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1 Immagini dello straniero. Atteggiamenti degli adolescenti e socializzazione della diversità. Oggetto di indagine In questo progetto di ricerca intendo studiare l’atteggiamento degli adolescenti nei confronti del fenomeno migratorio. Voglio focalizzarmi sulle rappresentazioni che i giovani hanno della popolazione non nazionale, intese come la base degli atteggiamenti da essi dimostrati nei confronti di un fenomeno attuale come quello dell’immigrazione straniera. L’obiettivo che mi pongo è di guardare l’altro lato delle dinamiche migratorie, ovvero la società di accoglienza considerata in un suo specifico segmento: la popolazione adolescente. Se oggi anche in Italia sono ormai numerose le indagini che hanno come oggetto la qualità dell’inserimento sociale della popolazione straniera, sono invece meno frequenti, almeno sulla base dalle informazioni che ho raccolto fino ad ora, quelle relative alle dinamiche che l’immigrazione straniera determina tra i membri della società di accoglienza 1 , soprattutto se quest’ultima è considerata nel suo segmento più giovane. All’interno di questa prima considerazione un ulteriore vantaggio consiste nell’aprire un punto di osservazione su una fascia di adolescenti al momento trascurata dalle ricerche sui processi culturali, ovvero chi non si trova in condizione di studente. I seguenti punti rappresentano le motivazioni che mi hanno guidato a prendere in considerazione questo tema. a) Il tema dello straniero rappresenta uno dei primi importanti oggetti di studio della sociologia. Se l’interesse nei suoi confronti è stato discontinuo, elevato a inizio Novecento con le riflessioni di Simmel e dei membri della Scuola di Chicago, è stato poi ripreso nel secondo dopoguerra da esponenti come Schutz, Elias e Merton; questi ultimi hanno guidato la sua tematizzazione, per quanto fluttuante, sino ai giorni nostri. Anche in ambito della sociologia italiana, pur riconoscendo questa attenzione variabile, alcuni autori sostengono l’esistenza di una vera e propria specializzazione disciplinare: la “sociologia dello straniero” 2 b) Nello studio delle “reazioni” verso lo straniero si intersecano numerosi elementi che rappresentano le basi fondanti dell’analisi sociale. Gli atteggiamenti dello straniero che la società ricevente sviluppa non sono il semplice prodotto di dinamiche interne alla mente degli attori. Entrano qui in gioco diversi fattori quali ad esempio l’identità (individuale e collettiva), la socializzazione, i valori, le credenze, le disuguaglianze e il conflitto, solo per citare i più rilevanti. c) Infine, secondo le poche recenti indagini su questo argomento, di cui si parlerà nel successivo quadro teorico, gli adolescenti italiani sembrano dimostrare un significativo atteggiamento di chiusura nei confronti dei loro pari con altra cittadinanza e, più in generale, nei confronti dell’immigrazione in quanto fenomeno. Timori relativi alla sicurezza si intersecano con preoccupazioni tipiche dell’area socio-economica e a livello della minaccia identitaria. Sono elementi che contribuiscono allo sviluppo di diffidenza e poca disponibilità ad interagire. Per concludere, se la parola immigrazione è sempre associata a integrazione, sia quando si rilevano fatti o elementi che la descrivono in positivo, sia il contrario quando invece ad essere rilevati sono deficit sotto questo profilo. L’impressione è che sovente si dimentichi quanto questo termine tecnico, o concetto ideale, implichi un processo bidirezionale che chiama in causa tanto chi 1 Non annovero al riguardo i frequenti sondaggi condotti da istituti di ricerca, ad esempio su commissione di attori del mondo dei media, o survey basate su campioni rappresentativi della popolazione che tendono entrambe a rilevare le opinioni della popolazione locale nei confronti della presenza straniera, quest’ultima generalmente presentata sulla dicotomia costi/benefici per la società italiana. 2 Tabboni S., (1986), Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come categoria sociologica, Milano, Franco Angeli; Colombo E., (1999), Rappresentazioni dell’altro. Lo straniero nella riflessione sociale occidentale, Milano, Franco Angeli; Cipollini R. (2000), Lo straniero come forma sociale, in Itinerari pedagogici e culturali. Scritti in onore di R. Vallini, Siena, Cantagalli; Cipollini R. (a cura di), (2002), Stranieri. Percezione dello straniero e pregiudizio etnico, Milano, Franco Angeli.

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Immagini dello straniero. Atteggiamenti degli adolescenti e socializzazione della diversità.

Oggetto di indagine In questo progetto di ricerca intendo studiare l’atteggiamento degli adolescenti nei confronti del

fenomeno migratorio. Voglio focalizzarmi sulle rappresentazioni che i giovani hanno della popolazione non nazionale, intese come la base degli atteggiamenti da essi dimostrati nei confronti di un fenomeno attuale come quello dell’immigrazione straniera.

L’obiettivo che mi pongo è di guardare l’altro lato delle dinamiche migratorie, ovvero la società di accoglienza considerata in un suo specifico segmento: la popolazione adolescente. Se oggi anche in Italia sono ormai numerose le indagini che hanno come oggetto la qualità dell’inserimento sociale della popolazione straniera, sono invece meno frequenti, almeno sulla base dalle informazioni che ho raccolto fino ad ora, quelle relative alle dinamiche che l’immigrazione straniera determina tra i membri della società di accoglienza1, soprattutto se quest’ultima è considerata nel suo segmento più giovane. All’interno di questa prima considerazione un ulteriore vantaggio consiste nell’aprire un punto di osservazione su una fascia di adolescenti al momento trascurata dalle ricerche sui processi culturali, ovvero chi non si trova in condizione di studente.

I seguenti punti rappresentano le motivazioni che mi hanno guidato a prendere in considerazione questo tema.

a) Il tema dello straniero rappresenta uno dei primi importanti oggetti di studio della sociologia. Se l’interesse nei suoi confronti è stato discontinuo, elevato a inizio Novecento con le riflessioni di Simmel e dei membri della Scuola di Chicago, è stato poi ripreso nel secondo dopoguerra da esponenti come Schutz, Elias e Merton; questi ultimi hanno guidato la sua tematizzazione, per quanto fluttuante, sino ai giorni nostri. Anche in ambito della sociologia italiana, pur riconoscendo questa attenzione variabile, alcuni autori sostengono l’esistenza di una vera e propria specializzazione disciplinare: la “sociologia dello straniero”2

b) Nello studio delle “reazioni” verso lo straniero si intersecano numerosi elementi che rappresentano le basi fondanti dell’analisi sociale. Gli atteggiamenti dello straniero che la società ricevente sviluppa non sono il semplice prodotto di dinamiche interne alla mente degli attori. Entrano qui in gioco diversi fattori quali ad esempio l’identità (individuale e collettiva), la socializzazione, i valori, le credenze, le disuguaglianze e il conflitto, solo per citare i più rilevanti.

c) Infine, secondo le poche recenti indagini su questo argomento, di cui si parlerà nel successivo quadro teorico, gli adolescenti italiani sembrano dimostrare un significativo atteggiamento di chiusura nei confronti dei loro pari con altra cittadinanza e, più in generale, nei confronti dell’immigrazione in quanto fenomeno. Timori relativi alla sicurezza si intersecano con preoccupazioni tipiche dell’area socio-economica e a livello della minaccia identitaria. Sono elementi che contribuiscono allo sviluppo di diffidenza e poca disponibilità ad interagire.

