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Il prete partigiano

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Davide Donato, giallo

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DAVIDE DONATO

IL PRETE PARTIGIANO

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IL PRETE PARTIGIANO Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-438-3 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Giugno 2012 Stampato da

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A Camilla, Alice e Valeria, le mie muse.

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Capitolo 1 Il batacchio, mosso da abili mani, cominciò a percuotere la campana di bronzo, dapprima piano, poi sempre con maggior vigore. Sedici rintocchi pesanti si sparsero nell’aria immobile ondeggiando tra le ampie falde di neve che cadevano lente, animate solo da qualche folata dispettosa. Era uno di quei rari giorni in cui il cielo trova il coraggio di essere più scuro della bianca terra calpestata dagli uomini. Le poche automobili avanzava-no con cautela lungo le viscide strade che lampioni ancora intermittenti cominciavano a colorare di giallo. Il commissario Francesco Garbo stava alla finestra, a braccia conserte, vi-cino alla stufa che diffondeva un piacevole tepore nella piccola stanza e osservava le poche persone rimaste sotto la neve ripiegarsi all’interno dei loro cappotti. All’improvviso venne percorso da un brivido e d’istinto al-lungò le mani verso la stufa, le lasciò riscaldare alcuni attimi e poi le ri-trasse sfregandole. All’ultimo rintocco della campana controllò l’orologio da taschino e, a-gendo sulle lancette, lo regolò sulle quattro. Poi tirò la tenda e infilato il guanto imbottito aprì la porticina della stufa. Un piacevole alone rosso co-lorò quella stanza senza quadri alle pareti, arredata con grigi mobili in me-tallo e ordinata ai limiti dell’ossessione. Prese uno dei ciocchi accatastati a piramide e lo gettò nella stufa liberando decine di scintille. Ritornò di malavoglia alla sua scrivania: ormai si avvicinava il periodo natalizio ed era tempo di stabilire i turni per i pochi giorni di vacanza che avrebbero potuto concedersi. Come al solito avrebbe passato in caserma sia Natale che Santo Stefano. Viveva solo e stare lì o a casa, in quelle giornate di festa, per lui era la stessa cosa. Qualcuno bussò alla porta. «Avanti!» rispose con voce ferma. «Commissario, scusi se la disturbo» disse l’appuntato aprendo la porta quel tanto che gli permise di mettere dentro la testa «c’è qui fuori il com-missario Zambon di Feltre che vorrebbe parlarle.» «Lo faccia entrare, cosa aspetta?» disse come rianimandosi.

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Il commissario Zambon entrò accennando un saluto. «Cosa ci fai qui con tutta questa neve? Sei bagnato fradicio, togliti il cap-potto.» «Ciao, Cesco» disse l’altro passandogli vicino e appoggiandogli una ca-rezza leggera sulla testa. «Mi metto vicino alla stufa, sono mezzo congela-to. A Feltre sono tre giorni che nevica che Dio la manda.» Il commissario Antonio Zambon era un vecchio e grasso poliziotto, troppo stanco e pigro per affrontare senza un valido motivo il viaggio da Feltre a Belluno in una giornata come quella. Francesco lo sapeva e lo osservava nel suo lento incedere verso la stufa, cercando di immaginare cosa poteva essere successo di così grave da riuscire a fargli staccare il culo dalla co-moda poltrona del suo ufficio. “E se si trattasse di Agnese?” pensò Francesco. Rabbrividì. «Che disdetta, una vera disdetta.» disse il commissario Zambon avvici-nando una sedia alla stufa e adagiando sullo schienale il cappotto umido. I due erano amici di vecchia data e avevano combattuto assieme nella Re-sistenza come partigiani. Le loro vite avevano seguito strade parallele e entrambi avevano deciso, a conflitto terminato, di arruolarsi nella polizia per mantenere la pace conquistata con così alto sacrificio di vite umane. Le esperienze che avevano vissuto gomito a gomito, tra i boschi delle loro Dolomiti, in una guerra fatta di imboscate, tranelli e sotterfugi, ne avevano fatto due fratelli, due compagni inseparabili. Avevano anche condiviso l’amore per la stessa ragazza e neanche quella rivalità era riuscita a scalfi-re la loro incrollabile amicizia. Agnese alla fine aveva scelto Antonio e Francesco aveva addirittura accettato di diventare il loro testimone di noz-ze e lo aveva fatto senza alcun rancore. Il commissario Zambon si accese una sigaretta e lasciò cadere il fiammife-ro tra le fessure concentriche della stufa, poi andò a sedersi sulla sedia da-vanti alla scrivania. «Agnese sta bene?» chiese Francesco avvicinandogli il posacenere. «Sì, ti manda a salutare.» «Allora» disse nascondendo un sospiro di sollievo «mi vuoi dire perché sei qui?» «Ho una bella gatta da pelare. Avevo scelto Feltre per starmene tranquillo e invece mi capita addosso un bel caso di omicidio, in pieno inverno per di più, con un freddo cane. Merda!» esclamò ammazzando la sigaretta sul posacenere. «Omicidio?» chiese Francesco curioso.

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Antonio si chinò, prese dalla borsa che teneva appoggiata a terra delle fo-tografie e le porse all’amico. Il commissario Garbo le prese e le osservò con calma. Ritraevano un prete, con la veste talare, disteso sopra un letto; morto. «Un prete?» «Esatto. O meglio, un parroco: Don Placido, cinquantacinque anni.» «Come fai a essere sicuro che si tratti di omicidio?» Antonio, per tutta risposta, gli tolse di mano le fotografie e, scorrendole, ne scelse alcune. In quelle immagini si notavano, sui polsi e sulle caviglie della vittima, dei lividi. «È stato legato?» «Esatto, incaprettato mani e piedi e probabilmente era nudo.» «Perché nudo?» «Quando l’abbiamo spogliato, per cercare di capire la causa della morte, ho notato che indossava le mutande al rovescio. L’assassino deve averlo rivestito in tutta fretta e nella foga del momento ha commesso questo pic-colo passo falso. È soltanto un’ipotesi, anche se, nudo o vestito, non fa molta differenza.» «Certo che non deve essere stato facile bloccare e legare un uomo di que-sta stazza.» «Ci saranno voluti almeno tre uomini. “Il prete partigiano” era alto oltre un metro e ottanta e pesava una novantina chili.» «Il prete partigiano?» «I suoi parrocchiani lo chiamavano così. Anche a Feltre, quelle poche vol-te che scendeva, tutti si rivolgevano a lui con questo soprannome.» «Interessante» disse pensieroso, poi chiese: «Dove è avvenuto il delitto?». « È qui il problema: Don Placido era il parroco di Settecà.» «Settecà? Mai sentito nominare.» «Ci credo. È un gruppo di case perso tra i monti, non è neppure segnato sulle carte geografiche. Si chiama così proprio perché ci saranno sì o no sette case in quel posto dimenticato da Dio. Per arrivarci, da Feltre, ci vuole più di mezz’ora. La strada che conduce al paesello è poco più che una mulattiera ed è così stretta che le automobili fanno fatica a passarci. Pensa che non hanno il telefono e la corrente elettrica è stata portata solo qualche anno fa.» «E come hanno fatto ad avvertirti dell’accaduto?» «C’è un vecchietto che da Settecà, con un’Ape Piaggio, viene giù a Feltre a prendere la posta e a fare provviste per l’intero paese. Lo chiamano Nu-

