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Il sistema imperfetto. Difetti del mercato, risposte dello Stato a cura di Pierluigi Ciocca e Ignazio Musu

Il sistema imperfetto. Difetti del mercato, risposte dello ... · Adam Smith sottolinea il circolo virtuoso tra divisione del lavoro e ampliamento del mercato, e il ruolo delle motivazioni

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Il sistema imperfetto. Difetti del mercato, risposte dello Statoa cura di Pierluigi Ciocca e Ignazio Musu

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Indice

Introduzione .........................................................................................p. 9

1. Beni comuni, beni pubblici. Oltre la dicotomia Stato-mercato di Valeria Termini ............................................................................. “ 17

2. Informazione asimmetrica di Mauro Gallegati ............................................................................ “ 47

3. Esternalità di Ignazio Musu ................................................................................ “ 63

4. Il difetto di concorrenza di Giuliano Amato ............................................................................ “ 83

5. Antitrust per la concorrenza dinamica di Salvatore Rebecchini ...................................................................... “ 101

6. Caccia a posizioni di rendita di Magda Bianco ............................................................................... “ 119

7. Vuoti di imprenditorialità di Paolo Donzelli ............................................................................... “ 133

8. Iniquità distributive di Elena Granaglia ............................................................................ “ 169

9. Instabilità di Pierluigi Ciocca ............................................................................. “ 191

10. Disoccupazione di Giorgio Rodano ............................................................................. “ 207

11. Problemi di crescita di Giacomo Costa .............................................................................. “ 225

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6 indice

12. Fra Stato e mercato di Pier Angelo Mori ..........................................................................p. 245

13. Fallimenti dell’azione pubblica di Ruggero Paladini ........................................................................... “ 267

Notizie biografiche sugli autori ............................................................... “ 287

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Introduzione*1

Sulla scorta di una dovizia di analisi teoriche e di indagini empiriche negli stessi manuali per studenti si ammette che l’economia capitalistica è affetta da imper-fezioni, dette “fallimenti del mercato” (Bator, 1958).

Secondo Paul Samuelson (Samuelson, Nordhaus, 2009) «i tre casi più signi-ficativi riguardano le situazioni di concorrenza imperfetta (come i monopoli), le esternalità (per esempio l’inquinamento) e i beni pubblici (come la difesa e le autostrade). In ciascuno di questi casi il fallimento del mercato determina l’i-nefficienza della produzione o del consumo e può essere auspicabile l’intervento dello Stato per porre rimedio alle imperfezioni del mercato» (ivi, p. 33). Samuel-son soggiunge poi come sia «possibile che un’economia di mercato determini disuguaglianze di reddito e consumo inaccettabili per gli elettori», quindi da correggere (ivi, p. 37). Conclude che il sistema può unire a inefficienze e iniqui-tà «problemi macroeconomici», cioè «cicli economici (elevati tassi di inflazione e disoccupazione) e crescita economica lenta» (ivi, p. 39).

Joseph Stiglitz (2003, pp. 67-68) elenca quali motivi di inefficienza «sei cause di fallimento del mercato: 1. Concorrenza imperfetta; 2. Beni pubblici; 3. Esternalità; 4. Mercati incompleti; 5. Informazione imperfetta; 6. Disoccu-pazione e altri problemi macroeconomici». Ma «anche se l’economia fosse Pa-reto-efficiente, esistono altre due motivazioni per l’intervento pubblico»: «la redistribuzione del reddito e l’imposizione di beni meritori», che i privati non domandano ma che lo Stato ritiene di grande utilità sociale.

In questo libro – anch’esso primariamente rivolto agli studenti – abbiamo portato a… dieci i difetti dell’economia di mercato capitalistica (Ciocca, 2011) e le corrispondenti risposte della politica economica, mentre i due saggi finali sono dedicati alle difficoltà più generali che lo Stato – lo Stato democratico – e i cor-pi sociali intermedi incontrano nell’intervenire. Alle inefficienze d’origine micro-economica evocate da Stiglitz abbiamo aggiunto la “caccia alle rendite”, oltre a dedicare due saggi al vuoto di concorrenza, data la centralità del paradigma con-

1 * I curatori sono grati agli autori dei capitoli e a Mirella Tocci per il contributo editoriale.