Per concludere, se la parola immigrazione è sempre associata a integrazione, sia quando si rilevano fatti o elementi che la descrivono in positivo, sia il contrario quando invece ad essere rilevati sono deficit sotto questo profilo. L’impressione è che sovente si dimentichi quanto questo termine tecnico, o concetto ideale, implichi un processo bidirezionale che chiama in causa tanto chi

1 Non annovero al riguardo i frequenti sondaggi condotti da istituti di ricerca, ad esempio su commissione di attori del mondo dei media, o survey basate su campioni rappresentativi della popolazione che tendono entrambe a rilevare le opinioni della popolazione locale nei confronti della presenza straniera, quest’ultima generalmente presentata sulla dicotomia costi/benefici per la società italiana. 2 Tabboni S., (1986), Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come categoria sociologica, Milano, Franco Angeli; Colombo E., (1999), Rappresentazioni dell’altro. Lo straniero nella riflessione sociale occidentale, Milano, Franco Angeli; Cipollini R. (2000), Lo straniero come forma sociale, in Itinerari pedagogici e culturali. Scritti in onore di R. Vallini, Siena, Cantagalli; Cipollini R. (a cura di), (2002), Stranieri. Percezione dello straniero e pregiudizio etnico, Milano, Franco Angeli.

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arriva quanto chi riceve. Per tale ragione, intendo qui focalizzarmi su un lato ancora poco conosciuto del processo di integrazione, la società ricevente assunta in un suo specifico segmento: le rappresentazioni e gli atteggiamenti degli adolescenti.

Quadro teorico • I paradigmi classici Generalmente le ricerche che si occupano di atteggiamenti, pregiudizi e stereotipi verso gruppi

etnici, fanno riferimento ad alcune classiche tradizioni teoriche. La prima è rappresentata dagli studi di Gordon W. Allport3, che negli anni a venire sono stati

riassunti sotto l’etichetta “Contact Hypothesis” (CH). Pur muovendosi nell’ambito della psicologia, lo scopo di Allport è di superare la precedente impostazione psico-dinamica di Adorno, sviluppata negli studi sulla personalità autoritaria, e aprire un’importante pista di analisi verso i fattori sociali in cui si trova inserito l’individuo. È necessario comprendere il modo in cui l’individuo “struttura insieme tutte queste influenze [sociali, storiche, culturali ed economiche, ndr], ivi compresi i conflitti inconsci e le relazioni psicodinamiche entro un globale sistema di vita”4. Per Allport il pregiudizio è innanzitutto funzionale al processo di comprensione del flusso degli eventi attraverso l’attività di categorizzazione. Inoltre, tale attività di categorizzazione fa si che il pregiudizio non si rivolga semplicemente al singolo destinatario ma alla collettività alla cui quest’ultimo appartiene. Infine, Allport nutre fiducia che il contatto intergruppo possa stimolare la mutua accettazione e attenuare il pregiudizio, a patto che si svolga in determinate condizioni che rinviano alle caratteristiche dell’interazione e del contesto socio-politico in cui si svolge.

La seconda è la cosiddetta “Social Identity Theory” (SIT) elaborata da Henri Tajfel. Anche Tajfel si muove all’interno della psicologia sociale ma con il suo contributo entrano in campo ulteriori fattori sociologici. Come per Allport il punto di partenza è il processo di categorizzazione, ma è necessario comprendere come gli stereotipi negativi vengano “condivisi da grandi masse di persone all’interno dei gruppi sociali”5. È quindi necessario integrare la funzione cognitiva dello stereotipo con quella sociale. A livello cognitivo lo stereotipo serve sia per accrescere la coesione intragruppo quanto per accentuare la distinzione intergruppo. Tuttavia tale processo non è neutro ma mediato dal sistema di valori in cui il gruppo si riconosce. Per Tajfel questo processo si svolge nell’interazione tra identità individuale e identità sociale. Riassumendo, i pensieri e le azioni degli attori sono animati dalla finalità latente di preservare l’identità del proprio gruppo e garantire un livello minimo, standard, di favoritismo nei suoi confronti perché esso rappresenta quel serbatoio di risorse simboliche essenziali per la vita sociale del soggetto.

A questi due paradigmi se ne affianca un terzo, chiamato “Realistic Conflict Theory” (RCT). L’autore che ha dato avvio a questa scuola è Muzafer Sherif e ha elaborato una prospettiva di osservazione diversa rispetto alle due appena discusse, basata principalmente su situazioni sperimentali. Secondo questo approccio se la cooperazione tesa al perseguimento di uno o più fini comuni rafforza la coesione intragruppo, dall’altro lato incrementa invece l’ostilità itergruppo. in condizioni competitive, se il contatto con gruppi esterni rappresentata un elemento di coesione e democratizzazione dei rapporti interni, questo non si riflette sulle relazioni con l’outgroup che diventano progressivamente ostili, e costituiscono la base per la nascita di stereotipi negativi, “cioè rudimenti di pregiudizio”6. In questa prospettiva la competizione e il conflitto per risorse ritenute scarse, aumentano la compattezza dell’ingroup ma rendono ostili i rapporti con l’outgroup percepito come una minaccia ed un nemico.

3 Allport G., (1954), La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia Editrice (ed. originale 1973, The Nature of Prejudice, Massachusset, Addison-Wesley Publishing Company). 4 Ibidem, pg. 539 5 Tajfel E. (1995), Gruppi umani e categorie sociali, Bologna, Il Mulino, pg. 215-220 (ed. originale 1981, Human groups and social categories. Studies in social psychology, Cambridge, Cambrindge University Press. 6 Sherif M. (1972), L’interazione sociale, Bologna, Il Mulino, pg. 426.

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• Sviluppi recenti In questi ultimi anni, sono stati avanzati approcci innovativi rispetto ai paradigmi presentati che,

pur partendo dai rispettivi presupposti, hanno tentato di articolare ulteriormente il tema degli atteggiamenti verso la diversità etnica; anche prendendo in considerazione segmenti più specifici della popolazione quale ad esempio le classi più giovani. Ad esempio a livello di “Contact Hypothesis” Hallinan e Williams negli anni ottanta e novanta hanno condotto indagini nelle scuole americane per osservare quale fosse la disponibilità degli studenti a sviluppare rapporti di amicizia intergruppo7. Dai loro risultati emerge che generalmente gli adolescenti prediligono relazioni all’interno del proprio gruppo di appartenenza, ma quando avviene il contatto intergruppo questo pare avere effetti positivi. Per Hallinan e Williams è cruciale che gli studenti si riconoscano reciprocamente come amici e che venga data loro la possibilità di interagire. La molla scatenante viene quindi individuata nella reciprocità. Tuttavia il solo contatto non pare sufficiente a generare tale atteggiamento positivo ed è necessario supportarlo con specifiche condizioni strutturali, nel senso che vi dev’essere l’opportunità per interagire: di qui il nome “opportunity hypothesis”. Per tale ragione gli autori assegnano molta importanza alle politiche delle direzioni scolastiche, volte a costituire classi e percorsi il più possibile eterogenei sotto il profilo della composizione etnica.

