 24, ll. 24-25). 82 GIROLAMO, De uiris illustribus, 97 (ed. A. Ceresa Gastaldo, Firenze, 1988, p. 202). 83 RUFINO, Storia, 1, 28 (p. 990, l. 26 - p. 991, l. 3).

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Il primo libro della Storia della Chiesa non è soltanto il racconto degli scontri per

la fede di Nicea o delle lotte di Atanasio tra il 325 e il 360. È, a partire dal 350, il

racconto del cedimento della Chiesa d’Occidente mal informata dinanzi alle mosse e

alle misure di forza di Costanzo, seguito da una lenta restaurazione, i cui artefici

sono Eusebio e Ilario, e l’ostacolo Lucifero. Non soltanto questi provocherà con la

sua avventatezza lo scisma di Antiochia, ma soprattutto sarà responsabile, con il suo

rigorismo e con la sua ostinazione, delle divisioni che turberanno, ancor più

dell’arianesimo, la vita religiosa dell’Occidente durante almeno un quarto di secolo.

Nel momento in cui Rufino scrive, le tensioni si sono quasi placate. Una nuova

generazione di vescovi ha fatto dimenticare le capitolazioni dei predecessori. La discrezione

di Rufino non deve occultare l’ampiezza del disastro e delle sue ripercussioni. Se l’Altercatio

Luciferiani et Orthodoxi di Girolamo è piena di scusanti per i vescovi, l’ultra-niceno monaco

di Betlemme è talvolta più severo nei confronti dei caduti in errore e lascia intuire ciò che

dovette essere il ritorno alla fede di Nicea subito dopo il concilio di Alessandria.

Spero di aver evidenziato l’importanza che questo ha avuto, ma soprattutto quella che

ha assunto nella Storia di Rufino. Invece bisognerebbe sottolineare come, nonostante i

soggiorni di Rufino in Oriente, gli avvenimenti degli anni 325-360, così come quelli

legati alle discussioni intorno al 365-380, sia a Costantinopoli, in Cappadocia, ad

Antiochia, ad Alessandria o a Gerusalemme, occupino poco spazio e siano piuttosto

vaghi per un’opera che si vorrebbe fosse la traduzione della Storia, greca, di Gelasio di

Cesarea. Ho mostrato che Rufino aveva in realtà mutuato da Girolamo i quadri politici

della sua Cronaca nonché alcuni dati, se non addirittura alcuni giudizi84. Si prenda la

presente traccia come una nuova contestazione della tesi di Glas: la storia e l’attuazione

del concilio di Alessandria non hanno nessun equivalente presso gli storici orientali e, se

si parla di Antiochia, è perché Lucifero ha iniziato lì lo scisma, i cui effetti si sono fatti

sentire in Occidente per almeno quarant’anni.

Tuttavia non basta dire che lo spazio dedicato al concilio e alle sue conseguenze si spiega

con il fatto che Rufino, un occidentale, scrive per gli occidentali. Gli storici greci che lo

seguiranno e che lo useranno avrebbero potuto fornire l’equivalente orientale, se lo avessero

trovato nella Storia di Gelasio. Il loro silenzio è eloquente a contrario. Soltanto Sabino

secondo Socrate – e non Gelasio – si è interessato al «dopo Costantinopoli 36085». La lettera

84 Y.-M. DUVAL, «Sur quelques sources latines de l’Histoire de l’Église de Rufin d’Aquilée», in Cassiodorus 3, 1997, pp. 131-151 e in particolare pp. 136-148. 85 Nemmeno Filostorgio è qui di aiuto.

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a Gioviano scritta nel 365 da Melezio ha, tra gli altri, come cofirmatario Acacio86 di

Cesarea, metropolita di Gerusalemme, nonché suo predecessore87. «Gelasio» avrebbe

avuto tutto l’interesse a insistere sull’adozione da parte del gruppo della formula di

Nicea, o almeno sull’importanza crescente assunta ormai da Melezio nella ventina

d’anni che seguì e che condusse al riconoscimento ufficiale di Cirillo di

Gerusalemme. Di tutto questo neanche un cenno, nemmeno in Teodoreto, fervido

difensore di Melezio. Non sarà forse perché Gelasio, il vero Gelasio, non diceva

nulla in tal senso?

Yves-Marie DUVAL

(2001)

86 Su Acacio, difensore della formula di Rimini-Costantinopoli homoios kata tas graphas, ignorato da Rufino: J.-M. LEROUX, «Acace, évêque de Césarée», in Studia Patristica 8, Berlin, 1966, pp. 82-85; J.T. LIENHARD, «Acacius of Caesarea: Contra Marcellum», in Cristianesimo nella Storia 10, 1989, pp. 1-21 e soprattutto pp. 1-7. 87 SOCRATE, Storia, 3, 25, 18 (p. 227, l. 3); SOZOMENO, Storia, 6, 4, 6 (p. 241, ll. 9-10).

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RIASSUNTO: Il concilio di Alessandria, che nel 362 fissa le basi disciplinari e dottrinali del ritorno

alla fede di Nicea ufficialmente abbandonata due anni prima con l’adozione del Simbolo di Nicea-

Costantinopoli, riveste nella Storia della Chiesa di Rufino un’importanza che non sarà più accordata

dagli storici greci del V secolo. Questi tacciono in particolare l’aspetto disciplinare della riunione che

si era mostrata clemente verso i vescovi che avevano accettato più o meno ingenuamente la fede di

Nicea-Costantinopoli. Rufino, che ha conosciuto la situazione della Chiesa negli anni 360-380, si

sofferma sul concilio e sulla sua attuazione in Occidente da parte di Eusebio di Vercelli e di Ilario di

Poitiers, per la buona ragione che questa incontrò l’intransigenza di Lucifero di Cagliari e di coloro

che a lui si richiamavano. L’atteggiamento di Lucifero è presentato come la conseguenza del

disconoscimento da parte di Eusebio della sua azione ad Antiochia nel 362, senza che Rufino si

dilunghi sul seguito della storia della Chiesa di tale cittadina. La cornice di fondo, occidentale, non

depone a favore di una traduzione da parte di Rufino di una Storia greca; in compenso invita a non

dimenticare uno scisma che ha sconvolto la vita della Chiesa d’Occidente e che ha ancora un piccolo

numero di adepti mentre Rufino scrive.

ABSTRACT: The Council of Alexandria, which, in 362 AD, established the disciplinary and

doctrinal foundation to restore the faith of Nicaea officially abandoned two years earlier with the

adoption of the Nicena-Constantinopolitan Creed, is considered a key point in the History of the

Church by Rufinus. The Greek historians of the fifth century did not pay much attention to it later on.

In particular, they remain silent on the disciplinary aspects of this meetings which turned out to be

flexible towards the bishops who had ingenuously accepted the Nicena-Constantinopolitan faith.

Rufinus, who was well aware of the situation of the Church in the years 350-380, works closely on the

council and its ruling in the West realised by Eusebius of Vercelli and Hilary of Poitiers, mainly

because the later faced the unflexible Luciferius of Cagliari and his followers. Lucifer’s attitude is

shown as the consequence of the denying by Eusebius of his action in Antioch in 362 AD;

nevertheless, Rufinus is not commenting much on the history of Church in this city. The background,

which has an Occidental touch, does not give a proof that Rufinus translated a Greek History; on the

other hand, it is remainder of the schism which disturbed the life of the Occidental Church, producing

a small number of believers still existing when Rufinus wrote.

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III. COMMENTO LINGUISTICO E TRADUTTIVO

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1. TIPOLOGIA E FUNZIONI TESTUALI

Prima di affrontare la traduzione di un testo è di fondamentale importanza effettuare

un’accurata analisi preliminare dello stesso, al fine di individuare la tipologia testuale in

cui si inscrive. Riconoscere la tipologia e le funzioni testuali del testo di partenza

costituisce il primo passo per comprendere le intenzioni comunicative dell’autore, il che

consente poi di adottare le strategie traduttive più indicate in sede di traduzione. Risulta

infatti evidente che

la determinazione dei generi testuali indica le funzioni preminenti irrinunciabili in una traduzione e stabilisce anche il tipo di intervento linguistico da effettuare per garantire una corretta omologia dei testi a confronto (Arcaini 1992, citato in Scarpa 2001: 78).

Per quanto possa apparire contraddistinto da numerose e diverse variabili linguistiche,

ciascun testo può generalmente essere collocato in una determinata tipologia testuale,

caratterizzata da fattori al tempo stesso contenutistici e formali, che vanno tenuti in

eguale considerazione. Tradurre, infatti, “non significa rispettare solo il contenuto

lessicale e strutturale del testo, ma anche il senso globale, semantico e pragmatico

dell’originale” (Raccanello 1997: 266).

Nel caso del presente elaborato siamo di fronte a una raccolta di sette saggi, tutti di

carattere storico-religioso; l’autore, Yves-Marie Duval, è infatti uno dei massimi esperti

viventi in materia di Storia della Chiesa, specie per quanto concerne la vita e l’operato

di San Martino, di San Girolamo e di Rufino di Aquileia.

Il genere della saggistica si avvicina per molti versi a quello letterario, dal quale

tuttavia si allontana per la presenza di una terminologia specifica, legata alla trattazione

esaustiva di un determinato argomento (a differenza della narrativa, la saggistica è

sempre legata a un campo organizzato del sapere). Cionondimeno, diversamente dal

testo scientifico e settoriale, nel testo saggistico la componente estetica può rivestire una

notevole importanza.

In virtù di ciò si evince che il saggio è solitamente più elegante e letterariamente

prezioso di un testo tecnico-scientifico. Infine, a differenza dell’articolo scientifico,

caratterizzato da una forte denotatività, il saggio contiene moltissimi rimandi

connotativi e intertestuali, il che può avere ricadute molto importanti sul piano della

traduzione.

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Per quanto concerne le funzioni del testo di partenza, l’autore si rivolge a una cerchia

di studiosi e di esperti nel campo della letteratura cristiana antica e della patrologia, cui

intende dimostrare la validità di determinate argomentazioni. Il fruitore dei saggi risulta

essere quindi uno specialista della materia, che non mancherà di cogliere o di intuire gli

innumerevoli rimandi e i frequenti sottintesi che caratterizzano le esposizioni del Duval.

Cionondimeno il periodare del patrologo francese, improntato sulla chiarezza e sulla

ridondanza e scevro da tecnicismi gratuiti, consente la comprensione globale del testo

anche da parte di un pubblico profano.

2. APPROCCIO TRADUTTIVO

Nella traduzione saggistica si sommano spesse volte le difficoltà terminologiche della

traduzione settoriale (benché il livello di specializzazione sia solitamente inferiore) e le

difficoltà connotative della traduzione letteraria. I saggi del Duval non sfuggono a tale

ambivalenza; ciononostante sarebbe esagerato parlare di vere e proprie difficoltà

terminologiche, giacché il grado di specializzazione è lungi dall’apparire elevato.

Quanto alla componente stilistico-espressiva, essa è ben presente nei saggi affrontati

in questa sede; in sede di traduzione si è cercato di rimanere fedeli allo stile e

all’espressività del testo di partenza, laddove tale fedeltà non inficiasse, beninteso, la

scorrevolezza della lettura e la chiara comprensione del testo stesso.

In definitiva si è adottato un metodo traduttivo che consentisse di rispettare l’esatto

significato contestuale dell’originale (traduzione semantica), ma che non trascurasse di

riprodurre nel migliore dei modi l’effetto dell’originale (traduzione comunicativa; cfr.

Newmark 1988: 79).

In realtà separare i due approcci traduttivi (semantico e comunicativo) sarebbe

impensabile, giacché “non esiste un unico metodo, comunicativo o semantico, per

tradurre un testo”, ma “si tratta in effetti di due serie di metodi in larga misura

sovrapposti” (Newmark 1988: 82).

In corso di traduzione sono state pertanto applicate diverse microstrategie traduttive;

proprio su queste è incentrato il presente commento, che esplora a vari livelli

(morfosintattico, lessicale, stilistico e interpuntivo) le procedure adottate.