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correnziale per il buon operare di ogni mercato. Il passaggio dalla dimensione mi-croeconomica alla dimensione macroeconomica è offerto dalla funzione impren-ditoriale, cruciale per l’allocazione delle risorse ai migliori produttori e soprattutto per il progresso tecnico e lo sviluppo dell’intera economia. Iniquità distributiva, instabilità (dei prezzi, della produzione, della finanza), disoccupazione anche per-manente (keynesiani “equilibri di sottoccupazione”), ma anche arretratezza relati-va e ristagno produttivo completano la lista dei mali che il sistema dei prezzi – dei prodotti e dei fattori, e segnatamente le variazioni del tasso d’interesse, del saggio salariale, del tasso di cambio – può non riuscire a prevenire e a risolvere.

Le carenze denunciate nel volume, nonostante i tentativi di superarle da parte della politica economica e dell’ingegneria istituzionale, lungi dall’atte-nuarsi si configurano nella realtà come molto gravi. L’esigenza di beni pubblici, di merito, comuni si accentua e si scontra con i limiti della dicotomia Stato-mercato (Valeria Termini). I vuoti d’informazione non sembrano colmati e le asimmetrie informative superate dal fiume di notizie che i media vecchi e nuovi diffondono (Mauro Gallegati). Le esternalità negative soverchiano le esternalità positive, e padri e nonni, uomini politici compresi, cominciano concretamente a temere per figli e nipoti, pur restando riottosi nel devolvere punti di Pil a ri-sanare quelle esternalità, a cominciare dalla maggiormente nociva, l’ambientale (Ignazio Musu). La concorrenza, statica e ancor più dinamica, nonostante l’a-zione antitrust resta esposta alla minaccia di collusioni fra produttori, posizio-ni dominanti e loro abuso, politiche economiche – del cambio, dei redditi, di bilancio – che, sebbene animate dalle migliori intenzioni, dischiudono vie fa-cili al profitto e dissuadono le imprese dall’impegno per l’efficienza e in modo particolare per il progresso tecnico (Giuliano Amato; Salvatore Rebecchini). La ricerca di posizioni di rendita trova alimento in una legislazione e in una giu-risprudenza le quali giustificano che l’impresa si attrezzi in punto di avvoca-ti e lobbisti piuttosto che di ricercatori, ingegneri, dirigenti (Magda Bianco). La funzione imprenditoriale non sempre corrisponde agli assetti istituzionali e strutturali di economie che si vogliono di mercato e con regole (Paolo Donzel-li). Il capitalismo esalta il merito – è nato per questo – ma sia all’interno dei sin-goli paesi sia tra i diversi paesi la sperequazione dei redditi, dei patrimoni, delle opportunità è su livelli al limite della tollerabilità sociale (Elena Granaglia). La crisi, finanziaria e reale, del 2008 ha ricordato che l’instabilità, nelle sue molte-plici forme, è radicata nel sistema e che curarla è difficile, prevenirla pressoché impossibile (Pierluigi Ciocca). Al di là delle fasi recessive, la disoccupazione è endemica, i senza lavoro e i sottoccupati si contano strutturalmente a centinaia di milioni nel mondo (Giorgio Rodano). Lo stesso punto di forza del capitali-smo – l’accrescimento della produzione – presenta la doppia criticità, di poter

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scadere nel ristagno delle economie avanzate e di non riuscire a superare l’arre-tratezza delle economie giunte per ultime allo sviluppo (Giacomo Costa).

Posti di fronte a questo coacervo di problemi espressi dal modo di produzione di mercato e capitalistico, gli stati nazionali, i fori multinazionali, le varie espres-sioni della società civile e della democrazia partecipativa sono impegnati a rimuo-vere gli scompensi o quantomeno a lenirne manifestazioni ed effetti. Lo fanno fra non poche difficoltà e non di rado con scarsi risultati, tanto da far parlare da alcu-ni anche di “fallimenti dello Stato” (Pier Angelo Mori; Ruggero Paladini).