In ambito nordeuropeo considero interessante il tentativo di Peer Scheepers di fondere la SIT con la RCT in un modello intermedio8. Si tratta di uno schema già applicato alla conduzione di studi di survey9 in un’ottica prettamente sociologica. Il punto di partenza è dato dalla competizione tra gruppi che, per la RCT porta ad un incremento di esclusione dell’outgroup, mentre per la SIT in primo luogo rafforza l’identificazione sociale con il proprio gruppo. Sheepers propone al riguardo di tenere distinti il livello micro da quello macro nelle dinamiche competitive tra gruppi. Nel primo l’incremento dell’identificazione sociale prodotto da una situazione competitiva può avere come risultato l’esclusione etnica, nel secondo la competizione si riferisce invece a dinamiche di gestione politica delle risorse. Secondo questo approccio, è a livello individuale che si realizzano le dinamiche più importanti, perché se la competizione è individuabile nelle effettive condizioni sociali esperite dal gruppo maggioritario, nondimeno essa è anche individuabile a livello della minaccia percepita da quest’ultimo. Secondo questo modello in fieri, chiamato “ethnic competitive theory”, se un primo effetto della competizione è di aumentare la coesione interna, dall’altro lato può produrre un processo di esclusione verso l’outgroup che è una funzione delle concrete dinamiche sociali che caratterizzano il gruppo quanto del livello di minaccia da esso percepita . Quest’ultimo dato, il livello di percezione della minaccia, pare agire come una sorta di variabile interveniente che rafforza la più semplice relazione primaria stimolo(concrete dinamiche sociali/competizione) – risposta(esclusione dell’outgroup).

In ambito americano Robert Putnam ha recentemente tentato di fornire un nuovo angolo di visuale, evidenziando che le ipotesi della “Contact Hypothesis” quanto della “Realistic Conflict Theory” non sarebbero corroborate dalla realtà statunitense10. Il suo punto di partenza è la misura del capitale sociale in quartieri con bassa e alta diversità etnica. Elaborando i risultati di una survey americana condotta nel 200011, il pluralismo etnico non pare produrre conflitto tra gli abitanti dei quartieri misti, ne il contatto costituirebbe uno strumento per migliorare gli atteggiamenti reciproci. Nei quartieri etnicamente eterogenei si verificherebbe invece un indebolimento del capitale sociale ed una caduta della fiducia interpersonale. Dalla comparazione di diversi contesti urbani americani,

7 Hallinan M. T., Williams R. A., (1989) Interracial Friendship Choices in Secondary Schools, in American Sociological Review, vol. 54, February 67-68. 8 Scheepers P. (a cura di) (2002), Ethnic exclusionism in European countries, public opposition to grant civil rights to legal migrants as a reponse to perceived ethnic threat, in European Sociological Review, n° 18, pg. 242-265. 9 Scheepers P., Lubbers M., Coenders M., (2003), Majority populations’ attitudes towards migrants and minorities, Report for the European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia (documento on line: http://fra.europa.eu/fra/index.php) 10 Putnam R., (2007), E Pluribus Unum: diversity and community in the twenty-first century. The 2006 Johan Skytte prize lecture, in Scandinavian Political Studies, vol. 30 – n° 2. 11 Social Capital Community Benchmark Survey Sites.

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emerge che il principale atteggiamento di chi abita in quartieri a composizione eterogenea è definibile come una ritrosia nei confronti dell’ambiente circostante, rinchiudendosi in una dimensione sociale molto limitata come quella del proprio ambiente domestico. La diversità sembrerebbe ridurre la solidarietà a livello di ingroup quanto di outgroup - atteggiamento chiamato “hunker down”12 – e propone il conio “constrict theory”: una condizione di indebolimento del capitare sociale. Per evitare il deperimento della fiducia interpersonale ed evitare questo nocivo ripiegamento su di sé, Putnam ritiene importante intervenire per (ri)costruire un senso del “noi” in un contesto sempre più plurale come quello statunitense. Nutre quindi fiducia in politiche di inclusione capaci di valorizzare le identità presenti connettendole con il più ampio nucleo di valori americano13. Dal mio personale punto di vista questa prospettiva invita l’osservatore a prestare la dovuta attenzione alle caratteristiche del contesto, a non considerare come innati i sentimenti di ostilità verso il diverso e al ruolo che le politiche pubbliche possono esercitare per raggiungere una buona coesione sociale.

Sempre in ambito statunitense ritengo utili i risultati di alcune indagini empiriche dirette da Alberto Bisin che aggiungono importanti elementi di complessità al presente quadro teorico14. Si tratta di complessi modelli econometrici basati su survey tesi a dimostrare che, in ambito urbano, gli sforzi per socializzare le nuove generazioni all’identità etnica di appartenenza paiono essere maggiori nei quartieri misti piuttosto che in quelli segregati15: maggiore è la diversità culturale che quotidianamente circonda il soggetto e maggiore è l’impegno da parte della famiglia e del gruppo etnico di riferimento affinché i giovani non subiscano deviazioni identitarie. Inversamente, nei quartieri più omogenei il rischio di carriere identitarie idiosincratiche è minore e quindi meno intensi sarebbero gli sforzi per la socializzazione all’identità etnica originaria. La loro analisi invita a riflettere sui possibili effetti perversi insiti nelle politiche di inclusione, sovente animate dall’obiettivo di evitare concentrazioni territoriali e distribuire in modo omogeneo i gruppi di origine immigrata. Gli autori di questo modello non si riferiscono esplicitamente al tema degli atteggiamenti e del pregiudizio etnico, tuttavia non è difficile scorgere un implicito riferimento trasversale ai primi tre paradigmi considerati (CH, SIT, RCT) i cui assunti teorici vengono per certi versi rovesciati. In sintesi, per i gruppi minoritari il principale effetto dell’interazione con il gruppo maggioritario pare essere la disaffezione con l’identità di origine (CH e SIT), piuttosto che sul versante della maggiore o minore bontà delle relazioni intergruppo (RCT). In questo caso non sembra che il contatto influenzi il livello di conflittualità tra gruppo etnico e contesto ricevente, ma il livello di coesione del primo.

Tornando in ambito europeo, ritengo che sia necessario prendere in considerazione i risultati di un’ulteriore approccio allo studio del pregiudizio, che si è sviluppato in Francia a partire dagli anni settanta. Mi riferisco in particolare alle analisi condotte sulle evoluzioni formali e sostanziali che in questi ultimi trenta anni hanno caratterizzato fenomeni e termini quali razzismo e pregiudizio. Secondo Pierre André Taguieff, a partire dagli anni settanta si assiste ad una metamorfosi nei contenuti e nelle vesti del razzismo, qui inteso come pregiudizio, che avrebbe perso la sua originale natura di prodotto della biologia. Quello a cui si assiste oggi, secondo Taguieff, è paragonabile a un processo di culturalizzazione e democratizzazione del concetto stesso di razzismo. Non si sostiene più l’esistenza di una gerarchia delle razze basata su criteri naturali, bensì ora si parla di “diritto dei popoli all’identità”16. È un razzismo che non ha più come obiettivo l’ineguaglianza tra le razze ma la salvaguardia delle rispettive differenze: razzismo differenzialista. Lo stesso concetto di razza si svuota quindi di significato e viene sostituito da quello di cultura o di etnia, e si passa dalla paura 12 Letteralmente: “vivere nell’ombra”. 13 Putnam fa esplicito riferimento alle hyphenated identities: “identità con il trattino” 14 Bisin A., Patacchini E., Verdier T., Zenou Y., (2006), Bend it like Beckham: Identity, Socialization and Assimilation, paper parte del “Polarization and Conflict Project” dato in carico dalla Commissione Europea – DG Sixth Framework Programme; Bisin A., Verdier T., (2000), Beyond the melting pot: cultural transmission marriage and the evolution of the ethnic and religious traits, in Quarterly Journal of Economics. 15 Nel testo: segregated neighborhoods. 16 Taguieff P. A., (1987) La force du préjugé, Paris, La Découverte, pg.10

