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Generation Kill

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La vera storia dei Marines entrati per primi in Iraq. «Un resoconto travolgente e adrenalinico della guerra in Iraq, con uno stile diretto e pungente». Financial Times Per descrivere una guerra, bisogna averla vissuta. Questo secondo volume della serie Generation Kill racconta la vera storia del primo battaglione esploratori dei Marines – che ha guidato l’offensiva nella guerra lampo in Iraq nella sua fase più complessa e sanguinosa –, dalla liberazione di Nasiriyah fino alla conquista di Baghdad e la conseguente caduta del regime di Saddam Hussein. Con un ritmo incalzante, il libro ripercorre le atrocità del conflitto, le bizzarrie dei superiori, la ricerca di un senso di identità e di appartenenza, ricostruite attraverso le parole di Evan Wright, l’inviato embedded della rivista «Rolling Stone» che ha accompagnato i soldati in ogni operazione militare a bordo dell’Humvee più avanzato, mettendo a rischio la sua stessa vita.

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Evan Wright

GENERATION KILLDa Nasiriyah a Baghdad

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Titolo originale:Generation KillDevil Dogs, Iceman, Captain America and the New Face of American WarCopyright © 2004, 2008 di Evan Wright Pubblicato negli Stati Uniti da The Berkley Publishing Group 375 Hudson Street, New York New York 10014

Un sentito ringraziamento alla rivista Rolling Stone, dove parti di questo libro sono apparseper la prima volta in forma diversa.

La citazione contenuta nella dedica è tratta da Il secondo libro della giungla di RudyardKipling (1895).

Nota dell’Autore:In questo libro, alcuni uomini sono identificati solo con i soprannomi che hanno attribuito loro gli altri marines.

Traduzione dall’inglese:Fabio Bernabei

Fotocomposizione:Redigraf – Roma

Stampa:La Moderna – Roma

Copyright edizione italiana GREMESE 2011 © E.G.E. s.r.l. – Roma www.gremese.com

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registratao trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consensoformale dell’Editore.

ISBN 978-88-8440-696-5

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Ai guerrieri di Hitman-2 e Hitman-3:La forza del branco è il singolo lupo.

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Ringraziamenti

Questo libro non avrebbe mai visto la luce senza il coraggio deiMarines, che nella missione in difesa della Costituzione ameri-cana hanno permesso a un reporter di stare in mezzo a loro.Grazie a tutti gli uomini del First Recon, a partire dal Padrino,per avermi sostenuto e aiutato nell’accesso ai luoghi e nel fare leinterviste. Un ringraziamento particolare a Nate per la sua sag-gezza, a Josh per la sua guida eccezionale, e a Brad, James,Gabe e Walt per la calda ospitalità e i tiri precisi. Questa inizia-tiva è stata appoggiata da Jann S. Wenner e ha avuto l’avvio conl’aiuto dei seguenti mentori: Allan MacDonell, Michael LouisAlbo, Dylan Ford, Janet Duckworth, Karl Taro Greenfeld, WillDana, il sergente di artiglieria Mark Oliva, Rex Bowman, SeanWoods, Richard Abate, Rob McMahon e David Highfill.

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Personaggi principali

Aubin, Alex, capitano di corvettaBodley, Christopher, capitano di corvetta Bryan, Doc, vedi Bryan, Robert Timothy, infermiere di seconda classe Bryan, Robert Timothy, infermiere di seconda classeBurris, John, caporale Capitan AmericaCarazales, Jeffrey, caporale onorarioCasey KasemChaffin, James, caporale Christopher, Nathan, vicecaporale Colbert, Brad, sergenteCottle, Robert, primo sergente Dill, David, sergente artigliereDowdy, Joe, colonnelloEckloff, Todd, maggioreEncino Man Espera, Antonio, sergenteFerrando, Stephen, tenente colonnello Fick, Nathaniel, tenenteGarza, Gabriel, caporaleGraham, George, ufficiale sanitario Graves, Charles, sergente Gunny Wynn, vedi Wynn, Mike, sergente artigliere Hasser, Walter, caporale

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Holman, Caleb, caporaleHolsey, Teren, caporaleHossein, Sadi Ali Jacks, Anthony, caporaleJeschke, Ryan, caporaleKocher, Eric M., sergenteLilley, Jason, caporaleLovell, Steven, sergenteManalManimal, vedi Jacks, Anthony, caporale Mattis, James, maggior generaleMeesh O’Connor, Daniel, capitanoPappy, vedi Patrick, Larry Shawn, sergente Patrick, Larry Shawn, sergentePatterson, Bryan, capitanoPerson, Josh Ray, caporaleRedman, Daniel, caporaleReyes, Rudy, sergente Saucier, Michael, caporale Shoup, Michael, maggioreStafford, Evan, caporale Stinetorf, Michael, caporaleSutherby, Ken, sergenteSwarr, Jason, sergente artigliereTrombley, Harold, caporale onorarioValdez, Ray, sergente maggiore Weiss, Randy, sergenteWynn, Mike, sergente artigliere

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Capitolo uno

a mattina del 31 marzo, verso le nove, la squadra di Colberte il resto del First Recon lasciano l’accampamento all’incro-

cio delle Route 7 e 17, in Mesopotamia centrale, per dare inizioalla prossima missione. L’obiettivo del giorno è Al Hayy, unacittadina di circa cinquantamila abitanti, una trentina di chilo-metri più a nord. È il quartier generale del partito Baath e la sededi una unità di diverse migliaia di soldati della GuardiaRepubblicana.

