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Etty Hillesum Lettere 1942 -1943 A CURA DI CHIARA PASSANTI PREFAZIONE DI JAN G. GAARLANDT © ADELPHI EDIZIONI

Hillesum - Lettere

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Hillesum - Lettere

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Etty Hillesum

Lettere1942 -1943

A CURA DI CHIARA PASSANTI PREFAZIONE DI JAN G. GAARLANDT

©A D E L P H I E D IZ IO N I

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TITOLO o r i g i n a l e : Brieven 1942-1943

Il testo delle lettere di Etty Hillesum su cui è stata condotta la traduzione di Chiara Passanti è quello dell’edizione cri­tica delle sue opere (De nagelaten geschriften van Etty Hil­lesum, Uitgeverij Balans, Amsterdam, 1986). La prefazio­ne di Jan G. Gaarlandt, tradotta da Piero Bertolucci, è in­vece tratta dall’edizione americana (Letters from Westerbork,

Pantheon Books, New York, 1986)

Ottava edizione: ottobre 2010

© 1986 UITGEVERIJ BALANS B.V ., AMSTERDAM © 1990 ADELPHI EDIZIONI S.P .A . MILANO

I edizione g l i a d e l p h i : marzo 2001 w w w .a d e l p h i .it

ISBN 978 - 88 - 459 - 1605-2

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INDICE

Prefazione di Jan G. Gaarlandt LETTERE 1942-1943

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PREFAZIONE

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« ... e poi riprenderò il mio giro senza fine tra le ba­racche e il fango». Così Etty Hillesum scrisse in una delle sue lettere agli amici, e sofferenze e fango era­no Tessenza stessa del campo di concentramento di Westerbork, e malattia e sovraffollamento, un universo di terrore e di chiasso su una striscia di brughiera di cinquecento metri quadrati.

Westerbork, un « campo di smistamento » (Durch- gangslager) vicino ad Assen, neirO landa nordorien­tale, fu per più di centomila ebrei olandesi « l'ultim a fermata prima di Auschwitz». Qui Etty passò gli u l­timi mesi della sua vita, continuando a scrivere il suo diario e le sue lettere e occupandosi con abnegazione totale dei malati nelle baracche dell’ospedale.

«Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità » ribadiva ancora nella sua ultima lettera dal campo, cinque giorni prima della deportazione definitiva - un ’affermazione che, per i lettori del suo diario, ha un timbro inconfondibile. Nata il 15 gennaio 1914, Etty Hillesum aveva venti­sette anni quando cominciò a scriverlo nel marzo 1941. Alla sua scrivania, in una cameretta che dava sul

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Museumplein ad Amsterdam, nelle ore più buie del­la storia moderna dette vita a una delle opere più memorabili del nostro tempo, una testimonianza di fede e di amore. Contro l'orrore crescente deir occu­pazione tedesca e della persecuzione degli ebrei, con­tro le forze rivolte alla loro distruzione, Etty cercò, insieme con i suoi amici, di erigere una barriera in­teriore. Nel 1942 i tedeschi effettuarono la prima gran­de retata di ebrei olandesi, imposero loro di portare la stella gialla e, dopo aver concentrato ad Amster­dam tu tti quelli che riuscirono a catturare, dichiara­rono TOlanda «Judenrein». Il raggiungimento del­l'obiettivo finale dei nazisti - trasferire tutti gli ebrei nei campi di sterminio in Polonia senza eccessivi in­toppi - dipendeva in buona parte dalla collaborazione di un organismo creato ad hoc: il Consiglio Ebraico. Consigli di questo tipo, posti sotto la responsabilità di membri importanti delle varie comunità ebraiche, fu­rono creati dai tedeschi in tutta l'Europa occupata. Lo scopo dichiarato di queste istituzioni era di stabilire chi fosse idoneo ad essere trasferito in un « campo di lavoro », e chi invece fosse indispensabile in patria; in realtà, la loro vera funzione era di sopire con l'ingan­no i timori delle vittime.

Un'analisi anche superficiale del ruolo avuto in Olanda dal Consiglio Ebraico esula dall'ambito di que­sta presentazione, né è il caso di dare qui un giudizio sulla sua attività; ciò che importa è che nel luglio del1942 a Etty fu dato un posto in una delle molte se­zioni del Consiglio. Questo lavoro la esentava dall'in- ternamento a Westerbork; ciò nondimeno, qualche set­timana dopo essere stata assunta, ella chiese di esservi trasferita in qualità di «assistente sociale», e arrivò al campo proprio nel momento in cui si dava inizio al programma di deportazioni ad Auschwitz. Ogni lu­nedì un treno entrava nel campo; ogni martedì la lunga fila di carri merci, stipati da più di mille uomi­ni, donne, bambini, malati e morenti, ne ripartiva.

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T ra il 15 luglio 1942 e il 3 settembre 1944, settimana dopo settimana, i treni furono in tutto novantatré.

Così, in un tempo relativamente breve, tu tti gli ebrei che nei mesi precedenti erano stati concentrati in un ghetto ad Amsterdam furono portati a Wester­bork; alcuni accettarono volontariamente, i più furo­no rastrellati per le strade o strappati con la forza dal­le loro case; molti vi furono trasferiti dopo essere stati imprigionati o rinchiusi in altri Lager, come quello tristemente noto di Vught o quelli di Amersfoort, Om- men e Ellecom. Un'eccezione fu costituita da una élite culturale non molto numerosa - intellettuali, artisti, ma anche banchieri - che, per intercessione di alcuni alti funzionari olandesi, riuscirono a farsi trasferire al castello della cittadina di Barneveld. Mischa Hillesum, fratello di Etty, pianista già affermato, aveva la possi­bilità di essere uno di loro, ma rifiutò questo tratta­mento di favore a meno che non fosse concesso anche ai genitori. (T utti gli ebrei di Barneveld furono più tardi trasportati a Theresienstadt via Westerbork, e la maggior parte di loro sopravvisse).

Westerbork era stato istituito verso la fine del 1939 dal governo olandese per ospitarvi circa millecinque­cento ebrei tedeschi che erano fuggiti dalla Germania prima della guerra. Etty vi giunse quando la valanga dei nuovi arrivi era appena agli inizi e, improvvisa­mente, su quel fazzoletto di terra si dovette trovare un posto per trenta o quarantamila persone. Ognuno cercava disperatamente di restare a Westerbork il più a lungo possibile. I tim bri di vario colore apposti sui documenti degli internati più privilegiati, ne garanti­vano la permanenza nel campo per una settimana, per due, a volte più a lungo. Ma qualunque ne fosse il colore, i loro titolari a poco a poco scomparvero quasi tutti, compresi i membri del Consiglio Ebraico, che per la maggior parte furono deportati nel giugno del 1943.

Il campo aveva strutture gerarchiche, capi, guardie, medici e addetti alle varie attività sociali, dapprima

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sotto la supervisione degli olandesi, poi sotto stretto controllo tedesco. Fra gli internati, gli ebrei di origine tedesca, che avevano già passato nel campo qualche anno, godevano della maggiore influenza. Uno di que­sti era Osias Kormann, che era diventato un buon ami­co di Etty e al quale lei scrisse in tedesco diverse let­tere da Amsterdam, dove, dopo cinque settimane pas­sate a Westerbork e un breve soggiorno dai genitori a Deventer, era tornata il 5 settembre 1942. In quanto membro del Consiglio Ebraico, aveva un permesso di viaggio che le consentiva di tornare di quando in quan­do ad Amsterdam per fare rifornimento di materiale sanitario e per portare notizie alle famiglie degli in­ternati.

Rimase ad Amsterdam per quasi tre mesi, per lo più a letto, malata e angustiata dal desiderio di West­erbork, dove in effetti ritornò il 20 novembre 1942; due settimane dopo dovette lasciare di nuovo il campo per farsi ricoverare all’Ospedale Olandese-Israelitico di Amsterdam per calcoli alla bile. Agli inizi del giu­gno 1943 tornò a Westerbork, per non farne più r i­torno. Il suo amante, lo psicochirologo Julius Spier, era morto, ed Etty prese congedo dai suoi amici più cari, quelli ài quali sono indirizzate la maggior parte delle lettere da Westerbork e che i lettori del suo dia­rio già conoscono bene : Han Wegerif («papà H an»), presso il quale Etty aveva abitato ad Amsterdam e con cui aveva avuto una relazione, suo figlio Hans, la cuoca Rathe, e Maria Tuinzing, u n ’infermiera alla quale Etty era particolarmente legata. Gli altri era­no Tide (Henny Tideman), Klaas Smelik, sua figlia Jopie (Johanna Smelik), Milli Ortmann e Christine van Nooten, di Deventer, collega di Louis Hillesum, padre di Etty, che era stato preside del liceo cittadino. Furono soprattutto Milli Ortmann e Christine van Nooten ad assicurare, attraverso la Croce Rossa, l’invio a Westerbork di numerosi pacchi di cibo per gli H il­lesum.

Sia che scriva da Amsterdam oppure dal campo,14

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Westerbork è l'argomento quasi unico delle lettere di Etty che, come dice in una delle ultim e pagine del suo diario, voleva essere « il cuore pensante » delle barac­che. E lo fu: i sopravvissuti parlano ancora della sua «personalità luminosa»; dovunque andasse, intorno a lei si formava una comunità di amici, come le sue lettere testimoniano: Osias Kormann, W erner Stert- zenbach, Hedwig e Josef Mahler, Jopie Vleeschhou- wer, che lei chiamava « il mio compagno d 'arm i», Philip Mechanicus, autore di un diario che, col titolo In depót, diventò famoso dopo la guerra, e W erner e Liesl Levie, vecchi amici di Amsterdam. Dopo un po’ essi furono raggiunti dai genitori di Etty e da suo fratello Mischa, mentre l'altro fratello, Jaap, che era un medico, fu autorizzato a restare ad Amsterdam an­cora per qualche tempo.

Fu in questa cerchia di amici, e soprattutto a West­erbork, che Etty Hillesum potè dare prova del suo coraggio e della sua umanità, ponendo se stessa, senza riserve, al servizio della propria gente. Nel periodo in cui le era ancora concesso di viaggiare, respinse ogni tentativo dei suoi amici di Amsterdam di procu­rarle un nascondiglio sicuro, e quando dopo il giugno1943 non le fu più possibile lasciare il campo, rifiutò qualsiasi proposta di aiuto per fuggire. Aveva deciso di condividere fino in fondo il destino dei suoi con­fratelli, senza iattanza ma anche senza disperazione. La parola « Polonia » era per lei sinonimo di distru­zione: su questo punto non si fece mai illusioni; sa­peva che non sarebbe sopravvissuta, benché cercasse di acquietare le apprensioni dei suoi amici parlando con­tinuamente del proprio ritorno. Il modo in cui sa­rebbe morta non lo sapeva, perché nessuno a Wester­bork aveva mai sentito parlare delle camere a gas, an­che se molti erano quelli che, come lei, intuivano che il loro destino era segnato.

117 settembre 1943 arrivò al campo l'ordine improv­viso di includere Etty, Mischa e i loro genitori nel trasporto verso la Polonia. Jopie Vleeschhouwer de­

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scrisse la sua partenza in una lettera agli amici di Am- sterdam : « Parlando allegramente, ridendo, una paro­la gentile per tutti quelli che incontrava, piena di umorismo scintillante anche se un pochino malinco­nico, proprio la nostra Etty come tutti voi la conosce­te ... Vedo la mamma, papà H. e Mischa salire nel va­gone n. 1. Etty finisce nel vagone n. 12, dopo essere passata a salutare una sua buona conoscenza nel va­gone n. 14, che alFultimo momento viene fatta scen­dere. Il treno parte, un fischio acuto, e i mille “ abi­litati alla deportazione” si mettono in moto. Ancora una visione fuggevole di Mischa che... saluta con la mano da una fessura del vagone merci n. 1, poi un al­legro ciaaao di Etty dal vagone n. 12, e sono partiti ».

Il viaggio sarebbe durato tre giorni. Prima di lascia­re per sempre il territorio olandese, Etty riuscì a but­tare fuori dal treno una cartolina indirizzata a Christi­ne van Nooten: «Abbiamo lasciato il campo cantan­do». Raggiunsero Auschwitz il 10 settembre 1943, e i suoi genitori morirono nella camera a gas quel gior­no stesso.

Il 30 novembre 1943 la Croce Rossa comunicò la morte di Etty Hillesum; Mischa morì il 31 marzo 1944. Alla fine, anche Jaap fu trasferito a Westerbork, e nemmeno lui scampò alla morte.*Haarlem, marzo 1986 j a n g . g a a r l a n d t

• Per maggiori ragguagli sulla vita di Etty Hillesum, si veda l’intro­duzione di Jan G. Gaarlandt a Diario 1941-1943, Adelphi, Mila­no, 19873.

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LETTERE1942-1945

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Martedì pomeriggio, le dueAnche oggi il mio cuore è morto più volte, ma ogni volta ha ripreso a vivere. Io dico addio di minuto in minuto e mi libero da ogni esteriorità. Recido le funi che mi ten­gono ancora legata, imbarco tutto quel che mi serve per intraprendere H viaggio. Ora sono seduta sulla sponda di un canale silenzioso, le gambe penzolanti dal muro di pietra, e mi chiedo se il mio cuore non diventerà così sfinito e consunto da non poter più volare liberamente come un uccello.*

* Nota non datata, scritta probabilmente a Amsterdam nel luglio del 1942.

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1. A Osias KormannGabriel Metsustraat 61

Amsterdam, 14 agosto 1942Mio caro e buon amico Kormann,2

un piccolo saluto da questa grande città. Io giro per molte, troppe strade e Westerbork mi accompa­gna. È strano che ci si possa legare tanto in fretta a un luogo e ai suoi abitanti. Ritornerò volentieri da voi, anche se faccio molta fatica a separarmi da per­sone così familiari. Ma in qualche modo mi sento at­tratta da quel pezzetto di terra in mezzo alla brughiera, su cui sono stati scaraventati tanti destini umani. Non sono ancora in grado di spiegarmi questo sentimento, forse lo capirò col tempo, in ogni caso ritornerò. La1. La casa al n. 6 della Gabriel Metsustraat apparteneva a Han Wegerif (che Etty, sua amante, chiamava « papà Han »); Etty vi abitava insieme con la cuoca tedesca Kàthe Fransen, l'infer­miera Maria Tuinzing, il chimico Bernard Meylink e il figlio di Han Wegerif, Hans.2. Max Osias Kormann (Lipsko 1895-New York 1959) era nato nel quartiere ebraico di Lipsko, in Polonia. A quattordici anni era illegalmente emigrato a Amburgo, dove era poi riuscito a farsi una buona posizione lavorando nel commercio delle cal­zature. Si era sposato e aveva avuto due figli. Nel 1938 era stato rimandato in Polonia in quanto ebreo apolide; la moglie

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persona a me più vicina3 deve ristabilirsi adagio e con pazienza, c’è qualcosa che non funziona nei suoi pol­moni e sarà una convalescenza lunga e difficile. Qui è curato bene e con affetto, non c’è nulla che io possa fare per lui e così potrò star via per qualche settimana con la coscienza tranquilla.

Domani cercherò di procurarmi un permesso di viaggio per far visita ai miei genitori a Deventer, so­no già impazienti di vedermi. Se ci riuscirò, non potrò essere a Westerbork prima di giovedì. La prego, non mi accusi di infedeltà. E prepari di nuovo un budino al mio ritorno, cercherò di avere lo stomaco a posto.

Ora sono le otto e sto seduta alla mia scrivania, do­ve spero di trascorrere una lunga e tranquilla serata a sistemare o a liquidare tante faccende. Mi saluti i suoi simpatici compagni di stanza, il signor Haussmann e gli altri amici, e abbia un saluto cordialissimo da

Etty Hillesum

e i figli erano emigrati a Londra e successivamente a New York. Nel 1939 Kormann era riuscito avventurosamente a im­barcarsi sulla nave St. Louis (cfr., sotto, la nota 13). Dopo aver vagato a lungo su questa nave, era finito in Olanda dove il governo lo aveva internato, con altri passeggeri della St. Louis, nel campo appena allestito di Westerbork. Qui, nell’estate del1942, aveva conosciuto Etty con cui aveva stretto amicizia. Kor­mann era vicedirettore della Quinta Unità di Servizio del cam­po, cioè del « Servizio Interno », che si occupava della sistema­zione degli internati nelle baracche, del mantenimento dell'or­dine in queste ultime, della distribuzione del cibo, ecc.3. « La persona a me più vicina » è Julius Spier, fondatore del­la « psicochirologia », cioè lo studio e la classificazione delle linee della mano. Nato a Francoforte nel 1887, Spier era stato direttore di banca, editore e cantante. Si era poi scoperto una vera vocazione per la lettura della mano, unita a uno straordi­nario intuito psicologico. C.G. Jung lo convinse a trasformare questa attitudine in una professione a tempo pieno. Etty si era rivolta a lui all’inizio del 1941, ed era poi diventata sua amante (cfr. Etty Hillesum, Diario 1941-1943, cit., passim). Spier morì a Amsterdam il 15 settembre 1942, la vigilia del giorno in cui la Gestapo andò a cercarlo per condurlo a Westerbork.

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2. A Osias Kormann[Amsterdam, 15 settembre 1942]

Martedì notteKormann, mio buon amico,

sai, tutto è così misterioso e strano e insieme cosi significativo.

Il mio amico è morto, l’ho saputo poche ore fa: da quando l’avevo rivisto la settimana scorsa, ho pre­gato in continuazione perché fosse liberato dalla sua sofferenza mentre ero ancora qui. E ora è successo e sono così riconoscente. E la gratitudine per la sua pre­senza nella mia vita passata sarà sempre più forte della tristezza per la sua mancanza, per la sua mancanza fisica.

Sono seduta alla mia scrivania, la camera è così si­lenziosa, rim arrò ancora per diverse ore accanto alla mia piccola lampada.

Domani non ritorno a Westerbork. Nel mio corpo sono rispuntati molti vecchi malanni, dall’altro ieri sono in cura presso un bravo internista che non ha ancora finito i suoi esami. Devo prima sapere che co­sa mi sta succedendo e che cure fare. E devo trovare un genere tutto nuovo di pazienza per far fronte a questa situazione inaspettata. <

T u mi scriverai, vero? Basta per ora. Per favore, salutami tutti coloro a cui pensi faccia piacere e so­prattutto Rosenberg.4 E arrivederci, vero?

Etty

4. Egon («Semmy») Rosenberg, nato a Witten nel 1911, era direttore dell’Ottava Unità di Servizio del campo, che compren­deva il magazzino dove si riparavano abiti e scarpe, la lavan­deria, una piccola manifattura di giocattoli, ecc. Rosenberg abi­tava nella stessa baracca di Kormann ed era suo buon amico. Furono ambedue liberati nell'aprile del 1945, quando le truppe canadesi arrivarono a Westerbork.23

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3. A Osias Kormann28 settembre [1942]

Amsterdam, lunedì seraCome si dev’essere rallegrata la mia macchina da

scrivere trascurata da tanto tempo, perché ha potuto <li nuovo battere qualcosa di bello 1

Pensare che da qualche parte in Olanda esiste una brughiera con un piccolo villaggio di baracche di le­gno, dove vive un uomo chiamato Osias Kormann che ha occhi buoni dietro le lenti degli occhiali, e che scrive:

« Sei davvero una persona creativa, hai saputo crea­re della vita intorno a me » - quanto mi ha toccata!

Sono grata al mio stomaco, che tu « conosci a memo­ria» , per avermi trattenuta qui alcune settimane, sarò una persona più calma e consapevole al mio ritorno. Se è vero che le deportazioni sono state sospese, e che quindi saremo in tanti a passare l’inverno laggiù, ci toccherà un grande compito morale, non credi? Con­divideremo onestamente il freddo e il buio e la mi­nestra di piselli e il filo spinato, e forse sapremo an­che sopportare insieme ogni cosa. Ma « sopportare » è u n ’arte che dev’essere imparata, gli olandesi non ne sono ancora tanto capaci.

E poi c’è l’animosità tra ebrei tedeschi e olandesi, a cui ci si deve opporre in ogni modo. Accadranno molte cose strane e immagino che ogni tanto avremo delle belle storie da raccontarci. Credo che diventerà una situazione molto difficile, eppure vorrei esserci. Sai, io ho tanto amore in me stessa, per tedeschi e olandesi, per ebrei e non-ebrei, per tutta l’umanità, dovrebbe pur esser lecito cederne una parte.

Se tutto va bene, un gruppo di colleghi5 arriverà in

5. I € colleghi » sono i membri del Consiglio Ebraico, un'orga­nizzazione che era nata dietro pressione dei tedeschi e doveva ufficialmente rappresentare gli ebrei olandesi. Etty era « assi-

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licenza giovedì prossimo; il mercoledì successivo ritor­neranno a W esterbork e vorrei accompagnarli.

Quando dal mondo saranno spariti i fili spinati ver­rai a vedere la mia camera, è così bella e tranquilla.Io trascorro delle mezze nottate alla mia scrivania, a leggere e a scrivere vicino alla mia piccola lampada. Ho qui circa 1500 pagine di diario deiranno scorso e ora me le rileggo. Che ricca vita mi viene incontro da ogni pagina! E pensare che è stata la mia vita! E che lo è tuttora. In fondo, tu non sai ancora molto di me, né io di te. « Fatti », voglio dire. Ma non sono i fatti che contano nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa. Quindi sappiamo pur qualcosetta ru n o deiraltro, vero?

Che aggiungere? Non molto. Sono le nove di sera. Forse questa volta andrò davvero a dormire presto, ogni tanto è necessario ma faccio sempre una fatica terribile a staccarmi da questa scrivania. H o saputo che i miei libri sono da te, mi fa piacere.

Vedi qualche volta Vleeschhouwer, il mio compa­gno d ’arm i?6

Tanto per non raccontarti solo della mia scrivania: ogni giorno passo due ore dal dentista, nei miei denti bucati scompare ciò che resta del capitale familiare e così ritornerò ben restaurata da voi, non « solo » nel­lo spirito.

Per ora basta, mio caro, e alla prossima volta, per lettera o a voce. Salutami soprattutto Rosenberg a cui mi capita di pensare spesso.

E tanti auguri! £

stente » in una sezione del Consiglio Ebraico di Amsterdam, e poi a Westerbork.6. Joseph Isidoor Vleeschhouwer, detto Jopie, era un caro amico di Etty a Westerbork. La sua lunga lettera, che descrive l'ultimo giorno trascorso nel campo da Etty, dal fratello Mischa e dai loro genitori, è stata pubblicata nel Diario di Etty, cit., pp. 256-260. Anche Vleeschhouwer fu deportato e mori il 23 aprile 1945 a Tròbitz, dopo che i tedeschi avevano evacuato il campo di Bergen-Belsen in cui era stato rinchiuso.

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Oh si, volevo ancora chiederti questo: quando, e dove hai perso quel pezzetto del tuo povero indice destro? e ti ha fatto tanto male?

4. A Osias Kormann[Amsterdam] 4 novembre 1942

Mercoledì pomeriggioKormann, mio Kormann, qui abbiamo già un tem­

po così piovoso e freddo, chissà come state voi, con il poco cibo e le scarse coperte. Oggi il mio cuore è così, così triste pensando a voi. Ma chissà, forse voi non c'entrate affatto, e sono piuttosto io a essere un po' depressa e impaziente perché la tiro tanto per le lun­ghe. E allora come stai, mio caro? Hai già traslocato e hai avuto molte seccature per questo?

Durante una delle nostre passeggiate attorno al cam­po giallo di lupini abbiamo parlato di desideri e del loro adempimento. T e ne ricordi ancora? In una let­tera del mio poeta Rainer Maria Rilke c’è un passo splendido su questo tema.

Forse il tuo collega Haussmann ribadirebbe ama­ramente: « Non è tempo di poeti e di filosofi ». Io non so se abbia ragione, in ogni caso ti trascrivo quelle poche frasi, forse ti faranno piacere in un momento di calma (se mai ti succede di averne):

« Mi accade sovente di domandarmi se esista un ve­ro rapporto fra adempimento e desideri. Certo, fintan­to che il desiderio è debole, esso è simile a una metà che per diventare autonoma ha bisogno del proprio adempimento come di u n ’altra metà. Ma i desideri possono germinare in modo così meraviglioso da di­ventare un tutto, pieno e intero, che non si lascia più completare e ormai si accresce, si forma e si riempie solo dalFinterno. A volte si potrebbe credere che alla

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radice di una vita grande e intensa ci sia proprio stato un coinvolgimento in desideri eccessivi che come una molla interiore hanno riversato nella vita azione su azione, effetto su effetto; e quasi non rammentando il proprio fine originario, diventati ormai elementari co­me un’impetuosa cascata, si sono trasformati in azione e cordialità, in presenza e immediatezza, in lieto co­raggio, a seconda degli eventi e delle circostanze che li avevano provocati».

Questo è quanto, per oggi. Salutami per favore il Dr. Petzal per cui provo tanta simpatia.

Rivedo spesso il suo viso, segretamente malinconico sotto una maschera ironica. Non credo che avrà la vi­ta facile nella sua casupola sovraffollata.

Ahimè, forse la vita non sarà facile per nessuno di voi...

Vorrei tanto ritornare presto per sapere come ve la cavate.

Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il d iritto di affermarlo solo se personalmente non si sfug­ge alle circostanze peggiori. Spesso penso che dovrem­mo caricarci il nostro zaino sulle spalle e salire su un treno di deportati.

La prossima volta altra musica. Arrivederci, mio caro.

Etty

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[Westerbork] Lunedì pomeriggio all’una [23 no­vembre 1942], nel bugigattolo dei Mahler,7 dove Eichwald mi sta cuocendo una pappa nel latte

Carissimi, vorrei finalmente concludere una lettera per voi : è la quinta volta che ne comincio una. Qui si vivono troppe esperienze, e si è presi da sentimenti troppo contraddittori per poter scrivere. Io per lo me­no non ci riesco. Vi mando appena un saluto. E cre­do che presto dovrò tornare indietro per farmi elimi­nare in un mattatoio di prima classe, non sono buona a nulla e me ne rattristo moltissimo; qui ci sarebbe tanto da fare ma qualcosa dentro di me non funziona proprio, vivo mandando giù polverine calmanti e fini­rò per ricomparire inaspettatamente sotto il vostro ca­ro naso. Niente da fare.

Che strano, mi trovo qui da meno di tre giorni e già sembrano settimane. Non è più così « idilliaco » come nell’estate scorsa, proprio per niente. Bene, mi lim iterò a questo saluto e andrò un poco a dormire, e poi riprenderò il mio giro senza fine per le baracche e il fango. Che peccato che non possa rimanere, lo vor­rei tanto.

Vleeschhouwer entra in questo momento e gli con­segno subito questa lettera. A più tardi.

Un saluto a tutti, e perdonatemi questa corta e di­sordinata letterina. Tante cose care da

Etty

5. A Han Wegerif e altri

7. Gli ebrei tedeschi Josef e Hedwig Mahler erano emigrati in Olanda dopo la presa del potere da parte di Hitler nel 1933. Esiliati in Belgio nel 1937, rimandati in Olanda nel 1940 e suc­cessivamente in Germania, furono poi rinchiusi nel campo di Westerbork. Qui essi fecero parte di un piccolo gruppo di re­sistenza che tra l'altro organizzava evasioni dal campo. Josef Mahler mori nella prigione di Dusseldorf nel 1943, la moglie a Auschwitz nello stesso anno. Eichwald lavorava nella cucina di Westerbork; anche lui fu deportato.

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r1 6. A Han Wegerif e altri[Westerbork, 29 novembre 1942]

Domenica seraPapà Han, Kathe, Hans, Maria,

eccovi appena un saluto. Qui non si riesce a scrive­re, non per mancanza di tempo ma per le molte, trop­pe impressioni da cui si è assaliti. Solo su questa setti­mana ne avrei da raccontare per un anno intero. Sono fra coloro che sabato prossimo andranno in licenza. Che privilegio poter ripartire e rivedervi tutti. Ho fat­to bene a non fuggire i primi giorni, di tanto in tanto mi metto a letto per u n ’ora e poi va meglio di nuovo. Valigia, vestiti e coperte sono a posto. I Mahler mi circondano di premure. Ora sono le otto e mezzo di sera e mi trovo u n ’altra volta nella loro cameretta ospi­tale, che è una vera oasi. Accanto a me Vleeschhouwer è immerso in un libro. Mahler, sua moglie e due ami­ci fanno una partita a carte. Il piccolo Eichwald, che mi procura fedelmente il latte, è seduto per terra in un angolino accanto al cane Humpie, e disfa il sopra­bito del signor Speyer di cui vuol fare un giubbotto. Il fratello di Stertzenbach8 (questo è per Hans) sta scri­vendo delle lettere, e più tardi ci racconterà ancora qualcosa sulla sua prigionia. Il fornello della zia Lee sta in un angolo come una presenza familiare, vi si pre­parano molte cose buone per la compagnia. Poco fa è entrato W itm ondt (a Amsterdam ero andata qual­che volta a trovare sua moglie; tutte queste persone

8. Werner Stertzenbach, ebreo tedesco, dal 1941 al 1943 a West­erbork dopo una lunga esperienza di internamento e prigio­nia, aveva insistito perché Etty evadesse dal campo, e entrasse nella clandestinità con l'aiuto delForganizzazione di cui era membro; sperava infatti che lei potesse usare le proprie qualità letterarie in favore della resistenza. Etty però aveva rifiutato di fuggire. Stertzenbach riuscì a evadere da Westerbork nel1943, e a restare nascosto a Amsterdam fino alla conclusione del­la guerra.29

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mi sono cosi familiari che le nomino come se voi le conosceste); indossava u n ’ampia mantellina e abbiamo esclamato in coro: « Santo cielo, Max, dove hai trovato quella splendida mantellina? » ; e Max - che pareva uno scheletro quando era stato portato qui da Amers- foort, e poi era stato premurosamente rifocillato dai Mahler - ha risposto con tono grave e solenne: « Que­sta mantellina è ancora macchiata del sangue di Amers- foort», e infatti vi si potevano vedere delle macchie rosso scuro. Che storia orribile. Io sono rannicchiata in un angolo e scrivo un pochino. Ecco che è entrato ancora qualcuno, un tale di Kattenburg che domatti­na presto sarà deportato.

Il tutto capita in una cameretta di due metri per tre. Il riscaldamento centrale è acceso - proprio cosi - e gli uomini sono in maniche di camicia dal caldo. Qui è tutto paradossale: nelle grandi baracche, dove molte persone dormono su cuccette di metallo senza materassi o coperte, si muore di freddo; e nelle ca­sette dotate di riscaldamento centrale di notte non si dorme dal caldo. Io sto in una baracchetta simile con cinque colleghe. Letti a due piani che tentennano mol­to sui loro sostegni, sicché quando la mia grassa vien­nese del piano di sopra si gira di notte nella sua cuc­cetta, il letto traballa come una nave nella tempesta. E di notte ci sonò dei topi che attaccano le provviste e i letti, una situazione un poco inquietante.

E io, che faccio? Di nuovo mi arrabatto con quei cinque poveri bicchierini di caffè tra centinaia di per­sone. A volte scappo via per pura impotenza: come poco tempo fa, quando una vecchietta è svenuta in un angolo e in tutto il campo non si trovava una goc­cia d ’acqua perché l'im pianto era stato chiuso.

Poi sono arrivati quelli di Ellecom. Li hanno subito portati all’ospedale, ho sostato accanto ai loro letti con immenso stupore e confesso che ancora non capisco come gli uomini possano maltrattarsi a tal punto, e come se ne possa ancora parlare.

Ho intrapreso una piccola campagna per riportare30

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alla luce la biblioteca che è custodita nella cantina di un magazzino chiuso a chiave. Dappertutto si sente un gran bisogno di libri ma non si conclude nulla per mancanza di spazio.

Martedì avrò un colloquio con Paul Cronheim 9 il wagneriano e con il notaio Spier, mi piacerebbe im­pegnarmi per questo nutrim ento spirituale, vedremo se sarà possibile.