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per le differenze (eterofobia) all’amore per queste ultime (eterofilia). Questo radicale mutamento di prospettiva pone i movimenti antirazzisti in profonda crisi che, a giudizio dell’autore, non avrebbero ancora percepito appieno tali trasformazioni ideologiche e si troverebbero a lottare con le armi sbagliate contro un nemico che non è più quello di un tempo. Ritengo utile considerare i presupposti di questa prospettiva perché affrontano il problema con un’ottica prettamente storico-sociologica, inseriscono l’oggetto trattato nei profondi mutamenti politici ed economici che a partire dal secondo dopoguerra hanno caratterizzato l’Europa e assumono che razzismo e pregiudizio etnico siano prodotti eminentemente sociali. In secondo luogo, riscontro in questa posizione l’invito indiretto a riflettere sull’uso che quotidianamente si fa di termini quali razzismo, pregiudizio, xenofobia ed etnocentrismo. Alla luce di questi risultati credo importante che un’indagine empirica condotta sull’atteggiamento nei confronti delle persone di origine immigrata, debba necessariamente interrogarsi sulle modalità di applicazione di tali categorie concettuali alla luce appunto della loro riformulazione teorica.

A livello europeo è ancora necessario prendere in considerazione la prospettiva elaborata da Teun van Dijk allo studio del razzismo17. Si tratta di un approccio complesso che integra l’esperienza della linguistica con quella della sociologia e della psicologia sociale. Mediante le categorie e le stereotipie presenti nel discorso, il gruppo maggioritario riproduce e perpetua inconsapevolmente, con lo spontaneo uso della parola, la sua condizione di dominio nei confronti dei gruppi minoritari. Si tratta quindi di un discorso dai contenuti non neutri, bensì costruiti ad hoc per conservare gli attuali rapporti di potere e diffusi mediante “processi multipli di comunicazione pubblica e interpersonale”18; individua nella classe politica, nei media e negli intellettuali i principali autori il cui compito è di costruire tale tipo di discorso. Per van Dijk il discorso rappresenta l’ambito in cui è possibile isolare la dimensione cognitiva e sociale del razzismo. In questa logica il pregiudizio etnico è un atteggiamento che rappresenta il fondamento cognitivo del razzismo, e quest’ultimo non è considerato un semplice atteggiamento o comportamento ma un complessivo sistema di dominio e di controllo sociale.

• Gli studi in Italia. L’attenzione degli studi italiani relativi agli atteggiamenti verso la popolazione proveniente da

Paesi stranieri nasce verso la fine degli anni ottanta del Novecento, in concomitanza con la presa di coscienza del profondo mutamento di status in corso - da paese di emigranti a paese di immigrazione – e i relativi “traumi sociali” che l’inizio dell’immigrazione ha generato in Italia. Al momento mi limito a prendere in considerazione quei lavori che presentano una stretta vicinanza con il tema che intendo trattare (l’atteggiamento degli adolescenti verso l’immigrazione), rimanendo consapevole che, in particolare negli anni novanta, si incontrano alcuni studi sul razzismo e il pregiudizio etnico, condotti sia con finalità teoriche quanto empiriche e rivolti a specifici attori (la popolazione complessiva, la televisione, la stampa, ecc.).

Nel 1998 a Torino si tiene un seminario19 in cui ricercatori e operatori del mondo scolastico tentano di delineare come i giovani si pongono di fronte alla diversità etnica. Quanto emerge raffigura un mondo giovanile poco disposto a prendere in considerazione l’alterità, che ai loro occhi assume invece la veste di una fonte di pericolo e insicurezza. Il profilo dell’adolescente che emerge è quello di un soggetto prevalentemente rinchiuso nel proprio egocentrismo e narcisismo, incapace ad operarsi per il bene comune perché teso verso il raggiungimento di mete prettamente individuali. Si iniziano anche a profilare alcuni possibili indirizzi di ricerca, quali ad esempio le differenze nelle

17Teun A. van Dijk, (1994), Il Discorso razzista. La riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani, Messina, ed. Rubettino; Teun A. van Dijk, (2004), Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Roma, Carocci 18 Teun A. van Dijk, (1994), Il Discorso razzista. La riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani, Messina, ed. Rubettino, pg. 53 19 Conoscere l’altro: educazione all’interculturalità (1998), atti del seminario “Pregiudizio e Razzismo tra i Giovani”, in I Quaderni della Compagnia San Paolo, Torino.

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espressioni di intolleranza misurate nei diversi istituti (tecnici-professionali vs licei), o in base alla qualità del contesto familiare e di quartiere.

Negli ultimi due Rapporti Iard (2001 e 2007) noto con interesse che è presente un capitolo dedicato espressamente all’atteggiamento dei giovani nei confronti dell’immigrazione20. Dalle surveys Iard emerge in entrambi i casi un atteggiamento ambivalente, dove il polo della chiusura è affiancato da quello solidaristico, quest’ultimo con un peso minoritario. Nel corso di questo quinquennio entrambe le aree rimangono stabili. Se il timore per la minaccia in campo socio-economico si è leggermente ridotto, è invece cresciuto per le questioni di ordine identitario-culturale e di assistenza pubblica. Sintetizzando, la presenza immigrata è innanzitutto percepita come un pericolo in campo socio-economico, dove il lavoro e i sussidi statali sono i beni che si teme che gli immigrati possano sottrarre più facilmente alla popolazione nazionale. Nel Rapporto 2007 è in cresciuto anche il timore per la sicurezza e l’ordine sociale, e questo vale anche per le fasce più adulte. Emerge infine la questione identitaria, più di un terzo del campione crede che gli stranieri minaccino l’identità culturale del nostro paese e una quota maggiore rispetto al 2001 dimostra di voler proteggere maggiormente l’accesso alla cittadinanza, vincolandolo maggiormente alla discendenza e quasi a intendere tale diritto in senso “naturalistico”21. L’autore fa riferimento alla “Rational Conflict Theory” per spiegare l’ampiezza del polo della chiusura: la competizione per beni e risorse scarse determina le ragioni del pregiudizio. Ritiene però necessario articolare maggiormente il quadro inserendo delle variabili relative alla percezione del senso di minaccia e si rifà allo schema teorico della “ethnic competitive theory”: l’esclusione dell’outgroup è data dal reale conflitto esperito a livello individuale e dal livello di percezione relativo alla minaccia percepita. Il suggerimento implicito di Peri è di interpretare le percezioni come una sorta di variabile interveniente che può rafforzare o meno l’iniziale atteggiamento derivato dal (solo) conflitto in atto.