I seimila marines dell’RCT-1 prevedono di assaltare il centrodi Al Hayy nelle prossime ventiquattro ore. Ma per primi muo-veranno i marines del Recon. Come già per l’avanzata verso AlGharraf, il battaglione lascerà la Route 7 e seguirà una pista interra battuta che costeggia un canale. Inizialmente, l’RCT-1 pro-cederà sull’altra sponda in parallelo con il First Recon. Poi que-sto avanzerà rapidamente, supererà una serie di ponti sul canalefino ad Al Hayy, proseguirà di buon passo in direzione nord eprenderà il principale ponte sull’autostrada alle porte della città,per bloccare la ritirata delle forze nemiche durante l’attaccodell’RCT-1.

Durante la missione, il First Recon avrà meno effettivi delnormale. La compagnia Alpha è stata temporaneamente stacca-ta dal battaglione, per un’operazione separata in una cittadinairachena dove si presume sia stato linciato il marine disperso.

Attraversiamo un ponte basso e stretto sopra il canale e,ancora una volta, i circa duecentonovanta marines del First

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Recon, suddivisi in cinquanta veicoli, sono l’unità più a nordnell’Iraq centrale. È la prima mattina calda da parecchi giorni.In cielo si scorgono nubi colme di pioggia, ma il sole riescecomunque a penetrare e l’aria è pulita. Il canale scorre allanostra destra e in alcuni punti raggiunge quasi i trenta metri dilarghezza.

Il battaglione avanza in fila indiana lungo una via non lastri-cata e a corsia unica che attraversa il mosaico, ormai familiare,di campi erbosi, distese di fango tagliate da fossati e berme, pal-meti e gruppetti di casupole. Alcune hanno le pareti a ridossodella strada e indirizzano gli Humvee tra i villaggi a sinistra e ilcanale a destra. Un terreno ideale per gli agguati.

Sulla sinistra, superiamo dei contadini al lavoro nei campi.Colbert li guarda con diffidenza: «Questa è gente semplice.Sono loro che sono venuto a liberare».

«Fuoco da armi leggere in testa!», dice Person, che riferisceil rapporto ricevuto via radio.

Procediamo a circa trenta chilometri l’ora, quando colpiamoqualcosa di duro. Come dal nulla, sulla destra del veicolo spun-ta un cane selvatico, che balza in avanti e ringhia contro i fine-strini. «Porca puttana!», sussulta Colbert, impressionato comenon l’ho mai visto prima.

Nonostante la paura e lo stress, Colbert rimane pur sempre uninvasore educato. Quando superiamo altri contadini al lavoronei campi, alza la canna dell’M-4 per non puntare nella lorodirezione.

Un paio di Cobra si abbassano alla nostra sinistra. Gli elicot-teri corazzati, che non vediamo da qualche giorno, si spostano incielo con la grazia di grossi martelli volanti. Si distinguono per ilrumoroso sferragliare, sgradevole quanto il loro aspetto. «Piùavanti i Cobra hanno individuato uno Zil – un camion militarerusso – blu, con truppe irachene a bordo», afferma Colbert, anchelui riferendo un rapporto ricevuto via radio.

Ci fermiamo.10

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Da qualche parte, sulla strada, si sente il ronzio di una mitra-gliatrice. «Sparano sul nostro veicolo in testa», dice. Non cimuoviamo. Colbert fissa la sterpaglia accanto al finestrino.«Sarebbe l’ideale per una bella cacata», osserva. «Dovevo farlaquando ci siamo fermati la prima volta». Stamattina ha cercatodi svuotarsi l’intestino, ma è stato interrotto all’improvvisoquando la missione è stata anticipata di due ore. Adesso, alledieci di mattina, mentre le armi hanno già cominciato a sparare,il problema si è fatto pressante.

Ormai ho una certa esperienza in fatto di marines. Vi sonoalcuni punti saldi nel loro mondo, persino nel caos della guer-ra. Appena un’unità si ferma per la notte e finisce di scavare lefosse di protezione, gli uomini vengono spostati in una posi-zione leggermente differente e costretti a ricominciare dacca-po. Quando una squadra riceve l’ordine di tenersi pronta a par-tire in cinque minuti, i militari sanno già che dovranno rimane-re fermi per ore. Se l’ordine è di mantenere la posizione per treore, quello seguente sarà di muoversi in due minuti. Ma soprat-tutto, è un dato di fatto che Colbert non riuscirà mai a cacarein santa pace.

Ci raggiunge Fick: «Hanno trovato dei lanciagranate RPG inun fosso sulla strada, a circa duecento metri da qui. Sappiamoche più avanti c’è un plotone iracheno appiedato».

Un sibilo attraversa l’aria. Un chilometro più avanti, i Cobravolano rasentando i palmeti, lanciando razzi e sparando raffichedi mitragliatrice su un piccolo agglomerato di case dall’altraparte del canale.

«Stanno attaccando i technical – veicoli civili con armi dafuoco montate sul retro – individuati tra quelle abitazioni lag-giù», spiega Colbert.