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3. ASPETTI MORFOSINTATTICI 3.1. STRUTTURA DEL PERIODO

I saggi di Yves-Marie Duval tradotti in questa sede presentano una sintassi piuttosto

semplice e lineare. La paratassi, costruzione in cui le proposizioni sono indipendenti le

une dalle altre e strutturalmente corrette (cfr. Marinucci 1996: 350), prevale

sull’ipotassi, le frasi brevi e semplici su quelle lunghe e complesse.

Lo stile paratattico dell’autore non ha posto particolari problemi: in sede di traduzione

si è scelto di rispettare la struttura sintattica dell’originale, che poggia in larga misura

sulla giustapposizione (o coordinazione per asindeto), vale a dire il semplice

accostamento delle proposizioni divise da un segno interpuntivo che contribuisce a

scandire il ritmo delle azioni. Si viene quindi a creare un ritmo spezzato, sincopato,

veloce, come si evince dai seguenti esempi:

Aussi bien Ambroise que Pacatus insistent sur l’irrésolution de Maxime au lendemain de ses deux défaites: il va, il vient, ne sait où aller; finalement il s’enferme dans Aquilée, avec ses Maures, mais en sort pour se rendre à Théodose. Sia Ambrogio sia Pacato insistono sull’irresolutezza di Massimo, dopo le sue due sconfitte: egli va e viene, senza sapere dove; alla fine si chiude ad Aquileia con i suoi Mauri, ma esce per arrendersi a Teodosio. (p. 47).

Jérôme semble être parti seul. Les circonstances de ce départ sont mal connues; son itinéraire également. Girolamo sembra essere partito da solo. Le circostanze della partenza sono poco note, come pure l’itinerario. (p. 85).

Si è generalmente rimasti fedeli alla sintassi originale anche in presenza di frasi molto

brevi:

Le règne si bref de Julien tient une grande place dans le récit de Rufin. Celui-ci se décompose en deux parties très nettes. Il breve regno di Giuliano occupa molto spazio nel racconto di Rufino. Si divide in due parti molto nette. (p. 237).

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On peut cependant découvrir deux sources de documentation écrite. La première est grecque. Elle concerne ce qu’on appelle, depuis Rufin, le “Concile des Confesseurs”. Tuttavia è possibile scoprire due fonti di documentazione scritta. La prima è greca. Riguarda quello che viene chiamato, da Rufino in poi, il «Concilio dei Confessori». (p. 237).

Solo in qualche caso si è optato per la fusione di periodi brevi, al fine di rendere più

scorrevole il testo di arrivo. La scelta è altresì dettata dal diverso grado di coesione che

presenta il francese rispetto all’italiano; in francese appare infatti obbligatoria la ripresa

anaforica (spesso mediante pronome personale soggetto) dopo il punto fermo, che crea

non pochi problemi in italiano:

Plusieurs points me semblent ici dignes d’être relevés pour notre propos. La date tout d’abord. Elle n’est pas connue avec sûreté. Parecchi punti mi sembrano degni di essere presi in esame. Innanzitutto la data, che non è nota con certezza. (p. 93). Celle-ci sera effectuée par Jérôme durant l’hiver 398-399. Elle parviendra à Rome dès le printemps 399. Questa sarà realizzata da Girolamo durante l’inverno del 398-399 e arriverà a Roma nella primavera del 399. (p. 146).

Le premier texte appartient au Contre Apion de Flavius Josèphe. Il a été l’objet, en grec, de nombreuses discussions à l’époque moderne. Il primo testo appartiene al Contro Apione di Giuseppe Flavio, oggetto di numerose discussioni moderne, in greco. (p. 213). Ce que montre cette expédition de Julien, c’est que la route de Constantinople vers la Gaule du Nord passe maintenant plus au Nord. Ce fait peut recevoir mainte attestation. La spedizione di Giuliano mostra che la via di Costantinopoli verso la Gallia settentrionale passa ora più a nord, il che è attestato più volte. (p. 35).

Talvolta le proposizioni appaiono legate per coordinazione copulativa:

Les basiliques de Constantin ne sont pas ancore terminés, la vraie croix est juste découverte et déja en Occident l’on veut aller voir l’endroit où le Christ est né, le Golgotha et le tombeau.

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Le basiliche di Costantino non sono ancora terminate, la vera Croce è appena stata scoperta, e in Occidente già si vuole andare a visitare il posto in cui Cristo è nato, il Golgota e il Sepolcro. (p. 83). Le moine et sa communauté avaient été excommuniés et l’évêque de Jérusalem avait – lui aussi! – requis contre les turbulents une sentence d’exil qui faillit bien être exécutée. Il monaco e la sua comunità erano stati scomunicati e il vescovo di Gerusalemme aveva richiesto contro i turbolenti una sentenza d’esilio, che per poco non venne eseguita. (p. 182).

In generale appaiono numerosi i casi di paratassi per congiunzione coordinante, che

non hanno comportato modifiche in sede di traduzione:

Il ne prétend aucunement défendre les thèses incriminées, mais il constate la valeur de l’enseignement ascétique qui les accompagne dans le milieu monastique, et il demande aux évêques de ne pas abuser de leur autorité. Non intende in nessun modo difendere le tesi incriminate, ma constata il valore dell’insegnamento ascetico che le accompagna nell’ambiente monastico, e chiede ai vescovi di non abusare della loro autorità. (p. 180). Rufin savait faire quelques distinctions. Il est regrettable qu’il n’ait pas su en faire davantage. Mais il me semble que les Préfaces adréssées a Chromace et Héliodore l’ont arrêté. Rufino sapeva operare alcune distinzioni. Dispiace che non abbia saputo farne altre. Ma mi sembra che le Prefazioni indirizzate a Cromazio e a Eliodoro l’abbiano fermato. (p. 219).

In qualche occasione abbiamo invece optato per l’eliminazione del nesso congiuntivo:

Cette «grande ville» va protéger la cour jusqu’à la chute de Jean... et au moins quelques jours supplémentaires. Car, si Aspar ne continue pas immédiatement sa route vers Ravenne où devait débarquer la flotte emmenée de Salone par son père, ce n’est pas seulement parce qu’il doit savoir que cette flotte a fait naufrage [...]. Questa «grande città» proteggerà la corte fino alla sconfitta di Giovanni, e per qualche giorno ancora. Se Aspar non continua subito il viaggio verso Ravenna, dove doveva sbarcare la flotta proveniente da Salona e condotta da suo padre, non è solo perché sa che la flotta ha fatto naufragio [...]. (p. 70). Nul doute que cette affaire n’ait tenu beaucoup de place dans les propos de ceux qui revenaient d’Orient et pouvaient témoigner des progrès de l’orthodoxie, à partir au moins de 381. Car, auparavant, sous Valens, nous voyons Jérôme aux prises avec les différents tendances, plus ou moins hétérodoxes, du désert de Chalcis.

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Non c’è dubbio che l’affare non abbia occupato molto spazio nelle affermazioni di chi tornava dall’Oriente e poteva testimoniare i progressi dell’ortodossia, a partire dal 381 almeno. Prima, sotto Valente, vediamo Girolamo alle prese con le varie tendenze, più o meno eterodosse, del deserto della Calcide. (p. 90). Je terminerai en posant une question à dom Gribomont, et en regrettant qu’il n’ait pas été plus explicite et ne puisse plus nous répondre. Concluderò porgendo una domanda a Dom Gribomont, rammaricandomi che non sia stato più esplicito e che non possa più rispondere. (p. 186).

Ad ogni modo non mancano all’interno del testo proposizioni lunghe e sintatticamente

complesse: la struttura paratattica dominante appare intervallata (invero piuttosto

raramente) da costruzioni ipotattiche e da periodi di più ampio respiro:

En réalité, il ne peut être question de suivre même ce que j’appellerai l’ensemble du mouvement de reflux de l’Empire romain dont on peut dire qu’il a commencé à Aquilée, sous Marc-Aurèle, lorsque les Marcomans et les Quades ont percé le front du Danube, sont venus jusqu’aux murs d’Aquilée et, faute de pouvoir emporter la ville, s’en sont allés détruire Opitergium. In realtà non si tratta nemmeno di seguire quello che chiamerò il movimento di riflusso dell’Impero romano, che ha avuto inizio, potremmo dire, ad Aquileia, sotto Marco Aurelio, quando i Marcomanni e i Quadi si aprirono un varco nel fronte del Danubio, giunsero fino alle mura di Aquileia e, non riuscendo a conquistare la città, andarono a distruggere Opitergium. (p. 16). Si celui-ci occupe donc une place encombrante dans la vie de chaque jour, il n’est plus étonnant que Postumien ou Sulpice aient été arrêtés par les propositions scandaleuses que l’on attribuait à Origène, sans qu’il y ait à prêter à Sulpice le désir de se disculper pour une parole de Martin qui devenait imprudente dans le climat de la querelle origéniste. Se questi occupa dunque un posto ingombrante nella vita di tutti i giorni, non stupisce che Postumiano e Sulpicio siano stati arrestati a causa delle proposte scandalose attribuite a Origene, senza che venisse concessa a Sulpicio la facoltà di discolparsi per una parola di Martino che diventava imprudente nel clima della controversia origeniana. (p. 179).

In qualche caso si è deciso di scindere in più parti il periodo, per una maggiore facilità

di lettura:

Si je devais traiter de l’ensemble du sujet qu’annonce le titre ci-dessus, c’est toute l’histoire militaire et politique d’Aquilée qu’il me faudrait écrire depuis la fondation de la ville, puisque c’est pour faire pièce aux Gaulois qui avaient franchi les Alpes et avaient commencé à s’installer au pied des Alpes Juliennes que la

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colonie fut déduite en 181 avant notre ère – et, de fait, dès ses premières années, Aquilée eut à s’opposer aux incursions des Gaulois. Se dovessi trattare l’argomento annunciato dal titolo nella sua interezza, sarei costretto a scrivere tutta la storia militare e politica di Aquileia a partire dalla fondazione della città: è infatti per opporsi ai Galli, che avevano varcato le Alpi e cominciato a insediarsi ai piedi delle Alpi Giulie, che la colonia fu dedotta nel 181 a.C. (di fatto, già nei primi anni, Aquileia dovette far fronte alle incursioni dei Galli). (p. 16).

La lunghezza delle frasi è spesso accresciuta dalla presenza di incisi, che racchiudono

un commento o una riflessione da parte dell’autore:

Rufin avait été précédé par le prêtre Vincent; l’année suivante partent Eusèbe de Crémone – encore un Italien du Nord – et Paulinien, le frère de Jérôme, qui se rend à Stridon et séjournera un moment à Aquilée dans les conditions que nous verrons tout à l’heure. Rufino era stato preceduto dal prete Vincenzo; l’anno successivo partono Eusebio di Cremona – nuovamente un italiano del nord – e Paoliniano, fratello di Girolamo, che si reca a Stridone per soggiornare poi brevemente ad Aquileia, nelle condizioni che vedremo fra poco. (p. 96). A l’appui de cette pure hypothèse, j’ajouterai que l’ouvrage date de 404 – ce qui ne l’éloigne pas beaucoup de la dédicace de Brescia – et que ce n’est peut-être pas un hasard si, en ces mêmes années Rufin dédie à Chromace la traduction des Homélies sur Josué d’Origène. A sostegno di questa mera ipotesi aggiungerei che l’opera è datata 404 – il che non l’allontana molto dalla dedicazione di Brescia – e che forse non è un caso se, in quegli stessi anni, Rufino dedica a Cromazio la traduzione delle Omelie su Giosuè di Origene. (p. 134).

L’inciso, breve frase con funzione parentetica grammaticalmente indipendente, è senza

dubbio un elemento stilistico importante dell’autore, che il traduttore non ha mancato di

rispettare in corso di traduzione.