Ritengo ancora utile dedicare alcuni cenni a due indagini che, sulla base della ricerca che ho condotto sinora, rappresentano le principali ricerche svolte in Italia sul tema della percezione dello straniero da parte degli adolescenti e il relativo pregiudizio etnico. La prima risale al 2002 e la seconda al 2004, entrambe sono svolte nel Lazio e adottano come unità di analisi gli studenti delle scuole medie superiori22. Per quanto la prima si tratti di un’indagine esclusivamente quantitativa, mentre la seconda contiene anche una fase di approfondimento qualitativa, la metodologia applicata è pressoché sovrapponibile. Il quadro teorico di riferimento è rappresentato prevalentemente dagli strumenti della “Social Identity Theory”. Il punto di partenza dell’indagine del 2002 consiste nella rappresentazione multidimensionale dello straniero secondo le caratteristiche che emergono dalla Sociologia dello straniero, che si inaugura con Simmel e giunge fino a Bauman: ambivalenza, innovazione, marginalità, estraneità e differenza sono le principali dimensioni esplorate. Seguendo l’insegnamento di Allport, il pregiudizio etnico è scomposto nelle componenti cognitiva, affettiva e conativa, ed è nella prima di esse che emergono gli stereotipi salienti delineati da tale branca della sociologia, offrendo una rappresentazione dello straniero a più dimensioni. Gli stereotipi risultano essere il legame tra i singoli attori e il modello culturale di sfondo (o identità di gruppo) in cui è contenuta l’immagine dello straniero. Il tipo di adesione che il soggetto mostra nei confronti di tali rappresentazioni pare determinata dalle caratteristiche dell’identità individuale. La parte centrale dell’indagine è quindi dedicata al ruolo dell’identità come principale fattore influenzante gli atteggiamenti. In sintesi, un’identità che si presenta relativamente strutturata, in cui il processo di esplorazione dei valori può dirsi relativamente concluso, sembra associata ad una maggiore “messa 20 Peri P. (2002), Giovani Immigrazione e Pregiudizio, in Quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, il Mulino; Peri P. (2007), L’atteggiamento dei giovani verso gli immigrati, in Sesta indagine Iard sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino. 21 Peri P. (2007), L’atteggiamento dei giovani verso gli immigrati, in Sesta indagine Iard sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino, pg. 259. 22 Cipollini R., (2002) (a cura di), Stranieri. Percezione dello straniero e pregiudizio etnico, Milano, Franco Angeli; Agnoli M. S., (2004) (a cura di), Lo straniero in immagine, Rappresentazione degli immigrati e pregiudizio etnico tra gli studenti del Lazio, Milano, Franco Angeli.

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a fuoco della figura sociale degli stranieri immigrati”23, in cui è chiaro il loro ruolo occupato nella società di accoglienza. Quando invece il processo di esplorazione identitaria è ancora diffuso, l’immagine dello straniero pare più sfocata e indefinita, ed è meno chiaro per il soggetto la posizione sociale degli immigrati. Simile per certi versi è il successivo lavoro del 2004, anche se il focus è più orientato al nesso tra rappresentazioni dello straniero e orientamento all’azione. Per quanto siano variabili presenti anche nella prima indagine del 2002, nella seconda le caratteristiche di contesto hanno un peso maggiore. Si ritiene che la rappresentazione dello straniero sia il risultato dell’area di intersezione tra caratteristiche individuali e contestuali, non il loro semplice prodotto bensì il riflesso che si genera nel momento di incontro tra questi due fattori. Un risultato che emerge con forza è dato dal ruolo che la dimensione territoriale (metropolitana/provinciale) esercita nel condizionare la forma sociale dello straniero: rispetto ai pari della provincia i giovani metropolitani hanno un rapporto generalmente più conflittuale con la diversità etnica, e questo si riflette su tutte le dimensioni osservate. Riassumendo, a Roma il conflitto pare assumere più le forme di un fastidio a livello fisico, tangibile (criminalità, degrado urbano, non rispetto delle regole, ecc.) in provincia, invece, la tensione si svolge più sul piano della contaminazione identitaria.

Questo sommario quadro teorico è animato dallo scopo dichiarare le possibili strategie di analisi che possono essere seguite nel presente lavoro di ricerca. Se la sociologia entra nello studio degli atteggiamenti e del pregiudizio etnico nel momento in cui ci si rende conto dell’insufficienza del solo approccio psicologico, rendendo necessaria un’ottica multidimensionale e interdisciplinare, è un fatto che dal mio punto di vista suggerisce l’importanza di non cristallizzare la ricerca in un unico paradigma o cornice teorica interpretativa. Credo che nel fare emergere i nessi esplicativi ritenuti significativi per rispondere ai quesiti che muovono l’indagine, l’utilizzo di un approccio teorico piuttosto che un altro, rappresenti una scelta dettata dalle caratteristiche dell’unità di rilevazione e di analisi che di volta in volta affioreranno. Da un iniziale approccio centrato sulle dinamiche della mente – i paradigmi classici - si inizia gradualmente a prestare attenzione a variabili sociologiche, quali ad esempio l’opportunità e la reciprocità, il tipo di percezione e il livello al quale si colloca (micro o macro), le caratteristiche del contesto e le azioni istituzionali volte ad intervenire su di esso, le relazioni dell’individuo e della sua identità con l’ambiente sociale circostante, le trasformazioni socio-politiche che in questi ultimi decenni hanno modificato il contenuto delle abituali categorie concettuali impiegate (razzismo e pregiudizio), il discorso come mezzo di consolidamento dell’ideologia. Relativamente all’ambito italiano, è alle ultime due ricerche citate che al momento dirigo la mia attenzione. Sono indagini prettamente sociologiche che, complessivamente, paiono attingere alle succitate variabili. 23 Cipollini R., (2002) (a cura di), Stranieri. Percezione dello straniero e pregiudizio etnico, Milano, Franco Angeli; pg. 265.

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Metodologia • Domanda cognitiva. Sulla base degli elementi emersi nel quadro teorico, al momento mi limito a delineare una serie

di preliminari domande, che richiederanno necessariamente una maggiore specificazione e articolazione affinché possa formulare una domanda cognitiva o un’ipotesi congruenti con l’oggetto e gli obiettivi della ricerca. 1) In che misura l’atteggiamento degli adolescenti verso lo straniero è condizionato dai vincoli e dalle opportunità di azione che derivano dalla loro complessiva collocazione sociale?

Per “vincoli e opportunità di azione” intendo le variabili di ordine contestuale che rappresentano la struttura in cui l’attore realizza il suo comportamento. Quest’ultima è costituita da un insieme di variabili che rinviano: a) alle caratteristiche socio-demografiche dell’attore, b) al suo capitale culturale, c) alle sue dimensioni identitarie, d) alle caratteristiche dei suoi gruppi di appartenenza, e) al tipo di legami che intrattiene con tali gruppi, f) alle caratteristiche del suo luogo di residenza (ad es.: bassa/alta presenza straniera, basso/alto degrado urbano, ecc.), g) al suo stile di vita (habitus).

Considerato che gli atteggiamenti verso lo straniero possono costituire la base di un eventuale

pregiudizio etnico (inteso come valutazione negativa dello straniero) penso di poter porre un’ulteriore domanda di ricerca: 2) L’atteggiamento verso lo straniero, indipendentemente dal contenuto di valore posseduto, quale funzione svolge per l’attore?24 2a) E’ possibile che esso svolga una funzione finalizzata a confermare e riprodurre la sua identità sociale, intesa quale risultato dei “vincoli e delle opportunità di azione” che derivano dalla sua “complessiva collocazione sociale”?

Queste domande sono volte a studiare gli atteggiamenti e il pregiudizio etnico con un approccio sociologico. Quando oggetti come quello in questione hanno un’estesa rilevanza a livello di sistema, coinvolgendo in modo trasversale le classi sociali e i vari gruppi presenti, penso che le dinamiche della mente assumano un ruolo secondario rispetto a quelle che invece derivano da una collocazione sociale dell’individuo a più dimensioni intersecanti, al cui interno il principale sforzo dell’attore è fornire senso al ruolo che esercita e racchiudere tali dimensioni in una complessiva cornice di significato.