Molto bello qui non è: vita da vagabondi, deperi­mento, fango. Oggi pomeriggio sono stata in un paio di grandi baracche dove diversi bambini parevano spe­gnersi sotto i nostri occhi.

Miei cari, non vi scrivo una lettera molto rassere­nante eppure sono contenta di essere qui. La mia sa­lute non è ancora del tutto a posto: pare che io sia tormentata da ogni sorta di piccoli malanni, comun­que si vedrà a suo tempo.

Questa non è una vera lettera, ma mi sentivo così in colpa per avervi scritto queirunico scarabocchietto depresso. Westerbork mi ha completamente inghiottita u n ’altra volta, ne verrò fuori alla fine della settimana.

No, da qui non si riesce a scrivere, ci vorrà un bel pezzo di vita per digerire ogni cosa. E che gioia poter ritornare da voi la prossima settimana. Grazie per la lettera, papà Han. E tantissime cose care a tutti voi e arrivederci alla fine della settimana.

Etty

7. A Osias Kormann[Amsterdam, circa 22-26 dicembre 1942]

Mio buon Osias!Quasi non oso guardarti in faccia. Che infedeltà!

Come posso rimediare? Vorrei solo dirti questo: se tu9. Paul Cronheim era un noto musicista e wagneriano.

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avessi ricevuto una minima parte dei pensieri che ti ho mandato, potresti già essere soddisfatto. La mano era sèmpre più stanca della mente, e così per tre setti­mane non hai ricevuto una sola parola da me, non è stato bello da parte mia. T u però mi hai già perdona­to, vero? Di* per favore di sì!

Del resto: una volta mi hai scritto in una bella let­tera - che ho conservato in una grossa busta intestata « Westerbork » : « Non è necessario parlare sempre, an­che tacendo si può stabilire un contatto e dialogare, e credo che fra noi sia così ».

E lo è tuttora, non è vero?Qualche giorno dopo

Peccato, peccato che tu non fossi qui: ho appena concluso una conversazione così appassionante con te su materialismo e realtà, ecc. In questo periodo io m ’insceno spesso dei dialoghi simili quando di notte non riesco a dormire.

Sono le due e mezzo di venerdì notte e ho di nuo­vo acceso la piccola lampada accanto al mio letto. Così vivo di nuovo in posizione orizzontale, con la compa­gnia più o meno simpatica di un calcolo biliare. Se questo calcolo non si deciderà presto a sciogliersi in qualche modo, finirà in ospedale - e io con lui. Chissà che intenzioni ha il mio santo protettore personale?

Io non sono mai stata una grande eroina quanto alla salute, ma in questi ultim i mesi è stato veramente trop­po. Il mio organismo sembra volersi vendicare della mia trascuratezza.

È un tale paradosso: ogni ebreo a Amsterdam da­rebbe Dio sa che cosa per stare in ospedale, e evitare a tutti i costi Westerbork e il resto. Mentre io vorrei tanto ritornare a Westerbork, e devo invece trasferir­mi in ospedale. T u tto avviene proprio secondo leggi imperscrutabili.

Forse è più saggio che io riprovi a sedurre Morfeo32

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e interrompa questa chiacchierata con te - sei stato molto gentile a tenermi tanta compagnia. Buona notte!

26 dicembre, sabato pomeriggioPiù ci penso, più mi rammarico di non averti scrit­

to una parola per tanto tempo. Volevo scrivere a te, a Rosenberg e a Haussmann appena arrivata qui : siete stati sempre così gentili e ospitali e mi sono sentita a casa da voi, la minestra di patate di Haussmann vive nel mio ricordo come un vero apice culinario, e le luci di H anukkah10 nelle grandi baracche sono un ricordo particolarmente prezioso perché ceravate anche voi.

Forse non ti ho scritto finora perché stavo assai ma­le e alFinizio ero anche un po' abbattuta, quando il dottore mi aveva detto che dovevo cominciare a rim et­termi a letto per cinque settimane. Ma io ritrovo sem­pre la mia fiducia.

Sono contenta di aver passato quei quattordici gior­n i a Westerbork, e di sapere fra l’altro dove abiti e come vivi. Caro Osias, ti prometto che d’ora in poi ci saranno pause più brevi.

Vero che mi saluti Semmy Rosenberg, e anche i tuoi colleghi Haussmann (« nipote » inclusa) e Frank e Grùnberg? E carissimi, carissimi saluti a te da

Etty

10. Hanukkah: la festaì ebraica che commemora la riconsacra­zione del Tempio nel 164 a.C. Dura otto giorni in dicembre, ed è caratterizzata dall’accensione progressiva di otto luci - ogni giorno se ne aggiunge una - in un’apposita lampada a otto bracci.33

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8. A due sorelle dell’A ia 11Amsterdam, dicembre 1942

Anche questa volta, come al solito, sono ritornata dalla brughiera con diversi incarichi. Una ex soubrette malata di calcoli biliari desiderava avere la sua tintura per i capelli. C’era una ragazza che non poteva alzarsi perché non aveva scarpe. E altre piccolezze simili - sebbene la faccenda delle scarpe non fosse davvero una piccolezza. C’era poi un incarico a cui avevo ac­consentito con molto piacere, ma che ha cominciato a pesarmi sempre di più. Nel frattempo, la soubrette ha potuto già da un pezzo ritoccare la tinta dei suoi capelli, e la ragazza-senza-scarpe può di nuovo alzarsi dal letto e sfidare coraggiosamente il fango - ma io non ho ancora esaudito la richiesta del Dr. K., e ciò non dipende solo dal fatto che sono stata malata per alcune settimane...

Una sera, pochi giorni prima della mia partenza, ero passata un momento nel piccolo e spoglio ufficio dove a volte lui restava a lavorare fino a notte fonda. Aveva u n ’aria stanca e un viso pallido e tirato. Dopo aver messo da parte uno spesso fascicolo - non senza avermene raccontato alcune curiosità col dovuto umo­rismo -, il Dr. K. si era guardato intorno con aria esi­tante, quasi cercasse qualcosa, e aveva trovato a stento poche parole: cominciava a sentirsi vecchio, in questi ultim i mesi. La guerra sarebbe pur finita un bel gior­no... come prima cosa sarebbe stato bello poter sostare11. Questa è una delle due lettere che furono pubblicate dalla resistenza olandese nel 1943. Il Dr. K. citato all’inizio è proba­bilmente il Dr. Herbert Kruskal, un ebreo tedesco che già viveva e lavorava in Olanda prima di essere internato a Wester­bork nel 1942. Qui Kruskal lavorava neirUfficio Petizioni, e sua moglie nel servizio medico del campo. Etty aveva fatto amicizia con lui e andava regolarmente a trovarlo. Nel 1944 i Kruskal furono deportati a Bergen-Belsen, e di 11, tramite scam­bio, arrivarono in Palestina. Non ci sono notizie sulle « due sorelle » a cui è indirizzata la lettera.

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a lungo nel folto di un gran bosco e dimenticare molte cose... e poi visitare Siviglia e Malaga, perché al posto del loro desiderato ricordo erano rimaste due lacune. Si sarebbe anche voluto ritornare al lavoro... ci sareb­be pur stata una Società delle Nazioni... Come poi fos­simo improvvisamente passati dalla Società delle Na­zioni alle due sorelle deir Aia, una bionda e Y altra bruna, non mi è più del tutto chiaro. Ma una volta ritornata in licenza a Amsterdam, chissà se sarei stata disposta a scrivervi qualcosa sulla vita a Westerbork- così, a modo mio?

« Sì, certo, » avevo risposto con molta comprensione «è importante rimanere in contatto col retroterra».

Il Vostro amico K. era quasi indignato: « Retroter­ra? Quelle due signore significano per noi molto di più, sono un vero pezzo di vita». E poi - in quell’uf- ficetto spoglio e a quell’ora tarda - aveva raccontato di Voi due in modo così trascinante che io avevo ac­consentito volentieri alla sua richiesta. Ma, a esser sin­cera, ora mi trovo in un beirimpiccio: che cosa dovrei propriamente raccontare sulla vita a Westerbork?

Era estate quando vi giunsi. Fino a quel momento, del Drenthe io sapevo solo che c’erano molti dolmen e nient’altro : ora ci trovavo un villaggio di baracche di legno incorniciato da cielo e brughiera, con un campo di lupini straordinariamente gialli nel mezzo e tu tt’intorno filo spinato. Laggiù si poteva trovare una grande abbondanza di vite umane. A dire la veri­tà, io non avevo mai saputo che un certo num ero di tedeschi fossero confinati già da quattro anni su quel­la brughiera del Drenthe,12 allora ero troppo occupata a raccoglier fondi per bambini spagnoli e cinesi.

In quei primi giorni giravo per il campo come se stessi sfogliando le pagine di un libro di storia. Incon­

12. Il campo di Westerbork fu creato nel 1939 dal Dipartimen­to di Giustizia olandese per ospitare i rifugiati provenienti dalla Germania. Questo primo nucleo comprendeva ebrei che erano già stati prigionieri a Buchenwald e Dachau.35

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trai persone che erano già state a Buchenwald e Da- chau quando questi nomi erano ancora suoni lontani e minacciosi per noi.

Incontrai persone che avevano girato il mondo su quella nave che non aveva avuto il permesso di appro­dare in nessun p o rto :13 ve ne ricorderete di certo, a quel tempo i nostri giornali erano pieni di quella storia.

Ho visto molte fotografìe di bambini piccoli, che nel frattempo saranno cresciuti non poco in qualche luogo ignoto di questa terra: chissà se sapranno an­cora riconoscere i propri genitori, se mai potranno ri­vederli.

In breve, era come trovarsi davanti a un pezzetto tangibile del « destino » ebraico degli ultim i dieci an­ni : e c’era chi aveva creduto che nel Drenthe esistes­sero soltanto dei dolmen. Era quasi da togliere il fiato.

In quell’estate del 1942 - sembra che siano trascorsi anni da allora, laggiù è successo in pochi mesi più di quanto si possa assorbire in un periodo così breve -, il piccolo insediamento fu radicalmente sconvolto, e i vecchi residenti assistettero sbalorditi alla deporta­zione in massa degli ebrei dall’Olanda all’Europa o- rientale. Anch’essi, in un primo tempo, avevano do­vuto fornire il loro abbondante contributo in uomini, quando il totale dei « lavoratori volontari » non era risultato del tutto soddisfacente.

Una sera d ’estate ero seduta a mangiare il mio ca­volo rosso sul ciglio del campo giallo di lupini, che dalla nostra mensa si estendeva fino alla baracca di di­sinfestazione, e riflettevo con aria ispirata: «Si do­vrebbe scrivere la cronaca di Westerbork ». Un uomo13. La nave St. Louis, che trasportava quasi un migliaio di ebrei, aveva fatto il suo sfortunato viaggio a Cuba nel 1939; al suo ritorno in Europa aveva avuto il permesso di attraccare nel porto di Anversa. Il Belgio accettò duecento passeggeri, il resto fu suddiviso tra Inghilterra, Francia e Olanda.

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anziano seduto alla mia sinistra - anche lui con il suo cavolo rosso - aveva replicato: « Sì, ma ci vorrebbe un poeta».

Q ueiruom o ha ragione, ci vorrebbe proprio un gran­de poeta, le cronachine giornalistiche non bastano più.

T u tta l'Europa sta diventando pian piano un uni­co, grande campo di prigionia. T u tta TEuropa finirà per disporre di simili, amare esperienze. Sarà mono­tono se noi ci riferiremo scambievolmente i fatti nudi e crudi - le famiglie lacerate, le proprietà sottratte, le libertà perdute. E anche a proposito di filo spinato e di pasticcio di patate e verdure non si póssono fare dei resoconti molto pittoreschi a coloro che sono ri­masti fuori: mi domando del resto se ne rimarranno fuori molti, posto che la storia insista ancora a lungo a percorrere i sentieri intrapresi.

Ecco, io sapevo già che non sarebbe venuto fuori nulla da questo resoconto, al primo tentativo mi sono arenata in considerazioni generiche. Del resto, una persona dairindole piuttosto contemplativa non è ve­ramente adatta a spiegare le caratteristiche di un de­terminato luogo e di un determinato avvenimento. Si scopre insomma che quelle che potremmo chiamare le materie prime della vita sono dappertutto le stesse, che in ogni luogo di questa terra si può vivere la pro­pria vita in modo ricco di significato o altrimenti mo­rire, e che l ’Orsa Maggiore brilla altrettanto veritiera sopra un paesino sperduto che sopra una grande città nel cuore di uno Stato - o anche sopra una miniera di carbone della Slesia, secondo le mie ardite supposizio­ni. E dunque, sembra che non manchi nulla all’uni- verso...

Volevo solo dire questo: io non sono poeta, e a parte ciò mi sento piuttosto sprovveduta di fronte al­la promessa fatta a K. Infatti, sebbene Westerbork sia per noi un nome carico di significato che continue­rà a risuonare nella nostra vita futura, io non saprei

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ancora bene che cosa raccontare in proposito. La vita laggiù è così movimentata, anche se molti diranno che è invece di una mortale monotonia.

Ma la m attina successiva a quella sera, in cui il vo­stro amico K. aveva pronunciato i nomi di Siviglia e Malaga con tanto fanatico desiderio, lo incontrai sul sentierino lastricato di mattonelle tra le baracche 14 e 15. Portava il suo caratteristico cappello di feltro, che lo fa sembrare così smarrito in mezzo a tutte quel­le assi di legno e porticine basse. Camminava svelto perché aveva fame - ma passandomi accanto trovò an­cora il tempo di raccomandarmi a calda voce : « Allora si ricorderà di quanto Le ho chiesto? E certo, cono­scere quelle due sorelle sarà un grande arricchimento anche per Lei».

Così eccomi qui, a un ’ora inaspettatamente tarda, davanti ad alcuni fogli bianchi...

Già - Westerbork.Se capisco bene, quello che è ora un centro del do­

lore ebraico era un luogo deserto e incolto appena quattro anni fa, e lo spirito del Dipartimento di Giu­stizia aleggiava nel cielo di questa brughiera.

« Qui non si poteva vedere neanche una farfallao un fiorellino, e neppure un verme »., mi assicurano con foga i primissimi «residenti del campo». E ora?

Proverò a scegliere a caso per Voi dall’inventario.C’è un orfanotrofio, una sinagoga, una piccola cap­

pella m ortuaria e una manifattura di solette appena agli inizi. Ho sentito parlare della costruzione di un manicomio, e a quanto mi consta le baracche dell’o­spedale, sempre più numerose, contano già un miglia­io di letti.

La prigione per due persone - un piccolo edifìcio da operetta che si trova in un angolo del campo - pare che non offra più spazio sufficiente, si sta progettando la costruzione di un edifìcio più grande. Forse suone­

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rà un po’ strano alle Vostre orecchie: una prigione den­tro una prigione.

Ci sono crisi di gabinetto in miniatura, con tutte le gomitate che appaiono indispensabili in casi del genere.

C’è un comandante olandese e c’è un comandante tedesco, il prim o è qui da più tempo ma il secondo ha più voce in capitolo. Di lui si dice tra l’altro che ami la musica e che sia un gentleman. Io non posso proprio giudicare, ma devo dire che per essere un gentleman ricopre un ufficio un tantino singolare...

C’è una sala teatrale dove in un glorioso passato, quando il termine « deportazione » doveva ancora na­scere, un invalido portò una volta Shakespeare sul pal­coscenico. Ora su quello stesso palcoscenico ci sono persone sedute alle macchine da scrivere.

C’è fango, talmente tanto fango che da qualche parte fra le costole si deve proprio possedere un gran sole in­teriore se non se ne vuol diventare la vittima psico­logica (scarpe rotte e piedi bagnati ve li immagine­rete da sole).

Sebbene gli edifìci del campo siano tutti a un piano solo, vi si sente parlare con una molteplicità di accen­ti, come se la torre di Babele fosse stata innalzata in mezzo a noi : bavarese e dialetto di Groningen, sasso­ne e dialetto del Limburgo, olandese dell’Aia e olan­dese della Frisia orientale, tedesco con accento polac­co o russo, olandese con accento tedesco e tedesco con accento olandese, fiammingo di Waterloo e berlinese- e faccio presente che si tratta di un ’area di poco più di mezzo chilometro quadrato.

Il filo spinato è una pura questione di opinioni. « Noi dietro il filo spinato!! » diceva un vecchio signo­re indistruttibile accennando malinconicamente con la mano « sono piuttosto loro a vivere dietro il filo spinato » - e intanto indicava le alte ville, che stanno come guardiani dall’altra parte della recinzione.

Se il filo spinato circondasse semplicemente il cam­po, si saprebbe almeno dove si sta: ma anche nel

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campo stesso, intorno e fra le baracche, si snodano questi fili del ventesimo secolo e formano una rete la­birintica e impenetrabile. Di tanto in tanto s’incon­trano persone con graffi sul viso e sulle mani.

Ai quattro angoli estremi del nostro villaggio di le­gno ci sono delle torrette di vedetta, piattaforme bat­tute dal vento che poggiano ognuna su quattro alti pali. Lassù, un uomo con elmo e fucile si staglia con­tro i cieli mutevoli. .Alla sera si sente talvolta sparare nella brughiera, come quando quel cieco si smarrì in un luogo troppo vicino al filo spinato...

Parlare di Westerbork è già difficile per il suo ca­rattere tanto ambivalente. Da un lato vi si sta for­mando una comunità stabile - certo che è una convi­venza forzata, ma ha tutte le caratteristiche di una società umana; dall’altro lato è un campo destinato a un popolo in transito, e ci sono sempre forti sommo­vimenti quando le folle vi si riversano dalle grandi cit­tà e dalla provincia, da case di cura, prigioni e campi di punizione, da tu tti gli angoli dell’Olanda, per es­sere deportate pochi giorni più tardi verso il loro de­stino sconosciuto.

Immaginerete la ressa su quel mezzo chilometro quadrato. Infatti, non tutti sono come quell’uomo che aveva riempito il suo zaino ed era spontaneamente partito con un convoglio, e alla domanda « Perché? » aveva risposto di voler essere libero di partire quando piaceva a lui. Mi aveva fatto pensare a quel giudice romano che aveva detto a un martire: « Sai che io hoil potere di ucciderti? », al che il martire aveva rispo­sto: «M a sai che io ho il potere di essere ucciso?».

Neirinsieme però c’è una gran ressa, a Westerbork, quasi come attorno airultim o relitto di una nave a cui si aggrappano troppi naufraghi sul punto di an­negare.

T u tto sommato, si preferisce svernare nella provin­cia più povera dell’Olanda e dietro un filo spinato, piuttosto che essere trascinati fino nel cuore dell’Eu­

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ropa, verso regioni e destinazioni sconosciute da cui solo pochissime e oscure voci sono trapelate a chi è rimasto indietro. Ma il numero dei deportati dev’es­sere quello stabilito e bisogna riempire il treno, che con regolarità quasi matematica viene a prendersi il suo carico; né si può trattenere tutti quanti come in­dispensabili per il campo o troppo malati per esser trasportati, anche se si tenta di farlo con molti. A vol­te si pensa che sarebbe più semplice essere finalmente deportati, che dover sempre assistere alle paure e alla disperazione di quelle migliaia e migliaia, uomini, don­ne, bambini, invalidi, mentecatti, neonati, malati, an­ziani, che in una processione quasi ininterrotta sfilano lungo le nostre mani soccorrevoli.

La mia penna stilografica non possiede accenti così efficaci da saper descrivere - sia pur nel modo più approssimativo - queste deportazioni. Alla lunga, vi­ste dall’esterno, esse sembravano di una sconsolante monotonia, eppure ogni convoglio era diverso dagli altri e aveva per così dire una propria atmosfera.

La prima volta che uno di questi convogli passò per le nostre mani, ci accadde di pensare che mai più avremmo potuto ridere e essere lieti, che ci eravamo trasformati in persone diverse, improvvisamente invec­chiate e estraniate da tutti gli amici di prima.

Ma se poi si va fra la gente, ci si rende conto che là dove ci sono uomini c’è anche vita, e che questa vita si ripresenta nelle sue mille sfumature - « con un sorriso e con una lacrima», per dirla con un ’espres­sione popolare.

Faceva molta differenza se si arrivava già prepara­ti e m uniti di uno zaino ben fornito, o se si era ina­spettatamente trascinati fuori dalle case, o falciati via dalle strade. Alla lunga si verificò solo più il secon­do caso.

Dopo i primi rastrellamenti, quando ci arrivarono persone vestite di sola biancheria e pantofole, tutta Westerbork si spogliò fino alla camicia, in un unico gesto di orrore e di eroismo. E grazie anche alla stretta

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collaborazione di chi stava fuori, abbiamo cercato di equipaggiare i partenti nel modo migliore. Ma se si pensa ai molti che hanno affrontato l'inverno dell’Eu­ropa orientale sprovvisti di abiti, se si pensa a quei­runica, sottile coperta che talvolta eravamo in grado di distribuire di notte, poche ore prima della par­tenza...

Arrivò il proletariato dalle grandi città e esibì nelle nude baracche la sua povertà e trascuratezza, e molti rimasero a bocca aperta e si chiesero come quella de­mocrazia avesse effettivamente funzionato, a suo tem­po...

La gente di Rotterdam era una categoria a sé, tem­prata dai bombardamenti della guerra: «Noi non ci spaventiamo più tanto facilmente, » si sentiva dire da molti « se ce la siamo cavata allora ce la caveremo an­che adesso », e alcuni giorni dopo si avviarono al treno cantando; ma era piena estate, e ancora non si erano visti gli anziani e gli invalidi, che dovevano esser tra­sportati sulle barelle dietro alla processione dei par­tenti...

Gli ebrei di Heerlen, di Maastricht, e di tutte quel­le altre città, avevano da raccontare delle storie che quasi rimbombavano della simpatia dimostrata dal Limburgo alla loro partenza, si sentiva che moralmen­te avrebbero potuto viverne a lungo.14 « E i cattolici hanno promesso di pregare per noi, e di sicuro se ne intendono meglio di noi » diceva uno di loro.

Gli ebrei di Haarlem osservavano un po’ acidi e distanti : « Quelli di Amsterdam hanno un umorismo così macabro».

C’erano bambini che non volevano mangiare un pa­nino finché i genitori non ne avessero ricevuto uno anche loro.

Fu uno strano giorno quando arrivarono degli ebrei

14. Il Limburgo era una provincia a maggioranza cattolica. Etty si riferisce a una dimostrazione pubblica di solidarietà per gli ebrei che dovevano partire.

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cattolici - o se si preferisce dei cattolici ebrei -, suore e preti con la stella gialla sui loro abiti religiosi.15 Ricordo due giovani gemelli dagli identici, bei visi scuri del ghetto e dagli occhi calmi e fanciulleschi sot­to i loro zuccotti, che raccontavano con cortesia e stu­pore di essere stati portati via dalla messa alle quattro e mezzo di mattina, e di aver mangiato cavolo rosso a Amersfoort.

C’era un monaco ancora abbastanza giovane che per quindici anni non era uscito dal proprio convento e ora si ritrovava per la prima volta nel «m ondo». Mi ero fermata un poco accanto a lui e avevo seguito il suo sguardo, che vagava tranquillo per la grande ba­racca dove si accoglievano i nuovi arrivati.

I rapati a zero, i picchiati e maltrattati, che quello stesso giorno si erano riversati a Westerbork insieme con i cattolici, incespicavano e si muovevano con ge­sti ancora incerti per quel grande locale di assi, e ten­devano le mani verso il pane che non bastava.

Un giovane ebreo aveva sostato per un momento accanto a noi, la sua giacchetta troppo larga gli balla­va addosso, ma un risolino indistruttibile gli era spun­tato sotto la barba rada e nerissima quando aveva det­to: « Hanno provato a rompere il muro della prigione con la mia testa, ma la mia testa era più dura di quel muro! ».

T ra le molte teste rapate a zero spiccavano strana­mente i bianchi turbanti delle donne che erano state sottoposte a un trattamento igienico nella baracca di disinfestazione, e che ora si aggiravano con aria afflitta e umiliata.

15. Erano suore, preti e monaci di origine ebraica. In seguito alla protesta deirarcivescovo Johannes de Jong contro la per­secuzione degli ebrei, il 1° agosto 1942, i nazisti fecero una re­tata fra gli ebrei cattolici in convento e arrestarono circa 300 religiosi. 63 di loro arrivarono a Westerbork il 2 agosto; Etty li descrive in questa lettera e nel diario. Una delle suore era Edith Stein, nota mistica e filosofa a cui Etty è stata spesso parago­nata. Edith Stein fu uccisa a Auschwitz il 9 agosto 1942.

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C’erano bambini che cadevano addormentati sul­l ’assito polveroso o giocavano ad acchiapparsi in mez­zo agli adulti. Due bambinetti svolazzano smarriti in­torno al corpo pesante di una donna che giace priva di sensi in un angolo, proprio non capiscono perché la loro mamma se ne stia così immobile e non risponda.

Un anziano signore dai capelli grigi, d iritto come una candela e con un marcato profilo aristocratico, fis­sa questa grande scena infernale e ripete fra sé: « Un giorno terribile! Un giorno terribile! ».

E frammischiato a tutto ciò, lo scoppiettio ininter­rotto di molte macchine da scrivere: il fuoco a mi­traglia della burocrazia.

Attraverso i molti piccoli vetri delle finestre si vedo­no baracche di legno, filo spinato e arida brughiera.

10 fisso il monaco che dopo quindici anni si ritrova nel « mondo » e gli chiedo: « E allora, che cosa ne dice del mondo?».

Ma il suo sguardo rimane tranquillo e amichevole sopra la tonaca marrone, come se ciò che lo circonda gli fosse noto e familiare già da molto tempo.

Più tardi qualcuno mi raccontò che quello stesso giorno aveva visto alcuni monaci camminare in fila tra due baracche scure nel crepuscolo, mentre dicevanoil rosario con la stessa calma con cui avrebbero reci­tato le preghiere nei corridoi del loro convento.

E non è forse vero che si può pregare dappertutto, in una baracca di legno come in un convento di pietra- come pure in ogni luogo di questa terra, su cui Dio pensa bene di scaraventare i suoi simili in tempi agi­tati?

Coloro a cui è toccato lo snervante privilegio di po­ter rimanere a Westerbork «fino a nuovo ordine», corrono un grave rischio morale: quello di diventare apatici e insensibili.

11 dolore umano che abbiamo visto laggiù nel corso di quest’ultimo mezzo anno, e che vi si può ancora ve­dere ogni giorno, è più di quanto un individuo sia in

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grado di assorbire in un periodo così limitato. Del re­sto, lo sentiamo dire ogni giorno e in tutti i toni: « Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, voglia­mo dimenticare il più possibile». E questo mi sem­bra molto pericoloso.

Certo, accadono cose che un tempo la nostra ragio­ne non avrebbe creduto possibili. Ma forse possedia­mo altri organi oltre alla ragione, organi che allora non conoscevamo, e che potrebbero farci capire que­sta realtà sconcertante.

Io credo che per ogni evento l ’uomo possieda un organo che gli consente di superarlo.

Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uo­mo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al lo­ro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare - se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione -, allora non siamo una generazione vitale.

Certo che non è così semplice, e forse meno che mai per noi ebrei; ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri cor­pi salvati a ogni costo - e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra mise­ria e disperazione -, allora non basterà. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove co­noscenze dovranno portar chiarezza oltre i recinti di filo spinato, e congiungersi con quelle che là fuori ci si deve ora conquistare con altrettanta pena, e in cir­costanze che diventano quasi altrettanto difficili. E for­se allora, sulla base di una comune e onesta ricerca di chiarezza su questi oscuri avvenimenti, la vita sban­data potrà di nuovo fare un cauto passo avanti.

Per questo mi sembrava così pericoloso sentir ripe­tere: «Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire,

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la cosa migliore è diventare insensibili a tutta questa miseria».

Come se il dolore - in qualunque forma ci tocchi incontrarlo - non facesse veramente parte dell’esisten- za umana.

Mi accorgo di aver divagato molto rispetto all’in- nocente richiesta del Vostro amico K. : dovevo raccon­tar qualcosa sulla vita a Westerbork, non sulle mie opi­nioni personali. Non posso farci niente, mi è sfug­gito...

Ma gli anziani? T u tte queste persone vecchissime e invalide? Come posso mettermi a filosofare davanti a loro?

Il capitolo più triste della storia di Westerbork sa­rà certamente quello dedicato agli anziani. Forse sarà ancora più toccante del capitolo sui malmenati e m u­tilati provenienti da Ellecom, la cui vista fece correre un brivido di orrore per tutto il campo.

Alle persone giovani e sane potevi dire le cose in cui tu stesso credevi, e che ti sentivi in grado di met­tere in pratica : la storia aveva messo sulle nostre spalle un destino di dimensioni davvero straordinarie, e noi dovevamo trovare la grandezza di stile commisurata al peso eccezionale di questo destino.

Potevi dire che eravamo come dei soldati al fronte, sebbene i fronti a cui eravamo mandati fossero al­quanto singolari. È vero che sembravamo condannati a una totale passività - però chi ci poteva impedire di mobilitare le nostre forze interiori?

Ma avete mai sentito parlare di soldati ottuagenari mandati al fronte con il bastone rosso e bianco dei ciechi per arma?

Una mattina presto dell’estate scorsa mi imbattei in un uomo turbato che borbottava fra sé : « Per amor del cielo, che razza di lavoratori per la Germania ci hanno spedito questa volta! ». Ero accorsa all’ingresso del campo mentre autocarri malconci li scaricavano

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sulla nostra brughiera: tanti vecchietti. Ed eccoci là, a bocca aperta. Ci sembrava che ora si stesse davvero esagerando un po’. Ma passato un certo tempo già la sapevamo lunga, e a ogni arrivo ci chiedevamo : « E allora - ci sono stati molti anziani e invalidi, questa volta?».

Ahimè, questo pezzetto di storia deH’umanità è tal­mente triste e vergognoso che non si sa come parlar­ne. Ci si vergogna di esser stati presenti senza averlo potuto impedire.

C’era una vecchietta che aveva dimenticato gli oc­chiali e il flacone della medicina sul caminetto «d i casa » : chissà se ora avrebbe potuto averli, e dove si trovava di preciso, e dove sarebbe poi andata?

Una donna di ottantasette anni si era aggrappata alla mia mano come se non volesse più lasciarmi an­dare: raccontava che i gradini davanti alla porta del­la sua casetta avevano sempre brillato, e che mai nel­la sua vita le era successo di buttare i propri vestiti sotto il letto quando andava a dormire.

E quel piccolo signore curvo di settantanove anni: era sposato da cinquantadue, ora sua moglie era rico­verata airospedale di Utrecht e l’indomani lui sareb­be stato portato via dall’olanda...

Ma anche se continuassi per pagine e pagine, non avreste u n ’idea di quel ciabattare, barcollare e cadere a terra, del disperato bisogno di aiuto e delle doman­de infantili. Là non si poteva far molto con le parole, a volte una mano sulla spalla era già troppo pesante.

No, quegli anziani sono un capitolo a sé. I loro gesti smarriti e i loro visi spenti popolano ancora le notti insonni di molte persone...

In pochi mesi la popolazione di Westerbork si è gonfiata da 1000 a circa 10.000 unità. La crescita mag­giore risale ai terribili « giorni d ’ottobre » - quando in seguito a una grande caccia all’ebreo per tutta l ’O- landa, il campo fu devastato da un ’inondazione uma­na che minacciò di inghiottirlo.

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Quindi non si può certo parlare di una comunità dallo sviluppo organico e dal respiro regolare, e tut­tavia - cosa stupefacente - vi si possono trovare tu tti gli aspetti, le classi, gli «ism i», i contrasti e le ten­denze della società odierna (eppure l’area di mezzo chi­lometro quadrato è rimasta la stessa). In fin dei conti non è un fenomeno così stupefacente, se è vero che ogni individuo porta in sé la tendenza, la parte so­ciale o il livello culturale che rappresenta.

