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INTRODUZIONE: IL DIBATTITO SU DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE, FRA SCELTE DI POLITICA CRIMINALE, DOTTRINA E DOGMANTICA PENALE Il dibattito relativo all’individuazione del discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente si inserisce in un contesto che, lungi dall’essere limitato a questioni di carattere meramente teorico, assume una evidente rilevanza pratica ed applicativa. Non a caso, è stato definito come la questione “più difficile e […] più discussa del diritto penale” 1 . Più precisamente, trattandosi di categorie di confine, occorre studiare l’essenza dell’uno e dell’altro elemento soggettivo al fine di stabilire a quale titolo debba effettivamente essere imputato il reato nell’ambito delle fattispecie punibili a titolo di colpa (con ovvie conseguenze sul piano della determinazione della pena), nonché di individuare la soglia della punibilità, qualora si tratti di reati non punibili a titolo di colpa; tenuto conto, poi, del fatto che il codice penale italiano non contiene un univoco fondamento normativo del dolo eventuale, si evince chiaramente come l’assetto attuale si presti a pratiche che possano avere ripercussioni ed effetti in termini di politica criminale. In particolare si è evidenziata la tendenza giurisprudenziale consistente nel “plasmare” le categorie dogmatiche del diritto penale al fine di rispondere alle nuove esigenze di tutela: meccanismo, questo, attraverso il quale si è giunti a tollerare una erosione di garanzie, sia sul piano sostanziale che su quello processuale 2 . In quest’ottica, non si può non notare quella che è stata definita come “esplosione del dolo eventuale” nella storia giudiziaria dell’ultimo ventennio, in particolare (ma non solo) con riferimento ai reati contro la vita, e nonostante il quasi eccessivo numero di istituti astrattamente applicabili alle 1 Così riporta S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano, Giuffrè, 1999, 2, citando WELZEL, Das deutsche Strafrecht. Eine systematische Darstellung, XI ed., Berlin, 1969, 69. 2 L. EUSEBI, Appunti sul confine fra dolo e colpa nella teoria del reato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 3, 1100. 1

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INTRODUZIONE: IL DIBATTITO SU DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE, FRA SCELTE DI POLITICA CRIMINALE, DOTTRINA

E DOGMANTICA PENALE

Il dibattito relativo all’individuazione del discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente si inserisce in un contesto che, lungi dall’essere limitato a questioni di carattere meramente teorico, assume una evidente rilevanza pratica ed applicativa. Non a caso, è stato definito come la questione “più difficile e […] più discussa del diritto penale”1. Più precisamente, trattandosi di categorie di confine, occorre studiare l’essenza dell’uno e dell’altro elemento soggettivo al fine di stabilire a quale titolo debba effettivamente essere imputato il reato nell’ambito delle fattispecie punibili a titolo di colpa (con ovvie conseguenze sul piano della determinazione della pena), nonché di individuare la soglia della punibilità, qualora si tratti di reati non punibili a titolo di colpa; tenuto conto, poi, del fatto che il codice penale italiano non contiene un univoco fondamento normativo del dolo eventuale, si evince chiaramente come l’assetto attuale si presti a pratiche che possano avere ripercussioni ed effetti in termini di politica criminale. In particolare si è evidenziata la tendenza giurisprudenziale consistente nel “plasmare” le categorie dogmatiche del diritto penale al fine di rispondere alle nuove esigenze di tutela: meccanismo, questo, attraverso il quale si è giunti a tollerare una erosione di garanzie, sia sul piano sostanziale che su quello processuale2. In quest’ottica, non si può non notare quella che è stata definita come “esplosione del dolo eventuale” nella storia giudiziaria dell’ultimo ventennio, in particolare (ma non solo) con riferimento ai reati contro la vita, e nonostante il quasi eccessivo numero di istituti astrattamente applicabili alle ipotesi di causazione dell’evento “morte”3: le ragioni di tale fenomeno sono individuabili non solo in esigenze di politica criminale, bensì anche in fondamenti di carattere teorico, in quanto non mancano impostazioni le quali considerano il dolo eventuale come caratterizzato essenzialmente dal “minimo comune denominatore” del dolo4.

Concentrandosi, comunque, sul primo ordine di ragioni citato (cioè quello ricollegabile ad esigenze di politica criminale), si evidenzia una certa tendenza

1 Così riporta S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano, Giuffrè, 1999, 2, citando WELZEL, Das deutsche Strafrecht. Eine systematische Darstellung, XI ed., Berlin, 1969, 69.

2 L. EUSEBI, Appunti sul confine fra dolo e colpa nella teoria del reato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 3, 1100.

3 M. DONINI, Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione. Le Sezioni Unite riscoprono l’elemento psicologico, in Cass. pen., 2010, 7/8, 2580. Si evidenzia quasi l’”imbarazzo della scelta” fra gli istituti penali astrattamente applicabili alle ipotesi in cui vi sia realizzazione dell’evento “morte”: “colpa, colpa aggravata dalla previsione dell’evento, o aggravata da violazioni di norme cautelari qualificate […]; morte come conseguenza di altro delitto doloso diverso da percosse o lesioni; percosse o lesioni con morte preterintenzionale, dolo eventuale, dolo diretto, dolo intenzionale. E poi tutti i vari specifici delitti aggravati dall’evento[…]” Si veda anche E. DI SALVO, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Cass. pen. 2003, 6, 1932 – 1933, ove si afferma la maggior adeguatezza, ai fini dell’inquadramento della realizzazione di fattispecie caratterizzate dalla divergenza fra voluto e cagionato, di istituti che esulano dalla sfera del dolo, quali preterintenzione, colpa, aberratio, delitti aggravati dall’evento.

4 Cit. M. DONINI, op. loc. cit.

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a considerare la scarsa efficacia generalpreventiva delle fattispecie penali colpose, nonché degli illeciti extrapenali5; sulla base di questo contesto, si è notato come la formula dell’ “accettazione del rischio” sia divenuta, in giurisprudenza, quasi una “clausola di stile” che identifica, a ben vedere, non l’essenza del dolo, bensì – quasi paradossalmente – la colpa con previsione6; o, se non altro, una mera “formula retorica”, in quanto non consente un effettivo accertamento dal punto di vista processuale7. Altri aspetti della prassi i quali assumono rilevanza in questo contesto sono dati dalle ipotesi nelle quali venga identificato (quasi automaticamente) il dolo eventuale allorquando una determinata fattispecie penalmente rilevante sia stata realizzata come conseguenza accessoria nell’ambito di un contesto illecito di base (versari in re illicita), mentre venga inquadrata la sfera della colpa cosciente nel caso in cui il contesto di base fosse, di per sé, lecito8: il che lascia, peraltro, trasparire l’effettuazione di valutazioni basate sul “tipo d’autore”, le quali non dovrebbero essere ammesse nell’ambito di un diritto penale costituzionalmente orientato.

È stato inoltre osservato che le origini storiche del dolo eventuale affondino, sostanzialmente, proprio in ambiti caratterizzati dal versari in re illicita, attraverso la configurazione di una sorta di forma di responsabilità oggettiva per la causazione di eventi nel quadro di un’attività di base illecita; successivamente, e progressivamente, si sarebbe passati alla concezione del dolo eventuale come forma di responsabilità per l’evento oggettivamente probabile: il che ha contribuito a focalizzare tale forma quantomeno su un minimo coefficiente di colpevolezza, ma non ha impedito utilizzi del dolo eventuale per esigenze connesse non già all’imputazione soggettiva del reato, bensì a ragioni di carattere repressivo o di politica giudiziaria9. A fronte di tali tendenze, la dottrina rimarca la necessità di salvaguardare i paradigmi dogmatici propri di un diritto penale che dovrebbe essere imperniato sui principi di colpevolezza, personalità della responsabilità penale, materialità, idoneità offensiva, inammissibilità di forme di responsabilità oggettiva: il che non significa rinunciare alla prospettiva di determinare soluzioni che si adattino al mutamento del contesto storico – sociale (caratterizzato, per l’argomento che qui interessa, da un proliferare di fattori di rischio i quali implicano la necessità di nuove forme di prevenzione e controllo di tali fattori) ed alle esigenze della società, bensì mirare alla determinazione di soluzioni in modo razionale, senza che la complessità dei problemi ai quali occorre far fronte possa condurre a cedere alla tentazione del ricorso ad un totale mutamento dei modelli teorici e dogmatici10. Il principio di colpevolezza, in particolare, non dovrebbe essere

5 M. DONINI, op. cit., 2581. 6 L. EUSEBI, Appunti, 1088. In questo senso, tra gli altri, anche G. FORTE, Dolo

eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 2, 823, nota (8), ove si sostiene che la categoria del dolo eventuale inquadri, in effetti, un “doppione mascherato” di colpa con previsione.

7 F. CURI, Tertium datur. Dal common law al civil law per una scomposizione tripartita dell’elemento soggettivo del reato, Milano, Giuffrè, 2003, 10.

8 P. VENEZIANI, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Studium iuris 2001, 70 ss. ID., Motivi e colpevolezza, Torino, Giappichelli, 2000, 122 ss. F. CURI., op. cit., 11.

9 G. FORTE, op. cit., 822, nota (7) 10 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, dolo di pericolo, colpa cosciente e colpa grave

alla luce dei diversi modelli di incriminazione, in Cass. pen., 2009, 12, 5013 – 5015.

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considerato un apparato meramente discorsivo, giacché costituisce uno dei pilastri sui quali si fonda la funzione di garanzia del diritto penale, ed in assenza del rispetto del quale risulterebbero pregiudicate anche le funzioni preventiva generale (la quale presuppone che siano previste come penalmente rilevanti fattispecie sulle quali i soggetti possano esercitare potere di controllo) e preventiva speciale (la quale presuppone che al soggetto possa essere mosso un rimprovero per il fatto per cui si applica la pena; rimprovero, questo, che deve esulare da valutazioni di carattere meramente morale o attinenti alla personalità del soggetto stesso) 11.

La sfera di soluzioni proposte nel panorama che si è appena inquadrato è piuttosto ampia. Anzitutto, è stata evidenziata l’esigenza di abbandono di un’impostazione del diritto penale che tende all’intervento “a danno arrecato”, nonché imperniato sulla “minaccia” della pena detentiva, a favore di un modello maggiormente orientato alla prevenzione ed al controllo effettivamente efficiente delle condotte potenzialmente pericolose12.

D’altra parte, è possibile richiamare i vari e più o meno recenti progetti di riforma del codice penale, i quali sono improntati verso una più precisa definizione del dolo, che a sua volta mirerebbe a costituire l’espresso riconoscimento o fondamento normativo del dolo eventuale; nonché, d’altra parte, l’auspicata definizione di un tertium genus di elemento soggettivo incentrato sulla “responsabilità da assunzione di rischio”, la quale dovrebbe conferire una maggiore aderenza fra assetto dogmatico – teorico e ambito applicativo concreto e, in aggiunta, valorizzare la funzione di sussidiarietà del diritto penale, concretando il dolo come forma principale di colpevolezza, delineando una figura intermedia ed autonoma di responsabilità da rischio e configurando, giocoforza, una significativa limitazione dei margini di applicazione della colpa incosciente13. Tuttavia, vi è anche chi ha sostenuto che l’introduzione di un tertium genus non agevolerebbe la soluzione dei problemi di cui trattasi, in quanto comporterebbe – contrariamente rispetto a quel che, invece, si persegue – una complicazione delle difficoltà di individuazione dei confini fra dolo e colpa14. Sono state avanzate osservazioni negative anche con riguardo all’alternativa consistente nella definizione legale del dolo eventuale, poiché – si sostiene – non si potrebbe delegare al legislatore tale scelta di stampo politico – criminale15.

Ovviamente il dibattito teorico è aperto e, fermo restando le questioni concernenti le teorie “classiche”, parte della dottrina ha effettivamente tentato di delineare la distinzione fra dolo eventuale e colpa con previsione in modo più preciso, attraverso l’individuazione di un rischio peculiare doloso, nonché tramite l’identificazione di nuovi parametri i quali dovrebbero soddisfare le

11 G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale., V ed., Bologna, Zanichelli, 2007, 318 ss.

12 L. EUSEBI, op. ult. cit, 1100 – 1101.13 F. CURI, op. cit., 3-5 (nell’ambito dell’intera monografia ricorrono molti altri passi in cui

si auspica tale prospettiva).14 S. CANESTRARI, La definizione legale del dolo: il problema del dolus eventualis, in Riv.

it. dir. e proc. pen., 2001, 3, 938 ss. 15 S. CANESTRARI, op. ult. cit. 906, ove si riprende G. MARINUCCI, Politica criminale e

codificazione del principio di colpevolezza, in AA. VV., Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1994, 144.

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esigenze suscitate dal contesto attuale, in cui il proliferare di fattori di rischio che si sviluppano in contesti di base consentiti (non illeciti, e talvolta addirittura disciplinati dall’ordinamento giuridico) rende obsolete le impostazioni teoriche classiche circa il confine fra la forma più tenue del dolo e quella più grave della colpa16. La giurisprudenza, peraltro – salvo una recente pronuncia dei giudici di legittimità, la quale configura l’elemento dell’accettazione del rischio come comune a dolo eventuale e colpa cosciente, individuando invece la distinzione fra le due forme di elemento soggettivo nelle modalità psicologiche attraverso le quali si concretizza l’accettazione del rischio17; impostazione, questa, che era già stata delineata in dottrina18 -, nell’ultimo ventennio è rimasta ancorata principalmente alla teoria dell’accettazione del rischio. Il panorama qui descritto sinteticamente non si esaurisce in questi termini, dato che se si vanno ad enumerare nello specifico le varie teorie inerenti alla distinzione fra dolo eventuale e colpa con previsione, si giunge sicuramente ad un numero a doppia cifra.

Lo scopo della presente tesi è, appunto, quello di analizzare – premesse le generalità teoriche sull’elemento soggettivo del reato – i dettagli delle varie teorie sul discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente, nonché studiarne gli aspetti positivi, i limiti e le applicazioni giurisprudenziali. Il tutto senza tralasciare considerazioni concernenti i progetti di riforma, nonché la già accennata ipotesi di introduzione di un tertium genus di elemento soggettivo, elaborato attraverso la valutazione di istituti analoghi rilevabili negli ordinamenti inglese, francese e spagnolo.

CAPITOLO I

16 S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, 152 – 170 (ma l’intera opera è principalmente orientata nella prospettiva di critica alle teorie tradizionali e di delineazione di nuovi parametri che possano soddisfare il contesto attuale).

17 Cass. Pen., Sez. I, 1 febbraio 2011 (deposito 15 marzo 2011), n. 10411, in www.penalecontemporaneo.it

18 S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano, Giuffrè, 1993, 32 – 46.

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GENERALITÀ SULL’ELEMENTO SOGGETTIVO

SOMMARIO: 1. Definizione normativa, struttura e oggetto del dolo: questioni generali. – 2. Teoria della rappresentazione e teoria della volontà: contenuti essenziali. – 3. Definizione normativa e struttura della colpa: questioni generali. – 4. Elementi comuni a dolo e colpa: la violazione di regole precauzionali di condotta e il superamento del rischio consentito. – 5. La colpa cosciente e il trattamento aggravato ai sensi dell’art 61, n. 3., c.p. – 6. Il dibattito nei lavori preparatori al codice penale sul criterio di imputazione per la realizzazione di eventi non intenzionali.

1. Definizione normativa, struttura e oggetto del dolo: questioni generali

L’art. 43, comma 1, alinea 1, c.p. fornisce una nozione di “delitto doloso” (“Il delitto: è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”) che, se da un lato afferma, come presupposti strutturali del dolo, previsione e volontà, dall’altro non soddisfa pienamente il lettore il quale, in base ad essa soltanto, tenti di individuare in modo specifico ed univoco elementi dai quali poter trarre conclusioni circa i confini del dolo, l’oggetto del dolo e l’effettiva essenza di esso19. Nondimeno, non si può mancare di osservare il fatto che la definizione in questione non costituisca, di per sé, un solido fondamento normativo per quanto attiene al dolo eventuale.

Anzitutto, la norma di cui trattasi prospetta, quale oggetto di previsione e volontà, l’evento dannoso o pericoloso. Occorre, quindi, stabilire cosa effettivamente debba intendersi mediante tale espressione onde identificare, di conseguenza, l’oggetto del dolo: in particolare, l’alternativa parrebbe essere fra l’identificare come oggetto del dolo l’evento in senso naturalistico – cioè l’effetto consistente in una modificazione del mondo esterno provocata dalla condotta del soggetto agente ed in rapporto eziologico con essa – o l’evento in senso giuridico – ossia la lesione dell’interesse tutelato dalla norma penale20. Qualora si volesse accogliere la prima impostazione – cioè considerare come oggetto del dolo l’evento in senso naturalistico –, tuttavia, si giungerebbe a limitare la portata della definizione di “delitto doloso” ai soli delitti di evento; d’altra parte, l’ordinamento penale configura certamente ipotesi di dolo non limitate ai soli reati di evento, bensì estesa ai reati di mera condotta, nonché a reati di pericolo, e l’“evento” di cui all’art. 43 comma 1. c.p. è considerato da autorevole dottrina21 come componente la quale non possa mancare in alcuna fattispecie di reato: ragioni – queste – per le quali il concetto di “evento” inteso dall’art. 43 c.p. dovrebbe essere interpretato come significante l’evento in senso giuridico22. Tuttavia, l’impostazione che meglio consente di ricostruire l’oggetto del dolo tenendo conto, al contempo, di reati di mera condotta e reati di evento è quella in base alla quale l’oggetto del dolo si estenderebbe a tutti gli elementi del fatto

19 M. GALLO, voce Dolo (dir. pen.), in Enc. dir., Vol. XIII, Milano, Giuffrè, 1964, 750 ss.20 M. GALLO, op. loc. cit. 21 M. GALLO, op. loc. cit.22 M. GALLO, op. loc. cit.

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tipico23: giungendo, pertanto, a riguardare tutti gli elementi essenziali della fattispecie penale24, compresi quindi condotta, evento naturalistico (in caso di reato di evento), nesso causale fra condotta ed evento naturalistico (in caso di reato di evento)25 nonché, in linea generale, i presupposti della condotta, intendendosi in quest’ultimo caso tutti gli elementi del fatto diversi dalla condotta materiale e dall’evento naturalistico26; sempre nell’ottica dell’inquadramento dei presupposti della condotta – intesi nell’ampia accezione che è appena stata indicata –, potrà ben trattarsi anche di elementi concomitanti alla condotta stessa: significa che il criterio da utilizzare al fine dell’identificazione di essi non è di carattere meramente cronologico, bensì di carattere logico27; dovrà, in particolare, trattarsi di elementi, antecedenti o concomitanti alla condotta, i quali concorrano a descrivere e delineare il fatto tipico, a prescindere dal caso che si tratti di connotazioni di tipo meramente descrittivo o di tipo normativo28.

Alcune precisazioni, del resto, possono rendersi necessarie se si considera, quale oggetto del dolo, nello specifico il nesso causale: si tratta di stabilire se, ai fini della sussistenza del dolo, sia necessario o meno che l’elemento soggettivo in questione riguardi tutti i particolari e specifici aspetti che caratterizzano il decorso causale effettivamente realizzato; in ordine a questo aspetto appare condivisibile l’ipostazione dottrinale29 per la quale è sufficiente che il dolo riguardi gli elementi essenziali del decorso causale, a meno che non si tratti di elementi espressamente tipizzati e predeterminati dal legislatore: in quest’ultimo caso, l’elemento soggettivo dovrà necessariamente ricadere anche su di essi.

È possibile concludere l’analisi inerente l’oggetto del dolo facendo riferimento all’art. 47 c.p., ai sensi del quale “l’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente” a titolo di dolo (la norma prosegue specificando che, “se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”). Invero, è stato rilevato in dottrina30 che gli artt. 43 e 47 c.p. dovrebbero essere considerati in modo coordinato e complementare ai fini dell’inquadramento dell’oggetto del dolo: l’art 47 c.p. in particolare, definendo l’errore (al quale è equiparata, a fortiori, l’ignoranza) sul fatto quale componente di esclusione del dolo, attiene al momento rappresentativo e, giocoforza, identifica il dolo come esatta rappresentazione del fatto; l’art 43, d’altra parte, è focalizzato sull’elemento volitivo, completando la descrizione del dolo come rappresentazione e volontà dell’intero fatto tipico. Occorre altresì considerare, sulla stessa linea, l’art. 59 comma 1 c.p., il quale postula l’esclusione del dolo in caso di erronea supposta esistenza di cause di esclusione della pena, fermo restando che non è esclusa

23 G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, V ed., Bologna, Zanichelli, 2007, 355.

24 S. PROSDOCIMI, op. cit., 53.25 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 356.26 S. PROSDOCIMI, op. cit., 49, 50.27 S. PROSDOCIMI, op. loc. cit.28 S. PROSDOCIMI, op. loc. cit.29 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 356.30 S. PROSDOCIMI, op. cit., 54.

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l’imputazione a titolo di colpa se il fatto è previsto come reato colposo31. In sintesi, il coordinamento fra l’art. 43 comma 1 da un lato, e gli artt. 47 e 59 comma 1 dall’altro, contribuisce a fondare ulteriormente la tesi per cui l’oggetto del dolo sia il fatto tipico nella sua interezza. È bene, tuttavia, rilevare che comunque il dibattito dottrinale sull’oggetto del dolo non si è esaurito semplicemente in questi termini: è stato in effetti osservato32 che i compilatori del codice Rocco vedevano radicata una prospettiva in base alla quale ogni reato dovesse essere indefettibilmente caratterizzato da un evento naturalistico distinguibile nella sfera esteriore e concreta rispetto alla mera condotta; e, se attualmente non è più così, il tutto non significa necessariamente che il termine “evento” di cui all’art. 43 debba essere interpretato nel senso di escludere che possa trattarsi dell’evento naturalistico. D’altra parte, è stato posto l’accento sul fatto che, qualora si concepisse l’art. 43 come riferito all’evento in senso naturalistico, sarebbe comunque individuabile un approccio tramite il quale garantire la configurabilità del dolo anche in relazione ai reati privi di evento naturalistico: molto semplicemente, con argomentazione a maiori ad minus, la definizione del dolo per l’ipotesi più ampia (reato con evento naturalistico) sarebbe riferibile ed adattabile anche all’ipotesi meno ampia (reato privo di evento naturalistico)33. Anche l’interpretazione appena delineata giunge comunque, sostanzialmente, ad essere coerente con la conclusione per cui l’oggetto del dolo non debba essere concepito come limitato all’evento in senso naturalistico, bensì debba essere inteso come riferito a tutti gli elementi del fatto tipico.

Definito l’oggetto del dolo, è possibile delineare in maniera più precisa i concetti di rappresentazione e volontà. La rappresentazione indica la conoscenza e raffigurazione mentale di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie: qualora si tratti di elementi di carattere descrittivo, non si pongono particolari problemi, in quanto sarà senz’altro sufficiente la conoscenza di elementi di fatto o naturalistici; qualora si tratti, d’altra parte, di elementi normativi, si ritiene comunemente che non sia necessaria la conoscenza di tali elementi nella corrispondente sfera giuridica, bensì che sia sufficiente – ma necessaria – la rappresentazione di essi in una trasposizione nella corrispettiva sfera di carattere non giuridico (quella che viene definita “sfera laica”)34. Nondimeno, si tratta di stabilire quale sia il livello minimo di effettività del contenuto della rappresentazione, ai fini della configurazione del dolo: appare condivisibile la soluzione per cui, ai fini della rappresentazione rilevante per l’inquadramento del dolo, non è indispensabile che l’agente si sia effettivamente soffermato a riflettere su ogni specifico elemento della fattispecie penale, essendo sufficiente – ma necessario – che una determinata circostanza, sulla quale egli non si sia effettivamente soffermato con il pensiero, faccia parte di un complesso di circostanze che gli siano precedentemente note, e purché egli potrebbe richiamarle entro la propria sfera intellettiva attuale in un istante35.

31 M. GALLO, op. loc. cit.32 T. PADOVANI, Dolo e coscienza dell’offesa al momento degli addii?, in Cass. pen.,

1984, 524.33 T. PADOVANI, op. loc. cit.34 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 351.

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Per quanto concerne l’elemento volitivo, è opportuno richiamare la nozione di “volontà” prospettata dalla psicologia, in base alla quale si tratterebbe di un impulso fisico e cosciente attinente alla sfera del volere e ai fini della produzione di movimento corporeo36: accogliendo, in questo frangente, la teoria della volontà (senza entrare, per ora, nel dettaglio dell’analisi del dibattito fra teoria della rappresentazione e teoria della volontà), il concetto di “volontà” appena delineato può coordinarsi non solo con riferimento all’azione od omissione, bensì con riferimento ad ogni elemento costitutivo della fattispecie penale, posto che quest’ultima deve essere considerata in senso unitario37. Del resto, una ricostruzione di questo tipo appare coerente anche se si richiama la teoria finalistica dell’azione, in base alla quale ogni condotta umana non viene realizzata come fine a sé stessa, bensì come orientata al conseguimento di un fine38. Occorre poi precisare che il concetto di “volontà” rilevante ai fini del dolo esula da valutazioni inerenti aspetti di carattere meramente emotivo (desideri, speranze) o semplici tendenze, inclinazioni o componenti di carattere simile; né attiene alla sfera della volontà il semplice movente39.

L’ulteriore questione che deve essere affrontata ai fini dell’inquadramento dell’essenza del dolo, anche essa suscitata dalla scarsa univocità del tenore letterale dell’art. 43 comma 1 alinea 1 c.p., è data dall’individuazione del significato e della portata che debbano essere attribuiti all’inciso “secondo l’intenzione”. Considerando, infatti, come doloso soltanto il comportamento “intenzionale” rispetto ad un determinato evento, cioè soltanto il comportamento di chi abbia provocato un evento con corrispondenza fra prospettiva psicologica assunta dall’agente ed evento concretamente realizzato (in altri termini, qualora la prospettiva psicologica dia causa alla condotta)40, si ricadrebbe con il limitare l’ambito della rilevanza del dolo al solo dolo intenzionale, con esclusione delle forme non intenzionali, ossia dolo diretto e dolo eventuale, nonché dolo indiretto, se si accoglie la ricostruzione che prospetta tale forma quale ulteriore rispetto a dolo diretto e dolo eventuale. Parte della dottrina si è sforzata di individuare un’impostazione la quale consenta di rendere coerente la concezione delle forme non intenzionali di dolo rispetto all’inciso “secondo l’intenzione” di cui all’art. 43, precisando che detta formula non debba indurre a ritenere che l’art. 43 limiti l’ambito del dolo al solo dolo intenzionale41. Occorre prendere le mosse, anzitutto, dalla teoria finalistica dell’azione, in base alla

35 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 352 - 353. Viene riportato l’esempio della corruzione di minorenne: ai fini della sussistenza del dolo non è necessario che l’agente abbia effettivamente soffermato il proprio pensiero nel riflettere sull’età della persona offesa al momento dell’attuazione della condotta, purché l’età della persona offesa fosse già in precedenza a sua conoscenza. D’altra parte, il dolo sarebbe da escludere nelle ipotesi in cui il passaggio alla rappresentazione attuale richiederebbe un processo complesso di deduzione logica.

36 M. GALLO, Il dolo. Oggetto e accertamento, in Studi Urbinati, Anno XX, 1951 – 1952, 143.

37 M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale. I. Art. 1 – 84, II ed., Milano, Giuffrè, 1995. Nello stesso senso G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit. 353.

38 G. CERQUETTI, Il dolo, Torino, Giappichelli, 2010, 10, ove si richiamano citazioni da M. GALLO, op. ult. cit., 208 ss.

39 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. loc. ult. cit. 40 L. EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia, Morcelliana, 1993, 175.41 S. PROSDOCIMI, op. cit., 33 e 137.

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quale ogni condotta umana non è attuata come fine a sé stessa, ma è sempre orientata ad uno scopo42: in base a tale premessa, la classificazione delle tipologie di dolo andrebbe effettuata tenuto conto del grado di conformità (maggiore o minore) di quanto concretamente realizzato rispetto al fine intenzionalmente perseguito dall’agente: così, secondo la dottrina che concepisce la distinzione fra dolo “diretto” ed “indiretto”, il dolo diretto si avrà per la fattispecie non perseguita per sé stessa come fine, ma che sia mezzo necessario per la realizzazione di quanto intenzionalmente perseguito, e qualora l’“intenzionalmente perseguito” e la “fattispecie – mezzo” siano realizzabili con la medesima condotta materiale; mentre il dolo indiretto si avrà per la fattispecie realizzata, non intenzionalmente perseguita, la quale, tuttavia, sia considerata come necessaria conseguenza connessa e collaterale rispetto alla realizzazione del fine intenzionalmente perseguito, e sia prevista come certa o altamente probabile43; la fattispecie sorretta da dolo eventuale (si riserva la trattazione specifica della definizione di “dolo eventuale” secondo le varie teorie al cap. II) si distinguerebbe quindi, rispetto a quella realizzata con dolo indiretto, in primis dal punto di vista quantitativo, in quanto nell’ipotesi del dolo indiretto la realizzazione della fattispecie è prevista come certa o “quasi certa”, mentre nell’ipotesi del dolo eventuale la realizzazione del fatto è ritenuta dall’agente come possibile o probabile (comunque non “certa”); tuttavia, tale aspetto di carattere quantitativo comporterebbe conseguenze anche sul piano qualitativo dato che, nell’ipotesi del dolo indiretto, l’accettazione del fatto sarà senz’altro piena, mentre nell’ipotesi del dolo eventuale si resterà nell’ambito di graduazioni inferiori del livello di accettazione, che resterà quindi nella sfera dell’ipotetico44; in ogni caso (dolo diretto, dolo indiretto, dolo eventuale) si avranno fattispecie realizzate con condotta caratterizzata comunque da un fine intenzionale (che nelle ipotesi diverse dal dolo intenzionale, ovviamente, non coincide con la fattispecie realizzata e che si assume sorretta, a seconda dei casi e alternativamente, da dolo diretto, indiretto o eventuale): in questo senso sarebbe soddisfatto il tenore letterale dell’art. 43, comma 1, c.p., laddove vede inserito l’inciso “secondo l’intenzione”45. L’impostazione dottrinale la quale considera, quale forma intermedia fra dolo intenzionale e dolo eventuale, il solo dolo diretto, identifica quest’ultimo nell’ipotesi in cui la fattispecie non intenzionalmente perseguita sia realizzata in quanto mezzo necessario per il conseguimento del fine intenzionale, ed alla luce della certezza o “quasi certezza” di realizzazione della fattispecie stessa, facendo tuttavia rientrare in quest’ambito anche le ipotesi che, come si è osservato, altra parte della dottrina classifica come “dolo indiretto”46: il che, ad ogni modo, non appare in contrasto con la tesi per cui il termine “intenzione” utilizzato dal legislatore all’interno dell’art. 43 sarebbe riferito all’intenzionalità della condotta umana; anche in quest’ultimo caso, in effetti, si tratta di identificare una fattispecie non intenzionalmente perseguita e realizzata tramite una condotta la quale perseguisse intenzionalmente un fine ulteriore. Sulla base di quanto si è

42 S. PROSDOCIMI, op. cit., 33.43 S. PROSDOCIMI, op. cit., 132 – 135. 44 S. PROSDOCIMI, op. cit., 135.45 S. PROSDOCIMI, op. cit., 33 e 137.46 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 361.

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esposto, è possibile individuare una ricostruzione in base alla quale le diverse forme di dolo (intenzionale, diretto, indiretto, eventuale) sono (e devono essere) tutte caratterizzate da elementi i quali concretizzano il requisito psichico della volontà, seppur con gradazioni diverse di tale requisito: in questo senso, il rapporto fra “intenzione” e “volontà” si inquadra nel paradigma plus – minus, nel senso che si tratta di elementi i quali esprimono diverse gradazioni di un medesimo concetto sostanziale (e non concetti sostanzialmente differenti)47; ne deriva, chiaramente, la riconduzione al paradigma plus – minus del rapporto fra dolo intenzionale, dolo diretto, dolo indiretto e dolo eventuale.

A conclusioni differenti rispetto a quelle appena esposte è giunta altra parte della dottrina48, la quale ritiene che la volontà coincida in senso stretto con la sola intenzione: con la conseguenza che l’unica forma descrittiva di dolo sarebbe data dal dolo intenzionale, mentre dolo diretto e dolo eventuale consisterebbero in dati normativi, non caratterizzati da “volontà – intenzione”, ma relativamente ai quali il legislatore avrebbe prospettato identità di trattamento rispetto al dolo intenzionale, alla luce della loro assimilabilità rispetto al dolo intenzionale stesso49; in base a tale ricostruzione, il dolo intenzionale si configurerebbe come forma che identifica il nucleo sostanziale e descrittivo del dolo, mentre le forme non intenzionali di dolo sarebbero normativamente equiparate al dolo intenzionale, e il rapporto fra dolo intenzionale e forme non intenzionali di dolo (e quindi, in particolare, fra dolo eventuale e dolo intenzionale) si inquadrerebbe, così, nel paradigma aluid – aliud (il quale identifica concetti sostanzialmente differenti, e non gradazioni del medesimo concetto sostanziale)50. Del resto, la teoria di cui trattasi giunge ad affermare che il rapporto fra dolo eventuale e dolo diretto sia, invece, inquadrabile nello schema minus – maius, identificando quindi fra tali forme una distinzione di carattere quantitativo51.

Per quanto attiene il versante giurisprudenziale, sono numerose le sentenze di legittimità le quali prospettano una distinzione fra dolo diretto e dolo eventuale basata principalmente su aspetti di tipo quantitativo: così, ad esempio, si è (anche recentemente) affermato che il dolo diretto sarebbe caratterizzato dalla accettazione dell’evento previsto come certo o altamente probabile, mentre il dolo eventuale si contraddistinguerebbe in quanto accettazione dell’evento previsto solamente come probabile (quindi non come “certo” o “altamente probabile”)52. Vero è che, in base a tale linea teorica, il

47G. CERQUETTI, op. cit., 184. Si accoglie, in particolare, la ricostruzione effettuata da Mario Romano relativamente al requisito della volontà nelle varie forme di dolo.

48L. EUSEBI, Appunti, 1087 ss. 49L. EUSEBI, op. loc. cit., ove si sostiene, con particolare riferimento alle forme non

intenzionali di dolo, che esse identificherebbero una situazione psichica soltanto normativamente assimilata alla volizione. Nello stesso senso ID., Il dolo, 43 ss.

50L. EUSEBI, op. ult. cit., 48.51L. EUSEBI, op. ult. cit., 51 ss. Peraltro, è stata notata una certa contraddittorietà delle

conclusioni tratte dall’Autore in questione, in particolare da parte di G. CERQUETTI, op. cit., 183.

52 Cass. Pen., Sez. II, 24 giugno 2011 (deposito 1 settembre 2011), n. 32972, in dejure.giuffre.it; “Il dolo eventuale si distingue dalle altre forme di dolo per il fatto che mentre nel dolo intenzionale la volontà persegue l’evento come scopo finale della condotta […]e nel dolo diretto l’evento non costituisce l’obiettivo della condotta ma è accettato dall’agente come certo o altamente probabile, il dolo eventuale è caratterizzato, invece, dal rischio di verificazione e

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confine fra dolo diretto e dolo eventuale può divenire molto labile in situazioni concrete. Per comprendere ciò, risulta interessante richiamare una ulteriore recente sentenza della Suprema corte, riferita ad un caso di provocata morte di circa 300 persone a causa di naufragio, a sua volta verificatosi di fatto a seguito di ripetuti scontri fra una imbarcazione di grosse dimensioni ed un battello fatiscente il quale avrebbe dovuto condurre a terra le persone che si trovavano a bordo nave: nello specifico, il trasbordo delle persone dalla nave al battello era stato organizzato da un soggetto, dedito al traffico illegale di clandestini, il quale – secondo la ricostruzione operata dai giudici di appello – aveva agito avendo ben presente l’elevata probabilità di verificazione dell’evento, essendo consapevole del carattere fatiscente dell’imbarcazione adibita al trasporto a terra, nonché delle condizioni proibitive del mare e del fatto che il battello avrebbe potuto trasportare in sicurezza al massimo 100 persone, laddove invece i soggetti fatti imbarcare su di esso furono 300, tanto che egli stesso scelse di non partecipare di persona e direttamente alle operazioni, optando per la mera direzione di esse da terra, ed avendo anche tentato di dissuadere il proprio sostituto dall’effettuazione dell’intervento in via diretta; in base a tali premesse, i giudici di legittimità confermano l’imputazione per dolo, respingendo il motivo di ricorso addotto dalla difesa, la quale riteneva non provato l’elemento volitivo ai fini del dolo eventuale (i giudici d’appello avevano in effetti affermato la sussistenza di dolo eventuale nel caso di specie); la motivazione della sentenza precisa poi che, in casi di questo genere, il confine fra dolo eventuale e dolo diretto risulti particolarmente labile53; viene quindi richiamata la giurisprudenza tradizionale la quale identifica dolo diretto laddove l’evento sia previsto ed accettato come altamente probabile o certo, nonché dolo eventuale laddove l’evento sia previsto ed accettato come meramente possibile54.

2. Teoria della rappresentazione e teoria della volontà: contenuti essenziali

L’analisi relativa alla teoria della rappresentazione ed alla teoria della volontà è indispensabile, in via preliminare, ai fini della trattazione delle teorie inerenti la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, poiché queste ultime, da un punto di vista generale, sono classificabili perlopiù in base alla riconducibilità, rispettivamente, al paradigma intellettivo o al paradigma volitivo.

La teoria della rappresentazione, in linea di massima, prospetta una impostazione la quale tende alla valorizzazione del profilo intellettivo, mentre la teoria della volontà valorizza il profilo volitivo, pur non trascurando l’elemento dall’accettazione dell’evento, che nella rappresentazione psichica appare soltanto probabile”. Viene poi effettuato richiamo a Cass. Sez. Un., 14 febbraio 1996, n. 3571, Cass. Sez. Un., 12 ottobre 1993, n. 748; Cass. Sez. Un., 6 dicembre 1991, n. 3428).

53 Cass. Pen., Sez. I, 7 aprile 2010 (deposito 26 aprile 2010), n. 16193, in www.altalex.com

54 Cit. da Cass. Pen., Sez. I, 7 aprile 2010 (deposito 26 aprile 2010), n. 16193: “Deve peraltro ricordarsi che la giurisprudenza di legittimità, nell’individuare gli elementi di distinzione tra dolo eventuale e dolo diretto, ha sempre ritenuto che esso fosse nella accettazione nel primo caso di un evento come possibile e nel secondo di un evento come probabile, confine veramente labile nel caso di specie in cui la capacità di previsione dell’imputato era arrivata al punto di rifiutare di imbarcarsi e di cercare di dissuadere anche il suo sostituto”

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intellettivo il quale è presupposto della volontà stessa (nihil volitum quin praecognitum55). Il dibattito fra teorici della rappresentazione e teorici della volontà è incentrato, nello specifico, sulla determinazione di ciò che possa essere effettivamente oggetto, appunto, rispettivamente di rappresentazione e volontà.

Entrando nell’analisi di dettaglio, la teoria della rappresentazione prende le mosse dalla concezione di “volontà” derivata dalla psicologia analitica56, ed alla quale si è già fatto riferimento: essendo la “volontà” concepita come impulso cosciente della sfera del volere ai nervi motori, ed ai fini della produzione di movimento corporeo (nel qual caso si avrebbe condotta attiva, intesa come movimento corporeo percepibile a livello sensoriale) o mantenimento dello stato di quiete delle parti corporee adibite al movimento (nel qual caso si avrebbe condotta omissiva), giocoforza la volontà potrebbe avere ad oggetto la sola condotta, ma non l’evento o, comunque, elementi del fatto tipico diversi dalla condotta; questi ultimi potrebbero essere oggetto di sola rappresentazione57.

D’altra parte, la teoria della volontà postula che tanto rappresentazione quanto volontà possano – e, ai fini della sussistenza del dolo, debbano – riguardare tanto la condotta quanto l’evento, nonché ulteriori elementi del fatto tipico diversi dalla condotta: in questo senso, si prospetta una valorizzazione dell’elemento volitivo ai fini dell’inquadramento del dolo; d’altra parte, conformemente alla teoria della volontà, non può darsi volontà senza rappresentazione: non viene, quindi, tralasciata la componente rappresentativa, la quale è – anzi – presupposto necessario e indefettibile della volontà58.

Le teorie in questione, al tempo dei lavori di redazione del codice penale, costituivano le due impostazioni che fondavano le principali questioni di dibattito: ciò è di particolare importanza per comprendere la già rilevata mancanza di univocità della definizione di “delitto doloso” di cui all’art. 43 comma 1 c.p., il quale avrebbe realizzato una sorta di soluzione di compromesso tra le teorie in questione, risultando privo di caratteri strettamente vincolanti e lasciando, quindi, all’interpretazione e prassi giurisprudenziale, nonché all’elaborazione dottrinale, lo sviluppo del concetto di “dolo”59.

Ma ciò che maggiormente interessa, con riguardo all’argomento inerente la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, sta nel rilievo del fatto che proprio su questo versante teoria della rappresentazione e teoria della volontà rivelino i rispettivi limiti: da un lato la teoria della rappresentazione, negando la stessa configurabilità di volontà dell’evento, manifesta il proprio limite nelle difficoltà di individuazione di ciò che costituisca l’elemento differenziante dolo eventuale e colpa cosciente, posto che anche quest’ultima è caratterizzata da previsione; dall’altro, l’adesione alla teoria della volontà comporta difficoltà nell’individuazione e nell’inquadramento della componente volitiva nell’ambito del dolo eventuale, spesso ricadendo nell’”errore” di ricondurre l’elemento volitivo a stati d’animo, stati emotivi o simili60. In base a tali considerazioni,

55 S. PROSDOCIMI, Reato doloso, in Dig. disc. pen., vol. XI, Torino, UTET, 1996, 235.56 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 347.57 M. GALLO, op. ult. cit., 141 – 143, 164, 214 ss.58 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. loc. ult. cit.59 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 348.60 S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, 7-8.

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emerge la necessità di superamento della rigida distinzione fra le teorie in questione, le quali dovrebbero invece coordinarsi: la soluzione più condivisibile appare, quindi, quella consistente nella concezione del dolo come avente ad oggetto il fatto tipico nella sua unitarietà, sicché la condotta voluta ai fini della determinazione di un evento comporta, necessariamente, l’estensione della volontà all’evento61.

3. Definizione normativa e struttura della colpa: questioni generali

Ai sensi dell’art. 43, comma 1, alinea 3, c.p., il delitto è colposo allorché ricorrano i seguenti requisiti: in primo luogo, deve trattarsi di realizzazione di evento non voluto, benché possa trattarsi di evento preveduto; in secondo luogo, la realizzazione dell’evento deve essere dovuta a negligenza, imprudenza, imperizia, ovvero a trasgressione di regolamenti, ordini o discipline. Si richiede, sostanzialmente, che l’evento sia stato realizzato con trasgressione di regole precauzionali di condotta, le quali sono classificabili in regole di fonte sociale (diligenza, prudenza, perizia) e regole di fonte giuridica (regolamenti, ordini e discipline). La trasgressione di regole cautelari di fonte sociale identifica, eventualmente (beninteso che non è sufficiente, di per sé, la sola trasgressione di regole precauzionali di condotta ai fini dell’inquadramento della responsabilità per colpa), la c.d. colpa generica, mentre in caso di trasgressione di regole di fonte giuridica si avrà la c.d. colpa specifica62.

In dottrina è stata evidenziata la necessità di distinzione concettuale fra “ dovere di diligenza” e “regole cautelari di condotta”: il primo si identifica con la situazione giuridica soggettiva posta da norme penali, quindi sottostante ai principi di legalità, riserva di legge, irretroattività, tassatività; le seconde, del resto, costituiscono il contenuto del “dovere di diligenza”, non debbono necessariamente essere di fonte giuridica e sono valide ed efficaci in base al solo fatto che si tratti effettivamente di regole le quali abbiano come funzione quella di evitare la realizzazione di eventi lesivi di beni giuridici; altresì, qualora siano recepite o specificate da atti giuridici, sono valide ed efficaci a prescindere dalle vicende relative a validità ed efficacia dell’atto giudico che le recepisca, purché – come si è detto – si tratti effettivamente di regole con funzione precauzionale rispetto alla realizzazione di eventi lesivi63.

Se l’individuazione di regole cautelari di fonte giuridica è generalmente agevole e diretta – trattandosi di regole codificate –, non può dirsi lo stesso per quanto attiene all’individuazione delle regole cautelari di fonte sociale, non scritte: a tali fini occorre anzitutto una valutazione di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, la quale deve essere effettuata in base alla considerazione di quanto avrebbe potuto prevedere ed evitare un “agente modello” (ovvero, l’homo eiusdem professionis et condicionis, il quale esprime il “punto di vista del diritto”64), fermo restando la valutazione ulteriore delle eventuali conoscenze o

61 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. loc. ult. cit.62 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 537 – 542.63 D. CASTRONUOVO, La colpa penale, Milano, Giuffrè, 2009, 284 – 287.64 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 83 – 84.

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capacità superiori possedute dall’agente concreto65; in secondo luogo, secondo alcuni Autori, occorre anche graduare il contenuto della regola precauzionale di fonte sociale in base all’entità del pericolo che sia venuta di volta in volta in questione66. Sin qui, sul versante della valutazione del fatto tipico colposo, si tratta di analisi che debbono essere effettuate su base oggettiva.

Il discorso può cambiare, tuttavia, allorché si tratti di valutare nello specifico l’elemento della colpevolezza: in particolare, il dibattito è fra “oggettivisti” e “soggettivisti”, e mira a stabilire se, ai fini del giudizio di colpevolezza, debbano essere effettuate solo valutazioni di carattere oggettivo, oppure possano (e debbano) essere effettuate anche valutazioni concernenti aspetti di carattere soggettivo e, in modo specifico, il livello di capacità ed attitudine dell’agente concreto ai fini del soddisfacimento della regola precauzionale67. È chiaro tuttavia che, qualora si accogliesse senza limitazioni la prospettiva favorevole alla valutazione di componenti soggettive, si giungerebbe con il giustificare praticamente ogni azione colposa68: sicché appare una soluzione condivisibile quella consistente nella considerazione, in sede di giudizio di colpevolezza, dei soli elementi soggettivi che attengono alla sfera delle caratteristiche fisiche ed intellettuali del soggetto, con esclusione, invece, della rilevanza di aspetti che riguardino la sfera emotiva69. Si suole, pertanto, indicare la colpa come violazione di una “doppia misura di diligenza”: in sede di valutazione del fatto tipico colposo, occorrerà verificare se l’agente concreto abbia trasgredito una regola precauzionale di condotta ed abbia, con ciò, provocato un evento il quale fosse oggettivamente prevedibile ed evitabile, con riferimento al modello dell’homo eiusdem conditionis et professionis, nonché con considerazione ulteriore delle eventuali conoscenze superiori possedute dall’agente concreto (in questo caso viene in gioco la c.d. “misura oggettiva” della colpa); in sede di valutazione della colpevolezza, del resto, occorrerà verificare se, nel caso concreto, l’evento fosse prevedibile ed evitabile secondo una misura individuale70. Sinteticamente, in sede di valutazione del fatto tipico si effettuerà un giudizio inerente il “dovere di riconoscere” in senso oggettivo; in sede di valutazione della colpevolezza si effettuerà, invece, un giudizio concernente la “possibilità” individuale di riconoscere71.

La colpa, del resto, se da un lato presuppone l’assenza di volontà di realizzazione dell’evento, dall’altro non presuppone necessariamente l’assenza di previsione di quest’ultima: così potrà distinguersi fra colpa “con previsione” (comunemente definita, nella prassi, come “colpa cosciente”) e colpa generalmente indicata come “incosciente”72. Invero, il binomio “colpa cosciente”/”colpa incosciente”, a voler essere rigorosi dal punto di vista terminologico, dovrebbe indicare una distinzione fra le forme di colpa la quale riguarderebbe non già la sussistenza o assenza della componente della

65 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 546.66 F. PALAZZO, Il fatto di reato, Torino, Giappichelli, 2004, 125.67 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 561. 68 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. loc. ult. cit. 69 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 562. 70 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 83.71 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit.72 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 559 – 560.

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previsione, bensì la consapevolezza o meno del carattere colposo della condotta tenuta: così, si avrebbe “colpa cosciente” qualora il soggetto agente realizzasse la condotta essendo consapevole del fatto che la stessa fosse trasgressiva di regole precauzionali di condotta; al contrario, si avrebbe “colpa incosciente” nell’ipotesi in cui tale consapevolezza fosse mancante73. Nella prassi, tuttavia, è ormai ampiamente diffuso l’utilizzo della denominazione di “colpa cosciente” al fine di indicare la “colpa con previsione”, nonché dell’espressione “colpa incosciente” come significante la colpa caratterizzata da mancanza di previsione74. Si tratta, se mai, di effettuare alcune precisazioni circa i rapporti fra “colpa con previsione” e “colpa cosciente” intese nel senso di cui sopra; più precisamente, occorre stabilire se la prima sia configurabile o meno anche in assenza della consapevolezza del carattere antidoveroso della condotta e, parallelamente, se la seconda possa sussistere in assenza di previsione: quanto alla colpa cosciente, si ammette che essa possa sussistere anche in mancanza di previsione della verificazione dell’evento75; viceversa, è da escludersi che la colpa “con previsione” possa prescindere dalla coscienza del carattere antidoveroso della condotta76: in altri termini, la mancanza di previsione dell’evento può essere compatibile con la consapevolezza del carattere antidoveroso della propria condotta, mentre tale consapevolezza sarebbe, invece, necessaria nel caso della previsione dell’evento, ai fini dell’inquadramento della colpa con previsione.

4. Elementi comuni a dolo e colpa: la violazione di regole precauzionali di condotta e il superamento del rischio consentito.

Si intende fare riferimento, a questo punto, all’impostazione dottrinale in base alla quale, pur restando dolo e colpa rispettivamente elementi soggettivi autonomi, vi sarebbero componenti le quali caratterizzerebbero entrambi, e che sarebbero a fondamento della stessa rilevanza penale della condotta: sicché, in assenza di esse, non potrebbe configurarsi neppure reato77. È stato peraltro osservato che, da questo punto di vista, si riveli di particolare efficacia l’analisi con riferimento specifico a dolo eventuale e colpa cosciente: posto, infatti, che si tratta di categorie di confine, l’analisi incentrata con riferimento ad esse consente di porne in evidenza non solo le differenze, bensì anche gli elementi comuni78.

73 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 40 – 41.74 Nella presente tesi si è utilizzata in linea generale (salvo che per quanto riguarda le

considerazioni inerenti i rapporti fra “colpa con previsione” di cui all’art. 61 n. 3 e “colpa cosciente” intesa come colpa caratterizzata dalla consapevolezza del carattere antidoveroso della condotta) la terminologia diffusa nella prassi: quindi, “colpa cosciente” ai fini dell’indicazione della colpa con previsione; “colpa incosciente” ai fini dell’indicazione della colpa senza previsione. La maggior parte della bibliografia e della giurisprudenza utilizzata ricorre a tale approccio terminologico, con poche eccezioni.

75S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 41.76S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit. Nello stesso senso anche G. DE FRANCESCO, Dolo

eventuale e colpa cosciente, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, 140 – 141, 154. 77 Si fa riferimento in particolare a L. EUSEBI, Appunti, 1059 – 1066.78 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 94.

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Occorre prendere le mosse da una concezione di “evento” inteso in senso lato come lesione o messa in pericolo di beni giuridicamente protetti: in base a tale accezione, l’evento viene prospettato come elemento che non possa mancare in alcuna fattispecie penalmente rilevante79. Definito in tal modo l’“evento”, è necessario precisare un ulteriore concetto: ossia quello di “regola di diligenza” o “regola cautelare”, intesa in questo contesto come regola finalizzata ad evitare che si verifichi un evento consistente nella lesione o messa in pericolo di un bene giuridicamente protetto80.

In base ai concetti appena esposti, è possibile individuare già un primo nucleo il quale dovrebbe costituire il fondamento comune a qualsiasi condotta penalmente rilevante: ossia la violazione di regole di diligenza, intese nell’accezione che si è esposta poc’anzi, e le quali siano finalizzate ad evitare la realizzazione dell’evento del tipo di quello realizzatosi nel caso concreto81. Beninteso, quindi, che la trasgressione di regole di diligenza non è di per sé sufficiente a fondare la rilevanza penale della condotta, essendo necessaria la sussistenza di ulteriori elementi: in primo luogo, la realizzazione di un evento lesivo o pericoloso per beni giuridicamente tutelati; in secondo luogo, la sussistenza di nesso causale fra condotta posta in essere ed evento realizzato, la quale acquista a sua volta rilevanza solo se l’evento è stato effettivamente provocato da una condotta non conforme a regole cautelari finalizzate ad evitarlo; tanto che – si sostiene – qualora l’evento sia stato materialmente provocato da una determinata condotta trasgressiva di una regola precauzionale, ma risulti l’irrilevanza del mancato rispetto della regola precauzionale stessa, in quanto l’evento si sarebbe prodotto anche nel caso in cui la regola precauzionale fosse stata ottemperata, non si configurerebbe reato82. Riformulando in sintesi tale ricostruzione, si muove dall’assunto per cui la selezione della condotta penalmente rilevante non possa in alcun caso prescindere, anzitutto, dal fatto che sia stato realizzato un evento lesivo o pericoloso per beni giuridici tutelati dall’ordinamento: in base a tale presupposto, assumerà rilevanza penale la condotta – e solo quella – che sia in rapporto eziologico con l’evento provocato, e che consista in una violazione di una regola precauzionale, quest’ultima intesa come regola che abbia come fine quello di evitare la realizzazione di eventi che ledano o pongano in pericolo beni giuridici; non è sufficiente, tuttavia, che si tratti di violazione di una qualsiasi regola precauzionale intesa nel senso suddetto: dovrà trattarsi di violazione della regola precauzionale che abbia come finalità quella di evitare proprio l’evento specifico realizzato. Del resto, qualora l’evento si sarebbe prodotto anche nel caso in cui fosse stata rispettata la regola precauzionale effettivamente trasgredita, si configura una situazione in cui la violazione della regola stessa non è risultata incisiva dal punto di vista causale: per cui sarà esclusa la rilevanza penale della condotta.