Infine sulla scorta delle domande poste finora credo che una possibile ipotesi di lavoro, per quanto preliminare, possa essere così abbozzata:

Le cause degli atteggiamenti verso lo straniero e dei pregiudizi etnici sono differenziate sulla

base della collocazione sociale individuale. In sintesi, la mia personale impressione è che in questo tema di ricerca entri in gioco in modo

rilevate l’identità sociale del soggetto, intesa quale prodotto del suo continuo processo di socializzazione. Con questo non voglio dire che l’identità sia in una condizione di passività nei confronti della morfologia del contesto. Penso invece che nel punto di intersezione tra caratteristiche identitarie, determinanti strutturali/contestuali e la forma sociale che lo straniero assume si trovi lo spazio di elezione per lo studio e la comprensione degli atteggiamenti e del pregiudizio etnico.

24 Anche la teoria di Allport parla di “pregiudizio funzionale” e si riferisce all’utilità per l’attore del processo di categorizzazione sociale per una economica e razionale comprensione degli eventi. Nel presente progetto di ricerca l’espressione “funzione” assume un significato differente.

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• Unità di rilevazione Intendo cercare le risposte a queste domande interrogando un’unità di rilevazione composta da

adolescenti italiani, sia nelle vesti di studenti quanto di lavoratori (o di non studenti). Considerato che l’atteggiamento verso lo straniero è un tema estremamente sensibile rispetto alle caratteristiche ideologico-culturali dell’individuo, credo che adolescenti studenti o non più in tale condizione esprimano differenti punti di vista sull’immigrazione. In secondo luogo, le poche indagini che ho reperito su questo tema vertono tutte in ambito scolastico, una scelta dettata prevalentemente dalle agevolazioni che la Scuola offre quando si vuole studiare gli adolescenti, nel senso che rappresenta un grande “contenitore” di giovani e quindi di informazioni relativamente facili da raccogliere. Tuttavia una volta concluso l’obbligo scolastico, una quota di adolescenti sceglie di non proseguire gli studi e iniziare a lavorare o intraprende percorsi formativi brevi e volti all’apprendimento di una professione specifica. Penso che quando si studiano gli adolescenti sia anche necessario tenere conto di questa fascia di soggetti25, non soltanto perché il minore o maggiore capitale culturale posseduto condiziona la percezione degli eventi, ma anche per i differenti stili di vita che si intraprendono e le diverse modalità di posizionarsi rispetto al flusso degli eventi.

• Ambito Il tipo di unità di rilevazione che intendo studiare, implica di operare una comparazione tra

contesti differenti: a) le scuole per la realtà degli adolescenti studenti, b) centri di formazione professionale e attori del mondo associativo, o più generici luoghi aggregativi, per quanto riguarda i giovani lavoratori o avviati verso questa condizione.

In secondo luogo, propongo di scegliere come ambito della ricerca due città: Torino e Genova26. Le ragioni di estendere la comparazione anche a livello spaziale, oltre che contestuale, sono le seguenti. In primo luogo penso che le diverse caratteristiche che l’immigrazione assume a livello urbano, possano influenzare le rappresentazioni e i relativi atteggiamenti della popolazione locale. Torino e Genova si pongono come realtà in cui l’immigrazione è connotata da vesti diverse, sia da un punto di vista della composizione demografica - a Torino prevalgono le provenienze est-europee e nord-africane, mentre Genova ospita la prima comunità sudamericana - quanto sul versante dei comportamenti sociali messi in atto dalla popolazione straniera – a Torino è importante l’associazionismo etnico con finalità religiose, in particolare per la componente cristiana e quella musulmana27, Genova invece si sta distinguendo per la nascita di forme associative dai contorni poco definiti, i cosiddetti Latinos; si tratta di espressioni giovanili simili alle bande metropolitane, anche se al momento non paiono particolarmente orientate verso attività devianti, che si “appropriano” degli interstizi urbani28.

• Scelta delle unità di rilevazione. Le modalità di scelta delle unità di rilevazione da studiare (adolescenti studenti e lavoratori, o

non più in condizione di studenti) dovranno essere dettate dalle caratteristiche contenute nella domanda cognitiva o ipotesi della ricerca. In primo luogo, se l’unità di rilevazione è l’individuo, in questo caso l’adolescente, nell’ambito di questo progetto egli si presenta in una duplice veste: studente e non studente. In secondo luogo, ho già anticipato che per gli studenti intendo rivolgermi alle scuole, mentre per coloro in condizione di non studente ad associazioni o più generici attori aggregativi. Per tale ragione penso che la scelta di tali luoghi possa seguire il criterio 25 Considerazione rilavata da parte di Carmen Leccardi e Augusto Palmonari (25/10/2007), in occasione della presentazione del volume “La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione dei valori tra i giovani” di F.Garelli, A.Palmonari, L.Sciolla. Incontro organizzato dal Dipartimento di Scienze Sociali e il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino. 26 Al momento non è possibile anticipare con esattezza quale sarà la forma e lo stile della comparazione che si intende adottare. Questo sarà possibile una volta definite le tecniche di raccolta utilizzate. 27 Per i musulmani però non si tratta di un associazionismo religioso dalle funzioni estese come invece per il gruppo di confessione cristiana, quanto piuttosto di ritrovi espressamente dedicati a funzioni di culto. 28 Vedi: Palmas L. Q., Torre T. A., (2005), Il fantasma della bande, Genova, Fratelli Frilli Editore.

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“presenza/assenza” della popolazione straniera o, per essere più verosimile, “bassa/alta” presenza29. L’impressione è che tale criterio rappresenti una variabile significativa da un punto di vista esplicativo per l’insieme delle dimensioni contenute nelle preliminari domande della ricerca.

a) Relativamente alle scuole penso che la loro selezione possa essere fatta mediante un campionamento non probabilistico a scelta ragionata da compiersi con un procedimento multi-stadi. Esso consente di prendere in considerazione alcune caratteristiche dell’universo30, che nel nostro caso è il criterio della maggiore o minore presenza straniera e, rispetto ai campionamenti probabilistici, offre “maggiori garanzie di rappresentatività non già dei casi ma delle variabili”31 sulle quali si intende orientare la ricerca. Per fare un esempio: in un primo stadio si possono scegliere un numero n di quartieri nelle città di Torino e Genova diversi per consistenza della componente immigrata; nel secondo, per ogni quartiere selezionato si individuano n scuole di diverso orientamento formativo (licei e istituti tecnico-professionali); nel terzo stadio, all’interno di ciascun istituto prescelto si selezionano n classi fra le diverse sezioni presenti. Per la scelta delle classi sarà importante affidarsi alle indicazioni dei dirigenti scolastici o degli insegnanti referenti per l’intercultura.

b) Per quanto riguarda le rimanenti realtà istituzionali (i centri di formazione professionale) penso sia ancora possibile seguire il criterio adottato per le scuole.

c) Più difficile credo che sia il campionamento degli attori composti da giovani non più in condizione di studenti. Per la scelta delle associazioni, o di più generici luoghi aggregativi, è forse più opportuno rimettersi alle indicazioni di alcuni testimoni qualificati che possono essere: a) per Torino l’Assessorato per le politiche per l’integrazione del Comune o l’Osservatorio interistituzionale sugli stranieri della Prefettura; per Genova anche nel suo caso l’Assessorato con delega alle politiche per l’immigrazione del Comune o il Centro Studi Medì - Migrazioni nel Mediterraneo32. Procedendo in questo modo è inevitabile che si producano distorsioni ma essendo un universo le cui caratteristiche sono difficili da conoscere, ritengo che questi svantaggi vengano compensati da criteri di scelta che sono perlomeno congrui con gli obiettivi e le domande della ricerca.