3.2. SISTEMA VERBALE Nel testo predominano i tempi dell’indicativo, “modo della realtà, della certezza, della

constatazione e dell’esposizione obiettiva o presentata come tale” (Dardano e Trifone

1985: 241). Il tempo utilizzato con maggior frequenza risulta essere il presente, in virtù

della sua straordinaria flessibilità e polivalenza. L’autore fa largo uso del presente

indicativo, anche (e soprattutto) nel narrare eventi passati. Infatti “cette forme verbale

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est largement exploitée dans les récits, à côté des temps passés, pour donner à l’action

une vitalité qui la rend plus actuelle, d’où son appelation de présent historique ou de

narration” (Schena 1989: 29). In questo caso il presente va a sostituire il passé simple,

determinando una più viva evocazione del passato:

Le 28 février 350, entre en charge à Rome le Préfet de la ville nommé par Magnence qu’est Fabius Titianus. Il 28 febbraio 350 entra in carica, a Roma, il Prefetto della città nominato da Magnenzio, Fabio Tiziano. (p. 23). En janvier 403, à Nole, Paulin entraîne son ami Nicétas de Rémésiana dans les nouvelles constructions qu’il a entreprises en l’honneur de Félix. Nel gennaio del 403, a Nola, Paolino porta l’amico Niceta di Remesiana nelle nuove costruzioni che ha intrapreso in onore di Felice. (p. 129).

Accanto al presente indicativo troviamo, a volte, il passato prossimo:

Au Ier mars donc, Magnence a échoué. Il primo marzo Magnenzio ha dunque fallito. (p. 24).

Non mancano tuttavia casi in cui l’autore preferisce utilizzare il passé simple,

conferendo così un’aura di maggior letterarietà al testo:

Ce fut un échec; tant et si bien que les troupes de Constance durent refluer [...]. Fu un insuccesso, tanto che le truppe di Costanzo dovettero ritirarsi [...]. (p. 26). La première alerte sérieuse eut lieu en 373. Il primo grave allarme si registrò nel 373. (p. 35). Je veux parler de l’aide qu’il prêta à Théophile d’Alexandrie dans la lutte de celui-ci contre Jean Chrysostome. Or, ce dernier reçut, dès 405, l’appui de Chromace. Il eut la consolation de voir venir vers lui un Gaudence de Brescia, qu’il avait connu lors d’un précédent voyage. Mi riferisco all’aiuto che prestò a Teofilo di Alessandria nella lotta contro Giovanni Crisostomo. Quest’ultimo ricevette, a partire dal 405, l’appoggio di Cromazio ed ebbe la consolazione di vedersi venire incontro Gaudenzio di Brescia, che aveva conosciuto durante un precedente viaggio. (p. 100).

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Nei quadri descrittivi è inoltre frequente l’uso dell’imperfetto indicativo:

Pendant que Constance célébrait sa victoire en faisant élever un arc de triomphe dans les Pannonies, restaurait les routes d’accès vers l’Italie qu’il lui faudrait conquérir, essayait de se gagner les populations d’Illyrie et d’Italie par diverses mesures, Magnence se trouvait réduit à la difensive et, d’Aquilée, surveillait à la fois les routes des Alpes Juliennes et les côtes du golfe de l’Adriatique où pouvait s’opérer un débarquement qui le prendrait à revers. Mentre Costanzo festeggiava la vittoria facendo erigere un arco di trionfo nella Pannonia, restaurava le vie d’accesso verso l’Italia che doveva conquistare e tentava di vincere le popolazioni dell’Illiria e d’Italia con varie misure, Magnenzio si trovava ridotto alla difensiva: da Aquileia sorvegliava sia le vie delle Alpi Giulie, sia le coste del golfo dell’Adriatico, dove avrebbe potuto aver luogo uno sbarco che lo avrebbe attaccato da dietro. (p. 28).

Lo sviluppo temporale del testo di partenza è stato sempre rispettato, salvo nei casi di

scelte contraddittorie da parte dell’autore, come nel seguente esempio:

Rufin connaît bien cette Chronique. Son Apologie la cite à deux reprises. L’une d’entre elles, où son propre nom apparaissait, concerne l’année 377, juste avant que Jérôme n’évoque l’invasion de la Thrace par les Goths [...]. Rufino conosce bene questa Cronaca. Nella sua Apologia viene citata due volte. Una di queste, in cui appare il suo nome, riguarda l’anno 377, subito prima che Girolamo rievochi l’invasione della Tracia da parte dei Goti [...]. (p. 225).

L’autore ricorre poi in numerose occasioni al condizionale, modo dell’eventualità, allo

scopo di introdurre le proprie supposizioni all’interno del testo:

Les choses auraient pu, de fait, mal tourner pour Julien si l’exemple d’Aquilée avait été suivi [...]. La situazione avrebbe potuto prendere una brutta piega per Giuliano, se si fosse seguito l’esempio di Aquileia [...]. (p. 35). Cela expliquerait qu’Alaric ait pu se trouver sous les murs de Rome dans le courant décembre, après une chevauchée d’au moins 900 km. en deux mois, avec armes et bagages... et colonnes de prisonniers! Ciò spiegherebbe come mai Alarico si sia trovato sotto le mura di Roma durante il mese di dicembre, dopo una cavalcata di almeno 900 km in due mesi, con armi e bagagli, nonché con colonne di prigionieri. (p. 66).

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In francese il condizionale presente viene altresì utilizzato con la funzione di “futur

dans le passé” (cfr. Bidaud 1994: 180); in italiano è d’obbligo la resa mediante il

condizionale passato:

Stilicon, toujours à son idée de récupérer l’Illyricum oriental et d’étendre son influence à l’ensemble de l’Empire, échafauda un plan qui lui permettrait en outre de se défaire de l’usurpateur [...]. Stilicone, ostinato a voler recuperare l’Illirico orientale ed estendere la sua influenza su tutto l’Impero, architettò un piano che gli avrebbe permesso anche di sbarazzarsi dell’usurpatore[...]. (p. 63).

Nel testo di partenza è possibile notare un uso piuttosto diffuso del futuro semplice,

con il medesimo valore di futuro nel passato. Anche in italiano tale tempo verbale può

assolvere la stessa funzione:

Malgré les victoires remportées en 379 et 380, l’insécurité règnera désormais au-delà des montagnes. Nonostante le vittorie riportate nel 379 e nel 380, l’insicurezza regnerà ormai sovrana oltre le montagne. (p. 38).

Ciononostante in qualche caso si è preferito, in sede di traduzione, l’uso del

condizionale passato:

Celui-ci avait dû rentrer d’Afrique à Rome dès l’ouverture de la navigation et, malgré les conseils de Symmaque qui connaissait déjà les menaces qui pesaient sur l’Italie du Nord, gagner Milano où il mourra peu après. Questi era rientrato dall’Africa a Roma non appena riaperti i porti e, nonostante i consigli di Simmaco, che era già a conoscenza delle minacce incombenti sull’Italia settentrionale, era arrivato a Milano, dove sarebbe morto di lì a poco. (p. 38).

3.3. STILE NOMINALE Lo stile nominale, in cui le categorie grammaticali diverse dal verbo hanno funzione

verbale, assolvendo sintatticamente il compito del predicato (cfr. Serianni 1988: 75), è

particolarmente presente all’interno dei saggi del Duval. Si vedano i seguenti esempi:

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Ce ne sont plus les légions Romaines qui sont encerclées, mais l’empereur lui-même, qui fuit tout tremblant – nulle question de sa blessure! –. Non sono più le legioni romane a essere accerchiate, ma l’imperatore stesso, che fugge tutto tremante – nessun cenno alla sua ferita! –. (p. 226). Tout d’abord, le jugement d’ensemble sur Valentinien. Innanzitutto il giudizio d’insieme su Valentiniano. (p. 227). Même évocation de la guerre contre les Sarmates [...], même mort subite [...]; même mention de ses successeurs.

Stessa rievocazione della guerra contro i Sarmati [...]; stessa morte improvvisa [...]; stessa menzione dei successori. (p. 230). Oeuvres de Gaudence, de Jérôme, d’Hilaire – sans compter Athanase – voilà donc quelques ouvrages utilisés par Rufin. Opere di Gaudenzio, di Girolamo, di Ilario – senza contare Atanasio –, ecco alcune delle opere usate da Rufino. (p. 239). De tout cela, rien, même chez Théodoret, fervent défenseur de Mélèce. Di tutto questo neanche un cenno, nemmeno in Teodoreto, fervido difensore di Melezio. (p. 259).

3.4. PARTICELLE PRONOMINALI EN E Y La lingua francese ricorre con frequenza ai “pronomi avverbiali” en e y, che

corrispondono, rispettivamente, a ne e ci italiani.

In italiano il pronome en può anche non essere tradotto (cfr. Barone 1997: 189). Si

vedano i seguenti esempi:

Il avait cependant rappelé celles-ci pour se couvrir, dans la Préface de sa traduction du Peri Archôn. C’est elle qui est reprise ici, meme si elle est contrebalancée par un jugement également négatif, qui accentue et constate le divorce, sans en fournir d’autre explication que celle de «l’erreur» – errasse –. Tuttavia Rufino si era richiamato a queste per coprirsi le spalle, nella Prefazione alla traduzione del Peri Archôn, che viene ripresa, sebbene sia controbilanciata da un giudizio altrettanto negativo, che accentua e sottolinea il disaccordo, senza fornire altra spiegazione se non quella dell’«errore» – errasse –. (p. 173).

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On ne s’étonnera pas qu’il utilise les reproches, faits par Pamphiles aux adversaires d’Origène, de condamner en bloc ses ouvrages, sans laisser à chacun la possibilité d’en extraire ce qui est bon. Non vi è da stupirsi che egli utilizzi i rimproveri indirizzati da Panfilo agli avversari di Origene, riguardo alla condanna in blocco delle sue opere, senza lasciare a ognuno la possibilità di trarre ciò che c’è di buono. (p. 175). Postumianus, qui n’en est pas à sa première visite à Jérôme, pouvait connaître ces événements. Or, il n’en souffle mot. Postumiano, che non visita Girolamo per la prima volta, probabilmente conosceva tali vicende. Eppure non apre bocca. (p. 182). C’est à l’intérieur de la première partie de ce règne que prend place le récit du concile d’Alexandrie. Celui-ci en occupe même, avec ses prolongements, la partie essentielle [...]. È all’interno della prima parte del regno che trova posto il racconto del concilio di Alessandria. Questo occupa addirittura, con le relative conseguenze, la parte principale [...]. (p. 245).

Per quanto concerne il pronome francese y, esso ha un valore locativo, che il più delle

volte appare del tutto superfluo in italiano (cfr. Barone 1997: 187). Laddove la

localizzazione risultava ovvia, si è optato per l’omissione di tale pronome:

[...] ce n’est pas la mort d’Eudoxe (§ 25, l. 2), mais son départ pour Constantinople en janvier 360 qui y rend possible le transfert litigieux de Mélèce depuis Sébaste d’Arménie. [...] non è la morte di Eudosio (§ 25, l. 2), bensì la sua partenza per Costantinopoli nel gennaio 360 a rendere possibile il controverso trasferimento di Melezio da Sebaste d’Armenia. (p. 246).

Si l’on y regarde bien, la perspective est en effet occidentale [...]. A ben vedere la prospettiva è infatti occidentale [...]. (p. 248). Nous savons en tout cas qu’il est passé par Sirmium, sans y connaître grand succès. Ad ogni modo sappiamo che è passato per Sirmio, dove non riscosse grande successo. (p. 253).

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Altre volte si è preferito ricorrere all’esplicitazione:

[...] puisque c’est quelquefois jusqu’en Gaule qu’il faut suivre la trace d’un voyageur ou d’un pélerin qui est passé par Aquilée en allant en Palestine ou en en revenant. [...] giacché talvolta bisogna andare fino in Gallia per seguire le tracce di un viaggiatore o di un pellegrino che è passato per Aquileia andando in Palestina o sulla strada del ritorno. (p. 81). Je ne m’arrêterai pas ici à ce long éloge de la Lettre à Eustochium [...]. J’espère pouvoir y revenir ailleurs avec les détails nécessaires. Non mi soffermerò sul lungo elogio della Lettera a Eustochio [...]. Spero di poter ritornare sull’argomento altrove, con i dovuti dettagli. (p. 181).