Dall’altra parte del canale, a circa settantacinque metri sullanostra destra, i mezzi anfibi Amtrac dell’RCT-1 rombano attra-verso la boscaglia, rasentando alcune casupole di fango. Quandosi muovono, producono un rumore inconfondibile (come quan-

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do sei in una lavanderia automatica, riempi tutte le asciugatricie regoli il calore al massimo). Se gli stai troppo vicino, ti dan-neggiano l’udito. E anche se avanzano tra gli arbusti, lungo ilcanale, fanno un fracasso terribile. Poco dopo, le mitragliatricicominciano a sparare a raffica verso obiettivi in prossimità dellecase. Riecheggiano i lanciagranate Mark-19. Non sappiamo ache cosa mirino. Riusciamo solo a scorgere i veicoli grigi al disopra della boscaglia: avanzano a scatti per qualche metro, sifermano e lanciano dei piccoli lampi arancioni.

Mentre ascolta i rumori del piccolo scontro a fuoco, Colbertsi sporge dal finestrino dell’Humvee e cerca di scrutare lascena dal mirino del fucile. Poi si appoggia seccato allo schie-nale del sedile: «Spero solo che non orientino i colpi su dinoi».

Rimaniamo in attesa.«Vaffanculo», esclama Colbert durante il fuoco sporadico

della mitragliatrice. «Stavolta la faccio».Salta fuori, si addentra nella boscaglia accanto al veicolo, si

accovaccia e svolge l’incombenza.Person comincia a cantare “I Feel Like I’m Fixin’ to Die”,

l’inno pacifista di Country Joe McDonald, da And it’s one, two,three/What are we fighting for?. Viene interrotto dalla radio,che riferisce l’ordine di muoversi. Chiama Colbert, accovac-ciato tra l’erba: «Ehi, ci rimettiamo in moto!».

Colbert arriva salterellando e mezzo svestito, le bretelle dellatuta MOPP oscillano avanti e indietro: «Ce l’ho fatta!». Tira unsospiro.

Mentre Person porta avanti il veicolo, Colbert dice: «Credoproprio che alla prossima curva ci beccheremo un po’ di fuoco».

Il suo istinto è prezioso. Il primo colpo di mortaio dellagiornata esplode in direzione del veicolo appena voltiamostrada. Nessuno sa dire da dove è arrivato ma, a giudicare dalrumore attutito, è probabile che sia caduto a qualche centinaiodi metri di distanza. Ci fermiamo. Alla nostra sinistra, un pic-

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colo villaggio: quattro o cinque abitazioni con pareti di fangoa circa quindici metri dalla strada, raggruppate sotto alberi difico non molto alti. Di fronte, una recinzione grossolana dicanne essiccate che fa da steccato per pecore e capre. Il grup-po di casupole ha il sapore primitivo dei presepi allestiti nellepiazze a Natale. Attorno scorrazzano i polli, e cinque o sei abi-tanti – donne in età avanzata vestite di nero, anziani in sudiciabiti bianchi, tutti scalzi – ci fissano con aria intontita. Illuogo ha un aspetto quasi biblico, eppure in alto corrono i cavielettrici che vanno a finire nelle capanne. I marines scendonodagli Humvee, si riparano dietro il cofano dei veicoli, lascian-do aperte le portiere, e prendono a esaminare i tetti, le paretie i campi con berme alle spalle del villaggio, per scovareeventuali nemici armati.

Cinque minuti dopo questa fase di stallo, la gente del postocomincia ad avvicinarsi. I marines lasciano la posizione dicopertura. Arriva l’interprete. Gli abitanti dicono che nel vil-laggio non ci sono forze nemiche. Frattanto, però, continuiamoa sentire esplosioni in lontananza. Seduto sull’Humvee, Personriceve un rapporto via radio: altre unità del First Recon, stanzia-te lungo quasi due chilometri di questo sentiero angusto, sonosotto l’attacco dei mortai nemici.

Si avvicina un contadino scalzo. Ha il volto ossuto e scavato,a quanto sembra a causa di un’esistenza fatta di fame e stenti.Agita il pugno in modo concitato e, grazie all’aiuto dell’inter-prete, spiega con voce stridula che attende l’arrivo degli ameri-cani dalla prima guerra del Golfo. Un tempo viveva in unaregione paludosa a maggioranza sciita, a sud del villaggio, maSaddam ha fatto bonificare gli acquitrini e mandato in rovina iterreni coltivati per punire chi aveva sostenuto la ribellione del1991. «Saddam crede che se riduce alla fame il popolo, noi cisottometteremo come schiavi. È terrorismo per mano del siste-ma stesso».

Chiedo al contadino come mai saluti con favore gli america-13

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ni, che pure invadono la sua terra. «La nostra vita è già un infer-no», risponde. «Se ci lasciate pregare e non date fastidio allenostre donne, siamo pronti ad accettarvi».

Capelli brizzolati, volto affilato coperto dalle rughe, il conta-dino avrà sui sessant’anni, buona parte dei quali, immagino,siano stati assai duri. Gli chiedo quando è nato: 1964. Gli dicoche siamo coetanei. Si sporge verso di me e si indica il viso sor-ridendo. «Rispetto a te, sembro un vecchio», dice. «Tutta colpadi una vita passata sotto Saddam».