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volari perché va come un matto con quel motocarro. L’ho trovato all’ufficio postale, era andato a spedire delle lettere e stava raccontando alla signorina dello sportello che il prete era morto. Se non fossi capitato lì per caso nemmeno sarei venuto a sapere della morte di Don Placido. All’inizio non avevo neanche intenzione di andare a Settecà a vedere quello che era successo ma poi ho pensato che nessuno avrebbe potuto benedire la salma e mi sembrava brutto non concedere a un uomo di chie-sa una degna sepoltura. Così sono salito con Don Silvio, il cappellano di Feltre, per officiare il funerale ma quando sono arrivato ho trovato una sorpresa: il “prete partigiano” era morto il giorno prima e avevano già preparato la fossa per la tumulazione. Se avessimo ritardato di qualche o-ra, nessuno avrebbe saputo che il “prete partigiano” era morto assassina-to.» «Appena in tempo. Proprio una bella fortuna!» «Fortuna la chiami tu?» rispose il commissario Zambon accendendosi una nuova sigaretta dopo che l’altra, giovane, era spirata in un filo di fumo. « Se sapevo così me ne restavo a casa, a dormire, al caldo.» «Come è morto?» gli chiese. «È stato soffocato. Non ci sono segni sul resto del corpo. Secondo me è stato imbavagliato con uno straccio in bocca per impedirgli di chiamare aiuto e questo gli è stato fatale.» «Forse sono stati dei ladri. Magari erano entrati in casa sua, lui li ha sor-presi e loro, per ridurlo all’immobilità, lo hanno legato a una sedia e gli hanno tappato la bocca.» «Lo escludo nella maniera più assoluta. L’abitazione del prete è così spar-tana che un ladro per riuscire a rubare qualcosa avrebbe prima dovuto por-targliela. Secondo me il prete è stato ammazzato da qualcuno del paese.» «Hai provato a interrogare gli abitanti?» «Sì, certo, ma non ho ottenuto niente. Sono tutti dei vecchi partigiani zuc-coni che non si fidano dello Stato e della Polizia. Ho fatto fatica a farmi dire il loro nome, pensa interrogarli per un caso di omicidio!» «È evidente che stanno proteggendo l’assassino. Questo avvalora l’ipotesi che l’omicidio sia stato commesso da qualche membro della comunità, al-trimenti non avrebbero avuto nessun problema a raccontare come sono avvenuti i fatti.» «Esatto! L’assassino è nascosto tra quelle case. Ho anche tentato di mi-nacciarli dicendo che se non avessero collaborato li avrei arrestati tutti con l’accusa di intralcio alla giustizia, ma non c’è stato modo di farli parlare,

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preferiscono andare in galera. Pensa che la perpetua, che è quella che ha rinvenuto il corpo, ha detto di non ricordare l’ora del ritrovamento. Per poco non aveva dei dubbi anche sul luogo ove aveva trovato il cadavere.» «E dove ha detto di averlo trovato?» «In cucina, disteso sul divano, perfettamente vestito. Ha anche detto che era già rigido quando l’ha trovato. Come vedi è un disastro, un vero disa-stro.» «Immagino quindi che tu sia venuto fino qui per chiedermi aiuto?» «Esatto. Non so più cosa fare. A questo punto ho due sole possibilità: o mi aiuti tu o vado al Santo a Padova a chiedere una grazia.» «Non è facile. Non credo che se venissi io o un altro commissario a inter-rogare gli abitanti del paese questi deciderebbero di collaborare. Se hanno deciso di non parlare c’è poco da fare, non li puoi mica sbattere tutti in ga-lera! E poi siamo stati partigiani anche noi e lo sai che la prima regola era proteggersi l’un l’altro, fino alla morte se necessario.» Antonio ammazzò la seconda sigaretta sul posacenere, poi si alzò dalla sedia e andò a controllare se il cappotto si fosse asciugato. Si avvicinò alla finestra, spostò le tende e rimase immobile a osservare la neve cadere. Ormai non c’era quasi più nessuno per strada. Francesco lo raggiunse, gli appoggiò una mano sulla spalla e gli disse: «Sembra l’inverno del ’44! Quanta neve e quanto freddo abbiamo patito sui monti!» «Eravamo giovani e forti allora. Ti ricordi come eravamo tutti uniti, pronti a dare la vita uno per l’altro? Adesso i giovani non ce l’hanno più quello spirito di corpo, quel senso di appartenenza a un gruppo…» «Adesso non c’è più la guerra.» lo interruppe. «Tragedie come quella che abbiamo vissuto noi sono un legante eccezionale. Erano la necessità e l’idea di un fine da raggiungere, di un ideale da perseguire, a unirci. Però ci tornerei volentieri a vivere al freddo tra i monti pur di avere ancora vent’anni.» «Rassegnati, siamo vecchi ormai. Ci lamentiamo anche se possiamo stare qui, col culo vicino alla stufa, a guardare la neve che cade» rispose Anto-nio. «Rassegnarmi? Mai! Io mi sento ancora agile e scattante come un grillo.» «Sì, vorrei proprio vederti correre su e giù per le mulattiere con i tedeschi alle calcagna.» «Gliela farei in barba anche adesso.»

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«Ti ricordi quella volta che ci siamo travestiti da donna per andare in pae-se a trovare Agnese?» chiese il commissario Zambon ripescando dalla memoria. «Certo! E ti ricordi quando mi sono vestito da prete per andare a portare quella lettera a Treviso? «Eccome! Te la sei vista brutta. Per fortuna che quando i tedeschi ti hanno fermato si sono accontentati di rubarti la bicicletta. Se ti avessero frugato addosso ti avrebbero fucilato seduta stante.» Il commissario Garbo si fece di colpo silenzioso, poi si sedette di nuovo alla sua scrivania. «Vieni, Toni, mi è venuta un’idea.» L’amico si avvicinò. «E se mandas-simo un prete a Settecà? Non si insospettirebbe nessuno. Sarebbe la cosa più naturale del mondo: il vecchio parroco è morto e la Curia manda un sostituto.» «E cosa ce ne facciamo di un prete?» «Ma non uno vero! Mandiamo uno dei nostri travestito. Con una copertura come quella potrà conquistare con facilità la fiducia dei paesani. Magari l’assassino gli confesserà il delitto per togliersi il peso dalla coscienza.» «È una bella idea, ma come pensi la prenderà la Curia? E se poi denun-ciassero l’imbroglio al Vaticano?» «Ma non dire stupidaggini! Chi vuoi che si scomodi per un paesino di montagna con dieci abitanti? E poi è l’unica strada percorribile e io so an-che a chi affidare il compito.»

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Capitolo 2 Essere trasferito da una città grande e viva come Bologna a una piccola realtà di provincia come Belluno, sarebbe stata una punizione paragonabi-le ai lavori forzati per qualsiasi altro ragazzo di trent’anni, ma per Orazio Vigiani quello era stato una specie di regalo inaspettato. «Sovrintendente Vigiani, venga» gli aveva detto il suo capo. «Subito, Capitano.» «Prego, si accomodi» Non si sedette e rimase sull’attenti. «Ho buone noti-zie per lei. Ha lavorato bene qui con noi in questi anni e come premio ho pensato di trasferirla alla sede di Belluno…» Poi l’aveva guardato in viso e aveva detto: «con il grado di ispettore. È una bella occasione per lei, per far carriera, anche se la destinazione non…» «Va benissimo, Capitano» aveva risposto subito. «Accetto il trasferimen-to.» «Quando vuole partire?» «Anche subito.» «Allora prepari le sue cose.» «Grazie ancora, Capitano» aveva risposto ed era quasi scappato fuori dall’ufficio, come per non dare il tempo al suo superiore di ritornare sulle sue decisioni. Era andato diritto alla sua scrivania, aveva preso una borsetta di nylon del-la Coop e aveva cominciato a metterci dentro le sue cose personali. Poca roba a dire il vero: una fotografia di mamma e papà, una penna comprata in vacanza a Venezia, con una gondola che si muoveva su è giù, e un li-bro: “Il mastino dei Baskerville”, il suo preferito. «Orazio, cosa stai facendo?» gli aveva chiesto Giacomo, il suo vicino di scrivania. «Raccolgo la mia roba, sono stato trasferito a Belluno. Mi hanno promos-so ispettore.» «Complimenti!» gli aveva detto l’altro battendogli forte sulle spalle. Orazio aveva avuto un barcollamento sulle scarne gambe ma poi aveva risposto con un “grazie”