F. Cavallera, qui cite ce texte et y voit le pendant du jugement très dur de Palladius sur la bascania de Jérôme, croit qu’il concerne l’entourage palestinien de Jérôme, qu’il agaçait par ses critiques acerbes. Cavallera, che cita il testo e vede in esso l’equivalente del durissimo giudizio di Palladio sulla bascania di Girolamo, crede che riguardi la cerchia palestinese di Girolamo, che egli punzecchiava con aspre critiche. (p. 183).

4. ASPETTI LESSICALI 4.1. TOPONIMI E ANTROPONIMI I saggi che costituiscono l’oggetto del presente commento presentano una notevole

ricchezza di toponimi e di antroponimi. A tale riguardo sono stati adottati due

procedimenti traduttivi: la trascrizione, per i nomi di persone e di luoghi che non hanno

un equivalente internazionale; la traduzione, per tutti quei nomi che possono vantare

una “traduzione accettata” (cfr. Newmark 1988: 129), ovvero un equivalente

riconosciuto nella lingua d’arrivo (in primis nomi di personaggi storici e biblici).

Alcuni toponimi tradotti:

Alexandrie -> Alessandria Aquilée -> Aquileia Bethléem -> Betlemme Cyrénaïque -> Cirenaica Chalcis -> Calcide Égypte -> Egitto Palestine -> Palestina

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Alcuni antroponimi tradotti:

Ambroise de Milan -> Ambrogio di Milano Basile -> Basilio Constance -> Costanzo Constantin –> Costantino Eusèbe de Verceil -> Eusebio di Vercelli Gaudence de Brescia -> Gaudenzio di Brescia Hilaire de Poitiers -> Ilario di Poitiers Jérôme -> Girolamo Jésus Christ -> Gesù Cristo Job -> Giobbe Moïse -> Mosè Paulin de Nole -> Paolino di Nola Rufin d’Aquilée -> Rufino di Aquileia Salluste -> Sallustio Salomon -> Salomone Sulpice Sévère -> Sulpicio Severo

In un caso la traduzione attestata del nome proprio ha portato a invertire le parti del

nome:

Flavius Josèphe -> Giuseppe Flavio (storico ebreo del primo secolo d.C.)

Lo stesso criterio generale relativo all’onomastica è stato seguito per quel che

concerne i titoli delle opere (cfr. infra, § 7.3.2).

4.2. FORESTIERISMI Nei saggi di Yves-Marie Duval si sono riscontrati numerosi forestierismi, in particolar

modo dal latino, dall’italiano e dal greco:

Latinismi: a contrario a fortiori anathema capitula castra claustra comes (“conte”, antico titolo nobiliare latino) crimina doctrina expositio faseli (“vascelli”, variante di phaseli) foedus grosso modo liber / libri de fide

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librarii magister peditum (“comandante di cavalleria”) martyrium (sorta di mausoleo) mutatis mutandis notarii paroechia schedae summus sacerdos traditiones tumultus Italianismi: bora fiasco imbroglio (reso con “pasticcio”) Grecismi: hypostasis (“ipostasi”) homoousios (“omousia”) ousia (“sostanza”)

Troviamo infine un prestito dal tedesco, Quellenforschung (“ricerca delle fonti”),

nonché un prestito dallo spagnolo, pronunciamento (variante del più frequente

pronunciamiento, “colpo di stato originato da una ribellione di militari” – Zingarelli

2004: 1418).

In sede di traduzione si è optato sempre per la trascrizione, in quanto trattasi di termini

invalsi ormai nell’uso della lingua di arrivo, o comunque glossati, in nota o tra

parentesi, dall’autore stesso.

Il latino è inoltre utilizzato con frequenza da Duval nel citare passi di autori antichi;

anche in questo caso si è deciso di trascrivere il testo latino originale.

4.3. TECNICISMI Come già detto, il grado di specializzazione all’interno dei saggi non è

particolarmente elevato, pertanto non ha posto grosse difficoltà in sede di traduzione. La

terminologia utilizzata appare legata principalmente alla sfera teologico-ecclesiastica.

Tra i tecnicismi appartenenti a tale ambito vale la pena ricordare i seguenti esempi:

apocatastase -> apocatastasi (“ristabilimento di ogni cosa, alla fine dei tempi, secondo l’ordine voluto da Dio; dottrina di Origene secondo cui tutti i peccatori riceverebbero alla fine il perdono da Dio” – Demauro 2000: 143);

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dédicace -> dedicazione (“cerimonia con cui si consacra al culto un luogo sacro” – Demauro 2000: 663); invention -> invenzione (“ritrovamento di una reliquia” – Demauro 2000: 1282); métensomatose -> metensomatosi (“passaggio da un corpo a un altro” – Zingarelli 2004: 1095); translation -> traslazione (“trasferimento delle reliquie di un santo dal sepolcro a un luogo di venerazione” – Demauro 2000: 2779).

4.4. ESPRESSIONI IDIOMATICHE

Nei saggi tradotti non mancano le espressioni idiomatiche, il cui senso non può essere

dedotto basandosi sul significato autonomo delle singole parole che le compongono.

Tali espressioni hanno sempre trovato un equivalente nella lingua di arrivo:

Mais le Goth a pu aussi penser qu’en débouchant de la sorte dans les plaines de l’Italie du Nord, il ferait main basse sur les récoltes engrangées. Ma forse il Goto ha pensato anche che comparendo così all’improvviso sulle pianure dell’Italia settentrionale, avrebbe fatto man bassa delle raccolte accumulate. (p. 56). Sans doute faut-il franchir le pas et attribuer ces fragments, et probablement le «Liber» lui-même, à Rufin, qui pouvait, par cette dédicace à un évêque de renom, se mettre à l’abri d’un certain nombre d’attaques. Forse bisognerebbe tagliar la testa al toro e attribuire questi frammenti, e con ogni probabilità il «Liber» stesso, a Rufino, il quale poteva così, mediante la dedica a un vescovo rinomato, mettersi al riparo da un certo numero di attacchi. (p. 162). Rufin ne dit mot de la question [...]. Rufino non apre bocca sulla questione [...]. (p. 205).

Da ultimo citiamo un’originale quanto interessante unione di due locuzioni

idiomatiche simili:

Pour se remplir la poche ou le ventre, ils partaient prêcher [...]. Per riempirsi le tasche e la pancia andavano a predicare [...]. (p. 209).

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4.5. CITAZIONI E INTERTESTUALITÀ Nei saggi in esame l’autore ricorre con frequenza a citazioni e a riferimenti

intertestuali, fenomeno che rivela la sostanziale funzione informativo-argomentativa del

testo francese. Si tratta essenzialmente di rimandi storici e religiosi.

I riferimenti religiosi sono alquanto frequenti, dato il tema trattato dall’autore: sono

infatti individuabili nel testo numerose citazioni da testi sacri. Molte anche le citazioni

tratte da opere storiche, antiche e coeve.

In sede traduttiva le citazioni sono state per lo più trascritte, laddove riportate

dall’autore in lingua originale (la lingua source è quasi sempre il latino). Solo in

qualche caso si è fatto ricorso alla traduzione, qualora il testo citato si presentasse in

lingua francese.

Infine è importante ricordare che i testi citati appaiono sovente in nota, quindi, per

usare un termine coniato da Gérard Genette (1987: 10), nel “peritesto”.

5. ASPETTI STILISTICI 5.1. IL REGISTRO Per quanto concerne il registro linguistico del testo preso in esame, Yves-Marie Duval

utilizza un registro medio (cfr. Dardano & Trifone 1989: 47-48). I saggi tradotti

risultano piuttosto accessibili: il lessico è infatti semplice e di uso comune e non

presenta vocaboli di difficile comprensione, all’infuori di qualche tecnicismo e

forestierismo (cfr. supra, §§ 4.2. e 4.3.).

Non mancano tuttavia spinte di aulicità da parte dell’autore, riscontrabili in termini

alquanto ricercati (ricordiamo a titolo esemplificativo l’aggettivo parénétique,

“parenetico”, p. 211), ma che si palesano soprattutto in alcuni tours decisamente

letterari, come si può osservare negli esempi che seguono:

Ce fait peut recevoir mainte attestation. [...] il che è attestato più volte. (p. 35). Ainsi laisse-t-il à ses lecteurs le soin de savoir que Denys et Rhodanius sont morts en exil [...]. Lascia così ai lettori il compito di sapere che Dionigi e Rodanio sono morti in esilio [...]. (p. 246).

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Rufin développe ce point avec force référence à l’Écriture. Rufino sviluppa questo punto con molti riferimenti alla Scrittura. (p. 249).

Sans doute avait-il fait partie des signataires de Rimini et avait-il pu – ou eu à – bénéficier des mesures compréhensives des «Confesseurs» à Alexandrie. Probabilmente aveva fatto parte dei firmatari di Rimini e aveva potuto – o dovuto – beneficiare delle misure comprensive dei «Confessori» ad Alessandria. (p. 257).

La patina arcaizzante di tali costrutti è andata perduta nella traduzione italiana.

Da ultimo, l’uso di alcuni tempi verbali contribuisce a rendere più aulico il periodare

dell’autore: trattasi di tempi scarsamente utilizzati nella lingua comune e riservati ormai

alla lingua letteraria (cfr. Riegel 2001: 328) quali il passé antérieur (trapassato remoto)

e il subjonctif imparfait (congiuntivo imperfetto):

Pourtant, dès le Ve siècle, la présentation de la vie d’Athanase, et en particulier de la persécution qu’il a eu à subir de la part des empereurs, a été mise en cause par l’historien Socrate le Scolastique, après qu’il eut découvert, par une exploitation des oeuvres mêmes d’Athanase, que l’évêque d’Alexandrie, contrairement à ce que disait Rufin, avait été envoyé une première fois en exil par Constantin lui-même. [...] les défenseurs d’Andrinople craignaient qu’il ne leur advînt ce qui était arrivé «par le fait du Comte Actus [...]. Rufin dira qu’il l’a plusieurs fois rencontré à ce moment, sans qu’il y eût la moindre remarque.

Del tutto assenti, invece, i colloquialismi.

5.2. LA MISE EN RELIEF La mise en relief è quel procedimento stilistico che consiste nell’“attirer

particulièrement l’attention sur un des éléments de la phrase” (Grevisse 1993: 695). La

focalizzazione di un determinato elemento linguistico può essere ottenuta mediante la

dislocazione, vale a dire lo spostamento dell’elemento da mettere in rilievo dalla sua

posizione normale, oppure ricorrendo ai presentativi (cfr. Bidaud 1994: 377).

L’autore si avvale con frequenza di tali costrutti enfatici, come si vedrà nei prossimi

paragrafi.

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5.2.1. LA DISLOCAZIONE A SINISTRA La dislocazione a sinistra consiste nell’anticipare in inizio di frase un complemento,

che solitamente viene poi ripreso mediante un pronome atono (cfr. Dardano & Trifone

1997: 443), allo scopo di sottolineare enfaticamente un elemento diverso dal soggetto:

Mais, de la vie économique, il n’est guère de trace [...]. Ma della vita economica non vi è nessuna traccia [...]. (p. 76).

Talora può apparire dislocata un’intera proposizione subordinata, che viene posta

davanti alla principale, al fine di essere enfatizzata:

Qu’il n’en soit pas question dans l’Histoire de l’Église n’a rien d’étonnant [...]. Il fatto che non se ne parli nella Storia della Chiesa non ha nulla di sorprendente [...]. (p. 256).