Mi disorienta notare quanta consapevolezza di sé abbia que-st’uomo. Quando vedo immagini di popoli lontani che soffrono,una delle poche consolazioni è la speranza che il classico bambi-no affamato con le mosche sul viso non si renda conto di quantosia toccante il suo aspetto. Se il suo mondo è solo indigenza esquallore, magari la sofferenza non gli sembrerà tanto brutta.Questo contadino, invece, ha spazzato via anche tale confortevo-le illusione. Conduce un’esistenza squallida, e lo sa bene. Primadi allontanarsi, avverte l’interprete che siamo in prossimità diun’area dove il partito Baath è ben radicato. Chiede, infine, aimarines di accompagnarlo a Baghdad: «Voglio uccidere Saddamcon le mie mani».

A cinquecento metri dal secondo plotone, nei pressi del vil-laggio, i marines del terzo scorgono uno Zil avanzare a scattitra i campi. Nel vano posteriore sono stipati circa venti giova-ni iracheni. Sono armati, ma hanno abiti civili. Il camion siferma, e gli iracheni cercano di fuggire lungo il canale. I mari-nes gli puntano contro le armi, e i giovani alzano le mani insegno di resa. Gli iracheni sostengono di essere contadini e digirare armati per timore dei banditi che infestano la regione;ma, prima di essere fermati, hanno lanciato delle borse nelcampo. Le recuperano i marines. All’interno, documenti mili-tari della Guardia Repubblicana e uniformi ancora zuppe disudore. È palese che i giovani se ne siano appena liberati. Gli

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uomini del terzo plotone li prendono come prigionieri, gli lega-no i polsi con le manette di plastica (una sorta di versionerobusta dei lacci per chiudere le buste della spazzatura) e licaricano su un camion del battaglione.

Il battaglione procede per qualche chilometro. In lontananza,il ronzio delle mitragliatrici dei Cobra. I colpi dei mortai esplo-dono a intervalli di qualche minuto, ma presumiamo che sianoancora distanti diverse centinaia di metri.

Qua e là, la strada sembra un tunnel, delimitato da stacciona-te di canne e alberi sporgenti. È il terreno più pericoloso in cuioperare, dopo la città. Ma la cosa strana è che è oltremodo gra-zioso, e nel veicolo sembrano accorgersene tutti. Qualche gior-no addietro, mentre il battaglione si spingeva verso Al Gharrafsotto il fuoco nemico, alcuni marines mi hanno riferito chequando hanno visto il blu abbagliante della cupola dellamoschea, nei pressi dell’ingresso, hanno avvertito una sensazio-ne di pace, nonostante tutt’intorno vi fossero solo i colpi di arti-glieria.

In sostanza, ci sono cose alle quali si reagisce in modo auto-matico, anche in periodi di stress. Un sentiero fiancheggiato daalberi che curva accanto a un canale è ancora un’immagine affa-scinante, persino quando si è attorniati da forze nemiche.Durante una sosta, la squadra di Colbert è distratta da un grup-po di bufali d’acqua che si bagnano sulle sponde del canale.Trombley esce dal veicolo e si avvicina agli animali (nonostan-te ci arrivi nitido il rombo dei tanti colpi di mortaio), e Colbertdeve ordinargli di tornare indietro.

Il secondo plotone giunge in un altro villaggio, un gruppo dicirca sette abitazioni, cinto da mura. Gli uomini di Colbert e glialtri ricevono l’ordine di smontare e perlustrare, casa per casa,questo e i vari villaggi lungo la strada. I vertici del battaglionesono sempre più preoccupati per il fuoco dei mortai. I Cobra nonsono ancora riusciti a individuare le postazioni nemiche. Il pianoprevede che i marines dislocati sul territorio si mostrino più

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aggressivi, nella speranza di raccogliere informazioni più accu-rate dagli abitanti del luogo.

Colbert entra nel piccolo villaggio alla testa della squadra; siavanza per zone, i fucili pronti a fare fuoco. Spuntano diversiuomini. Colbert urla: «Giù!», mimando il gesto con l’M-4. Sigettano pancia a terra tra la sporcizia. Poi i marines si avvicina-no, fucili spianati, e li costringono a intrecciare le dita dietro lanuca. Arriva anche una ventina di donne e bambini. Espera ha ilcompito di radunarli verso la strada.

Tre colpi di mortaio esplodono duecento metri a nord-ovest,sollevando una nuvola di polvere e fumo dietro al villaggio. Imarines non vi prestano attenzione. Un proiettile cade a circasettantacinque metri a ovest, come spuntato dal nulla. Quandoarrivano così vicini, si sente una sorta di fffft! poco prima delloscoppio. Poi, in seguito all’aumento della pressione dell’aria, siha la sensazione che il corpo venga investito da una scarica elet-trica blanda. Ma ormai siamo fermi qui e non c’è niente da fare.I colpi cadono in modo del tutto casuale. Non è come quando c’èun nemico armato di fucile e rannicchiato nei campi, che cercadi inquadrarti nel mirino. Qui non ci sono bersagli individuali.Occorre farsi coraggio e abituarsi alla casualità dei proiettili.