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«Non crederai di cavartela così» aveva detto Giacomo e poi, ad alta voce: «Orazio è stato promosso ispettore e paga da bere.» I pochi che erano in ufficio quella mattina si avvicinarono, chiassosi, per fargli i complimenti. Vedere un collega che veniva gratificato per il lavoro ben svolto era sempre motivo di nuova speranza anche per loro. Adesso si liberava il posto di Vigiani, qualcuno sarebbe diventato la nuova spalla dell’Ispettore capo e tutti erano convinti in cuor loro di meritarsi quell’incarico e quindi festeggiavano, un po’ per Orazio, molto per se stessi. «Cos’è questo chiasso?» aveva detto il capitano spuntando dal suo ufficio. «Festeggiavamo la promozione di Vigiani.» «Finitela, per Dio! Sembrate dei bambini in ricreazione» aveva tuonato ed era rimasto sulla porta fino a quando nella sala non ritornarono udibili i ticchettii delle macchine da scrivere. Orazio fu contento di interrompere lì i festeggiamenti, si mise a sedere sulla sua poltrona con la borsetta della Coop tra le gambe e sistemò al me-glio la scrivania che avrebbe lasciato a qualcun altro. Attese che finisse il suo turno e poi tornò nel suo appartamentino a equo canone, camera, ba-gno e cucina, a mezzora di macchina dal centro di Bologna. Gli bastò una valigia per raccogliere la sua roba, i pantaloni sotto e le ca-micie sopra, come gli aveva insegnato sua madre, e mise le scarpe in un borsone insieme ai suoi libri; che non importa se li aveva già letti tutti al-meno un paio di volte, perché a quelli non rinunciava. Aprì il frigorifero e mangiò quello che trovò; la mozzarella aveva due giorni, ma era ancora buona. Poi si sedette sulla poltrona vicino al mobi-letto con il telefono e accese la tv sul primo canale. Avrebbe voluto chia-mare mamma, per dargli la notizia, ma a casa non avevano ancora il tele-fono. Non sapeva proprio chi altri avrebbe potuto chiamare, che quel tele-fono, che il Capitano aveva voluto a tutti i costi installare per la reperibili-tà, anche notturna, lui l’aveva usato una sola volta da quando era a Bolo-gna, una mattina, dopo aver vomitato tutta la notte, per avvisare che non sarebbe andato a lavorare. Decise che a mamma avrebbe scritto una lettera e l’avrebbe fatto subito quella sera, senza indugiare.

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Capitolo 3 Il commissario Garbo si alzò deciso dalla poltrona, aprì la porta e disse ad alta voce: «Appuntato, faccia venire qui l’ispettore Vigiani.» Poi, ritor-nando a sedere, aggiunse: «Vedrai, è la persona giusta. È molto giovane ma è in gamba.» Qualcuno bussò. Il commissario riconobbe l’inconfondibile sagoma dell’ispettore stagliarsi sul vetro satinato della porta del suo ufficio. «Entri pure.» Il giovane entrò, con il suo incedere dinoccolato, e si mise ritto in piedi, quasi sull’attenti, davanti al commissario. Era alto e magrissimo, con i ca-pelli ricci e una barba rada che faceva sembrare un po’ più maturo quel viso dai tratti ancora adolescenziali. I suoi grandi occhi marroni sembra-vano sorridere e contribuivano all’impalpabile dolcezza di quel volto, rot-ta solo dal prominente naso aquilino che, curvando leggermente a sinistra, ne rompeva la perfetta simmetria. «Ma è solo un ragazzo!» sussurrò Antonio all’orecchio dell’amico. «Ha trentatré anni. Vero che sembra un dolce e indifeso pretino di campa-gna?» rispose sottovoce. «Devo ammettere che non sembra di certo un poliziotto.» Il Commissario Zambon si presentò porgendogli la mano e in breve lo mi-se al corrente della situazione, gli mostrò le fotografie e gli spiegò il moti-vo per cui si erano arenate le indagini. «A questo punto entra in campo lei» aveva concluso poi il commissario Garbo. «L’idea è quella di mandarla, nei panni di un sacerdote, a sostituire Don Placido.» Gli occhi di Orazio brillarono e la bocca si tese in un sorriso incredulo. «Allora, ispettore, cosa ne pensa? Accetta il caso?» «Certo che accetto! E vi ringrazio per la fiducia che mi concedete. Ho uno zio sacerdote, chiederò a lui di aiutarmi a sembrare un vero prete.» «Dove abita suo zio?» «A Nichelino, appena fuori Torino.» «Bene, ispettore, le concedo qualche giorno, raggiunga suo zio e si faccia insegnare tutto quello può. Si presenterà il tre di gennaio alla caserma di

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Feltre. Lei sarà ai diretti comandi del commissario Zambon che l’aiuterà nello svolgimento dell’indagine. È tutto chiaro?» «Certo, commissario.» «Bene, allora vada e buona fortuna.» L’ispettore Vigiani uscì quasi saltellando dall’ufficio del commissario, Antonio e Francesco rimasero ancora un po’ a chiacchierare. «Allora, cosa te ne è parso?» «Mi sembra un buon elemento e di certo ha la giusta presenza scenica per impersonare un prete.» «Vedrai, non ci deluderà. È arrivato qui con ottime credenziali.» Il commissario Zambon si avvicinò di nuovo alla finestra. «Nevica ancora. Sarà un problema ritornare a casa.» Francesco lo raggiunse. «Forse sarebbe meglio che tu rimanessi qui, stanotte.» «Meglio di no. Non sono tranquillo con Agnese a casa da sola.» «Allora ti conviene partire subito. Con l’oscurità diventerà ancora più dif-ficile viaggiare.» «Hai ragione» disse infilandosi il cappotto ancora umido. «Ti ringrazio, mi hai salvato il Natale. Per merito tuo potrò passare le feste tranquilla-mente a casa con la mia Agnese. A proposito, tu cosa fai la sera della vigi-lia?» «Sono di turno qui in centrale.» «E a Santo Stefano? Di sicuro sarai libero, potresti venirci a fare compa-gnia. Prepariamo il cenone a casa, vengono anche Paolo e Giulia con i bambini.» «No, ti ringrazio» disse memore della tristezza che lo aveva pervaso l’ultima volta che aveva passato una domenica insieme all’amico e alla donna che ancora amava, assaporando quella che sarebbe potuta essere la sua vita se Agnese avesse scelto lui. «Ho già dato parola a degli amici qui a Belluno. Sarà per la prossima volta, d’accordo?» «D’accordo. Allora io vado, grazie per l’aiuto.» «Dovere, amico mio. Dai un bacio ad Agnese da parte mia.» Francesco rimase di nuovo solo nel piccolo ufficio. Prese il posacenere, lo svuotò nel cestino, lo pulì con un fazzoletto di carta e lo rimise esattamen-te al suo posto. Si rimise poi a braccia conserte a guardare la neve scendere lenta dietro la finestra.

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«Deve fare un freddo cane a Settecà. Orazio è pelle e ossa, speriamo resi-sta lassù.»

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Capitolo 4 Nuvolari era il più vecchio a Settecà, anche se il suo cervello era rimasto quello di un ragazzino di dieci anni. Nel paesetto era benvoluto e accettato da tutti, nonostante la sua patologica semplicità e, incapace di assumere ruoli o mansioni importanti, era diventato a poco a poco una specie di tut-tofare. Gli venivano affidati tutti quei compiti dove non servivano abilità particolari ma bastava solo un po’ di buona volontà. Perciò se c’era biso-gno di dipingere la facciata di una casa, chiamavano Nuvolari; se biso-gnava andare a Feltre a fare la spesa, toccava a lui e così pure se c’era da andare a raccogliere la legna nel bosco o i mirtilli e le fragole quando era stagione. Lui però non accettava di essere semplicemente il tuttofare di Settecà e si considerava un corriere, anzi, il più bravo corriere partigiano che ci fosse mai stato e quel soprannome, Nuvolari, che si era guadagnato in quella guerra fatta di fughe, rifugi e imboscate, se lo sentiva addosso, come pelle della sua pelle, e pretendeva che tutti lo chiamassero così. Quel ruolo, ai tempi della Resistenza, gli era stato affidato perché correva veloce come pochi ed era spericolato come nessuno quando si trattava di usare moto o altri mezzi a motore. Tante volte gli erano state affidate im-prese che sembravano suicide e lui, nella sua incoscienza, le aveva affron-tate a cuor leggero tornando a casa sano e salvo, magari dopo aver attra-versato, senza saperlo, due o tre volte le linee nemiche. Per questo ormai tutti a Settecà credevano che ci fosse un santo speciale, dedicato solo a lui, lassù nel cielo, e doveva essere anche un santo molto potente. Quella mattina Nuvolari era disteso a letto, con in testa il suo cappello da alpino e gli anfibi ai piedi. Antonio bussò alla sua finestra e lui, vedendolo dietro i vetri appannati, si alzò e andò ad aprirgli, con la solerzia che si deve all’ordine di un capo. «Vieni fuori! Stanotte ne è venuta tanta, bisogna andare al passo per vede-re se la strada è bloccata.» Nuvolari si mise il cappotto e uscì ma non seguì subito Antonio che si in-camminava verso il passo. Andò nel suo garage e prese la vecchia ruota di scorta di un camion militare, che aveva tenuto lì per tutti quegli anni, la