5.2.2. I PRESENTATIVI Per mettere in rilievo un elemento linguistico l’autore ricorre altresì all’uso dei

presentativi voici, voilà, c’est e là:

Mais, peut-être parce que cet Orient, ravagé depuis des décades, commence à s’épuiser à ses yeux, voici qu’Attila saisit les occasions d’intervenir en Occident [...]. Ecco però, forse perché l’Oriente, devastato da decenni ormai, dà segni di sfinimento, che Attila coglie l’occasione per intervenire in Occidente [...]. (p. 72). C’est vers la Gaule qu’Attila s’ébranla par le chemin des hordes de 405 [...]. È verso la Gallia che mosse Attila, sulla scia delle orde del 405 [...]. (p. 72). C’est dans ces dénonciations de Théophile que Sulpice a trouvé la thèse d’une rédemption du diable [...]. È in queste denunce di Teofilo che Sulpicio ha trovato la tesi della redenzione del diavolo [...]. (p. 177). On a là un nouvel exemple [...]. Ecco qui un nuovo esempio [...]. (p. 229).

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282

[...] voilà donc quelques ouvrages utilisés par Rufin.

[...] ecco alcune delle opere usate da Rufino. (p. 239).

Tra le diverse strategie menzionate, quella più utilizzata da Duval riguarda senza

dubbio la costruzione c’est... que/qui, resa in italiano attraverso l’impiego della “frase

scissa” (Berruto 1990: 68), una struttura costituita da due nuclei proposizionali, di cui

uno introdotto dal verbo essere e l’altro da un falso che relativo.

5.3. ALTRE PECULIARITÀ STILISTICHE Tra le varie particolarità stilistiche presenti all’interno dei saggi merita un’attenzione

particolare il ricorso all’inciso (cfr. supra, p. 269). L’autore esprime con frequenza

commenti o supposizioni mediante brevi frasi incidentali racchiuse da due lineette. In

sede di traduzione si è tenuto conto di questo tratto stilistico, rispettando gli interventi

dell’autore:

[...] Honorius fait venir de Dalmatie – par mer? – du ravitaillement en blé et en bétail pour les Huns qu’il enrôla, et qui, encore une fois, durent passer par Aquilée. [...] Onorio fa arrivare dalla Dalmazia – via mare? – approvvigionamenti di grano e di bestiame per gli Unni che aveva arruolato e che, ancora una volta, passarono per Aquileia. (p. 68). Il ne faudra pas attendre la fin du siècle avant que le sort de l’Italie – on ne peut plus dire l’Empire d’Occident – ne se décide à nouveau [...]. Non occorre attendere la fine del secolo perché la sorte dell’Italia – non si può più dire dell’Impero d’Occidente – si decida di nuovo [...]. (p. 77). En effet, un indice très éloquent nous permet de voir comment Jérôme se met – maladroitement – à l’abri de reproches qui pourraient lui venir d’Aquilée [...]. Un indizio molto eloquente consente di vedere come Girolamo si metta – maldestramente – al riparo dai rimproveri che potevano giungergli da Aquileia [...]. (p. 101).

Un’altra peculiarità stilistica che caratterizza i saggi in esame è il frequente ricorso a

proposizioni interrogative. Sono infatti numerose le domande che introducono dubbi o

considerazioni dell’autore, volte a far riflettere il lettore e a catturare la sua attenzione

su taluni aspetti. Anche questo tratto stilistico è stato mantenuto in sede di traduzione:

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Cette déclaration concerne-t-elle la prise initiale et le contrôle actuel d’Émona et de ses abords? ou Honorius nous informe-t-il ici de la main-mise qu’excercerait déjà Alaric sur une partie de l’Italie septentrionale atteinte par le Tarvisio? Il est difficile de se prononcer avec sécurité. Tale dichiarazione riguarda forse la presa iniziale e il controllo attuale di Emona e dintorni? Oppure Onorio ci informa in merito al dominio esercitato da Alarico su una parte dell’Italia settentrionale raggiunta attraverso Tarvisio? È difficile pronunciarsi con certezza sulla questione. (p. 63). Que se serait-il passé si l’évêque d’Aquilée était intervenu? Les choses étaient peut-être allées trop loin? Che cosa sarebbe successo se fosse intervenuto il vescovo di Aquileia? La situazione si era forse spinta troppo oltre? (p. 74).

Talvolta l’autore si avvale di questo espediente per creare un effetto di suspense:

C’est qu’Alaric s’est à nouveau mis en mouvement à l’intérieur de l’Illyricum. Marchera-t-il vers l’est ou vers l’ouest? Alarico, infatti, si è nuovamente messo in cammino all’interno dell’Illirico. Avanzerà verso est o verso ovest? (p. 61).

Parimenti, con l’intento di porre l’accento su determinati fatti o su singole parole,

Duval fa largo uso di espedienti grafici quali il corsivo e le virgolette:

Faut-il dire que nous soyons ici devant une nouvelle invasion barbare? Ci troviamo di fronte a una nuova invasione barbarica? (p. 77). [...] Chromace a une formation occidentale, qui n’a été profondément modifiée, si nous pouvons en juger par ses oeuvres, par les apports «orientaux» postérieurs, que ceux-ci soient l’oeuvre d’Ambroise, de Jérôme, ou de Rufin. [...] Cromazio gode di una formazione occidentale, che non è stata profondamente modificata, a giudicare dalle sue opere, dai successivi contributi «orientali», che si tratti dell’opera di Ambrogio, di Girolamo o di Rufino. (p. 113). Que l’on prenne l’esquisse présente pour une nouvelle contestation de la thèse de Glas: l’histoire et l’application du concile d’Alexandrie n’a aucun pendant chez les historiens orientaux et, s’il est question d’Antioche, c’est parce que Lucifer a commencé là le schisme dont les effets se sont fait sentir en Occident durant au moins quarante ans.

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Si prenda la presente traccia come una nuova contestazione della tesi di Glas: la storia e l’attuazione del concilio di Alessandria non hanno nessun equivalente presso gli storici orientali e, se si parla di Antiochia, è perché Lucifero ha iniziato lì lo scisma, i cui effetti si sono fatti sentire in Occidente per almeno quarant’anni. (p. 258).

6. PUNTEGGIATURA Anche l’interpunzione è stata investita dal processo traduttivo, poiché anch’essa

obbedisce alla struttura linguistica cui appartiene e ogni lingua la impiega in modo

diverso (cfr. Benelli 2001: 130).

6.1. PUNTO FERMO Al di là dell’equivalenza d’impiego, tra le due lingue, di tale segno interpuntivo, vale

la pena notare che il punto viene spesso impiegato al posto di altri segni, quali il punto e

virgola e la virgola, contribuendo così allo “stile spezzato” proprio della

giustapposizione:

Jérôme passe par la Cappadoce et Antioche. Rufin par l’Égypte. Girolamo passa per la Cappadocia e per Antiochia, Rufino per l’Egitto. (p. 81). Nous l’avons vu arriver à Antioche. Il n’ira pas plus loin avant 385. Lo abbiamo visto arrivare ad Antiochia; prima del 385 non andrà oltre. (p. 87). Ce qui ne me semble pas le cas. Contrairement à Rufin. Ma non mi sembra sia così. A differenza di Rufino. (p. 257).

6.2. VIRGOLA La virgola è stata omessa dopo i complementi circostanziali posti a inizio frase. In

italiano tale uso della virgola è infatti superfluo:

À Antioche, Jérôme retrouve Évagre [...]. Ad Antiochia Girolamo ritrova Evagrio [...]. (p. 87).

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En 374 et 375, le Moyen-Danube est plusieurs fois envahi [...]. Nel 374 e nel 375 il medio Danubio viene invaso ripetute volte [...]. (p. 91).

Spesso la virgola è stata sostituita dalla congiunzione copulativa affermativa e per

correlare gli ultimi due termini di una sequenza:

C’est dire que tout élément nouveau, par ses apports propres, par les révisions qu’il entraîne, par ses confirmations aussi, constitue un acquis précieux, et en laisse espérer d’autres. Ciò significa che qualsiasi elemento nuovo, con il suo contributo particolare, con i riesami che comporta e anche con le sue conferme, costituisce una conquista preziosa, e ne lascia sperare altre. (p. 140).

In numerosi casi è stata aggiunta una virgola prima del pronome che introduce una

proposizione relativa:

Il faut peut-être réserver le cas de l’In Ionam [...] mais le cas est assez net pour Habacuc dont le Cantique est utilisé et commenté à deux reprises. Costituisce forse un’eccezione il caso dell’In Ionam [...] ma il caso è piuttosto chiaro per Abacuc, il cui Cantico viene usato e commentato due volte. (p. 112). Elles expliquent la réaction de Rufin qui compose à ce moment son Apologie à Anastase. Ciò spiega la reazione di Rufino, che compone in quel periodo l’Apologia ad Anastasio. (p. 147).

Talvolta in italiano si è sentita la necessità di fare una pausa più lunga nel discorso; la

virgola del testo francese è stata pertanto sostituita con un punto e virgola o con un

doppio punto:

[...] Jérôme prit soin de le faire parvenir lui-même à Rufin à Aquilée, par l’intermédiaire d’un marchand qui ne toucha terre que deux jours, le temps simplement de décharger et recharger son navire. [...] Girolamo ha cura di farla arrivare personalmente ad Aquileia da Rufino, tramite un commerciante che toccò terra solo per due giorni: giusto il tempo di scaricare e ricaricare la nave. (p. 100).

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6.3. PUNTO E VIRGOLA Impiegato solitamente “per collegare gruppi di proposizioni nello stesso periodo, al

fine di evitare interruzioni nell’esposizione e nella comprensione dell’unità di pensiero”

(Marinucci 1996: 52), il punto e virgola è stato in qualche caso sostituito dalla virgola:

Le contresens est révélateur; car la Sagesse de Salomon était contestée, par Jérôme entre autres. Il controsenso è rivelatore, poiché la Sapienza di Salomone era contestata, da Girolamo ad esempio. (p. 217).

6.4. DUE PUNTI Nel testo di partenza i due punti sono impiegati, in combinazione con le virgolette, per

introdurre una citazione e riportare le parole di qualcuno. Oltre a ciò, a seconda del

contesto in cui si trova, tale segno di interpunzione può svolgere diverse funzioni:

- Introdurre un’enumerazione o una sequenza:

[...] dans un ordre différent et erroné: Denis (de Milan), Eusèbe (de Verceil), Paulin (de Trèves), Rhodanius (de Toulouse), Lucifer (de Cagliari), puis Hilaire (de Poitiers). [...] in ordine diverso ed errato: Dionigi (di Milano), Eusebio (di Vercelli), Paolino (di Treviri), Rodanio (di Tolosa), Lucifero (di Cagliari) e infine Ilario (di Poitiers). (p. 236).

- Introdurre una spiegazione:

L’Italie vit durant deux ans en sécurité: Théodose y séjournant avec son armée, les Barbares n’osent pas mener leurs incursions de ce côté et les troupes confiées à Arbogaste colmatent les brèches ouvertes par les Francs dans la Gaule du Nord-Est durant l’absence de Maxime [...]. L’Italia vive per due anni al sicuro: data la presenza di Teodosio e del suo esercito, i barbari non osano fare incursione da questo lato, e le truppe affidate ad Arbogaste tappano i buchi lasciati aperti dai Franchi nella Gallia nordorientale durante l’assenza di Massimo [...]. (p. 49).

Benché l’impiego di tale segno sia pressoché identico nelle due lingue, in qualche

caso si è ritenuto opportuno sostituire il punto doppio con un punto e virgola:

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Postumien répond lui-même à la première de ces questions: il dit avoir eu accès à un autre dossier, constitué, cette fois, par les évêques hostiles à Origène. Lo stesso Postumiano risponde al primo interrogativo; dice di aver avuto accesso a un altro dossier, redatto dai vescovi ostili a Origene. (p. 176). Postumianus déclare qu’il était très troublé par l’attitude de Jérôme: après avoir passé pour suivre Origène, celui-ci était maintenant parmi les premiers à condamner même tous ses écrits.