Sulla base delle considerazioni svolte, è necessario effettuare alcune precisazioni relative al giudizio di evitabilità dell’evento, il quale è ritenuto elemento indefettibile nell’ambito del giudizio complessivo sul nesso causale fra

79 L. EUSEBI, op. ult. cit., 1056.80 L. EUSEBI, op. ult. cit.,1060 e, in particolare, nota (24)81 L. EUSEBI, op. ult. cit., 1059 ss.82 L. EUSEBI, op. ult. cit., 1061.

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condotta ed, appunto, evento83. Se si considerano casi nei quali vi è totale identificazione fra inosservanza della regola cautelare e condotta effettivamente posta in essere (cioè allorquando la condotta consista proprio e soltanto nella violazione della regola cautelare, e non si inserisca in una condotta più ampia), la dimostrazione del nesso causale comporta automaticamente la valutazione dell’evitabilità dell’evento: infatti, se la condotta coincide interamente con la violazione della regola cautelare, e si accerta il nesso causale fra condotta ed evento, è chiaro che la tenuta della condotta doverosa avrebbe automaticamente escluso la condotta causale84.

Differente è il discorso se si considerano casi in cui la trasgressione della regola precauzionale non si identifica in tutto con la condotta, ma si inserisce nel contesto di una condotta più ampia e irrilevante dal punto di vista precauzionale (“precauzionale” con riferimento all’evento che venga in questione nel caso specifico): in ipotesi di questo genere, occorrerà un momento ulteriore ed autonomo nell’ambito del giudizio sulla causalità, consistente nel valutare se l’evento si sarebbe prodotto comunque o meno nell’ipotesi in cui fosse stata rispettata la regola precauzionale; qualora, poi, risulti che l’evento si sarebbe prodotto anche in quest’ultima ipotesi, sarà esclusa la rilevanza penale della fattispecie concreta, stante la non evitabilità dell’evento; e ciò anche qualora l’evento fosse effettivamente derivato, in senso naturalistico, hic et nunc dalla condotta concretamente posta in essere85.

Viene frequentemente riportato l’esempio del medico il quale somministri al paziente, onde ottenere narcosi ai fini di un intervento chirurgico, cocaina anziché novocaina: qualora da ciò derivi la morte del paziente e, tuttavia, la morte sarebbe derivata anche dalla somministrazione di novocaina, si avrebbe irrilevanza penale della fattispecie concretamente realizzata, in quanto l’evento è sì derivato hic et nunc dalla condotta posta in essere, ma non è derivato dalla violazione della regola cautelare (cioè, in questo caso, “somministrare novocaina”, o “non somministrare cocaina”) ed era, pertanto, hic et nunc inevitabile86. Configurare la rilevanza penale di ipotesi di questo genere significherebbe, del resto, attribuire rilievo al solo disvalore della condotta caratterizzata dalla trasgressione della regola di diligenza87.

Va, a questo punto, osservato il fatto che le regole precauzionali di condotta concorrano ad identificare, fondamentalmente, quello che è il “rischio consentito”, ossia il livello di rischio tollerato dall’ordinamento. Il superamento del rischio consentito giunge, quindi, ad essere considerato come elemento comune alla responsabilità per dolo e per colpa, e si tratta di un elemento di carattere normativo: ragion per cui l’accoglimento di una impostazione di questo tipo dovrebbe condurre a concepire il dolo non come elemento meramente psicologico, bensì come connotato anche esso, almeno in parte, da aspetti di carattere normativo88.

83 L. EUSEBI, op. ult. cit., 1061 – 1066. 84 L. EUSEBI, op. ult. cit., 1061 – 1062. 85 L. EUSEBI, op. ult. cit.,1062 – 1063. 86 L. EUSEBI, op. loc. ult. cit.87 L. EUSEBI, op. loc. ult. cit.88 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 93.

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Dal momento che si sta trattando di “superamento del rischio consentito”, è indispensabile specificare la sfera – appunto – del “rischio consentito”; invero, il rispetto delle regole precauzionali non è l’unico dato che contribuisca ad individuare l’ambito entro il quale, in base alla ricostruzione qui esposta, non potrebbe configurarsi responsabilità per dolo o per colpa. Il quadro si arricchisce di elementi se si considera, tra l’altro, che vi sono attività di per sé “rischiose” le quali, tuttavia, sono consentite, autorizzate, disciplinate e, talvolta, addirittura incoraggiate dall’ordinamento89; ma la questione non si esaurisce in questi termini.

Anzitutto, concorrono ad identificare la sfera del “rischio consentito” le cause di giustificazione o scriminanti: in questo senso, potrà trattarsi tanto delle scriminanti classiche, riferibili astrattamente e genericamente a qualsiasi condotta, quanto di situazioni scriminanti previste per comportamenti specifici o determinate attività90; in effetti, posto che l’antigiuridicità è requisito strutturale del reato, e che la scriminante comporta il venire meno dell’antigiuridicità, non si pone neppure il problema inerente la configurazione di dolo o colpa, ovvero la distinzione fra dolo e colpa, dato che, in presenza di scriminanti, non sussiste neppure un fatto di reato91; e ciò anche qualora l’agente, eventualmente, di fatto desideri – magari anche in modo intenso – la realizzazione dell’evento lesivo92.

In secondo luogo, e dal punto di vista quantitativo, la sfera del “rischio consentito” è individuata dalle regole precauzionali di condotta (intese come regole il cui rispetto è volto ad evitare la realizzazione di eventi lesivi o pericolosi per beni giuridicamente protetti), siano esse di fonte sociale o di fonte giuridica: agire nel rispetto di regole precauzionali di condotta significa, quindi, agire nell’ambito del rischio consentito93; ragione, questa, per cui la violazione di regole precauzionali di condotta debba essere requisito essenziale anche ai fini della configurabilità della responsabilità per dolo, e non solo con riguardo all’inquadramento della responsabilità per colpa94. Il tutto, peraltro, non significa che l’agire con inosservanza di regole cautelari coincida con l’assumere un qualsivoglia rischio: significa che tale inosservanza comporti l’assunzione di un rischio eccessivo, non tollerato dall’ordinamento95. Per quanto attiene, in particolare, ai profili inerenti il dolo eventuale, si ritiene che esso presupponga, tra l’altro, la consapevolezza (quindi la rappresentazione) della violazione della regola cautelare (seppur anche in modo atecnico o generico)96: non sarà sufficiente la rappresentazione di un rischio qualsiasi, ma sarà necessaria la rappresentazione di un rischio percepito come abnorme97.

Del resto, si osserva il fatto che il parametro del “rischio consentito” non potrebbe atteggiarsi o essere concepito con differenziazioni a seconda che si faccia riferimento rispettivamente a dolo eventuale o colpa cosciente: in effetti,

89 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 86. 90 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 87.91 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit. 92 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit.93 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 88.94 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 90.95 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 88.96 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 91.97 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit.

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ciò sarebbe incompatibile con un diritto penale improntato alla tutela dei beni giuridici, che dovrebbe esulare valutazioni in chiave soggettiva inerenti le finalità dell’agente. In altri termini, l’individuazione del “rischio consentito” dovrebbe essere effettuata sulla base di valutazioni attinenti alla finalità oggettiva della condotta, nell’ottica della protezione di beni giuridici, e a prescindere da considerazioni inerenti le finalità soggettive98.

In base alle considerazioni sin qui svolte, si potrebbe affermare che non c’è dolo senza colpa99.

Tuttavia, l’individuazione di uno “zoccolo” normativo comune a dolo e colpa nei termini appena delineati non è esente da critiche da parte di posizioni le quali, al contrario, sostengono la configurabilità di ipotesi di responsabilità per dolo laddove non sarebbe possibile configurare responsabilità per colpa. In particolare si è obiettato, anzitutto, che i concetti di diligenza e prudenza, se da un lato avrebbero significato ermeneutico con riferimento ad offese arrecate non intenzionalmente a beni giuridici, dall’altro non sarebbero idonei a descrivere in modo adeguato la dimensione del rischio quando si tratti di realizzazione intenzionale di eventi lesivi100; e ciò sia nelle ipotesi in cui la condotta intenzionale si inserisca in un contesto di base illecito, sia nelle ipotesi in cui essa si inserisca in un contesto di base lecito: nel primo caso, la valutazione della trasgressione della regola cautelare risulterebbe senz’altro totalmente priva di senso; nel secondo, al più, tale valutazione potrebbe contribuire alla prova del dolo, ma non potrebbe certo assurgere ad elemento decisivo e determinante ai fini dell’inquadramento della forma dolosa di responsabilità101.

L’impostazione critica di cui trattasi, in altri termini, sostiene che non si possa identificare il “rischio consentito” sempre e soltanto in base alle regole cautelari ed alla misura oggettiva della colpa. Occorrerebbe invece tenere conto anche delle eventuali conoscenze superiori acquisite dal soggetto nel caso concreto, alla luce delle quali potrebbe configurarsi effettivamente dolo in casi in cui non potrebbe essere mosso un rimprovero per colpa; fermo restando l’inutilità del riferimento alla violazione della misura oggettiva della colpa in ipotesi di eventi intenzionalmente provocati.

A supporto della linea critica in questione viene riportato, tra l’altro, l’esempio del chirurgo il quale, dovendo operare un paziente che egli sa essere l’amante della moglie, ed essendo egli precedentemente venuto a conoscenza, al di fuori dell’esercizio della propria attività professionale di medico, di una anomalia fisica del paziente stesso la quale richiederebbe l’adozione di speciali misure per l’operazione, esegua comunque il protocollo standard per l’operazione stessa, con l’intenzione di provocare la morte del paziente, ma senza violare alcuna regola cautelare, dal momento che il soggetto modello di “medico chirurgo” non era tenuto, in quella circostanza, ad essere a

98 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 90. 99 Cit. da G. MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte della “imputazione oggettiva

dell’evento” e trasfigurazione nella colpevolezza?, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1991, 1, 3 ss. 100S. CANESTRARI, op. ult. cit., 109 – 110, ove l’Autore, tra l’altro, al fine di rafforzare la

propria argomentazione, si domanda – con chiaro intento provocatorio – quale senso abbia ricercare la violazione di regole cautelari nel comportamento di chi sfili intenzionalmente il portafoglio dalla borsetta aperta di una signora.

101 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 110.

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conoscenza dell’anomalia del paziente. In questo caso – si sostiene – sarebbe configurabile la responsabilità per dolo, sia con riguardo al tentato omicidio che con riguardo all’omicidio consumato, non essendo invece configurabile il rimprovero per colpa102.

D’altra parte, ad una ricostruzione di questo genere si potrebbe obiettare che l’inquadramento della responsabilità per colpa, in sede di identificazione delle regole cautelari e di giudizio di prevedibilità ed evitabilità, dovrebbe anche essa tenere conto non solo del parametro oggettivo dell’homo eiusdem conditionis et professionis, ma anche delle eventuali superiori conoscenze del soggetto al quale si faccia riferimento nel caso concreto103: sicché, trasferendo tali considerazioni all’esempio di cui sopra, si potrebbe ipotizzare che, in quel caso, alla luce delle maggiori conoscenze possedute dal chirurgo (benché non si tratti di conoscenze che l’homo eiusdem conditionis et professionis fosse tenuto ad acquisire), la regola cautelare violata sia stata quella di “non adottare il protocollo standard”, o “prescrivere ulteriori accertamenti”, o simili.

Considerazioni analoghe rispetto a quelle appena effettuate potrebbero delinearsi con riguardo alle esemplificazioni inerenti i casi di “violenza sportiva”, e con particolare riferimento agli sport “di lotta” regolamentati: nelle ipotesi in cui, durante un incontro fra atleti, l’uno provochi all’altro intenzionalmente lesioni essendo a conoscenza di un’anomalia fisica dell’avversario, e qualora l’incontro si sia svolto comunque conformemente alle regole sportive, in base al solo parametro oggettivo dell’homo eiusdem conditionis et professionis non risulterebbe trasgredita alcuna regola precauzionale, ma potrebbe configurarsi responsabilità per dolo (in assenza di configurabilità del rimprovero per colpa) alla luce del superamento del rischio consentito in considerazione delle maggiori conoscenze acquisite dal soggetto concreto (che l’homo eiusdem conditionis et professionis non era tenuto ad acquisire)104; tuttavia se si considera, invece, che l’individuazione del contenuto delle regole cautelari, nonché il giudizio di prevedibilità ed evitabilità, debbano essere basati non solo sul parametro oggettivo dell’homo eiusdem conditionis et professionis, bensì anche sulle eventuali superiori conoscenze possedute o acquisite dall’agente concreto, allora è identificabile comunque la violazione di una regola cautelare.

Un discorso a sé stante deve essere svolto con riguardo alla teoria dell’imputazione oggettiva, conformemente alla quale, ai fini dell’inquadramento di qualsiasi forma di responsabilità colpevole, è necessario che la condotta posta in essere dall’agente abbia creato un rischio non tollerato dall’ordinamento, e che tale condotta abbia cagionato un evento il quale sia proprio la concretizzazione del rischio creato tramite la condotta105. L’obiettivo principale di tale ricostruzione (nonché uno dei meriti ad essa riconosciuti) è quello di evitare che possano essere imputati all’agente eventi i quali, in base alla sola considerazione della teoria condizionalistica e del criterio della conditio sine qua non in tema di causalità, risulterebbero ad esso ascrivibili e che, tuttavia, nel caso concreto siano effettivamente dovuti al mero caso, ovvero

102 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 114.103 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 546. In senso conforme M. DONINI, Illecito e

colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, Giuffrè, 1991, 408 ss. 104 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 113 – 116.105 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 92.

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siano la “miracolosa” realizzazione di semplici speranze o auspici106. Un ulteriore merito riconosciuto alla teoria in questione è quello di evitare che all’agente doloso possano essere ascritti rischi di misura maggiore rispetto a quelli ascrivibili all’agente colposo, in considerazione e conseguenza del solo atteggiamento interiore del primo107. In questo contesto, ad ogni modo, non si tratta propriamente di un tentativo di individuare necessariamente la colpa all’interno del dolo (ovvero di una “caccia alla colpa nel dolo”108), in quanto l’elemento comune alle forme di responsabilità colpevole non viene rintracciato nella violazione della misura oggettiva di diligenza, benché si giunga comunque alla conclusione che consiste nell’inclusione della colpa all’interno del dolo, con riferimento al livello del rischio giuridicamente non tollerato109.

Muovendo da tali premesse sulla teoria dell’imputazione oggettiva, è necessario scendere nel dettaglio, specificando e descrivendo le varie fasi e modalità attraverso le quali debba, in base ad essa, essere sviluppato il giudizio complessivo sulla attribuzione del fatto tipico. Anzitutto, sarà necessario un giudizio ex ante relativo all’illiceità del rischio: il che presuppone, ovviamente, l’individuazione di un livello di rischio lecito, il quale sarebbe identico con riferimento, rispettivamente, alle ipotesi di fattispecie dolose e colpose110. Viene altresì valorizzata, quale premessa epistemologica essenziale ai fini delle valutazioni in questione, la possibilità oggettiva di rappresentazione111: ne consegue la configurazione come requisito comune ai fini dell’imputazione di fattispecie sorrette da dolo o da colpa di un momento rappresentativo attuale o potenziale, il quale deve riguardare tanto la condotta quanto la pericolosità della stessa in rapporto all’evento concreto112. Nei termini appena delineati, emerge un elemento attinente al livello della rappresentazione il quale sarebbe comune a tutte le ipotesi di responsabilità colpevole, sicché la differenziazione fra dolo e colpa residuerebbe esclusivamente nell’elemento volitivo. Tutto ciò, come si è detto, è riferito alla fase del giudizio ex ante concernente l’illiceità del rischio creato tramite la condotta. Oltretutto, con riguardo al giudizio di prevedibilità, si è addirittura sostenuto che una lettura sistematica degli artt. 56 e 49 cpv. c.p. dovrebbe costituire un fondamento a favore della teoria dell’imputazione oggettiva113: deporrebbe in questo senso il concetto di idoneità rilevabile all’interno dell’art. 49 cpv., concetto il quale dovrebbe essere considerato in modo unitario. In base a tale premessa, si approda alla conclusione per cui l’ “idoneità” dovrebbe essere caratteristica essenziale anche ai fini dell’inquadramento della responsabilità dolosa per reato consumato; considerando, poi, l’ulteriore assunto in base al quale i giudizi di “prevedibilità” ed “idoneità” sarebbero parificati, si giunge agevolmente a sostenere l’analogia

106 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 97. 107 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 97 – 98.108 Si riprende l’espressione utilizzata da S. CANESTRARI, op. ult. cit., 93 – 94, nell’ambito

di una dettagliata analisi critica della teoria in questione. 109 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit.110 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 92 – 93.111 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 94.112 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 93 – 94.113 M. DONINI, op. ult. cit., 329 – 340.

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strutturale fra responsabilità per dolo e responsabilità per colpa anche sul piano dell’idoneità114.

Ex post occorrerà, poi, un ulteriore giudizio, questa volta consistente nella verifica che l’evento effettivamente prodotto si configuri come concreta realizzazione del rischio illecito determinato dall’agente115: non potrà assumere rilevanza, quindi, qualsivoglia evento per il quale la condotta posta in essere dall’agente sia stata conditio sine qua non, ma assumerà rilevanza solo l’evento il quale sia effettivamente la realizzazione concreta del rischio non tollerato e connesso alla condotta.

Effettuando un’applicazione della teoria dell’imputazione oggettiva sul versante del dolo eventuale, è possibile concludere che anche ai fini dell’inquadramento di tale forma di dolo occorrerà una previa valutazione attinente alla prevedibilità oggettiva dell’esito della condotta116. È stata osservata, inoltre, la necessità di sussistenza, ai fini della responsabilità per dolo, di una “pericolosità statistica dell’azione compiuta”, la quale non potrà comunque essere inferiore a quella che, in mancanza di volizione, sarebbe stata necessaria per il fondamento della responsabilità colposa: non potrebbe darsi, quindi, responsabilità per dolo eventuale (o comunque indiretto) laddove, in assenza del requisito della volontà e fermo restando gli ulteriori requisiti ai fini dell’imputazione per colpa, essa non configurerebbe un rischio corrispondente a quello di una analoga realizzazione colposa del medesimo evento117.

A prescindere dai meriti riconosciuti alla teoria dell’imputazione oggettiva (dei quali si è già trattato), anche essa non è esente da critiche da parte degli esponenti della dottrina i quali evidenziano, invece, che la distinzione fra responsabilità dolosa e responsabilità colposa dovrebbe emergere anche sul piano oggettivo. In particolare, si pone l’accento sul fatto che il giudizio di prevedibilità non possa, effettivamente, essere sviluppato con modalità e tramite parametri identici sia nell’ipotesi di giudizio relativo a fattispecie dolosa, sia nell’ipotesi concernente fattispecie colposa. Nel dettaglio, il giudizio di riconoscibilità relativo ad ipotesi di colpa dovrebbe essere svolto principalmente con riferimento al modello dell’homo eiusdem conditionis et professionis: il soggetto che agisca con colpa (quindi in assenza di volontà di realizzazione dell’esito lesivo) sarebbe gravato dal dovere di rappresentarsi il rischio in quanto questo avrebbe potuto essere oggetto di rappresentazione da parte dell’homo eiusdem conditionis et professionis118. Vero è che possano acquisire rilevanza anche le eventuali superiori conoscenze possedute dall’agente concreto: ma queste non compromettono il ruolo focale rivestito dal parametro dell’”agente modello”119. In effetti si osserva che, sul versante della colpa, il parametro dell’“agente modello” risponderebbe ad un’ottica di garanzia, per i consociati, di spazi di libertà di azione, in linea con il concetto di “rischio

114 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 96. 115 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 95.116 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 96.117 Conclusioni descritte da S. CANESTRARI, op. ult. cit., 96 – 97. L’Autore richiama a sua

volta M. DONINI, op. ult. cit., 350. 118 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 100.119 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 100 – 101.

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consentito”, nonché con il principio di affidamento120. D’altra parte, sei ci si muove sul versante del dolo, il giudizio di riconoscibilità dovrebbe essere effettuato, fondamentalmente, in base a parametri che si estendono fino a coincidere con la “miglior scienza ed esperienza del tempo”: si dovrebbe tenere conto sia della rappresentabilità da parte di un “osservatore esperto”, sia delle eventuali conoscenze ulteriori effettivamente possedute dall’agente concreto; il tutto con riferimento alle cognizioni empiriche generali del tempo121. Invero, non si comprenderebbero altrimenti le ragioni per il conferimento di rilevanza, sul piano della responsabilità dolosa, ad eventuali capacità o condizioni dell’agente le quali siano inferiori alla media122.

5. La colpa cosciente e il trattamento aggravato ai sensi dell’art 61, n. 3., c.p.

La categoria della colpa cosciente (che sarebbe più corretto definire “colpa con previsione”) suscita, in sé e per sé, meno problematiche rispetto al dolo eventuale: relativamente a quest’ultimo, infatti, mancano elementi normativi definitori e classificatori che ne costituiscano un fondamento univoco e certo; non così, invece, per la colpa cosciente123.

Anzitutto, la definizione di “delitto colposo” di cui all’art. 43, comma 1 alinea 3, c.p., tramite l’inciso “anche se preveduto”, ammette la compatibilità della rappresentazione con la colpa: dal che risulta la configurabilità della colpa con rappresentazione124. In secondo luogo, l’art. 61, n. 3, c.p. prospetta, quale aggravante generica, “l’aver, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento”: si tratta, chiaramente, di un ulteriore fondamento normativo della colpa con previsione125.

Tralasciando, per il momento, il dettaglio delle questioni strettamente attinenti ai profili della distinzione fra dolo eventuale e colpa con previsione, è opportuno effettuare alcune precisazioni circa il trattamento aggravato prospettato dall’art. 61 n. 3: si evidenzia, infatti, come parte della dottrina (anche d’oltralpe) abbia posto in dubbio la fondatezza, tanto nell’ottica di una prospettiva retributiva, quanto alla luce di una prospettiva preventiva, di un trattamento più gravoso – rispetto al trattamento accordato a chi agisca senza porsi alcun interrogativo – per il soggetto che, prima della realizzazione della condotta, si sia soffermato a riflettere sulle possibili conseguenze di essa126.

Il dubbio appena esposto appare pienamente giustificato se si considera la prassi applicativa prevalente, in base alla quale la colpa con previsione si avrebbe qualora il soggetto, essendosi in un primo momento rappresentato la possibilità di realizzazione dell’evento, in una fase successiva sia giunto alla

120 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 102.121 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 101.122 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 102. 123 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 25.124 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit.125 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit.126 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit.

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“sicura fiducia” che l’evento non si sarebbe verificato127. In questo senso, in giurisprudenza si afferma che “sussiste […] la colpa cosciente, aggravata dalla previsione dell’evento, quando l’agente, pur rappresentandosi l’evento come possibile risultato della sua condotta, agisca tuttavia nella previsione e prospettazione che esso non si verifichi”128; o, ancora, che la colpa cosciente “consista nella astratta possibilità di realizzazione del fatto, accompagnata dalla sicura fiducia che in concreto esso non si realizzerà”129. In base a ricostruzioni di questo tipo, si giungerebbe a fondare il più gravoso trattamento sanzionatorio sul puro fatto della iniziale previsione dell’evento: il che potrebbe condurre a risultati inaccettabili, specie con riguardo a persone particolarmente ansiose e timorose, le quali verrebbero sottoposte ad un trattamento aggravato per il solo fatto di aver riflettuto sulla possibilità di realizzazione dell’evento130.

Del resto, può davvero affermarsi univocamente che l’agire senza porsi interrogativi, senza alcuno scrupolo, con atteggiamento di totale noncuranza, sia meno grave rispetto all’agire avendo preveduto l’evento? Nel senso di una risposta negativa sembra essere, tra l’altro, una relativamente recente pronuncia di merito, in base alla quale “lo stato psicologico del conducente di un autoveicolo, che non si rappresenta il binomio pericolo/convinzione di evitare eventuali incidenti, ma più semplicemente si muove nella più completa, nonché concretamente più grave, noncuranza di quanto può avvenire agli altri utenti della strada, si può definire non tanto come colpa cosciente […], ma come colpa grave per difetto di percezione sociale di propri atti” e “non può che portare all’individuazione di una pena base […] per il reato di omicidio colposo prossima ai massimi edittali”131.

In dottrina si ravvisa anche una particolare impostazione teorica in base alla quale la colpa cosciente si configurerebbe come errore di valutazione sulla prospettazione del decorso causale o sull’idoneità dei mezzi: mentre il dolo sarebbe caratterizzato da una decisione consapevole di attuazione di un processo causale in direzione della realizzazione dell’evento, la colpa cosciente sarebbe caratterizzata da un fenomeno psichico di erronea valutazione di quello che potrebbe essere il decorso causale132; in altri termini, nell’ipotesi della colpa cosciente, l’agente si rappresenterebbe sì l’evento come possibile

127 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 26. 128 Cass. Pen., Sez. I, 11 luglio 2011 (deposito 1 agosto 2011), n. 30472., in

dejure.giuffre.it 129 Cass. Pen., Sez. IV, 24 giugno 2009, n. 28231, in dejure.giuffre.it. In senso conforme,

tra le altre, anche Cass. Pen., Sez. V, 10 febbraio 2009, n. 13083, in Arch. giur. circol. e sinistri, 2009, 6, 516, ove è stata ravvisata colpa cosciente in relazione alla condotta del soggetto che, conducendo in modo spericolato un’autovettura, ed in stato di ebbrezza alcolica, versasse “nel convincimento […] di essere in grado […] di padroneggiare il veicolo di cui era alla guida, evitando i pur prevedibili eventi dannosi”; Cass. Pen., Sez. I, 19 giugno 2002, n. 28647, in dejure.giuffre.it (ai sensi della quale sussiste colpa cosciente allorché il soggetto, nonostante la rappresentazione “esclude il verificarsi dell’evento”); Cass. Pen., Sez. I, 14 giugno 2001, n. 30425, in dejure.giuffre.it (ove si identifica la colpa cosciente nell’ipotesi del soggetto che “pur essendosi rappresentato l’evento come possibile, abbia agito nella convinzione, giusta o sbagliata che sia” che l’evento non si sarebbe prodotto. In senso contrario Cass. Pen., Sez. I, 1 febbraio 2011 (deposito 15 marzo 2011), n. 10411, in dejure.giuffre.it, ove si pone in evidenza il fatto che il tenore letterale dell’art. 61 n. 3 postuli la persistenza, al momento della realizzazione della condotta, della rappresentazione in positivo dell’evento.

130 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit. 131 Trib. Milano, 21 novembre 2008, n. 2118, in dejure.giuffre.it.

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proiezione teleologica della propria condotta: tuttavia, incorrerebbe in un errore di valutazione del contesto complessivo attuale, il quale indurrebbe a sua volta ad una erronea percezione del possibile decorso causale; in casi di questo genere, mancando l’esatta rappresentazione del processo causale in direzione dell’offesa, la scelta di agire non potrebbe essere considerata come espressiva del requisito – ovviamente necessario ai fini del dolo – della volontà: l’agente non avrebbe deciso di operare in modo tale da provocare l’evento. Tuttavia – si osserva – anche tale ricostruzione non spiega comunque il trattamento aggravato di cui all’art 61 n. 3133, oltre al fatto che l’elemento dell’errore sul nesso causale, se da un lato può senz’altro essere catalogato come caratteristica descrittiva della colpa cosciente, dall’altro non può assurgere a criterio discretivo fra quest’ultima e il dolo eventuale134.

A ben vedere, l’unica interpretazione la quale consente di individuare il fondamento del trattamento aggravato di cui all’art. 61 n. 3 consiste nella concezione della colpa con previsione come caratterizzata da una scelta di agire nonostante la consapevolezza del fine teleologico della norma cautelare che avrebbe dovuto essere, invece, rispettata nel caso specifico135: vale a dire che l’agente versa in colpa con previsione qualora si determini a porre in essere la condotta avendo effettivamente percepito la regola cautelare violata dalla condotta stessa, nonché il fine teleologico della regola cautelare; ciò che si rimprovera all’agente è, dunque, la scelta di agire in contrasto con il contenuto teleologico della regola cautelare trasgredita, del quale egli ha avuto effettiva percezione: dal che la giustificazione del trattamento aggravato rispetto alla colpa incosciente.

D’altra parte, è stato anche evidenziato il fatto che la formula della “sicura fiducia che l’evento non si verificherà” o formule equivalenti siano in contrasto con il tenore letterale dell’art. 61 n. 3, il quale fa riferimento all’aver agito “nonostante la previsione dell’evento”: laddove il termine “nonostante”, indicando il permanere di un ostacolo che si dovrebbe imporre rispetto alla tenuta della condotta, implica la necessità della persistenza della previsione al momento della realizzazione della condotta stessa, ed esclude che tale previsione possa essere stata sostituita da una contro – previsione, o dalla previsione di un “non evento”; la norma fa riferimento, effettivamente, ad una rappresentazione positiva dell’evento, non ad una rappresentazione negativa, o del “non evento”136. Da tali considerazioni emerge la giustificazione del trattamento aggravato per la colpa con previsione: la previa rappresentazione dell’evento svela all’agente il rischio di produzione dell’evento stesso, e il fatto che egli agisca comunque rivela una più marcata adesione al fatto da parte del soggetto, legittimando una più gravosa risposta sanzionatoria137.

132 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, dolo di pericolo, 5017 - 5019. ID., Dolo eventuale e colpa cosciente, 139 ss.

133 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 27. 134 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 81.135 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 80, 86 – 87.136 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 28 – 29.137 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit. 38 – 39.

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6. Il dibattito nei lavori preparatori al codice penale sul criterio di imputazione per la realizzazione di eventi non intenzionali

Un breve excursus relativo ai lavori preparatori del codice Rocco risulta di particolare interesse ai fini della comprensione della portata che i compilatori del codice abbiano inteso conferire alle definizioni rispettive di “delitto doloso” e “delitto colposo” di cui all’attuale art. 43 c.p. (art. 46 del Progetto preliminare).

Due, nello specifico, i nodi emergenti: un primo di essi incentrato sul concetto di “intenzione”, nonché sui rapporti fra “intenzione” e “volontà” e, conseguentemente, sulla rilevanza, ai fini del dolo, della realizzazione di eventi non intenzionalmente presi di mira; un secondo incentrato principalmente sulla “colpa con previsione” e sulla distinzione di tale categoria rispetto al dolo.

È possibile, anzitutto, fare riferimento all’intervento di Arturo Rocco nell’ambito della seduta della Commissione ministeriale per il Progetto preliminare dell’11 marzo 1928138, dal quale si evince in primo luogo l’adesione, da parte sua, alla teoria della volontà: il dolo richiederebbe, quindi, tanto la previsione dell’evento, quanto la volontà di realizzazione dello stesso, e la volontà presupporrebbe a sua volta la rappresentazione; peraltro, l’ “intenzione” viene concepita come “volontà tendente ad uno scopo”; in base a tale impostazione, ciò che assume rilevanza ai fini della distinzione fra dolo, colpa e preterintenzione è il rapporto fra l’effetto realizzato e l’intento: si avrà dolo qualora l’effetto realizzato (cioè l’evento) sia conforme all’intento (secondo l’intenzione); colpa, qualora l’effetto realizzato sia contro l’intento (contro l’intenzione; non senza intenzione, dal momento che anche la condotta colposa è caratterizzata da una intenzione la quale, tuttavia, non coincide con l’evento dannoso); preterintenzione, qualora l’evento sia oltre (praeter) l’intenzione.

Ad una prima analisi, una ricostruzione di questo genere potrebbe essere interpretata come negazione della configurabilità di responsabilità per dolo in relazione a condotte che abbiano provocato eventi non intenzionalmente perseguiti; tuttavia, se si considerano in modo logico – sistematico le argomentazioni effettuate da Arturo Rocco, in coordinazione, peraltro, anche con i rilievi dallo stesso effettuati quindici anni prima rispetto ai lavori preparatori del codice penale139, si può delineare una concezione la quale rende compatibile la formula “secondo l’intenzione” rispetto alla realizzazione di eventi non intenzionalmente perseguiti. All’interno dell’opera “L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale”, l’Autore concepisce il reato come consistente sempre in una azione umana (o inazione) la quale produca volontariamente una modificazione del mondo esterno; tale modificazione del mondo esterno consiste a sua volta in un risultato dannoso o pericoloso; del resto, la volontà non è mai sussistente di per sé stessa, ma è sempre caratterizzata da un oggetto, il quale costituisce il fine, scopo o movente della volontà140. In base a tali assunti, in sintesi, la realizzazione del reato si configura come azione (od

138 Si fa riferimento, anche per i rilievi che seguono, ad estratti dell’intervento di Arturo Rocco nella seduta della Commissione ministeriale dell’11 marzo 1928, riportati testualmente anche da G. CERQUETTI, op. cit., 149 ss.

139 In Art. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, Torino, 1913, poi in Opere giuridiche, vol. I, Roma, 1932, 267 ss.

140 G. CERQUETTI, op. cit., 159 – 160, in analisi di Art. ROCCO, op. loc. cit.

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omissione) umana la quale produca un effetto di modificazione del mondo esterno in modo volontario, cioè con condotta correlata ad uno scopo o fine ultimo: ciò che assume rilevanza, nell’ottica dell’inquadramento del dolo, è il fatto che la modificazione del mondo esterno sia “volontaria” nel senso che sia “orientata ad uno scopo/fine ultimo”; non è, invece, necessario che l’effetto dannoso coincida effettivamente con il fine ultimo perseguito (ma è necessario, ai fini del dolo, che l’effetto provocato sia conforme al fine ultimo, e non contrario)141. L’evento è quindi “voluto” anche qualora non coincida lo scopo remoto o fine ultimo intenzionalmente perseguito, purché sia orientato a tale scopo remoto o fine ultimo.

Del resto è stato osservato che, qualora si interpretasse come oggetto della volontà il solo evento intenzionalmente perseguito, verrebbe a delinearsi un sistema ricavabile dall’art. 43 nell’ambito del quale, da un lato, gli eventi preveduti ed intenzionalmente perseguiti ricadrebbero nella sfera del dolo; dall’altro, gli eventi preveduti ma non intenzionalmente perseguiti ricadrebbero nella sfera della colpa; mentre, gli eventi preveduti ma non intenzionalmente perseguiti resterebbero non classificabili né come dolosi né come colposi142: conclusione che dovrebbe ritenersi non conforme ad un sistema concepito come completo143. La relazione del Guardasigilli Alfredo Rocco, peraltro, confermerà l’accezione di “intenzione” come “qualificazione” della volontà: sicché, in base ad essa, il reato è doloso allorché l’evento “si adegua all’intento”144.

Per quanto attiene alla questione relativa alla categoria della colpa con previsione, i commissari Marciano e Ferri sostenevano che essa integrasse, in realtà, una forma di dolo eventuale; il primo, in particolare, proponeva come soluzioni alternative l’eliminazione dell’inciso “anche se preveduto” dalla formula che definiva il delitto colposo ovvero, qualora si fosse mantenuto l’inciso, la distinzione fra colpa con previsione e colpa senza previsione145. Questioni più o meno analoghe si riproponevano in sede di Commissione parlamentare, laddove il Presidente della stessa, Mariano D’Amelio, rilevava l’incompatibilità fra previsione dell’evento e colpa146, nel senso che la previsione avrebbe – a suo parere – escluso la colpa e configurato il dolo: ma ad obiezioni di questo genere replicava il Ministro Guardasigilli, il quale osservava che la previsione non potesse implicare automaticamente la volontà, ribadendo la necessità di distinzione fra dolo e colpa principalmente sull’elemento volitivo147.

141 G. CERQUETTI, op. cit., 160 – 161.142 G. CERQUETTI, op. cit., 158.143 G. CERQUETTI, op. loc. cit.144 G. CERQUETTI, op. cit., 164. 145 G. CERQUETTI, op. cit., 154 – 155. Viene riportato tra l’altro l’esempio, addotto da

Marciano, relativo al cacciatore il quale, intendendo sparare ad un uccello poggiato su un ramo, constati che sulla stessa traiettoria vi sia un uomo, e non si astenga dallo sparare pur avendo previsto che, oltre all’uccello, avrebbe colpito anche l’uomo. L’esempio in questione tende ad evidenziare la differenza sostanziale fra l’ipotesi oggetto dell’esempio e il caso di chi, invece, adotti un comportamento imprudente in assenza di previsione: nel primo caso, vi sarebbe “direzione di volontà in rapporto all’evento”, essendo il reo “rimasto indifferente dinanzi alla conseguenza preveduta”.

146 G. CERQUETTI, op. cit., 171.147 G. CERQUETTI, op. cit., 173.

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In conclusione, è opportuno fare riferimento alla teoria sul dolo elaborata da Alfredo De Marsico, la quale sostanzialmente giunge a negare il dolo eventuale. Il punto di partenza dello sviluppo argomentativo dell’Autore in questione è la considerazione della necessità di individuare i rapporti fra rappresentazione e volontà e, più precisamente, di stabilire il quantum di rappresentazione necessario a dare vita alla volontà e a divenirne il contenuto148. De Marsico identifica tale quantum nella rappresentazione che abbia in sé una intensità propulsiva tale da prevalere su impulsi contrari o diversi: e tale momento si identificherebbe, appunto, con l’“intenzione”. In questi termini, il dolo viene identificato esclusivamente come intenzione di realizzazione dell’evento149. Si giunge quindi alla negazione della categoria del dolo eventuale, in base alla considerazione del fatto che l’evento non direttamente voluto, quand’anche sia dovuto ad una azione voluta, non possa presumersi a sua volta voluto: in casi di questo genere si ricadrebbe, pertanto, nell’ambito della colpa con previsione150.

De Marsico, tuttavia, giunge a sostenere la compatibilità della ricostruzione appena delineata con il dolo diretto: l’evento provocato con la propria azione e previsto come certo, sebbene non intenzionalmente preso di mira, sarebbe da considerarsi comunque come voluto nella sfera psicologica del soggetto agente, poiché “il fatto gli sta dinanzi come uno specchio in cui altro non si riflette che la volontà di produrlo”151.

CAPITOLO IITEORIE SUL CONFINE FRA DOLO EVENTUALE E COLPA

COSCIENTE

148 G. CERQUETTI, op. cit. 174 – 176, ove si analizza l’esposizione di A. DE MARSICO, Coscienza e volontà nella nozione di dolo, Napoli, Morano, 1930, 143 ss.

149 G. CERQUETTI, op. loc. ult. cit., con citazioni di A. DE MARSICO, op. loc. cit.150 G. CERQUETTI, op. cit., 177, con citazioni di A. DE MARSICO, op. loc. cit. 151 G. CERQUETTI, op. cit. 176, con citazioni di A. DE MARSICO, op. loc. cit.

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SOMMARIO: 1. Teorie della possibilità e della probabilità. – 2. Teorie dell’“operosa volontà di evitare” e del “rischio schermato”: la sostituzione dell’elemento psicologico volitivo con una valutazione oggettiva della condotta e del rischio. – 3. La valorizzazione degli stati emozionali o affettivi. – 4. Teoria dell’accettazione del rischio. – 5. Teoria della previsione in concreto o in astratto della realizzazione del fatto tipico, valorizzazione del profilo intellettivo e rischi di configurazione di dolo in re ipsa. – 6. La valorizzazione della conoscenza del rapporto causale fra condotta e risultato lesivo e teoria della “con – coscienza”. – 7. Formule di Frank e teoria dell’“accettazione con approvazione in senso giuridico dell’evento”: la valorizzazione del profilo volitivo. – 8. La concezione dell’“accettazione del rischio” come elemento comune a dolo eventuale e colpa cosciente. La distinzione basata sulle modalità psicologiche di accettazione del rischio. – 9. La distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente sul piano oggettivo del rischio e la descrizione della responsabilità per dolo eventuale in base all’analisi di tre livelli: rischio peculiare doloso, elemento intellettivo ed elemento volitivo. – 10. Dolo eventuale e colpa cosciente in relazione agli elementi del fatto tipico diversi dall’evento e nei reati di mera condotta. – 11. Dolo eventuale e colpa cosciente nei reati di pericolo. – 12. Dolo eventuale e colpa cosciente in relazione ai reati omissivi. – 13. Questioni relative alla prova dell’elemento soggettivo – 14. Rilevanza o irrilevanza del versari in re illicita? – 15. La tesi a sostegno della coincidenza sostanziale fra dolo eventuale e colpa cosciente, nonché dell’incostituzionalità dell’applicazione del dolo eventuale.

1. Teorie della possibilità e della probabilità

Le numerose teorie sull’individuazione del discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente sono perlopiù classificabili in base al grado di rilevanza che venga attribuito di volta in volta, e rispettivamente, all’elemento intellettivo, a quello volitivo o, nello specifico, all’esame inerente il livello psicologico del soggetto agente152: le teorie della possibilità e della probabilità sono riconducibili al paradigma della teoria della rappresentazione, conformemente alla quale soltanto l’azione potrebbe essere oggetto di rappresentazione e volontà, mentre l’evento, o comunque gli elementi del fatto tipico diversi dalla condotta materiale, potrebbero essere oggetto di sola rappresentazione, ma non di volontà – intendendosi per “volontà” un “impulso fisico ai nervi motori”, il quale necessariamente dovrebbe, quindi, avere ad oggetto solo il “movimento” umano o la “persistenza nello stato di quiete”, e non le conseguenze dell’azione153.

Il modello prospettato dalla teoria della rappresentazione valorizza, evidentemente, il profilo intellettivo, a scapito dell’elemento volitivo: in effetti, le teorie della possibilità e della probabilità – riconducibili al paradigma della teoria della rappresentazione –, fondamentalmente, escludono la rilevanza di coefficienti volitivi.

In linea di massima, è possibile fin da subito preannunciare che tali teorie non appaiano pienamente soddisfacenti ai fini della descrizione delle differenze fra dolo eventuale e colpa cosciente: la teoria della possibilità, in effetti, anche nella sue formulazioni probabilmente più esaustive (ad esempio quella prospettata da Marcello Gallo), ricade in contrasto con la descrizione normativa della colpa con previsione ricavabile dall’art. 61 n. 3 c.p.; la teoria della probabilità, d’altra parte, giunge ad inquadrare una distinzione di carattere meramente quantitativo fra dolo eventuale e colpa cosciente, con la

152 G. LATTANZI – E. LUPO, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Milano, Giuffrè, 2010, Vol. II, 324.

153 M. GALLO, Il dolo, 164 ss. e 214 ss.

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conseguenza che si dovrebbe ricorrere – volendo accogliere la teoria in questione – a valutazioni di tipo statistico ai fini della differenziazione fra le due categorie di elemento soggettivo di cui si sta trattando: conseguenza ritenuta inadeguata da gran parte della dottrina154. Il tutto tralasciando il fatto – per nulla di secondo piano – che in entrambi i casi verrebbe relegata, se non eliminata, l’importanza dell’elemento volitivo, dal legislatore invece espressamente richiesto ai fini del dolo, ed espressamente escluso ai fini della colpa.

Per quanto concerne la teoria della possibilità, essa postula una distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente basata sull’assunto che il primo sarebbe integrato alla luce della sola sussistenza dell’elemento rappresentativo: la rappresentazione della possibilità di verificazione dell’evento risulterebbe, quindi, sufficiente ai fini della configurazione del dolo eventuale; il che, tuttavia, condurrebbe alla esclusione della categoria della colpa “con previsione”155: se si concepisce il dolo eventuale come integrato in base alla sola rappresentazione della possibilità di verificazione dell’evento, la colpa diviene incompatibile con la previsione (questa darebbe luogo, infatti, al dolo). Già in base a queste prime osservazioni, risulta una evidente discrepanza tra la concezione fatta propria dalla teoria della possibilità e il fondamento normativo della colpa cosciente: l’art 61, n. 3, c.p., prospettando quale circostanza aggravante comune per i delitti colposi il fatto di aver agito “nonostante la previsione dell’evento”, ammette la configurazione di una categoria di colpa che sia caratterizzata effettivamente dall’elemento della previsione156. Inoltre, appare quantomeno arbitrario trascurare il requisito della volontà, espressamente richiesto come elemento strutturale del dolo (art. 43, comma 1, alinea 1, c.p.) ed espressamente escluso ai fini della colpa (art. 43, comma 1, alinea 3, c.p.)157: la rappresentazione della possibilità di verificazione dell’evento, seppur concreta, non è di per sé sufficiente a fondare automaticamente la volizione, e non deve condurre all’utilizzo di disinvolte equazioni fra componente intellettiva e componente volitiva158.

154 Vari Autori concordano nel ritenere che, al più, il criterio basato sulla probabilità possa essere utilizzato al fine di trarre elementi indizianti per la qualificazione dell’elemento soggettivo. Fra questi, S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, 35; S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, 44. Coerentemente, del resto, si tende a sottolineare il fatto che dolo e colpa siano, in effetti, elementi qualitativamente diversi: dal che l’inadeguatezza di una distinzione di carattere puramente quantitativo fra essi (e, quindi, dell’attribuzione di carattere decisivo, e non limitato alla sola valenza indiziante, ad aspetti di carattere quantitativo). In quest’ultimo senso, tra gli altri, G. LICCI, Dolo eventuale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 4, 1505.

155S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, 36.156S. CANESTRARI, op. ult. cit., 38.157 Cfr. G. FORTE, Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed

incostituzionalità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 2, 829 – 830, ove si evidenzia che l’attuale art. 43 c.p. incentri la nozione di dolo proprio sul requisito della volontà; il che si ricaverebbe anche, in negativo, considerando la definizione di “delitto colposo”.

158S. CANESTRARI, op. ult. cit., 34, ove l’Autore esprime le proprie osservazioni con riferimento specifico alla teoria della probabilità: tuttavia, si tratta di osservazioni chiaramente valide anche con riferimento alla teoria della possibilità, in quanto in entrambi i casi viene in rilievo una eccessiva valorizzazione del profilo intellettivo a scapito del profilo volitivo. Nello stesso senso G. FORNASARI, I criteri di imputazione soggettiva del delitto di bancarotta semplice, in Giur. comm., 1988, 682.

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In sostanza, prevedere (ed agire nonostante la previsione) non equivale, di per sé, a volere; si tratta di requisiti (previsione e volontà) strutturali distinti del dolo, entrambi necessari ai fini dell’integrazione del dolo stesso. Del resto, possono senz’altro darsi situazioni in cui sussiste rappresentazione in assenza dell’elemento volitivo, nell’ambito delle quali l’agente si determina all’azione per negligenza, leggerezza, imprudenza, temerarietà: quindi con connotati propriamente colposi159.

Si può notare, inoltre, che la teoria della possibilità non richieda la rappresentazione di una “elevata probabilità” di verificazione dell’evento: per cui, potrebbero darsi situazioni in cui non vi siano neppure elementi indizianti a favore della sussistenza del requisito volitivo che, tuttavia, verrebbero automaticamente ricondotte alla sfera del dolo (eventuale).

Si è osservato, peraltro, che le impostazioni le quali, nell’ottica dell’inquadramento del dolo, prescindono dal requisito della volontà, espressamente indicato dall’art. 43 c.p. ai fini dell’integrazione del “delitto doloso”, costituirebbero palese violazione dei connotati tipici della fattispecie e, conseguentemente, dell’art. 25 Cost., essendo quest’ultimo riferito non solo alle norme di parte speciale del codice penale, bensì anche alle norme di parte generale160.

Risulta particolarmente interessante, ad ogni modo, lo sviluppo argomentativo attraverso il quale Marcello Gallo ha tentato di prospettare una configurazione della teoria della possibilità che possa risultare compatibile con la categoria della colpa cosciente161: l’Autore in questione prende le mosse dalla distinzione fra eventi intenzionalmente perseguiti, eventi previsti come certi, eventi non previsti, ed eventi non intenzionalmente perseguiti e previsti come solamente possibili. Quanto agli eventi intenzionalmente perseguiti, per essi si avrebbe l’imputazione a titolo di dolo (intenzionale, in questo caso) fossero essi stati previsti, rispettivamente, come certi o come solamente possibili; quanto agli eventi previsti come certi, relativamente ad essi si avrebbe l’imputazione a titolo di dolo (diretto, in questo caso) a prescindere dal carattere intenzionale o meno della realizzazione. Per quel che riguarda gli eventi non previsti, l’unica ipotesi configurabile sarebbe quella della colpa incosciente. La questione più complessa si pone quindi, in via residuale rispetto alle considerazioni fin qui sviluppate, in maniera circoscritta agli eventi previsti come possibili (quindi, non come certi) e non intenzionalmente perseguiti, in relazione ai quali si configurerebbe colpa cosciente nell’ipotesi in cui l’agente passi da una “previsione della possibilità” di realizzazione dell’evento ad una “previsione negativa” o “controprevisione”: si avrà, cioè, colpa cosciente nel caso in cui

159S. CANESTRARI, op. ult. cit., 36 – 37. L’Autore, tra l’altro, riporta l’esempio del cacciatore che, agendo con leggerezza o temerarietà, non prenda sul serio la possibilità di presenza di un guardacaccia dietro un cespuglio, nella direzione del quale egli spari un colpo.

160 G. FORTE, op. ult. cit., 831. 161 Per l’intera esposizione della teoria di Marcello Gallo, cfr. M. GALLO, voce Dolo, 790

ss. Da notare, peraltro, il fatto che l’Autore in questione giunga anche a coordinare le proprie considerazioni con riferimenti relativi all’accettazione del rischio: “Se una persona si determina ad una certa condotta, malgrado la previsione che essa possa sboccare in un fatto di reato, ciò significa che accetta il rischio implicito nel verificarsi dell'evento; qualora avesse voluto sottrarsi a tale rischio, qualora non avesse acconsentito all'evento, evidentemente non avrebbe agito.” (ivi, 792.)

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l’agente, rappresentatosi originariamente la possibilità di realizzazione di un evento, giunga successivamente ad escludere tale possibilità, rimuovendola dalla sfera della propria coscienza, e sostituendo l’iniziale rappresentazione della possibilità di verificazione dell’evento con la convinzione che “l’evento non si verificherà”. Qualora, dunque, venga realizzato un evento penalmente rilevante, originariamente previsto come possibile, sussisterebbe colpa cosciente allorquando l’atteggiamento psicologico dell’agente fosse stato interessato dal passaggio da una rappresentazione generica relativa alla possibilità di realizzazione del reato, ad una previsione concreta e negativa in merito alla realizzazione del reato stesso, comportando la convinzione che il fatto (originariamente previsto come possibile) non si sarebbe verificato162. Ritornando, quindi, sul versante del dolo, sarà possibile l’imputazione per dolo eventuale nel caso in cui l’agente si fosse determinato a realizzare la condotta in presenza della rappresentazione della mera possibilità di verificazione dell’evento – quand’anche si tratti di evento non intenzionalmente perseguito – ed allorché tale rappresentazione non fosse stata sostituita da una “rappresentazione negativa” nei termini suddetti: in questo caso, la rimproverabilità del comportamento del soggetto non risiede nella leggerezza della condotta, bensì sul fatto che il soggetto stesso abbia agito nonostante la previsione della possibilità di realizzazione di un illecito penale163.

In giurisprudenza, peraltro, sono rilevabili numerose sentenze che, pur contemplando il criterio dell’ “accettazione del rischio” (e non la teoria della possibilità intesa in senso stretto), riecheggiano la ricostruzione prospettata da Gallo per quanto concerne la descrizione della colpa cosciente, la quale si avrebbe qualora l’agente abbia posto in essere la condotta trovandosi in una situazione psichica caratterizzata dalla rimozione della previsione positiva dell’evento, o dalla sicura fiducia che esso non si sarebbe verificato. In questo senso, ad esempio, si è affermata in un caso specifico la colpa cosciente in capo ad un soggetto sieropositivo, il quale aveva contagiato la moglie tramite rapporti sessuali non protetti, nonostante egli fosse consapevole del proprio stato di sieropositività, nonché delle modalità di contagio: secondo i giudici di legittimità, l’imputato, a causa del suo modesto livello culturale, ed in considerazione del fatto che lui stesso avesse per anni goduto di condizioni di salute sommariamente buone, avrebbe rimosso psicologicamente l’eventualità del contagio e della conseguente possibilità di decesso della moglie (il contagio aveva in effetti, nel caso specifico, condotto al decesso della vittima); il tutto avrebbe, quindi, escluso l’elemento volitivo necessario ai fini della sussistenza del dolo, inquadrando invece la colpa aggravata dalla previsione dell’evento164. Ancora, si potrebbe fare riferimento all’esempio dell’automobilista, il quale

162 Fornisce un’ottima spiegazione della teoria in questione, pur non condividendola, E. DI SALVO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 1935, ove si adduce, tra l’altro, l’esempio del soggetto il quale lanci una pietra contro un gruppo di persone che lo abbiano provocato, prevedendo la possibilità di causare effetti lesivi e colpendo effettivamente una di esse: si avrebbe dolo eventuale nell’ipotesi in cui l’agente non fosse giunto ad escludere la possibilità di ferimento, mentre si configurerebbe colpa cosciente qualora l’agente avesse posto in essere la condotta nella convinzione di non ferire nessuno, confidando nella propria abilità.