Ma ogni volta si è colpiti dal fatto che in una si­tuazione di comune necessità i contrasti permangano.

Un giorno incontrai una ragazza in mezzo al fango tra due grandi baracche: mi spiegò di essere arrivata per caso a Westerbork (questo è tipico: ognuno crede che il proprio caso sia particolarmente sfortunato, la maggior parte di noi non possiede ancora una comu­ne coscienza storica). Ma per tornare a quella ragaz­za: mi raccontò una malinconica storia di pacchetti che non arrivavano mai e di un paio di scarpe smarri­te. Eppure il suo viso s’illuminò quando disse: « Però abbiamo avuto una fortuna enorme con le persone, siamo proprio una baracca d ’élite. Sai come chiamano la nostra baracca?» continuò tutta orgogliosa. «La curva del Heerengracht! ».16

Io restai confusa, e la guardai, dalle sue scarpe rotte al suo volto truccato, senza sapere se ridere o pian­gere...

In questo campo di concentramento la mancanza di spazio è senza dubbio la carenza più grave.

Circa 2500 persone su 10.000 sono alloggiate nelle 215 casette che un tempo costituivano il nucleo del campo, e che prima delle deportazioni erano tutte abi­tate da singole famiglie.

16. «La curva del Heerengracht»: così è detto il tratto di que­sto famoso canale di Amsterdam che si trova all’altezza della Nieuwe Spiegelstraat ed è fiancheggiato da belle e dignitose case antiche.

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Ogni casetta ha due, a volte tre camerette, oltre a una piccola cucina con un rubinetto e un W.C. La porta d ’ingresso è priva di campanello, sicché entrare diventa una faccenda molto sbrigativa. Aperta quella porta ci si trova subito nel mezzo della cucina. Se si vuole far visita a amici nella cameretta sul retro, si ir­rompe con una disinvoltura ormai abituale in quella sul davanti, dove proprio allora una famiglia è seduta a tavola o magari litiga o sta andando a letto. E da un po’ di tempo queste camerette sono anche gremite di persone desiderose di evadere dalle grandi baracche.

Adesso gli abitanti delle casette sono alloggiati in modo principesco, per essere a Westerbork, e sono in­vidiati e sempre assediati dagli altri.

La grande, la vergognosa miseria del campo inco­mincia nelle colossali baracche costruite in tutta fret­ta - in quelle rimesse di assi piene di spifferi e gremite di uomini, dove le cuccette di ferro a tre piani si am­massano sotto un cielo incombente di panni che cen­tinaia di persone hanno steso ad asciugare.

Quei poveri francesi non avrebbero mai sospettato che sugli stessi letti da loro costruiti per la linea Ma- ginot ebrei esiliati in una qualche brughiera del Dren­the avrebbero sognato i loro sogni spaventosi. H o in­fatti saputo che quei letti provengono dalla linea Ma- ginot.

Ora su quelle cuccette si vive e si muore, si man­gia, si è malati, o non si riesce a dormire perché tanti bambini piangono durante la notte - o perché ci si continua a chiedere come mai non arrivino quasi no­tizie dalle molte migliaia già partite dal campo.

Sotto i letti sono sistemate le valigie, alle sbarre di ferro appesi gli zaini : gli unici ripostigli che abbiamo. Le altre suppellettili consistono di tavole di legno grezzo e strette panche di legno.

Delle condizioni igieniche preferisco non parlare nella mia modesta relazione, così Vi eviterò momenti poco gradevoli.

Qua e là per quei vasti ambienti ci sono delle stufe:49

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bastano appena per riscaldare le vecchiette che, stret­te Tuna all’altra, vi siedono intorno. Non ci è ancora troppo chiaro come si dovrà vivere in queste baracche durante l’inverno.

T u tti questi grandi magazzini umani sono stati co­struiti in mezzo al fango esattamente allo stesso mo­do, e sono per così dire arredati con la stessa sobrietà; ma lo strano è che attraversando una baracca si ha la sensazione di vagare per un quartiere povero e desola­to, mentre u n ’altra baracca evoca ad esempio un quar­tiere residenziale della borghesia agiata. In realtà è una sensazione ancora più forte, è come se ogni cuccetta, ogni tavolo di legno grezzo emanasse una propria at­mosfera.

Conosco un tavolo in una di queste baracche su cui di sera è posata una lanterna di vetro con una candela accesa, intorno siedono più o meno otto per­sone e quello è il cosiddetto « angolo dei bohémiens ». Se poi si fanno pochi passi fino al tavolo più vicino, intorno al quale sono anche lì sedute più o meno otto persone - forse l ’unica differenza è che al posto della candela c’è qualche padellina sporca -, allora è come se si entrasse in un mondo totalmente diverso.

Circostanze simili non sembrano produrre necessa­riamente persone simili.

Su quell’arido pezzo di brughiera di cinquecento per seicento metri naufragano anche diversi protago­nisti della vita culturale e politica delle grandi città. T u tte le scene che li circondavano sono state brusca­mente abbattute con un solo colpo potente, ed essi stanno ancora un po’ tremanti e spaesati su quel pal­coscenico aperto e pieno di correnti d ’aria che si chia­ma Westerbork. Intorno a quelle figure sradicate dal loro contesto si può ancora respirare l’atmosfera di una vita irrequieta, e di una società più complicata di quella del campo.

Essi vanno lungo il sottile filo spinato, le loro sa­gome in grandezza naturale scorrono indifese sulla

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grande distesa del cielo. Bisogna averli visti cammi­nare laggiù...

La loro ben forgiata armatura di posizione, reputa­zione e proprietà s’è sfasciata, e ora essi sono rivestiti soltanto delTultima camicia della loro umanità. Si tro­vano in uno spazio vuoto, delimitato da cielo e terra, dovranno riem pirlo da soli con le loro potenzialità in­teriori - là fuori non c’è più niente.

Ora ci si avvede che nella vita non basta essere un abile politico o un artista di talento, la vita richiede tu tt’altre cose nella miseria estrema.

Sì, è vero, siamo messi alla prova nei nostri fonda- mentali valori umani.

E così crederete che io abbia raccontato qualcosa su Westerbork, con la mia lunga chiacchierata? Se pro­vo a ricreare questo Westerbork davanti al mio oc­chio interiore - in tutte le sue sfaccettature e storia movimentata, in tutte le sue necessità spirituali e ma­teriali -, allora so di non esserci riuscita affatto. E poi, il mio è un resoconto molto parziale. Potrei im­maginarne un altro pieno di odio, amarezza e ribel­lione.

Ma la ribellione che nasce solo quando la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribel­lione, e non potrà mai dare buoni frutti.

E assenza d ’odio non significa di per sé assenza di un elementare sdegno morale.

So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma per­ché dovremmo sempre scegliere la strada più corta e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale.

E credo anche, forse ingenuamente ma ostinatamen­te, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Pao­lo scrisse agli abitanti di Corinto nel tredicesimo capi­tolo della sua prim a lettera.

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9. A Osias Kormann[Amsterdam] 16 gennaio 1943

Senti bene, Osias : davvero non hai ancora ricevuto posta da me? Quanto mi dispiacerebbe! Vleeschhouwer mi ha dato quest’impressione, e tu penserai che sono proprio infedelel Devo ammetterlo onestamente: fino­ra ti ho scritto una volta sola e assai per esteso, era notte fonda e avevo promesso di riscriverti presto. Mail mio « presto » è diventato alcune settimane.

Sai, io ho tanti amici. Alcuni vengono da me con le loro difficoltà spirituali e così dobbiamo parlare a lungo. Ce ne sono parecchi altri a cui scrivo regolar­mente e per esteso, perché sento che ne hanno biso­gno e li voglio aiutare.

Con te è un ’altra cosa: tu esisti nella mia vita e sa­rebbe inconcepibile il contrario, io discorro spesso con te ma non sento mai la necessità di fissare questi d i­scorsi sulla carta, penso sempre che te ne accorga an­che senza le mie lettere. Se non ricevi mie notizie per un po’ non devi mai sentirti deluso o magari triste, io continuo a pensarti con il forte e buon sentimento di sempre. Questa mattina, mentre me ne stavo cori­cata e pensavo a qualcosa che ti riguardava, ho sentito Tirresistibile bisogno di ribadirtelo con altrettante pa­role. Quanto mi dispiacerebbe se tu pensassi che ora di te m’importi meno! Le cose buone e umane che ab­biamo condiviso sono vive nei miei sentimenti e sono sempre reali.

Spero che tu abbia ricevuto la mia prima lettera, conteneva alcune coserelle che vorrei ti fossero cadute sotto gli occhi.

E tu hai molto da fare, vero? Ma forse mi mande­rai due parole se ne avrai l'occasione? Abiti sempre con il caro Rosenberg nella tranquilla camera sul re­tro? Quanto mi piacerebbe capitare lì da voi, finalmen­te guarita. Invece per ora la parola d ’ordine è : stare

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ra letto, a letto e sempre a letto. Ma anche così si può vivere la propria vita, o almeno si deve provare.

Alla prossima volta, Osias Kormann!Con amicizia,

EttySaluti a Rosenberg.

10. A Osias Kormann[Amsterdam] 24 marzo 1943

Mercoledì pomeriggioOsias, è trascorso molto tempo dalla mia ultima let­

tera? A me paiono solo pochi giorni, ma al massimo è una prova di quanto il tempo mi sia passato in fretta.

Così ti mando di nuovo un bel sorriso da lontano, sempre che la cosa sia permessa. Il mio dottore si ar­rabbia tutte le volte che arrivo da lui con un gran sorriso sulla faccia, secondo lui è imperdonabile che si rida di questi tempi. Io non credo che abbia ragione, tu che ne dici? Buongiorno Osias, come stai, che co­sa fai, hai molto lavoro, sei di buon umore, non avre­sti bisogno di un ’assistente, fra poco? Io non chiedo un lauto stipendio, mi basta un trattamento amiche­vole.

Per il momento mi dedico ancora alla ginnastica m attutina, al sole, alla Bibbia, al russo, alle patate da pelare e alla letteratura; e poi dialogo con persone ec­cessivamente ottimiste o pessimiste, con persone pole­miche o prossime al suicidio o infuriate o tristi, o co­munque siano. Insomma un programma alquanto va­riato.

E per il resto ho sempre ancora un cuore giovane e vecchie ossa, il tutto potrebbe esser ripartito con mi­glior equilibrio. Anche il mio dottore non ha saputo trovare una spiegazione più saggia della tua, e dice che

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mentre nei più sono l’anima e la mente a risentire di questi tempi eccessivamente difficili, nel mio caso è il corpo a soffrirne. Io ingoio a turno cose amare, acide, dolci, solide e liquide ma in fondo mi sembra tutto as­surdo, l ’equilibrio deve ristabilirsi su basi naturali. Però mi sembra già di ridiventare una persona valida- e al mio ritorno farai un meraviglioso caffè, vero?

Osias, un saluto molto affettuoso a te, e pensa di tanto in tanto con animo gentile a

EttyE un saluto a Rosenberg.

11. A Osias Kormann[Amsterdam, primavera del 1943]

Venerdì mattina, a lettoOsias, ti saluta una ragazza con un dito del piede

vertiginosamente gonfio. Questa ragazza è una tua buo­na amica - te ne ricordi ancora, o te ne sei ormai di­menticato? Succedono tante cose lì da voi, troppe cose.

Qui continua la grande contraddizione: lo spirito è più che mai vivace e creativo e intenso, il corpo non offre ancora una struttura abbastanza forte da po­terlo sorreggere.

Ma ho pazienza - non sempre, naturalmente -, e vi­vo con saggezza in modo da ristabilirmi presto e bene. A quel punto ricomparirò improvvisamente da voi. E tu avrai del lavoro per me nella « V » 17 - o siete già troppi in troppo poco spazio?

Il vostro villaggio è di colpo diventato una città, de­v’essere una città ben triste e strana.

Ho paura che tu non dorma più - ti prego, va’ a dormire ogni tanto!17. « V » sta per Verzorging (Approvvigionamento), un reparto che era stato istituito dal Consiglio Ebraico e die disponeva di un proprio magazzino, il « V ».

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E così è arrivata la mamma di Rosenberg. E lui? Può renderle la vita un po' più facile? Salutamelo per favore con molta cordialità, e salutami anche Unger.

Molti pensano oggigiorno che la vita stia andando alla fine e che tutto stia crollando. T ra molto tempo si vedrà forse che è stato anche un inizio. Ma forse non poggio i piedi «sul terreno della realtà», forse sono un ’idealista? Su, lasciami stare, bisogna pur che esistano persone come me, le mie realtà sono di fatto diverse da quelle che i p iù chiamano « la realtà », ma sono anche realtà.

Osias Kormann, amico fedele della brughiera del Drenthe, la vita è davvero una bizzarra faccenda - ti saluto e ti voglio molto molto bene.

Etty

12. A Osias Kormann[Amsterdam, primavera del 1943]

Venerdì mattinaIl buon Dio e la Zentralstelle18 sembrano opporsi a

che io beva il tuo caffè già in questa settimana: ve­dremo se la prossima ci porterà il permesso di viaggio. Spero che tu stia ottimamente sotto tutti i punti di vista, mio caro Osias, vorrei una buona volta sincerar­mene di persona.

Che ne è dei lupini gialli, si rivedono già? E fa ogni tanto primavera da voi, malgrado tutto? Saluta­mi Rosenberg. E ricevi il mio abbraccio innocente e nondimeno affettuoso. Etty

18. La Zentralstelle filr jiidische Auswanderung (Centro per TEmigrazione Ebraica), che organizzava la deportazione degli ebrei, era stata istituita dai tedeschi.

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Per ora dunque : arrivederci alla prossima settimana.E poi: un saluto da mio padre, che è stato molto

contento di ricevere il tuo.E speriamo che non ti rovini i tuoi begli occhi con

questi orribili geroglifici (una volta scrivevo tutto a macchina, ma già da un pezzo ho dovuto riabituarm i alla mia mano).

Ciao! E.

13. A Osias Kormann[Amsterdam] 8 aprile [1943]

Giovedì mattinaIl mio orologio è rotto, Osias, e così devo assoluta-

mente ritornare a Westerbork perché a Amsterdam non si trova più nessuno che abbia il tempo di ripa­rarlo. E sai bene che io non ho proprio bisogno di molte cose per vivere, ma di un orologio sì. E comun­que crederai che ho altre ragioni per voler ritornare da voi. E mi rallegro anche un pochino all’idea di ri­vederti, proprio così!

Ho poi una lieta notizia, specialmente per te: il mio dente del giudizio è spuntato non senza forti do­glie, ma alla fine s’è potuto constatare che c'era per davvero. Quindi puoi avere buone speranze che io diventi ancora una persona ragionevole. Che intendi per ragionevole? Egoista? Quest'egoismo diventa così noioso! Già da molti secoli ci si racconta che l'uomo è fondamentalmente egoista, alla fine si comincia a cre­derlo e a quel punto è così. Ci sono molti aspetti in un uomo, perché non si dovrebbe provare a cambiare, e considerare un aspetto diverso da questo noioso e sterile egoismo? Ma su questo punto bisticceremo an­cora a voce, non è vero? La tua lettera era molto sim­patica, sei un gran burlone ma sei anche molto caro.

A Westerbork devo rintracciare una quantità di gen­56

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te - amici, oppure figli o genitori o nonni di amici. Sarà già un lavoro e altro lavoro verrà fuori da sé.

Mio caro, mi rallegro di rivederti ma te Tho già detto.

Alla prossima settimana.Ciaol

Etty

14. A Osias KormannAmsterdam, 5 maggio 1943

Osias caro, pare di nuovo che io ti sia stata molto infedele, e invece il mio lungo silenzio è dovuto solo alle leggi deirinerzia umana. Il tuo caffè si sarà ormai freddato del tutto ma non posso farci nulla, mi sento come una specie di soldato in attesa di ordini. Da un lato sono riconoscente per ogni giornata che posso ancora trascorrere seduta alla mia fedele scrivania, e immersa in faccende che mi toccano molto da vicino; dall’altro lato vorrei solo ritornare da voi il più pre­sto possibile. Se faccio i conti, mi accorgo di mancare dalla vostra metropoli nella brughiera già da cinque mesi, eppure ho la strana sensazione che sia trascorsa appena una settimana, o meglio, che io non sia stata affatto via. In questo modo si può continuare a vivere contemporaneamente in luoghi diversi, non credi?

Osias, conosci il terreno dello « Ijsclub » di fronte al Conzertgebouw? Di tanto in tanto passeggio con te lungo la recinzione e allora stiamo così bene insieme.Il più delle volte arrivi del tutto inaspettato, come una sorpresa. Io faccio tranquillamente il mio giro intorno al Club, d ’un tratto sei al mio fianco e ogni volta mi rallegro per la tua assidua e forte vicinanza.

Quanto alla mia salute, non posso lamentarmi trop­po. Certo che sono assai meno efficiente dopo la mia

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malattia, ma questo succederà a parecchie persone nel­la nostra benedetta Europa.

Osias caro, basta per oggi, sono curiosa di sapere quando potremo rivederci.

Salutami in particolare Petzal, spesso mi propongo di scrivergli ma sai bene: Tinerzia, ecc. E natural­mente saluta ancora Rosenberg.

E quanto a te: arrivederci in ogni caso!Ciao!

Etty

15. 4̂ Osias Kormann[Amsterdam] Venerdì pomeriggio

28 maggio [1943]Mio caro Osias,

già da molte sere mi propongo di mandarti un pic­colo resoconto, ma qui si vive ora in un'agitazione quo­tidiana. Le mie coperte, lassù nella tua balconata di legno, dovranno pazientare più del previsto per po­termi ricoprire di nuovo. La mattina del 24 è arrivato l ’ordine di partenza: dovevo presentarmi il 25. Subito mi sono accinta a dare l’ultima mano al mio zaino, ma dopo mezza giornata ho saputo che la mia convoca­zione era stata un «errore». È un po’ strana que­sta espressione: un « errore », come se non lo fosse per tutti gli altri. Bene, adesso non voglio mettermi a filo­sofare su questo tema sgradevole, tanto ci parleremo presto.

Oggi ho saputo che quindici colleghi del Consiglio Ebraico di Westerbork avranno una licenza, e che qui si richiedono altrettanti volontari per sostituirli. Cer­to che mi presenterò, e poi si vedrà se mi potranno utilizzare dato che rappresento una categoria un po’ strana e nichilista. Ad ogni modo credo che ci rivedre­

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mo presto, la liquidazione delle rimanenze ebraiche procede ora a ritm o serrato.

Pensare che sono già trascorsi dieci mesi da quando ho incontrato un omino dal berretto grigio e dai gros­si occhiali nella scuola di Westerbork; quest’omino mi aveva raccontato alcune storie avventurose del campo e poi mi aveva detto: « Lei non è certo olandese. Lei ha tanto calore ». Sì, Osias, ecc., ecc. Questa non è una vera lettera ma un saluto frettoloso. Credo che avrai di nuovo tanto lavoro triste. Arrivederci fra alcuni giorni o fra alcune settimane, in ogni caso arrivederci!

Etty

16. 4̂ Maria Tuinzing[Amsterdam, 5 giugno 1943]

Sabato seraMarieteke,

cerchiamo di non essere troppo materialiste : un paio di giorni in più o in meno, e se ci siamo ancora riviste oppure no - certo, è un peccato che sia andata così, ma per noi non fa quella grande differenza, vero? T i avrei rivista volentieri ma vedrai che succederà ancora, ne sono proprio sicura. È tardi, non so dirti quanto sono stanca. Avevo sperato di raggiungerti per telefono a Wageningen, visto che comunque rimanevo un giorno in più, ma non è stato possibile. Mi chiedi un diario: proprio perché sei tu lascio qui uno stu­pido quaderno - ci troverai un tale guazzabuglio, don­na indiscreta che sei!

Se ti capita di avere delle difficoltà, sfoga la tua ani­ma su un pezzetto di carta, e mandalo a Etty che ti risponderà di sicuro.

Vigila un pochino su papà Han - ma so che lo fa­rai comunque. Lui ti racconterà tutti gli avvenimenti

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e l'agitazione di questi ultim i due giorni, i miei oc­chietti si chiudono per il sonno e quanto lavoro dà questo zaino. Non ti dico addio perché la nostra non è una vera separazione.

Sta' molto molto bene, mia cara.Etty

17. A Han Wegerif e altri[Westerbork]

Lunedì mattina, le undici, 7 giugno 1943Carissimi,

avete ancora salutato a lungo i miei due boccioli di rosa? Siete stati tu tti così cari con me, ci ho potuto ripensare per tutto il viaggio in treno; ora questo campo, con la sua miseria davvero enorme di depor­tazioni in arrivo e in partenza, mi ha completamente inghiottita un'altra volta. Rieccomi qui da cento anni.

Il viaggio in treno è stato abbastanza piacevole. C’è un simpatico spirito cameratesco fra noi. I miei colle­ghi mi hanno presa ben bene in giro, ma me ne sono accorta soltanto alla fine. Hanno cominciato a dire che da Assen fino al campo dovevamo farla a piedi, con bagagli e tutto quanto: mi è sembrato che la cosa potesse ancora andare. Ma quando sono arrivati a d ir­mi che nel campo era stato aperto un piccolo negozio di torroni, che nell'area dell'orfanotrofio si era svolta una sfilata floreale e che ora vi si giocava a polo, mi si sono aperti gli occhietti.

A Assen ci aspettava un autocarro in cui entrava l'acqua, e diluviava. Siamo arrivati piuttosto bagnati. Ci hanno condotti con tu tti i nostri bagagli in uno stanzone (una volta non era così), dove i nostri zaini e le nostre valigie sono stati ispezionati da ufficiali della gendarmeria. H o aperto molto volenterosamente la valigetta di giunco con il Corano e il Talmud, ma

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non hanno visto il mio zaino grande come una casa e così ho potuto stare tranquilla.

La baracchetta in cui sono alloggiata questa volta è una via di mezzo tra un piccolo magazzino e un boudoir. Letti a castello a due o tre piani, dappertutto valigie e scatole, fiori sulla tavola e sul davanzale del­la finestra, e alcune languide colleghe in lunghe ve­staglie di seta. Strano davvero. Con me abita una ex reginetta di bellezza che ha fatto « la vita ». Alle dieci di sera ha appoggiato uno specchio alla mia scatoletta del burro e si è dedicata per mezz’ora alle sue soprac­ciglia. Non c’era un letto per me. La cosa non era poi così grave visto che più tardi si doveva lavorare, da Vught sarebbe arrivato un convoglio di deportati. Il nostro turno cominciava alle quattro. Alle undici di sera mi sono avviluppata tutta vestita in una coperta, sul letto di una collega che pareva dovesse lavorare tutta la notte (il mio lenzuolo a sacco era bagnato ed è appeso ad asciugare). Dopo aver trascorso u n ’oretta così - e aver molto apprezzato la musica di alcuni topi (che sembrano essersi moltiplicati durante la mia as­senza) -, ecco arrivare la collega, era una signorina miope dai baffi nerissimi del Lijnbaansgracht, un po­sto che non mi è mai piaciuto molto. E ora mi trovavo coricata con lei in un letto stretto - una situazione che si direbbe piccante. Ci siamo svegliate un poco rigide verso le quattro. Mi sono rifocillata con il tuo capolavoro di frumento, Kathe cara, e ho attraversato u n ’altra volta il paesaggio notturno di Westerbork. Prima ci siamo sottoposti a un trattamento di lisolo perché da Vught arrivano sempre tanti pidocchi. Dalle quattro alle nove ho arrancato su e giù con bambini piccoli che piangevano e ho portato i bagagli a donne esauste. Era un lavoro duro, e straziava il cuore. Don­ne con bambini piccoli, 1600 in tutto (altri 1600 ar­rivano stanotte), gli uomini sono deliberatamente trat­tenuti a Vught. Il convoglio di domattina è già pronto, Jopie ed io abbiamo appena camminato lungo il tre­no. Grandi vagoni bestiame vuoti. A Vught muoiono

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da due a tre bambini piccoli al giorno. Una vecchia mi ha chiesto tutta smarrita: «Chissà, chissà se Lei saprebbe spiegarmi perché a noi ebrei tocca soffrire cosi tanto?». Non ho saputo spiegarglielo con esattez­za. Una donna che per giorni e giorni aveva dovuto nutrire il suo bambino di quattro mesi con minestra di cavolo, diceva: « Io ripeto sempre: mio Dio, mio Dio - ma ci sei ancora?».

T ra i prigionieri ho incontrato un ex assistente del professor Scholten presso cui avevo sostenuto un esa­me di diritto processuale, l ’ho riconosciuto a stento per la sua aria smunta, la barba e lo sguardo fisso. Ho anche incontrato il mio internista Schaap, che quando ero ricoverata nel N.-I.Z.19 aveva sostato accanto al mio letto con alcuni dottori, e ignorandomi completamente aveva spiegato ai suoi colleghi : « Ecco una signorina che vuole ritornare a Westerbork a tutti i costi », qua­si che io fossi un caso medico molto singolare. Aveva un ottimo aspetto e l'aria vivace (è qui già da un po' di tempo), e stamattina ha accolto moglie e figli che arrivavano da Vught e sembravano pure in buone condizioni (ditelo a Tide).20

Durante il mio giro m attutino per il campo ho in­contrato molti vecchi amici, anche dei miei genitori: bravi borghesi, che un tempo avevo conosciuto in con­dizioni tranquille e agiate, e che ora ritrovo molto proletarizzati nelle grandi baracche. A volte lo stato in cui si rivedono certe persone fa davvero impressio­ne. È meglio che i miei genitori non vengano qui. Ora mi trovo nella casetta di Jopie, lui è seduto da­vanti a me con indosso un paio di pantaloni da soldato e una sporca giacchetta grigia e vi saluta cordialmen­te. Uno dei suoi migliori amici è morto da poche ore:

19. N.-I.Z. sta per Nederlands-Israèlitisch Ziekenhuis, l’Ospedale Olandese-Israelitico.20. Tide: Henny Tideman, un'amica molto cara di Etty che apparteneva alla cerchia di Spier. A Vught c'era un campo di prigionia nazista.

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era gravemente ammalato di tbc, sua moglie e suo figlio erano stati deportati un po’ di tempo fa e lui non aveva potuto seguirli. Per Jopie quello era uno dei pochi matrimoni riusciti che avesse conosciuto. Al­cuni giorni fa è morto qui un altro suo buon amico.

Oggi pomeriggio cercherò di dormire un poco - ora ho di nuovo un letto per me, qualcuno è partito in li­cenza. Stanotte alle quattro arriva un altro treno da Vught. Nel corso della notte scorsa ho potuto farmi un quadro di questo Vught, è proprio un quadro or­ribile.

Sono contenta di esser ritornata qui. Saluti affettuo­si a ogni passo nel campo. Sono stata da Hedwig Mah- ler che per ora potrà rimanere, e ci ho trovato la direttrice temporanea della scuola di papà;21 mi han­no offerto un piatto di semolino. Poi sono stata da Kor­mann che quasi mi ammazzava dalla gioia, e ho rice­vuto un secondo piatto di semolino. Più tardi sono andata da un altro « residente del campo » : altro se­molino. A quel punto ho ceduto il mio cavolo alla comunità. Andrà tutto bene, credo.

Nel frattempo si è fatto mezzogiorno e mezzo. Ho appena ritirato dalla cucina la mia razione di pane e10 grammi di burro, oltre a una piccola dose di vita­mina C, e Tho trovato proprio commovente.

Ora chiudo questo resoconto confuso. Stasera alle sette vado da Herman B. in ospedale, ieri non ci sono riuscita.

I turni di notte non continueranno così, ci sono sta­ta tirata dentro questa volta. A ogni modo non preoc­cupatevi, me la prendo con più calma che in passato. In questo momento ho il solletico dappertutto mal­grado il lisolo.

Ora devo salutarvi di corsa tutti quanti - troppi per ricordarvi ad uno ad uno. Siete tutti molto buoni.

La prossima volta di più, miei cari. ^21. Il padre di Etty, Louis Hillesum, insegnante di greco e la­tino, era stato preside del liceo di Deventer.

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JL

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18. Presumibilmente a Han Wegerif e altri[Westerbork, 8 giugno 1943]

Martedì mattina, le dieciMiei cari,

non è rimasta molta brughiera dentro al recinto di filo spinato, le baracche diventano sempre più nume­rose. Ne è rimasto un pezzetto in un estremo angolo del campo, ed è lì che sono seduta ora, al sole, sotto uno splendido cielo azzurro e fra alcuni bassi cespugli. Proprio di fronte a me, a pochi metri di distanza, vedo un ’uniforme azzurra e un elmo nella torretta di guar­dia sui pali.

Un ufficiale della gendarmeria raccoglie dei lupini violetti con aria rapita, il fucile gli penzola sulla schie­na. Se guardo a sinistra vedo innalzarsi bianche nu­vole di fumo e sento sbuffare una locomotiva. La gen­te è già stata caricata sui vagoni merci, le porte stanno per chiudersi. In giro c’è molta polizia verde,22 che sta­mattina è sfilata lungo il treno cantando e a passo di marcia, e c’è pure molta gendarmeria olandese. Il to­tale previsto dei partenti non è stato ancora raggiunto.

Poco fa mi sono imbattuta nella mamma dell’orfa­notrofio con un bambino piccolo in braccio: anche lui doveva partire, da solo. Dalle baracche dell’ospe­dale hanno portato via altri malati. Oggi si lavora so­do, ci sono in visita dei pezzi grossi dall’Aia. Fa un effetto molto curioso poter osservare il loro compor­tamento da vicino. Dalle quattro di stamattina ho avu­to di nuovo neonati e bagagli da portare. In quelle ore si potrebbe accumulare malinconia per una vita intera. L’ufficiale amante della natura ha intanto mes­so insieme il suo mazzo violetto, con cui forse farà la corte a una contadinella dei dintorni. La locomotiva

22. La « polizia verde » era un corpo speciale della polizia te­desca che veniva tra l'altro impiegato nei rastrellamenti e nelle deportazioni.

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manda un fischio terribile, tutto il campo trattiene il fiato, partono altri tremila ebrei. In quei vagoni merci giacciono diversi bambini piccoli con la polmonite. A volte è proprio come se ciò che accade non fosse affatto vero. Qui io non sono inquadrata in un ruolo preciso e mi pare che sia la cosa migliore. Vado in giro e trovo il mio lavoro da sola. Stamattina ho parlato per cin­que m inuti con una donna che veniva da Vught, e che in tre m inuti mi ha raccontato le sue ultime vicende. Quanto si può dire in un paio di m inuti così. Siamo arrivate a una porta che non mi era permesso oltre­passare e lei mi ha abbracciata dicendo: « Grazie per l ’aiuto che mi ha dato».

Sono salita un momento su una cassa che si trova fra i cespugli per contare il numero dei vagoni mer­ci, erano trentacinque, preceduti da alcuni vagoni di seconda classe per la scorta. I vagoni merci erano com­pletamente chiusi, ma qua e là mancavano delle assi, e dalle aperture spuntavano mani a salutare, proprio come le mani di chi affoga.

Il cielo è pieno di uccelli, i lupini violetti stanno là così principeschi e così pacifici, su quella cassa si sono sedute a chiacchierare due vecchiette, il sole splende sulla mia faccia e sotto i nostri occhi accade una strage, è tutto così incomprensibile.

Io sto bene.Affettuosamente,

Etty

19. A Maria Tuinzing[Westerbork, metà giugno 1943]

Marietke, scriverai presto a Etty come stai? Sei alle­gra, sei triste, corri di qua e di là, stai tranquillamente a casa? E che dice Ernst, che dice Amsterdam, e papà H an che fa, e Kàthe va a Ietto presto? Io cammino nel

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fango tra le baracche di legno, e allo stesso tempo cam­mino per i corridoi di quella che da sei anni è la mia casa; ora sono seduta a un tavolino disordinato in un piccolo ambiente rumoroso, ma sono anche seduta alla mia cara, disordinata scrivania. Molte persone mi di­cono : « Non vogliamo ricordare niente della vita di prima, altrimenti non saremmo in grado di vivere qui ». Mentre io posso vivere così bene qui proprio perché ricordo perfettamente ogni cosa di «prim a» (per me non è neppure un «prim a»), e intanto la mia vita continua.