Postumiano dichiara di essere molto turbato dalla posizione di Girolamo; dopo esser stato preso per sostenitore di Origene, questi è ora tra i primi a condannare tutti i suoi scritti. (p. 179).

6.5. PUNTO INTERROGATIVO Come si è potuto osservare al § 5.3., l’autore si avvale spesso di proposizioni

interrogative, volte a introdurre dubbi e commenti. L’impiego del punto interrogativo,

largamente usato nel testo di partenza, è stato essenzialmente mantenuto in sede di

traduzione.

6.6. PUNTO ESCLAMATIVO Il punto esclamativo ha la funzione di esprimere un’intensità che la sola parola scritta

non è in grado di comunicare. Pur tenendo conto del suo indubbio valore stilistico, in

sede di traduzione tale segno è stato mantenuto solo in pochi casi, mentre il più delle

volte è stato omesso, laddove ritenuto superfluo nella lingua d’arrivo:

[...] les Pannonies connaissent des récoltes abondantes et, déclare Ambroise, «vendaient du blé qu’elles n’avaient pas semé», sans doute parce que les Barbares qui l’habitaient en avaient été – temporairement! – délogés.

[...] la Pannonia conosce raccolte abbondanti e, dichiara Ambrogio, «vendeva il grano che non aveva seminato», probabilmente perché i barbari che vi abitavano erano stati – temporaneamente – scacciati. (p. 43). Mais qui ne voit que ce sont là, pour une bonne partie, mirages d’affamé! Ma è evidente che sono, in buona parte, miraggi di un affamato! (p. 79).

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[...] l’auteur de la collection confondait vraisemblablement l’un et l’autre! [...] l’autore della collezione probabilmente confondeva l’uno con l’altro. (p. 162). C’est beaucoup demander au lecteur! È chiedere troppo al lettore! (p. 256).

6.7. PUNTINI DI SOSPENSIONE L’autore ricorre costantemente all’uso dei puntini di sospensione, che hanno la

funzione di indicare una frase lasciata incompleta, volontariamente o per cause esterne,

oppure una pausa non grammaticale che può segnalare un’esitazione del locutore o il

rilievo attribuito a un dato termine (cfr. Grevisse 1993: 165-166).

Benché tale segno interpuntivo rivesta, nella nostra lingua, una funzione del tutto

analoga, si è deciso in molti casi per la sua omissione, laddove ritenuto innecessario:

Si telle est la date de ce «Livre à Gaudence», nous aurons une fois de plus l’occasion [...] de deviner l’existence d’un réseau de relations entre la Palestine et l’Italie du Nord beaucoup plus serré que les textes actuellement à disposition permettent de le mettre en évidence... à moins que nous ne soyons conviés par l’étude même de ces fragments à proposer une autre solution... et un autre auteur. Se è questa la data del «Libro a Gaudenzio», avremo occasione [...] di scoprire l’esistenza di una rete di relazioni tra la Palestina e l’Italia settentrionale ben più fitta di quanto i testi attualmente a disposizione consentano di mettere in evidenza, salvo essere invitati dallo studio di questi frammenti a proporre un’altra soluzione e un altro autore. (p. 141).

[...] la traduction par Rufin des homélies d’Origène sur l’Octateuque circule déjà sous le nom de... Jérôme. [...]la traduzione di Rufino delle Omelie sull’Ottateuco di Origene circola già sotto il nome di Girolamo. (p. 163).

6.8. VIRGOLETTE Le virgolette sono generalmente utilizzate per segnalare e delimitare titoli e citazioni.

Talvolta l’autore ricorre a tale segno per “dare evidenza a una o più parole, per

sottolinearne un particolare significato, per mettere in rilievo la stranezza” (Dardano &

Trifone 1985: 398):

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À l’intérieur cependant du siècle – 350-452 – que j’ai choisi pour illustrer ce rôle de «porte de l’Italie» qu’a joué Aquilée, je ne me limiterai pas aux invasions barbares. Nel corso del secolo da me scelto (350-452) per illustrare il ruolo di «porta d’Italia» rivestito da Aquileia, non mi limiterò alle invasioni barbariche. (p. 16). Je ne suis pas loin de croire que ces «vagues» ont été de moins en moins fortes. Non sono lontano dal credere che le «ondate» siano state sempre meno violente. (p. 19).

6.9. PARENTESI E LINEETTE Le parentesi hanno la funzione di aggiungere all’enunciato un’indicazione secondaria,

che può consistere in un commento, in un’anticipazione o in una spiegazione aggiuntiva

a quanto detto. Tuttavia, all’interno dei saggi in esame, tale ruolo è rivestito dalle

lineette, che, come si è visto (cfr. supra, § 5.3), aprono e chiudono numerosi incisi.

In sede di traduzione le virgole hanno talvolta sostituito le lineette, al fine di integrare

maggiormente un’informazione all’interno della frase:

Ces vagues ont quelque chose de quasi monotone – si on ose dire. Tali ondate hanno un che di monotono, se così si può dire. (p. 19). En réalité, lorsqu’il reprend son énumération quelques pages plus loin, il n’ajoute que l’exemple de la cucurbite métamorphosée en lierre – ce qui montre au moins qu’il a porté quelque attention au texte lui-même, ou qu’il s’est souvenu d’une critique qui avait déjà été faite à Rome une dizaine d’années auparavant. In realtà qualche pagina dopo, quando riprende l’elencazione, aggiunge soltanto l’esempio della cucurbita trasformata in edera, il che dimostra che ha posto una certa attenzione al testo e che si è ricordato di una critica che era stata mossa a Roma una decina di anni prima. (p. 206).

7. PROCEDIMENTI TRADUTTIVI 7.1. TRASPOSIZIONE La trasposizione è quel procedimento traduttivo che consiste nel sostituire una parte

del discorso o una categoria grammaticale con un’altra, senza modificare il senso del

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messaggio (cfr. Vinay & Darbelnet 1977: 50). Questa operazione traduttiva obliqua,

volta a conferire maggior naturalezza nella lingua d’arrivo, riguarda non soltanto “tutte

le parti del discorso (articolo, nome, pronome, verbo, aggettivo, avverbio, preposizione,

congiunzione, interiezione), tutte le categorie grammaticali (predicato verbale, soggetto,

complementi e così via), ma interessa anche periodi e paragrafi interi con unificazioni e

scissioni di enunciati e slittamenti di proposizioni” (Podeur 1993: 35).

In sede di traduzione ci si è avvalsi della trasposizione in numerosi casi.

7.1.1. TRASPOSIZIONE DELLE CATEGORIE GRAMMATICALI PRIMARIE • NOME/VERBO Mentre la lingua francese tende spesso alla nominalizzazione, l’italiano usa con

maggior frequenza il verbo, dal momento che predilige “descrivere un processo

sottolineandone il movimento” (Podeur 1993: 38).

Nel rispetto delle peculiarità delle due lingue, si è optato diverse volte per la

trasposizione nome/verbo:

Cela ne veut aucunement dire que les ponts aient été coupés et que Rufin soit parti sans retour. Ma ciò non significa affatto che siano stati tagliati i ponti, né che Rufino sia partito senza più tornare. (p. 84). Dans le cours de ces deux livres, on trouve de fait mainte attestation d’un recours par Rufin à des écrits ou à des traditions orales [...]. Nel corso di questi due libri troviamo infatti parecchie attestazioni, che provano come Rufino ricorra a scritti e a tradizioni orali [...]. (p. 220).

• VERBO/NOME In qualche caso si è ritenuto opportuno sostituire il verbo con il sostantivo, allo scopo

di alleggerire periodi sintatticamente complessi:

La deuxième remarque est qu’il serait dangereux de se fixer sur cette querelle avec Rufin et de penser qu’elle épuise l’activité de Jérôme et ses rapports avec l’Arc de l’Adriatique. In secondo luogo, sarebbe rischioso focalizzare la propria attenzione sulla controversia con Rufino, nella convinzione che occupi tutta l’attività di Girolamo e tutti i suoi rapporti con l’Arco Adriatico. (p. 102).

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• NOME/AGGETTIVO Si tratta di una trasposizione piuttosto frequente, giacché “il francese si mostra

alquanto sobrio nell’uso dell’aggettivo e non esita a sostituirlo con delle parti del

discorso che non svolgono tradizionalmente un ruolo caratterizzante [...]. Questa

reticenza riguardo all’aggettivo si esprime nell’uso preferenziale del nome [...]” (Podeur

1993: 42):

[...] qui connaissait déjà les menaces qui pesaient sur l’Italie du Nord [...]. [...] che era già a conoscenza delle minacce incombenti sull’Italia settentrionale [...]. (p. 38).

• NOME + AGGETTIVO > ALTERATO Questo tipo di trasposizione è frequente, poiché l’italiano, a differenza del francese, ha

la possibilità di modificare il lessema base attraverso i suffissi alterativi, evidenziandone

particolari caratteristiche legate all’idea di grandezza e piccolezza, nonché a valori

soggettivi espressi dal parlante, quali tenerezza, benevolenza, disprezzo, giudizio

positivo o negativo (cfr. Marinucci 1996: 429). Si veda a tale proposito il seguente

esempio:

Il répliqua à Rufin dans une lettre méchante [...]. Rispose, infatti, a Rufino con una letteraccia [...]. (p. 100).

• NOME/AVVERBIO E AVVERBIO/NOME Questo tipo di trasposizione appare legato “da una parte alla tendenza francese alla

nominalizzazione, dall’altra alla riluttanza della stessa lingua a creare ed usare gli

avverbi in –ment” (Podeur 1993: 46):

[...] A. Glas a affirmé que les deux livres de Rufin dérivaient pour l’essentiel d’un modèle grec [...]. [...] A. Glas ha affermato che i due libri di Rufino derivano essenzialmente da un modello greco [...]. (p. 221). [...] Jérôme a présenté de façon elliptique le différend entre Damase et Ursinus.

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[...] Girolamo ha presentato ellitticamente la controversia tra Damaso e Ursino. (p. 228).

Talvolta la trasposizione opera in senso opposto:

La question que l’on peut se poser est de savoir si ces livres n’étaient pas particulièrement employés dans la région d’Aquilée [...]. L’eventuale domanda da porsi sarebbe se questi libri non fossero utilizzati in modo particolare nella regione di Aquileia [...]. (p. 199).

• VERBO/VERBO + AVVERBIO In italiano è frequente l’uso degli avverbi deittici, che hanno la funzione di precisare

l’aspetto di un verbo, dare un’indicazione concreta del movimento che accompagna il

processo descritto o precisarne la collocazione spaziale; nel passaggio dal francese

all’italiano il ricorso ai deittici è indispensabile se si vuole ottenere un’effettiva

ambientazione nella lingua d’arrivo (cfr. Podeur 1993: 48-50):

[...] avant de rapporter la falsification qui en avait été faite et qui éclata lors de l’audience de Milan. [...] prima di far riferimento alla falsificazione che era stata fatta e che venne fuori durante l’udienza di Milano. (p. 158).

• VERBO/VERBO + SINTAGMA NOMINALE

Il en sera de même lorsque Narsès, à la tête de contingents... Lombards, achèvera la conquête de l’Italie. Lo stesso vale per Narsete, che porterà a termine la riconquista dell’Italia a capo di contingenti lombardi. (p. 77). L’année suivante, de fait, Héraclius reviendra [...]. L’anno successivo Eraclio vi farà ritorno [...]. (p. 103).

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• AGGETTIVO POSSESSIVO/ARTICOLO

[...] Chromace a perdu son frère Eusèbe [...]. [...] Cromazio ha perso il fratello Eusebio [...]. (p. 96). [...] P. Meyvaert entame son étude des fragments [...]. [...] P. Meyvaert intraprende lo studio dei frammenti [...]. (p. 144).