163 M. GALLO, op. loc. ult. cit. 164 Cass. Pen., Sez. I, 14 giugno 2001, n. 30425, in dejure.giuffre.it. Relativamente ad

essa si veda anche E. DI SALVO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 1933 – 1934.

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conduca in modo imprudente e spericolato un’autovettura agendo, tuttavia, nella convinzione che non si verificheranno eventi lesivi a causa di tale tipo di condotta, confidando sulle proprie abilità di guidatore: anche in casi di questo genere è stata configurata la colpa cosciente165. In altre occasioni, la Cassazione ha addirittura evidenziato, su questa stessa linea, che il limite del dolo eventuale (e, quindi, l’inquadramento della colpa cosciente) sia dato dalla certezza che gli eventi, i quali siano oggetto di rappresentazione da parte dell’agente, non si verificheranno166; non pare una forzatura eccessiva ritenere che, se si accogliesse una impostazione di questo genere, per cui ai fini della realizzazione di fattispecie con colpa cosciente sarebbe necessaria la certezza di non verificazione dell’evento, ne conseguirebbe che la semplice rappresentazione della possibilità di realizzazione dello stesso dovrebbe edificare il dolo eventuale: tale assetto risulterebbe del tutto conforme alla teoria della possibilità. Per quanto si tenti di inquadrare comunque, in una ricostruzione di questo tipo, un profilo volitivo, il rischio di configurazione di un dolus in re ipsa, per il solo fatto che il soggetto abbia agito nonostante la previsione dell’evento, permane.

Ritornando al “correttivo” apportato da Marcello Gallo alla teoria della possibilità, relativamente ad esso sono state mosse varie critiche. In primo luogo, ancora una volta, si osserva il fatto che il tenore letterale dell’art. 61 n. 3 c.p. (“nonostante la previsione”) dovrebbe implicare la persistenza della previsione dell’evento al momento in cui si concretizzi la condotta, con esclusione – giocoforza – della rilevanza della “rappresentazione negativa” alla quale fa riferimento Gallo167: il passaggio dal giudizio sulla possibilità della verificazione dell’evento a quello sulla esclusione di tale possibilità comporta il venir meno della rappresentazione positiva dell’evento stesso, richiesta dall’art. 61 n. 3 c.p., e configura una concezione della colpa cosciente che risulta non compatibile con il tenore letterale della relativa norma di riferimento del codice penale168. Si è puntualmente osservato che la “previsione negativa”, se da un lato è incompatibile con il dolo, dall’altro non si armonizza neppure con la colpa cosciente: è sufficiente ad escludere il primo, ma non è sufficiente ad affermare la seconda (è – anzi – incompatibile con la stessa)169. In secondo luogo,

165 Cass. Pen., Sez. V, 10 febbraio 2009, n. 13083, in Arch. giur. circol. e sinistri, 2009, 6, 516.

166 Cass. Pen., Sez. I, 17 marzo 1980, in C.E.D. Cass., n. 145219, a sua volta richiamata da E. DI SALVO, op. ult. cit., 1935, nota (8).

167 S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, 28. In senso concorde anche E. DI SALVO, op. ult. cit., 1944.; G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 136.

168 Osservazioni di questo genere, peraltro, erano già state effettuate da Giacomo Delitalia. Si fa riferimento, in particolare, a G. DELITALIA, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Annuario dell’Università Cattolica del S. Cuore, Milano, 1932, ora in Diritto penale. Raccolta degli scritti, vol. I, Milano, Giuffrè, 1976, 433 ss. Ai fini che qui interessano risulta particolarmente significativo il seguente estratto: “Quando […] l’agente, pur essendo consapevole della pericolosità astratta dell’azione, ritiene in conseguenza di un giudizio alogico, e perciò appunto colpevole, che nel singolo caso il risultato non si avrà a verificare, non è possibile parlare di dolo. Ma non è forse neppure il caso di parlare di colpa cosciente, perché, in questi casi, la coscienza della pericolosità dell’azione è stata sopraffatta dal convincimento che, in quella singola ipotesi, il risultato non avesse a verificarsi, e tanto vale non prevedere un effetto quanto prevedere che l’effetto non si verifichi.”

169 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 137.

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un’applicazione della teoria della possibilità elaborata nei termini suddetti condurrebbe ad un eccessivo ampliamento della sfera di attribuzione della responsabilità per dolo, a scapito delle sfere della responsabilità colposa e preterintenzionale: si giungerebbe, infatti, a sussumere nell’ambito del dolo qualsiasi evento previsto dall’agente ed eziologicamente connesso alla sua condotta, anche in ipotesi di previsione di probabilità medio – bassa, o di mera possibilità; il che risulta inconcepibile nell’ottica di un diritto penale costituzionalmente orientato e basato sul principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.)170.

Un ulteriore tentativo di correzione della teoria della possibilità è stato effettuato nell’ambito della dottrina d’oltralpe, in particolare da parte di Shmidhauser: l’impostazione da questi sostenuta prevede che debba configurarsi dolo eventuale qualora l’agente abbia consapevolezza della concreta pericolosità di lesione di un bene giuridico, mentre si avrebbe colpa cosciente nel caso in cui la consapevolezza dell’agente riguardi una astratta pericolosità insita nella condotta tenuta171. Sennonché, neppure tale sviluppo teorico risulta convincente, in quanto non si comprenderebbe in base a quale fondamento la colpa cosciente non debba richiedere la piena conoscenza della concreta pericolosità della condotta172; peraltro è stato osservato che, qualora si richiedesse per la colpa cosciente soltanto la consapevolezza della mera pericolosità astratta della condotta, si giungerebbe a configurare colpa cosciente in ogni ipotesi in cui sia realizzato un reato colposo nell’abito di attività astrattamente pericolose173. Non risulta convincente neppure l’interpretazione della teoria in questione in base alla quale i caratteri di concretezza o astrattezza andrebbero riferiti non già al contesto in cui il soggetto realizzi la condotta, bensì all’evento lesivo derivante dalla condotta

170 Considerazioni conformi sono sviluppate da E. DI SALVO, op. ult. cit., 1939 - 1940: “[…]l’imputazione alla volontà del reo dell’intero ventaglio di accadimenti riconducibili eziologicamente al suo operato e da lui previsti – quale che sia il grado di probabilità con cui, nel suo orizzonte previsionale, essi si siano profilati – non sembra potersi effettuare se non a prezzo di una degradazione del dolo a mera fictio juris”. Emblematici sono, inoltre, gli esempi addotti dall’Autore al fine di porre in evidenza quella che sarebbe l’eccessiva dilatazione della sfera della responsabilità per dolo a scapito della sfera della preterintenzione: “Si pensi ancora al caso di chi, trovandosi su un sentiero accidentato e disseminato di pietre, dia, nel contesto di un alterco, una spinta ad altra persona. L’eventualità che il soggetto passivo, a seguito della spinta, perda l’equilibrio e cada su una pietra, procurandosi lesioni al cranio che ne provochino la morte, non è certamente tale da poter essere prevista dal reo in termini di certezza o di elevata probabilità. Tuttavia essa, appartenendo comunque all’ambito del concretamente accadibile – e non certo del remoto –, non può non essersi affacciata nella mente del reo. […] dovrebbe pervenirsi alla conclusione, evidentemente incongrua, che, essendosi l’evento-morte prospettato come possibile, nell’ottica dell’agente, questi dovrebbe rispondere di omicidio volontario a titolo di dolo eventuale, e non di omicidio preterintenzionale.”

171 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 37.172 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit. Rilievi analoghi sono esposti da G. DE FRANCESCO,

Dolo eventuale e colpa cosciente, 122; l’Autore cita a sua volta C. ROXIN, Zur Abgrenzung von bedingtem Vorsatz und bewusster Fahrlassigkeit, in JuS, 1964, 53 ss, ripubblicato su Strafrechtliche Grundlagenprobleme, 1973, 230; viene addotto, in particolare, l’esempio del guidatore che effettui una pericolosissima manovra di sorpasso: egli potrà certamente rappresentarsi il rischio concreto connesso alla sua azione e ritenere, del resto, di poterlo evitare, seppur “per superficialità, per avventatezza, per spavalda fiducia nelle proprie doti di guidatore”.

173 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 38.

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stessa: tale impostazione non risulterebbe decisiva, in particolare, ai fini dell’inquadramento della colpa con previsione, dato che nella maggior parte dei casi sussiste un legame inscindibile fra previsione astratta dell’evento e consapevolezza della pericolosità astratta della condotta; inoltre, una ricostruzione di questo genere risulterebbe in contraddizione con le principali e moderne teorie inerenti la colpa, le quali valorizzano in misura sempre maggiore il nesso fra violazione di regole cautelari ed evento lesivo concretamente realizzato174.

Un’ultima fase di analisi relativa alla teoria della possibilità deve riguardare la questione inerente l’elemento del dubbio: più precisamente, qualora si accolga lo sviluppo teorico per cui la colpa cosciente presupporrebbe la rimozione della rappresentazione positiva dell’evento, o la sostituzione di essa con una rappresentazione negativa, ovvero la sicura fiducia o “certezza” della non realizzazione dell’evento, necessariamente si dovrebbe concludere che la colpa cosciente esiga un superamento dello stato di dubbio175; e, di conseguenza, che lo stato di dubbio (sulla realizzazione dell’evento) sarebbe sufficiente ad indicare il dolo eventuale176. Sennonché, torna nuovamente in questione l’osservazione del tenore letterale dell’art. 61, n.3, c.p., il quale postula la persistenza della rappresentazione positiva dell’evento al momento di realizzazione della condotta: in base a tale rilievo, il dubbio appare compatibile anche con la colpa cosciente, e non è certo elemento decisivo ai fini dell’identificazione del dolo; è compatibile sia con il dolo eventuale che con la colpa cosciente, per cui non può essere, di per sé, sufficiente ad integrare il primo177; del resto, solo l’errore o l’ignoranza escludono radicalmente il dolo178. Peraltro, proprio richiamando la correlazione fra art. 43 ed art. 47 c.p., nonché la concezione dell’oggetto del dolo come inquadrabile nel fatto tipico unitariamente inteso, si giunge a sostenere che tali considerazioni siano riconducibili anche al livello del dubbio concernente i presupposti della condotta179.

Passando all’analisi della teoria della probabilità, essa prospetta quale criterio distintivo fra colpa cosciente e dolo eventuale il binomio possibilità – probabilità: l’agente verserebbe in dolo eventuale allorquando avesse posto in essere la condotta essendosi rappresentato la verificazione dell’evento come probabile, mentre si resterebbe nell’ambito della colpa cosciente nel caso in cui l’agente avesse realizzato la condotta essendosi rappresentato una mera possibilità di verificazione dell’evento180. Il termine “possibilità” indica evidentemente una “bassa probabilità”, dal momento che la probabilità presuppone a sua volta la possibilità, ed ogni evento probabile deve necessariamente essere anche possibile. È chiaro il fatto che un assetto di questo tipo trova il proprio fondamento su analisi di carattere meramente quantitativo e, addirittura, statistico, risultando quindi inadeguato ai fini della

174 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit.175 E. DI SALVO, op. ult. cit., 1935.176 M. GALLO, voce Dolo, 792.177 S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, 29. 178 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 54, il quale cita a sua volta M. GALLO, voce Dolo, 759. 179 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 54.180 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 33.

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valutazione del discrimen fra le categorie di elemento soggettivo in esame: anzitutto, qualora si accogliesse tale impostazione, si resterebbe senz’altro in un ambito di carattere piuttosto indefinito181, non essendo di individuazione certa la soglia di probabilità statistica al di sopra della quale la mera possibilità divenga probabilità; il limite appena accennato potrebbe essere risolto solamente determinando in modo arbitrario la percentuale statistica di probabilità al di sopra della quale si acceda alla sfera del dolo eventuale e al di sotto della quale si resti nella sfera della colpa cosciente; ma una soluzione di questo genere è sicuramente inconcepibile, in quanto verrebbe a rendere necessario, ai fini della configurabilità dell’uno o dell’altro elemento soggettivo, che il soggetto avesse riflettuto mentalmente (a livello di rappresentazione) sulle diverse soglie di percentuale di probabilità: il che è assolutamente infrequente182.

Un’ulteriore critica alla teoria della probabilità è data, ancora una volta (analogamente a quanto rilevato con riferimento alla teoria della possibilità), dal mancato riferimento al requisito volitivo che, nell’ordinamento italiano, è espressamente prescritto dal legislatore ai fini della configurazione del dolo, ed espressamente escluso ai fini della colpa183.

Parte della dottrina tedesca ha, peraltro, tentato di introdurre correttivi alla teoria della probabilità, sostenendo che si avrebbe dolo eventuale nel caso in cui il soggetto agente si fosse rappresentato la produzione, tramite la propria condotta, di un pericolo concreto per un bene giuridico, nonché un quantum di fattori causali tale da generare un rischio da prendere sul serio184: tale ricostruzione non appare soddisfacente sul piano sostanziale185, oltre ad esporsi a critiche simili a quelle mosse relativamente ai correttivi tentati con riguardo alla teoria della possibilità (non si comprenderebbe per quale ragione la colpa cosciente dovrebbe escludere la rappresentazione concreta del pericolo).

È il caso di rilevare che anche Marcello Gallo, pur aderendo in linea di massima alla teoria della rappresentazione, critica negativamente la teoria della probabilità, ponendo l’accento sull’inadeguatezza del tentativo di identificare una distinzione di carattere meramente quantitativo fra elementi che, in effetti, sono qualitativamente diversi, oltre che sulla difficoltà nella quale incorrerebbe l’organo giudicante nell’individuare la soglia che debba fungere da spartiacque tra possibilità e probabilità186.

Nondimeno, vanno evidenziati i rischi connessi all’accoglimento di impostazioni di questo genere (cioè basate su una distinzione di carattere meramente quantitativo fra dolo eventuale e colpa cosciente, ed in considerazione del solo profilo intellettivo, con attribuzione di rilevanza marginale o nulla al profilo volitivo), con particolare riferimento al versante processuale ed alla prova dell’elemento soggettivo: poiché tale prova si basa necessariamente su regole d’esperienza – stante l’impossibilità di svolgimento di un’indagine diretta sui processi psichici del soggetto –, l’adesione alla teoria

181 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit. 182 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 34.183 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 34 – 35.184 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 34.185 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit.186 M. GALLO, Il dolo, 216 – 217.

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della probabilità amplifica il pericolo di ricorso a presunzioni di dolo, ovvero di configurazione di dolus in re ipsa, in ipotesi in cui il soggetto avesse agito in presenza di oggettive probabilità medio – elevate di verificazione dell’evento lesivo187. Il ricorso a schemi presuntivi, invero, è ritenuto inammissibile da autorevole dottrina, la quale sottolinea che il dolo debba essere inteso come “coscienza” e “volontà” effettive e reali: ragion per cui tali componenti strutturali del dolo stesso debbano essere oggetto di effettivo accertamento; se, quindi, da un lato è ammesso il ricorso a regole d’esperienza (dato che, altrimenti, la prova del dolo diverrebbe una probatio diabolica), dall’altro è da escludere l’ammissibilità del ricorso a presunzioni di dolo188. Ulteriore rischio connesso a quanto appena esposto è quello di una eccessiva dilatazione delle ipotesi di responsabilità per dolo nonché, se si tratta di reati non punibili a titolo di colpa, dell’ambito della punibilità.

In effetti, in giurisprudenza, si può notare una tendenza che, pur basata principalmente sul ricorso al criterio dell’“accettazione del rischio”, concepisce una certa correlazione fra quest’ultimo elemento e la sussistenza della previsione in concreto della possibilità, o previsione della probabilità medio – alta, di verificazione dell’evento penalmente rilevante189: in altri termini, la giurisprudenza in questione ritiene configurabile (o provata) l’accettazione del rischio da parte dell’agente solo quando si sia in presenza di una rappresentazione, da parte dell’agente stesso, di un grado di probabilità medio – alto di verificazione dell’evento.

Sulla stessa linea, ma con alcuni contenuti aggiuntivi nell’ottica di una distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente che non risulti meramente quantitativa, si è espressa anche parte della dottrina, la quale ha evidenziato il fatto che l’elemento volitivo sarebbe, ai fini dell’inquadramento del dolo eventuale, integrato soltanto qualora l’agente si fosse determinato a porre in essere la condotta avendo previsto un livello elevato di probabilità di verificazione dell’evento: si sostiene che le ipotesi di realizzazione di un evento previsto come meramente possibile o scarsamente probabile debbano essere ascritte alla sfera della colpa cosciente, e debbano quindi esulare dalla sfera del dolo; quest’ultimo si configurerebbe, invece, solamente in caso di realizzazione di eventi previsti come altamente probabili o certi190. Si evidenzia, insomma, che la nozione di “delitto doloso” di cui all’art. 43, comma 1, alinea 1, c.p., richieda pur sempre il requisito della volontà, il quale sarebbe soddisfatto soltanto

187 Cfr. G. LATTANZI – E. LUPO, op. cit., 328. 188 In questo senso, chiaramente, G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 367 – 368. Gli

Autori, tra l’altro, rigettano espressamente l’orientamento giurisprudenziale il quale tende a presumere il dolo, salvo prova contraria, in ipotesi in cui la prova del dolo risulti particolarmente difficile, ovvero nei casi di fattispecie “pregnante”; viene addotto, a supporto di tale critica, l’esempio del reato di falso: la volontà di falsificare non potrà essere considerata implicita nella falsificazione, dal momento che il soggetto potrebbe aver falsificato per leggerezza o superficialità (quindi alla luce di connotati propriamente colposi).

189 Anticipando brevemente l’argomento relativo alla teoria dell’accettazione del rischio, nonché alla teoria della distinzione basata sulla previsione in concreto o in astratto della possibilità o probabilità di verificazione dell’evento, si può fare riferimento a Cass. Pen., Sez. V, 17 settembre 2008 (dep. 1 dicembre 2008), n. 44712, in www.altalex.com ; Cass. Pen., Sez. I, 8 novembre 1995, n. 832, in Cass. pen., 1997, 4, 991; Cass. Pen., Sez. I, 21 aprile 1994, n. 4583, in Cass. pen., 1995, 7/8, 1837.

190 E. DI SALVO, op. ult. cit., 1943.

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qualora l’agente si fosse determinato a porre in essere la condotta essendosi rappresentato una elevata probabilità di realizzazione, tramite essa, di un evento lesivo: in questo caso non verrebbero in questione soltanto elementi discretivi di carattere quantitativo, poiché la scelta di agire a fronte della rappresentazione dell’elevata probabilità di verificazione dell’evento configurerebbe un quadro psicologico qualitativamente diverso rispetto a quello caratteristico di chi si determini ad agire di fronte alla previsione di una scarsa probabilità di verificazione dell’evento stesso191. La conclusione di tali considerazioni sarebbe, giocoforza, quella di ascrivere questa seconda ipotesi alla sfera della colpa cosciente192.

È possibile, a questo punto, trarre alcune considerazioni in merito all’analisi svolta relativamente alle teorie della possibilità e della probabilità, prospettando l’inquadramento di tali teorie nell’ambito di un polo tendente ad una concezione oggettiva del requisito volitivo, la quale implica una considerazione della struttura del dolo come imperniata fondamentalmente sull’elemento intellettivo, nonché una valutazione del dato volitivo in base all’interpretazione normativa della condotta posta in essere dall’agente (in questo senso si parla di “oggettivizzazione” del dolo, o dell’elemento volitivo)193: sostanzialmente, significa che l’elemento – base nell’ambito della struttura del dolo viene individuato solamente nella componente della rappresentazione, mentre la volizione non viene concepita come dato di carattere psicologico, bensì inquadrata attraverso l’analisi oggettiva del comportamento tenuto dall’agente.

Riconducibili al paradigma dell’oggettivizzazione dell’elemento volitivo sono anche ulteriori teorie elaborate, principalmente, da parte della dottrina tedesca: si fa riferimento, in particolare, alle teorie della “operosa volontà di evitare” e del “rischio schermato”.

2. Teorie dell’ “operosa volontà di evitare” e del “rischio schermato”: la sostituzione dell’elemento psicologico volitivo con una valutazione oggettiva della condotta e del rischio

La teoria dell’“operosa volontà di evitare”, elaborata principalmente da Armin Kaufmann, ritiene che escluda il dolo eventuale il manifestarsi di una volontà di attivazione operosa per l’impedimento della realizzazione di un fatto lesivo, previsto come potenziale conseguenza accessoria di una condotta; tale volontà acquisterebbe rilevanza ai fini dell’esclusione del dolo (fermo restando la configurabilità della colpa cosciente) soltanto qualora l’autore si fosse effettivamente attivato nell’adozione di contromisure volte ad evitare la realizzazione dell’evento lesivo (o ridurne le possibilità/probabilità di realizzazione)194: in altri termini, l’adozione di misure volte ad evitare l’evento esternerebbe una volontà di evitare lo stesso che sarebbe incompatibile con la

191 E. DI SALVO, op. loc. ult. cit.192 E. DI SALVO, op. loc. ult. cit.193 In questo senso G. CERQUETTI, Il dolo, 181, 182.

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volontà caratteristica dell’illecito doloso; e la rilevanza della volontà di evitare si configurerebbe solo qualora la volontà stessa emergesse alla luce delle modalità tramite le quali fosse posta in essere la condotta. D’altra parte, si configurerebbe il dolo nel caso in cui l’agente, avendo previsto anche solo la mera possibilità di realizzazione dell’evento, non si fosse attivato nell’adozione di contromisure volte ad evitarlo, o a ridurne il rischio195. Il tutto a prescindere dal grado di probabilità della realizzazione dell’evento che sia oggetto di previsione.

Autorevole dottrina italiana ha puntualmente osservato che tale teoria manifesta un primo limite nella concezione del comportamento adottato dall’agente al fine di evitare l’evento come oggettivizzazione del dolo, e non come mero indicatore dei processi psichici sottotesi al comportamento stesso196: l’adozione di contromisure volte ad evitare l’evento, in effetti, potrà certamente essere un indizio a favore della assenza dei requisiti psichici propri del dolo, ma non potrà di per sé stessa fondare l’insussistenza della volontà; l’applicazione della teoria in questione, tra l’altro, condurrebbe all’esclusione dalla sfera del dolo eventuale di determinate fattispecie concrete che invece, di per sé, non dovrebbero essere inconciliabili con la responsabilità dolosa: l’adozione di contromisure, ad esempio, potrebbe essere addirittura il frutto di un calcolo di strategia criminale, ed in casi di questo genere sarebbe, quindi, inopportuna l’attribuzione del titolo di imputazione per colpa anziché per dolo, alla luce del solo fatto che il soggetto abbia adottato contromisure. Parallelamente, possono verificarsi ipotesi nelle quali l’adozione di contromisure risulti concretamente inattuabile: in casi di questo genere, sarebbe inadeguata l’esclusione della configurabilità della colpa (e, quindi, l’attribuzione della responsabilità per dolo) in base al solo fatto che il soggetto agente non abbia adottato contromisure197. Inoltre, l’applicazione concreta della teoria dell’“operosa volontà di evitare” potrebbe condurre a risultati non condivisibili, andando a prospettare trattamenti diversificati da un lato per il soggetto il quale, a fronte della rappresentazione di una scarsa probabilità di verificazione dell’evento, non adotti contromisure volte ad evitarlo; dall’altro per il soggetto che, a fronte della rappresentazione di una elevata probabilità di causazione

194 La teoria in questione è riportata da S. CANESTRARI, op. ult. cit., 41-42. In particolare viene analizzata la teoria esposta da A. KAUFFMANN, Der dolus eventualis in Deliktsaufbau. Die Auswirkungen der Handlungs- und der Schuldlehre auf die Vorsatzgrense, in ZStW, 1958, 64 ss. Sullo stesso argomento anche G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 117.

195 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit.196 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 42-43. 197 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 42-43, ove si osserva, tra l’altro – e a titolo

esemplificativo – che l’applicazione della teoria in questione condurrebbe all’esclusione dalla sfera del dolo delle ipotesi di contagio da HIV tramite rapporto sessuale non protetto in caso di coitus interruptus. Lo stesso Autore precisa, poi, il fatto che le elaborazioni teoriche intellettualistiche siano state sostanzialmente abbandonate nell’ambito delle fattispecie di contagio da HIV da rapporto sessuale non protetto (e non violento), da parte di soggetto sieropositivo consapevole del proprio status, senza informazione del partner; del resto – prosegue l’Autore – non è mai stata avanzata l’argomentazione circa l’incompatibilità fra l’adozione di contromisure e la configurabilità del dolus eventualis, sicché si ricade comunque in una concezione del comportamento effettivamente tenuto dall’agente come indicatore o prova dell’atteggiamento interiore (cioè della fiducia nella non verificazione dell’evento lesivo). Si veda, a riguardo, anche S. CANESTRARI, La definizione legale del dolo, 906 ss.

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dell’evento, si attivi nell’adozione di contromisure le quali, tuttavia, riducano la suddetta probabilità in maniera esigua: nel primo caso, conformemente alla teoria dell’“operosa volontà di evitare”, si avrebbe senz’altro imputazione per dolo; nel secondo caso, per colpa cosciente198. È evidente che conclusioni di questo genere non sono accettabili, e ciò emerge con chiarezza ancor più lampante se si considera che la maggior parte dei rei colposi non si attivi nell’adozione di contromisure, proprio per il fatto di confidare nella non realizzazione dell’evento199.

Altro ordine di critiche negative alla teoria dell’“operosa volontà di evitare” è stato sviluppato da Claus Roxin: l’Autore prende le mosse dalla considerazione dell’inadeguatezza di una distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente basata sulla struttura finalistica dell’azione, posto che la finalità dell’azione stessa investirebbe non solo le condotte dolose (e non solo quelle sorrette da dolo intenzionale), ma anche quelle sorrette da colpa cosciente200. Si osserva, in altri termini, che la teoria esposta da Kaufmann, postulando che la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente debba essere sviluppata mediante la verifica se l’agente abbia o meno adottato contromisure, pretenderebbe di rilevare il discrimen fra i due stati psichici in questione in considerazione del finalismo dell’azione: qualora l’agente abbia predisposto contromisure volte ad evitare l’evento, dovrebbe escludersi la componente volitiva propria del dolo, essendo illogico che l’agente stesso persegua la realizzazione dell’evento e, al contempo, adotti tali contromisure201; tuttavia, una ricostruzione del genere assume a fondamento del dolo eventuale una concezione di “finalità” che, invece, effettivamente non lo caratterizza: chi agisce con dolo eventuale, infatti, non persegue direttamente il fine di provocare l’evento – pur essendosi rappresentato la possibilità di provocarlo –, e tale situazione investe anche la colpa cosciente202.

La teoria del “rischio schermato”, in secondo luogo, considera sussistente il dolo eventuale nel caso in cui il soggetto abbia agito essendosi rappresentato un pericolo di realizzazione di una fattispecie penale, che sia non consentito e “non schermato”: e il pericolo può dirsi “non schermato” qualora l’agente, alla luce di una valutazione razionale, non possa confidare che, successivamente alla realizzazione concreta della condotta la quale crei il pericolo, siano attuabili misure di controllo del pericolo stesso, da parte sua o da parte di terzi203. In base ad una elaborazione di questo tipo assume rilevanza, ai fini della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, esclusivamente un elemento di carattere oggettivo, che è dato dalla “qualità” del rischio assunto dall’agente; restano invece relegati ad una sfera che esula dall’indagine funzionale alla

198 S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, 42-43.199 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 43.200 Lo sviluppo argomentativo di Roxin è descritto da G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 115

– 117.201 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 117.202 G. DE FRANCESCO, op. loc. ult. cit.203 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 62-65, ove si analizza l’elaborazione della teoria del

“rischio schermato” ad opera di R.D. HERZBERG, Die Abgrenzung von Vorsat und bewusster Fahrlassigkeit – ein Problem des objektiven Tatbestandes, in JuS, 1986, 249 ss. Analisi effettuata anche da G. CERQUETTI, op. cit., 223-224, nonché da G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 131 – 132.

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individuazione dell’elemento soggettivo l’atteggiamento psicologico dell’agente e la componente di carattere statistico inerente la probabilità di verificazione dell’evento lesivo204. Ciò che assumerebbe rilevanza ai fini del dolo eventuale non sarebbe l’effettiva “presa sul serio” del pericolo da parte del soggetto agente, bensì il fatto che egli abbia riconosciuto un pericolo “da prendere sul serio” (quindi, “che avrebbe dovuto essere preso sul serio”): in questo senso, la teoria in questione è stata denominata anche “teoria della presa sul serio oggettivizzata”205. Invero, si giunge sostanzialmente alla sostituzione del requisito psichico della volontà (necessario ai fini della configurazione del dolo) con un requisito di carattere oggettivo, il quale è dato dalla qualità del pericolo “non schermato”206; viceversa, ai fini della valutazione della sussistenza della colpa, sarebbe sufficiente la considerazione della qualità del rischio “schermato”. La teoria del “rischio schermato” è stata anche considerata, da parte di autorevole dottrina, come “criterio di semplificazione probatoria” della distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente207.

Sulla base di questo assetto, appaiono evidenti le conclusioni non condivisibili alle quali potrebbe condurre l’applicazione della teoria in esame: in effetti, tenuto conto della sola considerazione del carattere “schermato” o “non schermato” del pericolo, non si dovrebbe inquadrare il dolo laddove il soggetto avesse agito a fronte di un pericolo “schermato”, nonostante la rappresentazione, da parte sua, di un “rimanente” rischio di elevata entità; mentre sarebbe configurabile il dolo allorquando l’agente avesse realizzato la condotta di fronte ad un pericolo “non schermato”, essendosi egli rappresentato una scarsa entità del rischio208. Inoltre, se si considera il parallelismo “pericolo non schermato – dolo eventuale”, ed il fatto che il “pericolo non schermato” – inteso come non controllabile o non riducibile, da parte dell’agente o da parte di altri – possa giungere ad inquadrare pressoché ogni situazione di rischio non adeguatamente fronteggiabile (se non tramite l’astensione dall’agire), risulta evidente che l’applicazione del criterio in questione possa condurre a sussumere nell’ambito del dolo eventuale fattispecie concrete le quali, invece, configurerebbero sostanzialmente ipotesi di colpa con previsione209.

Una teoria di questo genere, focalizzando la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente nella sola dicotomia “pericolo schermato” – “pericolo non schermato”, è senz’alto troppo riduttiva e semplicistica210, ed appare incompatibile con il nostro ordinamento, improntato ad una distinzione fra dolo e colpa basata su elementi di carattere psicologico e, in particolare, sull’elemento volitivo211.

204 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 62.205 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 63.206 G.P. DEMURO, Il dolo. Vol. II, Milano, Giuffrè, 2010, 43. Sostanzialmente nello stesso

senso, seppur con terminologia differente, G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 133 – 134. 207 In questo senso G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 132.208 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 62.209 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 201.210 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit.211 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 64. Nello stesso senso G. DE FRANCESCO, op. ult. cit.,

133 – 134.

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3. La valorizzazione degli stati emozionali o affettivi

Alcune impostazioni teoriche relative al discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente valorizzano, in particolar modo, l’atteggiamento interiore o emozionale del soggetto rispetto alla previsione della possibilità di realizzazione del risultato lesivo: in tale modo si tenta la valutazione della sussistenza o meno del requisito della volontà (necessario ai fini dell’inquadramento del dolo) attraverso l’analisi di stati emozionali o affettivi.

Anzitutto, è possibile fare riferimento alla teoria dell’“indifferenza”, la quale è stata sviluppata principalmente da Engisch, ed individua il dolo eventuale nell’ipotesi in cui il soggetto, a fronte della previsione della possibilità di realizzazione del risultato lesivo, abbia agito alla luce di un atteggiamento di indifferenza nei confronti di tale possibilità; qualora, invece, il soggetto abbia agito con il “desiderio” o la “speranza” di non verificazione dell’evento, allora sussisterebbe colpa cosciente212. Il fondamento del dolo eventuale verrebbe, quindi, individuato nella particolare relazione emozionale del soggetto agente rispetto alla realizzazione della fattispecie da lui prevista: qualora l’agente si rappresenti la possibilità di realizzazione di un risultato penalmente rilevante e, con atteggiamento di estrema indifferenza, egli non desista dal tenere la propria condotta, e non si determini ad un comportamento conforme al diritto, dovrebbe configurarsi responsabilità per dolo; un atteggiamento di questo genere, peraltro, rivelerebbe anche una significativa mancanza di “sentimento sociale”213. Viceversa, ai fini dell’inquadramento della colpa cosciente, assumerebbero rilevanza stati emozionali quali la “speranza” o il “desiderio” relativi alla non verificazione dell’evento (o relativi alla non integrazione della fattispecie penalmente rilevante, se si prescinde dai reati di evento).

Recentemente, peraltro, nell’ambito della dottrina d’oltralpe si è tentata una riformulazione della teoria dell’indifferenza in base alla quale, ai fini dell’inquadramento del dolo eventuale, non si tratterebbe di indagare relativamente ad un atteggiamento emotivo dell’agente nei confronti del bene giuridico, bensì di individuare una “accettazione con indifferenza” relativamente alla lesione del bene giuridico prevista come possibile: il che dovrebbe identificare l’elemento volitivo, consistente nella determinazione contro il bene giuridico214; in sintesi, in base all’impostazione alla quale si sta facendo riferimento, sussisterebbe dolo eventuale nell’ipotesi in cui l’agente, avendo previsto come possibile la realizzazione della lesione del bene giuridico, accetti con indifferenza tale realizzazione: il fatto che egli agisca in tal modo, non lasciandosi influenzare dalla rappresentazione, rivelerebbe la sua determinazione contro il bene giuridico215.

Sennonché, tanto la teoria dell’ “indifferenza” nella sua originaria formulazione, quanto la modulazione di essa della quale si è appena trattato, non si sottraggono a critiche negative, le quali pongono in evidenza l’inidoneità del ricorso a valutazioni di aspetti relativi alla sfera emotiva al fine di identificare il discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente. Anzitutto si è sostenuto che,

212 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 44.213 G. CERQUETTI, op. cit., 253. 214 G. CERQUETTI, op. cit., 254.215 G. CERQUETTI, op. cit., 255.

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nonostante la valutazione di uno stato d’animo di indifferenza, insensibilità o “assenza di scrupoli” possa costituire un indice a favore dell’inquadramento dell’elemento volitivo e, quindi, ai fini dell’identificazione del dolo, tuttavia essa non potrà assurgere a decisivo elemento discretivo fra dolo eventuale e colpa cosciente216; analogamente, la mera “speranza” relativa alla non verificazione dell’evento non parrebbe elemento sufficiente ai fini della configurazione della colpa cosciente: sarebbe, in effetti, ingiustificato il trattamento più mite in capo al soggetto il quale, pur avendo “messo in conto” consapevolmente il risultato lesivo di beni giuridici, abbia agito con la speranza – magari anche priva di ragionevoli fondamenti – che esso non si sarebbe verificato217. In secondo luogo, è stato rilevato che gli atteggiamenti di “indifferenza” o “mancanza di riguardo” parrebbero, in effetti, essere confacenti non già al dolo, bensì alla colpa218. Nondimeno, si osserva il fatto che la valorizzazione di aspetti di carattere emozionale, alla luce dei contorni non sufficientemente definiti dei concetti di “sentimento” o simili, rischierebbe di dare luogo a valutazioni dell’autore, anziché del fatto219: il che sarebbe evidentemente incompatibile con un diritto penale che dovrebbe mirare alla tutela oggettiva di beni giuridici220.

Peraltro, non si può omettere di considerare le incongrue conseguenze alle quali potrebbe giungersi con applicazione di criteri emozionali o “intimistici”: in effetti, in base ad essi, si potrebbe arrivare ad escludere il dolo in casi in cui l’agente abbia realizzato la condotta nutrendo una speranza del tutto irrazionale circa la non verificazione dell’evento, seppur dinanzi alla rappresentazione di tale verificazione in termini di certezza221.

Infine, è stato notato che la valorizzazione di componenti emotive risulterebbe in contrasto con espressi dati normativi rinvenibili all’interno del codice penale: da un lato, l’art. 43, il quale fa riferimento a “previsione” e “volontà”, e non a stati emotivi o affettivi; dall’altro l’art. 90 c.p., il quale esclude la rilevanza di stati emotivi o passionali ai fini dell’imputabilità222. Del resto, sulla stessa linea, si osserva che elementi psichici, quali “desiderio”, “speranza”, “indifferenza”, “auspicio” o affini, non abbiano nulla a che fare, effettivamente, con la volontà223. Sostanzialmente in senso analogo, si è rilevato in dottrina che, qualora l’evento sia previsto come conseguenza certa o probabile della

216 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 44 – 45.217 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 45.218 G. CERQUETTI, op. cit., 254, ove si richiama E. MORSELLI, Il ruolo dell’atteggiamento

interiore nella struttura del reato, Padova, Cedam, 1989, 69 ss.219 E. MORSELLI, op. loc. cit.220 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 120, il quale fa riferimento, a sua volta, all’analisi di

C. ROXIN, Zur Abgrenzung, 209 ss. Si osserva, in particolare, che l’obiettivo del diritto penale deve essere orientato alla tutela di beni giuridici, e “non può essere pertanto quello d’impedire che si manifestino determinati atteggiamenti interiori in coloro che realizzano la lesione di tali beni”.

221 A. NAPPI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, Giuffrè, 2010, 400 – 401. 222 G. CERQUETTI, op. cit., 257. 223 G. FORTE, Ai confini tra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in Riv. it. dir.

e proc. pen., 1999, 1, 249. L’Autore richiama a sua volta, in nota (119), A. DI LORENZO, I limiti tra dolo e colpa, Napoli, Jovene, 1955, 85.

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condotta, il suo significato finalistico corrisponde alla volontà del soggetto: la quale, quindi, non è esclusa da stati emozionali o affettivi224

Fermo restando quanto esposto sin’ora – dal quale dovrebbe emergere chiaramente il carattere non soddisfacente della valorizzazione dei profili emozionali ai fini della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, se non altro se si pretende di conferire ad essa un ruolo decisivo – non mancano in giurisprudenza alcune sentenze che concludono per l’esclusione del dolo in considerazione dell’atteggiamento interiore dell’agente.

In particolare, il criterio della “speranza” è rinvenibile all’interno di una pronuncia dei giudici di legittimità225 relativa ad un caso che, seppur ormai non più recente, viene ancora citato con molta frequenza in materia penale (e non solo con riferimento alle questioni inerenti l’elemento soggettivo): si tratta dei genitori di una bambina malata di “betatalassemia maior” i quali, essendo Testimoni di Geova, per esigenze di rispetto dei dettami postulati da tale confessione religiosa, fecero interrompere i trattamenti emotrasfusionali ai quali la figlia era sottoposta, pur sapendo che la pratica emotrasfusionale sarebbe stata il rimedio più efficace e diretto ai fini del miglioramento del quadro clinico della bambina; l’evento il quale concretizza la responsabilità dei genitori è il decesso della bambina, a causa di un grave stato di anemia sopravvenuto a seguito dell’interruzione del trattamento, laddove invece la sottoposizione ad esso avrebbe impedito, se non la morte, quantomeno una così rapida degenerazione delle condizioni di salute della vittima226. I giudici di appello ravvisarono responsabilità a titolo di dolo, sostenendo l’irrilevanza della componente di carattere emotivo ai fini dell’esclusione della volontà, ma la Cassazione annullò con rinvio la sentenza di secondo grado delineando, in motivazione, un’argomentazione la quale tende a valorizzare il profilo volitivo ai fini dell’inquadramento del dolo eventuale: in particolare, viene ritenuta insufficiente la sola previsione/rappresentazione dell’evento, poiché il dolo risulterebbe integrato soltanto qualora, in aggiunta rispetto all’elemento intellettivo, sussista anche l’elemento volitivo, inteso come volontà rivolta alla consumazione del reato227; tuttavia, ciò che maggiormente assume rilievo è dato dal fatto che, nel caso di specie, i giudici di legittimità abbiano evidentemente escluso la sussistenza dell’elemento volitivo in base alla

224 T. PADOVANI, Diritto penale, Milano, Giuffrè, 2008, 250. 225 Cass. Pen., Sez. I, 13 dicembre 1983, (imp. Oneda), in Cass. pen., 1984, 12, 2400 ss.226 Riassunto del fatto rinvenibile, ex plurimis, in G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit.,

595; F. AGNINO, La sottile linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, in Giur. merito, 2009, 6, 1502; S. CANESTRARI, op. ult. cit., 255 - 256. Da notare il fatto che Canestrari, se da un lato evidenzia l’inadeguatezza del criterio della “speranza”, dall’altro applica al caso di specie la propria teoria inerente la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, basata principalmente – come meglio si vedrà in maniera dettagliata infra – sull’individuazione di un rischio peculiare del dolo eventuale, conformemente alla quale egli giunge ad inquadrare comunque, nella fattispecie concreta di cui trattasi, la colpa con previsione: emergerebbe infatti, in questo caso, un rischio che avrebbe potuto essere almeno preso in considerazione dall’homo eiusdem conditionis et professionis dell’agente concreto, dotato anche delle conoscenze superiori eventualmente possedute dall’agente concreto stesso (mentre il rischio peculiare doloso, secondo l’Autore, sarebbe quello che non avrebbe potuto neppure essere preso in considerazione dall’homo eiusdem conditionis et professionis dell’agente concreto, anche in questo caso dotato delle conoscenze superiori eventualmente possedute dall’agente concreto).

227 F. AGNINO, op. loc. cit.

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valutazione dell’affetto nutrito dai genitori nei confronti della figlia, nonché della speranza da essi coltivata con riguardo alla non verificazione dell’evento “morte”228: sicché, a fondamento di tale sentenza, è possibile inquadrare proprio il “criterio della speranza”229.

È stato posto in rilievo come l’utilizzo di tali criteri di natura sentimentale o emotiva, in effetti, non produca altro risultato se non rendere evidente proprio la loro labilità sul piano dell’inquadramento dell’elemento soggettivo230; del resto, la sentenza di secondo grado sul caso in questione231 afferma che l’ambito di operatività del dolo eventuale non sia escluso dalla speranza, da parte dell’agente, che l’evento non si verifichi, richiamando peraltro in motivazione un consistente elenco di pronunce di legittimità le quali depongono in senso concorde. A dire il vero, l’argomentazione adottata in motivazione da parte dei giudici di appello232 appare molto più lineare, logica e convincente rispetto alla motivazione sviluppata da parte dei giudici di legittimità: si sostiene, in particolare, che i genitori della bambina si fossero certamente rappresentati la possibilità di morte precoce della figlia come conseguenza dell’interruzione della terapia emotrasfusionale, essendo stati informati in modo senz’altro esaustivo da parte del personale medico che si era occupato del caso, nonché da parte di assistenti sociali e da parte dei giudici del Tribunale per i minorenni; il livello di informazione del quale i genitori godevano comprendeva, altresì, la consapevolezza che l’unica modalità la quale avrebbe potuto efficacemente evitare la morte precoce della figlia fosse la sottoposizione della stessa alla terapia emotrasfusionale: alla luce di ciò, non appare una soluzione adeguata la prospettazione di un mero rimprovero per colpa, il quale si configurerebbe come rimprovero per aver “agito con leggerezza”; né sarebbe ragionevolmente configurabile l’ipotesi che i genitori avessero confidato nella non verificazione dell’evento “morte”, per il convincimento che, alla luce di particolari circostanze, questa avrebbe potuto essere comunque evitata nonostante la non sottoposizione della figlia alla terapia emotrasfusionale: si conclude, pertanto, per la sussistenza del dolo eventuale, in base al fatto che i genitori avessero agito con la piena consapevolezza di ledere, tramite la sospensione delle emotrasfusioni, l’interesse della figlia. Invero – proseguono i giudici di appello – non sono identificabili elementi di fatto che avrebbero potuto impedire ai genitori di rendersi conto di ledere tale interesse. La mera speranza, nutrita da essi e relativa alla non verificazione dell’evento, peraltro resa vana dalle informazioni ricevute da parte del personale sanitario, non varrebbe, quindi, ad escludere la certezza circa la violazione dell’obbligo giuridico, incombente su di essi, di garanzia di assistenza sanitaria alla figlia, nonché circa il pregiudizio per le condizioni fisiche della bambina233. A nulla, secondo i giudici di secondo grado, rileva il fatto che i genitori avessero tentato di porsi in contatto con medici che stessero sperimentando metodi alternativi, dato che l’interruzione della terapia emotrasfusionale era stata effettuata proprio in una fase in cui i genitori

228 F. AGNINO, op. loc. cit.229 E. DI SALVO, Colpa cosciente e dolo eventuale, diretto e alternativo, in Giur. merito,

2009, 2, 439. 230 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 256; F. AGNINO, op. ult. cit., 1503. 231 Ass. App. Cagliari, 13 dicembre 1982, in Giur. merito, 1983, 4-5, 961. 232 Ass. App. Cagliari, 13 dicembre 1982, in Giur. merito, 1983, 4-5, 970.233 Ass. App. Cagliari, 13 dicembre 1982, in Giur. merito, 1983, 4-5, 971.

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constatavano l’insuccesso di tali tentativi: da ciò si dovrebbe evincere ulteriormente il carattere vano della speranza da essi nutrita relativamente alla non verificazione della morte della figlia; speranza, questa, che non può, quindi, escludere l’accettazione del rischio di tale evento234. La difesa degli imputati aveva addotto anche, quale elemento che avrebbe potuto escludere il dolo, la speranza nutrita dai genitori circa l’intervento pubblico coattivo, il quale avrebbe disposto l’esecuzione delle emotrasfusioni: anche tale aspetto non varrebbe ad escludere il dolo, in quanto la mera speranza in tale senso non esclude l’accettazione del rischio ad essa contrapposto235. In base alle considerazioni esposte, la Corte d’Assise d’Appello concludeva per la sussistenza del dolo eventuale, prospettando palesemente l’irrilevanza della “speranza” nella non verificazione dell’evento ai fini dell’esclusione del dolo.

Da notare il fatto che i giudici di legittimità, nell’argomentare relativamente all’annullamento con rinvio della sentenza di secondo grado, affermino che i giudici di merito avessero preso le mosse dal dato incontestabile che “i genitori non volevano la morte della piccola loro figlia”, intendendo chiaramente motivare in ordine all’assenza del requisito volitivo nel caso di specie; sennonché, giusto poche righe prima di tale affermazione, gli stessi giudici definiscono il dolo eventuale con una formula la quale sembra adattarsi – quasi alla perfezione – proprio al caso di specie: in base ad essa, il dolo eventuale presupporrebbe “che l’azione sia diretta al conseguimento volontario di un determinato risultato con la prospettiva di conseguirne un altro diverso e di perseguire nella condotta nonostante il rischio di provocare tale evento diverso che, conseguentemente, dal campo della previsione entra nella sfera della volontà”236; non dovrebbe essere eccessivamente forzata l’interpretazione in base alla quale, nel caso di specie, il determinato risultato, al cui conseguimento volontario è diretta l’azione, si potrebbe identificare nel rispetto dei precetti della confessione religiosa, mentre il risultato diverso, con la prospettiva del conseguimento del quale si agisce, persistendo nella condotta nonostante il rischio di provocarlo, è dato dall’evento “morte della figlia”. In altri termini, i genitori avrebbero agito con il fine intenzionale di rispettare i precetti del proprio credo religioso, prospettandosi tuttavia il rischio di provocare, in tal modo, il decesso della figlia e, ciononostante, persistendo nella tenuta della condotta finalizzata al rispetto del credo religioso.

Nel caso che si è appena analizzato, la “speranza” nutrita dai genitori della bambina deceduta si configurava evidentemente come “vana speranza” o “infondata speranza”. È possibile fare riferimento, del resto, ad alcuni casi in cui i giudici di legittimità hanno fatto applicazione di un criterio di “ragionevole speranza”, ai fini dell’esclusione del dolo e, parallelamente, ai fini della configurazione della colpa cosciente237: verserebbe, quindi, in colpa cosciente il soggetto che, pur essendosi rappresentato la possibilità di realizzazione dell’evento, agisca con la “ragionevole speranza” che esso non si concretizzi, la quale escluderebbe il dolo eventuale. Resta, tuttavia, un criterio inquadrabile pur sempre fra i criteri emozionali, o “intimistici”, i quali sono da disconoscere

234 Ass. App. Cagliari, 13 dicembre 1982, in Giur. merito, 1983, 4-5, 979.235 Ass. App. Cagliari, 13 dicembre 1982, in Giur. merito, 1983, 4-5, 983.236 Cass. Pen., Sez. I, 13 dicembre 1983, in Cass. pen., 1984, 12, 2408.237 Ad esempio, Cass. Pen., Sez. I, 12 gennaio 1989, n. 4912, in Giust. pen., 1990, 2, 69

ss.

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per la serie di ragioni già esposte; il riferimento alla “ragionevole speranza”, se mai, elimina solo il motivo di critica inerente al fatto che criteri emozionali possano condurre all’esclusione del dolo in casi in cui l’agente abbia realizzato la condotta nutrendo una speranza irrazionale; ma, per il resto, l’assetto critico relativo alla categoria di principi in questione permane.

Vale la pena di porre attenzione ad un’ulteriore sentenza di legittimità238, la quale ha richiamato un concetto di “indifferenza”, utilizzandolo però non ai fini della configurazione del dolo eventuale, bensì ai fini dell’esclusione di esso, e dell’inquadramento della colpa cosciente: nel caso di specie, si è ritenuto sorretto da colpa – aggravata da previsione dell’evento – il reato di omicidio ascritto ad un soggetto che, al fine di procurarsi eccitamento sessuale maneggiando un’arma da fuoco sul capo della propria partner, nell’atto di armare e disarmare il cane dell’arma aveva fatto involontariamente partire un colpo che aveva provocato la morte della donna. La sentenza in esame ritiene configurabile la colpa cosciente (con esclusione, quindi, del dolo eventuale) allorché il soggetto agente si ponga in una concreta condizione di indifferenza rispetto all’evento, nutrendo la speranza che esso non si realizzi e confidando nel fatto che le proprie abilità, o altri fattori, possano contribuire ad evitarlo: oltre che il concetto di “indifferenza”, viene in questo frangente richiamato, ancora una volta, il criterio della “speranza”, accompagnato però dal requisito aggiuntivo della fiducia nella non verificazione dell’evento, in considerazione di proprie abilità o di altri fattori esterni.

L’argomento inerente le impostazioni teoriche che tendono alla valorizzazione di elementi emozionali o affettivi può completarsi mediante un breve riferimento ad una particolare elaborazione riconducibile, sostanzialmente, alla teoria del “sentimento” (Gesinnung); il relativo contributo, nell’ambito della dottrina italiana, è attribuibile ad Elio Morselli, il quale prende le mosse da una visione prettamente psicoanalitica che concepisce il fenomeno criminoso come caratterizzato, a livello soggettivo, da una carenza di controllo su pulsioni antisociali provenienti dall’inconscio: in questo senso, l’attribuzione soggettiva del reato non sarebbe mai riferibile interamente alla “volontà” quanto, piuttosto, ad una assenza di controllo da parte dell’“Io cosciente” sull’inconscio; ciò che contraddistinguerebbe dolo e colpa sarebbe rinvenibile, invece, nell’atteggiamento assunto da parte dell’“Io cosciente” rispetto a tale prevalere di pulsioni sul controllo dell’ “Io cosciente” stesso: qualora l’“Io cosciente” subisca suo malgrado il prevalere di pulsioni antisociali, senza aderirvi e venendo, anzi, “aggirato” da esse, si avrà colpa; il dolo andrebbe invece inquadrato nell’ipotesi in cui l’“Io cosciente” aderisca e consenta al prevalere di pulsioni antisociali, tramite una presa di posizione che costituisce la differenziazione essenziale fra dolo e colpa239.

4. Teoria dell’accettazione del rischio

238 Cass. Pen., Sez. IV, 5 ottobre 1987, n. 27, in Cass. pen., 1989, 3, 380 ss.239 E. MORSELLI, op. cit., 42 – 46, 52 ss. Una sintesi del pensiero di Morselli è effettuata

anche da parte di G. CERQUETTI, op. cit., 124 – 126.

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La teoria dell’“accettazione del rischio” è senza dubbio quella che, fino ad ora, ha avuto maggior applicazione giurisprudenziale e maggior accredito in dottrina (sia italiana che d’oltralpe)240, tanto che si potrebbe parlare quasi di ricorso ormai tradizionale a tale teoria nella prassi241. Essa focalizza la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente sulla dicotomia “accettazione del rischio”/ “sicura fiducia che l’evento non si verificherà”; a dire il vero, sono rilevabili anche terminologie differenti le quali, tuttavia, non mutano l’assetto sostanziale principale della teoria in questione: così, ad esempio, in luogo di “accettazione del rischio” si utilizzano sovente espressioni quali “presa sul serio del rischio”, “agire a costo di (provocare l’evento)”, “mettere in conto la realizzazione della fattispecie”, “calcolare la realizzazione della fattispecie”242.

L’elemento dell’“accettazione del rischio” dovrebbe configurare la componente volitiva necessaria ai fini dell’inquadramento del dolo243, nonché il quid pluris del dolo eventuale rispetto alla colpa cosciente; in questo senso, la teoria in questione tenta di valorizzare l’elemento volitivo: prendendo le mosse dal fatto che il dolo si caratterizzi più per l’elemento volitivo che non per quello rappresentativo (quest’ultimo, peraltro, comune a dolo eventuale e colpa cosciente), ai fini della sussistenza del dolo occorrerebbe un quid pluris rispetto alla mera rappresentazione della possibilità o probabilità di verificazione dell’evento; e tale quid pluris dovrebbe essere identificato in un atteggiamento interiore del soggetto, il quale si avvicini il più possibile alla vera e propria volizione del fatto244. L’“accettazione del rischio” è, quindi, concepita come “presa sul serio” della possibilità prevista, accompagnata dalla “consapevole scelta” di “agire al costo di provocare l’evento”: in questi termini, dovrebbe concretizzarsi un elemento prossimo alla vera e propria presa di posizione di volontà245.