Le carenze non si sono peraltro dimostrate tali da far sì che i “fallimenti” di singoli mercati, settori, aspetti del sistema – e dello stesso Stato – si traducesse-ro nel “fallimento” del sistema medesimo, nel suo rifiuto da parte della società, nella sua sostituzione con altre organizzazioni produttive.

Nella storia alta del pensiero economico il quesito di fondo – se gli specifici difetti si sarebbero, o meno, risolti in una più generale crisi del sistema – è stato affrontato in varia guisa.

Gli economisti classici, movendo dall’impostazione macroeconomica e di-namica che ne caratterizza l’analisi, avevano oscillato tra prospettive ottimisti-che e pessimistiche. Adam Smith sottolinea il circolo virtuoso tra divisione del lavoro e ampliamento del mercato, e il ruolo delle motivazioni imprenditoriali. La visione smithiana – sebbene niente affatto ispirata a fede acritica nella mano invisibile (Rothschild, 2001) – è quella di uno sviluppo economico in armonia con l’espansione e la diffusione del benessere sociale. All’opposto, per Marx il sistema di mercato e il modo di produzione capitalistico sono, sempre nel loro complesso, capaci di sviluppare in modo formidabile le forze produttive e tut-tavia per le loro “contraddizioni” economico-sociali interne destinati a una ine-vitabile caduta e ad essere sostituiti da un altro sistema. Le posizioni intermedie dei classici – Ricardo, Malthus, John Stuart Mill – pur sostenendo il sistema, ne vedono l’evoluzione verso uno stato stazionario, con diversa sottolineatura dei fattori che la determinano.

Nei classici la categoria dei fallimenti del mercato non si rinviene. Essa è tipica della tradizione analitica marginalista e neoclassica. Nelle sue articola-zioni questa non ha sistematicamente concluso a favore del sistema di merca-to. Sono note le simpatie riformatrici, socialiste o radicali di economisti neo-classici, come Leon Walras e Knut Wicksell. È stata la codificazione successiva della teoria dell’equilibrio economico generale, secondo un approccio all’origi-ne decisamente statico, a definire e fissare il ruolo positivo del mercato di pura concorrenza in termini di idoneità a garantire l’efficienza nel senso teorizzato da Vilfredo Pareto (la condizione dell’uno può migliorare solo a scapito della condizione dell’altro).

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All’interno del filone neoclassico le situazioni nelle quali non si poteva rag-giungere, attraverso il mercato, l’efficienza paretiana sono state riguardate come eccezioni, che non implicano fallimento del sistema nel suo insieme ma ne mi-nano singoli profili, da correggere con l’intervento pubblico.

I fattori alla base dell’inefficienza vengono soprattutto identificati come quelli che impediscono, unitamente alla concorrenza perfetta, relazioni le qua-li trovino manifestazione adeguata in scambi e prezzi di mercato. Vi sono state, nella recente teoria economica, posizioni che hanno tratto dalla constatazione dei fallimenti del mercato la conclusione che il sistema stesso del mercato doves-se essere sostituito da una pianificazione razionale. Un esempio è quello di Oskar Lange (1936), che attribuiva a un pianificatore centrale la capacità di imitare at-traverso un processo di “prova ed errore” il processo di adeguamento di prezzi e quantità tipico del modello walrasiano. La via proposta da Lange, come tutte quelle che l’hanno seguita con raffinati strumenti matematici di pianificazione, si è rivelata storicamente impraticabile. La valutazione positiva del ruolo del mer-cato nell’allocazione delle risorse viene giustificata sulla base del convincimento che i fallimenti sono minoritari e possono essere corretti dall’azione dello Stato.