Di pomeriggioLa mia anima è in pace, Maria, oggi mi sono state

assegnate quattro baracche di malati, una grande e tre piccole; lì devo controllare se qualcuno ha bisogno che gli siano spediti viveri o bagagli da fuori. La cosa più bella è che ora ho libero accesso a quasi tutto il com­plesso dell’ospedale, e a quasi tutte le ore del giorno.

Più tardiPrendi queste poche parole come vengono, mia pic­

cola Maria, qui non si riesce a scriver molto, le lette­re che ti mando nei miei pensieri sono ben più lunghe di questa.

Io sto bene e sono contenta, in fondo vivo qui pro­prio come a Amsterdam, a volte non mi accorgo nep­pure di essere in un campo - è ben strano che io sia così. E voi tutti mi siete tanto vicini che non mi man­cate neppure. Jopie è un caro compagno. Di sera as­sistiamo al tramonto del sole, che si tuffa nei lupini violetti dietro al filo spinato. E probabilmente ritorne­rò ancora con la prossima licenza. Scrivi presto. Ciaol

Etty

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20. A Milli Ortmann[Westerbork, lunedì 21 giugno 1943]

Cara Milli,23presto vi scriverò più a lungo su questa giornata, la

più nera della mia vita. I miei genitori e Mischa sono straordinari, mi hanno sbalordita. Stamattina i vagoni merci pieni zeppi sono entrati nel campo. Io stavo da una parte, sotto la pioggia. I vagoni merci erano completamente chiusi, ma qua e là in alto erano state tolte delle assi. Da una di quelle strette aperture ho improvvisamente scorto il cappello della mamma e gli occhiali di papà e il magro viso di Mischa. Mi sono messa a gridare e mi hanno vista. Così oggi ripeterò con loro la via crucis che già ho percorso stanotte con i Levie e le loro due figliolette: registrazione, ore e ore di attesa, un ’altra registrazione sotto la pioggia, quarantena. Grazie ai molti amici di qui posso aiutarli un pochino in tanti piccoli problemi. Fra poco li ac­compagnerò nelle grandi baracche, dove ora si è sca­tenato l’inferno. Non credo neppure che ci sarà un letto per tutti, e per gli uomini mancano i materassi. Ma il mio terzetto è ammirevole per il suo coraggio e la sua vivacità e ha persino un forte senso dell’umo­rismo.

Ora le cose pratiche. Il Consiglio Ebraico ritiene indispensabile che alla Zentralstelle tu segua con im­pegno la faccenda di Barneveld per Mischa e la fami­glia (ricordati: io no!).24 Forse puoi ancora fare in

23. Milli Ortmann, ebrea tedesca ma ufficialmente « mezza ebrea », vedova dal 1941 del pittore Theo Ortmann. Dopo la morte del marito si era impegnata ad aiutare altri ebrei in difficoltà.24. Nel castello De Schaffelaar a Barneveld era stato allestito un campo per una privilegiata « élite culturale » di ebrei. Qua­si tutti coloro che vi furono internati sopravvissero alla guerra. Mischa Hillesum, il fratello più giovane di Etty che era stato un enfant prodige ed era diventato uno dei migliori pianisti

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modo che Mengelberg si rivolga personalmente a Rau- ter.

Fine improvvisa della lettera.Etty

21. A Christine van NootenWesterbork [21 giugno 1943]

Lunedì notteChristien,25

sono indescrivibilmente coraggiosi in questo assolu­to inferno. Stamattina presto, la fila dei vagoni merci ha fatto il suo ingresso nel campo fangoso. Io stavo da una parte, e per una stretta apertura in alto, in un vagone, ho scoperto il cappello sgualcito e gli occhiali di mio padre, il cappello della mamma e il magro vi­so di Mischa. E ora li accompagnerò nella loro via crucis, sono riconoscente di esser qui e di poter alle­viare la loro vita in tante piccole cose - sebbene in que­sto momento non ci sia proprio nulla da alleviare. Qui è una totale catastrofe. Nelle ultime ventiquattr’ore il campo è stato inghiottito da grandi ondate di ebrei. Ma devo dire che papà, la mamma e anche Mischa mi hanno sbalordita. È vero che papà è completamen­te indifeso, che in queste ore il suo colletto è diven­tato troppo, troppo largo e che la sua ispida barba

olandesi, poteva contare su un posto a Barneveld: Milli Ort- mann era riuscita ad assicurarglielo per l’intervento del diret­tore d’orchestra Willem Mengelberg; ma Mischa si era rifiutato di accettarlo se i suoi genitori non avessero potuto seguirlo (cfr. anche Jacob Presser, The Destruction of thè Dutch Jews, New York, 1969).25. Christine van Nooten viveva a Deventer, dove insegnava la­tino e greco nel liceo cittadino, e conosceva molto bene il pa­dre di Etty che era stato preside del liceo fino al 29 novem­bre 1940.

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grigia fa tanta pena. Ma stamattina ha impugnato la sua piccola Bibbia mentre aspettavamo per ore e ore nella pioggia, e ha trovato splendide parole nel li­bro di Giosuè. Ora stanno in una delle grandi ba­racche, un magazzino umano stipato al massimo dove per ogni tre persone ci sono due strette cuccette di ferro, nessun materasso per gli uomini, nessuna pos­sibilità di riporre qualcosa da qualche parte, aria pe­sante, bambini che urlano, la peggior miseria imma­ginabile. Farò il possibile per aiutarli a superare que­ste difficoltà, personalmente mi sento molto forte e piena di coraggio anche se a volte tutto diventa buio e incomprensibile.

Ora una cosa pratica. Dobbiamo cercare di tener su papà con il pane, visto che non mangia cibi caldi. Dal­la provincia si possono ancora spedire dei pacchetti- lettera di non più di 2 kg. Prova un po' se ne arriva uno - vero che non trovi sfrontata questa mia esplici­ta richiesta? È la necessità che comanda. Anche il pane di segala è molto benvenuto. Non spedire qui dei ta­gliandi, non possiamo usarli. Mandali invece a Ja- cobs, Retiefstraat 11, specificando che può spedire dei pacchi - 5 kg sono certamente permessi -, preferibil­mente per raccomandata, e al mio indirizzo che è il p iù sicuro : Dr. E. Hillesum, funzionario del Consiglio Ebraico, Campo di Westerbork, Post Hoog-Halen, O, Drenthe. In alto a sinistra: baracca 34. Manda due ri­ghe su una cartolina postale se spedisci qualcosa, così posso controllare se arriva.

Spero di trovare un letto stanotte, ogni millimetro quadrato è preso. La prossima volta scriverò di più. Prega un pochino per noi.

Affettuosamente, Etty

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22. A Christine van Nooten[Westerbork,

timbro postale del 26 giugno 1943]Christine,

papà e io siamo seduti su una specie di tubo di pietra, in un delizioso vento fresco. Davanti a noi, degli uomini con la stella gialla scavano un fosso per impedirci la fuga, e oltre il fosso si tende il filo spi­nato. Alla nostra sinistra, cioè neirangolo del campo, Tufficiale della gendarmeria sta nella sua casetta su alti pali. Siamo neri di sabbia, soffia un vero e proprio scirocco. Ho appena tiràto giù papà dalla sua cuccetta al secondo piano e ora prendiamo un po’ d’aria. Sono molto riconoscente che adesso lui abbia un letto per sé, nella grande baracca sarebbe crollato in una setti­mana. Sì, cercheremo di cavarcela aiutandoci l’un l’al­tro. La mamma è ammirevole, è quasi incomprensi­bile che possa andare in giro ben curata e vivace co­me sempre; stamattina ad esempio ha fatto il grande bucato in un secchio all’aperto, e lo ha steso ad asciu­gare su una cordicella. Mischa è commovente nel suo attaccamento ai genitori, vive nel continuo timore che debbano finire in Polonia e dice che in quel caso li accompagnerà di sicuro. Ma credo che la cosa si si­stemerà, per ora riuscirò certamente a tenerli qui. Sia­mo molto preoccupati per Mischa e temiamo che tra poco non regga più. In fondo è incomprensibile che non impazziscano tutti. Insomma è così.

Ora le cose pratiche. Stamattina è arrivato un pacco molto benvenuto da Simon.26 Da te per ora niente - vuol dire che aspetteremo un pochino. Forse la cosa migliore è che tutto passi per il Consiglio Ebraico. La

26. A Deventer Julius Simon organizzava la spedizione dei pacchi per i suoi concittadini ebrei internati a Westerbork; a volte spediva più di duecento pacchi alla settimana. Nel 1943 fuggì in Svizzera.

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mamma già si rallegra pensando al tuo pàté di gam­beretti. Che ne dici, ora abbiamo perfino dei desideri speciali - la mamma diceva stamattina: « Sarebbe de­lizioso poter mangiare per una volta qualcosa di un po’ piccante ». La signora de Groot sulla Ceintuurbaan le aveva detto a suo tempo che teneva ancora parec­chie cose del genere. Insomma, io registro il tutto da obbediente segretaria.

E sai, qualche rara volta possiamo cambiare i ta­gliandi del pane e del burro allo spaccio del campo, magari potresti spedircene qualcuno se ne avete abba­stanza. Metà Westerbork cerca di convincere papà a accettare piatti caldi, ma lui non c e ancora riuscito.

Ora ci troviamo in mezzo a una tempesta di sabbia- puoi leggere le mie parole? Qui tutto è pazzo e in­comprensibile e disperato e comico al tempo stesso, è un gran guazzabuglio. Anch’io ti scrivo un po’ di tutto alla rinfusa, ma non si può fare altrimenti.

Oh sì, ancora una cosa, è assai probabile che io per­da tra breve la mia posizione privilegiata, perché il Consiglio Ebraico di Westerbork sarà abolito. In quel caso non potrò più scrivere a piacere, ma avrò il per­messo di scrivere una volta ogni due settimane; quindi continuerai comunque a ricevere nostre notizie. Ora dobbiamo andarcene da qui, altrimenti ci viene la tisi galoppante. Speriamo di poterti poi raccontare tutto a voce, lo speriamo davvero. E, sì, prega un pochino per noi.

E grazie di tutto.Tante cose care.

Etty[sulla busta]

Il tuo pacchetto è arrivato ora, dopo che la lettera era stata chiusa.

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23. A Han Wegerif e altri[Frammento. Westerbork,

dopo il 26 giugno 1943]E così, miei cari, rieccomi per un pochino qui. La

lettera che avevo cominciato si trova sotto il mio sacco a pelo a scacchi arancioni, ora mi trovo in un altro an­golo del campo e continuo la mia chiacchierata su un foglietto di carta trovato per caso. Sono appena stata dal mio papà che sta vivendo momenti storici : ha man­giato un piatto di cavolo e stamattina ha persino be­vuto del latte - mentre aveva sempre giurato che p iu t­tosto che bere latte sarebbe andato in Polonia. Nella cuccetta accanto alla sua dorme un russo robusto, un angelo che gli fa da guida a ogni movimento malde­stro, e che di notte si mette a fischiare se lui russa trop­po forte. Pare che quattrocento persone ricoverate in ospedale debbano partire con il prossimo convoglio. Attraversare quelle baracche - soprattutto quella che ospita molte vecchiette - è una vera disperazione. Ognuno ti si aggrappa supplicando: «Vero che non dovrò partire?», oppure: «Di qui non ci porteranno certo via »; e si sente sempre lo stesso ritornello: « Non potrebbe far qualcosa per me?». Ieri una donnetta decrepita, magrissima e ammalata mi ha chiesto con molta ingenuità: «Crede che in Polonia ci sia assi­stenza medica? ». In un caso simile preferisco scappar via. È quasi incomprensibile che chi ha ormai tutta la vita dietro di sé sia così attaccato a quel povero pezzet­to di carcassa che gli è rimasto. Ma tutti vogliono veder tornare la pace e ritrovare i figli e la famiglia, e an­che questo si può ben capire.

Stamattina, proprio mentre stavo per calare a terra dal terzo cielo, è arrivata su Ann e-Marie27 che col suo27. Anne-Marie van den Bergh-Riess era nata a Berlino nel 1903. Giornalista a Parigi, aveva collaborato con lo scrittore so­vietico Il’ja Erenburg che era assai ammirato da Etty. Prima della guerra era stata sposata per un certo tempo con Herman

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berretto da montagna e i suoi occhiali contro la pol­vere pareva un’aviatrice. È incaricata del servizio in­terno nella baracca in cui io stavo un anno fa. È in ottime condizioni, ditelo soprattutto a Swiep,28 Dorme e mangia bene, non ha un lavoro troppo gravoso, è so­la - e questo conta molto, lo so per mia esperienza. Le preoccupazioni per i propri cari consumano più di qualsiasi altra cosa. Oggi non ho ancora visto Mischa e neppure la mamma; Mischa ieri era malato ed è sta­to « a letto » tutto il giorno e la mamma non aveva lo stomaco a posto. Devo sempre vincere una forte resi­stenza interiore, una sorta di paura, per entrare nella loro baracca, dove si è subito assaliti dalle acide e am­morbanti esalazioni umane. Sam de W olff29 si trova nella stessa baracca di Mischa, di tanto in tanto lo in­contro mentre si arrabatta fra le cuccette di ferro.

In questi giorni aspettiamo un convoglio dallo Hol- landse Schouwburg, di cui si dice che proseguirà diret­tamente per la Polonia.30 Di Jaap 31 sappiamo solo che si trova nello Schouwburg, n ient’altro. Farò di tutto per trattenerlo qui, ma non si può forzare nulla e ognuno deve prendere su di sé il destino che gli viene assegnato, non può essere altrimenti.

La donna che fa pulizia da Kormann mi ha appena detto: « Lei ha sempre un'aria cosi raggiante». Io mi sento come sempre e dovunque, certo che a volte si è un po' stanchi e fiacchi e con la testa che gira per le

van den Bergh, giornalista e noto poeta olandese. Deportata a Bergen-Belsen, fu liberata dai russi a Tròbitz.28. A Swiep van Wermeskerken Etty aveva dato lezioni di russo.29. Sam de Wolff (1878-1960), economista e uomo politico so­cialista. Nel 1944 da Bergen-Belsen, dove nel frattempo era stato deportato, aveva potuto emigrare in Palestina; Tanno do­po era ritornato in Olanda.30. Lo Hollandse Schouwburg (il Teatro Olandese) venne chiu­so nel 1942 e trasformato in centro di raccolta degli ebrei che da Amsterdam dovevano essere deportati a Westerbork.31. Jaap Hillesum, l'altro fratello minore di Etty, che era medico.

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preoccupazioni, ma sono le preoccupazioni che hanno tutti nel campo, e perché mai non si dovrebbe sop­portarle insieme e condividerle onestamente.

Qui mi capitano molte cose buone. Mechanicus, con cui passeggio spesso sulla stretta e arida striscia di terra tra fosso e filo spinato, mi legge ogni giorno ciò che ha scritto.32 In questo campo si stringono ami­cizie che basterebbero per più di una vita. Ogni gior­no trovo ancora il tempo per una breve conversazio­ne filosofica con Weinreb,33 un uomo che è un mondo a sé, con una particolare atmosfera che si mantiene in qualsiasi circostanza.

È un peccato che io abbia così poco tempo per scri­vere, avrei così tanto da raccontare, ve lo terrò in ser­bo per dopo - sì, per dopo.

Ma ora dobbiamo dedicarci al cavolo, un piatto as­sai amato nel campo.

Un po’ più tardiQui si cucina bene, non c’è che dire. Miei cari, vor­

rei tanto sapere di voi, perché non ricevo notizie da Maria? Maria, è vero che Ernst ci farà una visita? Così mi ha detto Renata.34 Ogni tanto m ’imbatto nella ma­dre di Paul su questo o quel sentiero fangoso e chiac­chieriamo qualche minuto. Manca il tempo per fare delle vere e proprie «visite», e poi manca un posto tranquillo dove si possa star seduti insieme, si discorre mentre ci si passa accanto, all’aperto. In fondo si cam­mina tutto il giorno.

Oh sì, ancora una cosa, dimenticavo proprio la co­

32. Philip Mechanicus, giornalista, tenne a Westerbork un dia­rio che fu pubblicato nel 1964 con il titolo: In depót (seconda edizione, Amsterdam, 1978). Mechanicus era diventato un buon amico di Etty nel campo.33. Friedrich Weinreb, figura molto discussa per l'ambiguo com­portamento tenuto in quegli anni, ricorda Etty nelle sue me­morie Collaboratie en Verzet, Amsterdam, 1969.34. Renata Laqueur, figlia del chimico Ernst Laqueur.

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sa che preoccupa tutto il Consiglio Ebraico di Wester­bork. Grande agitazione, le ultime notizie sono que­ste (ma cambieranno ancora più volte): sessanta fra noi possono rimanere qui, gli altri sessanta devono ri­tornare a Amsterdam dove saranno « bloccati » con un provvedimento speciale. Visto che i miei genitori si trovano qui, appartengo naturalmente al numero di coloro che vogliono rimanere a Westerbork a tutti i costi. La maggior parte di noi si trova in questa si­tuazione, quasi tutti hanno qui dei parenti che sono in grado di proteggere un pochino con la loro pre­senza, fin tanto che sarà possibile. E ora si verifica questo paradosso : mentre chiunque altro darebbe tut­to per lasciare Westerbork, una parte di noi ne sarà per così dire buttata fuori. Gli animi sono agitatissimi. Discussioni, computi, calcoli delle probabilità sono al­l’ordine del giorno. Io preferisco non immischiarme­ne. T u tto quel parlare costa multa energia, e poi le cose vanno a modo loro. Le vostre care orecchie non ci crederanno, ma io sono la persona più silenziosa del Consiglio Ebraico, proprio così. La gente si smarrisce dietro ai mille piccoli dettagli che qui ti vengono quo­tidianamente addosso, e in questi dettagli si perde e annega. Così, non tiene più d ’occhio le grandi linee, smarrisce la rotta e trova assurda la vita. Le poche co­se grandi che contano devono esser tenute d’occhio, il resto si può tranquillamente lasciar cadere. E quelle poche cose grandi si trovano dappertutto, dobbiamo riscoprirle ogni volta in noi stessi per poterci rinno­vare alla loro sorgente. E malgrado tutto si approda sempre alla stessa conclusione: la vita è pur buona, non sarà colpa di Dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra. Questa è la mia convinzione, an­che ora, anche se sarò spedita in Polonia con tutta la famiglia.

E ora vado in cerca della mamma e di Mischa. Vi saluto, a più tardi.

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Ultima tappaSono seduta sulla mia valigia nella nostra piccola

cucina, di là c’è tanta di quella gente che non ci cadreb­be uno spillo. Solo alcune cose pratiche ... Intermezzo: è comparso un simpatico signore che era stato ana­lizzato da Spier, si è seduto su u n ’altra valigia ed ec­coci immersi nella chirologia.35 T ra l ’altro, qui incon­tro molti pazienti e allievi di Spier e tutti diciamo: che fortuna che lui non viva più.

Ora le cose pratiche. Includo ancora qualche ta­gliando per il pane. A Frans dispiacerebbe molto se gli telefonaste di spedire dell’altro Sanovite? Frans è ancora lì? La mamma non mangia quasi niente, dige­risce malissimo il pane di qui e mi piacerebbe darle del Sanovite ogni tanto. Spero solo di non seccarvi troppo.

E spero proprio che i tagliandi per il sapone non siano ancora scaduti, mi sono sempre dimenticata di mandarli. Del bucato mi occupo io stessa, lavo in un secchio davanti a casa e poi appendiamo i panni a una cordicella - è un sistema un po’ primitivo, ma va.

Questa lettera è anche per Mien Kuyper,36 oggi non riesco più a scriverle. Ditele per favore che finora (og­gi è domenica) i suoi pacchi non sono arrivati. Ho ricevuto invece le sue lettere, quindi lei sa l’indirizzo; sarebbe un peccato se qualche cosa si fosse smarrita, lei aveva accennato a due spedizioni. Chiedetele per favore se può mandare, ad esempio, pomodori e altre cose rinfrescanti; qui imperversa una continua tempe­sta di sabbia che ci riempie di polvere e ci prosciuga completamente, per cui si ha ancora più bisogno di cose rinfrescanti che di pane. Io stessa non ne sento quella grande necessità. È un fatto ben singolare: da quando ho visto quel convoglio di gente presa con35. Cfr., sópra, la nota 3.36. Mien Kuyper organizzava concerti e piccole serate musicali nella sua casa di Amsterdam; Mischa Hillesum vi aveva parte­cipato spesso.

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i rastrellamenti non soffro più né fame né sonno né altro e mi sento benissimo, l’attenzione si concentra talmente sul prossimo che ci si dimentica di se stessi e anche questo va bene. Tram ite Mien fate avere i nostri saluti affettuosi a Milli Ortmann, appena pos­sibile scriverò anche a lei. C’è da sperare che Mischa possa togliersi di qui, alla lunga non starebbe bene, ma con lui non si può far niente finché i suoi genitori non saranno al sicuro. Ora chiudo questo resoconto che cava gli occhi. Ricordatemi a tutti coloro che mi sono tanto cari, sapete bene di chi si tratta.

Vi saluto!Etty

Potreste mandarmi dei francobolli, la prossima vol­ta?

24. A M illi Ortmann[Westerbork] 29 giugno 1943

Martedì pomeriggioMillietje carissima,

prima di tutto le cose pratiche più urgenti. Il nostro comandante deve ricevere dalla Zentralstelle l’ordine ufficiale di trattenere qui i miei genitori e Mischa. Al­trimenti sarà tutto inutile.

Siamo sopravvissuti a questa notte di deportazione, Mischa è stato temporaneamente «trattenuto», e ab­biamo potuto tener qui i miei genitori perché i loro nomi sono sulla « lista dei genitori » degli addetti al campo. Ma questa lista non ha molto peso e la prossi­ma settimana ricomincerà la battaglia per loro. Se i treni continueranno a partire con questo ritmo non sarò in grado di tenerli qui, a meno che non si inter­venga per vie diverse.

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Stanotte sono arrivati quelli dello Hollandse Schouw- burg, ho fatto la guardia tutto il tempo perché aspet­tavo Jaap: ma non s’è visto, con nostra grandissima gioia. Ci sono arrivate delle voci secondo cui sarebbe stato trattenuto per la sua appartenenza alla lista Me- yer (che lista è mai questa, per amor del cielo?). Alle cinque di mattina sono riuscita a entrare neirospeda­le per controllare che non portassero disgraziatamente via papà, e per dargli la lieta notizia di Jaap. Gli in­fermieri vestivano molti malati che dovevano partire. La lunga fila di malandati vagoni merci aveva già a- spettato tutto il giorno: vagoni bestiame compieta- mente vuoti con un barile nel mezzo. Per i malati c’erano materassi di carta sul pavimento.

Dopo esser stata da papà ho attraversato tutto il campo per arrivare alla grande baracca della mam­ma, dove quasi tutti si preparavano a partire. Erano dignitosi, tranquilli e disciplinati. Ho visto partire molti buoni amici. Poco fa sono ripassata un momen­to dalla mamma, che giaceva piuttosto esausta sul suo stretto lettuccio militare di ferro. Dopo una notte di deportazione come questa si è tutti malati e distrutti. Segue un breve momento di riposo, poi si vive di nuo­vo aspettando la prossima deportazione. Spero tanto in qualche notizia dalla Zentralstelle. I miei genitori si comportano davvero in modo grande: nel loro cuo­re si preparano per la Polonia, hanno poche pretese e non si lamentano, sono molto fiera di loro. Mischa è sempre lo stesso: è un po’ sporco, a volte molto agi­tato, e arriva in ritardo a ogni appello; ma il suo splendido senso deH’umorismo non lo ha abbandonato nemmeno qui. Ho ricevuto la tua lettera, e anche le copie e la lettera di Grete e Cor. Siete tutti così cari. Molte grazie per i pacchi; quanto traffico vi diamo, ogni tanto mi pesa. E in ogni caso : arrivederci. Affet­tuosamente,

. Etty

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25. A Han Wegerif e altriWesterbork [29 giugno 1943]

Mio piccolo papà Han, Kàthe, Maria, Hans,eccovi un resoconto telegrafico buttato giù alla svel­

ta. Stanotte ho fatto la posta per intercettare Jaap. Non c’era, e siamo stati molto contenti. Stamattina pre­sto è partito un altro grande convoglio di deportati. Alle cinque sono ancora passata in ospedale per con­trollare che disgraziatamente non portassero via papà, succedono spesso di questi errori. Poi sono passata dal­la mamma nella grande baracca. Era distesa sul suo stretto lettuccio militare e si è rallegrata per le notizie su Jaap. I miei genitori prendono le cose nobilmente, sono molto fiera di loro. Non temono nemmeno più la Polonia - così dicono. Spero di tenerli qui, ma niente è sicuro in questo luogo. In pochi giorni si è trascinati molto lontano dalla propria base di un tem­po e nuove, grandi forze entrano in noi - anche per ac­cettare la propria fine si ha bisogno di forza interiore.

Da Leguyt ho ricevuto una lettera che mi ha molto commossa, anche lui è fra coloro per i quali si vor­rebbe proprio riuscire a farcela per rivederli in futu­ro. Mi ha mandato questa frase del Dr. Korff: « Eppu­re Dio è amore». Sottoscrivo pienamente quest’affer­mazione, che vale ora più che mai. Il signor Leguyt scrive tra l ’altro: «M i stupirei se Lei avesse tanta elasticità spirituale da poter ancora prestare più di mezzo orecchio a chi è rimasto fuori». Io ho conser­vato tu tt’e due le mie orecchie e tutta la mia atten­zione per voi, continuo a vivere in vostra compagnia e di tanto in tanto mi riposo presso di voi dai troppi pesi che mi tocca portare. Per voi digerire i fatti di qui è più difficile che per noi. Mi accorgo che in ogni situazione, anche nella più difficile, l’uomo sviluppa degli organi nuovi grazie a cui può continuare a vi­vere. Su questo punto Dio è abbastanza misericordioso.

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E per il resto : diversi suicidi stanotte prima che par­tisse il treno, con rasoi, ecc.

Stamattina, mentre mi lavavo insieme con una col­lega, le ho detto dal profondo del cuore pressappoco così: «I domini dell’anima e dello spirito sono tanto vasti e infiniti che un po’ di disagio fisico e di dolore non ha troppa importanza, io non ho la sensazione di essere privata della mia libertà e non c’è nessuno che mi possa fare veramente del male ».

Sì, miei cari, sono in uno strano stato di addolora­ta contentezza. Se dovessi scrivervi una lettera dispe­rata non prendetela troppo sul serio, vorrà dire che sarà stato solo un momento, si può soffrire ma non per questo si deve esser disperati.

E ora mi ri tuffo in basso e vado in ospedale, con un barattolino sotto il braccio per il mio caro papà e la mia cartella da impiegata sotto l’altro braccio. Trove­rò molti letti vuoti dopo la partenza di questo treno. State in gamba, miei cari! Come sta il cugino Wege- rif? Kathe, sei brava? E il signor Wegerif non è troppo silenzioso? La mamma di Hannes non è andata a The- resienstadt. Un saluto a Adri da lise B. Ciao!

Etty

26. A Christine van NootenWesterbork, 1° luglio 1943

Christien cara,mi prendo di soppiatto u n ’oretta al sole per manda­

re qualche scarabocchio ai vari amici. È una giornata radiosa e d 'un tratto la vita appare così diversa. Sono tanto contenta che il mio lavoro si svolga nell’ambito dell’ospedale, così posso andare da papà quando vo­glio. E se non posso entrare nella sua baracca, chiac­chiero un poco con lui attraverso la finestra aperta che si trova proprio davanti al suo letto. Gli ho appena

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portato le tue lettere ed era molto contento. Ho qui la letterina che hai scritto a me. Gli occhiali contro la polvere mi hanno strappato un vero urlo di gioia: al­trimenti i nostri occhi si rovinano, ed è bello che tu li abbia spediti di tua iniziativa. Trovo commoven­te come ti prendi cura di noi. Voi che state fuori avre­te già abbastanza preoccupazioni, a cui ora vi tocca ag­giungere tutte quelle per noi. La tua lettera a Mischa era molto bella, la tiene papà che gliela darà più tardi, quando Mischa passerà da lui.

(Mezz'ora dopo, Breve intermezzo pittoresco: un mio buon amico di Amsterdam, giovane musicista di talento, è passato di qui con una carriola piena di sab­bia e vestito di una tuta sudicia. T ra il filo spinato e le cordicelle su cui si mette ad asciugare la biancheria, ci siamo lasciati trascinare da grandi considerazioni fi­losofiche su meraviglie e misteri di questa esistenza ter­rena. Speriamo che di qui non passino più troppi ami­ci con le loro carriole, perché credo di aver ancora pa­recchie cose da dirti).

Presto sarà finita con tutte queste lettere. Sono già molto riconoscente di poter rimanere qui. T i ho rac­contato che dei 120 funzionari del Consiglio Ebraico la metà deve andare a casa? Per fortuna non apparten­go a quest’ultimo gruppo, e posso continuare a proteg­gere il più possibile i miei genitori. Così ci sono sem­pre nuovi motivi per esser contenti. A Amsterdam si lavora ancora molto per Barneveld. Spero e prego che la cosa si sistemi. Io stessa andrei dieci volte più vo­lentieri in Polonia o in qualsiasi altro luogo, se prima riuscissi a toglier di qui i miei cari. Insomma, dovre­mo aver pazienza e in fondo ce l'abbiamo già.

Quando non potrò più scrivere, potrò ancora spedi­re una cartolina postale all'arrivo di un pacco, con le parole « pacco ricevuto » e niente di più. Se dunque riceverai delle insulse cartoline simili, saprai che non si poteva fare diversamente. E poi : ci è permesso spe­dire dei telegrammi al Consiglio Ebraico per richiede­

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re cose di cui abbiamo bisogno, anche in questo caso senza ulteriori commenti.

Possiamo solo telegrafare: « Viveri », senza specifica­re. E allora stabiliamo ad esempio così: libro = burro; quaderno = marmellata; inchiostro = pane di segala; stringhe = frutta. (Se dovessi spedirti dei telegrammi simili, ti metti in contatto con Simon?).

Sai, qui pronunciamo tranquillamente molte «pa­role im portanti». Io dico con gran disinvoltura: frut­ta, pomodori e cose simili. Eppure non so se esistano ancora là fuori. Quindi non prenderla come u n ’indi­screzione se ti facciamo delle richieste impossibili, ma attribuiscile alla nostra ignoranza. Papà per esempio ha un grandissimo bisogno di frutta e cose fresche. Qui infatti ci si prosciuga per le continue tempeste di sab­bia. L ’acqua non è troppo salubre, si sconsiglia di berne molta per via delle «malattie del campo », e le altre bevande sono una porcheria. Credo che la mam­ma abbia lasciato ogni sorta di bibite nella casa di Deventer, ma farle arrivare qui mi sembra una fatica del diavolo. Trovo che vi diamo molto da fare, però vai la pena di mantenerci reciprocamente in vita. Chri­stine, pensa solo se verrà davvero il momento in cui potremo raccontarci ogni cosa. E se sopravviveremo, saremo ancora riconoscenti di esserci potuti trovare su uno dei molti fronti europei a condividere il carico di questo grande dolore. Ieri l’uomo che abitualmente rade papà gli ha detto : « Lei è una persona che in ogni circostanza sa fare qualcosa della propria vita». Papà è veramente grande, e ha una bella rassegnazio­ne. Ieri mattina tutti i letti della sua baracca erano sta­ti portati fuori, in mezzo a un polverone di sabbia che si alzava fra due grandi e basse baracche dell’ospedale. Sembrava proprio un sanatorio all’aperto. Passando di lì ho sentito risuonare il simpatico riso di papà. È circondato da persone gentili, che cercano tutte le pic­cole cose che lui smarrisce ogni giorno con una sorta di grandezza e indifferenza. C’è ad esempio il giorna­lista Philip Mechanicus, una persona che ha stile e

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carattere e che va regolarmente a trovarlo. Papà ha anche ritrovato molti vecchi compagni di studi. Legge la Bibbia con grande impegno e interesse, e paragona fra loro testi francesi, greci e olandesi. Gli ho portato gli scritti di Meister Eckhart e qualche altro libro che avevo qui. Mangia pochino, e così diamo via mol­to pane; lo facciamo con gran piacere perché molte per­sone cominciano a tirare la cinghia, ora che il mondo esterno - da cui abitualmente ricevevano provviste - si è tanto ristretto. Ormai i più hanno i loro parenti e amici qui a Westerbork.