Così, ad esempio, nel panorama giurisprudenziale italiano, si è affermato che la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente “è, in dottrina e giurisprudenza, individuata nel diverso atteggiamento psicologico dell’agente

240 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 66.241 In questo senso, ex plurimis, S. CANESTRARI, La definizione legale del dolo, 919; L.

EUSEBI, Appunti, 1088; P. VENEZIANI, Dolo eventuale e colpa cosciente, 72; G. FORTE, Ai confini fra dolo e colpa, 255 ss; A. PAGLIARO, Discrasie tra dottrina e giurisprudenza? (in tema di dolo eventuale, dolus in re ipsa ed errore su legge extrapenale), in Cass. pen., 1991, 2, 322; G. LATTANZI – E. LUPO, op. cit., 325: qui si parla, tuttavia, di tendenziale adesione alla teoria dell’accettazione del rischio; in effetti, viene altresì richiamata l’osservazione di S. PROSDOCIMI, Considerazioni su dolo eventuale e colpa con previsione, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, Giuffrè, 1996, 171: secondo quest’ultimo Autore, la teoria dell’accettazione del rischio costituisce uno schermo “comodo e pericoloso”, dietro il quale “si avverte l’eco di teorie diverse, cui il giudice sembra affidarsi sulla scorta di criteri di carattere intuitivo o di inconfessate ed incontrollate istanze di carattere politico criminale”. Sostanzialmente nello stesso senso, ID., Dolus eventualis, 19.

242 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 70.243 Cass. Pen., Sez. I, 14 giugno 2001, n. 30425, in dejure.giuffre.it. “In tal modo, si dice

generalmente, accettare il rischio di produrre l’evento equivale a volerlo, e in tal modo si rispettano ed applicano le norme vigenti in tema di elemento psicologico (artt. 42 e 43 c.p.), che, ai fini della sussistenza del dolo, richiedono comunque come indefettibile l’esistenza dell’elemento volitivo sotto l’aspetto della consapevole volontarietà dell’evento.

244 G. LATTANZI – E. LUPO, op. cit., 328. 245 G. LATTANZI – E. LUPO, op. loc. cit.

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che, nel primo caso, dirigendo la propria azione ad uno scopo specifico, accetta il rischio che si realizzi un evento diverso non direttamente voluto mentre, nel secondo caso, nonostante l’identità di prospettazione, egli respinge il rischio, confidando nella propria capacità di controllare l’azione”246: in questi termini, viene chiaramente evidenziato, peraltro, il fatto che entrambe le forme di elemento soggettivo siano caratterizzate da identico elemento rappresentativo (“nonostante l’identità di prospettazione”), dal che si evince la necessità di individuare il discrimen nell’elemento volitivo. Inoltre, il caso di specie al quale si riferisce la massima appena citata risulta di particolare interesse alla luce di un ulteriore aspetto sul quale i giudici di legittimità hanno posto l’accento: in particolare, si tratta della valutazione dell’alternatività o accessorietà dell’evento realizzato rispetto all’evento perseguito; solo in quest’ultimo caso sarebbe configurabile dolo eventuale, sicché viene concepita una struttura della fattispecie realizzata, appunto, con dolo eventuale, come caratterizzata da un comportamento tendente ad un determinato scopo, tramite il quale venga realizzato un evento diverso dallo scopo perseguito, ed in rapporto di accessorietà (non di alternatività o contrarietà) rispetto a questo. Dunque, l’accettazione del rischio di verificazione dell’evento potrebbe darsi (o, meglio, potrebbe essere dimostrata) soltanto nel caso in cui l’evento effettivamente realizzato non fosse in rapporto di alternatività o contrarietà rispetto allo scopo perseguito247.

Sulla stessa linea sostanziale, anche se con terminologia differente, si è affermato che “il fondamento dell’imputazione dolosa, nel dolo eventuale, in cui l’attributo eventuale non concerne il dolo che deve sussistere, ma il risultato possibile, per l’appunto eventuale, cui il dolo si riferisce, va ravvisato nell’accettazione da parte dell’agente della possibilità dell’evento, sia pure come risultato accessorio rispetto allo scopo della sua condotta”; mentre la colpa cosciente “se è caratterizzata dalla previsione dell’evento, postula che questo non sia stato voluto né accettato nell’ipotesi che si verifichi”248.

Altre massime richiamano la terminologia incentrata sul “comportamento a costo di provocare/determinare” l’evento: così, risponderebbe a titolo di dolo eventuale “l’agente che, pur non volendo l’evento, accetta il rischio che esso si

246 Cass. Pen., Sez. IV, 10 ottobre 1996, n. 11024, in dejure.giuffre.it.247 Nel caso di specie, si trattava di un soggetto il quale, inseguendo due uomini che

avevano tentato di introdursi nella sua abitazione forzando una finestra, esplodendo vari colpi di revolver al fine di spaventare i fuggitivi ed indurli a fermarsi, aveva involontariamente colpito uno di essi alla nuca, provocandone la morte. Mentre i giudici di primo grado avevano ravvisato il dolo eventuale, considerando il fatto che l’imputato non poteva non aver previsto la possibilità di attingere il bersaglio e, di conseguenza, non averne accettato il rischio, i giudici di appello e, successivamente, la Corte di Cassazione, ravvisano la sussistenza di colpa cosciente. La Cassazione, in particolare, pone l’accento sul fatto che lo scopo dell’agente fosse unicamente quello di indurre i fuggitivi ad arrestarsi, per cui l’uccisione di uno di essi avrebbe rappresentato un risultato non accessorio, bensì contrario rispetto allo scopo da lui perseguito: ragion per cui non poteva ritenersi provata l’accettazione del rischio. Del resto, i giudici di legittimità evidenziano che l’agente fosse un abile tiratore, ed il fatto che egli non avesse precedentemente colpito i fuggitivi, neanche da distanza ravvicinata, indicherebbe chiaramente l’assenza di volontà di produzione dell’evento “morte”.

248 Cass. Pen., Sez. I, 3 giugno 1993, n. 7382, in Cass. pen., 1994, 12, 2992.

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verifichi come risultato della sua condotta, comportandosi anche a costo di determinarlo”249.

Nondimeno, alcune sentenze prospettano una distinzione basata anche sull’elemento rappresentativo, in considerazione della dicotomia “previsione concreta”/ “previsione astratta” dell’evento: in questo senso, non viene comunque esclusa la rilevanza dell’elemento dell’accettazione del rischio, il quale viene considerato come implicito nella volizione dell’evento, a sua volta riconducibile alla determinazione ad agire a fronte della rappresentazione della concreta possibilità di produzione dell’evento stesso250. Talvolta, analizzando le motivazioni di sentenze (non solo di legittimità) le quali effettuino una sintesi delle varie teorie in tema di discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente, è possibile rilevare la distinzione fra corrente giurisprudenziale a favore della teoria dell’accettazione del rischio e filone giurisprudenziale a sostegno della distinzione basata sulla considerazione del carattere concreto o astratto della previsione dell’evento: sennonché, talvolta, gli stessi giudici ammettono che, con l’utilizzo dell’una o dell’altra impostazione teorica, si giungerebbe al medesimo risultato. È il caso, ad esempio, di una sentenza di merito251 la quale, riconoscendo il dolo eventuale relativamente ad un’ipotesi di contagio da HIV tramite ripetuti rapporti sessuali non protetti, e da parte di soggetto consapevolmente sieropositivo ed adeguatamente informato circa le modalità di contagio, cita i suddetti indirizzi giurisprudenziali evidenziando, poi, il fatto che, nel caso di specie, si sarebbe giunti comunque all’affermazione del dolo eventuale, tanto in base all’uno quanto in base all’altro orientamento: l’accettazione del rischio, in effetti, vi sarebbe stata, alla luce delle conoscenze possedute dal soggetto circa le modalità di contagio; del resto, anche in applicazione del filone giurisprudenziale il quale valorizza il binomio “previsione concreta”/ “previsione astratta”, dovrebbe concludersi comunque per la configurazione del dolo eventuale, dato che considerando, ancora una volta, il livello di conoscenze posseduto dal soggetto, l’eventualità che reiterati rapporti sessuali non protetti potessero provocare il contagio non poteva restare una ipotesi astratta.

Non appare superfluo fare riferimento anche alla corrente giurisprudenziale la quale specifica che, ai fini della sussistenza del dolo eventuale, non sia sufficiente la mera prevedibilità oggettiva della verificazione dell’evento, ma sia necessaria l’effettiva previsione: in tal senso, si afferma che “al fine di accertare la ricorrenza del dolo eventuale o della colpa con previsione dell’evento, non è sufficiente il rilievo che l’evento stesso si presenti come obiettivamente prevedibile, dovendosi avere riguardo alla reale previsione e volizione di esso, ovvero all’imprudente o negligente valutazione delle circostanze di fatto”252.

Il “filo conduttore” di tutte le definizioni appena esposte è, comunque, la valorizzazione (o, almeno, il tentativo di valorizzazione) del profilo volitivo. Ciò

249 Cass. Pen., Sez. I, 12 gennaio 1989, n. 4912, in in Giust. pen., 1990, 2, 69 ss. Nello stesso senso Cass. Pen., Sez. V, 17 ottobre 1986, n. 13274, in Cass. pen. 1988, 3, 441.

250 Cass. Pen., Sez. I, 8 novembre 1995, n. 832, in Cass. pen. 1997, 4, 991. Cass. Pen., Sez. I, 21 aprile 1994, n. 4583, in Cass. pen., 1995, 7/8, 1837. Cass. Pen., Sez. I, 28 gennaio 1991, n. 5527, in Cass. pen., 1992, 7, 1804.

251 Trib. Savona, 6 dicembre 2007, in www.altalex.com 252 Cass. Pen., Sez. I, 15 luglio 1988, n. 6581, in Cass. pen., 1990, 6, 1034.

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che assume rilevanza a tali fini è, quindi, l’effettivo atteggiamento psicologico del soggetto sul versante della volizione: qualora egli, nonostante la rappresentazione, abbia agito nella convinzione, giusta o sbagliata che sia, che l’evento non si sarebbe verificato, l’evento non sarà riconducibile alla sfera psicologica della volizione e, di conseguenza, non potrà configurarsi responsabilità per dolo eventuale; residuerà invece, in tal caso, la configurazione della responsabilità a titolo di colpa con previsione, la quale è caratterizzata, oltre che dalla previsione stessa, da un atteggiamento di negligenza, trascuratezza, avventatezza o leggerezza.

Ai fini dell’addebito a titolo di dolo eventuale, dunque, sarà necessario individuare un atteggiamento psicologico dell’agente il quale consenta di ascrivere l’evento all’interno della sua sfera di volizione, pur non trattandosi di evento direttamente ed intenzionalmente voluto: tale atteggiamento psicologico sarà inquadrabile nella scelta di agire a fronte della previsione della realizzazione di un evento, con accettazione del relativo rischio253. Un’impostazione di questo genere è più agevolmente comprensibile se si considera la tesi dottrinaria in base alla quale il soggetto che, a fronte della rappresentazione della possibilità che la tenuta di una determinata condotta provochi un evento penalmente significativo (non direttamente voluto), si determini ad agire comunque, dimostrerebbe di preferire il verificarsi dell’evento rispetto alla rinuncia all’azione consentendo, dunque, al verificarsi dell’evento stesso; di conseguenza, la responsabilità in capo al soggetto per la realizzazione di tale evento dovrebbe essere quasi analoga a quella che su di lui graverebbe se lo avesse provocato intenzionalmente254.

Vale la pena di rilevare che parte della dottrina (e si tratta, peraltro, di dottrina piuttosto autorevole) abbia evidenziato che la componente dell’“accettazione del rischio” sia automaticamente configurabile alla luce della determinazione ad agire nonostante la previsione del fatto che la tenuta della condotta possa provocare la realizzazione dell’evento lesivo: si sostiene che, qualora un soggetto preveda la possibilità di realizzazione di un evento tramite una certa condotta e, malgrado ciò, si determini ad agire, ciò significherebbe necessariamente accettazione del rischio di realizzazione dell’evento; se il soggetto non avesse voluto accettare il rischio, evidentemente non avrebbe agito255. Una simile ricostruzione sembra voler negare che il concetto di “accettazione del rischio” sia dotato di una propria autonomia rispetto agli elementi “previsione” e “scelta di agire”256: il dolo eventuale sarebbe, quindi, strutturalmente caratterizzato da questi ultimi due elementi, essendo l’“accettazione del rischio” automaticamente sussistente alla luce della scelta di agire nonostante la previsione. Non manca, però, l’impostazione dottrinale e giurisprudenziale in base alla quale la decisione di agire a fronte della rappresentazione di una elevata probabilità di realizzazione dell’evento (o della certezza di realizzazione dell’evento) configurerebbe accettazione non già del

253 Cfr. Cass. Pen., Sez. I, 14 giugno 2001, n. 30425, in dejure.giuffre.it., nell’ambito di un excursus relativo alle varie correnti giurisprudenziali in tema di dolo eventuale e colpa cosciente.

254 E. DI SALVO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 1935. L’Autore richiama a sua volta M. GALLO, voce Dolo, 768.

255 Cit. M. GALLO, voce Dolo, 792. 256 E. DI SALVO, op. ult. cit., 1938.

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rischio, bensì dell’evento stesso: sicché, in questi casi, dovrebbe inquadrarsi il dolo diretto257.

È il caso di soffermarsi anche su alcune pronunce di legittimità le quali specificano l’irrilevanza, ai fini della configurazione del dolo eventuale, del fatto che si tratti, rispettivamente, di “rappresentazione di probabilità” o “rappresentazione di possibilità”: si afferma, in questo senso, che sussiste dolo eventuale allorché “l’agente si sia rappresentato come probabile o possibile anche un evento diverso da quello voluto e, ciò nonostante, abbia agito ugualmente accettando il rischio del suo verificarsi”258. Tale assetto conferma l’impostazione dottrinale che evidenzia l’inadeguatezza della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente basata su aspetti di carattere meramente quantitativo o statistico259.

Ad un’analisi critica della teoria in questione, ci si dovrebbe tuttavia domandare se, effettivamente, l’“accettazione del rischio” sia davvero ascrivibile alla sfera della volontà dell’agente; non mancano, del resto, posizioni a sostegno di una risposta negativa, in questo contesto. In particolare si è sostenuto che, per quanto attiene alle forme non intenzionali di dolo, l’unica situazione psicologica riconducibile alla sfera della volontà dovrebbe essere quella del soggetto che realizzi la condotta avendo pressoché la certezza di provocare l’evento; non sarebbe, invece, sussumibile alla sfera della volontà la mera “accettazione del rischio”, intesa come correlata alla scelta di agire a fronte della rappresentazione di coefficienti di probabilità di realizzazione dell’evento inferiori rispetto a livelli prossimi alla certezza; in questi termini, si è giunti, addirittura, a sostenere che “agire a costo di provocare un evento” significhi proprio l’esatto contrario che “volere l’evento”260.

Più o meno sulla stessa linea si muovono gli sviluppi dottrinali i quali evidenziano che, comunque, la formula dell’ “accettazione del rischio” sia ormai divenuta una sorta di “clausola di stile” la quale identificherebbe, invero, i connotati della colpa cosciente: in effetti – si evidenzia – chi agisce con la consapevolezza del fatto che la propria condotta violi una regola cautelare, accetta necessariamente il rischio che la regola cautelare violata mirava ad

257 E. DI SALVO, op. loc. ult. cit. Per quanto riguarda la giurisprudenza, Cass. Pen., Sez. Un., 12 ottobre 1993, in Cass. pen., 1994, 5, 1186 ss.: nel caso di specie, la Corte ha ritenuto sussistente dolo diretto non intenzionale (e non, invece, dolo eventuale) con riferimento all’atteggiamento psichico dell’agente che, per sfuggire alla cattura dopo una rapina, aveva risposto al fuoco “di avvertimento” esploso da una guardia giurata, sparando ad altezza d’uomo ed a distanza ravvicinata, colpendo la guardia ad una gamba.

258 Cass. Pen., Sez. II, 19 marzo 2009, n. 12401. Nello stesso senso Cass. Pen., Sez. Un., 6 dicembre 1991, n. 3428, in Cass. pen., 1993, 1, 14.

259 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 34 – 35; M. GALLO, Il dolo, 216 – 217.260 E. DI SALVO, op. ult. cit., 1938 – 1939. Si riporta l’esempio del soggetto che appicchi il

fuoco ad un edificio, non con il fine di uccidere, bensì con il fine riscuotere fraudolentemente l’importo dell’assicurazione: si afferma che, qualora dall’incendio derivi la morte di un soggetto paralitico che si trovava all’interno dell’edificio, e che l’agente sapeva essere all’interno dell’edificio ed essere paralitico, in tal caso sarebbe ravvisabile un atteggiamento psicologico effettivamente assimilabile alla volontà; non così, invece, qualora la vittima sia un soggetto giovane ed in grado di porsi agevolmente in salvo, che non sia poi riuscito a farlo a causa di una caduta provocata dalla foga del momento: in tal caso, l’evento “morte” si sarebbe prospettato all’agente in un’ottica di scarsa probabilità, e non sarebbe quindi ascrivibile alla sua sfera volitiva.

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evitare261. Tali posizioni critiche nei confronti della teoria dell’“accettazione del rischio” rilevano, inoltre, che il vasto ricorso giurisprudenziale alla teoria in questione sia dovuto principalmente al fatto che essa, potendo tendenzialmente comprendere sia l’ambito del dolo eventuale che quello della colpa cosciente, si presti particolarmente ad utilizzi discrezionali, consentendo praticamente l’imputazione a titolo di dolo eventuale in ogni caso in cui sarebbe configurabile comunque l’imputazione a titolo di colpa cosciente262.

Ancora, si è posto l’accento sul fatto che, mentre la formula dell’“accettazione del rischio” configuri quale oggetto del dolo – appunto – il rischio, in realtà l’oggetto di rappresentazione e volontà dovrebbe essere inquadrato nell’evento lesivo: quindi, non nel mero rischio di realizzazione dello stesso263. Ulteriori rilievi critici evidenziano la tendenza della giurisprudenza ad utilizzare la teoria dell’accettazione del rischio a posteriori rispetto all’individuazione del discrimine fra dolo e colpa, la quale viene, invece, effettuata attraverso criteri di carattere intuitivo, oppure sulla base di esigenze di carattere politico – criminale264.

Fermo restando i rilievi critici appena delineati, è il caso di segnalare una recente pronuncia dei giudici di legittimità265, la quale ha tentato di definire in maniera più precisa il criterio dell’“accettazione del rischio”; si tratta di una sentenza che assume una particolare rilevanza anche in quanto relativa ad uno dei più noti casi di pirateria stradale degli ultimi anni: il “caso Lucidi” 266. L’imputato, condannato in primo grado per omicidio doloso (in particolare per aver investito, provocandone la morte, i passeggeri di uno scooter, guidando al volante di una potente Mercedes, essendo stato privato della patente di guida perché tossicodipendente, procedendo ad una velocità di 90 km/h ed oltrepassando in tal modo un incrocio con il semaforo rosso), vede riqualificato dalla sentenza d’appello il fatto come colposo. La Corte di Cassazione conferma il carattere colposo del fatto, procedendo ad un inquadramento del dolo eventuale che, se da un lato resta ancorato alla teoria dell’accettazione del rischio, dall’altro contribuisce ad una più chiara e definita descrizione della portata di tale teoria. In primo luogo, viene posto l’accento sulla distinzione fra volontà di trasgressione di regole cautelari e volontà dell’evento: in effetti, il GUP (il procedimento si era svolto con rito abbreviato) aveva desunto la volontà

261 L. EUSEBI, Appunti, 1088 – 1089. Nello stesso senso anche S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 46, 227 (in particolare, l’Autore evidenzia che l’accettazione del rischio sia elemento anche esso comune a dolo eventuale e colpa cosciente); A. PAGLIARO, Discrasie, 322; G. FORTE, Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità, 823.

262 L. EUSEBI, op. ult. cit., 1089.263 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 167 (ove si parla di “accettazione dell’evento”), 320 (ove

l’Autore, nell’esporre le proprie considerazioni in ordine alle modalità tramite le quali dovrebbe essere effettuata una eventuale riforma della definizione di dolo, afferma di ritenere opportuno il mantenimento del tradizionale concetto di accettazione, il quale dovrebbe essere, tuttavia, riferito specificamente al fatto, all’evento di danno – laddove previsto dalla fattispecie penale –, e non semplicemente al rischio di produzione dell’evento stesso); ID., La definizione legale del dolo, 943; G. MARINUCCI – E. DOLCINI, Manuale di Diritto penale. Parte generale., III ed., Milano, Giuffrè, 2009, 281.

264 S. PROSDOCIMI, Considerazioni su dolo eventuale, 171. ID., Dolus eventualis, 19. 265 Cass. Pen., Sez. IV, 18 febbraio 2010, n. 11222, in dejure.giuffre.it266 A. NATALINI, Accettazione del rischio specifico da parte dell’agente quale presupposto

essenziale per ritenere la sussistenza del dolo eventuale, in Diritto e Giustizia, 2010, 113 ss.

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dell’evento “morte” automaticamente e solamente in considerazione del fatto che il soggetto avesse consapevolmente commesso gravi violazioni di regole cautelari, creando quindi coscientemente una situazione pericolosa; sostanzialmente, la Corte pone l’accento sulla necessità di accertamento effettivo del requisito volitivo, e precisa che “il dolo eventuale […] non può fungere da comoda scorciatoia per presumere un dolo che non si riesce a provare”. In secondo luogo, viene riportata (evidentemente in senso di condivisione di essa) la posizione dottrinale per cui il dolo eventuale consisterebbe nell’accettazione del rischio in seguito ad una opzione tramite la quale il soggetto subordini un bene giuridico rispetto ad un altro267. La motivazione della sentenza prosegue richiamando ulteriore dottrina, conformemente alla quale il rischio dell’evento può dirsi accettato qualora ricorrano le seguenti condizioni: anzitutto, l’agente deve essersi rappresentato la possibilità positiva del verificarsi dell’evento; inoltre, egli deve permanere nella convinzione, o anche solo nel dubbio, che l’evento possa verificarsi; infine, egli deve persistere nella tenuta della propria condotta, nonostante le due condizioni precedenti, agendo quindi anche a costo di provocare l’evento e, in questo senso, accettandone il rischio268. Sulla base di tali premesse, i giudici di legittimità giungono, dunque, alle seguenti conclusioni: posto che l’elemento rappresentativo è comune a dolo eventuale e colpa cosciente, ai fini dell’inquadramento del dolo eventuale occorre individuare un quid pluris rispetto alla colpa cosciente; e tale quid pluris – posto che il dolo eventuale è comunque una forma di dolo, e considerato che l’art. 43 richiede espressamente, ai fini della configurazione del delitto doloso, rappresentazione e volontà – dovrebbe essere identificato nella componente dell’ “accettazione del rischio”, la quale dovrebbe esprimere l’elemento volitivo; tuttavia, onde scongiurare la possibilità di trasformazione di reati di evento in reati di pericolo, ciò che deve formare oggetto dell’accettazione non è una situazione generica di rischio o pericolo, bensì proprio l’evento specifico, considerato hic et nunc. In sintesi, si configurerà dolo eventuale qualora l’agente, oltre alla previsione della verificazione dell’evento (la quale è anche elemento caratteristico della colpa cosciente), abbia accettato proprio l’evento considerato hic et nunc, e si sia determinato ad agire anche a costo di provocarlo; qualora, invece, l’accettazione sia relativa ad una situazione di mero pericolo generico, si resterà nell’ambito della colpa cosciente, non rilevando ai fini dell’inquadramento del dolo la sola consapevolezza di violazione di regole cautelari e la conseguente coscienza della generica situazione di pericolo connessa a tale violazione: se così non fosse, si arriverebbe alla inaccettabile conclusione per cui dovrebbe essere ascritto alla sfera del reato doloso qualsiasi evento eziologicamente connesso alla cosciente trasgressione di regole cautelari, nonché alla

267 Nella motivazione della sentenza in questione, viene citato testualmente S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 32: “Dolo eventuale si ha quando il rischio viene accettato a seguito di un’opzione, di una deliberazione con la quale l’agente consapevolmente subordina un determinato bene ad un altro.” Per altro verso, non viene ripresa la teoria di Prosdocimi in base alla quale anche l’accettazione del rischio sarebbe elemento comune a dolo eventuale e colpa cosciente, mentre le differenze fra tali forme di imputazione soggettiva andrebbero ricercate nella fisionomia strutturale dell’accettazione del rischio.

268 G. DONOFRIO, Alla ricerca del dolo eventuale!, in Cass. pen., 2005, 2, 477; F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, Cedam, 1999, 319.

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trasformazione dei reati di evento in reati di pericolo. Ad una osservazione specifica della motivazione della sentenza in esame, non può sfuggire il fatto che lo sviluppo argomentativo dei giudici riprenda la posizione espressa da significativa dottrina con riguardo alla teoria dell’accettazione del rischio ed alla configurazione del dolo eventuale269, con tanto di citazioni testuali.

Se si accoglie l’impostazione appena delineata, in base alla quale il dolo eventuale richieda l’accettazione dell’evento, ci si avvicina molto alla formula, elaborata principalmente da Claus Roxin, per cui la componente volitiva del dolo eventuale andrebbe individuata nella “decisione a favore della lesione del bene giuridico”270: questa formula appare particolarmente adeguata ad inquadrare una distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente che rilevi le differenze qualitative fra tali forme di colpevolezza, delineando nella “risoluzione ad agire” anche “a costo di determinare il risultato” l’elemento volitivo caratterizzante il dolo eventuale271.

In conclusione, è opportuno fare riferimento ad alcuni sviluppi della dottrina d’oltralpe, i quali hanno tentato di apportare correttivi alla teoria della “presa sul serio dell’evento”, o di distaccarsi da essa. Anzitutto, si tratta dell’impostazione delineata da Jakobs, il quale apporta al tradizionale binomio “presa sul serio del rischio” / “sicura fiducia nella non realizzazione dell’evento” un correttivo di carattere statistico: secondo l’Autore, si avrebbe dolo eventuale allorché l’agente avesse reputato “non improbabile” la realizzazione dell’evento, mentre si avrebbe colpa cosciente nel caso in cui l’agente avesse supposto la mancanza di probabilità di verificazione dell’evento272; Jakobs, inoltre, giunge a sostenere che vi siano determinate situazioni di rischio oggettivamente elevato nelle quali, tuttavia, l’elevata probabilità statistica non rileverebbe, a causa di una sorta di “assuefazione al rischio” dovuta alla convivenza comune e generalizzata con dette situazioni; assuefazione che comporterebbe, a sua volta, un’irrilevanza del fattore elevato di rischio già a livello di rappresentazione: tali rischi, seppur elevati, verrebbero percepiti come trascurabili273. D’altra parte, l’Autore in questione conclude che, ai fini dell’inquadramento del dolo eventuale, debbano essere valutati due criteri

269 In particolare, non può non notarsi la ripresa praticamente letterale di G. MARINUCCI – E. DOLCINI, op. loc. ult. cit.: “ È opinione diffusa che il dolo eventuale sia caratterizzato dall’accettazione del rischio del verificarsi del fatto. Presa alla lettera, è opinione contra legem: ponendo ad oggetto dell’accettazione non già l’evento (la morte di un uomo), bensì il pericolo del verificarsi dell’evento (il pericolo della morte), trasforma i reati di evento in reati di pericolo del verificarsi dell’evento. Invero, perché sussista il dolo eventuale, ciò che l’agente deve accertare è proprio l’evento – proprio la morte – : è il verificarsi della morte che deve essere stato accettato e messo in conto dall’agente, pur di non rinunciare all’azione che, anche ai suoi occhi, aveva la seria possibilità di provocarlo.” In senso sostanzialmente analogo, anche G. FIANDACA – E. MUSCO, op. loc. ult. cit.: “[…] l’accettazione del rischio non si limita ad un’accettazione del pericolo in quanto tale, ma si traduce alla fine in una accettazione (sia pure tormentata o sofferta) dello stesso evento lesivo che può verificarsi”.

270 I criteri proposti da Roxin sono esposti da G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 122 – 123.271 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 122.272 S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, 58.273 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit. Si riportano a titolo esemplificativo, quali rischi nei

confronti dei quali vi sia una sorta di assuefazione, quelli dovuti alla circolazione stradale dopo la moderata assunzione di alcolici, ovvero senza il rispetto della distanza di sicurezza o, ancora, con superamento dei limiti di velocità.

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oggettivi: quello dell’intensità del rischio e quello del peso del bene giuridico aggredito. Sennonché, in base al primo criterio, lo stesso Autore giunge a risultati che prospettano soluzioni diversificate fra contesti sostanzialmente analoghi (ad esempio, giunge all’affermazione del dolo eventuale con riferimento al soggetto che, nell’ambito della circolazione stradale, effettui una manovra di sorpasso in prossimità di un dosso, ovvero non si arresti di fronte al semaforo rosso, negandolo, invece, con riguardo ad altre circostanze tipiche della circolazione stradale): il che significa trascurare l’effettiva indagine sulla componente della “presa sul serio” del rischio274. In secondo luogo, il criterio del peso del bene giuridico esposto a pericolo non appare condivisibile, in quanto non è accettabile la conclusione per cui il dolo eventuale si debba desumere con maggior facilità nel caso in cui i beni giuridici posti a rischio siano di rango elevato; si osserva, in effetti, che – al contrario – proprio in situazioni in cui vengano esposti a pericolo beni giuridici di rango elevato potrebbe verificarsi, quasi a scopo “inibente”, una rimozione, da parte dell’agente, della rappresentazione dell’evento275.

Il secondo apporto dottrinale d’oltralpe al quale si intende fare riferimento è quello riconducibile a Frisch, il quale, a tutta prima, sembra ritenere sufficiente, ai fini della configurazione del dolo eventuale, la rappresentazione di un livello di rischio non più tollerato; tuttavia, il distacco significativo dallo schema tradizionale, basato sulla “presa sul serio del pericolo”, è solo apparente, in quanto stemperato dalla considerazione, effettuata dallo stesso Frisch, per cui il fondamento della maggior punibilità del fatto doloso sia dato dalla “decisione contro il bene giuridico”276.

5. Teoria della previsione in concreto o in astratto della realizzazione del fatto tipico, valorizzazione del profilo intellettivo e rischi di configurazione di dolo in re ipsa

In giurisprudenza ha trovato larga applicazione, altresì, una particolare “variante” della teoria dell’accettazione del rischio, la quale tende a focalizzare la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente anche sul piano della rappresentazione, pur non escludendo (o, almeno, non escludendo espressamente) la rilevanza dell’elemento volitivo: in particolare, si sostiene che il dolo eventuale debba essere caratterizzato dalla rappresentazione di una concreta possibilità di verificazione dell’evento, mentre la colpa cosciente sarebbe contraddistinta da una previsione astratta o generica di realizzazione dell’evento. Così, quindi, mentre nel caso del dolo eventuale l’agente si rappresenterebbe la possibilità di verificazione dell’evento in termini di concretezza, nell’ipotesi della colpa cosciente il verificarsi dell’evento resterebbe una possibilità meramente astratta, non percepita come

274 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 58 – 59. 275 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 59. 276 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 60 – 61. L’Autore, tra l’altro, riconosce a Frisch il merito di

aver valorizzato l’attenzione al profilo del rischio, ma ritiene che l’impostazione teorica da questi delineata non riesca ad individuare in modo soddisfacente il discrimine fra dolo eventuale e colpa cosciente.

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concretamente realizzabile. Si tratta, comunque, di un’impostazione la quale non prescinde dall’elemento volitivo, individuato comunemente nell’accettazione del rischio: la scelta di agire a fronte della rappresentazione della possibilità concreta di realizzazione dell’evento comporterebbe, appunto, l’accettazione del rischio, configurando l’elemento volitivo necessario ai fini della sussistenza del dolo277.

È stato osservato278 che la ricostruzione appena delineata sia riconducibile, sostanzialmente, alla teoria per cui la colpa cosciente sarebbe caratterizzata, a livello psicologico, dal passaggio da una rappresentazione generica in ordine alla possibilità di realizzazione dell’evento, alla rappresentazione concreta del fatto che l’evento non si verificherà: in altri termini, la colpa cosciente si connoterebbe alla luce di un mutamento dell’elemento intellettivo, che passerebbe da una astratta rappresentazione di possibilità di verificazione dell’evento, alla previsione negativa in merito al verificarsi dell’evento stesso; d’altra parte – si nota –, qualora il soggetto, a fronte della previsione della possibilità concreta di verificazione dell’evento, si determini ad agire, egli accetterebbe conseguentemente, e necessariamente, il rischio di realizzazione di tale evento (se non avesse inteso accettarlo, non avrebbe agito): in questo caso, sussisterebbe il dolo eventuale279. Sulla stessa linea, in dottrina, si è affermato che, qualora l’agente si determini a porre in essere la condotta a fronte della previsione della possibilità concreta di realizzazione dell’evento, l’accettazione del rischio risulterebbe sussistente in re ipsa280.

Non può sfuggire, tuttavia, il fatto che l’assetto teorico qui delineato si esponga, sostanzialmente, alle medesime critiche mosse con riguardo alla teoria della possibilità considerata alla luce del “correttivo” apportato da Shmidhauser, in base al quale il dolo eventuale richiederebbe la rappresentazione della concreta possibilità di realizzazione della lesione di beni giuridici, mentre la colpa cosciente si configurerebbe qualora l’agente si fosse

277 In questo senso, Cass. Pen., Sez. I, 8 novembre 1995, n. 832, in Cass. pen., 1997, 4, 991: “Il dato differenziale tra dolo eventuale e colpa cosciente va rinvenuto nella previsione dell’evento. Questa, nel dolo eventuale, si propone non come incerta, ma come concretamente possibile e l’agente, nella volizione dell’azione, ne accetta il rischio, così che la volontà investe anche l’evento rappresentato. Nella colpa cosciente, la verificabilità dell’evento rimane un’ipotesi astratta che nella coscienza dell’autore non viene concepita come concretamente realizzabile e, pertanto, non è in alcun modo voluta.”; Cass. Pen., Sez. I, 1 aprile 1994, n. 4583, in Cass. pen., 1995, 7/8, 1837; Cass. Pen., Sez. I, 28, gennaio 1991, n. 5527, in Cass. pen., 1992, 7, 1804.

I giudici di legittimità hanno fatto applicazione di criteri di questo genere anche in Cass. Pen., Sez. I, 14 giugno 2001, n. 30425, in dejure.giuffre.it; nel caso di specie, è stata ravvisata la colpa aggravata dalla previsione dell’evento in capo al soggetto che, essendo consapevole della propria sieropositività e delle relative modalità di contagio, aveva provocato la morte della moglie per AIDS, trasmessole tramite rapporti sessuali non protetti; l’argomentazione della Corte sostiene che l’imputato, anche a causa del suo modesto livello culturale ed in considerazione del fatto che egli stesso, fino a quel momento, avesse goduto, tutto sommato, di buone condizioni fisiche, avesse rimosso la rappresentazione della possibilità di nocumento per la vita o per la salute della moglie.

278 E. DI SALVO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 1935. 279 M. GALLO, voce Dolo, 792. 280 Osservazione effettuata da E. DI SALVO, op. loc. ult. cit., il quale richiama a sua volta,

in nota (11), T. PADOVANI, Diritto penale, IV ed., Milano, Giuffrè, 1998, 251.

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rappresentato in modo meramente astratto il pericolo di realizzazione dell’evento281: in effetti, si è osservato che la rappresentazione della concreta possibilità di verificazione dell’evento sia perfettamente compatibile anche con la colpa cosciente282 e, dunque, non si comprenderebbe la ragione per cui quest’ultima dovrebbe escludere necessariamente un elemento intellettivo di carattere concreto283.

Del resto, occorre rilevare che, tramite una tale rivalorizzazione del profilo intellettivo, vi è il rischio di sussumere all’interno del dolo qualsiasi ipotesi in cui sia stato realizzato un evento in presenza di oggettive possibilità concrete di realizzazione dello stesso, che fossero state previste da parte dell’agente e nonostante le quali questi si fosse determinato a porre in essere la condotta: il che significherebbe configurare ipotesi di dolo in re ipsa, considerando provata l’accettazione del rischio in base al solo fatto che il soggetto si fosse determinato ad agire nonostante la previsione della concreta possibilità di realizzazione dell’evento284; nondimeno, in tal modo, ci si avvicina molto alla teoria della rappresentazione (e, in particolare, alle teorie della possibilità e della probabilità), con conseguente rischio di eliminazione della rilevanza del profilo volitivo (con riferimento alla volontà dell’evento)285.

Una particolare formulazione dell’impostazione in questione, con riaffermazione della rilevanza dell’elemento volitivo, è stata effettuata da autorevole dottrina286, conformemente alla quale la scelta di agire a fronte della previsione della concreta possibilità di realizzazione dell’evento configurerebbe, effettivamente, il consenso dell’agente alla realizzazione stessa (e, quindi, l’accettazione del relativo rischio), purché tale consenso sia inteso non già come mera “adesione intima” da parte dell’agente, bensì come “decisione personale” che “comprende e accetta la realizzazione medesima”287: in questo senso, viene ribadita l’importanza della componente volitiva, con mantenimento della differenziazione ulteriore fra dolo eventuale e colpa cosciente relativa all’elemento intellettivo.

281 S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, 37. 282 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 122.283 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit. 284 In effetti, come si è già visto, parte della dottrina ha sostenuto proprio una prospettiva

di questo tipo.285 G. LATTANZI – E. LUPO, op. cit., 326 – 327. Inoltre, a supporto dell’inadeguatezza

delle impostazioni teoriche le quali considerino “provato” l’elemento volitivo in base alla sola analisi dell’elemento intellettivo, tornano rilevanti le considerazioni effettuate da S. CANESTRARI, op. ult. cit., 34 e 36 – 37: si osserva, in particolare, che “per affermare la presenza del dolo eventuale […] occorre accertare l’effettiva volizione dell’evento, la quale non può essere ricondotta con disinvolte equazioni nell’ambito della componente cognitiva”; l’Autore prosegue poi evidenziando che “non risulta agevole comprendere perché la figura della colpa cosciente non debba richiedere una piena conoscenza della concreta situazione di rischio”, ponendo quindi l’accento sul fatto che la previsione concreta della verificazione dell’evento possa essere compatibile con la colpa cosciente.

286 M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, Giuffrè, 2004, 412.

287 M. ROMANO, op. loc. ult. cit., ove si conclude l’esposizione tramite una definizione del dolo eventuale come “rappresentazione della concreta possibilità della realizzazione del fatto di reato e accettazione del rischio (quindi volizione) del fatto medesimo.”

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Sulla scorta di quanto sin qui evidenziato, appare ontologicamente più adeguata la concezione della teoria in questione come correlata alla teoria dell’accettazione del rischio, e finalizzata alla prova di tale accettazione: nel senso che questa potrebbe ritenersi provata soltanto qualora l’evento si fosse presentato come concretamente possibile; il che non dovrebbe significare presumere l’accettazione del rischio automaticamente in base alla sola previsione della concreta possibilità di realizzazione dell’evento (o, ancor peggio, in base alla sola sussistenza oggettiva di concrete possibilità di realizzazione dell’evento, a prescindere dall’effettiva rappresentazione da parte dell’agente), bensì considerare provata l’accettazione, tra l’altro, soltanto qualora sussistano, oltre ad ulteriori elementi di prova o indizianti, coefficienti di concretezza circa la possibilità di verificazione dell’evento. Infatti, un conto è presumere l’accettazione del rischio, o considerare in re ipsa l’accettazione del rischio, in base al solo elemento rappresentativo che abbia ad oggetto una possibilità concreta di realizzazione dell’evento (o in base alla sola oggettiva sussistenza di concrete possibilità di realizzazione dell’evento); altro, invece, è considerare, tra gli ulteriori elementi di prova, la concretezza della previsione (ovvero, la concretezza della oggettiva possibilità di verificazione dell’evento) come indicativa ai fini del dolo eventuale, nonché il carattere astratto della stessa (ovvero dell’oggettiva possibilità) come indicativo della colpa cosciente: nel primo caso, la concretezza della previsione (o dell’oggettiva possibilità di realizzazione dell’evento) sarebbe condizione sufficiente per l’inquadramento del dolo eventuale; nel secondo, sarebbe condizione necessaria ma non, di per sé, sufficiente.

Conformemente a quest’ultimo ordine di riflessioni sembra pronunciarsi una piuttosto recente sentenza dei giudici di legittimità288, ove si afferma che, fra la teoria dell’accettazione del rischio e l’ulteriore impianto teorico il quale valorizza una distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente basata sulla dicotomia “previsione della concreta possibilità”/ “previsione dell’astratta possibilità” di realizzazione dell’evento, non vi sarebbe totale contraddizione, dal momento che l’accettazione del rischio sarebbe, nei casi specifici, ravvisabile soltanto in presenza (oltre ad ulteriori elementi di prova) della concreta possibilità di verificazione dell’evento: solo in questo caso, infatti, sarebbe possibile ascrivere alla sfera volitiva dell’agente, appunto, l’evento; lo

288 Cass. Pen., Sez. V, 17 settembre 2008 (dep. 1 dicembre 2008), n. 44712, in www.altalex.com. Si riporta, a sostegno delle osservazioni sviluppate, un significativo estratto della sentenza: “Accanto a numerose pronunce che fondano la sussistenza del dolo eventuale […] sul criterio della accettazione del rischio, ve ne sono altre che maggiormente pongono l’accento sul concetto di prevedibilità dell’evento, nel senso che sarebbe ravvisabile il dolo eventuale nel caso in cui il verificarsi dell’evento si presenti come concretamente possibile, mentre si verserebbe in ipotesi di colpa cosciente allorché la verificabilità dell’evento costituisca una mera ipotesi astratta. […]. A ben vedere, però, le due tesi principali in materia […] non si contraddicono del tutto, perché […] soltanto quando l’evento sia in concreto possibile e, quindi, prevedibile, si può avere un elemento di prova che consenta di ritenere, in presenza di ulteriori elementi, che l’agente non solo si sia concretamente rappresentato il rischio del verificarsi dell’evento, ma che lo abbia accettato, nel senso che si è determinato ad agire anche a costo di cagionare l’evento. In caso contrario, quando l’evento sia soltanto astrattamente verificabile e non sia concretamente prevedibile, appare ben difficile ascrivere lo stesso alla volizione dell’agente sia pure sotto il profilo della accettazione del rischio, non essendo la verificabilità dell’evento percepita dalla coscienza dell’agente come concretamente realizzabile.”

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stesso non potrebbe concludersi qualora l’evento si fosse presentato in termini puramente astratti essendo, in questo secondo caso, ravvisabile una condotta trascurata, avventata, imprudente e, quindi, connotata da aspetti tipicamente colposi.

6. La valorizzazione della conoscenza del rapporto causale fra condotta e risultato lesivo e teoria della “con – coscienza”

È opportuno fare riferimento, a questo punto, ad un particolare sviluppo teorico che mira a rivalorizzare la valutazione dell’elemento intellettivo ai fini dell’inquadramento del dolo eventuale e, di conseguenza, ai fini della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente: esso è basato, in particolare, sulla rappresentazione del nesso causale fra condotta e realizzazione del fatto di reato. Il relativo contributo, nell’ambito della dottrina italiana, è dovuto principalmente a Giovannangelo De Francesco, il quale formula, dapprima, tale impostazione teorica in uno scritto del 1988 (inserito in Riv. it. dir e proc. pen)289, riproponendola poi, tra l’altro, in tempi piuttosto recenti (2009), in Cass. pen. 290. Questa precisazione è necessaria in quanto, se si considera unicamente la prima formulazione della teoria sulla rappresentazione dei nessi causali, ne emerge un modello che sembra prospettare l’inquadramento dell’elemento volitivo del dolo in base alla sola considerazione della conoscenza del collegamento eziologico fra condotta ed evento; tale prima formulazione è stata, in effetti, criticata in quanto “oggettivizzazione” del profilo volitivo del dolo291; tuttavia, nella formulazione recente (quella del 2009), l’Autore sembra aggiungere precisazioni sostanziali alla luce delle quali dovrebbe conseguire un assetto che tende, sì, alla rivalorizzazione dell’elemento intellettivo, ma non in modo tale da giungere ad applicazioni più agevoli della forma di imputazione dolosa, bensì – al contrario – in modo da rendere più ristretta, rigorosa o, quantomeno, ponderata la configurabilità del dolo eventuale, senza ricorso a presunzioni o configurazione di dolo in re ipsa: non si sostiene, infatti, che l’elemento intellettivo il quale si presenti in un certo modo (e in particolare, come si è detto, come caratterizzato dalla conoscenza del nesso causale fra condotta e realizzazione del reato) possa condurre automaticamente alla prova decisiva dell’elemento volitivo; piuttosto, si tenta di delineare determinati aspetti che dovrebbero caratterizzare l’elemento intellettivo, e soltanto in presenza dei quali (in aggiunta rispetto ad ulteriori elementi di prova) potrebbe dirsi sussistente l’elemento volitivo292, inteso come

289 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 113 ss.290 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, dolo di pericolo, 5013 ss.291 G. CERQUETTI, Il dolo, 234 – 237; L. EUSEBI, Il dolo, 36 – 38 e nota (61).292 A sostegno di tali osservazioni, si noti come G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, dolo

di pericolo, 5014, prima di passare all’esposizione dettagliata dell’impostazione teorica da lui stesso sostenuta, e della quale si sta trattando, sottolinei chiaramente la necessità di salvaguardia del rispetto dei principi di materialità, idoneità offensiva, colpevolezza, inammissibilità di forme di responsabilità oggettiva. L’Autore prosegue, poi, richiamando la posizione di Cesare Pedrazzi, conformemente alla quale occorrerebbe ancorare il dolo ad un più “solido” e “robusto” fondamento intellettivo, alla luce del quale la determinazione ad agire dovrebbe configurarsi effettivamente come “scelta consapevole” nella direzione della lesione del

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“decisione di agire nella direzione dell’offesa”293. In altri termini, non si conferisce alla rappresentazione del nesso causale carattere decisivo per l’inquadramento del dolo eventuale, ma la si considera condizione necessaria a tale fine. Su questa stessa linea, si giunge anche a criticare negativamente, in generale, le impostazioni che tentino una alterazione o un ridimensionamento dell’elemento intellettivo ai fini dell’inquadramento del dolo e, in particolare, la teoria della c.d. “con – coscienza”294. In base a tale assetto, fin qui descritto nei suoi tratti essenziali, non sembra infondato sostenere che la più recente formulazione, da parte di De Francesco, della teoria in questione appaia maggiormente conforme ad una concezione del dolo come caratterizzato da distinti elementi strutturali (elemento intellettivo ed elemento volitivo) o, se non altro, meno esposta a critiche inerenti l’oggettivizzazione del dolo tramite la sussunzione dell’elemento volitivo alla scelta di agire a fronte di un determinato livello cognitivo.

Passando all’analisi dettagliata della teoria esposta da De Francesco, essa concepisce come elemento essenziale del dolo (e di qualsiasi forma di dolo) la “decisione consapevole” di attivare un processo causale “in direzione dell’offesa”: si sostiene, più precisamente, che l’elemento volitivo necessario ai fini dell’inquadramento del dolo potrebbe dirsi integrato soltanto qualora l’agente avesse deciso di realizzare la condotta a fronte della rappresentazione intellettiva del collegamento, sul piano causale, fra tale condotta ed evento lesivo295. Supponendo, quindi, l’atteggiamento del soggetto che si determini a porre in essere un certo comportamento, e lo faccia a fronte della rappresentazione, nel proprio schermo mentale, del collegamento eziologico fra tale comportamento ed evento lesivo, in questo caso la decisione di agire potrà ben configurare uno schema strutturale e psicologico ascrivibile alla sfera del dolo (e, prima che alla sfera del dolo, alla sfera della volontà), in quanto emergerebbe una “decisione di agire in modo tale da cagionare l’evento”, o una “scelta di agire in direzione dell’offesa”296. La rappresentazione della causalità, del resto, sarebbe ciò che rende concreta, nelle valutazioni dell’agente, la verificabilità dell’evento297.

Per evitare ogni equivoco, De Francesco precisa che il solo elemento intellettivo avente ad oggetto la percezione di una situazione di rischio o di pericolo non è, di per sé, decisivo ai fini del fondamento della responsabilità dolosa: infatti, la sola rappresentazione di una situazione di rischio, più o meno elevato, che ecceda comunque il livello del “rischio consentito”, non risulta sufficiente ad evincere la consapevolezza, da parte dell’agente, di porre in essere un decorso causale proiettato in direzione della lesione del bene giuridico; la percezione del processo eziologico in direzione dell’offesa deve essere, quindi, accertata in quanto effettiva ed attuale: il che dovrebbe scongiurare i rischi di una eccessiva “normativizzazione” del dolo, connessi

bene giuridico e, in quanto tale, come elemento idoneo a giustificare il fondamento del dolo (ivi, 5017). Lo stesso Autore precisa poi, con riguardo all’accertamento dell’elemento soggettivo, la non ammissibilità del ricorso a schemi presuntivi (ivi, 5020 – 5021).

293 Cfr. G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5018.294 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5021.295 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5017 – 5018.296 G. DE FRANCESCO, op. loc. ult. cit.297 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 145.

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all’effettuazione di valutazioni del “pericolo” concepito in modo separato rispetto all’atteggiamento personale del soggetto agente riguardo all’evento298. Del resto, l’inquadramento del dolo in base alla sola percezione del “pericolo” o del “rischio” giungerebbe a trasformare le fattispecie di danno in fattispecie di pericolo, divenendo frutto di valutazioni effettuate esclusivamente in una prospettiva ex ante, e trascurando il ruolo della volontà rispetto all’evento, ovvero “l’atteggiamento concretamente assunto dall’autore in ordine agli esiti finali del proprio operato”299. La ricostruzione delineata appare, inoltre, perfettamente conforme al tenore letterale dell’art. 43, comma 1, alinea 1, c.p., laddove si afferma che il delitto è doloso quando l’evento è “dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione o omissione” (con riferimento particolare all’espressione “voluto come conseguenza”)300.

Si osserva, nondimeno, che l’elemento strutturale della “scelta di agire in direzione dell’offesa” sarebbe comune a tutte le forme di dolo; le differenze fra esse andrebbero, quindi, rilevate con riferimento all’intensità del rapporto intercorrente tra la “finalità” perseguita direttamente dall’agente ed il risultato realizzato (chiaramente, se il risultato realizzato corrisponde alla finalità direttamente perseguita dall’agente, si avrà dolo intenzionale; negli altri casi, si avranno forme di dolo “non intenzionale”). Sostanzialmente si ribadisce, ancora una volta, che “volontà del fatto” non significhi, necessariamente, “intenzionalità del fatto”; inoltre, si evidenzia che la “volontà”, intesa come “scelta consapevole di attivare un processo causale in direzione dell’offesa”, si atteggi in modo unitario all’interno di ogni forma di dolo301. D’altra parte, considerando ancora una volta il dettato dell’art. 43, ove si fa riferimento all’evento “preveduto e voluto come conseguenza della propria azione o omissione”, si può ricavare un fondamento a sostegno della configurabilità di forme di dolo non intenzionale, dal momento che la norma non richiede specificamente che l’evento debba essere “intenzionalmente voluto”, ma soltanto che l’evento debba essere “voluto come conseguenza”302. A corollario delle osservazioni sviluppate, si giunge ad inquadrare il dolo eventuale come forma – base nell’ambito della categoria generale del dolo, in quanto esso sarebbe contraddistinto dai coefficienti psicologici minimi ed essenziali ai fini della configurazione, appunto, del dolo 303; parallelamente, il dolo intenzionale, generalmente considerato come forma “comune” di dolo, si caratterizzerebbe in quanto figura “speciale”, dotata di una connotazione aggiuntiva: l’intenzionalità, la quale assumerebbe un carattere accessorio rispetto alla base psicologica essenziale per la responsabilità dolosa304.

Sin qui si è fatto riferimento, fondamentalmente, all’inquadramento del dolo. Ad ogni modo, lo sviluppo teorico esposto è utile a descrivere, altresì, la struttura della colpa cosciente: questa si caratterizzerebbe in quanto “errore” sulla percezione del decorso causale, o “mancata percezione” di esso; in altri

298 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, dolo di pericolo, 5018.299 G. DE FRANCESCO, op. loc. ult. cit. 300 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 147.301 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, dolo di pericolo, 5018.302 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 147.303 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 149.304 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 150.