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legò con un cordino e se la trascinò dietro. Gli era venuta un’idea e voleva vedere se funzionava. Raggiunse Antonio di corsa, con la ruota al guinza-glio, come fosse un cagnolino, e si adeguò al suo passo. Antonio si girò verso di lui e vide quello che stava trascinando ma non gli fece alcuna domanda. Con Nuvolari era così, ne faceva di cose strane, ma Antonio sa-peva che bastava aspettare e presto avrebbe capito a cosa gli serviva quel-la vecchia ruota da camion. «Devi andare su al passo» disse indicandogli l’irta salita. «Bisogna capire se è bloccato oppure no.» «Va bene» rispose Nuvolari e si incamminò lungo la salita lasciandosi alle spalle la larga scia fatta dalla ruota. Impiegò quasi venti minuti a raggiungere la cima e quando fu là si guardò attorno e poi cominciò a sbracciarsi per comunicare con Antonio. «È bloccata?» urlò questi da sotto. Giunse un flebile “sì” dalla cima della salita. Antonio non se ne andò subito ma rimase a osservare Nuvolari che si mise a sedere sulla ruota e spingendosi con le mani cominciò a scendere a tutta velocità, urlando, dalla ripida discesa. Dopo qualche centinaio di metri, percorsi bene o male in linea retta, Nuvolari e la ruota cominciarono a sbandare e dopo due curve repentine il cavaliere e il suo gommoso destrie-ro uscirono di strada sparendo nella neve. Si fosse trattato di qualcun altro probabilmente Antonio si sarebbe mosso per prestargli aiuto ma aveva troppo fiducia nel santo protettore di Nuvo-lari, così rimase con le mani ai fianchi a osservare per niente preoccupato, nonostante il volo di oltre venti metri che il vecchietto aveva fatto. Qualche minuto dopo Nuvolari rispuntò, illeso, con la ruota al seguito. Si riportò sulla strada, risalì e giunse sano e salvo fino a davanti i piedi di Antonio. Scese dalla ruota sorridente e con il cappello a rovescio; nell’urto la penna si era spezzata e gli pendeva sul viso. «Benissimo!» disse. «Hai di nuovo rotto la penna del cappello.» «Non importa, dopo la cambio.» «Allora, è bloccato il passaggio?» «Sì, ghe sarà on metro de neve.» «Bene, ci siamo liberati per un po’ di quel ficcanaso del commissario. Avverti tutti, riunione a casa mia oggi pomeriggio alle tre.» «Va bene, capo.»

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Fu per questo che quella sera sobbalzarono sulla sedia quando sentirono bussare alla porta.

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Capitolo 5 Non nevicava più neanche a Feltre e il sole cercava di farsi largo a pugni e spintoni tra nuvole così scure e pesanti che sembrava impossibile potesse-ro reggersi nel cielo senza l’aiuto di nessuno. Un taxi si fermò sferragliando davanti alla caserma dei carabinieri. L’autista spense il motore e fermò il tassametro. Una lunga e stretta tona-ca, con dentro un prete alto e allampanato, spuntò dalla portiera aperta. Il religioso mise fuori i piedi e si trovò immerso nella neve fin sopra le cavi-glie. «Che tempo di merda!» sibilò, poi infilò braccia e testa dentro la vettura e, aiutato dal conducente, estrasse un’ingombrate valigia e un cappello nero ad ampie falde con la coppa a semisfera. Il prete pagò il dovuto e poi, usando entrambe le mani, si calcò il coprica-po in testa fino quasi a coprirsi gli occhi e raccolta la valigia si diresse, ciondolando come un ramo scosso dal vento, verso l’entrata della caser-ma. Appena dentro si avvicinò al bancone e chiese di poter conferire con il commissario Zambon. L’appuntato lo invitò ad attendere, assicurandolo che avrebbe subito informato il commissario del suo arrivo. Il prete si mise a sedere su una panchina: ginocchia adese, piedi vicini e paralleli e mani appoggiate in grembo che scorrevano, con gesti lenti e misurati, un rosario antico in corda e legno d’ulivo. Teneva lo sguardo basso, come pregasse. L’appuntato ritornò pochi minuti dopo seguito dal commissario che guar-dò sorpreso il prete. Non capì chi fosse fino a quando il religioso non alzò piano lo sguardo: solo allora riconobbe quel viso e quegli occhi. «La prego, Padre, mi segua.» disse ridacchiando. Il prete si alzò e lo seguì nel suo studio. Entrarono e il commissario si chiuse la porta alle spalle. «Ispettore Vigiani? È lei, vero?» l’altro annuì. «Mio Dio, è incredibile, sembra proprio un prete. Si è tagliato la barba!» «Sì, e ho anche accorciato i capelli.»

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«Si faccia ammirare» disse girandogli attorno. «Ma dove ha trovato que-sto abito? E il cappello?» «Mi ha aiutato mio zio. È stato fatto tutto su misura, non c’erano vesti del-la mia taglia.» «Ci credo! Anche la valigia a fioroni, di tela, con i manici in legno. È in-credibile! A proposito, come la devo chiamare adesso, Don Camillo?» «Pensavo di farmi chiamare Don Orazio, così mi sarà più facile abituarmi. Lei che ne pensa?» «Per me va benissimo. La prego, si sieda» disse il commissario liberando una sedia da documenti, borse e quant’altro vi fosse depositato sopra. «Mentre lei era a Nichelino, noi abbiamo continuato le nostre indagini e abbiamo raccolto tutte le informazioni possibili sugli abitanti di Settecà; poca roba, a dire il vero. Hanno rapporti molto sporadici con alcune per-sone qui in paese e solo per acquistare del materiale. È una piccola comu-nità totalmente autonoma e i contatti con l’esterno erano gestiti da Don Placido.» «A proposito, avete scoperto niente su di lui? Dov’è nato, che scuole ha fatto, quali sono le sue origini?» chiese Orazio. «Abbiamo fatto richiesta alle autorità ecclesiastiche però, a oggi, non ab-biamo ancora ricevuto alcuna risposta. Appena saprò qualcosa la metterò al corrente.» «Una domanda, commissario: è possibile vedere il corpo della vittima?» «No, è stato sepolto qualche giorno fa, però abbiamo delle fotografie.» «Peccato! Volevo rendermi conto di quanta forza fosse necessaria per ave-re la meglio su di lui.» «Le assicuro, ispettore, che aveva una stazza imponente; saranno servite almeno tre persone per riuscire a trattenerlo.» «O magari tutto un paese» azzardò Orazio. «Questo spiegherebbe anche la totale omertà di quella gente.» Il commissario Zambon sorrise: «Lei è in gamba, ispettore. Anch’io sto lavorando su questa ipotesi.» «Un’altra cosa, commissario» chiese ancora Orazio «avete trovato la cor-da con cui è stato legato il prete?» «No, purtroppo. Abbiamo requisito tutte le corde che abbiamo rinvenuto in paese e le abbiamo analizzate per cercare se vi fossero tracce di pelle della vittima ma non siamo riusciti a individuare quella che è stata usata per legare il prete partigiano. Pensiamo sia è stata distrutta; bruciata, pro-