Devo lasciare questo posticino al sole e al vento - sono seduta su un pozzo. Passerò davanti alla finestra di papà, e poi ritornerò alla mia baracca per vedere che cosa passa il convento.

Siamo così felici che Jaap non sia ancora qui, sei stata gentile a passare da lui. Quando pochi giorni fa è arrivato un convoglio dallo H. Schóuwburg ho ve­gliato tutta la notte per non mancarlo, ma grazie al cielo avrei potuto farne a meno.

Continuerò più tardi e ti spedirò la lettera solo quando il pacco che hai annunciato sarà qui. Ciao, a tra poco.

Di pomeriggio, le cinque e mezzoSe tu sapessi che cosa significa, qui, poter stare un

po’ sola in una cameretta! E ora mi trovo in questa situazione e finalmente rispondo alla tua lettera. Sai come potresti rendermi felice e raggiante, se sei co­m unque disposta ad accogliere richieste speciali? Con dei fazzoletti di carta. Qui infatti si è cronicamente raf­freddati, per il clima che non vuol mettersi a posto: ci si abitua, ma è più grave per la mancanza di fazzo­letti che per il raffreddore. Quando si fa il bucato la biancheria diventa più sporca che pulita. In fondo il problema igienico è il più disperato. Papà si lamenta sempre di essere il peggior zingaro di Westerbork, ma non si accorge che gli altri si trovano nelle stesse condi­

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zioni. Da voi si possono ancora trovare degli assorbenti igienici? E dei semplici rotolini di bende? Un eczema ostinato, che avevo già avuto per qualche anno alla ma­no destra, si è rifatto vivo con mio grande dispiacere. Ora tengo questa mano fasciata per la gran polvere. T i chiedo tutte queste cose con il cuore grosso perché non sarà così facile ottenerle, vero? E poi, sì, se lag­giù c’è ancora un nostro vasetto di marmellata farà bene, col tempo, a viaggiare fin qui. Trovo che ora non si dovrebbero avere troppi desideri speciali. Ma sai, è proprio questo il difficile: per me stessa non avrei bisogno di niente, mentre capovolgerei il mon­do per trovar qualcosa che alleggerisca un pochino la vita dei miei genitori. Vedi un po’ tu. T i auguriamo tutti una piacevolissima vacanza. Domani papà avrà il permesso di scrivere e credo* che ne approfitterà per scrivere a te. Una lettera del genere ci mette una set­timana ad arrivare perché passa per una censura spe­ciale. Perdonami la confusione di tutte queste notizie, è colpa delle circostanze. Spero di scriverti ancora spes­so, ma sembra che tra breve sarà finita. La carta da let­tere non è ancora necessaria. Tante cose care, e graziedi tutto. _Etty

P.S. da parte della mamma: col tempo potresti for­se m etterti in contatto con il fornaio Gantvoort - indi­rizzo privato: presso Lansen, Sweelinckstr. 23. Anche lui aveva detto che voleva cuocere o preparare qual­che cosa per noi. Scusami ti prego, ma proprio non è per me.

P.S. da parte della mamma: in questo mondo esisto­no ancora conserve o salsicce o cose simili? Non preoc­cuparti per le finanze. Si possono ancora trovare delle uova?

Quando avrò ricevuto il tuo pacco ti manderò due righe su una cartolina postale, ora spedisco questa let­tera.

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27. A Johanna e Klaus Smelik e altri3 luglio 1943

WesterborkJopie, Klaas,37 cari amici,

dalla mia cuccetta, che è la terza in alto, voglio pre­sto scatenare una vera orgia di lettere, tra pochi gior­n i verrà messo un lim ite a tutto il nostro scrivere, io diventerò ufficialmente « residente nel campo » e potrò spedire solo una lettera ogni due settimane e dovrò consegnarla aperta. E ci sono ancora alcune coserelle d i cui voglio parlare con voi. Ho davvero scritto una lettera così scoraggiata? Quasi non riesco a crederci. È vero che ci sono dei momenti in cui uno crede di non poter proprio andare avanti. Ma si va poi sempre avanti, anche questo si impara col tempo - però il paesaggio che abbiamo intorno appare improvvisa­mente mutato, il cielo diventa basso e nero, il nostro modo di sentire la vita subisce dei grandi mutamenti e il nostro cuore diventa completamente grigio e mille­nario. Ma non è sempre così. Un essere umano è una cosa ben singolare. La miseria che regna qui è davvero indescrivibile. Nelle grandi baracche si vive come topi in una fogna. Si vedono languire molti bambini. Ma si vedono anche molti bambini sani. Una notte del­la settimana scorsa è transitato qui un convoglio di prigionieri. Visi diafani e pallidi come la cera. Non ho mai visto tanta stanchezza e sfinimento su un vol­to. A Westerbork dovevano passare «attraverso la chiusa » : registrazione e ancora registrazione, perqui­

37. Klaas Smelik padre, giornalista, scrittore e militante comu­nista, aveva conosciuto Etty a Deventer nel 1932 e più tardi era stato per un breve periodo suo amante. Jopie è il vezzeggiativo di Johanna Smelik, figlia di Klaas e buona amica di Etty (da non confondersi con Jopie Vleeschhouwer, sul quale si veda, sopra, la nota 6).

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sizione da parte di allampanati N.-S.B.,38 quarantena, una piccola via crucis di ore e ore. Alla mattina presto sono stati ammassati in vagoni merci vuoti. Il loro treno è stato ancora sigillato con tavole di legno qui in Olanda: altro ritardo. Poi tre giorni di viag­gio a est. Materassi di carta per terra, per i malati. Per gli altri, vagoni completamente spogli con un ba­rile nel mezzo e circa settanta persone in un vagone chiuso. Ci si può portare solo un tascapane. Mi chie­do quanti di loro arriveranno vivi. E i miei genitori si preparano a un viaggio simile, a meno che Barne- veld non diventi inaspettatamente una possibilità con­creta. Poco tempo fa ho passeggiato un po’ con papà nel deserto sabbioso e polveroso, è infinitamente caro e ha una bella rassegnazione. Diceva con molta grazia e con molta calma, quasi di sfuggita: « In fondo vor­rei andare in Polonia il p iù presto possibile, così avrò finito prima e sarò morto in tre giorni, non ha più senso continuare questa esistenza disumana. E perché poi quel che tocca a migliaia di altri uomini non po­trebbe toccare anche a me?». Più tardi abbiamo riso sul paesaggio intonato alla nostra situazione: a volte è proprio come un deserto, malgrado i fiori violetti dei lupini e delle corone, e certi uccelli graziosi che somigliano a gabbiani. «Gli ebrei nel deserto: è un paesaggio che conosciamo bene». E così, un piccolo papà tanto amabile che a volte perde la speranza può pesare parecchio. Ma sono solo stati d'animo. Può es­sere anche diverso, e allora ridiamo insieme e ci me­ravigliamo di tante cose. Incontriamo molti parenti che non abbiamo visto da anni - giuristi, un biblio­tecario, ecc., che spingono carriole piene di sabbia e indossano tute goffe e malconce -, ci guardiamo un

38. N.-S.B.: National-socialistische Beweging, il partito nazista olandese. Nel linguaggio dei deportati, « passare attraverso la chiusa » significava passare per la trafila delle formalità che precedevano una deportazione.

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momento e non diciamo molto. Un giovane e triste ufficiale della gendarmeria mi ha detto una notte in cui doveva partire uno di quei convogli : in una notte simile io perdo due chili e mezzo e non devo far altro che sentire, vedere e tacere. Per lo stesso motivo non scrivo molto neanch’io. Ma ho perso il filo. Vo­levo solo dire questo: la miseria che c’è qui è vera­mente terribile - eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce - non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare -, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo com­pletamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore do­vremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo an­che il diritto di dire la nostra parola a guerra finita. Forse io sono una donna ambiziosa: vorrei dire an­ch’io una piccola parolina.

Parli di suicidio e di madri e figli. Certo che posso capire queste cose, ma trovo che è un argomento mal­sano. C’è un limite a tutte le sofferenze, forse a un esse­re umano non è dato da sopportare più di quanto non possa - oltrepassato quel limite, muore da sé. Ogni tanto qui muore qualcuno perché il suo spirito è a pezzi e non riesce più a capire, in genere sono per­sone giovani. Le persone anziane sono piantate in un terreno più solido e accettano il loro destino con di­gnità e rassegnazione. Sì, qui si vede una gran varietà di persone e si può osservare il loro atteggiamento ver­so le questioni più ardue, le questioni ultime.

Proverò a descrivervi come mi sento, ma non so se questa metafora è giusta. Quando un ragno tesse la sua tela, non lancia forse i fili principali davanti a sé

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e ci si arrampica poi sopra? La strada principale della mia vita è tracciata per un lungo tratto davanti a me e arriva già in un altro mondo. È proprio come se tu t­te le cose che succedono e che succederanno qui siano già, in qualche modo, date per scontate dentro di me, le ho già vissute e assorbite e già partecipo alla costru­zione di una società futura. La vita qui non consuma troppo le mie forze più profonde - fisicamente si va forse un po' giù e spesso si è immensamente tristi, ma il nostro nucleo interiore diventa sempre più forte. Vorrei che fosse così anche per voi e per tutti i miei amici, è necessario, dobbiamo ancora condividere mol­te esperienze e molto lavoro tutti insieme. Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia se ne avete già uno dentro di voi, e per favore non rattri­statevi né disperatevi per me, non c’è motivo.

I Levie39 hanno delle difficoltà, ma appartengono anche loro a quel genere di persone che se la cavano, e che hanno molte riserve interiori malgrado la loro debole costituzione. I bambini sono a volte molto spor­chi, l'igiene è il problema più grave qui. U n’altra vol­ta vi scriverò di loro. Vi accludo due righe che avevo cominciato per papà e mamma ma che non ho più avuto bisogno di spedire, forse ci troverete qualcosa che v’interessa.

Avrei ancora un desiderio, se non sono indiscreta: un cuscino, per esempio un vecchio cuscino di un di­vano, questa paglia è proprio un po’ dura alla lunga. Ma dalla provincia si possono solo spedire dei pacchet­ti formato lettera di non più di due chili, forse un cuscino pesa di più? Forse, se passate da papà Han a Amsterdam - siategli molto vicini vi prego, e portate­gli anche questa lettera - potreste spedirlo da là? Per

39. Liesl e Werner Levie erano buoni amici di Etty a Amster­dam (cfr. il Diario di Etty, cit., passim). Werner, un direttore teatrale che aveva dovuto lasciare la Germania, mori negli ul­timi giorni della guerra. Liesl e le due figlie sopravvissero e emigrarono in Israele.

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il resto, il mio unico desiderio è che stiate bene e che siate lieti, scrivetemi ogni tanto due righe innocenti.

Con molto, molto affetto Etty

28. A Christine van Nooten[Westerbork. Cartolina non datata, tim bro postale del 5 luglio 1943]

Christien carissima,i nostri occhi sono già protetti dalla tua scelta colle­

zione di occhiali contro la polvere, le altre buone co­se terrene^ci sono arrivate anch’esse, i biscotti erano straordinari, ne tengo una parte in un barattolino e con un paio al giorno potrò rallegrare papà, è così bel­lo portargli di tanto in tanto qualche ghiottoneria. Se ne hai l’occasione, di' a Hansje Lansen che papà non può risponderle. Aveva scritto una letterina commo­vente che è stata molto apprezzata, faglielo sapere. Buon soggiorno a Groningen.

Presto ti scriverò di più.Ciaol

Etty

29. A Han Wegerif e altriWesterbork, 5 luglio [1943]

Voglio provare a tirar fuori per incanto una lettera, se domani o dopodomani non potrò più scrivere mi rincrescerà di non averlo fatto ora. È un giorno pe­sante. Domattina parte un treno di deportati. Ieri sera ho saputo che i miei genitori erano stati messi sulla lista, Herman B. me l’ha sussurrato airorecchio

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proprio mentre stavo seduta a chiacchierare molto piacevolmente sulla sponda del letto di papà, che era del tutto ignaro. Non ho detto niente e mi sono su­bito rivolta ai vari organi competenti. Ora sembra che la lista dei genitori sia abbastanza sicura per questa volta, ma la cosa non è certa fino all’ultimo minuto e dunque bisogna tener tutto d’occhio nel modo mi­gliore. Stanotte arriverà un altro convoglio da Am­sterdam e sarò comunque in piedi. Anche Mechani- cus, con cui ho stretto una forte amicizia in questo periodo, è stato messo sulla lista dei deportati e ten­tiamo ancora di tutto. W einreb è stato portato via già da un po’ di tempo, alcuni pezzi grossi lo hanno per­sonalmente condotto in macchina all'Aia. Qui non ci si può affezionare troppo alle persone.

Stamattina ho lavorato nella baracca di punizione dove le persone sono sottoposte a sorveglianza specia­le, e ho portato le notizie dei reclusi ai loro conoscenti nel campo. Ora sono appena ripassata da papà, che era coricato e leggeva un romanzetto francese in uno stato d ’animo di relativa contentezza, e non sa che il suo nome dev’essere ancora tolto dalla lista. Il più duro lavoro nel campo è preferibile a queste tensioni ogni settimana. Una volta non ne risentivo, perché per me stessa avevo già accettato di andare in Polonia; ma questo vivere in uno stato di continua paura per i pro­pri cari, sapendo con certezza che vanno incontro a u n ’interminabile via crucis - rispetto alla quale la vita di qui è ancora un idillio -, diventa alla lunga insop­portabile. Ogni tanto mi viene voglia di preparare di nascosto il mio zaino e di salire su uno di quei treni di deportati che vanno all’Est, ma una persona non de­ve neppure cercare di rendersi la vita troppo facile.

Martedì mattinaOra sono le dieci di mattina, e mi trovo nel locale

dove lavoriamo che è vuoto e meravigliosamente tran­quillo, quasi tutti i miei colleghi dormono nelle loro

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baracche. Alcuni ragazzi dai visi malinconici sono ap­poggiati al davanzale e fissano la locomotiva, che di nuovo vomita la sue nuvole di fumo. Il resto del tre­no è nascosto da una bassa baracca. Alle sei di m atti­na hanno cominciato a caricare i vagoni merci vuoti, ora il treno sta per partire. Mi sento come dopo un parto - almeno per quanto riguarda i miei genitori, che anche questa volta siamo riusciti a tenere fuori dal treno; per il resto non saprei francamente dire co­me mi sento. Ieri ho vissuto una giornata come non mai. Io non avevo ancora mai « lavorato » per sottrar­re qualcuno alla deportazione, mi manca qualsiasi at­titudine alla diplomazia. Ieri mi sono data da fare per Mechanicus. Non ricordo neppure bene quel che ho fatto, mi sono rivolta a ogni sorta di autorità, a un certo punto eccomi in giro con un misterioso tipo mai visto prima, che faceva pensare a un mercante di schia­ve bianche e che reciterebbe splendidamente quella parte in un film francese. Con quel signore sono stata da ogni sorta di pezzi grossi del campo che in genere non sono disponibili, e meno che mai alla vigilia di una deportazione; porte invisibili si sono aperte, a una determinata ora avevo un appuntamento neH’uffi- cio di registrazione, l’ora successiva dovevo trovarmi presso un ometto senile che pare occupi una posizio­ne misteriosa e molto potente, e riesca a sottrarre le persone alla deportazione quando già tutto sembra perduto - a Westerbork esiste una sorta di « malavita » di cui ieri ho avuto un assaggio : non capisco bene co­me funzioni, ma non lo trovo un argomento consolan­te. Insomma mi sono affannata tutto il giorno - avevo affidato i miei genitori al vigile occhio di Kormann e ai dirigenti del Consiglio Ebraico, secondo i quali per questa volta la cosa si sarebbe certamente sistemata. Per Mechanicus è stato tutto in sospeso fino aH’ultimo minuto. L ’ho aiutato a fare i bagagli e ho ancora attac­cato qualche bottone al suo abito, lui diceva tra l’al­tro: « In questo campo mi sono addolcito, tutte le persone sono diventate uguali per me, sono steli che

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si piegano sotto la tempesta e si coricano sotto l’ura­gano». Ha anche detto: «Se sopravviverò a questi tempi, sarò una persona più profonda e matura; e se morirò, morirò da persona più profonda e m atura». Più tardi ho accarezzato la testa già quasi bianca di papà che diceva: « Se stanotte ricevo il mio ordine di partenza, non me la prendo di certo e parto con gran­de tranquillità». (L’ordine arriva di notte, poche ore prima della partenza del treno), Dopo le otto ho girato un po’ con la mamma e ho salutato diversi amici che dovevano partire, poi ho ancora fatto quattro passi con Liesl e W erner e verso le dieci mi sono fermata un momento da Jopie che ha il viso grigio dalla stan­chezza. Dopodiché non stavo proprio più in piedi, mi sono tolta dal turno della notte e ho abbandonato ogni cosa. Stamattina alle otto Jopie è passato da me e mi ha detto dalla finestra che i miei genitori c’erano an­cora, che stanotte Jaap non era arrivato (aspettava­mo della gente dal N.-I.Z.), e che Mechanicus non è stato deportato.40

Ora sono le undici, e vado in ospedale dove troverò molti letti vuoti. Una giornata come ieri ammazza, la prossima settimana si ricomincia da capo.

A fine pomeriggioRieccomi qui, miei cari, sulla mia cuccetta al terzo

piano: tanto per cambiare, oggi pomeriggio sono sve­nuta in una grande baracca soffocante - il che ha il suo lato utile, ci ricorda che la forza fìsica di una persona è litnitata. Era diventato tutto un po’ troppo. Oltre alle baracche dell’ospedale mi è stata assegnata la ba­racca di punizione; da quando la metà dei colleghi è partita per Amsterdam, si fa fatica a coprire tutto il territorio del campo. Poi Kormann mi ha detto che i miei genitori devono comunque aspettarsi di partire la prossima settimana, diventerà sempre più difficile40. Mechanicus fu tuttavia deportato Tanno seguente e mori a Auschwitz.

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trattenere qui le persone (ma non lo si sa mai in an­ticipo ed è proprio questo che logora, quest'incertez­za fino alFultimo minuto); poi sono andata dalla mam­ma che si sentiva male e aveva il capogiro, e poi non sapevo più dove sbatter la testa e sono svenuta. Do­mani andrà meglio. Di colpo mi viene in mente che nel mondo di fuori cominciano le «grandi vacanze», avete dei progetti? Mi farete sapere ogni cosa, vero?

Maria, grazie per la tua lettera! Era proprio come doveva essere una lettera scritta da te. Se domani po­trò ancora scrivere manderò un altro scarabocchio, al­trimenti starò zitta per un po’.

Qui sappiamo tutto dai medici. Che situazione di­sperata: abbiamo una sovrabbondanza di medici che non possono fare niente di utile. C’è anche il padre di Jan Zeeman!

Vi saluto! Coraggio!Etty

Giovedì pomeriggioEccomi qui! Da mezz’ora mi sto dicendo nel dormi­

veglia che dovrei finalmente continuare questa lette­ra. Ogni giorno in cui si può scrivere è tanto di gua­dagnato, ancora non è stato deciso quando sarà finita. Così aggiungo qualche scarabocchio.

Un paio di cose prima che me ne dimentichi. Leo Krijn è partito e non gliene importava neppure molto. Suo fratello, che è ancora qui, mi ha detto ieri : « Spe­ra ingenuamente di ritrovare laggiù sua moglie e suo figlio ».

Herm an B. si preoccupa perché già da una settima­na non ha notizie da Wiep e da sua madre. È successo qualcosa? Lui sta bene come sempre; e tutto il giorno fa tenacemente mangiare a mio padre cetrioli e pomo- dori. Spesso lo compiango perché non può uscire dalla baracca ma la cosa non gli pesa molto, le nuvole di polvere là fuori non lo attirano.

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Ho portato il pacco di Swiep a Anne-Marie. Lei era qui poco fa e abbiamo combinato di trovarci una di queste sere, vuole presentarmi a un professore russo piuttosto socievole per chiacchierare un poco insieme.

La mia mano destra è bendata per via di quell’ec- zema e per questo motivo scrivo ancora peggio del so­lito, ora il caro papà H an dovrà ritoccare ancora più parole. Grazie per la bella lettera; come mi dispiace­rebbe se Kàthe dovesse veramente andarsene - è una cosa irrevocabile? No, per favorei

In questo momento mi trovo in mezzo a un ’ecatom­be di donne malate, un bacillo impertinente si aggira per la nostra baracca e abbiamo la diarrea, tanto per dirla con questa poetica parola; per me va benissimo, così ora ho un buon pretesto per scrivervi un pochi­no. In base alle ultime notizie ricevute stamattina da Grete Wendelgelst41 pare che la mia famiglia pos­sa rimanere qui. Ieri pareva il contrario. Dopo essere svenuta due volte in un giorno mi sono proposta di cominciare una nuova vita al di là di tutte queste ten­sioni. Avevo anche cominciato a soffrire di « timbri- te », ci sono timbri rossi, verdi e blu e se ne può par­lare per 24 ore su 24, è un tema inesauribile. Jopie ne ha fatto una malattia: se sente pronunciare la parola « timbro » gli viene da vomitare. In questo momento gli animi sono agitatissimi: tutti i timbri, tutti i co­lori sono scaduti, è in corso una nuova classificazione; nessuno sa come sarà il prossimo convoglio di depor­tati, le liste devono esser rifatte e così altri traffici si svolgeranno dietro le quinte. Stanno giocando un bel giochetto con noi, ma noi lo consentiamo, e la nostra vergogna rimarrà incancellabile per tutte le generazio­ni future. Un paio di giorni fa vi ho detto qualcosa di un ometto senile davanti a cui si aprivano miste­riosamente certe porte chiuse. Dopotutto, era un o- mino simpatico; durante la guerra mondiale aveva

41. Grete Wendelgelst era sorella di Milli Ortmann.94

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fatto il corriere ed era stato fra l’altro amico dell’arci- vescovo Sòderblom;42 è Tunico che possa far visita al comandante in qualsiasi momento, e il comandante re­stituisce perfino queste visite, il che è un grandissimo onore, per Dio. Ieri ho girato per qualche ora nel campo con lui e con Mechanicus: evocava ricordi di Poincaré e della regina - meno di così non gli sarebbe certo bastato -, ma a un certo punto ha detto una cosa molto simpatica: «A Westerbork esiste u n ’unica isti­tuzione imparziale: è l’acquedotto, che dà l’acqua a diecimila ebrei e a ognuno in eguale quantità ».

Posso ben scrivervi un po’ di tutto alla rinfusa, ve­ro? H o tanto di quel sonno! Vedete bene che nem­meno qui è cambiata la musica. Ho sperimentato su me stessa che se ogni settimana ci si lascia sballot­tare da tutte queste tensioni, dopo tre settimane si è distrutti, ma proprio completamente distrutti, e quando poi toccasse a noi partire in direzione di Mo­sca non saremmo più in grado di farcela. E così prqvo a vivere senza preoccuparmi di timbri verdi rossi blu e di liste di deportati, e di tanto in tanto faccio visita ai gabbiani, nei cui movimenti per i vasti cieli nuvo­losi si indovinano leggi, eterne leggi di un genere diverso da quelle che fabbrichiamo noi uomini. Oggi pomeriggio Jopie, che ora si sente proprio male e « di­stru tto», e la sua compagna d ’armi Etty sono stati al­meno per un quarto d’ora a contemplare i movimenti di uno di questi uccelli neri e argentei fra le grandi nuvole azzurro scuro, e d ’un tratto ci siamo sentiti as­sai meno oppressi.

Qui si potrebbero scrivere delle favole. Sembra stra­no, ma se si volesse dare u n ’idea della vita a Wester­bork, quella sarebbe la forma migliore. La miseria che c’è qui ha passato a tal punto i limiti della realtà da diventare irreale. A volte mi capita di girare per il

42. L.O. Jonathan Sòderblom (1866-1931), teologo svedese, rice­vette nel 1930 il Premio Nobel per la pace.

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campo ridendo fra me per le situazioni più grottesche- si dovrebbe proprio essere un grandissimo poeta per saperle descrivere, magari ci riuscirò più o meno be­ne fra una decina d ’anni.

Di seraNel bel mezzo delle favole

La mattina dopoho dovuto interrompermi. Qui si vive da vagabondi; ora ho un piccolo quarto d’ora e aggiungo due parole.

Sì, è così, nella natura ci sono leggi molto compas­sionevoli purché si mantenga vivo il senso di questo ritmo. Lo constato ogni volta in me stessa: quando si è toccato il limite della disperazione e si crede di non poter più andare avanti, ecco che la bilancia tracolla dall’altra parte, e si può ridere e prender la vita come viene. Dopo un lungo periodo di forte depressione ci si può d ’un tratto sollevare tanto in alto su questa miseria terrena da sentirsi più liberi e leggeri che mai. Sto di nuovo molto bene ma per qualche giorno è stata una vera disperazione. L ’equilibrio si ristabilisce ogni volta. Cari miei, che strano mondo.

Qui è un vero manicomio, di cui ci toccherà vergo­gnarci per tre secoli. Il campo deve sbarazzarsi di mol­te persone che saranno deportate. Tocca ai Dienstlei­ter43 stessi preparare le liste: riunioni, grande agita-, zione, una cosa orribile* Nel bel mezzo di questo gio­co di vite umane un improvviso ordine del coman­dante: i Dienstleiter devono assistere di sera alla pri­ma del cabaret che si dà in questi giorni nel campo. Quelli restano di sasso, ma devono andare a casa a mettersi il vestito migliore. E di sera si è seduti nella sala di registrazione, dove Max Ehrlich, Chaja Gold-

43. I Dienstleiter, « capireparto », ebrei anch’essi, dirigevano le varie sezioni in cui era suddivisa ramministrazione del campo.96

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stein, Willy Rosen e altri danno spettacolo.44 In pri­ma fila il comandante con i suoi ospiti. Dietro di loroil professor Cohen,45 e tutta la sala piena. Si ride fino alle lacrime, proprio così. Quando la gente di Amster­dam si riversa qui, noi mettiamo nella gran sala di ac­cettazione una specie di transenna di legno che serve a trattenere la calca. La stessa transenna decorava orail palcoscenico, e Max Ehrlich vi si appoggiava cantan­do le sue canzonette. Io non c’ero, ma Kormann me l ’ha raccontato poco fa e ha aggiunto: « T u tto questo mi sta portando sull’orlo della disperazione».

Devo finire una buona volta questa lettera, altrimen­ti non riuscirò neppure a spedirla. Vediamo un po’ se c’è altro. Da G era46 ho ricevuto una scatola da sigari piena di pomodori, se la vedete ditele grazie da parte mia, io non posso più scrivere così tanto. Il Jim della signora N ethe47 si trova anche lui qui e arriva dalla casa di Mien, sono quindi ben informata.

Oh sì, papà Han, ogni tanto mi mandi pure dieci fiorini in una lettera: a volte mi possono servire per altre persone, sembra strano ma è così. C’è chi si dà ancora da fare per procurarci una breve licenza, e la­sciarci sistemare «definitivamente» le nostre faccen­de; se questo accadrà sarà un grande regalo, ma non ci conto. Se domani potrò ancora scrivere vi manderò un altro scarabocchio, altrim enti dovrete avere un po’ di pazienza.

Può sembrare inverosimile, ma spesso sono molto p iù triste per quanto avviene nel mondo esterno che

44. Max Ehrlich, Chaja Goldstein e Willy Rosen erano stati famosi artisti di cabaret e cantautori prima della guerra.45. Il professor David Cohen era con Abraham Asscher copre- sidente del Consiglio Ebraico.46. Gera Bongers; cfr. anche il Diario di Etty, cit., p. 77.47. La signora Nethe era stata la padrona di casa di Julius Spier al n. 27 della Courbetstraat a Amsterdam.

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per questo campo di battaglia. Ricordo una colazione con Joh. Brouwer,48 era un tipo acuto e sensibile...

...m a sono u n ’altra volta cacciata via da qui.vi s a l u t o !

ETTY

30. A Milli OrtmanniWesterbork, 6 luglio [1943]

Millietje,ecco un breve grido di aiuto. Avevo cominciato una

lettera per te e per Mien, ma qui una lettera diventa già inattuale mentre si scrive. Oggi per la prima volta ho avuto un breve cedimento e sono svenuta nel mez­zo di una grande baracca. Sono stati di nuovo giorni pesanti. Stamattina è partito un altro convoglio di 2500 deportati e ho faticato a tenere i miei genitori fuori dal treno, è una gran disperazione. E stamattina i miei buoni, e cosiddetti influenti amici di qui mi hanno confidato che i miei genitori devono prepararsi a partire la prossima settimana; pian piano, ma indu­bitabilmente, il campo si svuota. Così tutto si acutizza. Senza un miracolo dairesterno la nostra sarà una cau­sa persa tra una settimana o due. Se solo potessimo allontanare Mischa, che vuole a tutti i costi seguire i suoi genitori, andando incontro a una morte certa. Non ci avevano detto che Mischa avrebbe potuto co­munque andare a Barneveld da solo? E potrebbe an­cora ricevere Yordine di andarci, senza i suoi genitori? Ma francamente non credo che accetterebbe. Mischa dice sempre: «Se loro partono è la mia fine». Detto fra noi, è un vero calvario. La cosa più disperante è

48. Johan Brouwer, storico della cultura e letterato olandese. Fu fucilato in Olanda il 1° luglio 1943.

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che si può fare molto meno di quanto i nostri cari si aspettino da noi. Forse mezz'anno fa sarebbe stato un giochetto trattenerli e sistemarli qui, ma ora si di­venta sempre più impotenti. Sai benissimo come ci si senta in questi casi. Non aggiungo altro perché non sta diventando una lettera molto allegra.

Siete tutti così cari. Spesso le difficoltà e fatiche e preoccupazioni che vi diamo mi pesano.

Ho appena letto la lettera che Cor ha scritto a Mi- scha. È arrivato un pacco da Kuyper-Glassner ma non da Kuyper-Ortmann. Sarebbe molto triste non rice­vere i vostri pacchi preparati con tanta cura e affetto, ma mi pare che tutto il resto sia arrivato; sono cose molto, molto benvenute e mi chiedo come facciate, perché nemmeno voi avrete la vita tanto facile, vero?

È anche arrivata una grande scatola piena di pomo- dori e cetrioli ma senza mittente, quindi non so da parte di chi, riferisci in ogni caso che l'abbiamo rice­vuta.

Devo interrompere questa lettera, amichetta mia, sono un po' giù di morale ma domani andrà meglio.

Saluti a Grete e Cor.CiaoEtty

T ra breve potrò solo scrivere ogni due settimane; se quindi rimarrai senza nostre notizie per un po', sa­prai che non si poteva fare diversamente.

31. A Christine van NootenWesterbork

Giovedì sera, 8 luglio [1943]Mia carissima Christine,

stasera sono di turno, e se non ci sarà troppa ressa intorno al mio tavolino scarabocchierò una parola tra

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una cosa e l ’altra; voglio comunque spedire una lette­ra in modo che tua sorella la riceva in tempo, quindi perdonami se sarà una lettera molto sconnessa.