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termini, la colpa cosciente sarebbe contraddistinta da una rappresentazione, da parte dell’agente, della proiezione teleologica delle regole cautelari che egli violi (proiezione che, peraltro, dovrebbe essere considerata nel contesto concreto di riferimento, mentre non sarebbe sufficiente la sola consapevolezza del fatto di violare regole cautelari)305, accompagnata, tuttavia, da una errata valutazione delle circostanze complessive di fatto, a causa della quale non sarebbe configurabile una “scelta consapevole” di “agire in direzione dell’offesa”; dal che conseguirebbe, ovviamente, l’impossibilità di ascrivere la responsabilità dell’agente alla sfera del dolo. Del resto, un assetto di questo genere non ricadrebbe nell’inconveniente di configurare la colpa cosciente come caratterizzata dalla “previsione negativa” dell’evento: infatti, sulla base di quanto si è affermato, il soggetto che agisce con colpa cosciente si rappresenterebbe positivamente l’evento, nonché il significato teleologico assunto dalla regola cautelare violata nel contesto concreto di riferimento; l’errore ricadrebbe, invece, non già sull’evento, bensì sulla dinamica del decorso causale, la quale verrebbe percepita dall’agente come meramente potenziale, ma non come attualmente realizzabile306. In sintesi, chi agisce con colpa cosciente sarebbe consapevole del fatto di violare regole cautelari, nonché della proiezione teleologica di esse nel contesto concreto (se non percepisse la proiezione teleologica della regola cautelare violata nel contesto concreto, si avrebbe colpa incosciente, dal momento che, nella psiche dell’agente, mancherebbe la “previsione dell’evento”, stante la mancanza di percezione del collegamento dell’azione con il possibile risultato, nonché della capacità, insita nel rispetto della regola, di impedire l’evento307); tuttavia, egli valuterebbe erroneamente le circostanze complessive attuali e, di conseguenza, la potenziale dinamica del decorso causale: alla luce di ciò, l’elemento rappresentativo difetterebbe di quell’elemento di “conoscenza del concreto rapporto causale”, il quale sarebbe necessario al fine di ritenere sussistente il requisito volitivo, a sua volta concepito come “determinazione ad attivare un processo causale in direzione dell’offesa”308.

305 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, dolo di pericolo, 5020. ID., Dolo eventuale e colpa cosciente, 140 e 154, ove l’Autore evidenzia che la colpa cosciente necessiti di un elemento intellettivo nel quale debba essere proiettata la dimensione cautelare della regola di diligenza violata: l’agente dovrebbe, cioè, rappresentarsi effettivamente tale dimensione cautelare, alla luce dello specifico significato teleologico assunto dalla regola violata, e nel contesto concreto di riferimento; solo in tal modo – si sostiene – si andrebbe a configurare la colpa cosciente in base a connotati effettivamente propri della colpa, e non tramite elementi “presi a prestito” dal dolo. L’Autore, inoltre, adduce l’esempio del cacciatore che, essendo in dubbio sulla presenza di una persona dietro ad un cespuglio, venga convinto a sparare in quella direzione da un suo compagno il quale lo convinca che, in quel particolare giorno e a quell’ora, non avrebbe potuto esservi alcuna persona nei dintorni: qualora effettivamente il cacciatore si determini a sparare, attingendo ad una persona, non potrebbe configurarsi – si sostiene – colpa cosciente in quanto, se certamente vi era stata consapevolezza della violazione di una regola cautelate, d’altra parte non vi sarebbe stata percezione della proiezione teleologica della regola violata con riferimento al contesto concreto e specifico in cui è stata realizzata la condotta; mancherebbe, cioè, la conoscenza dello specifico significato teleologico della regola di diligenza violata, considerato nella situazione concreta (ivi, 154).

306 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 144.307 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 156.308 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, dolo di pericolo, 5020. L’Autore,

successivamente (ivi, 5022), applica, a titolo esemplificativo, l’impostazione teorica in questione

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Trasferendo la ricostruzione qui delineata sul versante dei reati di mera condotta, la configurazione della colpa cosciente non dovrebbe risultare incompatibile con essi dato che, partendo dall’assunto per cui il termine “evento” di cui all’art. 43 debba essere interpretato come sinonimo di “fatto tipico”309, sarebbe inquadrabile la colpa cosciente nel caso in cui il soggetto avesse agito essendosi rappresentato la possibilità di realizzazione del fatto tipico tramite una condotta trasgressiva di una regola cautelare (volta ad evitare la realizzazione del fatto tipico di riferimento), avendo percepito la proiezione teleologica della regola cautelare violata con riferimento al contesto concreto e, tuttavia, essendo incorso in un errore nella valutazione del collegamento causale tra condotta ed effettiva integrazione del fatto tipico310.

Quanto all’accertamento dell’elemento soggettivo, De Francesco sostiene che esso, in sede processuale, debba essere effettuato tramite modalità analoghe a quelle concernenti l’accertamento dell’errore rilevante ex art. 47 c.p.: si tratterebbe, quindi, di valutare non già elementi di carattere incerto (quali, ad esempio, “accettazione”, “consenso”, “fiducia nella non verificazione dell’evento”, ecc.), bensì l’effettiva sussistenza o meno della rappresentazione avente ad oggetto il collegamento causale concreto fra condotta ed evento; tale accertamento dovrebbe essere condotto, ovviamente, in considerazione di elementi di fatto, in forza dei quali possa valutarsi se sia verosimile che il soggetto si fosse o meno rappresentato l’effettivo nesso eziologico tra condotta e risultato lesivo: il che, tuttavia, dovrebbe essere effettuato a prescindere da non condivisibili semplificazioni probatorie, o presunzioni311.

L’argomento in esame merita di essere considerato anche alla luce del rilievo, anche esso sviluppato da De Francesco, delle conclusioni non condivisibili alle quali potrebbe giungersi attraverso una eccessiva valutazione del solo profilo volitivo, con relegazione dell’importanza di una analisi dell’elemento rappresentativo: nello specifico, si pone l’accento sul principio nihil volitum quin praecognitum, in base al quale non può darsi volontà in mancanza di rappresentazione. A tali fini, si adduce l’esempio di scuola, ormai classico, del nipote il quale induca il ricco zio ad intraprendere un viaggio aereo, nella speranza che si verifichi un incidente che provochi la morte dello zio: il tutto al fine di ereditare. Orbene, generalmente l’esempio in questione è citato nell’ambito delle esposizioni inerenti le teorie sulla causalità: in particolare, in base alla teoria della “causalità adeguata”, in un’ipotesi di questo tipo, qualora effettivamente l’evento (per caso) si verifichi, dovrebbe escludersi la

ai casi di contagio da HIV tramite rapporto sessuale non protetto: si sostiene la configurabilità del dolo eventuale qualora l’agente avesse avuto una “positiva e concreta cognizione dell’efficacia causale della propria condotta, la quale potrebbe desumersi, ad es., dal carattere ripetuto dei contatti sessuali, dalla mancanza di qualsiasi precauzione o controllo di tipo sanitario, dall’esistenza di eventuali fattori predisponenti al verificarsi dell’evento (riconducibili, in ipotesi, alla particolare debolezza delle condizioni di salute del partner); mentre, potranno riconoscersi gli estremi della colpa cosciente, laddove il soggetto fosse incorso in un errore a tale riguardo, in considerazione del carattere occasionale del rapporto, dell’ignoranza o sottovalutazione delle predette condizioni, ovvero del fatto di aver adottato delle precauzioni alternative o reputate comunque tali […], per quanto ben lontane dall’utilizzo di metodi realmente efficaci di prevenzione del pericolo.”

309 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 159.310 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 161. 311 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, dolo di pericolo, 5020 – 5021.

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responsabilità penale del nipote312. Tralasciando il discorso sulla causalità, ad ogni modo, si potrebbe, a tutta prima, concludere che il nipote avesse agito con “l’intenzione” di provocare la morte dello zio e, quindi, si potrebbe sostenere l’astratta configurabilità dell’imputazione a titolo di dolo (sempre – beninteso – tralasciando il discorso sulla causalità). Tuttavia, a ben vedere, ancor prima che il nesso causale manca, in effetti, un ulteriore elemento essenziale ai fini della struttura dell’illecito penale doloso: ciò che manca è la rappresentazione e, di conseguenza – non solo in base al principio del nihil volitum quin praecognitum, ma semplicemente anche in forza del fatto che la struttura del dolo richieda tanto la volontà quanto la rappresentazione – , non può configurarsi il dolo313. Il nipote del caso di scuola nutre una mera speranza, un mero auspicio: si tratta di aspetti ben diversi rispetto all’elemento rappresentativo concepito come conoscenza concreta degli elementi del fatto tipico (compresi i fattori causali), a sua volta necessaria per fondare una “decisione di agire in direzione dell’offesa”. Benché egli persegua il fine di “uccidere”, non si tratta di una vera e propria “intenzione”, in quanto è mancante l’elemento rappresentativo, necessario ai fini dell’inquadramento della volontà; al più potrà trattarsi, come si è detto, di un mero “auspicio”, o di una semplice “speranza”, non idonei a fondare i requisiti intellettivo e volitivo.

Il dolo sarebbe configurabile, nel quadro dell’esempio citato, soltanto qualora il nipote avesse agito a fronte della concreta conoscenza di determinati fattori i quali, anche essi concretamente, fondassero una rappresentazione della dinamica causale: ad esempio, qualora egli fosse stato a conoscenza del fatto che sull’aereo si sarebbero imbarcati dei terroristi aventi lo scopo di fare esplodere il velivolo; oppure, qualora lui solo fosse venuto conoscenza di un guasto dei motori dell’aereo che avrebbe potuto concretamente causare l’incidente mortale314.

Sulla scorta delle conclusioni esposte, dovrebbe giungersi ad una critica negativa delle impostazioni che tendono ad una alterazione dell’elemento intellettivo e, in particolare, della teoria della “con – coscienza”, in base alla quale non sarebbe necessaria, ai fini della configurazione dell’elemento rappresentativo proprio della struttura del dolo, una riflessione effettiva ed attuale da parte dell’agente su elementi costitutivi del fatto tipico, purché tali elementi fossero, dallo stesso agente, percepiti quantomeno in una sfera latente o subliminale: non può sfuggire il fatto che tale ricostruzione possa condurre, se estremizzata, all’affermazione della responsabilità per dolo qualora l’agente “non potesse non rappresentarsi la possibilità dell’evento” o “non potesse ignorare le circostanze di fatto dalle quali avrebbe potuto derivare l’evento”315. È chiaro che una conclusione del genere rappresenterebbe

312 La teoria della “causalità adeguata” postula, in effetti, la rilevanza penale della “causa” soltanto quando questa sia tipicamente idonea a provocare l’evento concreto, in base ad un criterio di prevedibilità basato, a sua volta, sull’id quod plerumque accidit; con esclusione, di conseguenza, della rilevanza penale del collegamento eziologico materiale, fra condotta ed evento concretamente realizzato, il quale sia una “peculiarità del caso concreto”. In questo senso, G. FIANDACA – E. MUSCO, op. ult. cit., 237.

313 In questo senso, chiaramente, G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5019 – 5020.314 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5020. 315 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5021. Si riporta, peraltro, che pratiche “presuntive” di

questo genere siano particolarmente frequenti nelle ipotesi di concorso degli amministratori in

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senz’altro una presunzione, dal momento che si considererebbe sussistente l’“effettiva e concreta percezione” di elementi del fatto tipico alla luce della mera “percepibilità” di essi. Oltretutto, le conseguenze connesse alla teoria della “con – coscienza” sarebbero sicuramente incompatibili con la valorizzazione della conoscenza del nesso causale fra condotta ed evento: la percezione nell’ambito di una sfera latente o subliminale è cosa ben diversa rispetto alla effettiva cognizione della realizzabilità della fattispecie penale come conseguenza eziologica della condotta316.

Del resto, De Francesco arriva anche a sviluppare critiche negative circa l’ipotesi di abolizione della categoria del dolo eventuale, con mantenimento delle sole categorie del dolo intenzionale e del dolo diretto, e con conseguente confluire alla sfera colposa delle ipotesi attualmente inquadrabili nell’alveo del dolo eventuale: invero, ne risulterebbe un ingiustificato trattamento privilegiato per soggetti che, pur non perseguendo intenzionalmente la realizzazione dell’evento, o pur non avendo previsto tale realizzazione come certa, avessero agito con piena cognizione del potenziale decorso causale317. In sintesi, vengono rigettati gli estremi opposti: da un lato, la presunzione di dolo eventuale in base alla sola “conoscibilità” dei fattori causali; dall’altro, l’eliminazione della categoria del dolo eventuale, a favore principalmente, ma non solo, della categoria della colpa cosciente318. Si afferma, nondimeno, che anche l’inquadramento della colpa cosciente debba prescindere da presunzioni: ciò significa che non si dovrebbe ritenere automaticamente sussistente la colpa cosciente alla luce della mera prevedibilità dell’evento, con esclusione, a priori, della colpa incosciente. Anche la colpa cosciente, insomma, esige la verifica dell’attuale previsione, non essendo sufficiente la mera potenzialità della previsione stessa319.

Nell’ambito del panorama italiano è rilevabile anche una concezione ulteriore, simile a quella delineata da De Francesco, ma non del tutto analoga ad essa, in base alla quale si sostiene che, ai fini della configurazione del dolo, sia necessaria la rappresentazione della possibilità (almeno della possibilità) di verificazione dell’evento, congiunta alla rappresentazione dell’obiettiva direzione della condotta verso l’offesa320: tale assetto troverebbe il proprio

reati societari o fallimentari commessi da altri soggetti dell’impresa. 316 G. DE FRANCESCO, op. loc. ult. cit.317 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5023 – 5024. L’Autore apporta l’esempio del terrorista

il quale abbia posizionato un ordigno esplosivo con il fine intenzionale di danneggiare un monumento (quindi, non con il fine intenzionale e diretto di uccidere), essendosi tuttavia rappresentato l’ipotesi che l’esplosione potesse ledere l’incolumità di persone o uccidere (quindi, con rappresentazione del concreto potenziale – ma non certo – nesso causale fra condotta ed evento lesivo per l’incolumità di persone): in questo caso, sarebbe inadeguata l’attribuzione di responsabilità per colpa. Del resto, l’inquadramento della colpa (cosciente) sarebbe più ragionevolmente sostenibile nell’ipotesi in cui lo stesso terrorista si fosse avvalso di complici i quali lo tenessero informato circa il passaggio o meno di persone nei pressi del luogo di collocazione dell’ordigno, volendo egli compiere un gesto esclusivamente “dimostrativo”, e non finalizzato a ledere l’incolumità di persone o uccidere.

318 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5025. 319 G. DE FRANCESCO, op. loc. ult. cit.320 M. MASUCCI, Naturalismo e normativismo nella teoria del dolo. Premesse per una

ridefinizione dei limiti della responsabilità dolosa, Roma, 2002, 381 – 388. Lo sviluppo argomentativo esposto da Masucci è analizzato anche da G. CERQUETTI, Il dolo, 238 – 241.

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fondamento non solo all’interno dell’art. 43, bensì alla luce di una visione coordinata fra art. 43 ed art. 82 (quest’ultimo, in particolare, da considerarsi fondamento del requisito dell’obiettiva direzione della condotta verso l’offesa)321.

Anche nell’ambito della dottrina tedesca non mancano esponenti i quali hanno sostenuto impostazioni basate sulla valorizzazione della conoscenza dei nessi causali, intesa come necessaria ai fini del dolo: in particolare è possibile fare riferimento alla concezione di Struensee, il quale considera la colpa cosciente come caratterizzata non già dal disconoscimento della possibile verificazione dell’evento, bensì dall’ignoranza di “anelli causali” tra azione ed evento. Analogamente, Heribert Schumann definisce la colpa cosciente come contraddistinta da un’ignoranza di circostanze di fatto causali rispetto all’evento322.

Le critiche negative generalmente mosse alle teorie che valorizzano, ai fini del dolo, la rappresentazione del nesso causale sfociante nell’evento (e che, quindi, concepiscono la colpa cosciente come errore o ignoranza ricadenti sugli aspetti del nesso causale) evidenziano, perlopiù, l’erroneità dell’equiparazione fra “volontà” e “rappresentazione ex ante” del nesso causale fra condotta ed evento lesivo. Si è osservato, in particolare, che la decisione di agire a fronte della rappresentazione del nesso causale non ponga luce sull’effettivo rapporto intercorrente fra tale decisione ed evento323; inoltre, sostanzialmente sulla stessa linea, si è posto l’accento sull’inadeguatezza della svalutazione del requisito volitivo, il quale dovrebbe, invece, godere di autonomia strutturale e funzionale ai fini della configurazione del dolo (nonché, in negativo, ai fini dell’inquadramento della colpa con previsione): ritenere automaticamente sussistente la volontà alla luce della sola rappresentazione dell’evento, nonché dei nessi causali che intercorrano fra condotta ed evento, significa dequalificare l’elemento volitivo324. D’altra parte, il filone critico di cui trattasi non condivide neppure la concezione della colpa cosciente come “errore sui nessi causali”: invero, si sostiene che, in tal modo, verrebbe a configurarsi comunque una previsione “astratta” o “negativa”, in contrasto con il dato normativo di cui all’art. 61, n. 3325. Del resto, si giunge ad inquadrare la teoria sui nessi causali nell’ambito del paradigma della teoria della rappresentazione, in base alla quale la volontà potrebbe avere ad oggetto la sola condotta, ma non l’evento o gli elementi comunque diversi dalla condotta326: dal che si dovrebbe ricavare l’esposizione della teoria qui analizzata ai medesimi rilievi critici mossi con riguardo alle impostazioni riconducibili al paradigma intellettivo. Le osservazioni critiche esposte sono sintetizzabili nella conclusione per cui la teoria inerente la valorizzazione della rappresentazione dei nessi causali conduca ad una eliminazione dell’autonomia del requisito volitivo (necessario ai fini del dolo) e, quindi, alla c.d. “oggettivizzazione” del dolo327.

321 M. MASUCCI, Naturalismo, 381 ss. 322 L’esposizione di tali teorie, rilevabili nel panorama della dottrina tedesca, è effettuata

da G. CERQUETTI, Il dolo, 242 – 244. 323 In questo senso, L. EUSEBI, Il dolo, 36 – 38. 324 G. CERQUETTI, Il dolo, 236.325 G. CERQUETTI, Il dolo, 237.326 G. CERQUETTI, Il dolo, 235.327 G. CERQUETTI, Il dolo, 238.

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Tuttavia, come si è già sostenuto, va preso atto della recente riproposizione della teoria sulla valorizzazione dei nessi causali effettuata da parte di De Francesco, la quale sembra maggiormente orientata verso un compromesso volto a non eliminare l’autonomia dell’elemento volitivo, tramite la precisazione della inadeguatezza del ricorso a presunzioni in sede di accertamento dell’elemento soggettivo328, nonché tramite l’accento posto dallo stesso Autore sulla necessità di preservare i principi fondamentali del diritto penale, quali i principi di materialità, personalità della responsabilità penale, idoneità offensiva, colpevolezza329.

7. Formule di Frank e teoria dell’“accettazione con approvazione in senso giuridico dell’evento”: la valorizzazione del profilo volitivo

Il penalista tedesco Reinhard Frank, tra il 1890 e gli anni Trenta del Novecento, propose due formule finalizzate alla prova del dolo eventuale330; a dire il vero, la prima formula proposta da Frank fu sviluppata – lo si evince da una precisazione dello stesso Frank – a partire da un esempio enunciato, nel 1844, da parte di Breidenbach e, originariamente, mirava a definire il dolo eventuale nel suo contenuto sostanziale. Solo successivamente (intorno agli anni Trenta del Novecento), Frank ridimensionò la portata della formula, riducendola a criterio probatorio331.

Quanto alla prima formula, in base ad essa, ai fini della prova del dolo eventuale, si dovrebbe accertare che (o “qualcosa corrispondente al fatto che”332) il soggetto avrebbe agito ugualmente se avesse avuto la certezza di provocare l’evento (fermo restando, ovviamente, la necessità della sussistenza dell’elemento intellettivo, ossia della rappresentazione, da parte dell’agente, della possibilità di realizzazione dell’evento tramite la condotta) 333; qualora, invece, si accerti che il soggetto, a fronte della certezza di realizzazione dell’evento, si sarebbe astenuto dall’agire, risulterebbe la configurazione della colpa cosciente334.

La seconda formula, invece, abbandona la struttura di giudizio ipotetico insita nella prima formula, ed identifica il dolo eventuale nella condotta dell’agente il quale, a fronte della rappresentazione della possibilità di realizzazione dell’evento, si prospetti, mentalmente, il seguente tipo di ragionamento: “può accadere o non accadere; può succedere o non succedere;

328 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, dolo di pericolo, 5020.329 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5014.330 M. DONINI, Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione. Le Sezioni Unite

riscoprono l’elemento psicologico, in Cass. pen., 2010, 7/8, 2559 – 2560. L’Autore richiama a sua volta, in nota (8), R. FRANK, Vorstellung und Wille in der modernen Doluslehre, in ZStW, 1890, 211 – 217.

331 G. CERQUETTI, Il dolo, 265; M. DONINI, op. ult. cit., 2560, nota (9).332 M. DONINI, op. ult. cit., 2570. 333 M. DONINI, op. ult. cit., 2560; S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, 9 – 10; S.

CANESTRARI, op. ult. cit., 47. 334 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 10; S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit.

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in ogni caso, io agisco”335. Quest’ultima formula si avvicina molto, quindi, alle impostazioni che concepiscono il dolo eventuale come scelta di agire “costi quel che costi”, o “a costo di ledere” beni giuridici. In entrambi i casi, si tratta – come si è detto – di formule finalizzate a fornire criteri probatori, e non alla definizione sostanziale di dolo eventuale e colpa cosciente336.

Occorre evidenziare il fatto che Frank aderisse, comunque, alla teoria della rappresentazione337; alla luce di ciò, è possibile rilevare il modo in cui il penalista tedesco, muovendo – appunto – dalla teoria della rappresentazione, arrivi a postulare due formule le quali vadano oltre la concezione del dolo inteso solamente come rappresentazione certa del fatto338: in effetti, si giunge ad inquadrare il dolo in un atteggiamento interiore, nutrito da parte dell’agente, di “disprezzo”, o di particolare “noncuranza”, “mancanza di scrupoli” o “mancanza di riguardi” nei confronti di beni giuridici339; tutto ciò aggiunge chiaramente, quale requisito ulteriore e necessario per il dolo, un quid pluris rispetto al solo elemento rappresentativo, concretizzando un tentativo di valorizzazione del profilo volitivo.

Fermo restando i pregi comunemente riconosciuti alle formule di Frank, tuttavia, già di fronte a queste prime osservazioni non può sfuggire il “pericolo”, insito nel ricorso alla prima formula, di incorrere in una valutazione dell’autore, anziché del fatto: tale formula implica la verifica del punto a cui il soggetto sarebbe stato “capace di arrivare” pur di persistere nella tenuta della propria condotta, con conseguente rischio di valutazione della capacità a delinquere del soggetto, nonché del suo livello di sensibilità nei confronti di beni giuridici, anche ai fini del giudizio di colpevolezza (e non solo ai fini della commisurazione della pena)340.

L’utilizzo della prima formula di Frank, ad ogni modo, inquadra il dolo eventuale in un atteggiamento dell’agente che rivelerebbe il “consenso”, l’“approvazione”, ovvero l’“accettazione con approvazione” della lesione del bene giuridico: in effetti, tale formula è utilizzata nell’ambito della teoria c.d. “del consenso” la quale, proprio per il fatto del ricorso alla prima formula di Frank, è anche denominata “teoria ipotetica del consenso” (dato che la prima formula di Frank postula, appunto, l’effettuazione di un giudizio ipotetico)341.

Per quanto concerne gli aspetti positivi generalmente riconosciuti alle formule di Frank (non solo da parte di chi aderisce ad esse, bensì anche da parte di chi le critica negativamente), deve essere, anzitutto, preso atto che la valorizzazione dell’atteggiamento dell’agente nei confronti dell’evento contribuisca ad un positivo distacco da una concezione rigidamente naturalistica dell’elemento soggettivo del reato342; effettivamente, le formule di Frank mirano a valorizzare la distinzione fra “voler rischiare”, o “voler agire (rischiando)”, e “volere l’evento”: e tale distinzione è valorizzata anche da parte

335 M. DONINI, op. loc. ult. cit.; S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 10. 336 M. DONINI, op. ult. cit., 2561.337 M. DONINI, op. ult. cit., 2560.338 Così S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit.339 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 14. 340 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit. 341 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 45 – 47.342 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 11.

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di ulteriore dottrina, compresi esponenti i quali criticano negativamente la prima formula di Frank343. In secondo luogo, le formule di Frank risultano applicabili in modo coerente alle ipotesi in cui si tratti di valutare l’elemento soggettivo dell’agente che avesse realizzato la condotta versando in una situazione di dubbio o incertezza circa la sussistenza dei presupposti del fatto tipico344.

D’altra parte, non mancano critiche negative dottrinali che pongono in evidenza i punti deboli delle formule di Frank. In primo luogo, con particolare riguardo alla prima formula, stante il fatto che essa postuli la necessità di effettuazione di un giudizio ipotetico circa il comportamento che sarebbe stato tenuto dall’agente qualora egli avesse avuto certezza di realizzazione dell’evento, ne consegue una difficile praticabilità, sul piano processuale, in tutti i casi in cui l’agente stesso, di fronte alla certezza di provocare l’evento, avrebbe avuto forti perplessità nel decidere, poiché evento intenzionalmente perseguito ed evento collaterale gli risultassero quasi equivalenti345: infatti, se la praticabilità della prima formula di Frank sarebbe agevole nel caso in cui gli interessi coinvolti fossero evidentemente incommensurabili, così non sarebbe se, invece, tale incommensurabilità fosse mancante. Inoltre, si è posto in evidenza che l’accertamento del dolo dovrebbe essere effettuato avendo in considerazione non già l’atteggiamento che l’agente avrebbe tenuto qualora avesse avuto la certezza di verificazione dell’evento (quindi, un atteggiamento ipotetico), bensì l’effettivo atteggiamento dell’agente nel caso concretamente verificatosi346. Nondimeno, si osserva che l’applicazione della prima formula di Frank condurrebbe, in modo non condivisibile, ad escludere senz’altro il dolo eventuale nell’ipotesi in cui la realizzazione dell’evento collaterale, seppur messa in conto dall’agente, avrebbe rappresentato il fallimento del piano perseguito dall’agente stesso, ovvero fosse in parziale o totale antagonismo con tale piano347.

343 G. FORTE, Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità , 837 – 838. L’Autore pone chiaramente in evidenza la distinzione concettuale tra “voler agire” nonostante la previsione dell’evento e, quindi, in presenza della consapevolezza del carattere rischioso della propria condotta (che, per tale aspetto, potrebbe provocare l’evento non voluto), e “volere l’evento”. Lo stesso Autore, tuttavia, si esprime negativamente con riguardo alla prima formula di Frank, evidenziando in particolare gli aspetti problematici connessi alla struttura di giudizio ipotetico che la contraddistingue (ivi, 834).

344 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit.345 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 13.346 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 48.347 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit., il quale riporta l’esempio della causazione, tramite

sevizie, della morte della persona dalla quale si intendeva ottenere informazioni. Nello stesso senso, S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit., il quale riporta il noto “caso di Lacmann”: un giovane scommette, per venti marchi, di essere in grado di colpire, sparando, una sfera tenuta in mano da una ragazzina, progettando, tra l’altro, la via di fuga per l’ipotesi in cui avesse fallito il tiro provocando eventi lesivi; effettivamente, l’errore di mira provoca la morte della ragazzina. In un caso di questo genere, con applicazione della “teoria del consenso”, o della prima formula di Frank, dovrebbe concludersi per l’esclusione del dolo, dato che, se il giovane avesse avuto la certezza di realizzazione dell’evento, avrebbe avuto certezza della perdita della scommessa, e sicuramente non avrebbe scelto di agire comunque; d’altra parte, una soluzione di questo genere non appare condivisibile, in quanto è possibile mettere in conto la realizzazione di un determinato evento anche qualora questo rappresenti il fallimento del risultato perseguito (potrebbe, ad esempio, deporre nel senso della “messa in conto” dell’evento il fatto che il giovane avesse progettato la via di fuga, per l’ipotesi in cui avesse fallito il tiro). In questo stesso

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Ci si domanda, inoltre, se la prima formula di Frank non “richieda troppo”: infatti, neppure per il dolo intenzionale può dirsi assodato che l’agente avrebbe posto in essere la condotta anche se avesse avuto la certezza di realizzazione della fattispecie penale tipica; si evidenzia che sono numerose le decisioni della vita, assunte dai singoli intenzionalmente, le quali a posteriori, ed in considerazione del risultato effettivamente realizzato, non sarebbero state di nuovo effettuate: il che non vale, tuttavia, ad escludere il comportamento intenzionale348. Si osserva quindi, in base alla considerazione appena effettuata, che la valutazione a posteriori dell’ipotetico comportamento che avrebbe tenuto l’agente qualora avesse avuto la certezza di realizzazione dell’evento, non solo non possa essere decisiva, ma possa risultare addirittura fuorviante: ad avere importanza è l’atteggiamento psicologico tenuto dal soggetto al momento della realizzazione della condotta, ovvero ciò che l’agente ha voluto al momento della realizzazione della condotta; la considerazione di come l’agente si sarebbe comportato se avesse avuto la certezza di realizzazione dell’evento non varrebbe a porre luce su ciò che egli avesse effettivamente voluto al momento dell’azione concretamente realizzata349. Ne consegue che la prima formula di Frank dovrebbe costituire non già un parametro decisivo ai fini della prova dell’elemento soggettivo, bensì uno degli ausili (tra gli altri; non l’unico) volti a conferire praticabilità ai criteri dell’accettazione del rischio o dell’accettazione/volizione dell’evento350.

Per altro verso, va richiamata anche quella parte di dottrina che aderisce alle formule di Frank351: a partire dalla considerazione per cui il criterio dell’“accettazione del rischio” sia inidoneo alla descrizione del dolo eventuale in quanto, se mai, effettivamente identificativo della colpa cosciente352 (con accoglimento, quindi, dell’impostazione per la quale anche la colpa cosciente sarebbe caratterizzata da una componente di “accettazione di rischio”) si sostiene che l’utilizzo, in particolare, della prima formula possa condurre all’individuazione dell’unico stato psicologico “reale” del soggetto che sia in grado di differenziare dolo eventuale e colpa cosciente – o, in altri termini, di differenziare la mera assunzione consapevole di un rischio rispetto all’accettazione della realizzazione dell’evento –, relativo al momento antecedente alla verificazione del fatto di reato, e conformemente al quale si avrebbe dolo eventuale nel caso in cui il soggetto stesso avesse “messo in conto” la realizzazione dell’evento lesivo come “prezzo da pagare” per il perseguimento del proprio fine intenzionale. In altri termini, identificherebbe il dolo eventuale l’atteggiamento psicologico dell’agente il quale consideri che, per la realizzazione del proprio fine intenzionale, “valga la pena” di “pagare il prezzo” consistente nella lesione di beni giuridici (chiaramente si tratterà dei beni giuridici posti in pericolo dalla tenuta della condotta adottata dall’agente, e correlata al perseguimento del fine intenzionale): in tal senso, il soggetto si

senso depone anche G. CERQUETTI, Il dolo, 268.348 M. DONINI, op. ult. cit., 2570.349 M. DONINI, op. loc. ult. cit.350 M. DONINI, op. loc. ult. cit.351 In particolare, L. EUSEBI, Appunti, 1089; ID., Il dolo, 176 ss. Aderisce alla formula di

Frank, tra l’altro, anche A. PAGLIARO, Discrasie, 323.352 L. EUSEBI, Appunti, 1088 – 1089.

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determinerebbe ad agire “ad ogni costo”, e non desisterebbe dalla condotta neppure di fronte alla certezza della realizzazione dell’evento; dal che conseguirebbe un atteggiamento psicologico che potrebbe essere sintetizzabile nell’affermazione “(l’evento) avvenga pure”353. A supporto di tale impostazione, viene posto in evidenza come, in svariate circostanze della vita, ci si esponga consapevolmente a pericolo senza accettazione del corrispettivo rischio: emblematico è l’esempio dell’alpinista, il quale è conscio dei rischi ai quali si esponga (precipitare, restare sepolto da slavine, ecc.), e li assume consapevolmente, ma non ne accetta la realizzazione; lo stesso può ben accadere anche nella psiche dell’autore del reato, e le formule di Frank permetterebbero di effettuare la distinzione fra “assunzione del rischio” accompagnata dall’accettazione “della realizzazione dell’evento” potenzialmente connesso al rischio, ed “assunzione del rischio” non accompagnata dalla suddetta “accettazione di realizzazione dell’evento” 354.

L’impostazione dottrinale appena esposta (favorevole alle formule di Frank e, in particolare, alla prima formula), replica alla critica relativa alle difficoltà di effettuazione di un giudizio ipotetico, evidenziando che un giudizio di tale genere venga comunque effettuato, in ambito penale, anche ad altri fini (ad esempio ai fini della causalità, in base al criterio della conditio sine qua non)355; in secondo luogo, si osserva che esso sia comunque il solo modo che consenta la valutazione di una effettiva situazione psichica, la quale sarebbe l’unico tratto realmente differenziante l’agire con dolo eventuale rispetto all’agire alla luce della mera consapevolezza del rischio che si assuma356. Si replica, altresì, alla critica della prima formula di Frank la quale pone in evidenza che l’applicazione di essa condurrebbe all’esclusione (non condivisibile) del dolo laddove la realizzazione dell’evento accessorio configuri il fallimento dell’obiettivo intenzionalmente perseguito dall’agente: tale “punto debole” sarebbe superabile mediante un correttivo per cui si avrebbe dolo eventuale qualora l’agente non avrebbe desistito dalla condotta se avesse avuto la certezza che, dopo la realizzazione del fine intenzionale, si sarebbe concretizzato l’evento accessorio357; fermo restando la configurazione di tale correttivo, si sostiene che, comunque, non vi siano ragioni per – al contrario – affermare a priori il dolo eventuale in casi di questo genere, posto che ciò si risolverebbe in valutazioni concernenti l’apprezzabilità dei motivi che inducano (o avrebbero indotto) un

353 L. EUSEBI, Appunti, 1089. 354 L. EUSEBI, op. loc. ult. cit.355 A tale osservazione replica G. CERQUETTI, Il dolo, 269, evidenziando la differenza

sostanziale fra verifica di un “rapporto” (qual è il rapporto di causalità) e verifica di uno “stato” (cioè, in questo caso, la volontà).

356 L. EUSEBI, op. ult. cit., 1090.357 L. EUSEBI, op. loc. ult. cit., nota (106). Questa è la più recente formulazione esposta

dall’Autore. A dire il vero, lo stesso Eusebi aveva precedentemente esposto una prospettiva in base alla quale la prima formula di Frank non avrebbe escluso necessariamente il dolo qualora si fosse accertato che il soggetto, se avesse avuto la certezza di realizzazione dell’evento, non avrebbe agito unicamente in quanto la realizzazione dell’evento avrebbe rappresentato la frustrazione del fine intenzionale (L. EUSEBI, Il dolo, 185 s.): in questo senso l’Autore deponeva, originariamente, per un limite dell’efficace applicazione della prima formula di Frank, nei casi in cui la realizzazione dell’evento collaterale rappresentasse il fallimento del piano intenzionalmente perseguito dall’agente.

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soggetto ad agire a fronte della certezza di realizzazione dell’evento358. Infine, si osserva che i criteri tradizionalmente utilizzati ai fini dell’inquadramento del dolo eventuale e della colpa cosciente – quali il “consenso alla lesione del bene giuridico”, la “decisione contro il bene giuridico”, la “fiducia nella non verificazione dell’evento” (ai fini della colpa cosciente) – rischino di non risultare univoci, se non concretizzati attraverso la prima formula di Frank359; tale mancanza di univocità risulterebbe alla luce della “contiguità” fra le figure del dolo diretto e del dolo eventuale, entrambe caratterizzate dal fatto che l’agente realizzi la condotta perseguendo un fine intenzionale, ed essendo disposto a “pagare il prezzo” consistente nella realizzazione di un evento collaterale non intenzionalmente perseguito: la differenziazione tra tali forme di dolo (eventuale e diretto) consisterebbe nella componente dell’accertamento della “disponibilità a pagare il prezzo”, la quale, nel caso del dolo diretto, si dovrebbe evincere alla luce della certezza di realizzazione dell’evento stesso, percepita ex ante; mentre, nel caso del dolo eventuale, sarebbe da accertare attraverso l’applicazione della prima formula di Frank360.

Si è detto dell’utilizzo della prima formula di Frank da parte della teoria “ipotetica del consenso”. Orbene, nel dopoguerra, tale teoria ha ricevuto un’interpretazione restrittiva da parte della Corte federale tedesca, la quale ha valorizzato il concetto di “accettazione con approvazione in senso giuridico” dell’evento: in particolare, il BGH ha sostenuto che l’approvazione necessaria ai fini della configurazione del dolo eventuale (appunto, l’“approvazione in senso giuridico”) non sia incompatibile con un mero stato emozionale contrario alla realizzazione dell’evento e possa, quindi, sussistere comunque qualora il soggetto, perseguendo uno scopo intenzionale, e non potendo raggiungerlo altrimenti, se non ponendo in essere una condotta che possa realizzare l’evento lesivo (non intenzionalmente perseguito, e magari anche non desiderato), decida di realizzare la condotta, rassegnandosi al fatto che essa possa provocate tale evento lesivo non intenzionalmente perseguito (e non desiderato); in questo senso, l’evento collaterale ricadrebbe nella sfera della volontà del soggetto agente361.

È stato puntualmente osservato che il concetto di “approvazione in senso giuridico”, come definito dalla Corte federale tedesca, resti perlopiù oscuro ed indefinito362 e, di conseguenza, manipolabile dalla giurisprudenza in modo tale da soddisfare le esigenze di politica criminale o sanzionatorie emergenti di volta in volta, a seconda dei casi concreti e specifici363. Fondamentalmente, il BGH si

358 L. EUSEBI, op. loc. ult. cit.359 L. EUSEBI, op. ult. cit., 1090 – 1091. 360 L. EUSEBI, op. ult. cit., 1090.361 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 49. L’Autore riporta anche, in nota (95), la traduzione

della massima enunciata dal BGH all’interno della sentenza con la quale fu affermata la concezione dell’“accettazione con approvazione in senso giuridico”: “Il dolo condizionato può essere affermato anche quando il reo non desidera la realizzazione dell’evento. In senso giuridico egli approva comunque questo evento quando, per ottenere lo scopo desiderato, lo accetta necessariamente, cioè quando egli, non potendo raggiungere altrimenti il suo scopo, si rassegna anche al fatto che la sua azione adduca l’evento di per sé non desiderato e, perciò, lo vuole nell’ipotesi che si verifichi”.

362 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit.363 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 50 – 51, 53.

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limita a sottolineare l’insufficienza della valutazione del solo elemento cognitivo ai fini dell’inquadramento del dolo e, parallelamente, nonché allo stesso fine, la necessità di valutazione di un quid pluris concernente il versante volitivo, il quale dovrebbe essere individuato nell’“accettazione con approvazione in senso giuridico” dell’evento. Sennonché, il concetto di “accettazione con approvazione in senso giuridico” rimane definito solamente in negativo, ma non ben inquadrato in positivo364, e finisce per confondersi, in sostanza, con i tradizionali criteri dell’“accettazione del rischio”, della “presa sul serio” o affini365. Ma vi è di più: spesso, la prova della sussistenza della componente volitiva (quindi, dell’“accettazione con approvazione in senso giuridico” dell’evento), viene fondamentalmente ricavata da aspetti che attengono al livello cognitivo366 e, alla luce di ciò, l’evanescenza del tentativo di valorizzazione del profilo volitivo, nonché la possibilità di uso arbitrario della formula dell’“accettazione con approvazione in senso giuridico” a seconda delle esigenze di politica criminale che vengano in questione di volta in volta, risultano palesi. Dovrebbe, pertanto, risultare fondata l’affermazione dell’incompatibilità della pratica giurisprudenziale di cui trattasi rispetto ai principi fondamentali del nostro diritto penale367.

Si è sostenuto che sia incompatibile con l’ordinamento italiano, comunque, non solo la teoria dell’“accettazione con approvazione in senso giuridico”, ma anche, in linea generale, la teoria del consenso basata sulla prima formula di Frank: essendo l’elemento volitivo prescritto espressamente dall’art. 43 come elemento strutturale del dolo (e, quindi, di ogni forma di dolo), non può essere accolta la soluzione consistente nella sostituzione di tale requisito strutturale ed effettivo con un elemento di carattere psichico ed ipotetico368. Sulla stessa linea si muove chi, in dottrina, ha identificato nella prima formula di Frank una concezione normativa del dolo369. Resta da prendere atto che, d’altra parte, le formule di Frank risultino, perlopiù, compatibili con l’ordinamento tedesco, che non contempla una definizione di dolo dalla quale emerga letteralmente il profilo volitivo370.

364 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 49 – 50.365 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 50.366 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 51 – 52. L’Autore riporta, quale esempio emblematico

dell’uso arbitrario del concetto di “accettazione con approvazione in senso giuridico”, la giurisprudenza del BGH relativamente ai casi di contagio da HIV da rapporto sessuale non protetto: essa tende a sottolineare la non sufficienza della sola valutazione della componente intellettiva e, parallelamente, la necessità di valutazione dell’elemento volitivo; tuttavia, se si vanno ad osservare gli aspetti generalmente utilizzati quali “prove” dell’elemento volitivo (che, nel caso della forma eventuale del dolo, dovrebbe inquadrarsi nell’“accettazione con approvazione in senso giuridico” dell’evento), non può sfuggire che essi si riducano ad una “parafrasi” della componente cognitiva, trattandosi, ad esempio, della valutazione del livello di informazione ricevuto da parte del personale medico relativamente alle modalità ed ai rischi di contagio, ovvero delle dichiarazioni rese dallo stesso imputato alla polizia, nelle quali egli riconoscesse il carattere riprovevole e non scusabile della propria condotta (queste ultime, in particolare, sarebbero senz’altro segno dell’atteggiamento psicologico del soggetto al momento della resa delle dichiarazioni stesse, ma non del suo atteggiamento psicologico al momento della realizzazione della condotta penalmente rilevante).

367 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 53.368 G. CERQUETTI, Il dolo, 266.369 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 47. 370 G. CERQUETTI, op. loc. ult. cit.

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A parere di chi scrive, gran parte dei problemi relativi all’applicazione della prima formula di Frank, nonché alla compatibilità di essa con l’ordinamento italiano, potrebbe essere superata se si considerasse non già la prima formula, bensì la seconda (spesso trascurata a favore della prima formula, e questo anche da parte degli esponenti della dottrina i quali aderiscono, tendenzialmente, al modello inquadrato da Frank), identificante il dolo eventuale nell’atteggiamento psicologico del soggetto che si determini ad agire “costi quel che costi” e, più precisamente, tramite un ragionamento del tipo “può accadere o non accadere; in ogni caso, io agisco”. Anzitutto, non si tratta di una formula avente la struttura di giudizio ipotetico, per cui dovrebbe venir meno il ramo di critiche negative basate, appunto, sul fatto che la prima formula configuri un giudizio ipotetico: si dovrebbe infatti, in applicazione della seconda formula, valutare lo stato psicologico del soggetto che fosse effettivamente sussistente al momento di realizzazione della condotta, inquadrabile, come si è detto, nella determinazione ad agire “ad ogni costo”, “a costo di provocare l’evento”; non verrebbe in gioco, d’altro canto, la valutazione dello stato psicologico che il soggetto avrebbe assunto se, ipoteticamente, avesse avuto la certezza di realizzazione dell’evento collaterale. Il ragionamento del tipo “può accadere o non accadere; in ogni caso, io agisco” appare effettivamente come elemento psicologico il quale permetta di distinguere dolo eventuale e colpa cosciente, posto che quest’ultima – come si è già avuto modo di accennare, e come meglio si vedrà nel paragrafo seguente – consiste anche essa in una certa misura di accettazione di rischio371: entrambe le figure (dolo eventuale e colpa cosciente), quindi, sarebbero caratterizzate dalla rappresentazione, positiva e persistente al momento di realizzazione della condotta, della possibilità di verificazione del fatto di reato, accompagnata dall’assunzione del relativo rischio e, quindi, da una componente di accettazione del rischio; ciò che mancherebbe alla colpa cosciente e che, invece, contraddistinguerebbe il dolo eventuale, sarebbe la disponibilità alla realizzazione del fatto di reato, pur di tenere (o persistere nel tenere) la condotta correlata al perseguimento del proprio fine intenzionale.

In secondo luogo, dovrebbe venir meno anche la critica negativa, mossa con riguardo all’eventualità di applicazione della prima formula di Frank, in base alla quale tale formula condurrebbe ad escludere in ogni caso il dolo nelle ipotesi in cui la verificazione dell’evento rappresenti la frustrazione del fine intenzionalmente perseguito dall’agente: infatti, il ragionamento del tipo “può accadere o non accadere; in ogni caso io agisco” può essere effettuato anche se la realizzazione dell’evento comporterebbe il fallimento dell’obiettivo intenzionalmente perseguito; un soggetto potrebbe certamente essere disposto

371 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 38, evidenzia che l’assunzione di un rischio sia implicita nella condotta consapevolmente negligente o imprudente (l’Autore sottolinea – ivi, 41 – che la colpa con rappresentazione di cui all’art. 61, n. 3, debba necessariamente essere “cosciente”, nel senso che debba essere caratterizzata dalla coscienza del fatto di trasgredire regole cautelari di condotta): ragion per cui la determinazione ad agire, o a persistere nella tenuta della condotta, a fronte della rappresentazione della possibilità di verificazione dell’evento (la quale, ai sensi dell’art. 61, n. 3, ed ai fini della colpa cosciente, deve persistere al momento della tenuta della condotta, e non deve essere stata sostituita da una controprevisione, da una rappresentazione negativa o dalla rimozione del dubbio) comporterebbe, giocoforza, una certa misura di “accettazione del rischio”.

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ad agire “costi quel che costi” pur di persistere nella tenuta della condotta necessaria per il perseguimento del proprio fine intenzionale, mettendo anche in conto l’eventuale frustrazione di quest’ultimo.

Altresì, l’applicazione della seconda formula di Frank non dovrebbe esporsi al pericolo di ricorso a valutazioni dell’autore, anziché del fatto: non si tratterebbe, invero, di andare a valutare fino a che punto il soggetto sarebbe “stato capace” di arrivare se avesse avuto la certezza di realizzazione dell’evento (dal che conseguirebbe una valutazione della capacità a delinquere ai fini del giudizio di colpevolezza, la quale è inammissibile); del resto, è possibile effettuare un ragionamento interiore del tipo “può accadere o non accadere; in ogni caso io agisco” indipendentemente dal livello di capacità a delinquere. Ciò che andrebbe valutato non è il punto a cui il soggetto “sarebbe stato capace di arrivare” se avesse avuto la certezza di realizzazione dell’evento, bensì se egli fosse stato disposto, a fronte della rappresentazione della possibilità di verificazione dell’evento, a tenere la (o a persistere nella tenuta della) propria condotta, anche a costo di realizzare l’evento collaterale.

Un ulteriore ordine di critiche generalmente rivolte all’adesione alla prima formula di Frank consiste, come si è avuto modo di osservare, nel rilievo del fatto che essa prospetti una concezione normativa di dolo: in effetti, le posizioni dottrinali che aderiscono alla prima formula di Frank aderiscono altresì, in linea di massima, ad una impostazione in base alla quale l’unico concetto descrittivo di dolo sarebbe dato dal “dolo intenzionale”, mentre le ulteriori forme di dolo sarebbero “normative”, non caratterizzate da un elemento di “volontà” inteso, in senso stretto, come “intenzione”, ma equiparate dal legislatore al dolo intenzionale in quanto ritenute forme ad esso assimilabili e, pertanto, meritevoli di trattamento analogo372. Tuttavia, se si considera la seconda formula di Frank e, di conseguenza, l’identificazione del dolo eventuale nell’atteggiamento di “disponibilità alla realizzazione dell’evento”, non è detto che tale assetto debba trovare necessariamente il proprio fondamento in una concezione normativa del dolo eventuale: infatti, la disponibilità alla realizzazione dell’evento, pur di persistere nella condotta correlata al raggiungimento dell’obiettivo intenzionale, potrebbe essere considerata non già come concetto essenzialmente diverso dalla “volontà” (la quale, quindi, non deve essere intesa come sola “intenzione”), bensì come graduazione del concetto di “volontà”. Del resto, l’art. 43, allorché definisce il delitto doloso, utilizza l’inciso “secondo l’intenzione”, e non il termine “intenzionale” (che, anzi, non compare mai all’interno dell’art. 43); la realizzazione di un evento alla quale il soggetto agente dimostri “disponibilità”, pur di perseguire il proprio fine intenzionale, potrebbe, effettivamente, dirsi “secondo l’intenzione” (e non “contro l’intenzione”), e ciò anche qualora essa rappresenti il fallimento del fine intenzionalmente perseguito dall’agente: infatti, l’agente si determinerebbe a realizzare la condotta, con disponibilità alla realizzazione dell’evento collaterale, proprio nell’ottica di perseguire il proprio fine intenzionale; non potrebbe perseguirlo altrimenti, se non mettendo in conto la realizzazione dell’evento collaterale (che potrebbe anche essere incompatibile con il fine intenzionale).

A ben vedere, infine, la seconda formula di Frank descrive un atteggiamento che si avvicina molto a quello indicato dalla formula

372 In tal senso, L. EUSEBI, op. ult. cit., 1092; A. PAGLIARO, Discrasie, 323.

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(riconducibile a Roxin) della “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico”: infatti, l’agente che sceglie di realizzare la condotta “ad ogni costo”/“a costo di provocare l’evento”, e ciò pur di perseguire il proprio fine intenzionale, dimostra una disponibilità alla lesione del bene giuridico e, quindi, decide a favore di tale possibile lesione: di fronte all’alternativa fra perseguire il proprio fine intenzionale “a costo di ledere” un bene giuridico, e desistere dal perseguire il proprio fine intenzionale tutelando lo stesso bene giuridico, egli sceglie di perseguire il proprio fine intenzionale e, quindi, sceglie la possibile lesione del bene giuridico.

Del resto, ai fini dell’identificazione della colpa cosciente in modo antitetico rispetto alla “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico”, è veramente necessaria la formula della “sicura fiducia che l’evento non si verificherà”, con tutti gli inconvenienti che ne conseguono (ambiguità dell’espressione, rischio di confusione fra dolo eventuale e colpa cosciente, ecc.)? Si potrebbe concludere per una risposta negativa: posto che dolo eventuale e colpa cosciente abbiano in comune la previsione (positiva e persistente al momento della tenuta della condotta) della realizzazione dell’evento, il tratto differenziante risiederebbe già nel fatto che, mentre la colpa cosciente sarebbe caratterizzata dall’accettazione del mero rischio, il dolo eventuale sarebbe contraddistinto dall’accettazione dell’evento e, quindi, dalla disponibilità alla realizzazione dell’evento stesso; cosa, quest’ultima, che mancherebbe nel caso della colpa cosciente.

8. La concezione dell’“accettazione del rischio” come elemento comune a dolo eventuale e colpa cosciente. La distinzione basata sulle modalità psicologiche di accettazione del rischio.

Ai fini dell’analisi dell’impostazione teorica di cui si intende trattare (riconducibile, nell’ambito della dottrina italiana, a Salvatore Prosdocimi), è necessario ripercorrere brevemente alcune considerazioni già effettuate con riguardo alla teoria dell’accettazione del rischio, nonché all’essenza della colpa cosciente (o, meglio, “colpa con previsione”).

La teoria dell’accettazione del rischio, come si è detto, individua la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente nella dicotomia “accettazione del rischio”/ “sicura fiducia che l’evento non si verificherà”, in forza della quale la “sicura fiducia che l’evento non si verificherà” inquadrerebbe, appunto, la colpa cosciente (rectius, “con previsione”). Tuttavia, se si osservano specularmente l’art. 61, n 3., c.p. (il quale prevede, come aggravante comune per i delitti colposi, l’“aver…agito nonostante la previsione dell’evento”) e la formula della “sicura fiducia che l’evento non si verificherà”, non può sfuggire la contraddizione tra le rispettive espressioni utilizzate: la “sicura fiducia che l’evento non si verificherà” comporta una rimozione della rappresentazione positiva dell’evento, mentre l’espressione “nonostante la previsione dell’evento” sembra postulare la persistenza della rappresentazione positiva al momento in cui venga realizzata la condotta373. Da tali osservazioni, consegue che

373 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 28.

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l’elemento rappresentativo (inteso come rappresentazione positiva dell’evento) è elemento senz’altro comune a dolo eventuale e colpa cosciente374.

Sennonché, in base ad un assetto così delineato, si dovrebbe concludere che anche l’accettazione del rischio sia elemento comune a dolo eventuale e colpa cosciente375: emblematico in tal senso, tra l’altro, è il fatto che una delle connotazioni della colpa, ossia l’imprudenza, consista proprio, essenzialmente, nell’assunzione di un rischio eccessivo376. Posto che la colpa è caratterizzata, in linea generale, da una condotta trasgressiva di regole cautelari, e considerato il fatto che la colpa cosciente richieda, oltre alla rappresentazione positiva della possibilità di verificazione dell’evento, anche la consapevolezza di tale carattere trasgressivo insito nella condotta stessa377, ne consegue che il soggetto il quale agisca con colpa cosciente non possa non accettare, in un certo modo, il rischio di produzione dell’evento: l’assunzione del rischio sarebbe, infatti, implicita proprio nella condotta negligente o imprudente, o comunque trasgressiva di regole cautelari, e la determinazione ad agire a fronte della previsione dell’evento ne comporterebbe, giocoforza, l’accettazione378. Ma, se così è, occorre necessariamente individuare la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente su un altro versante.