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babilmente. Comunque, bando alle ciance, ispettore… o meglio, Don O-razio, è pronto a partire?» «Certo, commissario.» «Bene, allora mi segua. La accompagnerò fin dove mi sarà possibile. È caduta molta neve questa notte e non credo che la strada sia transitabile fino al paese.» «Non si preoccupi, commissario, nel caso continuerò a piedi; mi piace camminare.» «Buon per lei, ne avrà l’occasione.» I due salirono in auto e si avviarono lungo la stretta stradina che conduce-va al paesello. Il paesaggio brillava al chiarore della neve abbacinando gli occhi. Il commissario salì a fatica lungo l’aspra salita rischiando più volte di restare bloccato a causa delle pessime condizioni della sede stradale. A metà dell’ascesa la quantità di neve che il vento aveva ammassato sulla strada era tale da impedire qualsiasi tentativo di proseguire utilizzando il mezzo meccanico. Il commissario cercò in tutti i modi di superare quel passaggio critico ma senza successo. «Non c’è niente da fare. C’è troppa neve, le ruote slittano» disse dando gas nella speranza di trovare un minimo di attrito. «È inutile insistere, commissario, proseguo a piedi.» «Ma ispettore, ha visto il termometro? Siamo a meno dodici gradi e man-cheranno ancora una decina di chilometri al paese. Bisogna essere prepa-rati per affrontare una scarpinata come questa, la strada è tutta in salita.» «Commissario si ricordi che sono un piemontese e un po’ di neve non mi fa nessuna paura e poi è una così bella giornata!» disse guardando il sole che aveva vinto la sua battaglia sulle opprimenti e scure nubi. «Un po’ di movimento non può che farmi bene.» «Ispettore, lei sottovaluta la prova che l’aspetta. La strada è molto ripida e con questa neve le sarà difficile proseguire anche a piedi. Inoltre lei non ha l’abbigliamento adatto: è poco coperto, ha scarpe troppo leggere e la tonaca le intralcerà i movimenti.» «Non si preoccupi, vedrà che arriverò sano e salvo» disse aprendo la por-tiera dell’auto. «Va bene, ispettore, se è proprio convinto. Segua sempre la strada, non c’è nessun bivio, in questa desolazione non troverà niente e nessuno prima del paese.» Poi gli porse la mano. «Buona fortuna.» «Grazie, commissario, ne avrò bisogno.» Così dicendo prese la valigia dal sedile posteriore dell’auto e si preparò a partire.

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Il commissario Zambon, con cautela, fece manovra sul terreno scivoloso e non senza difficoltà riuscì a girarsi e a ritornare verso Feltre. Orazio si guardò attorno: sulla sua sinistra una scarpata la cui rocciosa ri-pidezza era ammorbidita, solo alla vista, dal bianco manto che la ricopri-va; sulla destra un fitto bosco di pini, impenetrabile allo sguardo dopo po-chi passi. Davanti una striscia candida che conduceva al paesello. Alzò il piede fino all’altezza del ginocchio per portarlo in avanti, lo ap-poggiò e quello scomparve, inghiottito dalla sostanza ghiacciata, fino al polpaccio. Portò il peso sul piede a monte e ripeté l’operazione una, due… cento volte. Ogni passo comportava un dispendio di energia tale da valere come dieci passi normali. La neve aderiva alle scarpe trasformandole in ammassi informi, freddi, pesanti e bagnati. Quella che pensava sarebbe stata una piacevole passeggiata si trasformò, dopo poche centinaia di me-tri, in una specie di incubo. Le scarpe, intrise d’acqua, raggelavano i piedi e quel freddo saliva, come per capillarità, lungo le gambe nude sotto il vestito talare. La valigia sem-brava diventare più pesante a ogni passo e tenerla alta, staccata dalla neve, era uno sforzo eccessivo per le sue lunghe ed esili braccia. Si fermò, appoggiò la valigia a terra, la aprì e ne rovesciò il contenuto. Rimise dentro solo pochi indumenti personali e il necessario per sembrare un vero prete, lasciando sulla fredda neve, come caduti nella campagna di Russia, Sherlock Holmes, il dottor Watson e le loro meravigliose avventu-re. Rifiatò, guardò verso l’alto e ancora non si intravedeva la fine di quell’irta salita. Si girò a osservare le sue orme che segnavano ondeggianti il tragit-to già compiuto. Attorno a sé solo monti, alberi di pino e tanta neve. Prese la valigia alleg-gerita grazie al sacrificio dei suoi amici libri, se la caricò in spalla e ripar-tì, un passo dopo l’altro, uno più difficile dell’altro. Faticava ma avanzava e sentiva il cuore che batteva sempre più forte come volesse uscirgli dal petto, impegnato com’era in uno sforzo inusuale. Camminò ancora per lungo tempo ma del paese nessuna traccia. La sicu-rezza che aveva mosso i suoi primi passi vigorosi adesso si affievoliva mentre cresceva la paura di non farcela, di non avere forze sufficienti per giungere a quelle case disperse nel nulla. Dopo un po’ Orazio, sfinito e con le gambe che ormai il freddo aveva reso insensibili, si sedette ansimante sotto a un albero. Si sentiva perduto, la mente occupata a cercare il modo per poter sopravvivere a quel freddo in-

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sopportabile. Cominciò a valutare se fosse meglio tornare indietro o con-tinuare a salire. Si tolse le scarpe, le vuotò dall’acqua e poi le asciugò con cura, usando un asciugamano che teneva in valigia. Pensò, seduto su quel sasso, che non ce l’avrebbe fatta a ritornare a Feltre e così indossò tutti i calzini asciutti che aveva, si infilò le scarpe e si alzò risoluto per proseguire in direzione del paesino. Dopo un’altra mezzora di cammino le gambe gli dolevano al punto da non riuscire a muoverle. Si lasciò cadere a terra. Si rialzò ancora, profondendo nello sforzo le ultime energie, lasciò dietro di sé la valigia e ricominciò ad avanzare. Ormai non guardava più verso l’alto, verso la fine del calvario, ma teneva lo sguardo basso, concentrato sul prossimo metro da conquista-re. «Un altro passo» continuava a ripetersi. «Un passo ancora.» Con la forza della disperazione proseguiva.

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Capitolo 6 Antonio era sulla porta di casa sua, con il fucile in mano. Gli altri erano tutti dentro, attorno alla tavola grande, con il camino acceso che colorava di un rosso tenue le pareti foderate di perline di abete. Mancavano solo Carlo e Daniela, come al solito. Quei due erano sempre in ritardo, qualsiasi cosa si facesse, tanto poi avrebbero trovato la scusa che le bestie dovevano mangiare e che non si erano accorti dell’ora. Per-ché un orologio in stalla Carlo non ce l’aveva mai voluto. «Solo gli uomini guardano che ora è per sapere se hanno fame» diceva sempre. «Le vacche lo sanno da sole quando mangiare.» Ed era stato inutile spiegargli che sarebbe servito a lui e non alle vacche quell’orologio; Carlo aveva la testa più dura del mulo che guidava quando era alpino. Antonio caricò il fucile, fece scorrere indietro l’otturatore e sparò un colpo in aria. Caricò di nuovo e sparò ancora. Attese altri cinque minuti sulla porta, poi rientrò in casa, appoggiò il fucile sui ganci sopra la cappa del camino e ordinò: «Nuvolari, va a chiamarli prima che ci vada io» disse prendendo un lungo ciocco e scaraventandolo con rabbia tra le braci. Il vecchietto non se lo fece dire due volte, scattò in piedi e fece di corsa tutta la strada fino alla casa dei Vaccari, entrò diretto in stalla e ne uscì correndo pochi minuti dopo. Rientrò in casa e si sedette al suo posto. «Vengono subito.» E infatti, pochi minuti dopo, Carlo e Daniela arrivarono. Entrarono e pre-sero posto a sedere senza neanche scusarsi del ritardo. «Cristo Santo, Carlo. Avevamo detto alle tre!» aveva sbottato Antonio. «Perché, che ore sono?» «Le tre e mezza passate.» «Eh va be’, per mezzora!» «Ma noi eravamo tutti qui che vi aspettavamo.» «Dovevo dare da mangiare alle bestie e non ho neanche finito per colpa tua.» «Per colpa mia?»