• AGGETTIVO DIMOSTRATIVO/ARTICOLO

On trouvera dans ces pages suivantes un appel au Credo d’Aquilée [...]. Si troverà nelle pagine seguenti un appello al Credo di Aquileia [...]. (p. 159). Cette opinion se fonde sur les lectures personnelles que Postumien assure avoir faites. L’opinione si basa sulle letture personali che Postumiano assicura di aver fatto. (p. 174).

• ARTICOLO INDETERMINATIVO/ARTICOLO DETERMINATIVO

[...] après qu’il eut découvert, par une exploitation des oeuvres mêmes d’Athanase, que l’évêque d’Alexandrie, contrairement à ce que disait Rufin, avait été envoyé une première fois en exil par Constantin lui-même. [...] dopo che questi ebbe scoperto, grazie all’analisi delle opere di Atanasio, che il vescovo di Alessandria, contrariamente a quanto afferma Rufino, era stato mandato una prima volta in esilio da Costantino. (pp. 220-221).

7.1.2. TRASPOSIZIONE DELLE CATEGORIE GRAMMATICALI SECONDARIE Talvolta si è ritenuto opportuno operare un cambiamento di numero nell’uso dei

sostantivi, al fine di ottenere una resa più idiomatica.

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• PLURALE/SINGOLARE

Dans l’intervalle, cependant, il avait eu l’occasion de se fourvoyer dans une autre mauvaise querelle dont les échos ont dû parvenir à Aquilée pendant plusieurs années. Nel frattempo Girolamo aveva avuto modo di lasciarsi coinvolgere in un’altra brutta controversia, la cui eco si è fatta sentire ad Aquileia per diversi anni. (p. 100).

• SINGOLARE/PLURALE

[...] c’est pour faire pièce aux Gaulois qui avaient franchi les Alpes et avaient commencé à s’installer au pied des Alpes Juliennes que la colonie fut déduite en 181 avant notre ère. [...] è infatti per opporsi ai Galli, che avevano varcato le Alpi e cominciato a insediarsi ai piedi delle Alpi Giulie, che la colonia fu dedotta nel 181 a.C. (p. 16).

7.1.3. TRASPOSIZIONE E ORGANIZZAZIONE SINTATTICA Come affermato in precedenza, la trasposizione può interessare non solo le categorie

grammaticali, ma anche l’organizzazione sintattica.

In molte occasioni tale procedimento traduttivo diventa una scelta obbligata, giacché

l’ordine dei costituenti può variare a seconda della lingua. Altre volte si è optato per la

trasposizione per ragioni stilistiche o di maggior chiarezza.

• ORDINE PROGRESSIVO/REGRESSIVO Com’è noto, la lingua francese privilegia la sequenza progressiva, in cui l’ordine

fondamentale degli elementi è del tipo S + V + C. In italiano domina invece l’ordine

regressivo, caratterizzato da una relativa libertà nell’ordine delle parole, che il più delle

volte non corrisponde a una messa in rilievo dell’elemento frastico (cfr. Podeur 1993:

54-55).

- COSTITUENTI DELLA FRASE: SV > VS

Que se serait-il passé si l’évêque d’Aquilée était intervenu? Che cosa sarebbe successo se fosse intervenuto il vescovo di Aquileia? (p. 74).

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[...] toutefois, comme Rufin le rappellera, ce n’est pas lui, mais Jérôme, qui a porté Origène aux nues [...]. [...] tuttavia, come ricorderà Rufino, non è lui bensì Girolamo ad aver osannato Origene [...]. (p. 161).

- SINTAGMA NOMINALE: TESTA + MODIFICATORE > MODIFICATORE + TESTA

La première alerte serieuse eut lieu en 373. Il primo grave allarme si registrò nel 373. (p. 35). On connaît les textes célèbres d’Ambroise [...]. Conosciamo i famosi testi di Ambrogio [...]. (p. 36).

• FORMA ATTIVA/FORMA PASSIVA Si tratta di una trasposizione piuttosto frequente nel passaggio dal francese

all’italiano; benché la forma passiva sia usata in entrambe le lingue, si rileva una

maggior propensione dell’italiano verso tale diatesi:

Il est, d’autre part, au courant des événements les plus récents d’Alexandrie par ceux qui sont envoyés porter des secours à ceux que l’empereur Valens a exilés d’Alexandrie en 373-374. D’altra parte è al corrente degli eventi più recenti di Alessandria, grazie a coloro che sono stati inviati a portare soccorso a chi è stato esiliato da Alessandria, per volontà dell’imperatore Valente, nel 373-374. (p. 89).

• PROPOSIZIONE ESPLICITA/PROPOSIZIONE IMPLICITA

Quant à sa tante Castorina, il dit explicitement qu’il lui a déjà écrit [...]. Per quanto riguarda la zia Castorina, Girolamo dice esplicitamente di averle già scritto [...]. (p. 88).

• PROPOSIZIONE IMPLICITA/PROPOSIZIONE ESPLICITA

Il est vrai qu’inversement on peut s’étonner d’entendre Rufin avouer ignorer le comportement final de Lucifer de Cagliari. Vero è invece che ci si può meravigliare nel sentire Rufino che confessa di ignorare il comportamento finale di Lucifero di Cagliari. (p. 238).

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• TRASPOSIZIONE PROPOSIZIONE PARTICIPIALE/PROPOSIZIONI DI ALTRO TIPO

Ces pages n’ayant pas une valeur dogmatique bien grande, Rufin aurait pu admettre qu’elles rentraient dans les textes “ecclésiastiques”, déstinés à l’édification. Poiché queste pagine non presentavano un grandissimo valore dogmatico, Rufino avrebbe potuto ammettere che rientravano nei testi «ecclesiastici», destinati all’edificazione. (p. 211).

7.2. MODULAZIONE Questo procedimento traduttivo, che riguarda le “categorie di pensiero” (Podeur 1993:

72-73), conduce a un cambiamento del punto di vista (cfr. Vinay & Darbelnet 1977:

51). Si tratta di interventi dettati dalla situazione, dal génie della lingua:

Les choses auraient pu, de fait, mal tourner pour Julien si l’exemple d’Aquilée avait été suivi [...]. La situazione avrebbe potuto prendere una brutta piega per Giuliano, se si fosse seguito l’esempio di Aquileia [...]. (p. 35). Mais Attila, dans la pleine force de l’âge, était loin d’être battu [...]. Tuttavia Attila, ancora nel pieno delle forze, era lungi dall’essere sconfitto [...]. (p. 73).

In corso di traduzione si è passati spesso dalla forma negativa alla forma affermativa;

tale operazione costituisce al tempo stesso una trasposizione e una modulazione,

giacché “implica uno slittamento del punto di vista” (Podeur 1993: 33).

Tale passaggio riguarda soprattutto la forma negativa apparente, vale a dire la

costruzione francese NE + VERBO + QUE:

[...] Ambroise met en garde le jeune empereur contre les sentiments de l’usurpateur qui n’ont de pacifiques que l’apparence [...]. [...] Ambrogio mette in guardia il giovane imperatore dalle intenzioni dell’usurpatore, che di pacifico hanno solo l’apparenza [...]. (p. 44). Rufin n’y invoquait que l’autorité des Pères, des Maiores, jamais des Apôtres [...]. Rufino invocava unicamente l’autorità dei Patres e dei Maiores, mai degli Apostoli [...]. (p. 209).

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Talvolta si è intervenuti con modulazioni lessicalizzate, ovvero registrate nei dizionari:

Jérôme se met au travail séance tenante. Girolamo si mette seduta stante al lavoro. (p. 99). Or, il n’en souffle mot. Eppure non apre bocca. (p. 182).

7.3. TRASCRIZIONE La trascrizione consiste nel riportare integralmente un certo numero di parole in

lingua originale (cfr. Podeur 1993: 147).

Nei saggi in esame si è ricorsi con particolare frequenza a tale procedimento.

7.3.1. TRASCRIZIONE E ONOMASTICA Il fenomeno della trascrizione ha riguardato in primis l’onomastica (distinta in

toponomastica e antroponomia). Come si è visto (§ 4.1.) non sono mai stati trascritti i

nomi che “hanno una traduzione storicamente acquisita nelle varie lingue e registrata

nei rispettivi dizionari” (Podeur 1993: 171). Per gli esempi si rimanda al § 4.1. (supra,

pp. 275-276).

7.3.2. TRASCRIZIONE E TITOLI Nel trasporre i titoli di opere si è seguito il criterio suggerito dalla Podeur (1993: 178),

secondo cui se “il titolo di un’opera ha una traduzione riconosciuta, essa viene sempre

utilizzata, mentre la trascrizione rimane d’obbligo se il testo non è mai stato tradotto”.

Gli esempi che seguono illustrano il comportamento adottato in sede di traduzione:

Le premier texte appartient au Contre Apion de Flavius Josèphe. Il primo testo appartiene al Contro Apione di Giuseppe Flavio [...]. (p. 213). Ce faisant, même s’il ne dit pas explicitement que la Sagesse de Salomon, l’Ecclésiastique, les Livres des Macchabées n’existent pas en hébreu, il renonce implicitement à l’autorité, sacrée pour lui, de la Septante, dans laquelle ils ont pris place.

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Così facendo, sebbene non affermi esplicitamente che la Sapienza di Salomone, l’Ecclesiastico e i Libri dei Maccabei non esistono in ebraico, implicitamente rinuncia all’autorità, per lui sacra, della Settanta, in cui trovano spazio. (p. 217). L’Expositio Symboli n’est certes pas d’abord un ouvrage polémique [...]. L’Expositio Symboli di certo non nasce come opera polemica [...]. (p. 202).

7.4. STRATEGIE DI ESPANSIONE E DI RIDUZIONE Tradurre non significa semplicemente trasporre “les mots-source par les mots-cible

selon une correspondance supposée bi-univoque entre les uns et les autres” (Ladmiral

1979: 16).

L’espansione è un procedimento traduttivo che consiste nell’aumentare il numero di

costituenti all’interno di una frase nel testo di arrivo rispetto al testo di partenza.

In alcuni casi sono state operate espansioni al fine di rendere il testo più chiaro e

scorrevole in italiano:

Il est difficile de se prononcer avec sécurité. È difficile pronunciarsi con certezza sulla questione. (p. 63). Seule la seconde sera commentée sur le moment [...]. Soltanto la seconda lezione sarà commentata subito [...]. (p. 168).

In numerosi altri casi si è ritenuto opportuno attuare strategie di riduzione, sì da

eliminare i segmenti superflui e non conformi al “livello di naturalezza” (Newmark

1988: 25) della lingua di arrivo.

In particolare nella traduzione sono stati omessi quasi completamente gli articoli

partitivi e gli aggettivi possessivi ridondanti.

Per quanto concerne l’articolo partitivo, esso pone “des problèmes aux italophones

parce qu’il est beaucoup moins utilisé en italien qui, comme l’ancien français, préfère

souvent l’article zéro” (Bidaud 1994: 33-34). Nel testo di arrivo si è dunque optato per

la sostituzione di tale articolo o, ancor più frequentemente, per la sua omissione:

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Il est venu à Milan trois ans à peine après la mort de l’évêque et il a été en contact avec des fidèles d’Ambroise, comme Gaudence, déjà nommé, ou Chromace, l’évêque pour le troupeau de qui il compose cette Histoire. È venuto a Milano dopo appena tre anni dalla morte del vescovo ed è stato in contatto con i fedeli di Ambrogio, quali Gaudenzio, già nominato, e Cromazio, il vescovo per il cui gregge compone questa Storia. (p. 229). Mais, au-delà des symboles, il y a des réalités. Ma al di là dei simboli, vi sono dati di fatto. (p. 82). Je voudrais aborder des questions apparemment plus tangibles et cependant beaucoup moins faciles à appréhender [...].

[...] vorrei affrontare questioni apparentemente più tangibili, sebbene molto meno facili da comprendere [...]. (p. 120).

Anche per quanto riguarda gli aggettivi possessivi il francese si comporta

diversamente rispetto al nostro idioma, collocandoli anche laddove in italiano possono

essere omessi, ovvero quando la relazione con il possessore è evidente e facilmente

rilevabile dal contesto (cfr. Marinucci 1996: 130).