In considerazione dei suddetti presupposti si è, quindi, tentato di individuare il discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente nelle modalità psicologiche soggettive tramite le quali il rischio venga accettato (posto che, come si è detto, l’accettazione del rischio sarebbe anche essa comune a dolo eventuale e colpa cosciente). Così, secondo Prosdocimi, sussisterebbe il dolo eventuale nel caso in cui l’agente avesse accettato il rischio alla luce di una deliberazione di subordinazione di un determinato bene giuridico rispetto ad un altro: più precisamente, verserebbe in dolo eventuale il soggetto che, avendo ben chiara la rappresentazione di un fine intenzionale che egli intenda conseguire, nonché del nesso causale che potrebbe intercorrere fra la condotta necessaria per il conseguimento di tale fine e la lesione di un bene giuridico, scelga consapevolmente di realizzare la condotta funzionale al conseguimento del fine intenzionale (o di persistere nel tenerla), subordinando, quindi, il bene giuridico del quale egli si sia rappresentato la possibilità di lesione rispetto al conseguimento del proprio fine intenzionale379. Sulla base della deliberazione in tal modo effettuata dall’agente, si afferma che “il risultato intenzionalmente perseguito trascina con sé l’evento collaterale, il quale viene dall’agente coscientemente collegato al conseguimento del fine”, e viene altresì considerato come “prezzo (eventuale) da pagare per il raggiungimento di un determinato risultato”380. In tal modo, peraltro, sarebbe soddisfatto il tenore letterale dell’art. 43, comma 1, alinea 1, c.p., laddove esplicita l’inciso “secondo l’intenzione”: l’evento collaterale, accettato dal soggetto nella maniera appena indicata, risulterebbe effettivamente “secondo l’intenzione”, in quanto collegato

374 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 32.375 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 46. 376 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 36.377 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 41.378 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 38.379 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 32.380 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 32 – 33.

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dall’agente al conseguimento del fine intenzionalmente perseguito; il tutto in base alla considerazione, ulteriore, per cui l’espressione “secondo l’intenzione” non deporrebbe esclusivamente a favore del dolo intenzionale, bensì farebbe riferimento alla struttura finalistica dell’azione umana, la quale sarebbe sempre correlata ad un fine intenzionale381. Peraltro, un’impostazione di questo genere conserverebbe coerenza anche nell’ipotesi in cui l’evento collaterale rappresenti il fallimento del risultato perseguito dall’agente: anche in questi casi, infatti, l’accettazione del rischio di realizzazione dell’evento può essere effettuata in base ad una deliberazione fondata su un giudizio di bilanciamento di beni giuridici, in forza del quale si concluda per il subordine del bene giuridico che la tenuta della condotta esporrebbe a rischio di lesione382. Del resto, si osserva che una ricostruzione di questo genere non comporterebbe neppure l’incompatibilità fra dolo eventuale e dolo d’impeto, posto che la valutazione prospettata come necessaria ai fini del dolo eventuale può benissimo essere effettuata anche in pochi istanti; fermo restando, d’altra parte, che, nel caso in cui tale valutazione si protragga a livello temporale in modo più esteso, sarà certamente più agevole concludere a favore della sussistenza del dolo383. Si aggiunge, infine, che l’accettazione effettuata in base alla dinamica appena descritta arriverebbe ad avere ad oggetto non già, propriamente, il rischio o pericolo, bensì proprio l’evento o la lesione384 .

In base ad una ricostruzione di questo tipo, tuttavia, a parere di chi scrive, ci si avvicina molto alla concezione del dolo eventuale come “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico”: se il soggetto agente subordina il bene giuridico esposto a pericolo rispetto al proprio interesse, consistente nella realizzazione del proprio fine intenzionale, effettivamente decide a favore della possibile lesione del bene giuridico che la condotta correlata al perseguimento del fine intenzionale esponga a pericolo. In altri termini, e per converso, “decidere a favore della possibile lesione del bene giuridico” significa, evidentemente, “decidere contro il bene giuridico”: ma se si decide contro il bene giuridico, e tale “contro” indica la realizzazione di un evento non intenzionalmente perseguito, bensì collaterale rispetto al perseguimento di un fine intenzionale, la “decisione contro il bene giuridico” si inserirà necessariamente nell’ambito di un giudizio tramite il quale l’agente subordini la tutela del bene giuridico che la sua condotta potrebbe ledere rispetto al perseguimento del proprio fine intenzionale.

A ben vedere, ci si avvicina molto anche all’inquadramento del dolo eventuale prospettato dalle formule di Frank, basato sull’atteggiamento del soggetto che, a fronte della previsione della possibilità di realizzazione dell’evento, scelga di agire “costi quel che costi”, con “disponibilità a pagare il prezzo” consistente nella lesione del bene giuridico, pur di perseguire il proprio fine intenzionale: anche in questo caso, l’agente effettuerebbe una deliberazione con la quale subordinerebbe, rispetto al perseguimento del proprio fine intenzionale, il bene giuridico che venga esposto a pericolo tramite la condotta correlata, appunto, al perseguimento del fine intenzionale. Si

381 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 33.382 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 34. 383 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 34 – 35.384 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 35.

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potrebbe, quindi, concludere, se non per una coincidenza sostanziale, quantomeno per una somiglianza o analogia di significati fra la seconda formula di Frank, il criterio della “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico” e la teoria di Prosdocimi: probabilmente, quest’ultima descrive in modo più dettagliato il processo psicologico che si manifesti nell’agente, mentre la formula riconducibile a Roxin effettua una coerente sintesi di tale processo psicologico; la seconda formula di Frank, del resto, nella sua semplicità e con uno stile, a dire il vero, piuttosto naturale, è utile a descrivere ulteriormente l’atteggiamento psicologico che caratterizza il soggetto il quale agisca con dolo eventuale.

Passando all’inquadramento della colpa cosciente, questa si avrebbe, secondo Prosdocimi, nel caso in cui l’accettazione del rischio avvenga non alla luce di una deliberazione tramite la quale l’agente subordini, rispetto al perseguimento del proprio fine intenzionale, il bene giuridico che lo stesso perseguimento del fine intenzionale potrebbe ledere, bensì per imprudenza o negligenza. In questi casi, come si è già evidenziato, l’assunzione del rischio sarebbe implicita nella condotta negligente o imprudente, e la scelta di agire nonostante la previsione del rischio comporterebbe, quindi, una accettazione del rischio stesso: in forza di tali presupposti, si configura una colpa particolarmente grave, in quanto ad essa si aggiunge, oltre alla difformità del comportamento assunto dall’agente rispetto agli standard richiesti dal rispetto delle regole cautelari, un coefficiente psicologico che manifesta una più intensa adesione del soggetto al fatto385.

Non può sfuggire, inoltre, una certa analogia fra la ricostruzione qui descritta ed il pensiero di Giacomo Delitalia, secondo il quale “alcune volte, per raggiungere il risultato desiderato, l’agente è costretto a produrne anche un secondo, che può essergli indifferente o addirittura spiacevole”, ed “ove ciò accada, anche il secondo risultato deve considerarsi voluto, e voluto ab initio […] in concreto perché l’agente di fronte all’eventualità di non cagionarlo, rinunziando allo scopo perseguito, o di cagionarlo per conseguire il risultato desiderato, ha optato per quest’ultima”386. Lo stesso Autore, con riguardo alla incompatibilità fra colpa cosciente e “sicura fiducia che l’evento non si verificherà” evidenzia che, in effetti, qualora l’agente, in conseguenza di un giudizio “alogico”, sia indotto a ritenere che l’evento, che egli si sia originariamente rappresentato, non si verificherà, verrebbe meno proprio la coscienza della pericolosità dell’azione, per cui non potrebbe inquadrarsi la colpa cosciente387, e residuerebbe unicamente la configurabilità della colpa incosciente.

A parere di chi scrive, l’impostazione qui descritta, e correlata con la formula della “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico”, nonché con la seconda formula di Frank, è probabilmente la più condivisibile fra le varie teorie inerenti la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente o, se non altro, la meno esposta a critiche negative. Anzitutto, non si pongono certo i rischi connessi alle teorie riconducibili al paradigma intellettivo, dato che si ha senz’altro valorizzazione del profilo volitivo (il fatto che, poi, sia comunque

385 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 38 – 39.386 G. DELITALIA, Dolo eventuale e colpa cosciente, 447. 387 G. DELITALIA, op. ult. cit., 448 – 450.

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difficile, concretamente, la prova del profilo volitivo è altro discorso; come può essere “facile” la prova di elementi attinenti alla psiche del soggetto, nella quale non è certo possibile penetrare?). Nello specifico, non si pongono le questioni relative all’inadeguatezza della distinzione meramente quantitativa fra dolo eventuale e colpa cosciente, dato che la “decisione a favore della possibile lesione”/ “disponibilità alla lesione”, nonché la scelta di subordinazione del bene giuridico esposto a pericolo rispetto al perseguimento del fine intenzionale, possono sussistere anche in assenza di elevati coefficienti di probabilità statistica (elevati coefficienti di probabilità potranno essere indizi a favore del dolo, ma non potranno assumere certo carattere decisivo per il giudizio di colpevolezza). Non si pone neppure il problema della contraddizione fra l’espressione “sicura fiducia che l’evento non si verificherà” ed art 61, n. 3, c.p., dal momento che si concepisce la colpa cosciente come caratterizzata, anche essa, dalla previsione positiva della verificazione dell’evento, congiunta all’accettazione del relativo rischio (e del solo rischio, non dell’evento).

Altresì, non dovrebbero emergere rischi di oggettivizzazione del requisito volitivo, dato che la deliberazione psicologica nella quale viene identificata l’essenza del dolo eventuale non appare incompatibile con l’adozione di contromisure (che, secondo la teoria dell’“operosa volontà di evitare”, escluderebbero il dolo), né con il pericolo “schermato” (inteso come pericolo che si possa ragionevolmente ritenere contrastabile o controllabile).

Quanto agli stati emotivi, la mera “speranza” che l’evento non si verifichi, o sentimenti ad essa affini, non appaiono incompatibili con la “deliberazione a favore della lesione del bene giuridico”, dato che, come si è sostenuto anche nel paragrafo precedente, l’agente può “essere disponibile” a ledere il bene giuridico, e ciò pur di persistere nel perseguimento del proprio fine intenzionale, anche qualora la lesione sia da egli stesso “non desiderata”; la lesione del bene giuridico potrebbe addirittura rappresentare il fallimento del piano intenzionalmente perseguito, e ciò non dovrebbe necessariamente escludere il dolo dato che, effettivamente, il soggetto, a fronte dell’alternativa fra perseguire il proprio fine intenzionale, “anche a costo di provocare l’evento (non desiderato, e non intenzionalmente perseguito)”, e desistere dal perseguire detto fine intenzionale evitando, quindi, la realizzazione dell’evento collaterale, può comunque optare per la prima alternativa: in questo caso l’evento collaterale, seppur non intenzionalmente voluto, seppur non “auspicato”/ “desiderato”, seppur possa anche rappresentare il fallimento del piano intenzionalmente perseguito, potrebbe dirsi “voluto”, dato che l’agente sceglierebbe di realizzare la condotta proprio per perseguire il fine intenzionale; non avrebbe potuto farlo altrimenti, se non deliberando “contro il bene giuridico” (/ “a favore dell’evento collaterale”), e subordinando quest’ultimo al perseguimento del proprio fine intenzionale.

Considerazioni di questo genere si avvicinano molto anche alla formula dell’“accettazione con approvazione in senso giuridico” delineata dal BGH, e relativamente alla quale sono state mosse critiche negative: tuttavia esse riguardano, principalmente, il fatto che la giurisprudenza tedesca, in generale, tendesse comunque a ricavare la prova dell’elemento volitivo tramite una sorta

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di “parafrasi” dell’elemento intellettivo388; quanto alla critica sostanziale alla formula dell’“accettazione con approvazione in senso giuridico”, che ne evidenzia il carattere indefinito389, essa potrebbe venire meno o, se non altro, essere ridimensionata, alla luce del coordinamento tra tale formula ed i criteri ulteriori della “decisione a favore della lesione del bene giuridico” e della “deliberazione di subordinazione del bene giuridico (rispetto al perseguimento del fine intenzionale)”.

Nondimeno, la deliberazione/decisione che dovrebbe identificare il dolo eventuale (e distinguerlo dalla colpa cosciente) non sembra porre, di per sé, i problemi suscitati dal filone giurisprudenziale e dottrinale che sostiene la dicotomia “previsione della concreta possibilità” / “previsione dell’astratta possibilità”: infatti, la decisione/deliberazione di cui trattasi, se, da un lato, sarà più facilmente sostenibile in presenza di una rappresentazione della concreta verificabilità dell’evento, dall’altro, non è detto che sia automaticamente sussistente in presenza di tale tipo di rappresentazione.

È chiaro poi che, in sede processuale, un certo rischio di tendenza all’associazione tra dolo eventuale e “probabilità elevata”/ “rappresentazione della verificabilità concreta”/ “mancata adozione di contromisure”/ “rischio non schermato” ci sarà sempre, e probabilmente è ineliminabile dato che, come si è più volte evidenziato, è impossibile analizzare direttamente la psiche del soggetto, e l’elemento volitivo deve essere, dunque, ricavato necessariamente mediante un procedimento induttivo (eccezion fatta per l’ipotesi, alquanto improbabile, della “confessione” dell’imputato il quale, in sede processuale, ammetta di aver voluto l’evento); ma questo non significa sostenere l’automatica corrispondenza fra dolo eventuale e i suddetti elementi.

L’assetto teorico sostenuto da Prosdocimi è stato recentemente adottato dalla Corte di Cassazione, nell’ambito di una sentenza che assume una particolare importanza, in quanto segna una significativa deviazione dagli orientamenti generalmente adottati dalla stessa Corte in tema di reati da sinistro stradale390. Il caso in esame391 vedeva l’imputato accusato di aver provocato la morte di uno degli occupanti di due automobili, nonché il ferimento di altri occupanti di esse, essendosi scontrato con dette automobili senza aver rispettato un semaforo rosso e procedendo, sprovvisto di patente ed in fuga dalla polizia, alla guida di un furgone rubato, ad altissima velocità ed avendo oltrepassato in tal modo, prima dello scontro, una serie di semafori rossi; il tutto in condizioni di traffico particolarmente intenso, a tal punto che la stessa volante della polizia, la quale si era data all’inseguimento, aveva poi desistito, optando

388 Lo nota puntualmente S. CANESTRARI, op. ult. cit., 52. Lo stesso Autore, d’altra parte, rileva che la formula dell’“accettazione con approvazione in senso giuridico” non vada a discostarsi di molto, sostanzialmente, dalle tradizionali formule della “presa sul serio” o affini (ivi, 50), sostenendo poi che, rispetto a queste ultime, sia assimilabile, ma preferibile, il criterio della “decisione per la possibile lesione di beni giuridici” (ivi, 67).

389 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 49.390 Si fa riferimento a Cass. Pen., Sez. I, 1 febbraio 2011 (dep. 15 marzo 2011), n. 10411,

in www.penalecontemporaneo.it 391 La descrizione del fatto, nonché dello sviluppo del relativo processo penale, è

effettuata, oltre che dalla stessa sentenza della Corte, anche da parte di A. AIMI, Fuga dalla polizia e successivo incidente stradale con esito letale: la Cassazione ritorna sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, in www.penalecontemporaneo.it

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per un controllo a distanza. I giudici di primo grado avevano affermato la sussistenza del dolo, richiamando il criterio tradizionale dell’accettazione del rischio: gli elementi di fatto caratterizzanti la situazione in cui era stata posta in essere la condotta erano – secondo i giudici – tali da indicare univocamente che l’imputato si fosse rappresentato di poter cagionare, con il proprio comportamento, incidenti con esiti letali, e che ne avesse accettato il rischio, non desistendo dalla propria condotta pur di sottrarsi al controllo della Polizia. Successivamente, i giudici di appello riformavano la sentenza di primo grado, affermando la sussistenza di colpa grave, in considerazione del fatto che i giudici di primo grado avessero basato la valutazione del dolo desumendo l’elemento rappresentativo, nonché quello volitivo (a sua volta determinato dall’accettazione del rischio), esclusivamente sulla considerazione della gravità del grado di colpa insito nella condotta tenuta dall’imputato: in base a questo solo parametro – secondo i giudici di secondo grado – non avrebbe potuto desumersi automaticamente che il soggetto si fosse rappresentato concretamente la verificazione dell’evento lesivo, o che lo avesse fatto in tempo utile per potersi determinare a riguardo (la rappresentazione concreta dell’evento lesivo si sarebbe verificata solo al momento in cui l’imputato si fosse reso conto che sulla propria traiettoria vi era l’autovettura con la quale, poi, effettivamente collise e, in base al brevissimo lasso di tempo intercorso fra il momento rappresentativo ed il momento della realizzazione dell’evento lesivo, non vi sarebbe stato tempo utile ad una “accettazione del rischio”); si rileva, inoltre, che l’aver precedentemente superato, senza conseguenze lesive, alcuni incroci avrebbe potuto infondere nel soggetto la convinzione di poterne superare ulteriori (e, in particolare, quello in cui si verificò, poi, l’incidente); nondimeno, i giudici d’appello evidenziano che l’eventualità dell’incidente rappresentasse una ipotesi sfavorevole all’imputato, in quanto avrebbe determinato il suo arresto, e ciò sarebbe stato un ulteriore indice a favore dell’esclusione del dolo.

I giudici di legittimità, quindi, nell’annullare con rinvio la sentenza di secondo grado, osservano (e demoliscono) l’eccessiva valorizzazione del momento rappresentativo effettuata da parte dei giudici di appello (a scapito dell’analisi del momento volitivo), sostenendo che essi avessero ricavato automaticamente l’assenza di rappresentazione alla luce di presunzioni (“sulla base di valutazioni astratte e presuntive”), trascurando l’analisi degli elementi di fatto caratterizzanti la fattispecie tipica complessivamente considerata (“prescindendo dall’esame di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie tipica – condotta, evento e nesso di causalità materiale - quali emergenti dallo specifico caso concreto”, e desumendo “la configurabilità della colpa aggravata dalla previsione dell’evento sulla base di mere congetture, omettendo una compiuta analisi di tutti i dati conoscitivi acquisiti”). La Corte, in altri termini, sostiene che sia censurabile il fatto che i giudici di secondo grado avessero valutato esclusivamente alcuni elementi di prova, peraltro omettendo di considerarli alla luce del complessivo contesto concreto della fattispecie realizzata, e desumendo in base a tali valutazioni, mediante presunzioni o induzioni di carattere astratto, l’assenza di un momento rappresentativo utile alla determinazione, da parte dell’agente, a persistere nella tenuta della condotta,

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attraverso una scelta consapevole di farlo “a costo di ledere beni giuridici”392. Ulteriore punto focale della motivazione adottata dalla Corte è dato dal rilievo che i giudici di appello avessero preso le mosse dal “ragionevole dubbio”, mentre quest’ultimo dovrebbe rappresentare, se mai, il punto di arrivo, a seguito dell’esame dei fatti effettuato dal giudice di merito, e non il punto di partenza.

In conclusione, i giudici di legittimità prospettano un’argomentazione la quale afferma, nel caso di specie, la sussistenza del dolo eventuale, riproponendo le considerazioni (talora tratte testualmente) della dottrina che ha sostenuto la teoria per cui il discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente andrebbe ravvisato nelle modalità che caratterizzano l’accettazione del rischio, essendo quest’ultima (anch’essa, oltre alla previsione positiva dell’evento) elemento comune a dolo eventuale e colpa cosciente393.

Dunque, in base ai rilievi esposti, in conclusione emergono, principalmente, i seguenti aspetti alla luce dei quali la sentenza in esame segna un distacco rispetto alla tradizionale giurisprudenza relativa alla distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente: in primo luogo, viene affermata l’identità dell’elemento rappresentativo, tanto con riguardo al primo, quanto con riferimento alla seconda, in controtendenza con la giurisprudenza che prospetta una differenziazione, fra le categorie di elemento soggettivo in esame, anche sul piano intellettivo e, in particolare, sul binomio “rappresentazione della possibilità concreta” / “rappresentazione della possibilità astratta” di realizzazione dell’evento394; a ciò si aggiunga anche la controtendenza rispetto alla giurisprudenza che identifica la colpa cosciente nell’ipotesi in cui il soggetto abbia agito con la “sicura fiducia” che l’evento non si sarebbe verificato; controtendenza, questa, sviluppata in base all’analisi del tenore letterale dell’art.

392 La motivazione della sentenza in esame, in particolare, pone in rilievo l’omessa tenuta in considerazione dell’assenza di tracce di frenata, della mancata adozione di manovre di deviazione della traiettoria o altre manovre d’emergenza astrattamente possibili, nonché di ulteriori elementi di fatto, quali la durata e le modalità dell’inseguimento e della corrispettiva fuga, le modalità della stessa fuga adottate dopo che l’inseguimento da parte della Polizia si era trasformato in mero controllo a distanza, le caratteristiche tecniche del veicolo rubato, le caratteristiche degli incroci impegnati, il comportamento adottato dall’imputato dopo la collisione (tentativo ulteriore di fuga).

393 Cass. Pen., Sez. I, 1 febbraio 2011 (dep. 15 marzo 2011), n. 10411: “Dall’interpretazione letterale dell’art. 61, comma 1, n. 3, […] si evince che la previsione deve sussistere al momento della condotta, e non deve essere stata sostituita da una non previsione o controprevisione, come quella implicita nella rimozione del dubbio. […] Una qualche accettazione del rischio sussiste tutte le volte in cui si deliberi di agire, pur senza avere conseguito la sicurezza soggettiva che l’evento previsto non si verificherà. Il semplice accantonamento del dubbio, quale stratagemma mentale […] per vincere le remore ad agire, non esclude di per sé l’accettazione del rischio, ma comporta piuttosto la necessità di stabilire se la rimozione stessa abbia un’obiettiva base di serietà e se il soggetto abbia maturato in buona fede la convinzione che l’evento non si sarebbe verificato. […] Nel dolo eventuale il rischio deve essere accettato a seguito di una deliberazione con la quale l’agente subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro. L’autore del reato, che si prospetta chiaramente il fine da raggiungere e coglie la correlazione che può sussistere tra il soddisfacimento dell’interesse perseguito e il sacrificio di un bene diverso, effettua in via preventiva una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco – il suo e quelli altrui – e attribuisce prevalenza ad uno di essi. L’obiettivo intenzionalmente perseguito per il soddisfacimento di tale interesse preminente attrae l’evento collaterale […] che costituisce il prezzo (eventuale) da pagare per il conseguimento di un determinato risultato.”

394 A. AIMI, op. cit.

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61, n. 3, il quale postulerebbe la persistenza della rappresentazione positiva dell’evento al momento della realizzazione della condotta; infine, si afferma che l’accettazione del rischio sia ulteriore elemento comune a dolo eventuale e colpa cosciente, con conseguente rilievo della differenziazione fra le due categorie di elemento soggettivo in base alle modalità ed all’atteggiamento interiore con cui il soggetto accetti il rischio.

A tali rilievi se ne potrebbe aggiungere uno ulteriore, il quale è basato sul richiamo, da parte dei giudici di legittimità, alla prima formula di Frank; si è osservato, tuttavia, che tale riferimento appaia non coerente con l’assetto e l’esito della sentenza, in quanto effettivamente, nel caso di specie, l’applicazione della prima formula di Frank avrebbe dovuto condurre ad escludere la sussistenza del dolo eventuale, stante il fatto che l’eventualità della realizzazione di un incidente avrebbe comportato l’arresto della fuga del soggetto (fuga che costituiva il suo obiettivo intenzionale)395. A parere di chi scrive dovrebbe, invece, essere compatibile con l’esito della sentenza in questione la seconda formula di Frank, la quale identifica l’atteggiamento psicologico del soggetto che agisce con dolo eventuale nel ragionamento del tipo “può accadere o non accadere; in ogni caso, io agisco”, con conseguente inquadramento di un atteggiamento soggettivo di disponibilità ad agire “ad ogni costo”, ed anche a costo di “pagare il prezzo” consistente nella realizzazione dell’evento lesivo (in questo caso, l’incidente stradale, con conseguente morte o conseguenti lesioni a persone), pur di persistere nella condotta correlata al raggiungimento del proprio fine intenzionale (fuga dalla polizia).

9. La distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente sul piano oggettivo del rischio e la descrizione della responsabilità per dolo eventuale in base all’analisi di tre livelli: rischio peculiare doloso, elemento intellettivo ed elemento volitivo

L’assetto teorico del quale si intende trattare è riconducibile, principalmente, a Stefano Canestrari: l’Autore, a partire da una critica relativa al principio “non c’è dolo senza colpa” nonché, in linea generale, dal rilievo del carattere non esaustivo (e non esaustivo ancor di più alla luce del contesto attuale, caratterizzato da un proliferare di eterogenee categorie di rischio, talvolta di dubbia “collocazione”) delle teorie tradizionali, giunge ad inquadrare una differenziazione fra responsabilità per dolo e responsabilità per colpa la quale emergerebbe anche sul profilo oggettivo del rischio e, quindi, basata sulle caratteristiche sociali ed oggettive del comportamento assunto dall’agente. Nello specifico, Canestrari arriva a definire il peculiare rischio caratteristico del dolo eventuale (peculiare non solo rispetto al “rischio colposo”, ma anche rispetto al rischio rilevante ai fini della responsabilità per dolo intenzionale e diretto) come rischio che un accorto osservatore esterno (identificato nell’organo giudicante), posto nella stessa situazione concreta in cui si trovava l’agente, ed in possesso delle sue stesse conoscenze e capacità psicofisiche, non avrebbe potuto neppure prendere in considerazione nelle vesti dell’homo eiusdem conditionis et professionis (cioè, nelle vesti di un soggetto modello

395 A. AIMI, op. cit.

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appartenente alla stessa tipologia sociale dell’agente concreto, e dotato delle eventuali superiori conoscenze da quest’ultimo possedute), ovvero avrebbe potuto prendere in considerazione soltanto spogliandosi delle vesti dell’homo eiusdem conditionis et professionis396.

L’analisi dell’Autore è, effettivamente, molto articolata, e prende le mosse da vari aspetti che, in parte, sono già stati trattati, ma che è necessario, per chiarezza espositiva, riassumere. Anzitutto, come si è detto, Canestrari sostiene la non condivisibilità della configurazione di uno “zoccolo normativo” comune a dolo e colpa, qual è quello delineato alla luce del principio “non c’è dolo senza colpa”: in primo luogo, viene posto l’accento sull’inadeguatezza dell’individuazione del “rischio consentito” effettuata sempre in base alle sole regole cautelari oggettive di condotta (c.d. “misura oggettiva” della colpa), con riferimento specifico, peraltro, al fatto che la valutazione della violazione di regole precauzionali di diligenza sia, sostanzialmente, del tutto inutile allorché si tratti di analizzare reati intenzionali397; in secondo luogo, si evidenzia che il principio “non c’è dolo senza colpa” rischierebbe di condurre a conferire un carattere meramente normativo al dolo e, di conseguenza, a dare adito, in sede di accertamento dell’elemento soggettivo, ad inammissibili pratiche presuntive relative all’inquadramento dell’elemento cognitivo398.

Inoltre, viene rilevata l’obsolescenza delle impostazioni teoriche tradizionali, alla luce di un contesto storico – sociale (quello attuale) in cui proliferano situazioni caratterizzate da “rischi consentiti” e, talvolta, addirittura disciplinati dall’ordinamento, all’interno delle quali, tuttavia, si sviluppano pericoli connessi a comportamenti “devianti”399, nonché situazioni di rischio di incerta classificazione400. A creare ulteriori esigenze di definizione di nuovi criteri concorrerebbe anche l’“irruzione” della figura del dolo eventuale nell’ambito del diritto penale dell’economia401. Del resto, il contesto appena delineato avrebbe posto in crisi la tendenza giurisprudenziale consistente nell’associare il dolo eventuale al versari in re illicita e, di conseguenza, la colpa cosciente alle ipotesi di realizzazione di eventi lesivi in contesti di base leciti402: tendenza chiaramente denigrata da Canestrari, il quale la considera come basata su un “principio perverso”403.

Alla luce di quanto esposto, Canestrari si propone come obiettivo l’individuazione di un rapporto “aliud ad aliud” anche con riguardo alla

396 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 158.397 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 109 – 110.398 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 116.399 S. CANESTRARI, La definizione legale del dolo, 907. Vengono richiamati gli esempi

delle sfide automobilistiche, delle attività ludico – sportive pericolose e non riconosciute dagli organi competenti, dell’utilizzo di sostanze chimiche o medicinali nel campo della produzione industriale o sperimentazione scientifica senza il rispetto dei necessari controlli, nonché del contagio da malattie sessualmente trasmissibili: in particolare, le ipotesi di contagio da HIV vengono considerate come “ambito privilegiato” per la verifica della consistenza delle teorie inerenti il dolo eventuale (ivi, 908).

400 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 908.401 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 907, 911.402 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 912. Alla descrizione della tendenza basata

sull’associazione “dolo eventuale – versari in re illicita” concorre anche, tra gli altri, P. VENEZIANI, Dolo eventuale e colpa cosciente, 74 ss.

403 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit.

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distinzione fra “rischio doloso” e “rischio colposo”: il tutto, comunque, in un’ottica di conferimento di praticabilità al principio basato, fondamentalmente, sulla “decisione personale a favore della possibile lesione del bene giuridico”. In altri termini, l’Autore mira ad identificare le caratteristiche peculiari della situazione di pericolo idonea a fondare l’inquadramento del dolo eventuale in forza della “decisione personale a favore della possibile lesione del bene giuridico”404, specificando che, comunque, occorrerà valutare anche i due ulteriori “gradini” propri della responsabilità dolosa, ovvero rappresentazione e volontà: il solo “rischio peculiare doloso”, quindi, sarebbe condizione necessaria ma non sufficiente a fondare la responsabilità dolosa, essendo altresì necessaria l’indagine sugli elementi intellettivo e volitivo405. Verrebbe, in tal senso, a delinearsi una descrizione della responsabilità per dolo eventuale come articolata su tre livelli: il livello oggettivo del rischio, nonché i livelli intellettivo e volitivo (questi ultimi, chiaramente, soggettivi).

I risultati positivi che potrebbero essere conseguiti mediante tale ricostruzione sono, fondamentalmente, i seguenti: anzitutto, una più precisa definizione della linea di confine fra dolo eventuale e colpa cosciente406; in secondo luogo, una riduzione, se non eliminazione, dei rischi connessi da un lato all’eccessiva “soggettivizzazione” del dolo (l’Autore evidenzia come un’eccessiva valorizzazione del solo profilo soggettivo e, in particolare, volitivo potrebbe condurre all’imputazione del fortuito, o anche del dolus malus congiunto ad un comportamento che si arresti allo stadio del tentativo inidoneo407), dall’altro all’eventualità del ricorso a schemi presuntivi408; infine, dovrebbe essere garantita una maggior aderenza al principio di tassatività, attraverso una più determinata differenziazione fra dolo eventuale e colpa cosciente basata anche sul piano oggettivo del rischio e della dimensione “sociale” del comportamento tenuto dall’agente409.

Altresì – e si tratta, probabilmente, della premessa di maggior complessità, ma anche di maggior rilevanza ai fini della comprensione del pensiero di Canestrari – viene posto l’accento sulla differenziazione qualitativa fra giudizio di “riconoscibilità” (e, si potrebbe aggiungere, di “evitabilità”) effettuato ai fini della responsabilità colposa e medesimo giudizio effettuato ai fini della responsabilità dolosa (il tutto, evidentemente, quale ulteriore sviluppo basato sulla critica al principio “non c’è dolo senza colpa”): pur essendo in entrambi i casi necessaria la valutazione della “percepibilità di una situazione”410

404 S. CANESTRARI, Dolo eventuale, 161. 405 S. CANESTRARI, La definizione legale del dolo, 924; ID., Dolo eventuale,176.406 Anche P. VENEZIANI, op. ult. cit., 73, sostanzialmente, concorda che una concezione

della struttura della responsabilità per dolo eventuale come basata su tre livelli (livello oggettivo del “rischio”, elemento intellettivo ed elemento volitivo – questi ultimi due attinenti alla sfera soggettiva) concorrerebbe a delineare in modo più preciso la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente.

407 S. CANESTRARI, Dolo eventuale, 176 – 177. 408 S. CANESTRARI, op. ult. cit, 161.409 S. CANESTRARI, op. loc. ult. cit. 410 S. CANESTRARI, op. ult. cit.,173 – 174. L’Autore indica chiaramente che la

“percepibile” situazione di pericolo costituisca il “primo livello” della struttura del dolo e della colpa precisando, tuttavia, che tale “componente normativa” assuma caratteristiche diverse a seconda che si tratti di responsabilità dolosa o responsabilità colposa.

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di pericolo, nel primo caso, il riferimento alla misura oggettiva della diligenza ed al parametro dell’homo eiusdem conditionis et professionis svolge la funzione di individuare una sfera all’interno della quale determinate attività possano essere lecitamente svolte, in quanto rispettose delle regole cautelari di condotta411; in questo frangente, il giudizio di “riconoscibilità” (ed “evitabilità”) potrà ben tenere conto delle eventuali superiori conoscenze o capacità dell’agente concreto, ma ciò non comprometterebbe comunque la funzione centrale del parametro dell’homo eiusdem conditionis et professionis412, dato che tali eventuali superiori conoscenze o capacità potranno, sì, dilatare effettivamente la sfera della responsabilità colposa, ma ciò potrà accadere sempre e comunque sulla base determinata dal parametro dell’homo eiusdem conditionis et professionis, ed entro il limite dell’“esigibile” da parte dell’agente modello413; insomma, ai fini del giudizio sulla responsabilità colposa, il parametro dell’homo eiusdem conditionis et professionis determinerebbe la base per la valutazione della “riconoscibilità” del pericolo e per la selezione dell’“esigibilità” delle conoscenze, che potrà sicuramente essere più o meno “individualizzata” con considerazione delle superiori conoscenze possedute dall’agente concreto, ma mai oltre il limite di ciò che sia “in generale” possibile riconoscere: in questo senso si attuerebbe, nella maggior parte dei casi, un processo di “soggettivizzazione in bonam partem”414. Nell’ambito del giudizio inerente la responsabilità dolosa, invece, non si vede per quale motivo dovrebbe essere effettuato tale processo di “soggettivizzazione in bonam partem”, sicché le eventuali conoscenze superiori possedute dall’agente concreto andranno ad aggiungersi rispetto a quelle conoscibili dall’agente modello, ma in modo indipendente e svincolato da esse415, senza l’effettuazione di detto processo di soggettivizzazione416 tramite l’astrazione in bonam partem dell’insieme di circostanze note all’agente concreto417. L’Autore, invero, sostiene che il giudizio di valutazione dell’oggettiva idoneità (alla realizzazione dell’evento) della condotta, ai fini della responsabilità dolosa, debba essere effettuato tenuto conto della “riconoscibilità” da parte di un “osservatore esperto” (quindi, non da parte di un “perito universale”, ma comunque da parte di un modello ancorato a parametri “severi ed impegnativi”)418; del resto, nell’alveo del dolo, non vi sarebbe ragione per avvertire (e riconoscere) quelle garanzie di “spazi di libertà di azione” alle quali si è fatto riferimento con riguardo alla funzione della misura oggettiva della colpa419. Inoltre, Canestrari specifica che il giudizio di idoneità del pericolo doloso debba essere effettuato, fondamentalmente, alla luce degli stessi parametri utilizzati ai fini del giudizio di idoneità degli atti con riferimento al delitto tentato: quindi, mediante l’assunzione di una prospettiva ex ante rispetto alla realizzazione del reato doloso, e su “base parziale”, cioè in considerazione

411 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 102, 175.412 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 101, 174 – 175.413 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 113, 174 – 175. 414 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 174 – 175.415 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 179.416 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 113. 417 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 179.418 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 178.419 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 102.

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delle sole circostanze effettivamente note all’agente concreto al momento in cui venga posta in essere la condotta420.

In base a tali sviluppi, Canestrari conclude per una definizione del “rischio doloso” caratteristico del dolo intenzionale, nonché del dolo diretto421, come rischio oggettivamente riconoscibile da un osservatore esperto, posto al tempo e nel luogo in cui si trovava l’agente concreto, ed in possesso delle sue eventuali conoscenze superiori o capacità speciali422. Viene apportato, tuttavia, un correttivo per il riferimento alle attività di base consentite: in questi casi, il rischio doloso sarà quello riconoscibile, in base ai parametri suddetti, come “più elevato di quello normalmente tollerato nell’esercizio dell’attività consentita”423.

L’Autore poi, in maniera estremamente pragmatica e, per questo, molto efficace, adduce alcuni esempi al fine di sostenere la propria tesi; in particolare, appare significativo l’esempio del corridore automobilista, il quale non sarebbe tenuto ad utilizzare le sue particolari abilità al di fuori del contesto di gara: per cui, qualora, in caso di emergenze, egli provochi intenzionalmente un evento lesivo mancando di utilizzare, proprio al fine di provocare l’evento, le proprie abilità, potrebbe configurarsi dolo (intenzionale) in un contesto oggettivo nel quale, in assenza della volontà, non avrebbe potuto configurarsi responsabilità per colpa (in quanto l’automobilista non era tenuto ad utilizzare la propria particolare abilità al di fuori del contesto di gara)424.

Una volta inquadrata l’essenza del “rischio doloso” caratteristico del dolo intenzionale e del dolo diretto, nonché l’essenza del “rischio colposo”, è possibile passare all’analisi del peculiare rischio rilevante ai fini della responsabilità per dolo eventuale: il quale dovrà, necessariamente, essere in rapporto aliud ad aliud rispetto al “rischio colposo”, ma anche essere connotato in modo almeno parzialmente diverso rispetto al rischio rilevante ai fini della responsabilità per dolo intenzionale o per dolo diretto, stante il fatto che il dolo eventuale differisca dal dolo intenzionale per mancanza dell’“intenzione” orientata alla realizzazione dell’evento, nonché dal dolo diretto in ragione di una “diluizione” della componente intellettiva (nel dolo diretto, si ha una rappresentazione dell’evento in termini di certezza; nel dolo eventuale, il medesimo aspetto cognitivo non accede al livello della certezza)425. Anche ai fini del giudizio inerente il rischio peculiare ai fini della responsabilità per dolo eventuale, inoltre, occorrerà tenere conto delle conoscenze e caratteristiche individuali del soggetto concreto, da questi possedute al momento di realizzazione della condotta, in applicazione di un meccanismo analogo a quello della “prognosi postuma a base parziale” in sede di valutazione dell’idoneità degli atti ed ai fini dell’inquadramento del delitto tentato: solo in questo modo – sostiene Canestrari – si potrà valorizzare al massimo la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente sul piano volitivo, senza incorrere nella tentazione di presumere il dolo eventuale dalla sola

420 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 183 – 184.421 Nel senso dell’equiparazione fra rischio rilevante ai fini del dolo intenzionale e rischio

rilevante ai fini del dolo diretto, S. CANESTRARI, op. ult. cit., 193.422 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 184.423 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 188.424 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 182. 425 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 197.

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inosservanza di regole astratte426. Il tutto dovrebbe essere funzionale, a sua volta, alla promozione di un più “robusto fondamento” della “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico”: l’Autore, cioè, non intende creare un nuovo e decisivo criterio di distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, bensì individuare criteri di distinzione fra le categorie in esame anche sul piano oggettivo, i quali dovrebbero condurre alla corretta applicazione del principio della “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico”. Invero, Canestrari ben specifica (più volte) che l’analisi del solo livello oggettivo del rischio sia necessaria, ma non sufficiente né decisiva ai fini del giudizio complessivo per la soluzione dell’alternativa fra dolo eventuale e colpa cosciente, dovendosi in ogni caso indagare anche il profilo soggettivo, dato da due ulteriori livelli: elemento intellettivo ed elemento volitivo427.

Le considerazioni appena effettuate permettono di comprendere appieno il ragionamento che conduce ad individuare il criterio identificativo del rischio peculiare rilevante ai fini del dolo eventuale. In particolare, occorrerà selezionare un rischio “non consentito”, il quale oltrepassi la sfera della “pericolosità colposa”, e che dovrà essere valutato con riferimento ad un parametro consistente nel “negativo” del parametro utilizzato ai fini della valutazione del “rischio colposo”: in tal senso, il rischio rilevante ai fini del dolo eventuale sarà un rischio che l’homo eiusdem conditionis et professionis non avrebbe potuto neppure prendere in considerazione428.

Posto, poi, che il rischio dovrà essere valutato in sede di accertamento processuale da parte dell’organo giudicante, la definizione più completa del rischio peculiare rilevante ai fini del dolo eventuale è la seguente: tale rischio è quello “non consentito”429, che un osservatore esperto (l’organo giudicante), posto nella stessa situazione cognitiva e dotato delle stesse capacità rispetto all’agente concreto al momento di realizzazione della condotta, non avrebbe neppure potuto prendere in considerazione nelle vesti dell’homo eiusdem conditionis et professionis, ovvero avrebbe potuto farlo solo spogliandosi di tali vesti430. La circostanza che non sia individuabile una “figura tipo” (e, in particolare, della stessa tipologia sociale dell’agente concreto) che avrebbe preso “seriamente in considerazione” il rischio costituisce un indice a favore della “natura dolosa” del rischio stesso. Viceversa, depone a favore della “natura colposa” di un determinato pericolo oggettivo la circostanza che sia possibile identificare una “figura tipo” la quale avrebbe potuto prendere in considerazione il pericolo stesso431. Tali parametri, come si è detto, dovrebbero

426 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 153, 197. 427 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 195, 197. 428 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 197 – 199.429 Per quanto concerne, per converso, l’individuazione del “rischio consentito”, S.

CANESTRARI, op. ult. cit., 145, evidenzia che essa debba avvenire tramite un bilanciamento di interessi analogo a quello che è alla base della valutazione dello stato di necessità: dunque, da un lato, il valore o l’utilità sociale dell’attività; dall’altro, il tipo e le dimensioni della possibile lesione, a sua volta considerata sia in funzione dell’entità o gravità del danno, sia in funzione del rango giuridico del bene oggetto della lesione. Dovranno altresì considerarsi il grado di probabilità della verificazione dell’evento ed il grado di probabilità del raggiungimento dello scopo dell’attività.

430 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 201 – 202. 431 S. CANESTRARI, op. ult. cit.,155.

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valorizzare da un lato il concetto di “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico”, qualora si tratti di rischio peculiare rilevante ai fini della responsabilità per dolo eventuale; dall’altro, il criterio della “motivata fiducia che, in concreto, l’evento non si verificherà”, qualora si tratti di “rischio colposo”: non si comprenderebbe, infatti, come possa configurarsi tale “motivata fiducia” qualora un determinato pericolo oggettivo non avrebbe potuto neppure essere preso in considerazione dall’homo eiusdem conditionis et professionis (o, meglio, dall’osservatore esperto, dotato delle stesse capacità e cognizioni dell’agente concreto al momento di realizzazione della condotta, e posto nelle vesti dell’homo eiusdem conditionis et professionis)432.

Questa ricostruzione non dovrebbe incorrere nei limiti che, invece, emergono con riferimento ad altri tentativi di distinzione fra “rischio doloso” e “rischio colposo” tendenti ad una “oggettivizzazione” del dolo tramite astrazione di elementi pertinenti alla tipicità colposa: si fa riferimento, in particolare, alla teoria prospettata dalla penalista tedesca Ingeborg Puppe, in base alla quale il “rischio colposo” sarebbe quello rispetto a cui un “agente razionale e giudizioso”, in base a “criteri dotati di validità generale”, possa nutrire una “seria fiducia” di non verificazione; mentre, per converso, il “rischio doloso” sarebbe quello che un “agente razionale” deciderebbe di correre “soltanto se concordasse” con la realizzazione dell’evento433. Canestrari definisce tale impostazione come “il tentativo più estremo di obiettivizzazione del concetto di dolo”, tramite un’interpretazione normativa della condotta, dalla quale dovrebbe ricavarsi la componente volitiva434. Il fondamentale nodo problematico della teoria appena esposta consiste nel fatto che il pericolo doloso venga ricostruito attraverso astrazioni pertinenti alla sfera colposa435: l’impostazione proposta da Canestrari, invece, vede quale uno dei principali “punti di partenza” proprio la necessità di evitare tale meccanismo.

432 S. CANESTRARI, op. ult. cit.,156. Emblematico è l’esempio, addotto dall’Autore, del medico chirurgo direttore di una casa di cura in cui si possano eseguire solo alcuni trattamenti anestetici: qualora egli venga a conoscenza del fatto che un paziente, ivi ricoverato, sia allergico alle sostanze utilizzate per i trattamenti anestetici eseguiti dalla clinica, e del fatto che tale paziente possa essere agevolmente trasferito in altre strutture, nell’ipotesi in cui il medico scelga comunque di non trasferire il paziente e praticare l’operazione nell’ambito della propria clinica (ad esempio, per motivi di lucro, o al fine di non screditare l’istituto), si configurerà un rischio rilevante ai fini della responsabilità per dolo eventuale, dato che l’eventualità di affrontare tale rischio non avrebbe potuto neppure essere presa in esame da parte dell’homo eiusdem conditionis et professionis dell’agente concreto (quindi, da parte del “modello” di “medico chirurgo”), posto nella stessa situazione cognitiva dell’agente concreto al momento di realizzazione della condotta, e dotato delle sue eventuali capacità o cognizioni superiori. Non dovrebbe rilevare ad escludere la sussistenza della responsabilità dolosa, del resto, il fatto che il medico chirurgo si fosse rappresentato fattori impeditivi o interruttivi del nesso eziologico: non si vede, infatti, come una “fiducia” nella non realizzazione del decorso causale possa sussistere in modo “fondato” o “ragionevole”, qualora si tratti di un rischio che non avrebbe potuto neppure essere preso in considerazione dalla tipologia sociale di riferimento.

433 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 117 – 120. 434 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 120. 435 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 122.

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10. Dolo eventuale e colpa cosciente in relazione agli elementi del fatto tipico diversi dall’evento e nei reati di mera condotta

Nella maggior parte dei casi, le riflessioni in tema di distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente vengono effettuate assumendo come base il modello dei reati di evento (e, ancor più nello specifico, il modello dei reati commissivi di evento). Tuttavia, si pongono come necessarie alcune considerazioni con riferimento ai reati di mera condotta, nell’ambito dei quali si pone la questione inerente la valutazione dell’atteggiamento soggettivo dell’agente rispetto agli elementi del fatto tipico diversi dall’evento materiale.

Va, anzitutto, preso atto che la dottrina maggioritaria tenda a concepire, quale oggetto del dolo, il fatto tipico nella sua unitarietà: più precisamente, si sostiene che tutti gli elementi del fatto tipico, anche diversi dalla condotta e dall’evento, rientrino nell’ambito di un “piano” voluto dall’agente e, quindi, siano “con – voluti” nella sua decisione436: in base a tale impostazione, il dolo eventuale il quale si fondi sul dubbio circa la sussistenza di elementi del fatto tipico diversi dall’evento ed il dolo eventuale che, invece, si fondi sulla “decisione a favore” della realizzazione dell’evento, vengono ricondotti ad una sfera unitaria della responsabilità dolosa437.

Altro punto condiviso dalla dottrina maggioritaria è dato dall’osservazione per cui lo stato di dubbio su presupposti del fatto tipico diversi dalla condotta e dall’evento, da un lato, non sia sufficiente ad integrare il dolo; dall’altro, non sia neppure decisivo ad escluderlo e ad inquadrare, di conseguenza, la colpa438.

Fermo restando tali basi comunemente condivise, sono rilevabili conclusioni sostanzialmente diverse alle quali si è giunti in dottrina.

Anzitutto, è possibile richiamare l’appena descritta tesi di Canestrari: l’Autore ritiene che essa possa agevolmente risolvere la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente anche con riferimento alla valutazione dell’elemento soggettivo all’interno dei reati di mera condotta; così – secondo Canestrari – si avrà uno stato di dubbio riconducibile al dolo eventuale qualora l’agente, a fronte della rappresentazione del dubbio, si rappresenti altresì uno stato di rischio di realizzazione della fattispecie penalmente rilevante il quale sia “non consentito”, e che non avrebbe potuto neppure essere preso in considerazione da un osservatore accorto, posto nelle stesse condizioni in cui si trovava l’agente concreto al momento della tenuta della condotta e nelle vesti dell’homo eiusdem conditionis et professionis; qualora, invece, tale rischio avrebbe potuto essere preso in considerazione dall’osservatore accorto posto nelle medesime condizioni di cui sopra, il dubbio sarà ascrivibile alla sfera della colpa con previsione439. Canestrari evidenzia, ad ogni modo, la difficoltà di configurazione della colpa con previsione nelle ipotesi in cui il dubbio riguardi

436 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 203. L’Autore richiama, a sua volta, M. ROMANO, Commentario, II ed., 405.

437 Così osserva S. CANESTRARI, op. ult. cit., 204. 438 In tal senso, ex plurimis, M. GALLO, voce Dolo, 792; S. PROSDOCIMI, Dolus

eventualis, 29 (ivi per quanto riguarda il dubbio in generale), 57; S. CANESTRARI, op. ult. cit., 206.

439 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 206 – 207.

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elementi del fatto tipico ininfluenti sul nesso con la conseguenza lesiva: si osserva, infatti, che sarà molto difficile ricavare l’assenza di volontà nelle ipotesi in cui l’agente, a fronte della rappresentazione del dubbio, non si fosse attivato al fine di eliminare il dubbio stesso (ma ciò non significa che, in questi casi, la volontà debba essere presunta)440.

Sempre per quanto concerne la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente in relazione ai reati di mera condotta, Canestrari prospetta soluzioni differenziate a seconda che si tratti, rispettivamente, di reati a fattispecie pregnante (i quali siano espressione di un preesistente carattere antisociale) o di reati a fattispecie neutra (dai quali non si evinca un carattere antisociale preesistente): con riferimento ai primi, in particolare, l’Autore applica il proprio criterio di distinzione fra “rischi dolosi” (rilevanti ai fini del dolo eventuale) e “rischi colposi” con specifico riguardo al rischio di realizzazione del “fatto tipico”; potrà, quindi, configurarsi il dolo eventuale qualora si fosse trattato di un rischio di realizzazione del fatto tipico che fosse “non consentito”, e che non sarebbe stato neppure preso in considerazione da un osservatore accorto, posto nella stessa situazione concreta in cui si trovava l’agente reale, e nelle vesti dell’homo eiusdem conditionis et professionis; chiaramente, in caso contrario, potrà aversi la colpa cosciente 441. Con riferimento ai secondi, del resto, l’Autore riconosce che, nella maggior parte dei casi, non sia possibile differenziare l’imputazione dolosa rispetto a quella colposa442: infatti, stante la mancata previsione legislativa espressa, per tali fattispecie, di una deroga al principio dell’ignorantia legis non excusat, allo stato attuale non è possibile l’applicazione della (effettivamente corretta) impostazione dottrinale la quale auspica che, nel caso dei reati a fattispecie neutra, il dolo debba richiedere la conoscenza del divieto o del comando penale443; di conseguenza, fatto ed antigiuridicità non sono, in questo frangente, separabili444 (si consideri, ad esempio, l’ipotesi dell’esercizio di attività senza l’autorizzazione prescritta: in casi di questo genere, l’agente potrà rappresentarsi – e volere – la realizzazione del reato soltanto in quanto abbia conoscenza della norma che imponga la necessità dell’autorizzazione; tuttavia, viene considerato penalmente rilevante il solo fatto che l’agente eserciti l’attività in mancanza dell’autorizzazione prescritta, a prescindere dalla conoscenza o meno della norma che impone l’autorizzazione).

Quanto, poi, alle ipotesi di dubbio sull’illiceità della condotta, Canestrari sostiene che, ai fini della configurabilità del dolo eventuale, sia necessaria la rappresentazione “seria” del rischio di infrangere l’ordinamento; mentre, ai fini della colpa cosciente, sarà necessaria la “fiducia razionale”, da valutare secondo un giudizio “autenticamente obiettivo”, nella assenza di antigiuridicità445. Lo stesso Autore evidenzia che, del resto, la dottrina

440 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 210. 441 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 215. 442 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 220.443 Concordano in tal senso S. CANESTRARI, op. ult. cit., 216, 219; G. FIANDACA – E.

MUSCO, Diritto penale, 612 (seppur questi ultimi con riferimento particolare ai reati omissivi propri a fattispecie neutra).

444 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 219.445 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 223.

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dominante tenda a ritenere sussistente il dolo eventuale nel caso in cui il soggetto, semplicemente, si fosse rappresentato la possibile illiceità dell’azione programmata, accettando il rischio di violare la legge: il tutto a prescindere da valutazioni concernenti l’evitabilità o inevitabilità dell’errore sul precetto446.

Per quanto concerne le soluzioni proposte da Prosdocimi, anche egli prende le mosse dalla considerazione per cui oggetto del dolo debba consistere negli elementi essenziali del fatto tipico complessivamente considerato447; nondimeno, tale Autore sostiene che non possano configurarsi reati “senza evento”, dovendosi intendere l’ “evento” come “lesione o messa in pericolo di beni giuridici” 448(aspetti, questi, che dovrebbero caratterizzare qualsiasi reato). Sulla base di tali assunti, Prosdocimi giunge a ritenere applicabile anche ai reati di mera condotta, o ai presupposti del fatto tipico diversi dall’evento, il criterio da lui stesso proposto, in base al quale si avrebbe dolo eventuale qualora l’agente scelga di realizzare la condotta effettuando una deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro; deliberazione, questa, che mancherebbe nel caso della colpa cosciente449.