Christine, quel dolce di Groningen! Era una cosa principesca. T u tto il pacco era meraviglioso. Subito ho portato a papà qualche fettina di dolce e una mezza stecca di cioccolato. È un sistema così simpatico: corro da lui - sono cinque m inuti dalla mia baracca -, gli passo qualche cosa attraverso la finestra, e corro in­dietro. Questa è la cosa più bella, quando si riesce a tener qui i propri cari: li si può accudire e soste­nere con Taiuto di chi sta fuori. C'era anche Mischa quando ho aperto il tuo pacco, era raggiante. Lo hai preparato con tanta cura e amore, è proprio una cosa commovente; non è solo il contenuto materiale a reca­re tanto confortò, è anche molto consolante sapere che esistono delle persone disposte a sostenerci in questo modo.

Nel frattempo è arrivato un altro pacco dal Consi­glio Ebraico di Deventer, con ottimi panini di segala di Gantvoort. Ne do sempre la metà alla mamma, che pensa a Mischa; l ’altra metà la tengo io e mi occupo di papà.

Abbiamo passato dei giorni movimentati e pieni di tensione. Papà era stato iscritto fra i deportati; siamo riusciti a toglierlo dalla lista. L'ordine di prepararsi arriva nel cuore della notte, poche ore prima della partenza. Se all’ultimo momento il totale preventiva­to non è stato raggiunto, si prendono a casaccio degli ebrei dalle baracche. È per questo motivo che i giorni prim a di una deportazione sono così snervanti, il gior­no dopo sono svenuta due volte ma ora va di nuovo bene - fino alla prossima deportazione. Domenica se­ra, mentre stavo chiacchierando seduta sulla sponda del letto di papà, una mia conoscenza mi ha improv­visamente sussurrato airorecchio: « T u o padre è sta­to messo sulla lista». Ci si spaventa un poco, a dirti la verità. E per tutta la giornata di lunedì avevamo avuto sotto gli occhi la lunga fila di nudi vagoni mer­

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ci; circa settanta persone - donne, uomini, malati, lat­tanti - sono pigiate in un solo vagone, le porte si chiu­dono completamente, un po’ d ’aria entra da qualche sfiatatoio e da qualche asse levata in alto, per terra ci sono materassi di carta per i malati e altrimenti il duro pavimento, nel mezzo un barile, e così si viaggia per tre giorni. Riesci a fartene u n ’idea? Io stessa mi sono abituata al pensiero di dover partire un giorno o l’altro, mentre per tutto l’oro del mondo vorrei r i­sparmiare i miei genitori e i miei fratelli. Ma qui non si può nascondere la testa nella sabbia, ogni settimana parte un gran convoglio di deportati e il loro num e­ro è prestabilito, se si andrà avanti per un po’, presto toccherà anche a noi. Mio padre prende le cose con molta calma e dice : « Anche noi possiamo sopportare ciò che tante migliaia hanno sopportato prima di noi ». Sono riconoscente di averli ancora qui e lunedì pros­simo ricomincia la stessa miseria - pare tuttavia che a ll’Aia si faccia qualcosa per noi, l’ho saputo oggi da una buona amica che segue il nostro caso. Papà e mam­ma mi danno una grande consolazione, ognuno dei due se la cava a modo suo e li ammiro moltissimo. Papà ha ora due allievi nella sua baracca d ’ospedale: un ra­gazzo un po’ malato e un altro ragazzo molto malato, che per distrarsi vuol studiare a tutti i costi un po’ di greco e di latino. Con loro legge Omero, Ovidio e Sallustio, e così dà due ore di lezione al giorno con gran piacere. Per il resto legge molto, filosofa con de­crepiti rabbini e vecchi compagni di studi, e di tanto in tanto va a spasso con sua figlia nella sabbia polvero­sa che circonda le baracche dell’ospedale.

Christine, se solo potessero rimanere qui! Anche se Barneveld non andasse in porto, a Westerbork c’è qual­che possibilità di cavarsela con l ’aiuto di chi sta fuo­ri, nonostante tutte le difficoltà; ma se salgono su quel treno mi aspetto solo un interminabile calvario - insomma vedremo.

Un po’ più tardi. Oh, sì, quel sapone in polvere - mi farebbe un grandissimo piacere, una cosa del ge­

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nere è quasi più necessaria del cibo; le condizioni igie­niche sono miserabili per il grande affollamento, e co­sì laviamo spesso i nostri panni in ogni sorta di sec­chielli trovati a fatica: è vero che non diventano molto più puliti, ma Fidea di aver fatto il bucato dà già una sensazione di pulizia.

Non rispondo sistematicamente alle tue lettere co­me fai tu con le mie, qui è pressoché impossibile.

La baracca di Mischa: n. 62.Fine del mio turno: corro alla mia baracca, ho la

febbre e una molto poetica diarrea; in questo mo­mento ce Tha metà del campo - ma non so decidermi a rimanere a letto, preferisco star su e essere sempre presente.

Che cosa ti avevo promesso? Una lettera pasticciata e sconnessa. T ra breve sarà proprio finita con tutto questo scrivere. H o sentito che non potremo nemme­no ringraziare con una cartolina postale per i pacchi privati inviati dalla provincia. Se scrivo a Simon: « Pac­co ricevuto», significa un pacco del Consiglio Ebrai­co; se invece scrivo «pacchetto», significa che l ’hai mandato tu - però avrei fatto meglio a dire l'inverso pensando al volume.

Un saluto molto, molto affettuoso da tutti noi. Ab­biamo ricevuto una bella lettera da van Kuik.

Buone vacanze.Ciao! Etty

32. A M illi OrtmannWesterbork

[probabilmente 8 luglio 1943]Milli, impagabile Milli,

ti butto le braccia al collo! Poverina, da me rice­vi lettere orribili. Stamattina notizie da Grete, secon­do la quale i documenti sono in viaggio. Non ne sa­

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pevamo niente. Ora ci sono ottime speranze di tenerli qui: tu tti i tim bri sono scaduti e tutti possono essere deportati, tranne coloro che hanno ancora delle pra­tiche in corso airAia. E sai Milli, preferirei che non salissero su quel treno merci; quanto a me, non mi im­porterebbe molto - insomma vedremo.

Il tutto di corsa. Ora sono un po’ malata: febbre e diarrea, ma metà del campo è nelle stesse condizioni. Stasera manderò a Wegerif una lettera più dettagliata e destinata a tutti voi. Da’ un abbraccio a Grete per la sua bella lettera. Siete tutti così cari, e avete già abbastanza preoccupazioni per conto vostro. Sono sulle tracce della vostra zia Hermine e domani andrò da lei; sia come sia, avrebbero dovuto lasciare in pace gli anziani.

State in gamba anche voi, mi raccomando!Pensare che Cor si trova ora così vicino! No, non

è possibile venire qui. Grazie di tutto.T i rivolgi a Wegerif per le spese che hai dovuto so­

stenere? Ma quel che hai fatto è impagabile!Sono di corsa; a presto, se sarà ancora possibile.

Ciao!Etty

33. A M illi Ortrriann[Westerbork, 9 luglio 1943]

Venerdì seraPovera Milli, mi dispiace molto per te, avevi corso

e faticato tanto. La domanda per Bameveld è stata respinta, anche per Mischa. Papà e mamma devono partire, Mischa può rimanere ma non vuole. Ora è difficile tenerlo tranquillo; diceva: «Vado dal coman­dante e gli dico che è un assassino». Dobbiamo vigi­lare che non compia gesti pericolosi. La segretaria di R auter si trova ora nel campo, e la mamma è stata

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convocata proprio per ricevere quella comunicazione. Le è stato detto espressamente che lei e papà sono stati messi sulla lista di martedì. Non so se qui si pos­sa ancora fare qualcosa, dovrò vedere. La nostra « lista dei genitori » è poco sicura al momento, non so nep­pure se i miei genitori vi siano ancora inclusi dopo quell'ordine dall'Aia. Spero solo che qualche baga­glio arrivi in tempo da Amsterdam - anche se siamo sempre più convinti che ci verrà comunque tolta ogni cosa.

Stabiliamo fra noi come ho già scritto ai Nethe: se papà e mamma partiranno martedì e io non avrò piùil permesso di scrivere, telegraferò ai Nethe (a ebrei, e a ebrei sposati con non ebrei possiamo spedire de­terminati telegrammi che sono recapitati a staffetta) e il testo sarà: «Spedite due cappotti». Se Mischa partirà con loro telegraf ero : «Spedite tre cappotti».

Mentre Mischa vuol partire per amore dei suoi ge­nitori, io preferisco non accompagnarli per un ’altra forma di amore. Forse è un amore più vile, ma da sola sono forte. Credo che pregare per qualcuno da lontano sia più facile che vederlo soffrire accanto a noi.

Se tu dovessi ricevere quel telegramma, trasmetti la notizia ai nostri amici di Amsterdam e anche alla Signorina J.C. van Nooten, Noordenbergsingel 7, De- venter, e poi alla Signora M. Gans, Roodenburgerstr. 60, Leiden. Se mi sarà possibile in un modo o nell’al­tro, ti scriverò ancora. Se loro rimarranno qui e io non potrò più scrivere, telegraferò : « Spedite fazzolet­ti » - d'accordo?

Ancora una cattiva notizia: tua zia Hermine non è più a Westerbork. Millietje, mi dispiace di aver so­lo cose tristi da dirti.

Ciao. Affettuosamente, Etty

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34. A Maria Tuinzing[Westerbork] 10 luglio [1943]

Maria, ciao,già diecimila sono partiti da questo luogo, vestiti e

svestiti, vecchi e giovani, malati e sani - e io ero an­cora in grado di vivere e pensare e lavorare e essere lieta. Adesso anche i miei genitori dovranno partire, se non questa settimana per virtù di un qualche mira­colo, certamente la prossima - e io devo imparare ad accettare anche questo. Mischa vuole accompagnarli e mi sembra che debba farlo, perderà la testa se li vedrà partire. Io non lo farò, non posso. È più facile pregare per qualcuno da lontano che vederlo soffrire da vici­no. Non è per paura della Polonia che non voglio se­guire i miei genitori, ma per paura di vederli sof­frire. E dunque, anche questa è viltà.

La gente non vuole riconoscere che a un certo punto non si può più fare, ma soltanto essere e accettare. Io ho cominciato ad accettare già da molto tempo, ma ac­cettare si può solo per se stessi e non per gli altri, ed è per questo che sto passando un momento terribil­mente difficile, qui. La mamma e Mischa vogliono an­cora fare qualcosa e mettere il mondo sottosopra e io sono del tutto impotente di fronte al loro atteggiamen­to. Io non posso fare nulla, non Tho mai potuto, pos­so solo prendere le cose su di me e soffrire. In questo sta la mia forza ed è una grande forza - ma per me stessa, non per gli altri.

Papà e mamma sono stati respinti a Barneveld, l’ab- biamo saputo ieri. Devono tenersi pronti per partire col convoglio di martedì. Mischa vuole andare dal co­mandante e dirgli che è un assassino, dovremo tenerlo d ’occhio in questi giorni. Papà è apparentemente mol­to tranquillo. Ma sarebbe stato distrutto in pochi gior­ni se fosse rimasto nella grande baracca e se non gli avessi trovato un posto all’ospedale, dove la vita sta

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anche lì diventando più o meno invivibile per lui. È completamente indifeso e non è in grado di cavarsela.

Le mie preghiere non sono come dovrebbero. So be­ne che si deve pregare per gli altri nel senso che trovi­no la forza di sopportare ogni cosa. Invece io dico sempre : Signore, fa’ che duri il meno possibile. E co­sì sono paralizzata in tutte le mie azioni. Da un lato vorrei preparare i loro bagagli nel modo migliore, dall’altro so che tanto glieli porteranno via - ne siamo sempre più sicuri - e dunque perché darsi ancora tutta questa pena?

Qui a Westerbork ho un buon amico.49 Avrebbero dovuto deportarlo la settimana scorsa. Quando sono andata da lui era diritto come una candela, il viso cal­mo, lo zaino pronto accanto al letto, non abbiamo parlato della sua partenza, mi ha letto diverse cose che aveva scritto e abbiamo ancora filosofato un po’. Non ci siamo resi le cose difficili col nostro dolore per l ’imminente distacco, abbiamo riso e ci siamo detti che ci saremmo rivisti. Eravamo ambedue in grado di sopportare il nostro destino. Ed è proprio questa la cosa che fa disperare, qui : la maggior parte delle per­sone non è in grado di sopportare il proprio destino e lo scarica sulle spalle altrui. E sotto quel peso, non sotto il proprio, si potrebbe anche soccombere. Io mi sento all’altezza del mio destino, ma non mi sento in grado di sopportare quello dei miei genitori.

Questa è l ’ultima lettera che posso scrivere, per ora. Oggi pomeriggio dobbiamo consegnare i nostri docu­m enti di identità e diventiamo ufficialmente « residenti nel campo». Perciò dovrai avere un po’ di pazienza con le mie notizie. Forse riuscirò a contrabbandare una lettera prima o poi.

Le tue due lettere sono arrivate.Ciao Maria - amichetta mia -

Etty

49. Philip Mechanicus. Cfr., sopra, le note 32 e 40.106

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35. A Christine van N oo ten50Wageningen, 31 luglio 1943

Gentile Signorina van Nooten,Etty Hillesum mi chiede da Westerbork di trascri-

verLe quanto segue.Alla mattina, quando non sono ancora le sei, per

prim a cosa mi reco alla baracca di papà - prendo la sua borraccia, e vado alla baracca delle caldaie: quat­tro rubinetti di acqua calda sul muro esterno, una lunga fila di persone con catini, secchi e caffettiere, un signore dall’aspetto professorale che regola il traf­fico; io attendo il mio turno, tengo sempre nella ta­sca sinistra della mia giacca quel sacchetto di tè di Swiep - mi brucio le dita al rubinetto, e al mio ritor­no in ospedale il tè è pronto. Poi dalla mamma, an­che lei in ospedale (con la bronchite, senza voce, e piuttosto esaurita), prendo il suo thermos e ricomin­cio lo stesso pellegrinaggio.

Poi nella grande baracca, da Mischa - che se ne sta sulla sua cuccetta in alto, sotto un trave inclinato, con l ’aria d i un principe camuffato -, per vedere se ha bi­sogno di qualche cosa.

I pacchi mi arrivano tutti. Cerco di essere un impar­ziale ufficio di distribuzione per la famiglia - passo con i miei barattolini dall’uno all’altro, ed è un vero piacere poterlo fare. Non ho parole per come i nostri amici - compresi i colleghi di papà - hanno cura di noi; a volte quasi mi pesa.

Papà è uno zingaro imperturbabile; qualche rara volta è depresso - allora vorrebbe soltanto salire sul treno merci per farla finita con tutte quelle miserie -, ma poi risale sempre la china. Trascorre le sue gior­nate con una mezza dozzina di piccole Bibbie - in50. Lettera anteriore al 31 luglio 1943, trasmessa da Maria Tuinzing in una lettera a Christine van Nooten.

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greco, francese, russo, ecc. -, e a ogni ora mi sorpren­de con citazioni molto appropriate. H a poche pretese: vive soprattutto di pane. Il giorno prima che partisse il treno con cui si aspettava di essere deportato era cal­missimo - leggeva Omero con alcuni ragazzini malati, e chiacchierava con vecchi compagni di studi ritro­vati qui, e diventati nel frattempo canuti rabbini.

H o fatto ancora a tempo a imparare la grande le­zione di Matteo, 6, 24 da un indimenticabile amico,51 per la cui morte continuo a dire grazie ogni giorno: «N on preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso; a ciascun giorno basta la sua pena». È Punico atteggiamento con cui si possa affrontare la vita di qui. E così ogni sera, con una certa pace di spirito, io depongo le mie molte preoccupazioni terrene ai piedi di Dio stesso. Sono preoccupazioni spesso molto banali - ad esem­pio, come devo fare con il bucato della famiglia, ecc. Le grandi preoccupazioni non sono assolutamente più tali - sono già diventate un destino in cui ci si è in­tegrati.

Mi sono vergognata molto del caso Puttkammer.52 Così si vede a che pazze capriole si riducano le persone in stato di necessità - ma trovo che ci sono dei limiti. E una storia di soldi come questa non è certo nel no­stro stile. Per amor del cielo, non romperti più la te­sta su queste cose. Sapremo ben sopportare ciò che decine e decine di migliaia hanno sopportato prima di noi. Credo che per noi non si tratti più della vita,

51. L’amico era Julius Spier. La citazione si riferisce a Matteo, 6, 34, non a Matteo, 6, 24, ed è tratta dalla versione ufficiale olan­dese della Bibbia del 1635.52. Il procuratore bancario tedesco E.A.P. Puttkammer aveva fat­to a Amsterdam da intermediario fra ebrei e tedeschi, ottenen­do per gli ebrei delle esenzioni dalla deportazione in cambio di valuta straniera. Queste esenzioni - die avrebbero dovuto trasformarsi in permessi di emigrazione - ebbero però breve durata, e non impedirono la deportazione di chi aveva pagato.

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ma deiratteggiamento da tenere nei confronti della nostra fine.Qui finisce la lettera di Etty.

Stanno dunque tutti relativamente bene. Etty mi tiene sempre informata. Ora può scrivere solo una lettera, oppure due cartoline postali ogni due setti­mane - ma di tanto in tanto arriva un messaggio o una letterina di contrabbando da parte sua. Jaap è ancora a Amsterdam. I pacchi arrivano, come Lei sa.

Cordiali saluti.Infermiera Maria Tuinzing

Gabriel Metsustr. 6 Amsterdam-Sud

Non ci siamo forse incontrate una volta da Etty quando era malata?

36. A Maria Tuinzing[Westerbork] 7 agosto [1943]

Maria, amichetta mia,stamattina c’era un arcobaleno sopra il campo e il

sole brillava nelle pozzanghere melmose. Quando so­no entrata nella baracca dell’ospedale, alcune donne hanno esclamato: «Forse ci porta buone notizie? H a u n ’aria così allegra! ». H o escogitato una storiella a proposito di Vittorio Emanuele, di un governo popo­lare e di una pace sempre più vicina,53 potevo forse scamparmela con quell’arcobaleno, anche se era l’uni­ca ragione della mia letizia?

53. Il 9 luglio 1943 gli Alleati erano sbarcati in Sicilia, e il 25 luglio 1943 il re Vittorio Emanuele III aveva fatto arrestare Mussolini.109

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« Presto finirà, presto crollerà tutto quanto», spie­gava or ora un vecchio professorino raggrinzito che è seduto di fronte a me alla tavola di legno. L’atmo­sfera è buona dappertutto, e suoni italiani fioriscono tra le cuccette di ferro e gli stracci. Ci sarà pur qual­cosa di vero nella valanga di notizie che si riflettono nei discorsi di qui come in specchi deformanti. Un « ariano » con ferite da arma da fuoco è stato portato nel campo e ricoverato in un camerino deirospedale. Poco dopo, u n ’automobile della polizia investigativa ha percorso i nostri sentieri fangosi, preceduta dal co: mandante in camicia polo sulla sua bicicletta. Si di­ce che l’uomo ferito venga interrogato ripetutamente e per ore. Ma per il resto pare che sia trattato con molti riguardi. Il comandante in persona gli ha por­tato un piccolo cuscino da casa sua. Si dice che è un olandese della resistenza. Si dice pure che l’uomo ferito è il borgomastro di Beilen. Si dice che diversi ariani sono stati portati nel campo, tu tti con ferite da arma da fuoco. Si dice che c’è molta irrequietezza nel Drenthe. Alcune sere fa il fuoco di un incendio spic­cava sul cielo grigio sopra la nostra steppa, l’ho con­templato a lungo mentre stavo sotto la pioggia. La mattina dopo, ecco un ebreo vestito di una tuta ver­de che monta la guardia davanti alla baracca di fron­te all’orfanotrofio, là dove i bambini giocano su un piccolo tratto di terreno sabbioso circondato dal filo spinato. Quella tuta verde sorveglia venti non-ebrei, uom ini e donne e bambini che di notte sono stati strap­pati dai loro letti nel Drenthe, e presi come ostaggi a causa di quel piccolo incendio. Ci diciamo il no­stro sconcerto per dover sorvegliare dei non-ebrei in un campo ebreo. Ma quello stesso giorno gli ostaggi sono spariti.

Ieri abbiamo ricevuto la visita di un generale. Ci hanno buttati fuori dal letto sul far dell’alba, per tutto il campo si è scatenata una smania di pulizia, io sono rimasta senza tetto e ho vagato per qualche ora nel fango, i malati dovevano star coricati nei loro

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letti in atteggiamento esemplare, il vitto pareva un po' migliore del solito, i malati nelle grandi baracche dovevano avere la stella cucita sul pigiama e tutte le stelle dovevano essere ben attaccate. Un grosso rospo vestito di un ’uniforme verde ha strisciato tra le ba­racche, dev’essere certamente stato il generale. Si dice che sia venuto perché c’è molta irrequietezza nel Dren- the. L ’atmosfera nel campo è molto animata. Non ci sono state deportazioni da alcune settimane e pare che non ce ne saranno più. Così si dice. Westerbork diventerà un campo di lavoro con annesso un campo di concentramento. Le persone che si trovano nella baracca di punizione, e che sono ogni giorno più nu ­merose, devono esser rapate a zero e vestire abiti da prigioniero. Quanto ai vecchi e ai bambini, non si sa­peva bene come fare e non fu presa alcuna decisione: il comandante ha deciso che possono rimanere qui. Così si dice.

Mio padre è malato e giace in una stalla con 130 persóne. «Asilo notturno» ,54 dice ridacchiando. Lui ridacchia spesso. Sulla sua coperta malmessa sono spar­se piccole Bibbie in varie lingue, e romanzi francesi. Il suo abito, il suo cappotto, tutte le sue proprietà si ammucchiano sgualcite dietro il suo guanciale. I letti si toccano. Gli infermieri passano oltre velocemente, se solo provi a chiedergli qualcosa. « Si deve essere sa­nissimi per sopravvivere a quest’ospedale, » dice pa­pà «se si è malati non ci si riesce di certo». Lui è stato molto malato per qualche giorno, con circa 40 di febbre e dissenteria. Ho abbrustolito del pane da Anne-Marie, e vado spesso alla baracca delle caldaie a procurarmi l ’acqua calda per il tè. Baratto il pane di segala con fette biscottate e altri cibi facilmente di­geribili - esercito un vero e proprio commercio di pa­

54. Allusione a I bassifondi (1902), dramma di Maksim Gor’kij che in Olanda era conosciuto anche con il titolo tedesco Das Nachtasyl. Il dramma si svolge in un asilo notturno per i sen­zatetto.

I l i

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ne di segala. Ieri una signora gentile ha portato un regalo principesco a papà : un rotolo di carta igienica. Era la moglie di un eminente rabbino, che lavora qui nel servizio di beneficenza. Papà rh a ringraziata con particolare cortesia.

Faccio spesso una scappata da lui, il che comporta ogni volta una piccola lotta con il portiere che è un uomo ligio ai regolamenti. Una volta papà si è lascia­to andare e gli ha dato del « sergente ». Allora il por­tiere è quasi scoppiato in pianto e gli ha risposto mez­zo in tedesco: « Signore, io vivo in Olanda già da die­ci anni». « E io già da trecento» ha ribattuto laco­nicamente papà. L'indomani gli ha detto, per appia­nare la cosa: « Non volevo offendere né Lei né quel sergente ». Comunque sia, quel portiere mi costa sem­pre molta astuzia e energia. Papà e io ridacchiamo spesso - non si può dire che proprio ridiamo. Lui ha un elementare senso deH’umorismo, che diventa più profondo e scintillante a mano a mano che il grotte­sco processo del suo depauperamento si fa più penoso.

Mio Dio, ancora non si rendono conto che tutte le cose di qui sono sabbie mobili tranne te. Mi è sfug­gito.

Ora sono seduta a un tavolo di legno in una gran­de baracca, con tre cuccette dietro la mia schiena e tre cuccette davanti a me. Questa baracca è simile a un pittoresco e soffocante vicolo orientale. La gente cia­batta per gli stretti sentieri fra le cuccette. Una vec­chietta ci domanda: «Saprebbero dirmi dove abita il tal dei tali?». «Al num ero tale» risponde Mechani­cus che scrive seduto accanto a me, con in testa un cappello di feltro da vagabondo per proteggersi dalle mosche. Qui ogni cuccetta ha un numero, e a quel num ero si abita. È proprio un vicolo orientale, ma se tra un letto e l'altro guardo fuori dalla finestra aper­ta, vedo grigie nuvole olandesi cariche di pioggia, pic­coli campi di patate, e due alberi olandesi molto lon­

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tani. Di fronte a me è seduto il padre settantenne di Jo Spier, un tipo eternamente giovane; sta disegnan­do delle baracche marrone-ruggine in un album. Ac­canto a lui, un uomo chino su un libro scritto in ebraico borbotta preghiere. Nella baracca tira vento e fa freddo, mancano i vetri a parecchie finestre ep­pure c’è u n ’aria pesante e fetida. Mechanicus si è ap­pena arrampicato come u n ’agile scimmia sulla sua cuc­cetta all’ultim o piano, ed è ricomparso trionfalmente con una lattina di minestra di piselli. Sulla stufa nel lavatoio si è reso libero un posticino. È la mezza, e so­no invitata a rimanere in questo vicolo orientale nella brughiera del Drenthe, per mangiare tra poco una minestra di piselli. Ho una bella vita, proprio così!

8 agosto, domenica mattina, le ottoMi sono già lavata al rubinetto della nostra piccola

cucina e mi sono di nuovo infilata a letto. Una grossa pentola d’endivia già borbotta sulla piastra del for­nello. Stamattina noi dieci della nostra baracchetta abbiamo un paio d ’ore per cucinare. Io abito con al­cune casalinghe, la cui vita si svolge tutta intorno a quell’unica piastra. A volte è una cosa abbastanza umo­ristica, quasi sempre è da piangere. Io sono raramen­te «a casa». Nella nostra baracchetta possediamo tre libri: Argento vivo di Cissy v. Marxveldt, I l divorzio di H enri v. Booven, e i Dialoghi con Sri Krishna. Per Cissy v. Marxveldt quasi si viene alle mani. Ultima­mente una mia collega ha esclamato tutta compiaciu­ta, vedendomi leggere la Bibbia : « Io la mia Bibbia l’ho messa in salvo in un luogo sicuro! ».

La pioggia batte; contro le nostre finestrine, fa fred­do, Testate sembra già definitivamente passata. Dalla mia cuccetta vedo in lontananza i gabbiani che si muo­vono nel cielo uniformemente grigio. Sono come liberi pensieri che vagano per un vasto spirito.

Ieri sera sono stata con Mechanicus dalla madre di Paul. Da alcuni giorni abita nella baracca di quaran­

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tena perché aveva un pidocchio. Nei giorni di quel pidocchio le è stato pure tolto un dente ed è stata vaccinata. E ora sta seduta per molte ore al giorno su un panchetto stretto a pelar patate. « Lavoro da schiavi » dice. È triste. La sua baracca assomiglia alla camerata di una casa di correzione, priva com’è di qualsiasi oggetto che irradii un poco d ’intimità. Parlia­mo dei numerosi bambini che sono rimasti orfani - alcuni di loro sono già piccoli adulti -, parliamo dei vecchietti e delle vecchiette, che alla mattina si strin­gono l’uno all’altro sotto la pioggia perché sono cac­ciati dalle loro baracche durante le pulizie; parliamo della noia alienante del mondare piselli e fagioli, del pericolo di demoralizzarsi e lasciarsi andare, di molte piccole tristezze e grottesche miserie nella vita del campo. « Cose del genere non si possono raccontare, si possono solo subire» dice Mechanicus con una certa asprezza. Lui poggia i gomiti sul tavolo di legno, ha le pulci, le calze rotte e i brividi e dice con benevola autoironia: « Stasera mi sento proprio come un ragaz­zino piccolo piccolo che ha paura del Lupo ». Più tar­di l ’ho accompagnato fino alia sua baracca e mi sono portata a casa le sue calze rotte. La madre di Paul ci ha accompagnati per un tratto di strada nella sera, le spalle avvolte in un grande scialle di lana e i capelli grigi sciolti al vento. T i ricordi ancora quel pomerig­gio musicale, quando Paul suonava il flauto sulla ve­randa e sua madre era seduta con u n ’aria così dignito­sa in mezzo alla stanza?

Qui molti sentono languire il proprio amore per l ’umanità, perché questo amore non è nutrito dall’e­sterno. Dicono che la gente di Westerbork non ti of­fre molte occasioni di amarla. Qualcuno ha detto: « La massa è un orribile mostro, i singoli individui fanno compassione». Ma ho dovuto ripetutamente constata­re in me stessa che non esiste alcun nesso causale fra il comportamento delle persone e l ’amore che si pro­va per loro. Questo amore del prossimo è come un ar-

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dorè elementare che alimenta la vita. Il prossimo in sé ha ben poco a che farci. Maria cara, qui di amore non ce n ’è molto eppure mi sento indicibilmente ricca, non saprei spiegarlo a nessuno.

Non far capire dalla tua risposta che ti ho scritto alFinfuori del giorno permesso, ora c'è una rigida cen­sura sulla posta in arrivo.

Un saluto a tutti voi.Etty

37. A Christine van Nooten[Westerbork] 8 agosto [1943]

Cara Christine,un saluto, un affettuosissimo saluto da tutti noi. Ho

pensato di spedirti questa lettera destinata a una mia amica: molte cose avrei potuto scriverle altrettanto bene a te e così avrai di nuovo nostre notizie. Spe­disci poi questi foglietti airinferm iera Maria T u in ­zing, presso Sig. Wegerif, Gabriel Metsustr. 6. Una domenica mattina ti aveva portato una tazza di caffè, tu eri seduta accanto al mio letto e parlavamo dello Stundenbuch ,55 te ne ricordi ancora? Ora lo Stunden- buch si trova sotto il mio guanciale insieme con la mia piccola Bibbia. Sì, quelle parole di Isaia sono splendide e consolatrici, e ci danno ogni volta quella segreta pace interiore che supera qualsiasi intelligen­za. E un ’altra cosa splendida - ora farò un bel salto verso terra - era la scatoletta di polpa di gambero, e il pane tostato con tutte le altre delizie. Abbiamo avu­to la sensazione che voi diate via le migliori provviste che vi sono rimaste, ed è difficile dire in parole quan­55. Il Libro delle Ore di Rainer Maria Rilke, lo scrittore più amato da Etty.

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to ne siamo toccati. Anche i pacchetti di tua madre erano un amore. E quelle meline erano deliziose, non posso neppure elencar tutto perché mi mancherebbe la carta. Da Kraak abbiamo ricevuto una simpatica lettera in cui era inclusa molta musica. Noi speriamo che tu ti sia riposata e possa ritornare al lavoro con rinnovata energia. Papà comincia a stare un po’ me­glio ma non può ancora mangiare quasi niente; è bra­vo e paziente, eppure sai, io spero per lui (e per tanti, tanti altri) che ormai non duri troppo a lungo così.

Devo disturbarti u n ’altra volta con alcune neces­sità terrene, mi dispiace molto ma non posso fare al­trimenti. Per papà abbiamo urgente bisogno di fette biscottate e cose analoghe, è stato digiuno per giorni interi e deve pian piano ricominciare a nutrirsi, il pa­ne che si mangia nel campo è pessimo. E poi siamo senza zucchero, l’abbiamo finito e qui manca com­pletamente. Chissà se se ne trova ancora per vie tra­verse? Ora siamo anche senza burro, ma forse arriverà da Deventer uno di questi giorni, non si può mai sa­pere - quella mezza libbra tua da Amsterdam era ar­rivata proprio al momento giusto. Bene, ora ho detto tutto, evviva la materia. Terrem o duro da una parte e dall’altra del filo spinato, vero? Dicono che « le co­se vanno bene». Troverai il resto nella lettera acclu­sa. Grazie per tutta la tua bontà e affetto, mia cara. Un saluto a Hansje Lansen.