Raggiungo Espera, che sorveglia le donne e i bambini lungola strada. Un’anziana in abiti neri gli grida qualcosa dimenandole braccia. «Mi fa venire in mente quando andavo a sequestrarel’auto a chi non pagava», dice il sergente. «Le donne sono sem-pre quelle che protestano con più rabbia. Non si sa mai comepossano reagire. E non cambia niente se si tratta di una puttananera di South Central o di qualche ricca troia bianca di BeverlyHills. Appena ti vedono, prendono a urlare. Non fa nulla se haiuna pistola. In un certo senso, pensano che non possa succeder-gli mai niente».

La squadra di Colbert si addentra nel primo gruppo di case.Le pareti di fango sono ravvivate da immagini di fiori e tramon-ti, ritagliate dalle riviste. La giornata si è fatta calda. Fuori siamo

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sui trentacinque gradi, ma le abitazioni rimangono fresche.Trombley ne è colpito: «Non sarebbe niente male vivere in unadi queste».

La camera da letto di una casupola lascia i marines disorien-tati. Le pareti sono molto semplici, ma ci sono un lettore cd, untelevisore con dvd, specchi, il quadro di un cavallo su velluto,lampade elettriche e quello che ha tutta l’aria di essere un lettoCalifornia King (telaio cromato e laccato nero, copriletto a mac-chie di leopardo). Sembra quasi di essersi imbattuti nel rifugiodi qualche trafficante di droga di Los Angeles Est.

Nelle vicinanze, una casupola senza finestre e chiusa achiave. I marines provano a sfondare la porta a calci, ma èbloccata con il lucchetto. Lo aprono con le tronchesi e scopro-no l’arsenale del villaggio: due fucili AK, cataste di marijua-na e borse contenenti una polvere bianca, con ogni probabilitàcocaina o eroina. Colbert sequestra i fucili, ma lascia stare ladroga: «Non siamo venuti a rompergli i coglioni su come cam-pano».

Riprendiamo lentamente la strada, mentre i colpi di mortaiocontinuano a cadere per un’ora. Il caldo si fa più intenso. Le tuteMOPP dei marines – che devono attraversare i campi, scavalca-re muri e sfondare porte – sono zuppe di sudore. Minuscole zan-zare sciamano dappertutto. Sembrano avere denti in miniatura.Scendono giù in nuvole nere e danno la sensazione di potermasticare collo, palpebre e orecchie della preda.

Colbert si lascia cadere contro l’Humvee per una sosta,rosso in viso dalle palpitazioni impazzite del cuore.«Nell’ultimo villaggio stavo per crollare. Sono arrivato al limi-te». Succhia l’acqua dal tubo attaccato a un sacco CamelBak ecomincia a cantare “I’m Sailing Away!”. Ma poi si ferma.«Troppo pericoloso», osserva.

Poco più avanti, uno sparo. «Un cane ha cercato di attaccareun compagno e quello gli ha sparato», riferisce Person dopoavere ricevuto un rapporto via radio.

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«Ma che bisogno c’era?», commenta Colbert.Più in là esplodono due colpi di mortaio.Capitan America incede impettito, la baionetta pronta all’uso.

«Charlie tra gli alberi!», lo prende in giro Colbert, citando unabattuta del film Platoon.

Alle tre e mezza del pomeriggio, raggiungiamo una curva delcanale, a circa dieci chilometri a sud dell’obiettivo, Al Hayy. Piùavanti c’è una moschea. Poco prima, i Cobra hanno aperto ilfuoco verso i campi accanto al tempio, polverizzando le presun-te postazioni dei nemici in agguato, ma adesso la situazione ètranquilla. Il battaglione si ferma, mentre gli ufficiali pianifica-no l’avanzata finale verso Al Hayy.

Rimangono tutti seduti nell’Humvee di Colbert, in attesa dinotizie. Dopo sei ore trascorse a cercare un inafferrabile nemi-co lungo questo sentiero secondario, gli uomini sono spossatie con i nervi logori. Niente più schiamazzi, volgarità e battutevarie. Perfino Person si limita a fissare il finestrino con ariaassente.

Il silenzio è rotto da un suono nuovo, insolito, una serie disibili acuti. I proiettili traccianti arancione scuro squarcianol’aria come fulmini e vanno a sbattere con violenza contro leberme davanti e dietro l’Humvee. Sull’altra sponda del canale,ci sparano proiettili di grosso calibro. Alcuni li vediamo rim-balzare e ruzzolare via poco dopo aver colpito il terreno, apochi metri da noi. Per un istante, rimaniamo solo a osservare,come ipnotizzati.

«Person, scendere dal veicolo!», ordina Colbert.Balziamo tutti fuori dal lato sinistro dell’Humvee, per evita-

re il fuoco in arrivo sulla destra. Saliamo carponi su una bermadi un metro circa e ci rifugiamo dall’altra parte per ripararci dal-l’attacco.

Le raffiche colpiscono a ventaglio la fila degli Humvee conun rumore bizzarro – zip zip zing –, che ricorda un po’ i buffi

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proiettili sparati nei cartoni animati del pistolero Yosemite Sam.Gli altri marines saltano fuori dai veicoli e si mettono al riparo.

Dietro la berma, Colbert esclama: «È un maledetto Zeus!».“Zeus” è il nomignolo dello ZSU, un potente mezzo di artiglie-ria antiaerea multicanna di fabbricazione russa; più tardi, altrimarines dicono che, in realtà, gli iracheni stavano usando unmezzo leggermente diverso, lo ZPU.