Per quanto attiene al versante giurisprudenziale, si rileva la tendenza all’utilizzo del criterio dell’“accettazione del rischio” anche sul fronte dei reati di mera condotta: in tal senso, ad esempio, si è affermata la configurabilità del dolo eventuale per atti osceni in luogo pubblico, con riguardo alla condotta del soggetto che avesse praticato tali atti in luogo, seppur appartato, comunque visibile, accettando il rischio che altri potessero vederlo450. Altresì, i giudici di legittimità hanno affermato la compatibilità del dolo eventuale con il reato di cui all’art. 189, comma 6, C. d. S., relativo alla condotta di chi, avendo provocato un incidente stradale con danno alle persone, ometta di fermarsi e di prestare assistenza a coloro che abbiano subito danno alla persona, con rifiuto consapevole di accertare la sussistenza dei presupposti dell’obbligo prescritto dalla norma penale: si afferma, cioè, che il dolo eventuale possa sussistere anche qualora l’agente, rappresentatosi la possibilità di sussistenza dei presupposti che genererebbero – nel caso del reato di specie – l’obbligo di attivarsi, ometta di verificarne l’effettiva sussistenza, poiché ciò stesso comporterebbe l’accettazione del relativo rischio451. Da notare la tendenza della

446 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 221.447 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 55.448 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 58.449 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 56 – 57, 62.450 Cass. Pen., Sez. III, 10 giugno 2009, n. 31253, in dejure.giuffre.it: “il reato in questione

è punito quanto meno a titolo di dolo eventuale, perché l’autore ha accettato in concreto il rischio che altri lo veda nel compimento dell’atto”. In senso sostanzialmente analogo, Cass. Pen., Sez. III, 17 dicembre 1999, n. 4594.

451 Cass. Pen., Sez. IV, 6 novembre 2008, n. 45117, in dejure.giuffre.it. Nel caso di specie, non viene affermato espressamente il criterio dell’accettazione del rischio; tuttavia, viene confermata la configurabilità del dolo eventuale in relazione al reato di cui all’art. 189, comma 6, C. d. S. e, in particolare, con riferimento ai presupposti della condotta. Nello stesso senso, e sempre con riguardo all’ “omissione di soccorso” in caso di incidente stradale con danno alle persone, ma con espresso riferimento all’“accettazione del rischio”, Cass. Pen., Sez. IV, 13 maggio 2011, n. 25668, in dejure.giuffre.it: “[…] è però sufficiente anche il dolo eventuale, che si configura normalmente in relazione all’elemento volitivo, ma che può attenere anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza di elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso il rischio: ciò significa che, rispetto alla verificazione del danno alle

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giurisprudenza richiamata a specificare che “il dolo eventuale, che si configura normalmente in relazione all’elemento volitivo”, possa “attenere anche all’elemento intellettivo”: tale argomentazione viene utilizzata per giustificare la configurazione del dolo eventuale con riferimento ad elementi del fatto tipico diversi dall’evento, ma dovrebbe non essere indispensabile se si considerasse quale oggetto del dolo (e, quindi, di rappresentazione e volontà) il fatto tipico complessivamente ed unitariamente inteso.

11. Dolo eventuale e colpa cosciente nei reati di pericolo

I reati di pericolo sono caratterizzati dalla rilevanza, ai fini dell’integrazione della fattispecie penale, della realizzazione di una condotta la quale ponga in pericolo o crei la potenziale lesione di beni giuridici, a prescindere dalla effettiva lesione di essi452. Sono a loro volta classificabili in reati di pericolo concreto e reati di pericolo astratto o presunto: i primi sono connotati dal fatto che il giudice, in sede di accertamento, dovrà verificare l’effettiva messa in pericolo del bene giuridico protetto dalla norma che venga, nel caso specifico, in questione, essendo tale messa in pericolo elemento costitutivo della fattispecie penale; nel caso dei secondi, invece, la situazione di messa in pericolo del bene giuridico è, appunto, presunta in base alla realizzazione della condotta tipizzata dal legislatore, ed il giudice è dispensato, dunque, dall’accertamento dell’effettiva e concreta messa in pericolo del bene giuridico penalmente tutelato453.

Ai fini di un’analisi delle particolarità insite nella distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente nell’ambito dei reati di pericolo, appare opportuno prendere le mosse dal rilievo dottrinale in base al quale debba essere tenuta ben ferma la distinzione concettuale fra dolo eventuale di danno e dolo di pericolo: si potrebbe, in effetti, essere indotti all’equiparazione sostanziale di tali figure, mentre invece va chiarito che il dolo eventuale di danno deve avere ad oggetto, comunque, l’evento, e non la mera situazione di pericolo che venga creata tramite la condotta454. Occorre tenere frema, altresì, la distinzione concettuale fra dolo di pericolo (concreto) e colpa con previsione del danno: entrambe le categorie richiedono la rappresentazione concreta del pericolo, ma altro è percepire e creare volontariamente, nonché consapevolmente, un pericolo per un bene giuridico (con “decisione” di creare tale pericolo), altro è percepire la violazione di una regola cautelare ed attuarla consapevolmente455.

persone eziologicamente collegato all’incidente, è sufficiente (ma pur sempre necessario) che, per modalità di verificazione di questo e per le complessive circostanze della vicenda, l’agente si rappresenti la probabilità – o anche la semplice possibilità – che dall’incidente sia derivato un “danno alle persone” e che queste “necessitino di assistenza” e, pur tuttavia, accettandone il rischio, ometta di fermarsi.”; ancora, in linea di massima nello stesso senso, Cass. Pen., Sez. IV, 10 dicembre 2009, n. 3568, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. IV, 5 novembre 2009, n. 43960, in dejure.giuffre.it; Trib. La Spezia, 2 dicembre 2009, in dejure.giuffre.it.

452 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 198.453 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 199 – 200.454 In questo senso, S. CANESTRARI, op. ult. cit., 232 – 234. 455 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 236.

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Preso atto di tali premesse, vanno rilevati, anzitutto, due orientamenti contrapposti: un primo a sostegno della trasposizione nella categoria dei reati di pericolo dei tradizionali criteri identificativi di dolo (e quindi, ovviamente, anche del dolo eventuale) e colpa utilizzati per le fattispecie di danno; un secondo a sostegno della non configurabilità del dolo eventuale nei reati di pericolo. Entrambi non sembrano condivisibili: il primo non lo è in quanto determinate fattispecie di pericolo appaiono di per sé incompatibili con il dolo eventuale, stante l’indissolubilità tra la condotta ed il rischio; il secondo non lo è in considerazione del fatto che il dolo eventuale possa, effettivamente, configurarsi con riferimento ad elementi attuali dei quali l’agente non sia a conoscenza, ovvero futuri rispetto alla realizzazione della condotta tipica; tale secondo orientamento sarebbe corretto se il giudizio di pericolo dovesse essere sempre effettuato in una rigida prospettiva ex ante, ma così non è456.

A partire dai suddetti rilievi muovono le osservazioni di Stefano Canestrari, secondo il quale, nell’ambito dei reati di pericolo concreto, sarà difficile la configurazione della colpa cosciente, posto che il dolo eventuale richieda la consapevolezza del carattere concreto del pericolo e, di conseguenza, non si comprenderebbe come il soggetto possa nutrire una “fondata fiducia” nella non realizzazione del pericolo stesso, a fronte della rappresentazione della concretezza di questo. L’Autore evidenzia quindi che, nella maggior parte dei casi, si tratterà dell’alternativa fra dolo eventuale e colpa incosciente: il primo si avrà qualora il soggetto si fosse determinato ad agire a fronte della rappresentazione della possibilità concreta di creare un pericolo, qualora la produzione del rischio sia non consentita e non avrebbe potuto neppure essere presa in considerazione da un osservatore esperto, posto nella stessa situazione rispetto all’agente concreto, in possesso delle eventuali capacità superiori di quest’ultimo e nelle vesti dell’ homo eiusdem conditionis et professionis; la seconda si avrà allorché il soggetto avesse agito con la “giustificata fiducia” nella non verificazione del pericolo, la quale è incompatibile con il rischio che non avrebbe potuto neppure essere preso in considerazione in base al parametro dell’homo eiusdem conditionis et professionis e, a ben vedere, viene a coincidere con una erronea rappresentazione delle circostanze di pericolo, nonché con una assenza della autentica coscienza del pericolo stesso arrivando, quindi, a poter configurarsi solo come colpa incosciente457. Anche nell’ambito dei reati di pericolo presunto, sostanzialmente, potrebbe configurarsi soltanto l’alternativa fra dolo eventuale e colpa incosciente: infatti, ai fini del dolo risulta sufficiente la sola consapevolezza, da parte dell’agente, di realizzazione degli elementi tipici descritti dalla norma penale, mentre non sono necessarie coscienza e volontà di realizzazione del pericolo; ne consegue che, ai fini della configurazione della colpa, sarà necessaria l’assenza di consapevolezza della realizzazione degli elementi tipici previsti dal legislatore; del resto, a fronte della consapevolezza della realizzazione di tali elementi tipici, non è neppure configurabile la “fiducia” nella non realizzazione di essi458.

Un’analisi approfondita sulla tematica della distinzione fra dolo e colpa nell’ambito dei reati di pericolo concreto è stata effettuata da parte di De

456 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 236 – 237.457 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 240 – 241. 458 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 244 – 246.

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Francesco, attraverso l’ottica della valorizzazione della rappresentazione dei nessi causali, da lui stesso sostenuta. In particolare, le osservazioni dell’Autore muovono dall’interrogativo concernente lo stabilire se, nell’ambito dei reati di pericolo concreto, sia necessaria o meno, ai fini della configurabilità del dolo, la rappresentazione di tutti gli specifici aspetti attraverso i quali si realizzi il pericolo: a tale interrogativo potrebbe fornirsi una risposta negativa se si accogliesse la trasposizione nella sfera dei reati di pericolo concreto dell’impostazione in base alla quale, nell’ambito dei reati di evento, ai fini della responsabilità dolosa non sia necessaria la rappresentazione di tutte le specifiche articolazioni del decorso causale459 (a meno che non si tratti di articolazioni espressamente previste dalla norma incriminatrice460); l’ulteriore alternativa consisterebbe, invece, nel richiedere, ai fini del dolo nei reati di pericolo concreto, che l’agente si fosse rappresentato tutte le specifiche circostanze costitutive del pericolo, sicché dovrebbe escludersi il dolo ogniqualvolta il pericolo fosse stato percepito dal soggetto in modo non corrispondente all’effettivo stato delle circostanze che lo fondassero461. Sennonché, questa seconda soluzione condurrebbe a risultati quantomeno dubbi, andando ad escludere il dolo in situazioni in cui l’agente si fosse comunque rappresentato l’esistenza di un pericolo (seppur sulla base di fondamenti non corrispondenti a quelli effettivamente sussistenti), effettuando un giudizio di valutazione del pericolo stesso tale per cui potesse ricavarsi una prognosi di collegamento fra quest’ultimo e condotta realizzata462.

L’Autore sembra, dunque, condividere la soluzione per cui la valutazione del pericolo da parte dell’agente non debba, ai fini del dolo, riguardare tutte le specifiche ed effettive componenti fondanti il pericolo, essendo sufficiente un giudizio di collegamento fra condotta e pericolo stesso, seppur sulla base di fondamenti non del tutto corrispondenti a quelli effettivamente sussistenti. Quanto al dolo eventuale, in particolare, De Francesco sostiene che esso possa ben configurarsi, in relazione ai reati di pericolo concreto, qualora l’agente, pur versando in dubbio sulla sussistenza delle basi del pericolo, sia consapevole del pericolo ad esse ricollegabile463. Il suddetto giudizio di pericolo, tuttavia, non è – secondo l’Autore – solamente sufficiente ai fini della configurazione del dolo, ma e anche è necessario: non sarebbe esaustiva, a tali fini, la mera percepibilità oggettiva dei fattori di pericolo464. Dal che si dovrebbe ricavare, coerentemente, la non configurabilità della colpa cosciente con riferimento ai reati di pericolo concreto: infatti, qualora il soggetto agisca a fronte della effettuazione del giudizio circa l’esistenza del pericolo, seppur in presenza di dubbio sulla sussistenza delle basi del pericolo stesso, si avrà dolo; non potrebbe, del resto, configurarsi la colpa cosciente, dato che questa presupporrebbe la valutazione (errata), da parte dell’agente, dell’inidoneità di determinati fattori a costituire fondamento del pericolo, e ciò comporterebbe, giocoforza, una mancata percezione delle circostanze del pericolo stesso

459 G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, dolo di pericolo, 5033.460 In tal senso, G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 356. 461 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5034.462 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5035.463 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5038.464 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5036.

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nonché, quindi, una situazione di “incoscienza”. In sintesi, possono darsi due situazioni: o l’agente realizza la condotta a fronte di un giudizio di collegamento fra questa e la situazione di pericolo, e in tal caso si avrà dolo; oppure, l’agente percepisce (erroneamente) fattori alla luce dei quali venga meno il collegamento prognostico fra condotta e realizzazione del pericolo, e in tal caso, mancando effettivamente la rappresentazione delle basi della prognosi di pericolosità, si avrà colpa incosciente, posto che la colpa cosciente dovrebbe richiedere comunque la percezione della funzione teleologica della regola cautelare trasgredita – percezione che verrebbe meno nel momento in cui sia mancante la percezione delle basi sulle quali si fondi il pericolo465.

La colpa incosciente delineata nella maniera appena descritta, tuttavia, andrà a configurarsi come “colpa grave” qualora il soggetto non abbia effettuato il giudizio prognostico sopra indicato, pur in presenza di elementi oggettivi dai quali si sarebbe chiaramente potuto e dovuto evincere il fondamento del pericolo466.

Si osserva, sulla base delle considerazioni suddette, che nell’ambito dei reati di pericolo tenda ad “appiattirsi” la distinzione fra dolo e colpa: più in generale, si nota come tale fenomeno si accentui con l’accentuarsi dell’“anticipazione” della tutela penale rispetto alla verificazione dell’offesa a beni giuridici. Beninteso che ciò non debba significare “eliminazione” della differenziazione fra dolo e colpa467: semplicemente, si tratterà di una distinzione meno accentuata, posto che dolo e colpa vengano a riguardare non già la dimensione concreta e tangibile della lesione a beni giuridici, bensì un momento ad essa prodromico e, quindi, maggiormente “neutro”468. De Francesco osserva come, del resto, nella sfera dei reati di pericolo si affievolisca anche la distinzione fra le varie tipologie di dolo: non venendo in considerazione l’atteggiamento psicologico del soggetto rispetto all’offesa, assume rilevanza esclusivamente la prognosi di pericolo e, di conseguenza, la valutazione, da parte dell’agente, di circostanze ex ante idonee a fondare il giudizio di pericolosità469. L’Autore giunge, addirittura, a porre dubbi sulla configurabilità del dolo intenzionale nell’ambito dei reati di pericolo, sottolineando la difficoltà di inquadrare una vera e propria “intenzione” diretta al mero pericolo, svincolato dal risultato lesivo effettivo470.

Sul versante giurisprudenziale, vi è tendenza a considerare configurabile il dolo eventuale con riguardo ai reati di pericolo, qualora l’agente abbia posto in essere la condotta avendo previsto come possibile la realizzazione del pericolo e accettando, di conseguenza, tale realizzazione: così, ad esempio, si è affermata la configurabilità del dolo eventuale con riferimento al reato di incendio di cosa propria, qualora il soggetto si fosse rappresentato la possibilità di realizzazione del pericolo per l’incolumità pubblica471; ancora, la giurisprudenza di legittimità ha affermato la possibilità di ravvisare il dolo

465 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5035 – 5036.466 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5036.467 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5037.468 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5037 – 5038. 469 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5038 – 5039. 470 G. DE FRANCESCO, op. ult. cit., 5039. 471 Corte App. Bari, Sez. I, 8 febbraio 2006, n. 11, in dejure.giuffre.it

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eventuale con riguardo al reato di commercio di sostanze alimentari nocive, per l’ipotesi in cui l’agente si fosse prospettato come probabile la pericolosità delle sostanze immesse in commercio, seppur in mancanza della diretta conoscenza del loro carattere nocivo472; ulteriormente, si è affermato il dolo, quantomeno nella forma eventuale, con riguardo al reato di atti osceni in luogo pubblico o esposto al pubblico, per le ipotesi in cui tali atti fossero stati compiuti con accettazione del rischio di essere visti da altri473. Talvolta, da alcuni passi delle motivazioni delle sentenze, è possibile ricavare, seppur senza espressa affermazione dell’incompatibilità della colpa cosciente con i reati di pericolo, argomentazioni che potrebbero deporre a favore di tale incompatibilità: in effetti, vi è la tendenza ad esprimere il concetto di “accettazione del rischio” come automaticamente e necessariamente conseguente alla scelta di agire a fronte della rappresentazione delle basi della situazione di pericolo, o della possibilità di sussistenza di tali basi474. Invero, la sfera dei reati di pericolo inquadra, forse, gli unici casi nei quali potrebbe correttamente dirsi che, in ipotesi di realizzazione della condotta a fronte della rappresentazione della possibilità di sussistenza del pericolo, l’accettazione del rischio sia in re ipsa.

12. Dolo eventuale e colpa cosciente in relazione ai reati omissivi

Una particolare attenzione merita la descrizione delle varie posizioni dottrinali che sono state sviluppate con riguardo all’atteggiamento di dolo eventuale e colpa cosciente in relazione ai reati omissivi.

È possibile fare riferimento, anzitutto, all’impostazione sostenuta da Prosdocimi il quale, alla luce della propria teoria che identifica il dolo eventuale nell’atteggiamento psicologico dell’accettazione del rischio effettuata in base ad un giudizio di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro (individuando, per converso, la colpa cosciente nell’atteggiamento dell’accettazione del rischio per negligenza o imprudenza), sostiene che un assetto di questo genere possa trasferirsi pienamente ai reati omissivi, senza necessità di particolari adattamenti sostanziali475: al più, si potrà notare che il reato omissivo, per sua stessa natura, tenda ad identificare una minor adesione psicologica al fatto sotto il profilo della volontà; ma ciò non dovrebbe mutare l’applicazione sostanziale dei criteri distintivi fra dolo e colpa476. Altresì, si potrebbe evidenziare l’eventualità che la condotta omissiva si risolva in una mancata presa di posizione effettiva a livello psicologico, seppur in presenza dell’elemento intellettivo “completo” (vale a dire, in presenza di rappresentazione completa della situazione tipica): ciò, tuttavia, dovrebbe condurre soltanto a concludere che, con riferimento ai reati omissivi, sia

472 Cass. Pen., Sez. I, 28 settembre 1982, in Cass. pen., 1984, 1, 56. 473 Cass. Pen., Sez. III, 17 dicembre 1999, n. 4594, in dejure.giuffre.it 474 Cass. Pen., Sez. III, 28 settembre 2005, n. 38936, in dejure.giuffre.it , ove la Corte

condivide la decisione dei giudici di secondo grado, i quali avevano ravvisato il dolo, per la contravvenzione di cui all’art. 647 c.p., nella condotta degli imputati che, essendosi rappresentati i fattori di rischio, avevano continuato ad agire mantenendo inalterate le modalità precedentemente adottate.

475 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 67.476 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit.

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particolarmente facile che possa configurarsi la colpa cosciente; ma una conclusione di questo genere non dovrebbe comportare particolari ripercussioni sostanziali sui criteri di identificazione del dolo eventuale477. L’Autore ritiene, quindi, privo di valenza sostanziale l’orientamento il quale pone l’accento sul fatto che, nei reati omissivi, spesso manchi una vera e propria presa di posizione da parte dell’agente, anche a fronte della rappresentazione della situazione tipica478. Prosdocimi giunge effettivamente a sostenere che, anche laddove la scelta del soggetto – ovviamente a fronte della rappresentazione della sussistenza dei presupposti dell’obbligo di attivarsi, nonché della possibilità di agire – non sia “imposta immediatamente”, perlopiù si giungerà sempre ad un momento in si manifesti il termine ultimo per adempiere: nel qual caso, si dovrebbe avere comunque una “autentica deliberazione”; allo stesso modo, potrebbe configurarsi una autentica deliberazione nell’ipotesi in cui il soggetto si fosse volontariamente posto nella condizione di non poter adempiere479.

Quanto alla tesi sostenuta da Stefano Canestrari, egli ripropone, anche sul versante dei reati omissivi (impropri), il criterio basato sulla valutazione oggettiva del rischio, che sarà rilevante ai fini della responsabilità per dolo eventuale qualora non avrebbe potuto neppure essere preso in considerazione dall’osservatore esperto, dotato delle stesse capacità e conoscenze possedute dall’agente concreto al momento di realizzazione della condotta, e posto nelle vesti dell’homo eiusdem conditionis et professionis480. Tale assetto dovrebbe permettere di superare più agevolmente il problema dell’identificazione dell’elemento soggettivo nelle ipotesi in cui il soggetto, pur riconoscendo determinate misure come “le più efficaci” ai fini dell’impedimento dell’evento, ne abbia adottate altre relativamente alle quali versasse in dubbio circa l’idoneità all’impedimento dell’evento stesso: potrà concludersi a favore del dolo eventuale soltanto qualora la situazione oggettiva del rischio assuma i connotati propri del rischio descritto come peculiare ai fini del dolo eventuale nei termini suddetti; altrimenti, si dovrà propendere a favore della colpa cosciente; chiaramente, quest’ultima opzione si effettuerà, a maggior ragione, nel caso in cui il soggetto fosse effettivamente convinto dell’idoneità dei mezzi “alternativi” rispetto a quelli riconosciuti come i “più efficaci”481.

Per altro verso, deve essere respinto l’orientamento il quale tende addirittura a negare, con riferimento ai reati omissivi, la configurabilità di un dolo in senso stretto, con conseguente valorizzazione del livello rappresentativo e svalutazione dell’“autentico” elemento volitivo che, conformemente a tali impostazioni teoriche, potrebbe anche mancare482.

Quantomeno dubbie appaiono, infine, le conclusioni di chi sostiene la non compatibilità del dolo eventuale con i reati omissivi impropri: tale assetto afferma che, qualora la realizzazione di un evento lesivo sia dovuta alla semplice inerzia da parte del soggetto, il quale si fosse rappresentato che dalla

477 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 65 – 66.478 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 65.479 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 66.480 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 253.481 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 254.482 Espone tale orientamento, pur non condividendolo, S. CANESTRARI, op. ult. cit., 248.

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propria inerzia avrebbe potuto derivare l’evento da lui non intenzionalmente perseguito, la realizzazione dell’evento stesso non sarebbe la proiezione della volontà del soggetto483. A tali conclusioni sostanziali giunge, in particolare, l’impostazione sostenuta da Luciano Eusebi, conformemente alla quale la condotta caratterizzante il reato omissivo improprio non sarebbe “già di per sé orientata ad uno scopo”: sicché non sarebbe configurabile una componente normativa equiparabile alla volizione (va ricordato che Eusebi aderisce alla concezione normativa delle forme di dolo diverse dal dolo intenzionale) quale sarebbe, invece, quella della “disposizione a pagare il prezzo” costituito dalla realizzazione dell’evento, pur di conseguire il fine intenzionale484. L’Autore, dunque, osserva che non possa costituire un elemento assimilabile alla volontà l’atteggiamento psicologico del soggetto che, semplicemente, si astenga dall’agire, seppur a fronte della rappresentazione della possibilità che si realizzino eventi lesivi a causa di tale inerzia: mancherebbe, in questi casi, una effettiva presa di posizione con riguardo all’evento485.

Tuttavia, lo stesso Eusebi giunge ad ipotizzare casi limite nei quali egli ammette possa configurarsi, anche con riferimento ai reati omissivi impropri, un elemento assimilabile alla volontà e, dunque, idoneo a fondare il dolo eventuale: si tratterebbe delle ipotesi in cui il soggetto che realizzi l’omissione sia effettivamente determinato da un fine intenzionale, che nulla abbia a che fare con il mero evitare gli oneri dell’adempimento, e che sia conseguibile tramite l’inerzia (l’Autore apporta l’esempio del garante che non utilizzi uno strumento salvavita onde rivenderlo a fini di lucro)486. Sennonché, alla luce di quest’ultima considerazione, sarebbe forse stato più prudente sostenere soltanto che i reati omissivi possano più facilmente essere caratterizzati da colpa, che non da dolo eventuale, anziché escludere di netto la configurabilità di quest’ultimo, salvo poi delineare eccezioni le quali, seppur improbabili, sono di fatto possibili.

Sul versante giurisprudenziale, si può osservare la tendenza a riconoscere la configurabilità del dolo eventuale con riferimento ai reati omissivi, attraverso la tradizionale applicazione del criterio dell’accettazione del rischio. Uno dei principali ambiti nei quali vi è stata affermazione del dolo eventuale con riguardo alla condotta omissiva è quello relativo alla responsabilità dell’amministratore di società; in particolare, ad esempio, si è affermata la rilevanza penale della condotta omissiva del soggetto che abbia assunto la carica quale prestanome di altri soggetti, i quali abbiano agito come amministratori di fatto: egli, tramite l’accettazione della carica, si vedrebbe attribuiti doveri di vigilanza e controllo, la cui violazione (mediante omissione) sarebbe idonea a fondare la responsabilità per dolo eventuale, qualora il soggetto stesso si fosse rappresentato che dalla propria condotta omissiva

483 Tale orientamento è descritto, ma non condiviso, da S. CANESTRARI, op. ult. cit., 250. In senso, invece, concorde con esso, L. EUSEBI, Il dolo come volontà, 206 – 208; ID., Appunti, 1094 – 1095; A. PAGLIARO, Discrasie, 324, il quale tende ad escludere la configurabilità del dolo eventuale addirittura anche con riguardo ai reati omissivi propri.

484 L. EUSEBI, Appunti, 1094; nello stesso senso, ID., Il dolo come volontà, 206 ss. 485 L. EUSEBI, Appunti, 1095.486 L. EUSEBI, op. loc. ult. cit.

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potessero scaturire eventi tipici del reato, accettandone il rischio487; in sintesi, si ammette la configurabilità della responsabilità penale dell’amministratore “testa di legno”, a titolo di omissione, per reati realizzati con condotta commissiva da soggetti che abbiano agito come amministratori di fatto, dato che l’accettazione della carica da parte del primo gli attribuisce determinati doveri di controllo e vigilanza che, se trasgrediti, possono comportare il fondamento della responsabilità penale per reati omissivi impropri ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p.; ai fini di tale tipo di responsabilità sarebbero sufficienti la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, ovvero l’accettazione del rischio che questi si verifichino. Recentemente, i giudici di legittimità hanno applicato un’impostazione di questo genere (compresa l’affermazione della configurabilità del dolo eventuale in base al criterio dell’accettazione del rischio) in particolare al reato di truffa488.

Sempre con riguardo alla responsabilità degli amministratori, si è affermata la rilevanza penale della condotta omissiva in tema di falso in bilancio: fermo restando la necessità di accertamento del nesso eziologico fra condotta omissiva e realizzazione del falso – attraverso il giudizio prognostico ed ipotetico attraverso il quale si debba valutare se il fatto non si sarebbe verificato in mancanza del comportamento omissivo –, si ammette che il profilo soggettivo possa dirsi sufficiente ad integrare la fattispecie anche nella forma del dolo eventuale, con richiamo della teoria dell’accettazione del rischio, sicché si considerano “voluti” dall’agente non solo i risultati che egli si sia posto come fine ultimo, bensì anche quelli che siano stati da lui previsti come possibili489 (e – si potrebbe aggiungere – accettati).

Ancora, la responsabilità penale degli amministratori di società per condotta omissiva è stata dedotta, in base al combinato disposto dell’art. 2392 c.c. e dell’art. 40, comma 2, c.p., per l’ipotesi in cui l’amministratore avesse provocato, con omissione (e, in particolare, con violazione del dovere di vigilanza), la sottrazione di beni della società: in questi casi, è stata ammessa la configurabilità del dolo eventuale in capo all’amministratore che, essendo stato retribuito unicamente per assumere la carica in modo formale, aveva fin dall’inizio omesso i controlli che avrebbe dovuto, invece, effettuare, accettando con ciò stesso – si afferma – il rischio della dispersione del patrimonio sociale490.

In tema di bancarotta fraudolenta, sempre sulla stessa linea, è stata affermata la responsabilità dell’amministratore, per condotta omissiva (in particolare, per omissione di controlli) ed a titolo di dolo eventuale, qualora fosse stato accettato il rischio che altri commettessero il reato491.

Non si può non notare come, nelle casistiche appena delineate, la giurisprudenza giunga a dilatare la sfera di applicabilità dell’imputazione per dolo, quasi non lasciando spazio alla configurabilità della colpa cosciente:

487 In questo senso, Cass. Pen., Sez. V, 25 marzo 1997, n. 4892, in dejure.giuffre.it; Trib. Pescara, 19 marzo 2002, in dejure.giuffre.it; Uff. Indagini preliminari Bari, 9 dicembre 2009, in dejure.giuffre.it .

488 Cass. Pen., Sez. II, 5 maggio 2011 (deposito 8 settembre 2011), n. 33320, in dejure.giuffre.it

489 Trib. Milano, 24 novembre 1999, in dejure.giuffre.it490 Cass. Pen., Sez. V, 31 gennaio 2000, in dejure.giuffre.it 491 Corte App. Milano, Sez. II, 29 maggio 2008, in Foro ambrosiano, 2008, 2, 207.

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praticamente, si tende a dedurre in modo automatico l’accettazione del rischio dal solo fatto che il soggetto abbia agito a fronte di un determinato livello intellettivo.

Sul versante dei reati omissivi impropri, è opportuno richiamare anche l’ormai classico “caso Oneda”, in relazione al quale la giurisprudenza di legittimità ha, come si è visto, affermato la colpa con previsione, escludendo il dolo eventuale in base alla non configurabilità (ritenuta dalla Corte) dell’elemento volitivo in capo ai genitori Testimoni di Geova e con riferimento alla morte della figlia, con evidente valorizzazione di un profilo attinente alla sfera emozionale492; il fatto che la sentenza di merito di secondo grado fosse giunta a conclusioni quasi diametralmente opposte (esclusione della colpa cosciente, ed affermazione del dolo eventuale), e sulla base di argomentazioni anch’esse quasi diametralmente opposte (basate sulla affermazione dell’irrilevanza del profilo emozionale)493, mette in luce la complessità della trattazione, nonché il carattere insoddisfacente dei criteri rispettivamente utilizzati. A partire considerazioni analoghe, Stefano Canestrari ha tentato di “risolvere” il caso in questione mediante l’applicazione del criterio da lui stesso proposto ai fini della distinzione fra rischio rilevante per il dolo eventuale e rischio rilevante per la colpa cosciente: nel caso di specie, l’Autore ravvisa una situazione di rischio che avrebbe potuto essere almeno presa in considerazione dall’homo eiusdem conditionis et professionis; sicché, dovrebbe configurarsi un rischio rilevante ai fini della responsabilità per colpa, e non per dolo eventuale494. Si dovrebbe evidenziare, quindi, una particolare utilità del criterio basato sull’analisi del livello oggettivo del rischio nell’ambito dei reati omissivi impropri, nei quali la realizzazione dell’evento lesivo è provocata tramite un “non fare”495.

Più di recente496, la responsabilità a titolo di omissione in base all’art. 40, comma 2, c.p., con riconoscimento del dolo eventuale, è stata affermata per abusi sessuali e violenza privata: in particolare, si è ritenuto responsabile per omissione il rettore di una comunità, il quale non aveva impedito tali pratiche commissive da parte di un soggetto che operava all’interno della comunità stessa, pur essendo stato il rettore ripetutamente informato degli accadimenti anomali. Nel caso di specie, i giudici di merito di secondo grado – lo si ricava dalla stessa sentenza della Cassazione – avevano ritenuto insussistente l’elemento soggettivo, in quanto avevano sostenuto che, ai fini del dolo, non fosse sufficiente una generica rappresentazione di un evento, ma fosse necessaria una rappresentazione del “dato storico nella sua globalità”; sulla stessa linea, i giudici di appello avevano evidenziato che la responsabilità dolosa per omissione ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p., dovesse richiedere non solo l’effettiva consapevolezza della sussistenza dei presupposti dell’obbligo di agire, bensì anche una determinazione a non agire, con piena percezione – volizione del danno che la norma incriminatrice trasgredita

492 Cass. Pen., Sez. I, 13 dicembre 1983, in Cass. pen., 1984, 12, 2400. 493 Ass. App. Cagliari, 13 dicembre 1982, in Giur. merito, 1983, 4 – 5, 961. Per l’analisi

dettagliata della sentenza di secondo grado, nonché della sentenza di legittimità, v. supra, cap. II, par. III.

494 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 255 – 256.495 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 257. 496 Cass. Pen., Sez. III, 12 maggio 2010, n. 28701, in dejure.giuffre.it

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tendesse ad evitare, concludendo che, nel caso di specie, non potesse dirsi raggiunta la prova in tal senso. Sennonché, i giudici di legittimità osservano le incongruenze della correlazione fra presupposti di partenza assunti dai giudici di appello e conclusioni dagli stessi tratte: se, da un lato, l’argomentazione adottata all’interno della sentenza di secondo grado sarebbe, in astratto, corretta, dall’altro non si adatterebbe coerentemente al caso concreto; effettivamente – rilevano i giudici di Cassazione – non si comprenderebbe come possa escludersi la rilevanza dell’atteggiamento soggettivo in capo al rettore il quale, essendo stato edotto degli accadimenti anomali che avvenivano all’interno della comunità, avesse dimostrato la più totale inerzia. Si giunge, sostanzialmente, a censurare la conclusione per cui l’imputato non avrebbe avuto una “piena percezione – volizione” del danno che la norma incriminatrice mirava ad evitare, nonché a ritenere infondata e non condivisibile la necessità, ai fini dell’attribuzione della responsabilità in casi di tale genere, di un dolo diretto. Si ammette, conseguentemente, la configurabilità del dolo eventuale.

Sul versante dei reati omissivi propri, sono rilevabili numerose pronunce che ammettono la compatibilità del dolo eventuale con le ipotesi di fuga e omessa assistenza a seguito di incidente stradale riconducibile al proprio comportamento e con danni alle persone: nella maggior parte dei casi, viene proposto il tradizionale criterio dell’accettazione del rischio; accettazione la quale, tuttavia, viene generalmente dedotta alla luce della mera correlazione fra elemento cognitivo (rappresentazione della possibilità che si fossero verificati danni alle persone) e condotta consistente nell’allontanamento dal luogo dell’incidente, con omissione di verifica della sussistenza dei presupposti dell’obbligo di “fermarsi ed assistere”, ed in considerazione della particolare “pregnanza” dei dati di fatto (ad esempio, violenza dell’urto determinato dall’incidente, conseguenze al veicolo determinate dall’incidente, ecc.) dai quali avrebbe potuto ricavarsi la rappresentazione (anche in termini di mera possibilità) della sussistenza di detti presupposti497; talvolta, in pratica si è espressamente ammessa la configurazione in re ipsa dell’accettazione del rischio sulla base dei criteri appena esposti, ovvero sulla base del comportamento dell’agente che, consapevolmente, rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali la sua condotta costituirebbe reato498.

497 Cass. Pen., Sez. IV, 25 settembre 2008, n. 47373, in dejure.giuffre.it, ove si afferma il dolo eventuale in capo al soggetto che, avendo percepito l’incidente stradale come riconducibile al proprio comportamento e come concretamente idoneo a provocare danni alle persone, si fosse – invece – allontanato dal luogo, senza accertare la sussistenza degli elementi integranti la fattispecie. Nello stesso senso, Cass. Pen., Sez. IV, 13 febbraio 2008, n. 12364, in dejure.giuffre.it: “per la sussistenza del reato di omissione di assistenza, è necessaria l’effettività del bisogno dell’investito, che viene meno nel caso di assenza di lesioni, di morte o allorché altri abbia già provveduto e non risulti più necessario, né utile o efficace, l’ulteriore intervento dell’obbligato, circostanze che non possono essere ritenute ex post, dovendo l’investitore essersene reso conto in base ad obiettiva constatazione. In conclusione: non può invocare l’ignoranza del bisogno di assistenza chi, dopo avere cagionato un incidente caratterizzato da un urto diretto e violento del veicolo da lui condotto contro il corpo dell’investito, si sia dato alla fuga senza aver accertato lo stato della vittima”; Trib. Bari, Sez. II, 24 gennaio 2008, n. 170, in dejure.giuffre.it (in questo caso si opta per l’assenza dell’elemento soggettivo, in considerazione della lieve entità dei danni cagionati al veicolo tamponato e riportati dallo stesso veicolo condotto dall’imputato).

498 Trib. Bari, Sez. I, 5 novembre 2007, in dejure.giuffre.it

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In ulteriori casi è possibile, sempre con riferimento al reato di omessa assistenza a seguito di incidente stradale con danni alle persone, rilevare motivazioni le quali non si limitano a riproporre pedissequamente la formula dell’accettazione del rischio, ma contribuiscono a (o, almeno, tentano di) descrivere in misura più precisa l’elemento psicologico proprio del dolo eventuale, attraverso il concetto di “agire a costo che il danno esistesse”499.

13. Questioni relative alla prova dell’elemento soggettivo

La dottrina tende a rimarcare con forza l’inammissibilità del ricorso a schemi presuntivi ai fini della prova dell’elemento soggettivo; in particolare, con riferimento al dolo, stante il dettato dell’art. 43 laddove, ai fini dell’integrazione del “delitto doloso”, si richiedono previsione e volontà reali di un fatto di reato, si rende necessario l’accertamento effettivo e, anch’esso, reale dell’atteggiamento interiore dell’agente: tale tipologia di accertamento è, di per sé, incompatibile con il concetto stesso di “presunzione”500. Sulla stessa linea, si rigetta l’ammissibilità della configurazione di dolo in re ipsa, ossia ritenuto di per sé sussistente nella realizzazione di un determinato fatto: al pericolo di ricorso al dolo in re ipsa si espongono, in particolare, le fattispecie dotate di significativa pregnanza nelle quali, da un lato, la volontà potrebbe sembrare implicita nella condotta stessa; dall’altro, tuttavia, risulti difficile la prova effettiva dell’elemento soggettivo (in questo senso vengono in rilievo, ad esempio, i reati di falso, o la bancarotta fraudolenta)501.

D’altra parte, stante l’impossibilità di indagine diretta all’interno della psiche del soggetto, non può non ammettersi il ricorso a regole d’esperienza: ne consegue che l’induzione da fatti concreti a processi psichici risulta una modalità indispensabile ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo, senza l’utilizzabilità della quale la prova del dolo, in particolare, si tramuterebbe un una probatio diabolica502.

Sennonché, nel particolare ambito consistente nei casi in cui si debba distinguere fra dolo eventuale e colpa cosciente, spesso la situazione si complica, in quanto il confine tra ricorso a regole d’esperienza e ricorso all’affermazione del dolo in re ipsa o a presunzioni, già di per sé sottile503, lo diviene ancora di più in sede di valutazione della sussistenza o assenza di un elemento volitivo che, se sussistente, è di sicuro “attenuato” rispetto a quello che caratterizzerebbe il dolo intenzionale o il dolo diretto: così, ad esempio, si

499 Cass. Pen., Sez. IV, 10 dicembre 2009, n. 3568, in dejure,giuffre.it; qui, i giudici di legittimità confermano la decisione del giudice di merito, il quale aveva ritenuto sussistente il dolo eventuale nella condotta del soggetto che non si fosse fermato a prestare assistenza, a seguito di incidente ricollegabile al suo comportamento e che aveva provocato la fuoriuscita dalla carreggiata, nonché lo scontro su un muretto, di altra autovettura: ciò rendeva probabile che si fossero verificati danni alle persone, per cui l’imputato, allontanandosi dal luogo, lo avrebbe fatto “a costo che il danno esistesse”.

500 In questo senso, tra gli altri, G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 367.501 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 367 – 368. 502 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 367.503 G. FORTE, Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità,

825.

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sostiene che il dolo eventuale, di norma, sarà da affermare in presenza di rischi “gravi e tipici”, mentre sarà da escludere in presenza di rischi “lievi ed ordinari”; ma ciò non deve significare ritenere automaticamente sussistente il dolo in base a soli dati oggettivi di rischio, ed aprire la strada a dilatazioni eccessive della sfera di applicazione del dolo eventuale504. Sulla stessa linea, buona parte della dottrina tende ad affermare che il requisito dell’ “elevata probabilità” di verificazione del fatto non debba essere la prova del dolo eventuale, bensì debba costituire un elemento con funzione di garanzia, in assenza del quale è difficile ritenere sussistente tale forma di imputazione soggettiva; analogamente, si afferma la necessità di evitare automatiche equazioni fra “elevata probabilità” e dolo eventuale, ovvero fra versari in re illicita e dolo eventuale, così come anche l’equazione fra versari in re licita e colpa cosciente (o, comunque, esclusione del dolo eventuale)505. Si avverte, insomma, la necessità di individuazione di un livello di rischio “oggettivamente apprezzabile”, il quale dovrebbe costituire non già la prova del dolo eventuale, bensì un indice a fondamento del profilo soggettivo, e con funzione di garanzia: si è giunti anche alla conclusione per cui, al di sotto di tale livello “oggettivamente apprezzabile”, potrebbe configurarsi solo il dolo nella forma intenzionale506.

Particolarmente significativa risulta l’enunciazione, da parte di Carrara, di vari criteri i quali dovrebbero fungere da indicatori (“congetture induttive”, senza valore assoluto) ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo; tali criteri sono individuati con particolare riferimento all’omicidio, inteso storicamente come “paradigma” del reato commissivo di evento, e sono i seguenti: indole del soggetto accusato, precedenti manifestazioni d’animo, causa a delinquere, natura delle “armi” utilizzate, numero e direzione dei colpi (qualora la direzione fu dipendente dalla volontà), stato antecedente dei rapporti fra omicida e vittima507. Si tratta, come si è detto, non già di elementi con valore assoluto, alla luce dei quali l’elemento soggettivo possa essere presunto, bensì di indicatori.

Altrettanto interessante è l’individuazione, da parte di Franco Bricola, di due “binari” i quali dovrebbero inquadrare l’accertamento del dolo: da un lato, gli elementi attinenti alla fattispecie legale obiettiva; dall’altro, gli elementi inerenti la “personalità dell’agente”508, che dovrebbero rilevare, in particolare, ai fini dell’accertamento della componente intellettiva509; lo stesso Bricola evidenzia, d’altra parte, che debba essere evitata una eccessiva “psicologizzazione” del dolo, posto che elementi quali l’“accettazione”, il “desiderio”, l’“interesse”, possano rappresentare unicamente “indicatori” del dolo, ma non “elementi costitutivi” di esso510.

Sul versante giurisprudenziale, in particolare, si propende per modalità di accertamento dell’elemento soggettivo basate principalmente sulla deduzione della volontà (o dell’assenza di volontà, si potrebbe aggiungere) a partire dalla

504 G. LATTANZI – E. LUPO, op. cit., 329. 505 M. DONINI, Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione, 2575 – 2577. 506 M. DONINI, op. ult. cit., 2578.507 I criteri elaborati da Carrara sono esposti da G.P. DEMURO, Il dolo, vol. 2, 439. 508 G.P. DEMURO, op. ult. cit., 441., il quale descrive l’impostazione prospettata da

Bricola con riguardo all’accertamento del dolo.509 G.P. DEMURO, op. ult. cit., 443.510 G.P. DEMURO, op. loc. ult. cit.

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considerazione di dati oggettivi della condotta tenuta dall’agente, i quali potranno essere più o meno idonei a rivelare, appunto, l’elemento soggettivo511. È importante osservare, tuttavia, che tali indicatori, a parità di “grado di idoneità” oggettivo, rivestiranno un peso differente a seconda della rilevanza del momento rappresentativo: più precisamente, acquisterebbero forza maggiore in corrispondenza di una maggiore rilevanza della componente intellettiva512.

Relativamente al procedimento di valutazione della natura oggettiva della condotta ai fini dell’accertamento del dolo eventuale risulta significativa, tra le altre, una sentenza riguardante un caso di omicidio, nella quale i giudici di legittimità hanno affermato che “la via più affidabile per il corretto accertamento del dolo, nella forma indiretta o eventuale, è costituita dalla valutazione, condotta con assoluto rigore logico, di inequivoci elementi probatori di natura oggettiva, desunti principalmente dalle concrete modalità della condotta: quali il tipo e la micidialità dell’arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la parte vitale del corpo presa di mira e quella concretamente attinta”; si è concluso, quindi, nel senso che tali elementi oggettivi di fatto, “valutati globalmente siccome parametri univocamente sintomatici dell’animus necandi in base a consolidate regole d’esperienza, devono essere idonei a fare inferire come certo o altamente probabile il verificarsi dell’evento mortale o lesivo, ed evidente l’accettazione del correlativo rischio da parte dell’agente”513.

Spesso viene valutata, quale indicatore significativo, la reiterazione della condotta: si considerino, ad esempio, i casi di contagio da HIV tramite rapporto sessuale non protetto, con riferimento ai quali la reiterazione dei rapporti sessuali non protetti è stata considerata indice a favore della configurabilità del dolo eventuale514.

Piuttosto recentemente, con riguardo all’accertamento dell’elemento soggettivo relativo all’evento non intenzionalmente provocato tramite sinistro stradale, la Corte di Cassazione ha valorizzato la necessità di valutazione delle

511 G.P. DEMURO, op. ult. cit., 444.512 G.P. DEMURO, op. ult. cit., 446.513 Cass. Pen., Sez. I, 13 giugno 2006, n. 23886, in dejure.giuffre.it; nel caso di specie, in

base a tali rilievi, si affermava il dolo eventuale di omicidio, con parallela esclusione dell’omicidio preterintenzionale. Le modalità esecutive sono valorizzate anche in Cass. Pen., Sez. I, 21 ottobre 2010, n. 39266, in dejure.giuffre.it: in particolare, relativamente ad un caso di omicidio commesso con arma da fuoco, nel corso di una rapina e da parte di soggetto in stato di seminfermità per epilessia, abuso di alcol e abuso di stupefacenti, si è esclusa l’ipotesi della preterintenzione, e si è ritenuto sussistente il dolo eventuale in considerazione della distanza ravvicinata dalla quale era stato esploso il colpo che aveva attinto la vittima, nonché in considerazione delle parti del corpo prese di mira (ad altezza superiore al metro); viene altresì affermata l’irrilevanza dello stato di seminfermità nel caso di specie, dato che il soggetto aveva mantenuto una costante lucidità durante tutto il corso dello svolgimento e sviluppo del fatto (aveva tenuto un comportamento del tutto conforme allo scopo perseguito; aveva nascosto l’arma; era stato in grado di ricordare tutti i passaggi della sua azione).

514 Cass. Pen., Sez. V, 17 settembre 2008 (deposito 1 dicembre 2008), n. 44712, in www.altalex.com: “nonostante la consapevolezza indicata, la D. ritenne di intrattenere una lunga relazione sessuale con il D. – dal 1995 al 2001 – senza avvertirlo dei pericoli ai quali si esponeva e senza adottare le opportune e necessarie protezioni nei rapporti sessuali. Non vi è alcun dubbio allora che la donna abbia agito essendo perfettamente consapevole del concreto rischio di infezione al quale esponeva il suo compagno – evento non solo concretamente possibile, ma altamente probabile con il protrarsi dei rapporti sessuali – ed accettando il rischio del verificarsi dell’evento […].”

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circostanze esteriori attraverso le quali si fosse manifestata la condotta, al fine di inferire atteggiamenti interni alla psiche dell’agente: così, si è ritenuto sussistente il dolo eventuale alla luce dell’accertamento condotto tramite la valutazione di elementi di fatto quali l’assenza di tracce di frenata, la mancata adozione (o il mancato tentativo di adozione) di manovre estreme di emergenza, le caratteristiche del veicolo condotto, il comportamento tenuto dall’agente dopo la verificazione dell’incidente (tentativo di fuga)515.

In dottrina, peraltro, non si è mancato di rilevare che, nell’ambito del nostro sistema processuale penale, fondamentalmente orientato alla “falsa alternativa” tra valutazione del fatto e valutazione della sfera interiore dell’individuo (quest’ultima ritenuta “pericolosa” in quanto potrebbe dare adito a valutazioni “dell’autore”), si manifesti una tendenza all’“appiattimento” delle dinamiche probatorie processuali su regole d’esperienza le quali, da sole, sono incapaci di far emergere l’aspetto personalistico della responsabilità penale: invero, si osserva che una maggior propensione all’“indagine” sulla sfera interiore del soggetto sarebbe auspicabile, in quanto non si tratterebbe di pratiche di stampo inquisitorio tese a penetrare nei “pensieri più remoti” dell’accusato, bensì di tentare di rilevarne l’atteggiamento interiore rispetto all’accadimento concreto, evitando una sopravvalutazione delle componenti oggettive del fatto516.

14. Rilevanza o irrilevanza del versari in re illicita?

La dottrina attuale appare in gran parte concorde nel sostenere che, ai fini della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, debba essere irrilevante la liceità o illiceità del contesto di base dal quale abbia origine l’evento collaterale non direttamente voluto517; quantomeno, si concorda sul fatto che tale aspetto non possa avere carattere decisivo, benché possa comunque essere non del tutto privo di implicazioni518.

Vero è, d’altra parte, che non è stato sempre così: il codice penale del 1930 nasce, infatti, come caratterizzato da varie disposizioni le quali sono ispirate al principio “qui in re illicita versatur respondit etiam de casu”; basti pensare, ad esempio, all’art. 116 c.p., all’originario art. 59, comma 1, c.p. (il quale imputava all’agente le circostanze aggravanti a titolo oggettivo, anche se

515 Cass. Pen., Sez. I, 1 febbraio 2011 (deposito 15 marzo 2011), n. 10411, in www.penalecontemporaneo.it

516 G. DE FRANCESCO, Una categoria di frontiera: il dolo eventuale tra scienza, prassi giudiziaria e politica di riforme, in Diritto Penale e Processo, Ipsoa, 2009, 11, 1317 ss.

517 In questo senso, tra gli altri, M. DONINI, Illecito e colpevolezza, 321 (l’Autore osserva che “da qualsiasi attività lecita possono sorgere rischi illeciti e da qualsiasi attività (o azione) illecita scaturiscono anche rischi consentiti”); ID., Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione, 2575 – 2576; S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 79; E. DOLCINI, Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 3, 870 – 871; G. FORTE, Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità, 826 – 829, ove l’Autore afferma chiaramente che il dolo debba radicarsi nell’elemento volitivo, il quale non dovrebbe essere automaticamente ritenuto sussistente in base alla sola considerazione dell’illiceità o dell’elevata entità del rischio insite nel contesto di base in cui si sviluppi l’agire del soggetto.

518 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 123.

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da lui non conosciute o ritenute per errore inesistenti), all’omicidio preterintenzionale o ai delitti aggravati dall’evento519. Non deve sorprendere, quindi, che la figura del dolo eventuale si sia sviluppata proprio a partire dal principio suddetto, configurandosi dapprima come forma di responsabilità oggettiva per l’evento non voluto e cagionato nel quadro di un’attività (illecita) dolosa, per poi vedersi ristretto alle ipotesi in cui detto evento fosse almeno prevedibile o probabile; l’ultimo passo è consistito nell’ulteriore restrizione alle ipotesi di evento effettivamente previsto520 (e, potrebbe aggiungersi, “voluto”). Anche se, nell’ambito del contesto attuale, la questione inerente la rilevanza o irrilevanza del versari in re illicita emerge propriamente con riguardo all’alternativa fra dolo eventuale e colpa cosciente – e non con riguardo all’alternativa fra imputazione o non imputazione di un evento (a meno che non si tratti di reato punibile solo a titolo di dolo: nel qual caso, il dolo eventuale segna, effettivamente, anche la soglia della punibilità) –, le ipotesi di responsabilità oggettiva originariamente previste dal codice penale sono comunque significative per la comprensione dello sviluppo evolutivo che ha condotto alla figura odierna del dolo eventuale.

Attualmente, peraltro, il principio “qui in re illicita versatur respondit etiam de casu” dovrebbe ritenersi definitivamente superato in base alle sentenze della Corte costituzionale n. 364 e n. 1085 del 1988, tramite le quali è stato valorizzato il principio di colpevolezza, alla luce dell’affermazione del fatto che sia necessaria almeno la colpa in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica: infatti, si osserva che non avrebbe senso la funzione rieducativa in relazione al soggetto che non abbia agito (almeno) in colpa521.

Nonostante, come si è detto, la logica del versari in re illicita sia considerata, da gran parte della dottrina, priva di carattere decisivo ai fini della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, è possibile, tuttavia, osservare una certa tendenza, in ambito giurisprudenziale, all’affermazione del dolo eventuale qualora la condotta di base fosse illecita, nonché all’inquadramento della colpa cosciente nel caso in cui il contesto di base fosse lecito: così, ad esempio, in sentenze di legittimità ormai non più recenti, ma non per questo non significative, si è affermato il dolo eventuale per omicidio in capo al soggetto che, per sfuggire all’arresto in flagranza, si fosse fatto scudo con un ostaggio, essendosi rappresentato la possibilità della reazione a fuoco da parte della forza pubblica, nonché la possibilità che i colpi attingessero il corpo dell’ostaggio, provocandone la morte522 ; ancora, si è affermato il dolo eventuale in capo ai soggetti che, avendo compiuto un sequestro di persona a scopo di estorsione, essendo consapevoli delle gravi condizioni fisiche del sequestrato e della possibilità del decesso di questi, non avessero provveduto ad idonee cure,

519 E. DOLCINI, op. ult. cit., 867 – 868.520 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 79 – 80. L’Autore richiama anche il pensiero di Giulio

Paoli (G. PAOLI, Dolo, preterintenzione e colpa. L’elemento soggettivo nelle contravvenzioni, in Riv. it. dir. pen., 1932, 666), il quale sosteneva che qualsiasi forma di dolo dovesse presupporre la diretta volontà di un evento penalmente rilevante e che, di conseguenza, qualora la condotta di base non fosse direttamente tendente ad un evento penalmente rilevante, si sarebbe potuta configurare solo colpa con previsione.