Ciao! Etty

38. A Maria Tuinzing[Westerbork] 11 agosto [1943]

In futuro, quando la mia casa non sarà più un giaci­glio di ferro in un luogo circondato dal filo spinato, voglio avere una lampadina sopra il mio letto, così di notte ci sarà luce ogni volta che lo vorrò. Spesso, nel

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mio dormiveglia, turbinano pensieri e piccoli raccon­ti, sottili e trasparenti come bolle di sapone, vorrei poterli catturare su un pezzo di carta. Quando mi sve­glio alla mattina mi sento come dentro un bozzolo - è un ricco risveglio, sai! Ma poi comincia a volte una piccola Passione, pensieri e immagini si agitano intor­no a me, sono così tangibili e vogliono esser messi sul­la carta, ma non c’è nessun posto in cui si possa star seduti con calma, certe volte passo delle ore a cercarlo. Una volta, nel cuore della notte, una gatta randagia è entrata nella nostra baracca, le abbiamo messo una cappelliera sul gabinetto e là ha avuto i suoi piccoli. Certe volte mi sento proprio come un gatto randagio senza cappelliera.

[...] Stanotte è nato il figlio di Jopie. Si chiama Ben­jam in e dorme nel cassetto di un armadio.

Vicino a mio padre hanno messo un malato di mente.

Sai, se qui tu non hai una grande forza interiore, se non guardi alle apparenze come a pittoreschi acces­sori che non intaccano il grande splendore (non mi viene in mente u n ’altra parola) che può essere una parte inalienabile della tua anima - allora è proprio uria situazione disperata. È così, così triste vedere tut­te queste persone abbandonate a se stesse, che perdo­no il loro ultimo asciugamano, che si arrabattano con scatoline, scodelle di cibo, bicchieri, pane muffito e biancheria sporca sopra, sotto e di fianco alle loro cuc­cette, che sono infelici perché altre persone sono spes­so sgarbate o urlano con loro, ma che a loro volta u r­lano con gli altri e non se ne rendono conto; bambi­netti lasciati soli dai genitori deportati, e trascurati dalle madri degli altri bambini : già sono in pena per i propri pulcini, che hanno la diarrea e ogni sorta di malattie grandi e piccole, mentre prima erano sempre stati bene. Dovresti vedere la disperazione apatica e folle di queste povere madri, sedute accanto al giaci­

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glio dei loro figlioletti che piangono e che non riesco­no a crescere.

H o messo insieme questa paginetta in dieci posti diversi - dietro il tavolino del telegrafo nella baracca dove noi lavoriamo, su una carriola vicino a dove la­vora Anne-Marie (al caldo per ore in mezzo a ragaz­zini del popolo chiassosi e senza riguardo, che lei non sopporta più), ieri le ho asciugato non poche lacrime ma non farle capire che ve l’ho scritto - questi scara­bocchi per te sono anche per Swiep -, poi durante la conferenza di un professore di sociologia piuttosto logorroico, poi - stamattina - su un pezzettino di « du­na » ventosa sotto il cielo - ogni volta ci aggiungo una parola -, e ora mi trovo nella sala-mensa a tramezzi di cartone dell’ospedale : l’ho scoperta poco fa, forse po­trò ritirarm i qui di tanto in tanto.

Domattina Jopie va a Amsterdam, per la prima vol­ta in questi mesi provo una stretta al cuore ben disci­plinato, perché la barriera rimane ancora chiusa per me. Ma a ognuno il suo momento. Quasi tutte le per­sone di qui sono molto più povere del necessario, per­ché registrano la loro nostalgia degli amici e della fa­miglia come una perdita nel libro dei conti della vita- m entre il fatto stesso che un cuore sia in grado di desiderare e di amare così tanto dovrebbe essere con­tato fra i beni più preziosi. Santo Iddio, credevo di aver trovato un posticino tranquillo ed ecco che si sta riempiendo di gente col camice che porta dentro sbatacchianti pentoloni di patate e verdure, e di per­sonale dell’ospedale che si siede ai tavoli di legno per mangiare - è solo mezzogiorno, andrò a cercarmi un altro posticino.

Un piccolo tentativo filosofico a sera inoltrata, con gli occhi che mi si chiudono per il sonno: certe volte si sente dire: « T u volgi proprio tutto in bene ». T ro­vo che è un ’espressione così priva di coraggio. Le cose sono, dovunque, completamente buone - e, al tempo stesso, completamente cattive. Così si bilanciano, do­vunque e sempre. Io non ho mai la sensazione che de­

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vo volgere qualcosa in bene, tutto è sempre e com­pletamente un bene così com’è. Ogni situazione, per quanto penosa, è qualcosa di assoluto, e contiene in sé il bene come il male.

Volevo solo dire questo: l'espressione « volgere qual­cosa in bene» in fondo mi disgusta, e così pure l’e- spressione « tirare fuori il meglio da ogni situazione», mi piacerebbe poterti spiegare bene perché.

Se tu sapessi che sonno ho! Potrei dormire per due settimane di fila. Ora porterò questa lettera a Jopie; domattina lo accompagnerò al piccolo edificio della gendarmeria, poi lui andrà a Amsterdam e io tornerò fra le baracche - o miei cari -

Vi saluto!Etty

39. A Christine van Nooten[Westerbork, 12 agosto 1943]

Christine, oggi sei stata davvero il nostro angelo salvatore, mai avevo atteso un pacco con tanta impa­zienza come questa settimana, ed ecco che ne è arri­vato uno - e che pacco! H o immediatamente portato biscottini e panini a papà - poverino, è tanto magro dopo quel lungo digiuno, ha un ascesso all’occhio e un portiere tirannico. È una situazione assai triste, meglio non pensarci troppo. Eppure lui è considerato il prodigio della baracca, è Tunico che sia in grado di leggere in modo concentrato - in ebraico, francese, olandese, o altro -, lui legge in continuazione e nes­suno capisce come faccia in un ambiente simile. Vero che non importa se faccio un po’ di confusione? Stase­ra sono di nuovo di turno, di tanto in tanto c’è qual­cuno che ha bisogno di me e la testa mi gira dalla stan­chezza. Spero che tu abbia ricevuto per due volte mie notizie: un brano della mia lettera a Amsterdam, e

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una lettera che accompagnava quella per Maria Tuin- zing. La seconda deve esserti arrivata, sono quasi cer­ta che l'ultimo, ricchissimo pacco sia la tua immediata risposta. Sono lieta di poter mandare qualche notizia di tanto in tanto grazie ad alcune persone coraggiose. Al momento pare che le nostre lettere regolamentari siano trattenute qui, e che neppure la posta in arrivo ci sia consegnata tutta. Però continuate a scrivere, vi prego, a un certo punto le lettere arriveranno di nuovo.

Sono curiosa di sapere se il Consiglio Ebraico di Deventer funziona ancora, non ne ho più saputo nien­te da un po' di tempo. La famiglia Gelder è qui. An­cora una cosa, nel caso che il Consiglio Ebraico non funzioni più: tu sai che dalla provincia si possono spe­dire dei pacchetti-lettera fino a un massimo di 2 kg, preferibilmente non per raccomandata perché quei pacchi sono attesi al varco. Qui c’è ogni volta una sto­ria diversa. Se alla lunga ogni contatto con la provin­cia diventasse impossibile (non si può mai sapere), fa­resti forse bene a metterti in contatto con la signora M. Kuyper, Reynier Vinkeleskade 61, Amsterdam, che provvede a ogni sorta di bagagli per noi tramite il Consiglio Ebraico di Amsterdam. Vi diamo un bel traffico, vero?

Christine, preferisco non pensare a come faremmo se non ci foste voi, questa settimana mi sono resa conto che sarebbe un disastro. Il tè era una cosa com­movente, e il burro un regalo che pioveva dal cielo- eravamo senza già da qualche giorno, la cosa in sé non è affatto drammatica e a Amsterdam mi era già successo fin dall'inizio della guerra di rimanere senza burro per qualche giorno: ma qui è tutto molto più grave, specialmente perché le persone sono già così indebolite da malattie e acciacchi e dal clima malsano.

In questo momento la salute di papà non è molto buona e la mamma comincia ad avere problemi con la vescica, tanto per cambiare. Non ti dispiace troppo se ho altre richieste? Chissà se in farmacia troveresti

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quelle cose che si mettono nelle orecchie per proteg­gersi dai rumori? Di notte c’è molto chiasso nella ba­racca della mamma, con tu tti quei bambini piccoli che sono malati; in fondo il rumore non cessa mai e così lei vuol provare a turarsi le orecchie per dormire.

E poi: conosci un prodotto che si chiama Reformi- te? È una specie di Marmite e lo si spalma sul pane, alla mamma serve per tener vivo il proprio appetito. Qui c’è una stranissima malattia: a volte non si prova il minimo desiderio di mangiare per giorni e giorni- è davvero un paese strano. Ancora un ’ultima cosa: da Bryan dovrebbe ancora esserci un po' del nostro lardo, se tu ne mandassi un pezzetto ogni tanto potrei friggere delle patate su un fornello di amici. E adesso basta con tutte queste richieste che mi danno la nausea.

Anch’io voglio mandarti qualcosa di bello; ecco un passo che ho letto poco fa su Paula Modersohn-Becker:

« Aveva nel sangue quella totale mancanza di prete­se nei confronti della vita che è solo apparente, ed è la vera, matura espressione di pretese altissime: il di­sprezzo di ogni esteriorità, che nasce dal sentimento inconscio della propria pienezza e di una segreta, non del tutto spiegabile felicità interiore».

Papà ha intenzione di scriverti nel suo giorno di permesso ma può darsi che la sua lettera non ti arrivi. Comunque sia, i legami tra le persone non si inter­rompono per piccoli contrattempi. Comincia di buon animo il tuo nuovo corso di lezioni, e pensa a noi ogni tanto. T i salutiamo affettuosamente.

Etty

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40. A Henny TiàemanWesterbork, 18 agosto [1943]

Tideke,questa volta non volevo quasi scrivere perché mi

sentivo terribilmente stanca, e perché credevo di non avere niente da dire. Ma certo che ho molto da dire. Però preferisco che i miei pensieri fluiscano libera­mente verso di voi, tanto so che li captate. Oggi pome­riggio, mentre riposavo nella mia cuccetta, m ’è venu­to da scrivere queste cose nel mio diario, ora le man­do a te:

Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche di­spensare agli altri a piene mani. La mia vita è diven­tata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio. A volte, quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza. Anche di sera, quando sono coricata nel mio letto e riposo in te, mio Dio, lacrime di riconoscenza mi scorrono sulla faccia e questa è la mia preghiera.

Sono molto, molto stanca, già da diversi giorni, ma anche questo passerà, tutto avviene secondo un ritmo più profondo che si dovrebbe insegnare ad ascoltare, è la cosa più importante che si può imparare in que­sta vita.

Io non combatto contro di te, mio Dio, tutta la mia vita è un grande colloquio con te. Forse non diventerò mai una grande artista come in fondo vorrei, ma mi sento già fin troppo al sicuro in te, mio Dio. A volte vorrei incidere delle piccole massime e storie appassio­nate, ma mi ritrovo prontamente con una parola so­la: Dio, e questa parola contiene tutto e allora non ho più bisogno di dire quelle altre cose. E la mia for­za creativa si traduce in colloqui interiori con te, e le

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ondate del mio cuore sono diventate qui più lunghe, mosse e insieme tranquille, e mi sembra che la mia ricchezza interiore cresca ancora.

Da qualche tempo J u l56 si libra nel cielo di questa brughiera, è una cosa inesplicabile, è un nutrimento quotidiano. Accadono proprio dei miracoli in una vi­ta umana, la mia è una catena di miracoli interiori, fa bene poterlo di nuovo dire a qualcuno.

La tua fotografia si trova nello Stundenbuch di Ril- ke insieme a quella di Jul, tu tt’e due stanno sotto il mio guanciale insieme con la mia piccola Bibbia. An­che la tua lettera con le citazioni è arrivata, sì, scrivi ancora. Sta* bene, cara.

EttySì, queste poche parole sono anche per Maria, non

per altri. Ciao.

41. A Han Wegerif e altri[Frammento non datato di lettera.

Westerbork, dopo il 18 agosto 1943]Ma so bene che non posso parlare così a quelle gio­

vani donne coi loro piccini, che probabilmente andran­no diritto airinferno su uno di quei nudi treni merci. E naturalmente mi risponderebbero : « Hai un bel di­re tu, che non hai figli », ma questo non c’entra pro­prio per niente.

C’è una frase della Bibbia che mi dà sempre forza. Credo che sia all’incirca così: « Se tu mi ami, devi ab­bandonare i tuoi genitori». Ieri sera, mentre dovevo di nuovo lottare duramente per non essere paralizzata dalla compassione per i miei genitori, ho visto anche questo: non bisogna lasciarsi consumare dal dolore e

56. Julius Spier.123

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dalle preoccupazioni per la famiglia al punto da non provare più interesse e amore per il prossimo. Sono sempre più convinta che ram ore per il prossimo, per qualsiasi creatura a somiglianza di Dio, debba stare più in alto dell’amore per i parenti. Non fraintende­temi, vi prego. Si dice che sia contro natura... mi ren­do conto che fatico ancora troppo a scrivere di queste cose, mentre sono così semplici nella vita.

Stasera vado con Mechanicus a trovare Anne-Marie e il suo ospite di sempre, il capo delle baracche che ha una cameretta tutta per sé. Ce ne staremo seduti in quella che per Westerbork è una grossa stanza, con una bassa e grande finestra aperta, e dietro questa fine­stra la brughiera così vasta e ondeggiante come il ma­re - l ’anno scorso vi scrivevo sempre da quel posto. Anne-Marie ci farà certamente del caffè e il nostro ospite ci racconterà come si viveva una volta nel cam­po (è qui già da cinque anni), e più tardi Philip ne r i­caverà delle piccole storie. Io frugherò nel mio barat­tolino per vedere se trovo qualcosetta da mangiare con il caffè, e chissà, forse Anne-Marie avrà fatto di nuovo un budino - l ’altra volta c’era quel tuo indimentica­bile budino di mandorle, Ietje! Oggi ha fatto caldo, sarà una bella sera estiva davanti a quella finestra aper­ta e a quella brughiera. Più tardi Philip e io andre­mo a cercare Jopie, e come un pacifico terzetto pas­seggeremo intorno alla grande tenda beduina grigia che si innalza su un largo spiazzo sabbioso; una volta quella tenda serviva per la disinfestazione dai pidoc­chi, ora ospita suppellettili rubate alle case degli ebrei, che finiranno come « offerte » in Germania o andran­no ad arricchire la casa del comandante. Dietro quel­la tenda il sole dà spettacolo ogni sera con un tramon­to diverso. Quanti paesaggi ospita questo campo nella brughiera del Drenthe! Credo che il mondo sia bello dappertutto, anche nei luoghi che nei libretti di geo­grafia sono descritti come desolati e aridi e monotoni.

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Del resto, la maggior parte dei libri non vale nulla e dovremo riscriverli.

La mia lettera quindicinale l’ho scritta a Tide, ora ci è permesso di scrivere da una parte sola del foglio.

Cari miei, come avete fatto a procurarvi quella mezza libbra di burro - era una cosa principesca, mi sono spaventata tanto era enorme! Perdonatemi que­sta fine materialista. Ora sono le sei e mezzo, e devo andare a prendere la piccola razione di cibo per la fa­miglia.

Vi saluto tu tti con molto, molto affetto.Etty

42. A Christine van NootenWesterbork, 19 agosto [1943]

Molte grazie per il ricco pacco!Etty

43. A Han Wegerif e altri[Frammento di lettera]

[Westerbork] Domenica mattina 21 [22] agosto 1943

Nel reparto m aternità c’è un bebé di nove mesi, una piccola bambina. Qualcosa di molto bello e dolce e con gli occhi celesti. È arrivata qui diversi mesi fa come S-Fall (caso penale), la polizia l’aveva scovata in una clinica. Nessuno sa chi siano, o dove stiano i suoi genitori. Per ora la tengono nel reparto maternità, le infermiere si sono molto affezionate a quel giocattoli- no. Ma volevo dire questo: nei primi tempi quella neonata non poteva esser portata fuori, tutti gli altri

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bebé stavano all’aria aperta nelle loro carrozzelle ma lei doveva rimanere dentro, era pur sempre un «S- Fally>\ L'ho chiesto a tre infermiere diverse, qui va­do sempre a sbattere contro fatti che mi paiono inve­rosimili ma che ogni volta mi vengono confermati.

Nella mia baracca-ospedale ho incontrato una ra­gazzina gracile e denutrita di dodici anni. Nello stesso modo simpatico e ingenuo in cui un altro bambino ti racconta delle tabelline che impara a scuola, mi ha detto: «Sì, io vengo dalla baracca di punizione, io sono un caso penale ». Un bimbetto di tre anni e mez­zo aveva rotto un vetro con un bastone, e quando suo padre gli aveva fatto una terribile sfuriata era scop­piato in un pianto dirotto e aveva detto: « Ooooh, adesso mi mettono nella n. 51 (= la prigione) e devo partire da solo sul treno dei prigionieri». È sconcer­tante come i bambini parlino tra loro, ho sentito un ragazzino dire a un altro: «No, sai, il timbro da 120.000 non è proprio il migliore, ma se tu sei per metà ariano e per metà portoghese,57 allora sì che va bene». Anne-Marie ha sentito una madre dire al suo bambino, nella brughiera : « E se adesso non finisci da bravo il tuo budino, partirai senza la mamma! ».

Stamattina, la donna che ha la cuccetta sopra quel­la della mamma ha fatto cadere una bottiglia d ’acquia e le ha inondato il letto. Una cosa del genere diventa qui una calamità naturale di cui vi potete difficilmen­te immaginare la portata. Fuori di qui la si potrebbe paragonare a una casa devastata da un'inondazione.

Comincio ad amare questa mensa d'ospedale. È pro­prio come una capanna di tronchi indiana. Una bassa baracca di legno grezzo, tavoli e panche idem, piccole finestre che sbattono e per il resto niente. Fuori si ve­de un'arida striscia di sabbia con erba incolta, limitata da una specie di diga sabbiosa tirata su dal canale. Da­

57. Come è noto, molti ebrei sefarditi si erano stabiliti in Olan­da dopo esser stati espulsi dalla Spagna e dal Portogallo nel XV e XVI secolo.

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vanti a questa diga c’è un binario abbandonato e du­rante la settimana uomini seminudi e abbronzati vi si divertono su alcuni vagoncini. Di qui non si vede la brughiera, che invece si vede da ogni altro angolo di questo paesino sempre più sperduto. Dietro il filo spi­nato c’è una pianura ondulata di bassi arbusti, sembra­no piccoli abeti. Questo tratto di paesaggio spietata­mente arido - la rozza capanna di tronchi, i mucchi di sabbia, il piccolo canale maleodorante - fa un po’ pen­sare a un terreno da cercatori d’oro, al Klondike.

Di fronte a me, seduto al rozzo tavolo di legno, Me- chanicus mordicchia la sua penna stilografica. Di tanto in tanto alziamo gli occhi dai nostri foglietti scaraboc­chiati e ci guardiamo in faccia. Lui registra fedelmente, con una precisione quasi burocratica, tutto quel che capita qui. « È troppo » dice a un tratto. « Io so scri­vere un pochino, ma qui mi trovo davanti a un abisso- o davanti a una montagna -, è troppo ».

Comincia a venire gente, e « borghesi » con logori abiti confezionati e col timbro sui docum enti58 si sie­dono a mangiare cavoli-rapa da scodelle smaltate.

Più tardiElletje, la tua lettera mi ha dato una grande gioia

e mi ha detto molto.Jopie è ritornato portando con sé un pezzetto della

vostra viva presenza. Era una cosa doppiamente pre­ziosa perché da un po’ di tempo la posta ci viene reca­pitata molto di rado, e quanto alle lettere, siamo piùo meno tagliati fuori - è davvero uno dei guai peg­giori. Ma neanche per questo ci si può abbatter trop­po, sono distanze che interiormente si superano.

58. Etty si riferisce qui ai timbri che venivano apposti sui do­cumenti degli ebrei esentati più o meno provvisoriamente dalla deportazione, e dunque privilegiati rispetto agli ebrei « senza timbro », che potevano essere deportati da un momento al­l'altro.127

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Anne-Marie era felicissima per gli scarabocchi diSwiep .

Il pane di segala di Leonie è purtroppo finito negli stomaci sbagliati. Al suo arrivo la nostra « posizione » era favorevole e l’ho subito distribuito a persone che stavano peggio di noi; il giorno dopo potevo difficil­mente riprendermi un bene precario come quello, ma la prossima volta saprò almeno a chi è destinato.

L ’uva e le pere erano davvero commoventi. Sono sempre tanto confusa per questi pacchi e non riesco mai a dire molto. E sono sempre felicissima per quel Sanovite, ne faccio economia e lo conservo soprattutto per papà e mamma, porta un po’ di variazione sul pa­ne, presto ammuffito, del campo. Grazie per il prestito della pila, papà Han, già mi serve di sera con tutte quelle pozzanghere e quel filo spinato. Jopie mi ha raccontato una storia da togliere il fiato a proposito di Hans; a quanto pare, ognuno vive sotto la propria stella. H a anche detto di avermi incontrata in tanti angoli della vecchia casa, e che ero ancora da voi.

44. A Han Wegerif e a ltri59[Westerbork] 24 agosto 1943

Dopo la notte scorsa ho pensato per un momento, in tutta sincerità, che ridere ancora sarebbe stata una colpa. Ma poi mi sono ricordata che alcuni deportati erano partiti ridendo - sebbene non molti, questa vol­ta. E forse ci sarà ancora qualcuno che riderà ogni tanto in Polonia - sebbene non molti, temo, di questo convoglio.

Se penso alle facce della scorta armata in uniforme verde, mio Dio, quelle facce! Le ho osservate una per

59. Questa è la seconda lettera di Etty pubblicata dalla resi­stenza olandese nel 1943.

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una, dalla mia postazione nascosta dietro una finestra, non mi sono mai spaventata tanto come per quelle fac­ce. Mi sono trovata nei guai con la Parola che è il te­ma fondamentale della mia vita: « E Dio creò l'uomo a sua immagine ». Questa Parola ha vissuto con me una m attina difficile.

H o già detto altre volte che non ci sono parole o immagini capaci di descrivere una notte come questa. Eppure devo annotare qualche cosa per voi - ci si sente sempre occhi e orecchi di un pezzo di storia ebrai­ca, talvolta si prova il bisogno di esser anche una pic­cola voce. Dobbiamo pur tenerci informati di ciò che accade negli angoli remoti di questo mondo e ognu­no deve portare il proprio sassolino, per farlo comba­ciare con gli altri nel mosaico che a guerra finita co­prirà tutta la terra.

Quando all’alba, dopo la notte trascorsa nell’ospe­dale, sono ancora passata davanti alla baracca di puni­zione, ho avuto un breve istante di sollievo. I deportati raccolti nel recinto di filo spinato - uomini per la maggior parte - erano pronti con i loro bagagli, i più avevano un ’aria intraprendente e piena di coraggio. Un vecchio amico - sulle prime non l’avevo ricono­sciuto sotto il suo cranio rapato a zero, a volte ciò trasforma radicalmente le persone - mi ha chiamata ridendo : « Se quelli non mi fanno proprio fuori, ri­tornerò».

Ma i bambini di pochi mesi, le piccole grida pene­tranti dei bambini, che sono strappati dalle loro culle nel cuore della notte per esser trasportati verso un pae­se lontano - devo buttar giù ogni cosa come viene, più tardi non ne sarò capace perché crederò che non sia sta­to vero, già ora è come una visione che si allontana sempre più. Quei bambini erano davvero la cosa peg­giore. E poi c’era quella ragazza paralizzata che non vo­leva nemmeno portarsi un piatto per mangiare, e che trovava così difficile morire. E quel ragazzo impaurito: credeva di essere al sicuro e lo sbaglio era suo, improv­visamente gli era toccato partire, aveva perso la testa ed

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era scappato. I suoi fratelli di razza erano stati costretti a dargli la caccia, altrimenti decine di altri sarebbero dovuti partire al suo posto. Poco tempo dopo avevano già accerchiato la tenda in cui si era nascosto, e tutta­via... tuttavia a quegli altri è toccato partire « per da­re un esempio ». Così lui ha trascinato con sé parecchi buoni amici. Cinquanta vittime per un breve istante di confusione mentale. Vale a dire, le vittime non le ha fatte lui ma il nostro comandante, di cui si sente spesso dire che è un gentleman. Ma chissà se quel ra­gazzo sarà in grado di accettare la situazione quando si renderà pienamente conto del danno causato - e chissà come sarà trattato dalla massa degli ebrei nel treno? Quel ragazzo passerà dei momenti molto diffi­cili. Forse la cosa si sarebbe ancora risolta se quella notte non si fosse volato così tanto sopra le nostre te­ste, il comandante dev’essersene accorto anche lui. « Per Dio se volano bene » ho sentito esclamare nel cuore della notte da un uomo rivolto alle stelle. Si aveva ancora la forte, infantile speranza che il convo­glio non sarebbe partito. Da qui molti avevano potuto osservare il bombardamento di una città vicina, forse era Emden. E perché mai non sarebbe stata colpita una linea ferroviaria, così da impedire la partenza del treno? Non è mai successo, ma si continua a spe­rarlo a ogni deportazione con una fiducia indistrutti­bile...

La sera prima avevo attraversato il campo. La gente si raggruppava fra le baracche sotto un cielo grigio ca­rico di nuvole. « Guarda, è così che si fa capannello dopo un disastro, quando lo si commenta a ogni an­golo di strada » osservò il mio compagno.

« Ma è proprio questo che non si capisce, » sbottaiio « ora è prima del disastro! », Quando capita un in­cidente da qualche parte, un istinto naturale spinge l'uomo ad accorrere in aiuto e a salvare quanto può. Ma stanotte io aiuterò a vestire tu tti i bambini piccoli e tenterò di calmare le madri e chiamo questo « aiuta-

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re» , potrei quasi maledirmi da sola: sappiamo bene che abbandoneremo le persone indifese e malate del campo alla fame, al caldo e al freddo, alla vulnerabilità e alla distruzione, eppure le vestiamo noi stèssi e le ac­compagniamo ai nudi carri bestiame, e se non sono in grado di camminare le portiamo sulle barelle. Che av­viene qui, che misteri sono questi, in quale meccani­smo funesto siamo impigliati? Non possiamo liquidareil problema dicendo che siamo tutti dei vili. E poi, non siamo così cattivi. Ci troviamo di fronte a interro­gativi più profondi...

Di pomeriggio avevo fatto ancora un giro nella mia baracca d'ospedale, passando da un letto all’altro. Qua­li letti saranno vuoti domani? Le liste dei deportati sono divulgate all’ultimissimo momento, ma certuni sanno in anticipo di dover partire. Una ragazzina mi chiama. È seduta nel suo letto, diritta come una can­dela e con gli occhi spalancati. È una ragazzina dai pol­si sottili e dal faccino magro e diafano. È parzialmen­te paralizzata, aveva appena ricominciato a cammina­re tra due infermiere, passo dopo passo. « Hai sentito? Devo partire» sussurra. «Come, anche tu?». Ci guar­diamo per un po' senza riuscire a parlare. Il suo vi- sino è svanito, è solo occhi. Finalmente dice con una monotona vocina grigia: «Che peccato, eh? Pensare che quanto hai imparato nella tua vita è stata fatica sprecata », e « Però com’è difficile morire, eh? ». D’un tratto la rigidità innaturale del suo visino cede alle la­crime e al grido: « Oh, dover partire dall’Olanda è la cosa peggiore», «Oh, perché non siamo morti p ri­ma! ». Più tardi nella notte la rivedrò per l’ultima volta.

Nel lavatoio c’è una piccola donna che regge sul braccio una bacinella di bucato ancora gocciolante. Si aggrappa a me, ha l’aria un po’ spiritata. Mi riversa addosso un fiume di parole: «È impossibile, com’è possibile, devo partire e non riesco nemmeno a far asciugare il mio bucato per domani. E il mio bambino

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è malato, ha la febbre, non potrebbe far in modo che io non debba partire? E non ho nemmeno abbastanza vestiti per il bambino, mi hanno appena mandato le ghette piccole invece di quelle grandi, oh, c’è da im­pazzire. E ci si può portare una sola coperta, avremo un bel freddo, o pensa magari di no? Ho un cugino che è arrivato con me, ma non deve partire perché ha i documenti giusti, crede che potrebbero servire anche per me? La prego, dica che non devo partire, Lei che ne pensa, lasceranno i bambini con le mamme? Sì, torni stanotte, torni per aiutarmi, Lei che ne pensa, chissà se i documenti di mio cugino... ».

Se dico che stanotte sono stata airinferno, che co­sa ne potete capire voi? L'ho constatato una volta con un certo distacco nel cuore della notte, mi sono detta ad alta voce: «Eccomi dunque neH’inferno ».

È impossibile distinguere chi deve partire e chi no, quasi tu tti sono alzati, i malati si aiutano reciproca­mente a vestirsi. Parecchi di loro non hanno abiti, i loro bagagli sono stati smarriti o non sono ancora ar­rivati. Le signore del « Servizio di Approvvigionamen­to » girano distribuendo vestiti, importa poco che sia­no della misura giusta purché si abbia qualcosa indos­so. Alcune donne anziane saranno conciate in modo ridicolo. Si preparano dei biberon di latte da portare in viaggio per i neonati, le cui grida pietose penetrano in tutte le commessure della baracca. Una giovane mamma mi dice quasi scusandosi : « Il mio bambino non piange mai, è proprio come se sentisse quel che sta per succedere». Prende il suo bambino - un me­raviglioso bebé di otto mesi - da una culla rudim en­tale e gli dice sorridendo : « Se ora non sei bravo, non potrai fare il viaggio con la mamma! ». Mi rac­conta di suoi amici: «Quando i “V erdi” sono andati a prenderli a Amsterdam, i bambini hanno pianto in modo terribile. Allora il padre ha detto: “Se ora non fate i bravi, non potrete salire sulla macchina verde, quel signore non vorrà prendervi su”. Ed è servito,

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i bambini si sono calmati». Mi strizza rocchio con aria coraggiosa - è una donna magrolina e bruna dal colorito olivastro e dal viso arguto, indossa dei pan­taloni grigi e un maglione di lana verde : « Io non so­no tanto forte anche se adesso rido».

La piccola donna del bucato bagnato è quasi fuori di sé. « Non potrebbe nascondere il mio bambino? Su, me lo nasconda, ha la febbre alta, come posso portarlo con me adesso?». E mi indica una misera creaturina dai riccioli biondi e dal visino acceso che si agita in un lettuccio di legno grezzo. L ’infermiera vuol far mettere alla madre un maglione di lana in più sopra il vestito, lei resiste: «Non voglio portarmi niente, a che cosa mi serve?... Il mio bambino...». Singhiozza: « Un bambino malato ti viene tolto e non ti viene più restituito». Una donna le si avvicina, è una donna del popolo dalla figura pesante e dal viso benevolo e un poco ottuso; tira a sé la madre disperata e se la fa sedere accanto sul bordo di una cuccetta di ferro, le parla con una cadenza popolare quasi melodiosa: « An­che tu sei ebrea come gli altri, anche tu devi partire, non è così?».

Un paio di letti più in là scorgo d’un tratto il fac­cino lentigginoso diventato cinereo di una mia colle­ga: è accoccolata accanto al letto di una donna mo­rente che ha inghiottito del veleno, e che è sua madre.

« Mio Dio, che succede mai qui, che intendi fare? », mi sfugge di bocca. Ecco quella donna piccola e af­fettuosa che viene dai quartieri popolari di Rotter­dam. È incinta di nove mesi. Due infermiere cercano di vestirla. Lei si appoggia col corpo deforme al let­tuccio del suo bambino mentre gocce di sudore le co­lano sul viso. Fissa un punto lontano dove non posso seguirla e dice con voce atona e spenta: «Due mesi fa ero pronta ad accompagnare volontariamente mio marito in Polonia. Non mi era stato concesso perché ho sempre dei parti difficili. E ora devo partire... per­ché stanotte è scappato qualcuno...». Il lamento dei neonati si gonfia, riempie tutti gli angoli e le fessure

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della baracca illuminata in modo spettrale, è quasi insopportabile. Nella mia mente affiora un nome : Ero­de.