• Tecniche di analisi Una volta individuate le unità di rilevazione è necessario trasformarle in unità di analisi33. Al

momento non sono ancora in condizione di definire quale sarà la tecnica o le tecniche impiegate, ovvero se prediligere un approccio qualitativo o quantitativo. Credo comunque che, a prescindere dal criterio che si intende adottare, un punto di partenza comune possa rappresentato da un primo contatto con testimoni qualificati individuati nelle scuole (dirigenti scolastici o insegnanti referenti per l’intercultura) nei centri di formazione professionale (docenti/formatori) e nei più generici luoghi associativi/aggregativi (coordinatori/responsabili dell’associazione o anche educatori professionali referenti di un particolare progetto educativo). Penso che questo primo contatto debba assumere le vesti di un momento di approfondimento qualitativo da effettuarsi mediante intervista discorsiva. Quest’ultima dovrà essere concepita nella sua declinazione guidata, per indirizzare il focus del discorso sulle salienze della ricerca, e far emergere come è percepito l’atteggiamento dei giovani verso i pari stranieri (nel caso in cui ce ne siano) e nei confronti del più generale fenomeno migratorio. Questo primo passaggio avrebbe una funzione di studio-pilota, specificare e articolare meglio la domanda cognitiva o l’ipotesi e, soprattutto, contribuire alla costruzione della tecnica con cui si procederà per lo studio dell’oggetto (gli atteggiamenti degli adolescenti).

29 Oggi è difficile che vi siano scuole, centri di formazione o associazioni completamente privi di cittadini stranieri. Vi sono semmai realtà caratterizzate da “alta presenza” e altre da “bassa presenza”. 30 Bruschi A., (1999), Metodologia delle scienze sociali, Milano, Mondadori, pg. 385 31 Cardano M., (2002), Tecniche di ricerca qualitativa, Torino, Libreria Stampatori, ppg.88-89. 32 Vedi: http://www.csmedi.it/ 33 Per la distinzione tra “unità di rilevazione” e “unità di analisi” vedi: Marradi A., (1987), Concetti e metodo per la ricerca sociale, Firenze, Giuntina, ppg. 20-21

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1) Nel caso di proseguire con un approccio qualitativo penso sia possa procedere nel seguente modo. a) Iniziare conducendo dei focus group impostati sulla base delle informazioni emerse intervistando i testimoni qualificati. Tale tecnica “consente di cogliere le ragioni addotte a sostegno delle credenze, degli atteggiamenti, dei valori di ognuno”34 ed è inoltre possibile “osservare i processi di costruzione del consenso all’interno di un gruppo”35. Sarà importante instaurare una buona collaborazione con i testimoni qualificati (insegnanti, responsabili/coordinatori di associazioni) al fine di organizzare i gruppi mediante le loro indicazioni (nomination). Sono anche consapevole dei limiti che l’impiego di tale tecnica può rivelare in un contesto scolastico e/o associativo in cui è difficile costruire i gruppi in modo omogeneo e con individui tra loro estranei. Tuttavia se la collaborazione con i testimoni qualificati sarà buona, non escludo che grazie alla loro intermediazione i requisiti dell’eterogeneità e dell’omogeneità raggiungano un livello sufficiente, ovvero che non pregiudichino la possibilità di fornire contributi nel senso della domanda della ricerca. Inoltre, considerata la giovane età dei potenziali partecipanti credo che la dimensione di gruppo possa favorire una vivace discussione che, a seconda della sua maggiore o minore omogeneità ideologica-culturale, potrà risultare più o meno polarizzata. b) La documentazione empirica raccolta mediante i focus group potrà poi essere utilizzata per mettere a punto la traccia di interviste discorsive da rivolgere ai giovani. Si tratta anche in questo caso di interviste guidate volte a far emergere le rappresentazioni che gli interpellati hanno dello straniero. In sintesi, con l’impiego del focus group emerge come l’oggetto dell’indagine si connette alla dimensione di gruppo, mentre con l’intervista discorsiva emergono maggiormente le rappresentazioni personali. Mi rendo conto che con questo approccio non sarà possibile ottenere tutte le risposte alle domande che ho posto all’inizio, ad esempio prendere in considerazione come le variabili di ordine socio-demografico e contestuale possono influenzare gli atteggiamenti.

2) Nel caso di proseguire con una tecnica quantitativa penso si possa impiegare un questionario.

La sua costruzione potrà basarsi sulle seguenti fonti: a) la letteratura sociologica relativa alla rappresentazione sociale dello straniero e i recenti contributi sociologici allo studio delle relazioni intergruppo, b) i risultati a cui sono giunte le due esperienze di ricerca condotte nel Lazio e citate nel quadro teorico36, c) le informazioni emerse dai testimoni qualificati inizialmente intervistati. In questo caso le precedenti interviste discorsive assumono la funzione di articolare ulteriormente le ipotesi di lavoro, che saranno soggette a controllo, e di costruire il questionario da somministrare. Comunque va ricordato che al momento mi sono limitato a formulare una serie di domande cognitive in veste molto preliminare; tuttavia ritengo possibile che attraverso le interviste ai testimoni qualificati e l’approfondimento della letteratura sull’argomento sia possibile una loro riformulazione in veste di ipotesi. Considerata la complessità dell’oggetto di studio (atteggiamento verso lo straniero e l’immigrazione) penso sia necessario scomporlo in un congruo numero di dimensioni da tradurre poi in successivi indicatori, ad esempio: la percezione, la minaccia, la reciprocità, il capitale sociale, il capitale culturale, la sicurezza, il processo di esplorazione di sé, il contatto, le relazioni con i gruppi di appartenenza, il contesto di azione e gli aspetti socio-demografici. Inoltre, ritengo opportuno che la prima discesa sul campo avvenga solamente come “forma di collaudo”37 (pre-test) al fine di apportare gli accorgimenti e le modifiche necessarie prima del suo impiego definitivo. Credo che il questionario possa anche contenere alcune (poche) domande aperte, su items particolarmente rappresentativi del tema in oggetto, al fine di fornire un contributo qualitativo minimo alle informazioni sulle dimensioni e le relative variabili che si intendono studiare.

Complessivamente si tratta di una strategia di rilevazione con finalità molto diverse rispetto a quella presentata al punto precedente. Innanzitutto ci si concentra sulle variabili che caratterizzano

34 Cardano M., (2002), Tecniche di ricerca qualitativa, Torino, Libreria Stampatori, pg.163 35 Ibidem. 36 Vedi nota 22 37 Corbetta P., La ricerca sociale: metodologia e tecniche. II Le tecniche quantitative, Bologna Il Mulino, pg.186

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l’oggetto anziché scendere nel profondo dei casi. In secondo luogo, è possibile rilevare gli atteggiamenti, le opinioni, i fatti accaduti e le autodescrizioni della personalità. È possibile inoltre rendere evidente il peso delle variabili socio-demografiche nel condizionare la percezione degli eventi, rilevare il modello di valori di riferimento e costruire tipologie sulla base dei nessi tra queste aree tematiche. Dall’altro lato il limite principale è costituito dalla relativa impossibilità a scendere nel profondo delle rappresentazioni sociali, elemento che nell’ambito di questa ricerca riveste una certa importanza.