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«Certo! E non fare tanto il furbo adesso che il prete partigiano non c’è più, che non sei mica tu il capo qui.» «Cosa? E chi sarebbe il capo, tu? Che non sei nemmeno capace di scrive-re!» «Mettiamo ai voti.» «Ai voti? Chi era il più alto in grado dopo Stefano, eh?» «Tu, e allora? Non siamo mica più in guerra.» «Non siamo in guerra? Ma io vengo lì e ti spacco quella testa dura che hai» disse alzandosi in piedi e minacciandolo con un pugno. «Basta adesso, Antonio» intervenne Beatrice. «Siediti e cominciamo que-sta benedetta riunione. Se Carlo vuole che sia messo ai voti, mettiamo ai voti. Chi vuole Antonio come capo alzi la mano.» La alzarono tutti, Carlo e Daniela per primi. «Hai visto, sei tu il capo!» «Volevo ben vedere, sono il più alto in grado. E solo che quello lì» disse puntando il dito contro Carlo «mi fa imbestialire ogni volta.» «Beatrice preparagli una camomilla» disse Carlo. «Il tipo è nervosetto.» «Carlo…» disse Antonio alzandosi di nuovo minaccioso «se non la smet-ti... io... io...» «Tu cosa?» «Carlo… Va’ a cagare!» disse rimettendosi seduto. «Vacci tu!»

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Capitolo 7 Uno sparo. Poi un secondo. E non venivano da molto distante. Chi l’ha detto che il rumore di uno sparo fa paura; a Orazio quei suoni secchi diedero nuova forza e speranza. Ricominciò a salire. Ormai era solo l’istinto di sopravvivenza che lo spin-geva a continuare. Le gambe irrigidite lo facevano cadere ogni pochi passi ma lui si rialzava e avanzava e dopo una svolta, finalmente, gli apparve in lontananza il paesello. Erano poche case e una chiesa senza campanile, riconoscibile solo dalla croce che svettava alta e fiera sul suo tetto, ma a lui sembrò più bella di Notre Dame. La valle dove erano adagiate quelle abitazioni era lunga e stretta e alti monti, punteggiati da radi pini, la con-tornavano. Le cime ancora brillavano nella luce del sole ma là nella valle l’ombra delle montagne sembrava avesse già fatto scendere la notte. Per-corse le poche centinaia di metri che lo separavano da quelle basse costru-zioni quasi di corsa, lasciandosi scivolare con il sedere lungo la ripida di-scesa. Arrivò alla chiesa svuotato di ogni energia, si inginocchiò davanti alla grande porta e cominciò a bussare a pugni chiusi. Continuò a percuotere quel legno duro per diversi minuti, con le mani che gli sembravano sul punto di frantumarsi come vetro, e urlava, chiedendo aiuto e implorando perchè gli venisse aperto. Non ottenendo risposta si sedette, rannicchian-dosi vicino alla porta, e attese di riprendere un po’ di forze. Qualche mi-nuto dopo, mezzo assiderato e con i piedi che ormai neanche più gli dole-vano, come fossero morti, si alzò e si trascinò verso le case che erano di-stribuite lungo la sola dritta strada appena visibile sotto il manto di neve. Arrivato alla prima cominciò a bussare e a chiedere aiuto con il poco fiato che gli rimaneva ma nessuno rispose. Si trascinò allora verso la seconda e poi da lì alla terza e quando ormai cominciava a temere che il paesello fosse stato abbandonato vide all’interno dell’ultima abitazione una luce accesa. La raggiunse e quando vi fu davanti si lasciò cadere vinto dalla stanchezza e dalla gioia che gli infondeva quel chiarore alla finestra. Dall’interno della casa proveniva una vociare animato. La sua professione avrebbe richiesto che restasse lì, all’esterno, ad ascoltare di nascosto la

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conversazione ma in quel momento il suo fisico non gli permetteva alcun tempo di attesa. Si alzò, bussò e poi ripiombò a terra sulla neve fredda. Scese il silenzio all’interno della casa e tutti si guardarono sconcertati da quel rumore inaspettato. Antonio fece segno agli altri di tacere, poi prese il fucile da sopra il camino, fece scorrere l’otturatore e andò ad aprire. Orazio si trovò davanti un uomo alto e forte, con una folta barba e un nero cipiglio, che lo guardava incredulo puntandogli addosso la canna di un fu-cile. «Aiutatemi, per favore» miagolò querulo. «Venite, c’è un uomo mezzo assiderato qui fuori. È un prete!» «Un prete?» si levò la voce come di un sol uomo e tutti si accalcarono sul-la porta per vedere. Lo fissavano curiosi, come fosse un animale esotico che nessuno aveva mai visto prima se non in qualche enciclopedia. «Ma cosa aspettate! Portate dentro quel poveretto» disse una voce femmi-nile da un punto indefinito alle spalle di tutti. Due uomini lo presero di peso, lo portarono dentro e lo adagiarono su una sedia, vicino al camino acceso. Lo spogliarono degli abiti umidi e lo av-volsero in una grossa coperta. Aveva le mani rosse e i piedi e le gambe gonfi e violacei. Una signora si inginocchiò davanti a lui e cominciò a massaggiarlo per favorire la circolazione nelle sue membra irrigidite. Gli porsero un bicchiere con del vino caldo, lui lo prese con due mani, lo por-tò alle labbra e bevve qualche sorso. Si sentì rinascere, come se quel li-quido riuscisse a ridonargli le energie che aveva perduto lungo l’aspra sa-lita innevata. «Padre» gli chiese un uomo «ma lei cosa ci fa tra i monti in pieno inver-no?» «Sono Don Orazio, il nuovo parroco» disse con fatica, con la respirazione resa difficile da quell’improvviso sbalzo di temperatura. «Vengo per sosti-tuire Don Placido.» Si guardarono negli occhi l’un l’altro, poi l’uomo alto che gli aveva aperto gli si fece vicino e si rivolse a lui. «Padre, qui un prete non ci serve e non vogliamo estranei in paese. Perciò penso che sia meglio che lei, appena possibile, ritorni da dove è venuto.» «Vede, signor...» disse l’ispettore Vigiani rivolgendosi a lui con fare deci-so. «Capetti, Antonio Capetti.»

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«Vede, signor Capetti, io sono un servo del Signore e mi è stata affidata una missione che intendo portare a termine. Arrivando in paese ho visto una chiesa, l’ho raggiunta e mi ci sono inginocchiato davanti chiedendo aiuto ma nessuno mi ha aperto. Questo non deve succedere visto che su quell’edificio si erge il simbolo di un uomo morto in croce per amore de-gli altri. Io sono un pastore e starò dove si trovano le mie pecorelle, qual-siasi cosa lei dirà.» «Forse non sono stato chiaro: lei non è il benvenuto. Noi non abbiamo bi-sogno di nessun pastore e qui di pecorelle smarrite non ne vedo nemmeno una. Sappiamo cavarcela benissimo anche da soli, non ci serve la sua gui-da spirituale.» «E perché allora, prima di me, Don Placido ha svolto la sua missione pa-storale in mezzo a voi? Perché non avete cacciato pure lui?» «Con lui era diverso, era uno dei nostri. Lei qui è un estraneo e non la vo-gliamo.» «Mi dispiace, signor Capetti ma io non mi lascerò cacciare via, non ab-bandonerò il mio ministero.» «Ah sì? Allora se ne torni nella sua chiesa!» urlò. «Questa è casa mia e io qui non la voglio. Se ne vada!» disse scuotendo con veemenza la sedia dove l’ispettore era seduto. «O le farò assaggiare il mio bastone, così verrà ricordato come martire cristiano.» Orazio si alzò a fatica, aiutato e sorretto dalla signora che lo stava mas-saggiando. La donna raccolse i suoi indumenti e aperta la porta lo aiutò a uscire. «Cosa fai, Maria? Perché lo aiuti? Lascia che se la sbrighi da solo, con l’aiuto del suo Dio.» «Non essere blasfemo, Antonio. È pur sempre un prete e gli dobbiamo ri-spetto» replicò la donna. «Rispetto? Io non devo niente a nessuno, neanche a Dio! E solo un pro-blema quello lì, per noi, e deve andarsene da qui.» Maria si chiuse la porta alle spalle mentre Antonio continuava a inveire contro il nuovo arrivato, protetto dal colpevole silenzio di tutti i presenti. «Grazie, Maria. Lei porta il nome più dolce del mondo, quello della nostra Madre celeste.» La signora sorrise. «Io ero la perpetua di Don Placido.» «Spero di poter contare anch’io sul suo aiuto. Non sono stato accolto in maniera molto amichevole.»