Al di là del fiume, alcuni uomini del battaglione rispondonoal fuoco in modo casuale e inefficace, con fucili e mitragliatricicalibro .50. Ma quando arrivano le altre raffiche dello Zeus, siprecipitano al riparo anche loro. Nessuno riesce a individuare laposizione del nemico. I marines, che spesso si fanno beffe dellearmi altrui, si rannicchiano nel tratto di terra più vicino. L’interobattaglione è immobilizzato.

L’unico che vedo sporgere la testa è Trombley. Quando si è lan-ciato fuori dall’Humvee, ha avuto la presenza di spirito di afferra-re il binocolo. Adesso, scorrazza sulla berma, vi si siede tranquil-lo come una tartaruga e scruta l’orizzonte. Si guarda intorno eufo-rico per questa nuova esperienza terrificante. Lo vedo addiritturasorridere.

«Che ficata», sussurra, mentre un’altra salva di Zeus gli sibilaaccanto. Poi aggiunge: «Credo di vederlo, sergente».

Colbert e Person salgono sulla berma, con maggiore caute-la di Trombley. Su indicazione di questi, individuano dovesembra si trovi l’artiglieria nemica, a circa un chilometro didistanza. Colbert ordina a Hasser di prendere posto al lancia-granate Mark-19 sul veicolo e, mentre i colpi di Zeus continua-no a fischiarci sopra, la squadra dirige metodica il fuoco versola postazione nemica.

Un Cobra si abbassa sul campo davanti al canale per unirsialla caccia, ma si impenna di nuovo quando da terra lo attacca lacontraerea. I colpi del nemico mancano l’elicottero, che tornaindietro all’attacco.

Il Cobra fa fuoco con il cannone Gatling da 20mm, facendo19

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esplodere un camion bianco parcheggiato nel campo. Poi il pilo-ta spara un missile Hellfire verso la presunta batteria contraereadello Zeus. Infine, a corto di carburante, il Cobra è costretto ainterrompere l’attacco.

Le differenti prospettive sul terreno producono versionidiscordanti degli eventi. Kocher, circa centocinquanta metrisopra la posizione di Colbert, osserva il camion bianco colpitodal Cobra e ha l’impressione che sia una delle cose peggiori maiviste in guerra. Più tardi dice: «C’erano dei civili là dentro, li hovisti bruciare vivi!».

Il capitano Daniel O’Connor, del First Recon, anch’egliintento al controllo degli attacchi aerei del pomeriggio, dichiara:«Non ero certo che il camion bianco fatto saltare in aria dalCobra fosse del nemico ma, ogni volta che spuntava, le cose simettevano male, così ci hanno autorizzato a eliminarlo».

Dall’altro lato del fiume, si alzano due colonne di fumo nerocome l’inchiostro. Il fuoco dello Zeus è cessato. Chiedo aTrombley come mai non sembrava che avesse paura, ma anziapparisse piuttosto calmo, quando si è seduto sulla berma e haindividuato la posizione della mitragliatrice che, ai miei occhi,stava terrorizzando tutti i marines del battaglione. «So che suo-nerà strano», risponde, «ma dentro di me desidero provare cosasi sente a essere colpiti. Non che voglia essere ucciso, ma sonosenz’altro più nervoso di fronte a un quiz in onda alla tv, che nonqui».

Apre con voracità il sacchetto di plastica con la sua razionepasto. «Tutti questi scontri a fuoco mi mettono una fame incre-dibile», dice con un sorriso luminoso.

«E tutta questa stupidità mi fa venire voglia di uccidermi»,controbatte severo Person, una delle prime volte che lo vedoscoraggiato in Iraq.

Grazie all’intervento dei Cobra, abbiamo spazzato via diver-se batterie contraeree nemiche, eppure alla curva del canale rico-minciano a piovere sul battaglione i colpi di mortaio. I marines

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ricevono l’ordine di interrompere i contatti e di ritirarsi di unpaio di chilometri.

Il battaglione lascia il sentiero e si addentra in una depressio-ne fangosa circondata da berme. I veicoli arrivano insieme.Attendiamo che i Cobra facciano rifornimento, per accompagna-re il battaglione nell’avanzata finale verso Al Hayy.

Il fuoco dei mortai si fa più costante. A ogni ondata di bombein arrivo, le esplosioni sembrano un po’ più forti, un po’ più vici-ne. Le prime raffiche atterrano a oltre un chilometro di distanza,poi passano a circa cinquecento metri dal First Recon. La progres-sione regolare dei colpi lascia intendere che nel territorio circo-stante vi sia un osservatore nemico che orienta il fuoco con scru-polo. I cecchini dei marines si portano fuori dal perimetro e pro-vano a individuare un uomo o una donna con una radio tra ipastori, i contadini e gli altri civili nei campi.

Il veicolo di Colbert è parcheggiato accanto a un’autocister-na per carburante del battaglione. Non mi piace stare vicino a3800 litri di diesel durante un attacco di mortaio. Raggiungo ilcamion dove sono tenuti i circa venti prigionieri di guerra che ilterzo plotone ha preso stamattina presto.

Sono stipati nel retro del pianale, seduti sulle panche dispo-ste lungo entrambi i lati. Durante l’attacco dello Zeus, mentrei marines saltavano fuori dal veicolo per mettersi in salvo, iprigionieri lasciati nel camion hanno rosicchiato le manette diplastica.