Per quanto abbia inizialmente dichiarato di non essere ancora giunto a definire quale approccio prediligere e quale tecnica impiegare, riconosco che sulla base di come sono state formulate le preliminari domande cognitive e la rispettiva articolazione in variabili dipendenti e indipendenti, sarebbe più idoneo rivolgersi ad un approccio quantitativo. Tale scelta implicherebbe però una migliore formulazione delle domande in veste di ipotesi e sub-ipotesi al fine di rendere più operative le varie dimensioni che contiene. Inoltre, non intenderei cristallizzarmi su una rigida scelta (quantitativa o qualitativa) perché anche nel caso in cui si opti per lo studio delle variabili sarà comunque necessario farlo precedere da un momento qualitativo finalizzato alla migliore costruzione e conduzione dello strumento.

3) Una terza via potrebbe contemplare un maggiore bilanciamento nell’uso di tecniche qualitative e quantitative. Dopo il contatto con i testimoni privilegiati si costruisce e si somministra un questionario e con i risultati ottenuti si interrogano direttamente gli adolescenti, ad esempio tramite interviste discorsive. Questo sistema è inquadrabile in un’ottica multi-tecnica o “triangolazione”38. Si otterrebbe un quadro estremamente ricco e approfondito perché i dati emersi dai questionari, prevalentemente percezioni e le influenze su queste ultime delle variabili socio-demografiche, potrebbero fornire utili spunti per interrogare i giovani e, in particolare, verrebbero così integrati dalle rappresentazioni dello straniero emerse durante i colloqui. Naturalmente un tale disegno richiede molto tempo e risorse che, nell’ambito del presente progetto di ricerca, ritengo di non facile realizzazione.

38 Cardano M., (2002), Tecniche di ricerca qualitativa, Torino, Libreria Stampatori, pg. 85.

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Estensione teorica Nel condurre questa ricerca il mio personale auspicio è in primo luogo di contribuire a

migliorare la conoscenza di un fenomeno sia per la sua rilevanza sociale e politica quanto a livello di teoria sociologica. Innanzitutto è ormai chiaro che la società italiana è destinata ad intraprendere un processo di cambiamento sociale simile a quello che sta caratterizzando altri paesi europei a più lunga esperienza migratoria e, in secondo luogo, che tra le generazioni più giovani si registrano evidenti atteggiamenti di chiusura e intolleranza verso la diversità etnica. È quindi importante che si potenzino ulteriormente le azioni volte a modificare questi atteggiamenti negativi in positivi. Di conseguenza credo che nel condurre la ricerca e, in particolare, nella fase di analisi dei dati sia importante tenere a mente che si sta lavorando su un materiale molto sensibile per i possibili contributi a livello di elaborazione di strategie educative volte a prevenire forme di discriminazione che possono anche portare a esiti conflittuali, e a superare la stereotipizzazione negativa dello straniero.

Da un punto di vista della teoria sociologica penso che il principale apporto sia di ampliare maggiormente un tema di osservazione che, al momento, non è ancora particolarmente coltivato: i giovani e l’immigrazione. La scelta di studiare tale oggetto con un approccio sociologico andrà nella direzione di evidenziare i limiti dell’approccio psicologico allo studio degli atteggiamenti e del pregiudizio etnico. L’impressione è che, rispetto alle (incontrollabili) dinamiche del profondo, a prevalere siano innanzitutto le capacità cognitive-comprensive dell’attore in quanto prodotto della sua complessiva collocazione sociale. Da tale collocazione derivano le risorse impiegate per razionalizzare le percezioni, gli atteggiamenti e le scelte di azione, ridurre i conflitti con il gruppo di appartenenza o invece superare la sua dimensione e porsi al di fuori di esso. Credo inoltre che l’origine degli atteggiamenti e dei pregiudizi sia da ricercare anche nella funzione che essi svolgono per l’attore, intesa come strumento per mantenere viva e perpetuare la sua collocazione sociale. Per tale ragione penso che i meccanismi causali che sottostanno all’atteggiamento e al pregiudizio siano differenziati rispetto all’origine sociale dell’individuo. Infine attribuisco molta importanza al contatto quale possibile strada per sviluppare atteggiamenti positivi (“Contact Hypothesis”) e agli interventi strutturali che lo possono agevolare, all’interno dei quali annovero anche la costruzione intenzionale (istituzionale) della forma sociale dello straniero. Quello che non sarà dato conoscere è la durata nel tempo delle percezioni e degli atteggiamenti emersi, e se costituiranno la base per effettivi comportamenti. Sono consapevole che l’adolescenza è per definizione una cruciale fase di passaggio verso l’”acquisizione dell’identità”39, in cui si investe molto nell’esplorazione di sé, e quindi numerosi atteggiamenti, pensieri e stili di vita adottati in questo momento saranno modificati negli anni seguenti. Non sarà quindi possibile sostenere che chi dimostra un atteggiamento di chiusura, ostile e magari xenofobo verso lo straniero sia destinato ad esprimere comportamenti discriminatori e razzisti anche nell’età adulta. Tuttavia non è questo l’obiettivo che mi pongo. Mi attendo invece che la fotografia che emergerà, pur avendo una validità spaziale e temporale definita, possa contribuire ad arricchire gli strumenti sociologici utilizzati, quali l’identità, la socializzazione, il conflitto e il rapporto micro (l’interazione di gruppo) e macro (le scelte istituzionali volte ad intervenire sul contesto). Inoltre uno sforzo particolare sarà dedicato all’arricchimento delle classiche categorie concettuali utilizzate nei racial studies, come il razzismo, la xenofobia, il pregiudizio e lo stereotipo. Secondo le recenti teorie sull’argomento, in particolare provenienti dalla scuola francese, oggi la categoria razzismo sarebbe più onnicomprensiva di un tempo, includendo una casistica di elementi molto estesa come ad esempio semplici credenze40. Per quanto tali studi rappresentino utili contributi teorici, sono convinto che sia necessario articolare più a fondo la questione circa l’utilizzo di tali categorie. Come hanno sostenuto Balbo e Manconi a inizio degli anni novanta, operando un processo di categorizzazione o etichettamento di tipo razzista di ogni

39 Garelli F., Palmonari A., Sciolla L., (2006), La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione dei valori tra i giovani, Bologna, Il Mulino, pg 244. 40 Vedi nel “Quadro teorico” i riferimenti dedicati alla Scuola francese e in particolare all’analisi del discorso di Teun van Dijk.

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comportamento o atteggiamento ostile verso l’ ”altro”, si corre il rischio di innescare processi di identificazione in tal senso anche quando la loro natura è differente41. Credo che uno dei contributi che questa ricerca potrà fornire sia proprio relativo a migliorare la denotazione, la connotazione e il relativo utilizzo delle suddette categorie. Credo che un tratto distintivo del razzismo debba essere ricercato negli effetti dei concreti comportamenti, perché altrimenti si corre il rischio di utilizzarlo come sinonimo di pregiudizio etnico, xenofobia, stereotipo negativo, ecc. Considerato che tra i pensieri, gli atteggiamenti e i comportamenti il legame di consequenzialità non è diretto, forse vale la pena ridefinire i contenuti di queste categorie concettuali, tenerle distinte ed applicarle a fatti precisi.

Per riassumere, penso che attraverso l’analisi della documentazione empirica i feedback a livello di Teoria possano andare nelle seguenti direzioni: a) consolidamento dell’approccio sociologico allo studio del pregiudizio e messa in luce dei limiti dell’approccio psicologico, b) contributi a livello educativo-pedagogico, c) utilità della “Contact Hypothesis”, d) arricchimento delle categorie concettuali abitualmente impiegate. 41 Balbo L. e Manconi A. in Ambrosini M., (2005), “Sociologia delle migrazioni”, Bologna, Il Mulino, pg. 261.

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