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«Non li giudichi male, Padre. Sono dei vecchi montanari, hanno vissuto tutta la loro vita qui, in una specie di isolamento. Non è facile per loro ac-cettare un nuovo membro della comunità. A proposito, ma lei è venuto fin qui solo con quello che indossa?» «Oh mio Dio, la valigia! L’ho abbandonata sulla strada, in cima alla sali-ta» disse indicando il sentiero. Maria aprì la porta della sua casa e condusse l’ispettore in una camera sul retro. «Questa era la camera di Stefano. Adesso sarà la sua.» «Stefano? Chi è Stefano?» «Oh, mi scusi, Don Placido intendevo dire.» «Si chiamava Stefano prima di prendere il sacerdozio?» «Sì» rispose e repentina aggiunse: «Vado a dire a Nuvolari di andarle a prendere la valigia, ha bisogno di abiti puliti e asciutti» e, senza aggiunge-re altro, lo lasciò da solo. Orazio si sedette sul grande letto e si guardò attorno. Una pallida luce filtrava tra gli infissi di una grande finestra esposta a o-vest e una bella stufa in ghisa emanava un piacevole tepore. Orazio si ri-mise in piedi, si avvicinò alla porta e schiacciando l’interruttore accese una lampadina che pendeva dal soffitto, unico segno di progresso in quel posto dimenticato tra i monti. Cercò con lo sguardo una sedia ma non la trovò, così tornò a sedersi sul letto. L’arredamento di quella stanza era scarno e minimale, come si conviene a un servo di Dio. Pochi mobili ma enormi: un armadio a quattro ante appoggiato alla parete rivolta a mezzo-giorno, due comodini e un letto a due piazze in legno massiccio, con la te-stiera e la pediera intarsiate con motivi floreali e abbellito da quattro pin-nacoli che si ergevano agli spigoli. Tutto lì: non c’era altro, non un qua-dro, un’immagine sacra, un fiore. L’unico capriccio che il prete partigiano si era concesso era un crocifisso stilizzato, in oro, fissato con un chiodo sopra la porta. Rimase lì seduto per un po’, poi allungò le gambe sul letto e si lasciò ca-dere supino. Gli sembrò il più morbido e caldo materasso su cui avesse mai avuto la fortuna di distendersi. Si lasciò sprofondare in quella dolce sensazione e gli sembrava di fluttuare tanto si sentiva leggero. Sulle gam-be e sui piedi migliaia di fastidiosissime punture, come se un esercito di api di divertisse a martoriarlo, gli rammentavano il terribile rischio che aveva corso.

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Maria ritornò una decina di minuti dopo, gli si sedette vicino e cominciò a massaggiarlo con dovizia. «Nuvolari è andato a prenderle la valigia.» «Grazie» disse Orazio trattenendo una smorfia di dolore. «Mi sta facendo male.» «Devo far circolare di nuovo il sangue. Ha preso molto freddo, le verran-no dei geloni.» Maria continuò con pazienza il suo lavoro mentre il dolore a poco a poco si affievoliva. «Ha fame?» «A dire il vero, sì.» «Le vado a preparare una minestra, la tirerà su.» Veloce come era arrivata, uscì dalla stanza. Orazio si coprì con le coperte e, avvolto in quel tepore, chiuse gli occhi e si addormentò.

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Capitolo 8 «Padre» disse Maria scuotendolo «è pronta la minestra.» «Che ore sono?» chiese riaprendo gli occhi. «Ho dormito tanto?» «Circa mezz’ora. Riesce a tirarsi su?» «Sì, grazie» disse mettendosi a sedere sul letto e prendendo il piatto che la signora gli porgeva. «Mi faccia vedere i piedi, Padre» disse la perpetua piegandosi davanti a lui. «Sono molto gonfi, ne avrà per qualche giorno.» Orazio annuì mentre la minestra calda scendeva nello stomaco, mitigando la sensazione di freddo che ancora lo permeava. Maria rimase in piedi davanti a lui, lo guardava mangiare, come fa una mamma preoccupata che il figlio non si nutra a sufficienza. Poi, quando ebbe finito, gli prese il piatto dalle mani e si allontanò verso la cucina. Orazio si stava distendendo di nuovo quando un omino sottile e smunto, con una leggera gobba, entrò nella stanza. Portava tabarro e stivaloni grossi, militari, alti fino al suo basso ginocchio. Sotto un cappello da alpi-no, con la penna rotta, il viso magro e segnato dalle rughe di un montana-ro. «Ehilà, pretin, te ghe perso i tochi pa la strada, come la me vecia Ape!» disse ridacchiando, con un sorrisino beffardo che riempiva di virgole le sue guance scarne. «So ‘nda torte la vaisa.» «Grazie! Sei Nuvolari, vero?» «Eh sì, porca bestia, el pi veloce de tutti. Vrooomm.» disse simulando con la mano una macchina che sfreccia. « È un soprannome, vero?» Il vecchietto annuì. «Qual è il tuo vero no-me?» «Tazio» rispose. «Proprio come il vero Nuvolari.» «Giusto! Dimme, pretin, lo seto quala che la xé la prima parola che dise on vulcano appena nato?» «No! Non ho idea» rispose Orazio dopo averci pensato un po’. «Magma, no!» rispose. «Ti xé proprio mato, pretin.» Ridendo uscì di cor-sa dalla stanza.

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Orazio si alzò, sorpreso da quell’omino striminzito, poi prese dalla valigia degli abiti puliti e la veste di ricambio e si presentò, scalzo, in cucina. I piedi gli dolevano. Fece alcuni passi fino a raggiungere una delle tre se-die che occupavano i lati utilizzabili del piccolo tavolo quadrato appoggia-to al muro e si sedette. Il divano distava solo pochi metri e sebbene sem-brasse di gran lunga più comodo, decise di attendere che il dolore fosse un po’ scemato prima di affrontare la traversata. Era sicuramente lì, su quel divano, che era stato rinvenuto il cadavere di Don Placido. Maria stava lavorando ai fornelli. Quando lo sentì arrivare non si volse subito verso di lui. Fece un sospiro, si asciugò gli occhi con il grembiule e sguainò il suo miglior sorriso: «Allora Padre, si sente un po’ meglio? Ve-do che riesce a camminare.» «Io sto bene. Ma tu?» «Sì, Padre!» disse passandosi la manica sul viso per asciugare meglio gli occhi lucidi. «Solo un po' di tristezza, mi dispiace che lei mi abbia visto in questo momento di debolezza. Io di solito sono una donna molto forte.» «Non ne dubito, Maria.» «È che mi ritrovo sola, dopo così tanti anni passati insieme a Don Placido e avere lei qui... è... è così strano.» «Lo hai servito per molto tempo?» «Da quando siamo arrivati qui. Questo paesetto non esisteva. Le case che vede le abbiamo costruite tutte con le nostre mani. Questo dovrebbe farle comprendere l’attaccamento che questa gente ha per questo posto. Anto-nio ha un carattere molto irruente e prima è stato brusco con lei ma, mi creda, io lo conosco bene, non c’era cattiveria nelle sue parole, era solo una forma di difesa.» «Sì, l’avevo capito. È stata una reazione figlia della sorpresa e del mo-mento. Ho tutto il tempo che mi serve per ricomporre la piccola crepa che si è venuta a creare. Sono sicuro che riuscirò a farmi accettare da questa gente.» «Non sottovaluti il compito che l’aspetta, Padre. Questa è gente dura, sono ancora dei partigiani nell’animo e hanno le loro regole.» «Che rispetterò. Dopotutto sono io l’intruso tra questa gente. A proposito, Maria, ma quante persone abitano a Settecà?» «Senza contare i ragazzi siamo in dodici, tredici con lei. Quando siamo venuti qui, appena finita la guerra, eravamo in quindici. Lei è il primo e-straneo che viene a stabilirsi tra noi.»