Pertanto, in sede di traduzione, laddove non sussisteva ambiguità riguardo al possesso,

tale aggettivo è stato sostituito con l’articolo determinativo (per gli esempi vedi supra, §

7.1.1.).

Inoltre, come già ricordato (§ 3.4.), nel passaggio dal testo francese a quello italiano le

particelle pronominali en e y sono state omesse nei casi in cui risultavano superflue (per

gli esempi si rimanda al paragrafo 3.4.).

Anche l’aggettivo indefinito même è stato omesso laddove ritenuto ridondante:

Mais qui sont ceux qui accusent Jérôme d’être lui-même hérétique, et en quoi consisterait son hérésie? Ma chi sono coloro che accusano Girolamo di essere un eretico e in cosa consisterebbe la sua eresia? (p. 183). [...] à cause du trouble jeté par Jérôme en Occident, mais aussi à Jérusalem même [...]. [...] a causa dello scompiglio creato da Girolamo in Occidente e anche a Gerusalemme [...]. (p. 188).

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L’ultimo caso di riduzione che affronteremo in questa sede riguarda la cosiddetta

“dittologia sinonimica”, figura di parola che consiste nella congiunzione di due vocaboli

simili nel significato e rispondente alla tecnica dell’amplificazione che produce

ridondanza (cfr. Mortara Garavelli 1988: 214). Tale accostamento di due termini,

sovente legati da allitterazione, è stato ridotto a un termine solo, in nome di una maggior

scorrevolezza:

Je me contente de renvoyer ici aux bibliographies des ouvrages de Fl. Ghizzoni et Cl. Stancliffe cités à la note suivante, qui fournissent cette liste impressionante et importante. Mi limiterò a rimandare alla bibliografia delle opere di Fl. Ghizzoni e di Cl. Stancliffe, citate nella nota seguente, che forniscono un elenco considerevole. (p. 164).

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BIBLIOGRAFIA

Bibliografia dell’autore Per una bibliografia completa delle opere di Yves-Marie Duval (dal 1958 al 2003) si veda il volume curato da Benoît Gain, Pierre Jay e Gérard Nauroy, Chartae caritatis, Études de patristique et d’antiquité tardive en hommage à Yves-Marie Duval, Paris, Institut d’Études Augustiniennes, 2004, pp. 7-17. Testi di teoria della traduzione Arcaini E., Italiano e francese: un’analisi comparativa, Torino, Paravia scriptorium, 2000. Arcaini E., “Modelli teorici per la traduzione”, La traduzione. Saggi e documenti, 1, Direzione scientifica di E. Arcaini, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Roma, Divisione Editoria, 1992, pp. 15-25. Ballard M., Le nom propre en traduction, Paris, Ophrys, 2001. Barone C., Viceversa, Firenze, Le Lettere, 1997. Benelli G., “Tradurre verso l’italiano”, in Calabrò G. (a cura di), Teoria, didattica e prassi della traduzione, Napoli, Liguori Editore, 2001, pp. 129-141. Ladmiral J.-R., Traduire: théorèmes pour la traduction, Paris, Payot, 1979. Newmark P., La traduzione: problemi e metodi, trad. it. di F. Frangini, Milano, Garzanti, 1988. Podeur J., La pratica della traduzione. Dal francese in italiano e dall’italiano in francese, Napoli, Liguori Editore, 1993. Podeur J., Nomi in azione. Il nome proprio nelle traduzioni dall’italiano al francese e dal francese all’italiano, Napoli, Liguori Editore, 1999. Raccanello M., “La traduttologia in Francia”, in Ulrych M. (a cura di), Tradurre: un approccio multidisciplinare, Torino, UTET, 1997, pp. 263-289. Rega L., La traduzione letteraria, Torino, UTET, 2001. Scarpa F., La traduzione specializzata, Milano, Hoepli, 2001. Vinay J.-P., Darbelnet J., Stylistique comparée du français et de l’anglais, Paris, Didier, 1977.

Page 297: Fusco Enrico

302

Grammatiche Bidaud F., Grammaire du français pour italophones, Firenze, La Nuova Italia, 1994. Dardano M., Trifone P., La lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1985. Dardano M., Trifone P., Grammatica italiana con nozioni di linguistica, Bologna, Zanichelli, 1989. Dardano M., Trifone P., La nuova grammatica della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1997. Grevisse M., Le bon usage. Grammaire française, 13e éd. refondue par Goosse A., Paris, Duculot, 1993. Marinucci M., La lingua italiana. Grammatica, Milano, Mondadori, 1996. Renzi L. (a cura di), Grande grammatica italiana di consultazione, Bologna, Il Mulino, 1991. Riegel M. et al., Grammaire méthodique du français, Paris, PUF, coll. Quadrige, 2001. Schena L., Grammaire du verbe français à l’usage des spécialistes italophones. L’indicatif, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1989. Serianni L., Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, Torino, UTET, 1988. Dizionari AA.VV., Dictionnaire de la langue française, Lexis, Paris, Larousse, 1992. AA.VV., DIF, Dizionario francese-italiano/italiano-francese, Torino, Paravia, 1999. AA.VV., Grand Larousse de la langue française, Paris, Larousse, 1978. Beccaria G.L. (a cura di), Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Torino, Einaudi, 1996. Boch R., Il Boch quarta edizione. Dizionario francese-italiano/italiano-francese, Bologna, Zanichelli, 2000. De Mauro T., Il dizionario della lingua italiana, Torino, Paravia, 2000. Robert P., Le Grand Robert de la Langue Française, 10e éd. dirigée par Alain Rey, Paris, Dictionnaires Le Robert, 2001. Robert P., Le Nouveau Petit Robert. Dictionnaire alphabétique et analogique de la langue française, Paris, Dictionnaires Le Robert, 2006. Zingarelli N., Lo Zingarelli 2005. Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 2004.

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303

Altri testi consultati Berretta M., “Morfologia”, in Sobrero A. (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. Le strutture, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 193-245. Berruto G., Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1990. Berruto G., “Varietà diamesiche, diastratiche, diafasiche”, in Sobrero A. (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 37-92. Genette G., Seuils, Paris, Seuil, 1987. Mortara Garavelli B., Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 1988. Simone R., Fondamenti di linguistica, Roma-Bari, Laterza, 1995. Ulrych M. (a cura di), Terminologia della traduzione, Milano, Hoepli, 2002.

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RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare innanzitutto il Prof. Graziano Benelli, relatore del

presente elaborato, e la Prof.ssa Manuela Raccanello, correlatrice, per la loro

grande disponibilità, serietà e cortesia. Ringrazio altresì il Prof. Cuscito per la

sua attenta opera di revisione.

Non posso esimermi dall’inviare un sentitissimo ringraziamento all’intera

Facoltà: sono orgoglioso di aver frequentato per cinque anni la prestigiosa

SSLMIT e di aver conosciuto professori altamente preparati ma soprattutto

stimolanti, i quali mi hanno consentito di imparare un’arte, e non semplicemente

un mestiere.

Ringrazio la mia famiglia (Renato, Franca, Federica, la nonna Anna), per

avermi permesso di studiare e di arricchire le mie conoscenze, facendomi così

diventare un uomo.

Ringrazio Stefania, la mia “super-fidanzata”, per essermi stata sempre

accanto, anche quando davo il peggio di me. So che hai sempre fatto il tifo per

il sottoscritto, non hai idea di quanto questo mi abbia aiutato a tener duro e a

dare il massimo, giorno dopo giorno, per cinque lunghi anni. Grazie angelo mio,

ti amo più della mia stessa vita.

Ringrazio Matteo, il mio migliore amico. Sei come un fratello per me, ci sei

sempre stato e so che ci sarai sempre. Sei l’amico a cui sono legato da più

tempo. Ti voglio bene frà!

Ringrazio Petty, il mio carissimo Petty. Non ho mai avuto un’intesa tale con

nessun altro amico, per questo sei unico per me. La nostra amicizia è

preziosissima. Ti voglio un sacco bene amicone.

Ringrazio Felix, una delle persone più serie e determinate che io conosca, per

questo tanto simile a me. Siamo sempre stati in sintonia, spero lo saremo

ancora a lungo. Sappi che ti apprezzo e ti stimo.

Ringrazio Lorenzo (detto Pio Pio), un ottimo amico, gentile e disponibile, una

persona che senza dubbio meriterebbe di più dalla vita. Spero che un giorno la

fortuna ti arrida, amico mio; nel frattempo, tieni duro, e non diventare troppo

cinico.

Ringrazio il mitico Fabio: ti conosco da poco, ma sono molto legato a te. Non

potrò mai dimenticare i nostri allenamenti insieme in palestra (dai ancora una!!!)

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e le nostre filosofiche chiacchierate sulla vita di coppia. Ti auguro ogni felicità,

so che tu l’avrai.

Ringrazio Federico Grillo, una persona simpaticissima, solare e amichevole

come poche. Ricorderò sempre i nostri lunghissimi discorsi nella tua jeep e per

telefono. Spero che il futuro ti riservi grosse sorprese, te le meriti.

Ringrazio i miei compagni di corso, in particolar modo Ludo e Umbe. Ci siamo

persi di vista, ma non posso dimenticare i migliori amici che ho avuto qui in

facoltà. Con voi ho condiviso sogni, speranze, lunghe ore sui libri, ma

soprattutto una passione fortissima: l’amore per le lingue. Spero davvero che il

futuro non ci separi ulteriormente.

Ringrazio Valentina Melita, per aver contribuito a realizzare un mio grande

sogno. Ehi collega, mi raccomando, teniamoci in contatto! Ovunque tu sia.

Ringrazio tutti quegli amici che in questi anni ho frequentato poco o

comunque molto meno di quanto volessi, ahimé, specie per motivi di studio

(sono un secchione, lo so): i Gonani (in special modo Marco, il mio migliore

amico ai tempi del liceo), Calogero, Orlando, Ricky, Carlo, Franco, Giovanni Da

Col detto Il Filosofo, Gennaro, Gherardo, Christian...

Ringrazio Cozzu, una gran persona, simpatica come poche. Per me sei

sempre stato un campione, nello sport come nella vita.

Ringrazio Denis e Zorky, gli amici d’infanzia di Petty. Abbiamo passato bei

momenti insieme, ora siamo cambiati tutti quanti, ma ho un ricordo assai

piacevole di voi.

Ringrazio Andrea Potenza, il mio super compagno di banco del liceo. Nel

bene e nel male mi hai insegnato tante cose; è stato un piacere condividere con

te gli anni più divertenti della mia vita.

Ringrazio Gabrio, il mio “datore di lavoro”, una persona davvero in gamba,

simpatica e intraprendente.

Ringrazio i miei carissimi amici sparsi per il mondo, in primis Santiago da

Madrid e Pavlo da Leopoli: con voi ho passato l’estate più bella della mia vita

(2004), ho ricordi bellissimi di voi e degli splendidi posti che ho visitato in vostra

compagnia.

Ringrazio i miei compagni di allenamento della Central Gym (in particolare

Alex, Luciano e Matteo): insieme abbiamo sollevato tonnellate di ghisa, ma

ancora non siamo stufi. Che la passione per il ferro ci accomuni sempre!

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Infine vorrei dire grazie a me stesso, per non aver mollato mai. È stata dura,

ma non rimpiango le 14 ore di studio al giorno, le serate chiuso in casa a

studiare (o, più spesso, a tradurre) fino alle 3 di notte, quando tutti (tranne

Stefania) erano fuori a divertirsi, le mattine in cui mi alzavo alle sette per

arrivare puntuale alle 8 a lezione. Rifarei tutto altre mille volte, ne è valsa la

pena. Le soddisfazioni in questi anni sono state innumerevoli, spero non si

concludano qui. In ogni caso il mio motto rimarrà sempre lo stesso: NO PAIN,

NO GAIN.