La perdita della concezione dinamica del mercato e della concorrenza nella visione neoclassica di stampo walrasiano è stata messa in luce dall’approccio au-striaco. Recuperando quella concezione Hayek è pervenuto a una visione decisa-mente ottimistica del capitalismo, mentre molto meno positiva per la futura capa-cità innovativa – “distruzione creatrice” – del sistema è la visione di Schumpeter.

Un’implicazione dell’indirizzo statico neoclassico è il riconoscimento quasi automatico del ruolo almeno potenzialmente correttivo dello Stato. Ma le fre-quenti inadeguatezze dell’intervento pubblico – effettivamente privo di alcun-ché idoneo a garantirne l’automatico successo – hanno consentito alla scuola della “Public Choice”, in particolare con James Buchanan, una rinnovata valo-rizzazione dell’economia di mercato. Contemporaneamente, i deludenti risul-tati emersi nell’Urss, nell’Europa dell’Est, nella Cina comunista e altrove – for-se più delle stesse considerazioni di teoria economica sul socialismo fondate sul contributo di Lange – inducevano molti a dubitare che siano politicamente ri-proponibili alternative al sistema dei mercati autoreferenziali.

Nonostante ciò si continua a discutere del capitalismo come sistema storico, ovvero della sua sorte in prospettiva: se il sistema sia superabile da forme olistiche di soluzione del problema economico, quali le diverse modalità di un “comuni-smo di mercato” (Boffito, 1979) o di una conduzione cooperativa, in autogestio-ne, dell’attività produttiva da parte dei lavoratori (Jossa, 2015); se sia possibile il passaggio a una società “poco capitalistica”, con ampi spazi sottratti ai meccanismi

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di mercato; se il governo dell’economia da parte dello Stato non possa tornare ad affermarsi, dopo l’onda liberistica che ha prevalso dagli anni ’80 del Novecento.

Al di là dei giudizi di valore e della dimensione ideologica di cui è intrisa, la questione è sotto il profilo economico semplicemente riconducibile alla som-ma algebrica dei benefici e dei costi del capitalismo, ai suoi esiti positivi con-frontati con i suoi esiti negativi, come vissuti e percepiti dai cittadini del mon-do (Hahn, 1993).

In estrema sintesi la congerie dei fallimenti si è tradotta – si traduce – in tre principali negatività, di enorme momento. Come nessun altro modo di produ-zione l’economia di mercato capitalistica è instabile (nei prezzi dei beni e dei servizi, nell’attività produttiva e nell’occupazione, nei valori dei cespiti patrimo-niali reali e finanziari); frantuma la società in vincitori e vinti, ricchi e poveri; ferisce l’ambiente sino a stravolgere l’equilibrio ecologico, a porre a repentaglio le forme di vita sulla Terra.

Ma come nessun altro modo di produzione l’economia di mercato capita-listica è riuscita a moltiplicare la produzione, migliorando il tenore di vita degli esseri umani. Con l’affermarsi su scala globale del capitalismo industriale, dal 1820 al 2003 (Maddison, 2008) il prodotto mondiale è aumentato molto più ra-pidamente della popolazione mondiale: il reddito medio pro capite dell’uma-nità è decuplicato, mentre sino al XVIII d.C. era rimasto tendenzialmente in-variato. Anche il reddito della fascia più povera del genere umano è, nel volgere dei due secoli, notevolmente aumentato.

Nella valutazione generale, delle opinioni pubbliche e delle classi dirigen-ti, questa straordinaria attitudine del capitalismo a incrementare la produzio-ne – innalzando la produttività attraverso l’efficienza e il progresso tecnico – ha prevalso sulle tre negatività del sistema, riconducibili ai fallimenti del mercato.

Che una siffatta capacità permanga, che sia estrapolabile al futuro, è ridive-nuto oggetto di analisi e di discussione nei tempi recenti, segnatamente a segui-to della crisi finanziaria che nel 2008 ha interessato i paesi anglosassoni e del-la recessione che nell’anno 2009 ha azzerato la crescita del prodotto mondiale. Saggi reali d’interesse a lungo termine storicamente bassi, scarti del prodotto ef-fettivo dal potenziale, eccessi ex ante del risparmio mondiale sull’investimento, declino dei tassi di accumulazione e d’innovazione, dei prezzi relativi dei beni capitali, della dinamica demografica: questi indizi, e altri ancora, hanno ripro-posto l’antico tema del rischio di un “secolare ristagno” dell’economia mondiale (Teulings, Baldwin, 2014).