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Orazio guardò quella donna con i capelli raccolti e i verdi occhi ancora lucidi per le lacrime che aveva versato e ripensò a sua madre. Maria le as-somigliava un po’, sia nelle forme rotonde e generose che nei lineamenti dolci e aggraziati. Per lui fu naturale vedere in lei l’alleato di cui aveva bisogno per farsi accettare da quella gente. «Spero veramente di riuscire a farmi accogliere nella vostra comunità» disse l’ispettore. «Con il tempo si abitueranno alla sua presenza, non tema.» «Me lo auguro. Anzi, spero di poter contare sul tuo aiuto. Non voglio cre-are problemi a nessuno, però sono determinato a portare a termine il com-pito che mi è stato affidato.» «Io sono molto contenta del suo arrivo e le posso assicurare che la sua presenza a me non crea nessun problema. Io farò le faccende di casa e ter-rò pulita la chiesa ma più di così non posso fare. Sta a lei farsi benvolere e accettare dagli altri, soprattutto da Antonio.» «Pensi che potrei avere dei problemi con lui?» «Senza dubbio sarà quello più duro da convincere. Adesso è lui il capo della nostra piccola comunità e lei, Padre, è solo un problema in più da gestire.» «Antonio è sposato?» chiese. «Sì, sua moglie si chiama Beatrice. È una brava donna, timorata di Dio.» «A proposito, potresti aggiornarmi un po’ sulla situazione delle famiglie? Mi potrebbe essere utile per capire con chi ho a che fare.» «Va bene, se pensa che le possa servire.» «Aspetta! Prendo carta e penna, così mi scrivo giù tutto.» Orazio raggiunse zoppicando la camera da letto e ritornò con un’agendina in mano. «Sono pronto, dimmi.» «Allora: c’è la famiglia Capetti, che è composta da Antonio e Beatrice...» «E abitano nella casa dove eravate prima.» «Esatto. Poi ci sono i Vaccari, Carlo e Daniela, vivono nella casa in fondo al paese, dove ci sono le stalle, sono i nostri allevatori.» «D’altronde, con quel cognome, cos’altro potevano fare?» commentò mentre prendeva appunti. «Ha ragione, Don Orazio» rispose pensierosa. «Non ci avevo mai pensato. Proprio una strana coincidenza.» «Poi chi altro c’è?»

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«C’è Nuvolari, che abita nella casetta bassa vicino alla chiesa. Lui vive solo. È il nostro tuttofare. In realtà si chiama Tazio Filogamo ma se non lo chiami Nuvolari si arrabbia.» « È un po’ matto, quello lì. Prima mi ha raccontato una specie di barzellet-ta.» «Ci farà l’abitudine, ne sa solo una decina ma le racconta di continuo. Non è tanto a posto con la testa, però è un buonuomo.» «Va bene, Tazio Filogamo» scrisse. «Poi c’è la famiglia Pitti, composta da Ettore e Fiorella e la famiglia Colli, che abita nella prima casa del paese. Loro lavorano i campi e ci procurano frutta e verdura.» «E i signori Colli, come si chiamano di nome?» «Giorgio e Irene.» «E siamo a...» Orazio fece un breve calcolo «a nove.» «Mancano ancora la vedova Piva, che si chiama Luisa e la vedova Trovò che si chiama Noemi. «E siamo a undici. Chi manca ancora?» «Manco io.» «Giusto! Che stupido. Come ti chiami di cognome?» «Molon, mi chiamo Molon.» «Provo a ricapitolare. Allora ci sono: Antonio e Beatrice Capetti, Carlo e Daniela Vaccari, Ettore e Fiorella Pitti, Giorgio e Irene Colli e poi Luisa Piva, Noemi Trovò, Maria Molon e Nuvolari.» Orazio scorse, aiutandosi con l’indice, la lista. «Una curiosità, però: come mai neanche un bambino in paese? Qualcuno ha dei figli?» «Sì, certo. I Vaccari hanno avuto due figli: Emma e Giuseppe. I signori Pitti ne hanno avuti addirittura tre, tutte femmine. I Colli hanno una figlia e i Trovò e i Capetti un maschio.» «E dove sono tutti questi bambini?» «Non sono più bambini, ormai. Mi pare che la più piccola sia Penelope, la terza figlia dei Pitti e dovrebbe avere dodici anni» spiegò Maria. «Sono tutti ospitati in un collegio a Milano. Tornano a Settecà solo per le vacan-ze estive e per le festività Natalizie. Se fosse arrivato tra noi qualche gior-no fa avrebbe avuto modo di conoscerli. Quella di mandarli a Milano è stata una scelta dura ma necessaria. Il nostro paese non può offrire niente ai nostri figli e così è stato deciso di farli trasferire, tutti assieme, in una struttura che potesse garantire loro un’educazione e una preparazione ade-guata. Giuseppe, il figlio dei Vaccari, si sta laureando in medicina.»

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«Vi fa onore aver rinunciato a stare con i vostri figli pur di garantire loro un futuro ma, mi chiedo, perché allora vi ostinate a rimanere qui, in mezzo ai monti?» «Sarebbe troppo lungo e complicato da spiegare, Don Orazio. Ci sono co-se che lei adesso non può capire ma vedrà che, restando qui con noi, com-prenderà le nostre scelte» rispose con un sorriso, mentre alzava un coper-chio per controllare il punto di cottura di una pietanza. Prese poi una presina e aperto il forno estrasse un pollo ben rosolato. «La cena è pronta» disse. Servì Don Orazio, poi ne prese a sua volta e si sedette di fronte a lui. «Buon appetito.» «Buon appetito anche a lei, Padre.» I due rimasero a chiacchierare a lungo, seduti a tavola, poi Orazio, infilate un paio di ciabatte di Don Placido, uscì sulla porta di casa. L’oscurità era quasi assoluta e le stelle brillavano nel nero cielo con un’intensità che lui non aveva mai visto prima. Rimase ad ascoltare quel perfetto silenzio, di-mentico anche del dolore che ancora affliggeva i suoi piedi, fino a quando il suo fisico glielo permise, poi rientrò e si sedette sul divano. «C’è la televisione?» chiese a Maria. «Ne abbiamo acquistata una l’anno scorso. È nel salotto» disse indicando una stanza adiacente. «Però non funziona, abbiamo le montagne attorno e non arriva segnale.» Orazio si alzò e raggiunse il salotto, accese le luci e diede un’occhiata. La stanza era ben arredata, c’erano due comodi divani, un tavolinetto e un mobile lungo quanto la parete dove faceva bella mostra di sé l’inutilizzabile TV. «E tu dove dormi?» chiese poi rivolgendosi a Maria che stava arrivando dalla cucina. «Qui» disse la donna raggiungendo una porta dall’altra parte del salotto. «Posso vedere?» «Certo. Questa è casa sua, adesso.» Orazio entrò nella piccola camera, odorava di nuovo. Il soffitto di un bell’azzurro cielo e i muri giallini le davano un aspetto totalmente diverso dal resto della casa. Sul letto singolo, appoggiato alla parete opposta a quella dove si trovava un piccolo armadio, la luce della luna, filtrando dal-la finestra, disegnava il profilo degli infissi. Dal comodino, un peluche, ormai vecchio e scolorito, sembrava osservare quel gioco di luci e ombre.

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«Adesso, se non le dispiace, vorrei coricarmi, sono molto stanca» disse Maria sedendosi sul letto con le mani ancora bagnate e il grembiule ad-dosso, come a voler chiarire da subito, e con decisione, che quello era il suo spazio. Orazio indietreggiò e la lascio sola, poi ritornò in camera, chiuse la porta a chiave, si tolse l’abito, lo distese con cura sulla metà libera del letto e si mise sotto le coperte. La stufa stava facendo egregiamente il proprio lavo-ro e l’aria era calda e secca. La finestra era chiusa ma gli scuri ancora aperti mostravano la limpida nottata. Orazio giunse le mani, gli occhi sul crocefisso attaccato sopra la porta, e masticò tra le labbra le parole di una preghiera che conosceva a memoria. FINE ANTEPRIMACONTINUA...