I marines prendono la corda per paracadute e legano di nuovogli iracheni con i polsi dietro alla schiena. Sono tutti uomini suivent’anni, indossano jeans o pantaloni neri e magliette dellesquadre di calcio, uno addirittura una T-shirt con il logo dellaOpel. Ma questi non sono come i docili prigionieri incontratiall’inizio del conflitto.

Molti hanno un atteggiamento sprezzante. Fissano i marinescon fare risentito e si dimenano sui sedili per liberarsi dallecorde che gli legano i polsi, o per impedire di essere legati di

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nuovo. Fanno smorfie esagerate e si lamentano in arabo ad altavoce. Stringergli forte i polsi fino a fargli sanguinare la pelle èuna sorta di punizione passiva. Qualche marine con cui parlopiù tardi se ne vanta, come pure va orgoglioso di prenderli aschiaffi in faccia o di dargli botte sui testicoli quando non lovede nessuno.

Devo riconoscere che è davvero complicato avere a che farecon venti ragazzi che fanno di tutto per non essere legati. Gliamericani, come è ovvio, sono addestrati a resistere e magari asfuggire all’eventuale cattura, ma non è meno irritante quando ilnemico lo fa con loro.

«Che cosa ci farebbero, se fossero loro a tenerci prigionie-ri?», urla un marine nelle vicinanze. «Come pensi che ci tratte-rebbero?».

«Questi stronzi dovremmo legarli sul cofano degli Humvee,prima di andare incontro al prossimo agguato», dice un altro.

Per calmare la tensione crescente, interviene un ufficiale convaghe nozioni di arabo. In un linguaggio zoppicante per quantogarbato, comunica ai prigionieri che non subiranno percosse nésaranno giustiziati, e chiede loro di cessare ogni tentativo difuga, altrimenti i marines saranno costretti a mettergli dei sacchidi tela in testa. A queste parole, i prigionieri si calmano subito.Due ragazzi nella parte posteriore del camion, entrambi conbaffi alla Saddam, cominciano a fare i buffoni per fingere divolersi ingraziare gli americani. Uno dice in inglese: «FanculoSaddam!»; ogni volta che lo ripete, il compagno scoppia a ride-re. Poco dopo, anche gli altri si uniscono allo spettacolo, tragrida e smorfie da pagliacci, e all’improvviso il camion assumel’aria di un piccolo circo viaggiante di soli clown.

Una salva di mortaio pone fine al clima allegro. I colpi esplo-dono a circa duecento metri di distanza, con colonne di fumoche si levano dal campo vicino. I prigionieri cercano di abbas-sarsi rapidi, ma hanno i polsi legati ai lati del camion. Uno sidimena terrorizzato sulla panca. Sul camion si sente un odore

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forte e acre. A quanto sembra, ha avuto la classica reazione dastress da combattimento e se l’è fatta nei pantaloni.

Dopo essersi inoltrati nel campo, i due tiratori scelti, Pappy eReyes, si accovacciano dietro a una berma e predispongono ifucili M-40. Scorgono un uomo che sospettano sia l’osservatoreavanzato dei mortai. È a bordo di un pick-up bianco parcheggia-to nel campo, a circa un chilometro di distanza. Considerato chein guerra il concetto di “prova” è in un certo senso più incerto,l’uomo nel furgone si becca una condanna a morte perché col-pevole di tenere in mano due oggetti, in apparenza un binocoloe una radio. Pappy spara tre colpi, mirando al centro della sago-ma. Quando il fucile tace, il cecchino si ferma a osservare il ber-saglio. Riverso in avanti, l’uomo sembra morto.

Per Pappy, è la seconda eliminazione di un bersaglio in Iraq.Tornato all’Humvee, però, non sembra che ne vada orgoglioso.Quando i compagni gli chiedono con insistenza i dettagli dell’o-perazione, preferisce non parlarne. Si limita a rispondere: «Èandato». Frattanto, il fuoco dei mortai è cessato. È evidente cheil tiratore scelto ha ucciso l’uomo giusto.

Fick raduna i capisquadra per illustrare la fase finale della mis-sione. Tra cinque minuti il battaglione muoverà di nuovo versol’ansa del canale, si spingerà oltre la moschea, proseguirà perqualche chilometro attraverso villaggi densamente popolati, perpoi avvicinarsi al margine occidentale di Al Hayy. La parte piùcomplicata sarà entrare in città. Il convoglio dovrà passare per unaserie di curve a S e superare due ponti sui canali. I marinesdovranno quindi percorrere in fretta i due chilometri di territoriourbanizzato, fino a raggiungere una strada in salita. Da lì, passe-ranno a una rampa di sterrato, si immetteranno nell’autostradaprincipale in uscita dalla città e prenderanno un ponte giudicatostrategico. L’obiettivo è di isolare la via di fuga primaria da AlHayy in vista dell’assalto dell’RCT-1 al centro abitato, previstonell’arco di una decina di ore, intorno alle quattro del mattino.