Di fatto, la crescita della produzione resta sostenuta. Dal 2003 al 2015 il Pil mondiale è aumentato in volume al ritmo medio annuo del 3,5 per cento. Que-sto saggio di crescita, se è inferiore al 4,9 dell’età aurea 1950-1973, supera, sia pur

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lievemente, il 3,2 del 1973-2003. La previsione del Fondo monetario internazio-nale di ottobre 2015 ancora scontava un’espansione del Pil mondiale del 3,6-4 per cento l’anno fra il 2016 e il 2020. La proiezione di Angus Maddison per il periodo 2003-2030 (Maddison, 2008, Tab. 7.10, p. 392) vedeva il Pil pro capite mondiale in crescita annua del 2,2 per cento, rispetto all’1,4 e all’1,8 realizzati, rispettivamente, nel 1973-1990 e nel 1990-2003. La proiezione ipotizzava un ral-lentamento della dinamica demografica mondiale, dall’1,6 per cento l’anno del 1973-2003 all’1 per cento nel 2003-2030 (ivi, Tab. 7.1, p. 382 e Tab. A.2, p. 430).

Di fronte alle difficoltà provocate dagli shock esogeni, oltre che dalle pro-prie contraddizioni interne, il sistema trova vie di fuga, soluzioni nuove, com-promessi, compensazioni: «Il capitalismo è sopravvissuto alle sue crisi e ha otte-nuto grandi successi. Ma il capitalismo che è sopravvissuto e ha avuto successo non è quello del 1929. Il capitalismo che avrà successo nei prossimi sessant’anni potrebbe non essere quello del 1989. Gran parte del successo il capitalismo l’ha avuto perché è stato capace di adattarsi […]. Possiede un nucleo centrale che va difeso, se vuole rimanere tale. I contorni di questo nucleo centrale sono però molto sfumati, possono mutare senza distruggere il capitalismo; devono muta-re, a volte, perché esso sopravviva» (Stein, 1990, p. 127).

Un’ulteriore ragione della resilienza del sistema è che i suoi numerosi, po-tenziali “fallimenti”, descritti in questo libro, di rado si cumulano nella stessa economia con effetti devastanti perché moltiplicativi. Le diverse economie sono inoltre colpite dai “fallimenti” con modi, tempi, intensità non coincidenti, per lo più variegati.

Un ultimo motivo della tenuta del capitalismo è che accanto al nucleo co-mune, per dirla con Stein, esistono “i capitalismi”, caratterizzati da specificità nelle strutture, negli assetti istituzionali, nelle politiche economiche. Ai capita-lismi “renano” (Germania), “anglo-sassone” (Usa, Regno Unito), “famigliare” (Italia), “manageriale” (Giappone), “tecnocratico” (Francia), “neo-corporatista” (Svezia) (Valli, 2004, Tab. 2, p. 101) si è aggiunto il capitalismo “partitico” della Cina. I difetti del mercato e le risposte dello Stato si configurano molto diversa-mente in ciascuno di tali contesti. Ne risulta diversificato il rischio che l’intero modo di produzione imploda.

Tutto ciò… concesso, resta la gravità dei difetti del mercato identificati e valutati nei capitoli che seguono. Essi determinano e accentuano le già evocate, fondamentali risultanze negative che affliggono il sistema – instabilità, iniqui-tà, inquinamento – e ne limitano sia l’efficienza (livello della produttività) sia il progresso tecnico (incremento della produttività).