Sulla barella che la porta al treno cominciano le do­glie, e allora è permesso portare quella donna in ospe­dale invece che al treno merci, il che può esser anno­verato fra i gesti più umani che siano stati compiuti stanotte...

Passo accanto al letto della ragazzina paralizzata che con l'aiuto degli altri è già parzialmente vestita. Non ho mai visto occhi così grandi in un faccino così pic­colo. « Non riesco ad accettarlo » mi sussurra. Poco più in là c'è la mia piccola russa gobba di cui vi ho già parlato. È come intessuta di tristezza. La ragazzina paralizzata è sua amica. Più tardi si lamenterà con me: « Non aveva nemmeno un piatto, volevo darle il mio ma non l’ha voluto, mi ha detto: “Tanto fra dieci giorni sarò morta e allora il mio piatto ce l'avranno quegli orribili tedeschi” ». La russa sta davanti a me, un chimono di seta verde avvolge la sua figurina de­forme. Ha occhi di fanciullo, molto saggi e puri. Mi scruta a lungo in silenzio e poi esclama appassionata­mente: «Vorrei, oh quanto vorrei nuotar via nelle mie lacrime vèrso un mondo migliore», e «H o una nostalgia terribile della mia buona mamma». (Que­sta buona mamma è morta di cancro alcuni mesi fa, nel lavatoio accanto al W.C. dove almeno ha avuto un istante di solitudine per poter morire). Ljubochka mi chiede col suo strano accento, e col tono di un bambino che vuol farsi perdonare: « Il buon Dio sa­prà p u r capire i miei dubbi in un mondo come que­sto?». Poi si volta con un gesto quasi grazioso d'infi­nita tristezza, e per tutta la notte vedo una figura de­forme vestita di seta verde muoversi fra i letti, e ren­dere piccoli servizi a coloro che partono. Lei non de­ve ancora partire, per lo meno non questa volta...

Sto spremendo del succo di pomodoro da portare in viaggio nei biberon per i bebé. Accanto a me è seduta una giovane donna dall'aria intraprendente,

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pronta a partire e molto curata. Sembra quasi che mandi un grido di liberazione quando esclama, accom­pagnandosi con un largo gesto del braccio: «Sono pronta a fare il grande viaggio, forse ritroverò mio marito ». Una donna di fronte a lei s’intromette ama­ramente: «Anch’io devo partire, ma pronta non so­no» . Osservo per un momento la giovane donna ac­canto a me, è qui solo da pochi giorni e viene dalla baracca di punizione. Da lei emana un senso di forza e di indipendenza, e c’è un ’espressione di sfida intorno alla sua piccola bocca. È pronta per la partenza dalle prim e ore della notte, porta pantaloni lunghi e ma­glione e giacca di lana. Per terra accanto a lei c’è uno zaino pesante con una coperta arrotolata. Cerca di mandar giù alcune fette di pane imburrato. Sono am­muffite. « Mi toccherà ancora spesso mangiare pane ammuffito, » dice ridendo « in prigione non ho man­giato per giorni interi». Un pezzetto della sua storia raccontato da lei stessa : « Mi hanno sbattuta in pri­gione quando ero già molto avanti nella gravidanza. Con quanto scherno e disprezzo mi hanno trattata! Avevo fatto lo sbaglio di dire che non potevo stare in piedi e così mi hanno fatta stare in piedi per ore, ma ho tenuto duro senza fiatare ». Ha un’aria di sfida. « Mio marito si trovava nella stessa prigione - comelo hanno maltrattato, e com’è stato coraggioso! Il me­se scorso è stato deportato da qui, io avevo partorito da due giorni e non ho potuto accompagnarlo. Ma co­m ’è stato coraggioso! ». È quasi raggiante di una sorta d i orgoglio intenerito. Poi dice: « Il bambino è mor­to qui. Forse ritroverò mio m arito». Ride con aria di sfida : « Anche se ci copriremo di sporcizia e di lor­dura, ce la caveremo». Guarda i bambini che piango­no intorno a noi: «Potrò fare un buon lavoro nel treno, ho ancora del latte».

« Come? Anche Lei? » esclamo inorridita. Una figu­ra slanciata di donna si gira, venendomi incontro tra i giacigli in disordine dei bambini che si agitano e si lamentano, le sue mani annaspano in cerca di appog­

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gio. È vestita di un lungo e antiquato vestito nero. H a una fronte aristocratica e capelli bianchissimi e ondulati pettinati verso l'alto. Suo marito è morto qui alcune settimane fa. H a superato di molto gli ottan­tan n i ma ne dimostra meno di sessanta. H o sempre ammirato lo stile principesco con cui stava distesa sulla misera cuccetta. La sua risposta è un grido rau­co: « Sì, non mi è stato concesso di giacere nella tom­ba con mio m arito».

Ah, c’è anche lei: quella piccola ed energica donna del ghetto che era sempre tormentata dalla fame sulla sua cuccetta perché non riceveva mai pacchi. E aveva qui sette figli. Zampetta sulle sue gambe corte, tutta affaccendata e piena di coraggio. « Eh sì, che cosa cre­de, io ho sette figli, e loro devono ben avere una mam­ma coraggiosa». Con gesti veloci riempie fino all'or­lo un sacco di iuta. « Io non lascio niente indietro, mio marito è stato deportato un anno fa e i miei due figli maggiori sono già partiti anche loro». Dice con viso raggiante: « I miei figli sono dei tesori con me ». Zampetta, si dà da fare, insacca, mentre passa ha una parola d'incoraggiamento per tutti. Una piccola, brut­ta donna del ghetto dai capelli neri e grassi, dal ventre pesante e dalle gambe corte. Indossa un povero vestito scuro con le mezze maniche, immagino che con quel vestito lei facesse già il bucato nella stia tinozza della Jodenbreestraat. E ora con quello stesso vestito se ne va in Polonia, tre giorni di viaggio con sette figli. « Eh sì, che cosa crede, io parto con sette figli, e loro devo­no ben avere una mamma coraggiosa».

Si capisce ancora che quella giovane donna laggiù era un tempo abituata al lusso, e molto bella. È arri­vata da poco nel campo. Si era nascosta per proteggereil suo bambino; ora è qui, tradita da una delazione come molti altri clandestini. Il marito si trova nella baracca di punizione. Lei ha un aspetto pietoso. Fra i suoi capelli tinti di biondo spunta il nero di prima, con un riflesso verdastro. H a indossato vari strati di biancheria e vestiti, l'uno sull'altro - non si riesce a

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portare a mano ogni cosa, soprattutto se si ha con sé un bambino piccolo. Ora la sua figura è deforme e ri­dicola. Il suo viso è chiazzato. Fissa tutti con occhi ve­lati e interrogativi come un giovane animale compieta- mente indifeso e abbandonato. Che aspettò avrà que­sta donna, già ora totalmente smarrita, quando fra tre giorni sarà scaricata dal vagone merci strapieno, in cui sono stati pigiati uomini donne bambini neonati e bagagli, con un barile nel mezzo come unico arredo? Probabilmente si finirà in altri campi di transito, da cui si sarà di nuovo trasbordati altrove. Siamo braccati a morte attraverso l ’Europa...

Giro ancora, un po’ smarrita, per altre baracche. Passo attraverso scene che mi sorgono davanti in mol­ti piccoli dettagli cristallini, e che sono allo stesso tem­po come visioni evanescenti e antichissime. Vedo por­tar via un vecchio moribondo che recita lo Shemà per se stesso. Recitare lo Shemà significa dire la preghiera per un morente.60 Consiste sostanzialmente nell’invo- cazione ripetuta del nome di Dio, e raggiunge il livel­lo più alto se il morente è ancora in grado di parte­cipare alla preghiera. Vedo portare al treno un vec­chio su una barella, un vecchio che recita lo Shemà, per se stesso... Vedo un padre che prima della parten­za benedice sua moglie e suo figlio, e che si fa benedi­re a sua volta da un vecchio rabbino dalla barba bian­ca come la neve, e dall’ardente profilo di profeta. Ve­do... ma tanto non riesco a descriverlo...

A poco a poco si sono fatte le sei di mattina, il tre­no partirà alle undici, si cominciano a caricare persone e bagagli. Gli accessi al treno sono sbarrati da uomini del servizio d’ordine, tutte le persone che non sono60. « Ascolta Israele; l ’Eterno è il nostro Dio, l’Eterno è uni­co * : cosi incomincia lo Shemà, ed è probabilmente a quest’in­vocazione iniziale, più che a tutto il testo esortativo, che si ri­ferisce Etty quando identifica lo Shemà con la preghiera dei morenti.

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coinvolte in questa deportazione devono sgombrareil campo e rimanere nelle baracche. Io m ’infilo in una baracca che si trova proprio di fronte al treno. « Da qui si è sempre goduto di una bellissima vista sui con­vogli in arrivo e in partenza», sento dire da una voce cinica. Già da ieri il nostro campo è tagliato in due dal treno: una deprimente fila di nudi e vuoti vagoni merci, preceduta e chiusa da due carrozze passeggeri destinate alla scorta. In alcuni vagoni ci sono dei ma­terassi di carta per terra, quelli sono per i malati. Sul­la banchina di asfalto lungo il treno l’animazione cre­sce. Uomini della « Colonna Volante » in tute marro­n i trasportano bagagli su carriole. Fra loro scopro al­cuni buffoni di corte del comandante : il comico Max Ehrlich e il compositore di canzonette Willy Rosen, che pare la morte che cammina. A suo tempo doveva essere irrevocabilmente deportato, ma poche sere p ri­ma della partenza cantò da farsi scoppiare i polmoni davanti a un pubblico estasiato, fra cui si trovava il comandante con il suo seguito. Cantò tra l’altro: lek kann es nicht verstehen elafi die Rosen bliihen,61 e al­tre canzoni similmente appropriate. Il comandante, che di arte se ne intende, era entusiasta; e così Willy Rosen fu «bloccato», e gli fu perfino assegnata una casetta dove ora abita dietro tendine a quadretti rossi, insieme con la moglie tinta di biondo che di giorno sta dietro al mangano nei vapori bollenti della lavan­deria. Ora quello stesso Rosen, vestito di una tuta co­lor avana, spinge una bassa carriola su cui gli tocca portare i bagagli dei suoi fratelli di razza, e pare la morte che cammina. Ecco un altro buffone di corte, Erich Ziegler, il pianista prediletto del comandante. Corre voce che sappia addirittura suonare la Nona di Beethoven a ritmo di jazz, e questo significa pure qualcosa...

Improvvisamente, uno stuolo di uomini in unifor­

61. c Non riesco a capire che fioriscano le rose », con gioco di parole sul nome « Rosen ».

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me verde sciama sull’asfalto, non capisco da dove spun­tino. Sulla schiena portano zaino e fucile. Io studio figure e visi e cerco di osservarli senza pregiudizi.

Alla partenza di altri convogli avevamo spesso visto dei tipi ancora abbastanza integri e bonari, che girava­no stupiti per il campo fumando la pipa, e parlavano un dialetto incomprensibile - dei tipi con cui non si sarebbe temuto d ’intraprendere il viaggio. Ora sono inorridita. Questi sono ceffi ottusi e beffardi in cui si cercherebbe invano un piccolo residuo di umanità. Su quali fronti è cresciuta questamente, in quali campi di punizione si è esercitata? Ma non si tratta forse di una deportazione punitiva? Alcune giovani donne so­no già sedute nei vagoni merci con in grembo i loro bambini di pochi mesi e le gambe che penzolano fuori, vogliono godersi l’aria fresca il più possibile. Passano dei malati sulle barelle. È una deportazione punitiva. Devo quasi ridere, la sproporzione tra sorveglianti e sorvegliati è troppo ridicola. Il mio vicino dietro la fi­nestra ha un brivido di orrore. Mesi fa è stato portato qui da Amersfoort dove lo avevano fatto a pezzettini. « Così è quella gente, » dice « hanno una faccia così ». Alcuni bimbetti stanno col naso incollato ai vetri delle finestre, io ascolto i loro discorsi pieni di serietà. « Per­ché dei tipi così schifosi e cattivi portano il verde, perché non portano il nero? Il nero non è il colore dei cattivi?». «Guarda, un malato». Un ciuffo di capelli grigi spunta da una coperta in disordine su una barella. « Guarda, un altro malato». E indicando i «V erdi»: «Guarda, ora ridono».

I nudi vagoni merci si stanno riempiendo. Sulla ban­china di asfalto arriva a passi lenti un ’alta figura soli­taria con una cartella di documenti sotto il braccio. È il capo della cosiddetta Antragsstelle, l’Ufficio Peti­zioni. Fino all’ultimo m inuto cerca di strappare per­sone dalle mani del comandante. La contrattazione dura fino alla partenza del treno, da cui spesso si rie­sce ancora a tirar fuori qualcuno. L ’uomo con la car­tella ha una fronte da giovane studioso e spalle stan­

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che, molto stanche. Una vecchietta curva con un an­tiquato cappellino nero sulle ciocche di capelli grigi gli sbarra la strada, e intanto gesticola e gli sventola molte carte sotto il naso. Lui Fascolta per un poco, scuote la testa in segno di diniego e poi le volta le spalle, che sono ora un po’ più curve del solito. Que­sta volta non si lasceranno uscire molte persone dal treno airultimissimo minuto. Il comandante è arrab­biato. Un giovane ebreo ha osato scappare; non è sta­to nemmeno un vero e proprio tentativo di fuga, quel ragazzo era scappato dall’ospedale in un momento di confusione mentale - portava una giacca di stoffa sotti­le e lucida sul pigiama celeste e si era nascosto con im­perizia quasi puerile in una tenda, dove era stato ben presto ritrovato in seguito a una battuta per tutto il campo. Ma un ebreo non deve scappare e nemmeno confondersi. Il verdetto del comandante è inesorabile. Decine di altri devono inaspettatamente partire per rappresaglia, tra cui molti che si credevano saldamente ancorati qui. T u tto questo sistema si fonda sulla pu­nizione collettiva. E certo i molti aeroplani che sta­notte sono volati sopra le nostre teste non avranno giovato molto all’umore del comandante - ma su que­sto punto lui non si esprime così apertamente.

Ora i vagoni merci si direbbero pieni. Figuriamoci! Dio mio, come faranno a starci tu tti questi altri? Ar­riva un gruppo numeroso. I bambini hanno sempreil naso schiacciato contro i vetri e partecipano a ogni cosa con molta attenzione. « Guarda, c’è gente che esce di nuovo fuori, hanno certo troppo caldo nel treno». D’un tratto uno dei bambini esclama: « Il comandante! ».

Lui appare a un capo della banchina di asfalto, co­me la stella famosa di una rivista che entra in scena soltanto nel gran finale. Su di lui fioriscono già quasi le leggende. Ha così tanto charme ed è così ben dispo­sto verso gli ebrei. Per essere il comandante di un campo di ebrei ha convinzioni assai singolari. Poco tempo fa aveva deciso che il nostro vitto doveva esse­

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re più variato, e prontamente ci furono serviti per una volta ceci grigi invece che cavolo. Lui è anche per così dire il padre della vita artistica del campo, e un assiduo frequentatore delle nostre serate di caba­ret. Una volta è arrivato al punto di assistere per tre sere consecutive alla medesima rappresentazione, ri­dendo forte ogni sera alle stesse fruste battute. Sottoi suoi auspici è stato fondato un coro maschile che per suo ordine ha cantato Bei mir bist du schòn, « Sei bello accanto a m e». Bisogna ammettere che quel canto rapiva proprio, ascoltato sulla nostra brughie­ra. A volte il comandante invita gli artisti a casa sua e chiacchiera e beve con loro fino all’alba, e poco tem­po fa ha riaccompagnato u n ’attrice alla sua baracca nel cuore della notte e nel congedarsi le ha dato la mano - proprio la mano! Si dice pure che lui predi­liga i bambini, i bambini devono passarsela bene, in ospedale ricevono un pomodoro al giorno. Qui però muoiono molti bambini. Nessun uomo di scienza ha saputo finora intuirne il perché. E cosi potrei raccon­tare molte altre storielle sul « nostro » comandante. Forse lui si sente come un principe che regna con cle­menza su una moltitudine di umili sudditi, Dio solo sa come si senta. Una voce dice dietro di me: « Una volta avevamo un comandante che ci spediva a calci in Polonia, questo lo fa a sorrisi».

Lui cammina lungo il treno con passo militare, è un uomo ancora relativamente giovane che ha fatto carriera, se così la si può chiamare. Ha poteri asso­luti sulla vita e sulla morte degli ebrei olandesi e tedeschi raccolti su questa brughiera del Drenthe; è probabile che solo un anno fa non sapesse nemme­no dell’esistenza di questa brughiera - del resto, nonlo sapevo neanch’io. Stamattina fa deportare cinquan­ta ebrei in più perché un ragazzo in pigiama celeste si è nascosto in una tenda. Il comandante cammina lungo il treno, i capelli grigi, spazzolati con cura, spuntano sulla nuca da sotto il suo piatto berretto verde chiaro. Per quei capelli grigi, che contrastano

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così romanticamente con un viso ancora giovane, van­no in estasi molte sciocche ragazzine di qui, anche se non osano confessarlo apertamente. Il suo viso è qua­si grigio ferro in questa brutta mattina. È un viso che non sono ancora in grado di decifrare, a volte mi fa pensare a una sottile cicatrice in cui sono con­cresciute rabbia, scontentezza e falsità. E poi c’è qual­cosa nella sua fisionomia che sta a metà fra un azzi­mato aiutante di parrucchiere e l’assiduo frequentato- re di una bettola di artisti. Ma la rabbia e la forzata rigidezza predominano. Il comandante cammina con passo militare lungo i vagoni merci che scoppiano di gente. Sta ispezionando le sue truppe: malati, lattan­ti, giovani mamme e uomini rapati a zero. Arrivano ancora alcuni malati sulle barelle, lui fa un gesto im­paziente, le cose non vanno abbastanza in fretta.

Dietro il comandante cammina il suo segretario ebreo, vestito elegantemente di calzoni beige da ca­vallerizzo e giacca sportiva marrone. H a l ’aria corretta, sportiva, e insieme insignificante di un bevitore in­glese di whisky. Un bel cane da caccia bruno arriva a grandi salti Dio solo sa da dove, il segretario in beige scherza con lui con gesti graziosi, sembra proprio una illustrazione uscita da una rivista mondana inglese. Gli uomini del plotone verde stanno a guardare im­bambolati. Forse pensano - ma « pensare » è davvero una grande parola - che questi ebrei hanno un aspet­to del tutto diverso da quello proposto dai loro fo­glietti pedagogici. Alcuni pezzi grossi ebrei del cam­po camminano lungo il treno. « Anche loro si danno importanza » mormora qualcuno dietro di me. « Bou­levard dei deportati » esclamo io. « Si potrà mai de­scrivere al mondo esterno,quel che è successo qui?» domando al mio compagno. Forse il mondo di fuori pensa a noi come a una massa grigia, uniforme e sof­ferente di ebrei, forse non sa nulla dei fossati, degli abissi, delle sfumature che separano i singoli dai grup­pi; forse non sarebbe nemmeno in grado di capire queste cose. Il comandante è stato ora raggiunto dal-

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r Oberdienstleiter, il direttore generale dei servizi del campo, e d ’un tratto appare magro e fragile. U O ber­dienstleiter è un ebreo tedesco dalla statura possente. Stivaloni neri, berretto nero, giubbone militare nero con la stella gialla. H a labbra crudeli e un collo forte, da despota. Appena un anno fa lavorava come sterra­to r i nel servizio esterno. La sua rapida ascesa costitui­sce un significativo pezzo di storia della mentalità con­temporanea, in futuro si dovrà ritornare su questo tema. Il rigido comandante verde chiaro, l’impassibile segretario beige, e la nera figura dispotica dell’ Ober- diensleiter sfilano lungo il treno. Intorno a loro si crea il vuoto ma tu tti gli occhi li fissano.

Mio Dio, è proprio vero che tutte quelle porte si chiudono? Sì, è così. Le porte si chiudono sulle molti­tudini cacciate indietro, e pigiate nei vagoni merci. Attraverso le strette aperture in alto si vedono teste e mani che tra poco saluteranno, alla partenza del tre­no. Il comandante percorre ancora una volta tutta la banchina lungo il treno su una bicicletta. Poi fa un breve gesto con la mano come il principe di u n ’ope­retta, accorre un piccolo attendente ossequioso che prende la bicicletta in consegna. Un fischio acuto e stri­dente, e un treno con 1020 ebrei lascia l’Olanda. Que­sta volta non si è nemmeno preteso tanto: solo un mi­gliaio di ebrei, quei venti in più sono di riserva per il viaggio, è sempre possibile che qualcuno muoia o venga soffocato, e specialmente su questo convoglio, che trasporta tanti malati senza nemmeno u n ’infer­miera.

La marea degli aiutanti rifluisce lentamente, vanno a riposare nei propri dormitori. Si vedono molti visi sfiniti, pallidi e sofferenti. Un altro pezzo del nostro campo è stato amputato, la prossima settimana tocche­rà al prossimo pezzo, qui si vive così da più di un anno, settimana dopo settimana. Siamo rimasti in po­che migliaia. Già centomila nostri fratelli di razza olandesi faticano sotto un cielo ignoto, o stanno im­putridendo in una terra ignota. Non sappiamo nul­

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la del loro destino. Forse lo sapremo presto, ognuno a suo tempo, perché quello sarà anche il nostro desti­no - non ne dubito nemmeno un istante. Ma ora devo andare a dormire u n ’oretta, sono un po’ stanca e la testa mi gira; e poi devo passare in lavanderia a cer­care una spugnetta smarrita. Prima però vado un po­co a dormire, e per il resto sono fermamente decisa a ritornare da voi dopo alcune peregrinazioni. Per ora vi saluto un ’altra volta, miei cari.

45. A Christine van NootenWesterbork, 1° settembre 1943

Christine, cara e sollecita amica, mando a te una delle due cartoline postali che mi sono consentite. La famiglia è ancora al completo, per adesso. Papà e mam­ma stanno di nuovo in una grande baracca e così la vita si è fatta assai più difficile. Non ci si può immaginare che cosa sia una grande baracca. Papà è già felice co­me un bambino se non viene calpestato. Lui legge, se­duto sulla sua panca di legno, e intanto dei bambini piccoli gli si arrampicano più o meno sulla schiena. Legge del re Salomone e di Amore , e ne conosci beneil mittente. Mischa timbra biglietti nella baracca dei bagni, e sotto i biglietti c'è una partitura. La mamma si prende cura dei suoi uomini maldestri e ringrazie- rebbe il cielo se potesse rimanere qui. Se... Degli Ade- laar non è rimasto più nessuno. Puoi dire a Simon che non ha più da spedire pacchi alla famiglia Frank? E ringrazialo per la cura con cui ha imballato e spe­dito tante buone cose terrene. Noi esprimiamo dei desideri e voi li esaudite.

Trasmetti un caldo saluto da parte nostra a quella cara Hansje Lansen. Avremmo voluto ringraziarvi an­cora una volta di persona per tutto quanto, l’avrem­mo proprio voluto. Chissà, forse riceverai presto no­

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tizie da Maria Tuinzing? Le figurine erano una cosa vivace e simpatica, proprio così! E per tornare subito alle cose materiali: è meglio che il grosso del pane e del burro arrivi qui alla fine della settimana o al più tardi lunedì, così saremo pronti ogni volta per qualsia­si eventualità. Il peggior dramma familiare capitato di recente: l’unico paio di scarpe di papà è stato smar­rito (per non dire rubato) in una triste notte, e ora lui usa un paio di scarpe imprestate che sono troppo grandi; è una situazione molto penosa ma insomma, anche questo si supera. In fondo si riuscirebbe a su­perare ogni cosa purché si potesse rimanere in questo piccolo paese. Ma insomma... Il campo pian piano si svuota. E tu stai di nuovo davanti alle tue classi di giovani desiderosi d ’imparare? Papà legge ancora Sal­lustio e Omero con un ragazzo volenteroso, che di giorno scava piccoli fossati. È una fortuna che sia sta­to esonerato da servizi edificanti come mondar fagio­li, ecc., le sue condizioni fisiche non gli consentono di lavorare.

Mia cara, questa volta non ho molto da raccontar­ti, è un giorno grigio e opprimente; ora sono seduta su un letto capovolto, in un praticello dietro una ba­racca dell’ospedale. Da tua sorella è arrivato un favo* loso dolce di Groningen, era una commovente rispo­sta al desiderio di papà di mangiare cose tostate; ora non è più così indispensabile, e il pane di segala altret­tanto benvenuto - e forse più comodo? Cari miei, vi diamo un gran daffare. Un bel giorno ti manderò sol­tanto delle effusioni liriche, e nemmeno una parola sul cibo che trovo un argomento detestabile. I Salmi so­no davvero splendidi. Credi che a Deventer sia rima­sta ancora una coperta da qualche parte? Alla fine di una cartolina del tutto insulsa ti saluto, carissima, alla prossima volta. T u tti noi ti salutiamo. E porta per fa­vore un saluto ai colleghi di papà.

T ua Etty

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46. A Maria Tuinzing[Westerbork] 2 settembre [1943]

Marietke, ho mandato la prima parte di questa let­tera a papà Han, spero che le due parti arrivino in­sieme. Quella per papà Han è un piccolo pezzo di giornalismo e in fondo non fa per te. Ciao mia cara, come va tutto quanto? Ho un gran desiderio di rice­vere qualche parolina. Ora le lettere arrivano un po’ meglio, per raccomandata arrivano di certo. Dillo so­prattu tto a Swiep, e tramite lei agli altri conoscenti di Anne-Marie, che soffre molto per il silenzio degli amici. Gli scarabocchi d i Hans mi hanno fatto piace­re. H o subito portato la letterina per Rob ai suoi ge­nitori, dal momento che io non ho il permesso di ve­derlo. O ra mi trovo nella grande baracca accanto al mio papà, che è stato d i nuovo dimesso dall’ospeda­le. Gli stati d ’animo variano, ma il senso dell’umo­rismo spunta sempre fuori. Però è una situazione p iu t­tosto macabra per gli anziani. Martedì scorso ce l’ab­biamo fatta. Se martedì prossimo partirà un altro con­voglio, ci saranno ben poche probabilità di trattenere qu i i miei genitori. Queste tensioni consumano più di tu tto - le tensioni per gli altri, naturalmente. Stamat­tina ho trovato un grande scompiglio nel nostro uffi- cetto: era stato requisito come spogliatoio per la rivi­sta, che in questo momento occupa tutto il campo. Mancano le tute per le persone che lavorano nel ser­vizio esterno, ma nella rivista è compreso un « bal­letto delle tute » e così giorno e notte si cuciono que­ste tute, e hanno piccole m aniche a sbuffo. Le tavole d i legno della sinagoga d i Assen sono state segate per allestire il palcoscenico del balletto. Un falegname ha esclamato : « Che cosa d irebbe Dio, se sapesse che la Sua sinagoga a Assen è usata per un simile scopo! ». Splendido, vero? «La sinagoga di Dio a Assen». Oh, Maria, Maria... Nella notte precedente all’ultima de­

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portazione si è continuato a lavorare tutto il tempo per la rivista. Qui ogni cosa è di un ’indescrivibile e buffonesca assurdità e tristezza.

Io sto bene. H o ripreso a lavorare al mio russo per u n ’ora al giorno, leggo qualche Salmo e parlo con donne centenarie, che ci tengono molto a raccontarmi tutta la loro vita. In fondo vivo qui proprio come quando stavo con voi a Amsterdam - vivo nella comu­nità ma anche molto per me stessa e questo mi riesce benissimo, sebbene qui si stia addosso e sopra e sotto e in mezzo agli altri.

Sai che cosa mi piacerebbe ancora avere? La vesta­glia di lana azzurra che mi aveva dato Hesje e il mio feltro azzurro, è la cosa più pratica per coprirmi la testa. E forse dovrei farmi mandare anche il mio ve­stito di maglia azzurro, a volte fa assai freddo, e poi mi servirebbe nel caso in cui dovessi improvvisamente partire - qui non si può mai sapere. Spero solo di non seccarvi troppo.

Stabiliamo di nuovo così: ogni martedì spedirò un breve telegramma ai Nethe e il testo sarà: « Viveri per quattro persone» (la fame non c’entra per nien­te); se papà e mamma saranno partiti, telegraferò: « Vi­veri per due persone». Qui saremo in molti a non darci pace per tutta la vita, perché abbiamo lasciato partire per prim i i nostri vecchi e i nostri malati. È una politica premeditata, che si fonda sull’« istinto di conservazione ». Papà ha chiesto a un infermiere del­l ’ultima deportazione: «Com ’è possibile che l’ospe­dale lasci partire delle persone quasi morte, non è forse contro l’etica medica?». E quell’infermiere gli ha risposto serissimo : « L’ospedale consegna un cadave­re per trattenere un vivo». Non voleva affatto essere spiritoso, lo diceva proprio sul serio.

Vedi Tide, qualche volta? Puoi dire anche a lei delle lettere per raccomandata? Io scrivo di nuovo un po’ di tutto alla rinfusa e poche cose buone. Ogni tanto qui si è terribilmente stanchi ed è proprio così

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che mi sento stamattina, ma questa lettera deve par­tire tra poco, quindi scarabocchio ancora qualcosetta. Potete spedire o recapitare le lettere di Mechanicus che accludo? È grazie a lui che posso far partire que­sta mia. T u tta la famiglia di Jopie è ora in ospedale, si fatica a tenere in vita il bim betta più piccolo. Co­me eravamo giovani solo un anno fa su questa bru­ghiera, Maria, ora siamo un tantino più vecchi. Noi stessi non ce ne rendiamo veramente conto: siamo stati marchiati dal dolore, per sempre. Eppure la vi­ta è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità, Maria - devo ritornare sempre su que­sto punto. E se solo facciamo in modo che, malgrado tutto, Dio sia al sicuro nelle nostre mani, Maria.

Qui non sono affatto all’altezza della situazione, non riesco a « far fronte » a tutte le persone che vogliono coinvolgermi nei fatti loro, spesso sono troppo, troppo stanca. Per favore, guarda una volta Kàthe con occhi amichevoli da parte mia, e accosta la tua guancia a quella di papà Han, anche da parte mia. E state an­cora bene insieme? E mi saluti la mia cara scrivania,il più bel posto di questa terra? E Swiep e Wiep e Hesje e Frans e gli altri?

T i guardo un momento in faccia, mia cara, e non dico più molto.

EttyH o appena saputo da H ilde Cramer che anche le

lettere per raccomandata arrivano male, quindi potete risparmiarvi questa fatica. Una piccola cartolina po­stale ogni tanto, sì, ogni tanto filtra ancora qualcosa.

E come sta Ernst? Stamattina una mia collega mi ha detto, a proposito di varie situazioni orribili che ci sono qui : « Ogni momento della propria vita in cui si è privi di coraggio è un momento perduto ». E ora vado dal parrucchiere. E forse tra poco dovremo tra­slocare dalla nostra casetta a un camerone, qui è sem­pre un affare di cinque minuti. Stamattina ho parla-

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to con Liesl Levie che ha continuamente il capogiro; diceva: « Me la cavo a capogiri». La madre di W erner è stata deportata.

Ciao, affettuosamente, Etty

47. A Christine van N oo ten62[Presso Glimmen, 7 settembre 1943]

Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: « Il Signore è il mio alto ricetto». Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scri­veranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie? An­che della mia ultima lunga lettera?

Arrivederci da noi quattro.Etty

Etty Hillesum morì a Auschwitz il 30 novembre 1943.

62. Questa cartolina postale, che Etty buttò fuori dal treno il 7 settembre 1943, fu ritrovata lungo la linea ferroviaria e spe­dita da Glimmen (nella provincia di Groningen) il 15 settem­bre 1943.149