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Dopo aver dato istruzioni agli uomini, Fick mi prende daparte: «Questa missione è simile a quella situazione di merda diBlack Hawk Down». E aggiunge: «Il fatto che non siamo mainoi ad attaccare per primi i nemici, ma sono sempre loro che cisono addosso, sta logorando i miei uomini. Durante l’addestra-mento dei marines del Recon, la missione si considera fallitaogni volta che veniamo colpiti per primi. E purtroppo nonimporta se ci difendiamo bene dai possibili agguati, perché inteoria dovremmo essere noi, non il nemico, a dare inizio alloscontro».

Quando il convoglio si sposta dalle distese fangose in cui si èposizionato e comincia ad avanzare in fila verso Al Hayy, iCobra di scorta riversano razzi e colpi di mitragliatrice su unpalmeto vicino. Colbert osserva l’attacco: «Questo paese è infi-do e pericoloso; prima ne usciamo, meglio è».

Tra gli uomini nessuno parla mai di religione, eppure capi-ta di vedere qualche marine pregare in silenzio. Giunti in unospiazzo poco prima della moschea, il veicolo di Espera affian-ca quello di Colbert. Andranno entrambi a quaranta chilometril’ora. Intravedo il caporale Jason Lilley, ventitré anni, allaguida del mezzo di Espera, stringere il volante e guardare fissodavanti senza battere ciglio. Noto che muove le labbra. Piùtardi, mi dirà che, sebbene non sia un bravo cristiano, ripetevaall’infinito «Signore, aiutaci».

Superata la moschea, le mitragliatrici e i piccoli razzi, glizuni, sparati dai Cobra sollevano una nuvola di polvere massic-cia che avvolge il convoglio. La strada scende e si snoda tra pic-coli villaggi fiancheggiati da alberi. Qualche camion da traspor-to al centro dell’autocolonna è preso di mira dal fuoco nemico.Almeno uno ha i pneumatici a terra, ma procede comunque suicerchioni.

Raggiungiamo il limite della città e attraversiamo il primoponte che immette in un’area industriale di bassi edifici in cal-

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cestruzzo; alla nostra destra, un gruppo assai denso di condomi-ni. Con tutta la polvere alzata, diversi mezzi di rifornimento delRecon sbagliano strada.

La squadra di Colbert e il resto del plotone rimangono indie-tro per coprirli, mentre gli autisti capiscono di aver fatto una stu-pidaggine e raggiungono il convoglio. Ci fermiamo per diversiminuti, circondati da pareti e finestre dall’aria ostile. Sentiamolo sferragliare di AK e mitragliatrici, ma non vediamo i tipicilampi delle armi da fuoco.

La compagnia Charlie, che adesso attraversa il secondo pontenella curva a S, viene attaccata da un edificio a circa settantacin-que metri. Al comando del veicolo in testa c’è il sergenteCharles Graves, un tiratore scelto di ventisei anni. Un colpo diRPG esplode accanto al suo Humvee. I frammenti entrano daltettino aperto e feriscono un marine alla gamba, ma non è grave.Il mezzo è preso di mira dalle sventagliate delle mitragliatrici.Un colpo stacca un pezzo di metallo a qualche centimetro dallatesta di Graves. Il mitragliere del Mark-19 apre il fuoco sull’edi-ficio che nasconde i nemici. La costruzione è grossomodo gra-devole, una struttura in stucco celeste piuttosto lunga, con tantodi archi al secondo piano. L’artigliere di Graves le scarica con-tro una raffica da trentadue colpi, che lasciano grossi buchi sullafacciata e fanno saltare parte del tetto. Osservandone la distru-zione, mentre la sua squadra si affretta a superarla, Graves –come mi rivelerà più tardi – pensa: “Cazzo, bello davvero!”.

Dall’edificio non sparano più. La squadra di Colbert ha recu-perato i camion dei rifornimenti che si erano smarriti. Voltiamoverso la costruzione colpita dalla compagnia Charlie. Quandosuperiamo le rovine ancora fumanti, Person grida: «Vaffanculo,stronzi!».

Davanti all’edificio, un arabo ancora vivo giace in mezzo allastrada. Indossa una sudicia veste bianca ed è schiacciato tra duepile di macerie. Supino, le mani sugli occhi, l’uomo è a meno didue metri da dove passano i nostri mezzi. Dopo essere stati ber-

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saglio del fuoco ostile per tutto il giorno, la vista di un altro esse-re umano, sia pure un combattente nemico, rannicchiato perterra e impotente, ci dà una sorta di malsana sensazione ditrionfo che fa sentire forti e depressi al contempo. Tutti i mari-nes che passano accanto all’uomo, gli puntano contro le armi masenza sparare. Non costituisce una minaccia, e lo dimostra quelmodo fanciullesco di coprirsi gli occhi con le mani. Per i mari-nes non merita nemmeno di essere ucciso.

Superato il secondo ponte, il convoglio accelera fino a ses-santa chilometri l’ora. La zona urbanizzata di Al Hayy scorrealla nostra destra. Più avanti, la compagnia Charlie è fatta ogget-to di tiri sporadici di AK provenienti dalla città. I marinesrispondono al fuoco. Il caporale Caleb Holman, diciannove anni,addetto al calibro .50, vede un uomo rialzarsi in piedi tra lavegetazione bassa, a circa cinquanta metri dal suo Humvee,verso il centro del convoglio. Spara una raffica di proiettili pene-tranti SLAP: la testa dell’uomo salta in aria.

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