I saggi contenuti in questo volume mostrano come sia necessario un ripen-samento profondo a livello di teoria economica. Ciò non per rifiutare quanto è

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stato prodotto da decenni di pensiero economico neoclassico, o per riprodurre meccanicamente e acriticamente l’analisi classica. Va recuperato un approccio dinamico (tipico dei classici) alla stessa visione di efficienza. Si potranno meglio trattare i conflitti che sorgono tra crescita economica e diffusione equilibrata del benessere. Si eviterà di limitare a un semplice problema d’inflessibilità dei prezzi esiti socialmente inefficienti, oltre che iniqui, come la disoccupazione, secondo l’insegnamento di Keynes.

Lo Stato interviene quando l’efficacia della sua azione è avvalorata dalla te-oria e dall’esperienza. Ma anche quando così non è, ovvie ragioni di ricerca del consenso politico possono indurre i governanti a non astenersi dall’intervenire. E lo Stato, di fatto, è presente nell’economia ad ampio spettro e in molteplici forme: come legislatore, regolatore, allocatore di risorse, produttore, stabilizza-tore, promotore di sviluppo.

La convivenza tra mercato e intervento pubblico è quindi necessaria, o ine-vitabile. Va ricercata la chiave corretta di tale rapporto, non di contrapposizione o di sudditanza dell’un termine rispetto all’altro, ma di interazione attiva e di simbiosi. Ciò accade nei molti casi di ruolo positivo dello Stato nella promozio-ne della ricerca, dell’innovazione, del capitale umano, della stessa equità intesa anche come uguaglianza delle opportunità.

Le ragioni che possono determinare l’insuccesso dell’intervento dello Stato sono più d’una, di diversa natura: carenza d’informazione; imperfetta conoscenza del complesso e mutevole operare dell’economia di mercato capitalistica; difetto di strumenti; lentezza burocratica nel decidere; conflitto politico; asservimento del pubblico al privato; subordinazione dell’economia alla politica fino all’estre-mo dello Stato predatore, del “tiranno” che sacrifica al proprio l’interesse generale.

Risposte dello Stato ai difetti del mercato vengono richiamate in ciascuno dei saggi contenuti nel volume. Possono e devono essere rese più sicure, tempe-stive, efficaci. Non pochi dei loro limiti sono superabili. Nella sostanza, vanno prevenute, rimosse le ragioni di insuccesso della politica economica appena evo-cate. Ma può essere altresì reso esplicito un duplice presupposto metodologico.

Occorre che dei “fallimenti del mercato” si abbia piena contezza secondo una visione d’assieme, che se ne analizzino il radicamento e le interazioni, che si eviti di riguardarli come singole deviazioni in un sistema nell’insieme ben fun-zionante e destinato a permanere.

Occorre inoltre chiarezza di distinzione fra le due forme generali che l’a-zione dello Stato può assumere: quella attraverso “meccanismi”, quella attra-verso “strumenti”. I primi, una volta configurati, devono essere lasciati operare in autonomia, secondo le regole e gli assetti con cui li si è istituiti. Spetta ai se-condi perseguire le finalità contingenti, che di volta in volta s’impongono. Lo

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strumento principe resta naturalmente il bilancio pubblico: il suo livello, so-prattutto la sua composizione. Il meccanismo principe resta naturalmente l’or-dinamento giuridico, soprattutto il diritto dell’impresa, fallimentare, ammini-strativo, del processo civile, del risparmio, della concorrenza. La ricerca recente è unanime nel riscontrare sia la rilevanza di entrambi i momenti dell’intervento statale sia le inefficienze che derivano dalla confusione fra l’uno e l’altro. Em-blematico in Italia è stato il caso dell’IRI – l’Istituto per la Ricostruzione Indu-striale, a controllo pubblico – sorto nel 1933 come “meccanismo”, a lungo ben funzionante, liquidato nel 2002 dopo che di esso si era abusato come “strumen-to” pluriuso (Ciocca, 2014).

A monte – questo vuol essere il senso ultimo del libro – nulla è più azzarda-to, in economia politica, del cullarsi nell’assunto dei “mercati perfetti”.

Riferimenti bibliografici

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