521 E. DOLCINI, op. ult. cit., 868. 522 Cass. Pen., Sez. I, 25 maggio 1981, in Cass. pen., 1982, 10, 1535.

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persistendo nel sequestro, anche a costo di provocare la morte della vittima523. D’altra parte, si è escluso il dolo eventuale, ad esempio, nei casi di “violenza sportiva”524. Ma ancor più significativi appaiono gli esempi del ladro inseguito dalle forze dell’ordine, il quale esploda colpi di arma da fuoco verso gli inseguitori, e della guardia giurata la quale, inseguendo un ladruncolo, esploda colpi di arma da fuoco verso l’inseguito: il primo condannato per dolo eventuale; il secondo, per colpa con previsione525. Non può sfuggire il fatto che, dietro tale prassi, si celino probabilmente esigenze di politica criminale, le quali inciderebbero in misura ancor più significativa con riferimento ai reati non punibili a titolo di colpa: casi, questi, in cui l’identificazione del dolo eventuale segna anche la soglia della punibilità526.

Parte della dottrina527 ha, altresì, evidenziato una massima della Suprema Corte (ormai, tuttavia, non più recente) la quale sembrerebbe quasi ammettere espressamente la logica del versari in re illicita: tale massima afferma che il dolo eventuale ricorrerebbe “quando, pur essendo la volontà del soggetto diretta a cagionare un determinato evento previsto come conseguenza certa, sussiste la contestuale previsione della possibilità di causare più grave reato, che deve considerarsi parimenti voluto, essendosi accettato il rischio”528.

Esempi altrettanto emblematici ai fini della valutazione della logica del versari in re illicita, nonché della tendenza giurisprudenziale ad applicazioni di dolo eventuale e colpa cosciente basate sulla soddisfazione di esigenze di politica criminale, sono rinvenibili nella sfera dei reati commessi nell’ambito della circolazione stradale (quindi in contesto di base non penalmente illecito); frequente è, in tali casi, l’identificazione della colpa cosciente in ipotesi in cui risulterebbe altrettanto convincente l’affermazione del dolo eventuale: si pensi, ad esempio, ai casi di guida con violazione delle norme sulla circolazione stradale, nei quali da un lato è difficile ipotizzare che l’agente non abbia, in qualche misura, accettato il rischio di produzione di eventi lesivi mentre, dall’altro, potrebbe essere altrettanto problematica l’inflizione di una pena elevata quale sarebbe quella da attribuire all’omicida doloso529.

Posto il tendenziale rigetto, in dottrina, dell’attribuzione di carattere decisivo al versari in re illicita ai fini della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, sono rilevabili tentativi, da parte di alcuni Autori, di descrizione dei riflessi che il carattere illecito o lecito del contesto di base possa comunque comportare. Nello specifico si è evidenziato che, in contesti di base illeciti, il problema della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente appare semplificato, e lo è, tendenzialmente, a favore dell’inquadramento del dolo

523 Cass. Pen., Sez. I, 17 dicembre 1984, in Cass. pen., 1986, 4, 479. 524 Cass. Pen., Sez. V, 30 aprile 1992, in Foro italiano, 1993, 2, 79. 525 Esempi riportati da P. VENEZIANI, Dolo eventuale e colpa cosciente, 76. 526 F. CURI, Tertium datur, 226. 527 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 78.528 Cass. Pen., 22 maggio 1984, in Cass. pen. Mass. Ann., 1985, 2017. La massima è

riportata da S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit.529 F. CURI, op. ult. cit., 227. Si riporta anche l’esempio (prelevato da Cass., sez. lav., 1

agosto 2000, n. 10082, in Rep. Foro. it., lavoro (rapporto) [3890], n. 396) del dipendente che, incaricato di condurre un muletto per la movimentazione di merci, procedendo ad elevata velocità e con le pale del mezzo alzate, aveva provocato la collisione con un altro mezzo nonché, in conseguenza di ciò, danno all’altro mezzo e lesioni personali all’altro conducente.

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eventuale: infatti, mentre in contesto di base lecito il decorso causale resta, generalmente, nell’ambito di una sfera ipotetica, in contesto ab origine illecito esso appare, invece, già parzialmente “avviato”, e difficilmente potrà essere arrestato nei suoi ulteriori sviluppi; altresì, qualora l’agente avesse, in contesto ab origine illecito, previsto la realizzazione dell’evento collaterale, allorché questo effettivamente si verifichi risulterà difficile la dimostrazione della “fiducia”, nutrita da parte dell’agente stesso, che esso non si sarebbe verificato530. In sintesi, pur ammettendosi che la logica del versari in re illicita non possa (e non debba) condurre ad automatiche conclusioni, si riconosce che, in contesti di base illeciti, qualora l’agente abbia previsto il risultato lesivo collaterale, sarà più agevole l’identificazione del dolo eventuale, in quanto tenderebbero a ridursi gli ambiti applicativi della colpa cosciente, nonché gli indicatori alla luce dei quali sia possibile trarre l’esclusione dell’elemento volitivo necessario ai fini del dolo531; si sottolinea, nel dettaglio, che la componente della effettiva previsione tenda, in questi casi (a contesto di base illecito), a convergere con l’atteggiamento psichico del dolo eventuale532. Del resto, in contesti ab origine illeciti, residuerebbe effettivamente la possibilità di configurazione di colpa cosciente qualora il rischio creato dal delitto doloso di base fosse ab origine consentito, ed assuma natura anomala nel caso concreto: si adduce l’esempio della morte provocata come conseguenza di abuso di mezzi di correzione o disciplina, applicati dal genitore autoritario e repressivo il quale, pur avendo previsto la possibilità di verificazione dell’evento “morte”, avesse confidato nella non realizzazione di esso, in quanto pratiche correttive analoghe a quelle da lui adottate fossero state utilizzate ampiamente nel suo contesto sociale di appartenenza533.

Volendo, in conclusione, fornire una risposta all’interrogativo circa la rilevanza o irrilevanza del versari in re illicita, la risposta dovrebbe essere negativa se si intende fare riferimento ad una rilevanza di carattere decisivo ai fini della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente; ciò non significa, tuttavia, escludere che la liceità o illiceità del contesto di base dal quale abbia origine l’evento collaterale non possa avere alcun tipo di implicazione: potranno aversi, in particolare, riflessi nel senso di una restrizione della sfera di configurabilità della colpa cosciente in ipotesi di contesto ab origine illecito, stante la tendenza dell’elemento rappresentativo a convergere, in detti casi, con l’elemento psichico proprio del dolo eventuale, nonché considerata la difficoltà di inquadramento di una “fiducia” nella non verificazione dell’evento qualora questo fosse stato dall’agente previsto, posto che il decorso causale risulta, spesso, già parzialmente avviato.

15. La tesi a sostegno della coincidenza sostanziale fra dolo eventuale e colpa cosciente, nonché dell’incostituzionalità dell’applicazione del dolo eventuale.

530 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 131.531 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 136. 532 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 139 – 140. 533 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 140 – 141.

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Parte della dottrina (nello specifico, si fa riferimento a Giacomo Forte), prendendo le mosse da considerazioni critiche nei confronti delle varie teorie inerenti dolo eventuale e colpa cosciente e, in particolare (ma non solo), attraverso la considerazione per cui l’“accettazione del rischio” sia effettivamente elemento caratteristico della colpa con previsione, è giunta alla conclusione per cui il dolo eventuale non sia altro che un “doppione mascherato” della colpa cosciente. Si arriva a sostenere, altresì, che l’applicazione del dolo eventuale rappresenterebbe una dinamica incostituzionale, per violazione dei principi di legalità, tassatività e divieto di analogia in malam partem.

Il punto di partenza dello sviluppo argomentativo sostenuto da Forte è dato dalle definizioni di “delitto doloso” e “delitto colposo” di cui all’art. 43, c.p.: ai fini del delitto doloso, il legislatore ha richiesto espressamente rappresentazione e volontà, richiedendo anche, quindi, la massima partecipazione soggettiva dell’agente al fatto; del resto, dalla definizione di “delitto colposo”, si ricavano da un lato la compatibilità della colpa con la componente della “previsione”, dall’altro l’incompatibilità della colpa con l’elemento volitivo534. Si evidenzia, dunque, che il quid pluris caratterizzante il dolo rispetto alla colpa debba essere individuato nella “volontà”; inoltre, Forte considera il dolo intenzionale come “forma – base” di dolo ammettendo, tuttavia, che ciò non debba significare ridurre le ipotesi di configurabilità della responsabilità dolosa al solo dolo intenzionale; d’altra parte, l’Autore evidenzia, altresì, che il requisito volitivo, seppur non limitato alla sola intenzione, non possa essere svalutato e privato del proprio autentico significato di disciplina; né ad esso potrebbero essere assimilati momenti di partecipazione psichica i quali appaiano maggiormente riprovevoli rispetto alla “mera” colpa: ciò comporterebbe violazione del principio di tassatività, inteso quale corollario del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost.535, oltre che del divieto di analogia in malam partem536.

Per quanto concerne, in particolare, il rispetto dei principi di legalità e tassatività, l’Autore si domanda, chiaramente in senso provocatorio, quale spazio vi possa essere per il dolo eventuale nell’ambito di un ordinamento che non contempla espressamente tale forma di dolo, evidenziando che l’unica “strada percorribile”, ai fini dell’inquadramento della responsabilità dolosa e di quella colposa, sia la considerazione del dato positivo, mentre ogni altra alternativa risulterebbe erronea, in quanto dolo e colpa sono, per il giurista, non già dati meramente psicologici, bensì dati definiti dalle leggi537: Parallelamente, si pone l’accento sul fatto che i principali criteri volti all’inquadramento del dolo eventuale, ed all’identificazione della distinzione di questo dalla colpa cosciente, siano insoddisfacenti. La prima formula di Frank, in particolare, risulterebbe inidonea, in quanto presupporrebbe la valutazione non già dello stato psicologico effettivo del soggetto agente al momento di realizzazione della condotta, bensì l’ipotetico stato psicologico che l’agente stesso avrebbe

534 G. FORTE, Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità , 830.

535 G. FORTE, op. ult. cit., 831 – 832, 836. 536 G. FORTE, op. ult. cit., 836.537 G. FORTE, Ai confini fra dolo e colpa, 231.

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assunto qualora avesse avuto la certezza di realizzazione dell’evento collaterale non intenzionalmente perseguito538 (mentre l’art. 43 fa riferimento ad un momento volitivo effettivo).

In secondo luogo, il criterio della “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico” costituirebbe una indebita assimilazione alla “volontà” della decisione a favore di una lesione che è prospettata come meramente “possibile”: il che non è ritenuto sufficiente a fondare un vero e proprio elemento volitivo (si sostiene, a dire il vero, che non possa trattarsi neppure di una vera e propria “decisione”)539. A parte tale rilievo sul criterio della “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico”, si osserva che anche l’ipostazione proposta da Canestrari, la quale mira ad individuare un più solido fondamento strutturale di tale “decisione” attraverso la distinzione, sul piano oggettivo, fra “rischi dolosi” e “rischi colposi”, incorrerebbe nel limite di prestarsi a tendenze verso una svalutazione del momento volitivo, come conseguenza della particolare attenzione posta sull’individuazione oggettiva del “rischio doloso”540.

Inoltre, si rileva che il tradizionale criterio dell’“accettazione del rischio” comporterebbe, anch’esso, una distorsione dell’identificazione dell’elemento volitivo necessario ai fini del dolo, in quanto la colpevolezza per “accettazione del rischio” sarebbe, in effetti, connotato proprio della colpa cosciente541: in particolare, si osserva che l’art. 61, n. 3., richiedendo non già una previsione negativa, bensì la persistenza, al momento della realizzazione dell’evento, della previsione positiva dello stesso, nonché la persistenza della consapevolezza del carattere rischioso della propria condotta (la quale, dunque, potrebbe provocare l’evento), prenderebbe in esame le situazioni in cui il soggetto agisca con “volontà di rischiare”, ovvero “volontà di agire rischiando”, che non equivale alla volontà dell’evento542; condotte caratterizzate da tale “volontà di agire” a fronte della rappresentazione della possibilità di realizzazione dell’evento configurano sicuramente ipotesi connotate da un certo grado di rimproverabilità, ma ciò non è argomento idoneo a giustificare la loro sussunzione nell’alveo del dolo, onde conferire ad esse un trattamento più gravoso: infatti, il trattamento aggravato è già previsto dallo stesso art. 61, n. 3. A dire il vero, non verrebbe neppure in considerazione un discorso inerente l’analogia, non essendovi alcuna lacuna normativa543: come si è detto, l’art. 61, n. 3, copre di per sé le ipotesi in cui il soggetto abbia agito a fronte della rappresentazione della possibilità di verificazione dell’evento (ma senza la volontà dell’evento), con la consapevolezza del carattere rischioso insito nella propria condotta e, di conseguenza, con accettazione del relativo rischio, e prevede per questo un trattamento aggravato. Fondamentalmente, insomma, si conclude che l’art. 61, n. 3., costituisca proprio l’elemento normativo il quale dovrebbe escludere la categoria del dolo eventuale o, in altri termini, dovrebbe porre in luce l’effettiva coincidenza fra colpa cosciente e dolo eventuale.

538 G. FORTE, Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità, 834.

539 G. FORTE, op. ult. cit., 835. L’Autore ritiene chiaramente che la decisione in termini di possibilità non possa essere equiparata ad una decisione in senso proprio.

540 G. FORTE, op. loc. ult. cit., nota (61). 541 G. FORTE, op. ult. cit., 823. 542 G. FORTE, op. ult. cit., 837.543 G. FORTE, op. loc. ult. cit.

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La tesi sostenuta da Forte non concorda neppure con l’impostazione proposta da Prosdocimi, conformemente alla quale ciò che rileverebbe, ai fini della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, sarebbe dato dalle modalità di accettazione del rischio (tramite una deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro, nel caso del dolo eventuale; per negligenza o imprudenza, nel caso della colpa cosciente): si osserva, in particolare, che, qualora si concepisca l’essenza del momento volitivo del dolo eventuale sul “deliberato sacrificio” quale “prezzo” per il raggiungimento del fine intenzionale, o si tratterebbe di sacrificio strettamente connesso con il risultato intenzionalmente perseguito e, in questo caso, si avrebbe dolo diretto; oppure si tratterebbe di un obiettivo intermedio e, in tale ipotesi, si avrebbe dolo intenzionale544. Si rileva, inoltre, che la ricostruzione effettuata da Prosdocimi comporterebbe lo spostamento dell’oggetto del dolo dall’evento allo stato soggettivo dell’“accettazione del rischio”545: a parere di chi scrive, tale critica è forse eccessiva, dato che individuare l’elemento volitivo del dolo nell’accettazione del rischio effettuata tramite la deliberazione di subordinazione del bene giuridico esposto a pericolo rispetto al perseguimento del fine intenzionale non significa far divenire l’accettazione stessa oggetto di rappresentazione e volontà (il dolo è rappresentazione e volontà, quindi l’oggetto del dolo deve essere l’oggetto di rappresentazione e volontà); oggetto di rappresentazione e volontà resta l’evento, mentre la deliberazione è ciò che concretizza la volontà ed, anzi, proprio la volontà/accettazione dell’evento (non del mero rischio).

Nondimeno vengono elaborate, da parte di Forte, considerazioni con riguardo alla dimensione oggettiva del “rischio”. Si evidenzia, nello specifico, che, mentre nelle ipotesi della realizzazione di attività potenzialmente pericolose, ma “consentite”, dotate di una certa utilità, e non indirizzate volontariamente alla lesione di beni giuridici, il “rischio consentito”, individuato attraverso le regole cautelari, svolga la funzione di esonerare da responsabilità i soggetti che pratichino tali attività, la medesima funzione non risulterebbe coerente nei confronti di soggetti che intendano ledere beni giuridici, magari con sfruttamento della potenziale pericolosità dell’attività svolta, comunque, entro il rispetto delle regole cautelari: in sostanza, mentre, nel caso della responsabilità colposa, il “rischio consentito” avrebbe una funzione di descrizione normativa, contribuendo proprio alla delineazione dell’illecito colposo, nel caso della responsabilità dolosa esso servirebbe ad individuare il livello di pericolosità della condotta in astratto e, di conseguenza, a determinare quali condotte siano rilevanti ai fini del giudizio eziologico546. Sin qui, tuttavia, si fa riferimento al dolo inteso come caratterizzato da “volontà” in senso stretto, considerata come “volontà in direzione dell’offesa”: questa, secondo l’Autore, mancherebbe nell’ambito della categoria del dolo eventuale, sicché ci si dovrebbe porre il problema di stabilire se, relativamente al dolo eventuale stesso, il “rischio” debba atteggiarsi alla stregua dei parametri propri della colpa, oppure conformemente a quelli propri del dolo. Orbene, muovendo dalla considerazione per cui la differenziazione di atteggiamento del rischio fra le

544 G. FORTE, op. ult. cit., 834. 545 G. FORTE, Ai confini fra dolo e colpa, 255. 546 G. FORTE, op. ult. cit., 238, 265.

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ipotesi di dolo (caratterizzato dalla “volontà in direzione dell’offesa”, quindi con esclusione del dolo eventuale) e le ipotesi di colpa sia data dal fatto che le prime siano connotate dalla volontà dell’evento (mancante nelle seconde), e posto che il dolo eventuale mancherebbe di una “volontà” intesa propriamente come “volontà in direzione dell’offesa”, ne conseguirebbe che il rischio, in rapporto al dolo eventuale, dovrebbe atteggiarsi allo stesso modo del rischio caratteristico della colpa547. Da tali considerazioni, dovrebbe emergere un ulteriore argomento a favore della concezione del dolo eventuale come “doppione mascherato” della colpa cosciente.

A supporto della tesi a favore della “commistione” fra dolo eventuale e colpa cosciente, sono state sviluppate anche osservazioni con riguardo ad un caso giudiziario che fece molto scalpore tra il 1997 e il 2003: si tratta dell’omicidio della studentessa Marta Russo, colpita da un proiettile partito dall’Aula assistenti della Città Universitaria dell’ateneo La Sapienza di Roma. Tralasciando le problematiche relative all’individuazione del movente, in sede processuale si pose il problema dell’identificazione dell’elemento soggettivo configurabile in capo all’imputato, il quale si sosteneva avesse sparato il colpo di pistola senza il fine intenzionale di uccidere, ma con condotta di base connotata da aspetti alla luce dei quali, tradizionalmente, si sarebbe posta la questione inerente l’alternativa fra dolo eventuale e colpa cosciente: in particolare l’accusa, in primo grado, sosteneva la configurabilità del dolo eventuale, principalmente in base al rilievo del fatto che l’imputato fosse un soggetto esperto d’armi (aveva prestato servizio di leva presso l’Arma dei Carabinieri), nonché in considerazione dell’indirizzamento del colpo verso un luogo pubblico frequentato548 e, altresì, dell’utilizzo di un silenziatore549. Sennonché, la sentenza di primo grado conclude rigettando l’ipotesi accusatoria a sostegno del dolo eventuale; ma ciò che maggiormente rileva è il fatto che la Corte d’Assise concluda per l’affermazione non già della colpa cosciente, bensì della colpa semplice: il che sembrerebbe quasi riconoscere la riconducibilità del dolo eventuale alla sfera – appunto – della colpa cosciente550 anche se, all’interno della sentenza, non si afferma mai espressamente tale tesi (anzi, si fa riferimento al dolo eventuale con esplicita qualificazione di esso come forma di dolo)551.

Invero, i giudici di primo grado motivarono la scelta dell’imputazione colposa (e si tratta, come si è detto, di colpa semplice) in base al principio in dubio pro reo, evidenziando che non fosse stata sufficientemente raggiunta la prova del dolo552: relativamente a tale aspetto si potrebbe ampiamente

547 G. FORTE, op. ult. cit., 266.548 G. FORTE, op. ult. cit., 821, 840. 549 Lo si ricava da un estratto della sentenza di primo grado sul caso in questione: Corte

Ass. Roma, 13 settembre 1999, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 2, 819.550 G. FORTE, op. ult. cit., 841.551 G. FORTE, op. loc. ult. cit.552 Corte Ass. Roma, 13 settembre 1999, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 2, 819 - 820:

“Posto che […] (S.) esplose un colpo di pistola, vi era, da parte sua, coscienza e volontà nell’accettare il rischio di attingere qualcuno? […] Possibile che […] (l’imputato) abbia con coscienza e volontà, agendo con dolo, premuto il grilletto dell’arma per uccidere o accettando il rischio di uccidere alla presenza di numerosi testimoni? La risposta è negativa perché le risultanze processuali non danno la prova dell’accordo scellerato tra lo sparatore […] (e gli altri presenti). […] Da tutti questi elementi, considerati in sé e nella loro globalità, si inferisce la

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discutere circa l’alternativa fra il principio “non c’è dolo senza colpa” (al quale sembra aderire la sentenza in questione553) e l’impostazione la quale sostiene che, al contrario, responsabilità dolosa e responsabilità colposa siano caratterizzate da basi oggettive differenti. Ciò che rileva maggiormente in questa sede, tuttavia, è il fatto che la “derubricazione diretta” del reato da doloso a colposo (con colpa semplice) sembri fornire quantomeno un sintomo del carattere sostanzialmente colposo della figura del dolo eventuale.

A parere di chi scrive, l’impostazione teorica qui descritta, la quale escluderebbe di netto la categoria del dolo eventuale, sostenendo che essa coincida, sostanzialmente, con la colpa cosciente, non è condivisibile. Certamente sono fondate le osservazioni che pongono in rilievo l’ambiguità del criterio dell’“accettazione del rischio” e le problematiche connesse alla prima formula di Frank; d’altra parte, se si accoglie una differenziazione fra dolo eventuale e colpa cosciente che prescinde dal momento dell’accettazione del rischio (effettivamente comune a dolo eventuale e colpa cosciente) e focalizza il dolo eventuale nell’ “accettazione dell’evento” (non del solo rischio) come “prezzo” che l’agente sia “disponibile a pagare” pur di perseguire il proprio fine intenzionale, diviene troppo radicale sostenere che tali criteri possano dirsi soddisfatti soltanto qualora vi sia certezza di realizzazione dell’evento. Inoltre, non appare condivisibile neppure la critica mossa con riguardo alla teoria di Canestrari: è vero che essa è incentrata sulla valorizzazione della distinzione oggettiva fra “rischi dolosi” e “rischi colposi”, ma è anche vero che lo stesso Autore precisa chiaramente, e più volte, che l’analisi della responsabilità dolosa nel suo complesso debba essere effettuata comunque in considerazione, altresì, del livello intellettivo e del livello volitivo; il fatto che tale impostazione si presti, se estremizzata, ad una eccessiva valorizzazione del livello oggettivo, con conseguente svalutazione del momento volitivo, non pare essere un

possibilità che S. non fosse consapevole di maneggiare un’arma carica […]. Si potrebbe replicare che S. […] ben era in grado di rendersi conto se l’arma era carica o non […] secondo parametri di diligenza rafforzata dalle qualità personali. Ma in questo, appunto, risiede l’essenza dell’addebito colposo […]. In definitiva, gli elementi a sostengo dell’una e dell’altra ipotesi finiscono per equivalersi: in tal caso opera il canone della scelta più favorevole all’imputato.” Da notare, però, che la sentenza definitiva sul caso in questione (Cass. Pen., Sez. I, 15 dicembre 2003, n. 31523, in Cass. pen., 2005, 2, 474) affermerà la colpa “estremamente grave”, con esclusione del dolo eventuale alla luce di aspetti quali la mancata dimostrazione di un movente accertato, la mancata dimostrazione dell’intento di sparare in direzione del luogo pubblico e la mera occasionalità dell’attingere un “passante qualsiasi”. Particolarmente critico (negativamente) nei confronti della conclusione prospettata dalla Suprema Corte – non con riguardo all’inquadramento della colpa grave anziché della colpa semplice, bensì con riguardo all’esclusione del dolo – è G. DONOFRIO, Alla ricerca del dolo eventuale!, 475 – 478, il quale sostiene l’infondatezza del ravvisare la colpa cosciente (e non il dolo eventuale) nella condotta di chi, essendo esperto d’armi ed essendo stato istruito delle cautele con le quali le armi debbano essere maneggiate, si fosse avvicinato ad una finestra, tenendo in mano un’arma carica e puntandola verso l’esterno (e verso il basso, evidenzia Donofrio), in direzione di un luogo frequentato: l’Autore si domanda, con palese intento provocatorio, come la suddetta dinamica, nonché l’evento provocato, si possano considerare meramente casuali ed avulsi da volontarietà; sostiene, quindi, la configurabilità, nel caso di specie, del dolo eventuale, inteso come atteggiamento psicologico del soggetto che, a fronte della rappresentazione della possibilità che una certa condotta sfori nella verificazione di un evento, ed in persistenza di essa, scelga di tenere la condotta “a costo di provocare l’evento” e, quindi, accettando l’evento (ivi, 477).

553 G. FORTE, op. ult. cit., 842.

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argomento decisivo, dato che praticamente qualsiasi teoria, se estremizzata, incorrerebbe in conclusioni non condivisibili.

CAPITOLO IIIDOLO EVENTUALE IN RAPPORTO AD ALTRI ISTITUTI

SOMMARIO: 1. Dolo eventuale e delitto tentato. – 2. Dolo eventuale e fattispecie con dolo specifico. – 3. Dolo eventuale e concorso di persone. – 4. Dolo eventuale e preterintenzione. – 5. Dolo eventuale e dolo alternativo.

1. Dolo eventuale e delitto tentato

La tematica inerente la compatibilità del dolo eventuale con il delitto tentato assume una rilevanza significativa in quanto, essendo il delitto tentato configurabile solo a titolo di dolo, si tratta di andare ad individuare la soglia della punibilità. È, inoltre, argomento piuttosto complesso, a causa delle oscillazioni

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giurisprudenziali che si sono manifestate a riguardo, a partire dagli anni ’70 del Novecento fino ad oggi.

In linea di massima, è possibile evidenziare due orientamenti di fondo: un primo di essi a sostegno della compatibilità del dolo eventuale con il delitto tentato, stante la supposta identità fra dolo del tentativo e dolo del reato consumato; un secondo, viceversa, il quale nega tale compatibilità, considerando il delitto tentato come fattispecie autonoma, i cui elementi oggettivi dovrebbero, anche essi, essere oggetto di rappresentazione e volontà. Invero è rilevabile, altresì, una terza prospettiva, delineata in dottrina, in base alla quale la questione della compatibilità fra dolo eventuale e tentativo dovrebbe essere risolta non in modo univoco ed a priori, bensì considerando, di volta in volta, il grado di concretezza della messa in pericolo del bene giuridico554.

Volendo procedere ad un’analisi che tenga conto, oltre che dei contenuti sostanziali degli orientamenti accennati, anche del loro susseguirsi a livello cronologico, va osservato che il periodo temporale compreso fra il 1970 ed i primi anni Ottanta fu caratterizzato da tendenze divergenti: si hanno, inizialmente, pronunce che affermano l’incompatibilità del dolo eventuale con il tentativo555 seguite, poi, da sentenze di segno opposto556, le quali culminano in una decisione delle Sezioni Unite557 che avrebbe dovuto consolidare la posizione a sostegno della compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato, e che, invece, ha visto succedersi una giurisprudenza ondivaga delle Sezioni semplici, caratterizzata da un’alternanza di pronunce ad essa conformi558 e, rispetto ad essa, difformi559. Con l’avvento degli anni ’90 si rilevano, dapprima, alcune sentenze di legittimità le quali tendono ad “aggirare” il problema, astenendosi da una netta presa di posizione sulla compatibilità fra dolo eventuale e tentativo, e risolvendo i casi specifici più “a monte”, valutando il vizio di motivazione sull’elemento soggettivo560; successivamente, invece, inizia

554 L. DE MATTEIS, Dolo eventuale e tentativo, in Cass. pen., 1997, 4, 995 – 996. 555 Cass. Pen., Sez. I, 5 novembre 1971, in Cass. pen. Mass., 1973, 227, m. 213; Cass.

Pen., Sez. I, 21 ottobre 1970, in Cass. pen. Mass., 1972, 124, m. 49; Cass. Pen., Sez. I, 1 maggio 1977, in Cass. pen. Mass., 1978, 983, m. 941.

556 Cass. Pen., Sez. I, 17 aprile 1978, in Cass. pen., 1979, 9 – 10, 1109; Cass. Pen., Sez. I, 28 settembre 1978, in Cass. pen., 1980, 1, 50; Cass. Pen., Sez. I, 12 giugno 1981, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, 2, 744; Cass. Pen., Sez. I, 2 dicembre 1982, in Cass. pen., 1983, 4, 882.

557 Cass. Pen., Sez. Un., 18 giugno 1983, in Cass. pen., 1984, 3 – 4, 493.558 Cass. Pen., Sez. I, 28 marzo 1987, in Cass. pen., 1989, 5, 799; Cass. Pen., Sez. I, 28

novembre 1987, in Cass. pen., 1989, 10, 1746; Cass. Pen., Sez. I, 6 marzo 1989, in Cass. pen., 1990, 6, 1031.

559 Cass. Pen., Sez. I, 23 marzo 1987, in Cass. pen., 1988, 12, 2065; Cass. Pen., Sez. I, 8 aprile 1991, in Cass. pen., 1993, 5, 1104.

560 Cass. Pen., Sez. Un., 6 dicembre 1991, n. 3, in Cass. pen., 1993, 1, 14: i giudici di legittimità, in particolare, sostennero non fosse stata sufficientemente motivata sussistenza, ritenuta dai giudici di merito, della volontà omicida in capo ad una guardia giurata che, tentando di fermare un soggetto il quale conduceva un’automobile rubata, aveva esploso un colpo mirando agli pneumatici; colpo che, tuttavia, a causa del rinculo dell’arma, aveva ferito alla testa il guidatore, senza però provocarne la morte; i giudici di merito di secondo grado avevano effettivamente affermato la responsabilità dell’imputato a titolo di tentato omicidio, ma la motivazione da essi adottata presenta punti critici che vanno, invero, molto al di là della sola questione di compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato: sostanzialmente, la Corte d’Assise d’appello aveva affermato la sussistenza, al contempo, di dolo eventuale e dolo alternativo, sostenendo che l’imputato si fosse rappresentato la possibilità di uccidere accettandone il

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ad affermarsi l’impostazione a sostegno della non compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato561, la quale si protrae sino ai tempi più recenti562: fondatamente, quindi, può dirsi che, nel contesto attuale, l’orientamento giurisprudenziale affermato sia quest’ultimo.

Per quanto concerne l’analisi strettamente sostanziale della posizione a favore della compatibilità fra dolo eventuale e tentativo, in via preliminare va notato che, nei casi giurisprudenziali concreti, si trattava perlopiù di ipotesi di “progressione criminosa” meramente “teorica” (in quanto l’evento più grave non veniva effettivamente realizzato) relativamente alla possibilità di lesione dei beni “vita” o “integrità fisica”, per le quali veniva prospettato il tentato omicidio, sorretto da dolo eventuale, con riferimento alla condotta di chi avesse provocato volontariamente lesioni; condotta, questa, che era considerata come accompagnata dall’accettazione del rischio di provocare l’evento più grave (la morte, nello specifico): in altri termini si trattava, principalmente, di casi in cui si inquadrava un reato doloso consumato il quale rappresentasse un determinato stadio di lesione di un bene giuridico, e con riferimento al quale veniva considerato configurabile un tentativo, sorretto da dolo eventuale, di lesione del medesimo bene giuridico ad uno stadio più elevato, posta l’affinità o omogeneità di “direzione” fra reato consumato e quello che era considerato come tentativo563.

Ai fini della comprensione dell’assetto di cui trattasi, ad ogni modo, non può che farsi riferimento alla citata sentenza delle Sezioni Unite (del 1983), la quale avrebbe dovuto consolidarlo: in essa, si muove dalla considerazione per cui il dolo non sia qualcosa di esterno al fatto ed interno al soggetto, bensì una componente che si trasferisca nel fatto stesso; il altri termini, si evidenzia che sia proprio il fatto, alla luce del complesso dei suoi fattori indizianti, a rivelare l’elemento psicologico del reato: di conseguenza, l’essenza dell’elemento soggettivo andrebbe ricavata in considerazione del livello di “adeguatezza”

rischio e che, contemporaneamente, si fosse posto in una condizione di conseguire, alternativamente, il risultato di ferire o il risultato di uccidere.

La soluzione della questione di compatibilità fra dolo eventuale e tentativo viene “aggirata” anche in Cass. Pen., Sez. Un., 15 dicembre 1992, n. 646, in Cass. pen., 1993, 5, 1095, fondamentalmente allo stesso modo in cui la medesima questione era stata evitata nella prima sentenza indicata all’interno della presente nota: viene ritenuto sussistente il vizio di motivazione con riguardo al dolo eventuale, relativamente alla sentenza di merito di secondo grado che aveva condannato l’imputato per tentato omicidio continuato (nel caso di specie, l’imputato aveva inferto colpi di coltello alla zona addominale della vittima, nel corso di un diverbio).

561 A dire il vero, anche prima delle due pronunce delle Sezioni Unite di cui alla nota precedente, vi era stata da parte delle Sezioni semplici l’affermazione della incompatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato. In questo senso, Cass. Pen., Sez. I, 2 novembre 1990, in Cass. pen., 1992, 10, 2343; Cass. Pen., Sez. I, 19 febbraio 1990, n. 1263, in Cass. pen., 1992, 10, 2345; Cass. Pen., Sez. I, 8 aprile 1991, in Cass. pen., 1993, 5, 1104.

562 Tra le altre, Cass. Pen., Sez. I, 17 marzo 1995, n. 1219, in Cass. pen., 1996, 7 – 8, 2190; tra le più recenti, Cass. Pen., Sez. I, 31 marzo 2010, n. 25114, in Cass. pen., 2011, 6, 2245.

563 Tali sono le osservazioni di S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, 159. L’Autore aggiunge anche (ivi, 160): “il rapporto di progressione ravvisato fra le diverse lesioni sembra consentire la loro collocazione sopra un’identica linea ideale ascendente, per cui ciò che è diretto al meno sarebbe automaticamente diretto anche al più.”

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dell’azione rispetto all’evento564. I giudici di legittimità, in secondo luogo, pongono l’accento sull’infondatezza dell’impostazione teorica che considera il delitto tentato come fattispecie distinta rispetto al reato consumato, sostenendo che “il delitto tentato non è un reato diverso da quello consumato, ma è lo stesso reato in formato ridotto solo quanto all’elemento materiale, essendo privo dell’evento (tentativo compiuto) o della parte finale dell’azione (tentativo incompiuto)”: in base a ciò, si nega che il dolo del tentativo, inteso come rappresentazione e volontà del fatto tipico, debba riguardare necessariamente l’elemento dell’univocità della direzione degli atti. Si conclude, quindi, che l’elemento dell’univocità dell’azione non abbia la funzione di individuare lo specifico delitto tentato che si realizzi, bensì quella di segnare l’inizio dell’attività punibile, attraverso una valutazione che deve essere effettuata da un punto di vista oggettivo: l’univocità, quindi, rivelerebbe l’intenzione dell’agente, ma non coinciderebbe con essa. Infine, si giunge ad affermare che il dolo, in linea generale, debba riguardare il fine ultimo dell’azione tipica, e non necessariamente anche i traguardi intermedi di essa: ragion per cui il dolo, qualora vengano poste in essere azioni con valore finalistico plurimo, non dovrebbe venire meno per mancanza di oggettiva univocità degli atti, poiché a rilevare sarebbe la tendenza finalistica di essi, che dovrebbe a sua volta essere inquadrata non già sulla base dei criteri di cui all’art. 56 c.p., bensì in base alle regole in materia di reato progressivo. Ciò che assume maggior rilevanza, comunque, è la concezione dell’elemento dell’univocità, di cui all’art. 56, come requisito di carattere puramente oggettivo: il dolo del delitto tentato non necessiterebbe, quindi, di “coscienza e volontà” dell’univocità degli atti, ma consisterebbe nella direzione della volontà alla produzione dell’offesa; direzione, questa, ricavabile alla luce dell’elemento dell’univocità della direzione degli atti, valutato in modo oggettivo ed alla stregua di un criterio di prova565. Il corollari di tali sviluppi argomentativi sono sintetizzabili nell’accoglimento del principio per cui “il dolo del tentativo è lo stesso della consumazione”566, e nella constatazione in base alla quale “il dolo eventuale è del tutto compatibile col delitto tentato”, in quanto “il requisito della non equivocità degli atti rispetto all’evento di pericolo si riferisce alla struttura obiettiva della condotta, mentre sotto il profilo subiettivo del dolo il delitto tentato per nulla si differenzia dal reato consumato”567.

Anche parte della dottrina, peraltro, è giunta alla conclusione della compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato, seppur sulla base di sviluppi argomentativi differenti rispetto a quelli adottati dalla Suprema Corte all’interno della sentenza alla quale si è appena fatto riferimento. Il punto di partenza

564 Cass. Pen., Sez. Un., 18 giugno 1983, in Cass. pen., 1983, 3 – 4, 493 ss.: “Il dolo non è qualcosa di esterno al fatto, di valore ideologico, interno al soggetto, ma qualcosa che si trasferisce nel fatto al momento attuativo, e che esso realizza e manifesta. […] Essendo […] il fatto, con la sua carica di fattori indizianti, ad esprimere essenzialmente l’elemento psicologico del reato, è evidente che quando l’azione è adeguata all’evento, nel senso che esso appaia come una sua conseguenza certa, questo deve ritenersi intenzionale. Parimenti intenzionale è l’evento, quando si presenta come una conseguenza possibile (in modo però apprezzabile) dell’azione (dolo eventuale), purché l’autore non abbia agito nel ragionevole convincimento […] di una sua mancata realizzazione” (ivi, 495 – 496).

565 M. FILIÈ, Delitto tentato e dolo eventuale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, 2, 745. 566 Cass. Pen., Sez. Un., 18 giugno 1983, in Cass. pen., 1983, 3 – 4, 493 ss.567 Cass. Pen., Sez. I, 12 giugno 1981, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, 2, 746.

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dell’impostazione di cui trattasi è dato dalla valutazione della c.d. “teoria oggettiva” sull’univocità degli atti568, conformemente alla quale l’univocità esprimerebbe un requisito di carattere oggettivo: per cui, ai fini della sussistenza del delitto tentato, sarebbe necessario che gli atti siano valutati oggettivamente come “diretti in modo non equivoco” alla realizzazione del reato, tenuto conto delle loro caratteristiche esteriori, in sé stesse considerate569. Si osserva, tuttavia, che la sola oggettività della condotta non possa dirsi soddisfacente ai fini dell’individuazione del fine delittuoso, poiché praticamente ogni condotta umana possiede in sé un certo margine di polivalenza: da qui, la necessità della valutazione di detto fine delittuoso considerando la condotta congiuntamente al piano concreto dell’agente570. In altri termini, in primo luogo occorrerà effettuare l’accertamento del piano concreto dell’agente; solo successivamente, e tenuto conto di esso, si potrà passare all’accertamento della univocità della direzione degli atti rispetto a questo: in tal modo, gli atti “non equivoci” verrebbero ad essere quelli che, considerato il programma concreto ideato dall’agente, si collochino come prossimi o contigui alla realizzazione del reato571; quindi, non svolgerebbero la funzione di indicare l’intenzione dell’agente; al contrario, sarebbe la valutazione del programma perseguito dall’agente ad orientare il giudizio sull’univocità degli atti, che risulterebbero effettivamente “diretti in modo univoco” se orientati alla realizzazione di detto piano572. Dunque, in base a ciò, la “direzione non equivoca” degli atti non rivestirebbe la funzione di “prova” dell’orientamento teleologico della volontà, ma diverrebbe un “criterio di essenza”; conseguentemente, nulla osterebbe alla configurabilità del dolo eventuale con riferimento al delitto tentato: se, infatti, l’agente si rappresenta la possibilità che da una propria condotta scaturisca la realizzazione di un fatto di reato, è comunque possibile formulare un giudizio di idoneità oggettiva degli atti rispetto a tale realizzazione, parallelamente alla valutazione della contiguità degli atti stessi rispetto al piano concretamente ideato573.

Del resto, si giunge anche a confutare la tesi inerente la non compatibilità del dolo eventuale con il tentativo in base al rilievo che essa confonderebbe la

568 Le principali teorie in ordine all’interpretazione del requisito dell’univocità degli atti sono due: la “teoria soggettiva”, conformemente alla quale tale requisito costituirebbe un criterio di prova, sicché sarebbe soddisfatto qualora, in sede processuale, fosse raggiunta la prova del proposito criminoso; la “teoria oggettiva” la quale, invece, considera l’univocità come caratteristica oggettiva della condotta, che deve possedere, in sé stessa e considerata nel contesto in cui sia inserita, l’attitudine a rivelare il proposito criminoso. Sull’esposizione di tali teorie si veda G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 465: gli Autori, in particolare, aderiscono alla teoria oggettiva specificando, tuttavia, che, al fine di evitare una eccessiva restrizione della sfera di operatività del tentativo, il fine criminoso possa essere, effettivamente, ricavato anche per altra via e che, una volta conseguita, eventualmente aliunde, la prova di tale fine criminoso, occorrerà valutare se gli atti, considerati nella loro oggettività, risultino sufficientemente congrui ad esso.

569 M. ANGELINI, Dolo eventuale e tentativo: una lunga questione ancora alla ricerca di soluzione, in Cass. pen., 1993, 5, 1108.

570 M. ANGELINI, op. loc. cit.571 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 466: gli Autori definiscono tale impostazione come

“teoria materiale oggettiva individuale”. 572 M. ANGELINI, op. loc. cit. 573 M. ANGELINI, op. loc. cit.

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questione attinente all’elemento soggettivo con quella inerente l’idoneità degli atti: si osserva, nello specifico, che nella maggior parte degli esempi addotti dai sostenitori di tale tesi, gli atti non risultino punibili, in realtà, non già per l’assenza di dolo eventuale, bensì per l’inidoneità degli atti574; emblematico, in tal senso, sarebbe il caso del guidatore che, superando i limiti di velocità, si rappresenti effettivamente la possibilità di provocare esiti lesivi; possibilità, tuttavia, meramente ipotetica, in quanto l’assenza di passanti lungo il percorso rendeva l’azione inadeguata a provocare detti eventi: in siffatta situazione, a ben vedere, si avrebbe una condotta inidonea a provocare l’evento575.

Passando all’analisi dell’orientamento a favore della non compatibilità fra dolo eventuale e tentativo, esso prende le mosse dalla concezione del delitto tentato come fattispecie autonoma rispetto al reato consumato: sicché, il dolo del delitto tentato dovrebbe assumere ad oggetto anche i due requisiti oggettivi prospettati dall’art. 56 c.p., ossia idoneità e direzione non equivoca degli atti alla realizzazione del risultato lesivo576: più precisamente si evidenzia che, essendo il dolo costituito, a livello strutturale, da rappresentazione e volontà, la fattispecie del delitto tentato, autonomamente considerata, dovrebbe richiedere, ai fini della configurabilità del dolo, rappresentazione e volontà dell’idoneità e dell’univocità della direzione degli atti577, oltre che degli elementi descrittivi contenuti nella norma di parte speciale la quale identifichi il reato consumato alla realizzazione del quale tende la condotta dell’agente578. Idoneità ed univocità della direzione degli atti, quindi, sarebbero sì requisiti oggettivi della fattispecie del delitto tentato: tuttavia, essendo tale fattispecie autonoma rispetto al reato consumato, anche essi dovrebbero essere oggetto di rappresentazione e volontà proprie del dolo579. Del resto, la dottrina non ha mancato di evidenziare che la concezione del delitto tentato come autonoma fattispecie sia, in effetti, l’unica soluzione che, ad un’analisi critica, possa apparire soddisfacente, essendo la soluzione opposta, viceversa, frutto di una non condivisibile concezione della condotta oggettiva come svincolata dall’elemento soggettivo: invero dovrebbe trattarsi, al contrario, di elementi (condotta oggettiva ed elemento soggettivo) strettamente connessi580.

Sulla base delle premesse appena delineate, e considerato che il dolo eventuale consista nella rappresentazione della possibilità o probabilità di realizzazione di un evento non direttamente o intenzionalmente voluto, bensì collaterale ed accessorio – non necessario e non condizionante – rispetto al fine intenzionalmente perseguito (senza ripercorrere nel dettaglio tutte le teorie sulla definizione del dolo eventuale, si tratta probabilmente degli unici punti minimi di convergenza a riguardo, con esclusione, ovviamente, delle teorie che rigettano la categoria del dolo eventuale), occorre valutare la compatibilità di tale particolare conformazione dell’elemento psicologico relativamente ai

574 M. ANGELINI, op. cit., 1110. 575 M. ANGELINI, op. loc. cit.576 M. FILIÈ, op. cit., 746 – 747; S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 147. 577 M. FILIÈ, op. cit., 747; S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit.578 R. GUARALDO, Dolo eventuale e delitto tentato: profili di un’incompatibilità, in Cass.

pen., 1985, 8 – 9, 1516.579 R. GUARALDO, op. loc. cit.580 A. M. DE SANTIS, Sulla compatibilità tra dolo eventuale e delitto tentato, in Cass.

pen., 1988, 12, 2068.

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requisiti dell’idoneità e dell’univoca direzione degli atti. Per quanto concerne, in primo luogo, l’“idoneità”, tale elemento non suscita particolari problemi di compatibilità con il dolo eventuale, posto che “idoneità” significhi “adeguatezza” degli atti alla realizzazione del reato: la rappresentazione della possibilità di realizzazione dell’evento non intenzionalmente perseguito può ben essere compatibile con la rappresentazione dell’“idoneità” di essi alla realizzazione di detto evento581; la percezione intellettiva dell’idoneità degli atti, a dire il vero, altro non è che la previsione dell’offesa del corrispondente delitto di parte speciale582; del resto appare, in pratica, impossibile configurare una rappresentazione della possibilità di realizzazione di un risultato lesivo parallelamente alla rappresentazione dell’“inidoneità” degli atti alla realizzazione stessa.

Ciò che, per converso, costituisce un ostacolo insormontabile alla compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato (inteso, quest’ultimo, come fattispecie autonoma) è il requisito della “direzione non equivoca” degli atti alla realizzazione del reato o, meglio, la rappresentazione di essa: infatti, non si vede come possa sussistere la rappresentazione di tale “direzione non equivoca” con riferimento ad atti che l’agente preveda (senza certezza) possano realizzare un evento non direttamente perseguito e non necessario, o non avente efficacia determinante, bensì accessorio, rispetto alla realizzazione del fine intenzionalmente perseguito583. Invero, “direzione non equivoca” degli atti alla realizzazione di un evento lesivo significa “unidirezionalità” degli atti stessi verso tale realizzazione, nel senso che debba trattarsi di atti i quali esprimano in modo certo la loro finalizzazione, ovvero la loro direzione teleologica, alla produzione del risultato antigiuridico: e non si vede come la rappresentazione di un elemento in tal modo configurato possa essere compatibile con la previsione, in termini di possibilità o probabilità (e, comunque, non in termini di certezza), di esiti collaterali, non direttamente perseguiti584.

Nella maggior parte dei casi, la dottrina a sostegno di tale impostazione fa riferimento espresso all’incompatibilità a livello di sola rappresentazione, ma è chiaro che essa comporta, giocoforza, la non configurabilità dell’elemento volitivo: in sostanza si giunge, quindi, ad affermare che vi sarebbe una incompatibilità in re ipsa fra “prevedere e volere” una condotta teleologicamente indirizzata in modo univoco ad un esito lesivo e rappresentazione della realizzazione dello stesso esito lesivo, non intenzionalmente perseguito e collaterale rispetto al fine intenzionalmente perseguito, in termini di possibilità585.

La giurisprudenza a sostegno della incompatibilità fra dolo eventuale e tentativo muove, in sostanza, da rilievi analoghi a quelli appena delineati: così, si afferma che “l’art. 56 c.p. disciplina una figura autonoma di reato con un proprio nucleo soggettivo” e che, quindi, “il dolo, nel caso in esame, altro non è

581 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 149; M. FILIÈ, op. cit., 749 – 750. 582 M. FILIÈ, op. cit., 750.583 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 157 – 158; M. FILIÈ, op. cit., 748; A. M. DE SANTIS, op.

cit., 2069.584 A. M. DE SANTIS, op. loc. cit. 585 R. GUARALDO, op. cit., 1517.

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che coscienza e volontà di porre in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere il delitto: e pertanto chi, tendendo ad altre ‘prospettive’, accetti il rischio del verificarsi d’un certo evento delittuoso, non può rappresentarsi né può volere gli atti come univocamente diretti alla realizzazione di quell’evento”; diversamente ragionando, si ammetterebbe un “tentativo sorretto da atti equivoci” 586 (o, sarebbe meglio dire, da atti “che a livello di rappresentazione siano percepiti nonché, quindi, voluti come equivoci”).

Sulla stessa linea, si afferma che “il tentativo costituisce una figura di reato autonoma rispetto al corrispondente reato consumato ed è, pertanto, inesatto affermare che l’elemento soggettivo di essi è identico”587. Parallelamente all’incompatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato, si afferma che quest’ultimo necessiti della configurabilità del dolo (almeno) diretto: “nel delitto tentato il dolo deve essere diretto, in quanto soltanto da tale specie di elemento psicologico, non realizzandosi alcun evento, è possibile dedurre l’inequivoca direzione degli atti concretizzati dall’agente verso l’evento non realizzatosi per cause indipendenti dal comportamento del reo, così come espressamente voluto dal legislatore con l’espressione ‘diretti in modo non equivoco a commettere un delitto’ ”588; significa, sostanzialmente, che nel delitto tentato, non essendo realizzato alcun evento, il dolo debba essere necessariamente quantomeno diretto, poiché la forma indiretta non permetterebbe di inferire l’inequivoca direzione degli atti alla realizzazione dell’evento, effettivamente non verificatosi589.

Ulteriormente, la giurisprudenza specifica che l’art. 56 “impone al giudice di ricostruire […] quale fosse in concreto la direzione teleologica della volontà dell’agente: e quindi il risultato da lui avuto di mira”: il che significa che “tutti gli altri eventi, in probabile o, peggio, meramente possibile relazione causale con la condotta, ma non voluti” direttamente “dall’agente come conseguenza della

586 Cass. Pen., Sez. I, 23 marzo 1987, in Cass. pen., 1988, 12, 2065 – 2067. Nel caso di specie, i giudici di secondo grado avevano affermato la responsabilità per tentato omicidio, sorretto da dolo eventuale, nei confronti di soggetti che, sorpresi ed inseguiti dalla Polizia dopo una rapina, avevano sparato colpi di arma da fuoco contro gli operatori della forza pubblica.

587 Cass. Pen., Sez. I, 12 novembre 1990, in Cass. pen., 1992, 10, 2343 – 2345.588 Cass. Pen., Sez. I, 17 marzo 1995, in Cass. pen., 1996, 7 – 8, 2190 – 2191. Nel caso

di specie, la Corte accoglieva il ricorso dell’indagato per tentato omicidio avverso la pronuncia del Tribunale che, dietro appello del Procuratore della Repubblica presso lo stesso, disponeva l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Il Tribunale aveva affermato che la condotta posta in essere dall’indagato il quale, alla guida di un veicolo, aveva tamponato l’autovettura della parte offesa, a velocità sostenuta ed in presenza di una ripida scarpata, potesse integrare il tentato omicidio sorretto da dolo eventuale. La Corte nega, invece, la configurabilità del dolo eventuale di tentativo.

589 E. DI SALVO, Forme del dolo e compatibilità tra dolo eventuale e tentativo, in Cass. pen., 1996, 7 – 8, 2192. L’Autore propone, poi, la propria concezione in base alla quale debba essere espunta la concezione del dolo eventuale inteso come rappresentazione della mera possibilità, o bassa probabilità, di realizzazione di un fatto di reato ed accettazione del relativo rischio, sostenendo che il dolo non intenzionale necessiti di una previsione in termini di elevata probabilità, prossima alla certezza: sostiene, quindi, che il dolo eventuale nella configurazione da egli stesso criticata negativamente debba essere incompatibile non solo con il delitto tentato, bensì con qualsiasi reato; mentre sarebbe compatibile con il delitto tentato il dolo non intenzionale caratterizzato dalla previsione di realizzazione del fatto di reato in termini di elevata probabilità o certezza (ivi, 2197 – 2198).

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propria azione od omissione, sono destinati a collocarsi al di fuori della sfera di applicazione della norma che punisce il tentativo”590.

Ancora, talvolta, si evidenzia l’erroneità del richiamo al principio il quale sostiene l’equiparazione, dal punto di vista dell’imputazione alla volontà dell’agente, di tutte le possibili finalità che egli possa realizzare tramite la propria condotta, indipendentemente dalla valutazione dell’univocità della direzione teleologica degli atti: ciò, infatti, si tramuterebbe nella punizione della volontà delittuosa in quanto tale591.

Oltre alle impostazioni sin qui esaminate, ve ne sarebbe anche una terza, di matrice dottrinale, la quale prospetta una presa di posizione caratterizzata da argomentazioni differenti rispetto a quelle tradizionalmente adottate nell’ambito della tematica in questione: da un lato si ammette, in linea di massima, la compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato; dall’altro, tuttavia, si specifica che ciò non debba significare coincidenza fra dolo del reato consumato e dolo del delitto tentato, bensì che il dolo del delitto tentato sia strettamente correlato all’idoneità oggettiva degli atti posti in essere (fermo restando che questi debbano essere volontari)592. Più precisamente, si tratta di una prospettiva che tende a valorizzare la concreta messa in pericolo di beni giuridici. Si muove dalla valutazione di un caso concreto in cui un soggetto, infastidito per gli schiamazzi di alcuni giovani, allo scopo di intimidirli, aveva esploso contro l’edificio antistante alcuni colpi d’arma da fuoco uno dei quali, di rimbalzo, aveva colpito uno dei giovani, provocandone la morte: l’imputato veniva condannato per omicidio sorretto da dolo eventuale; d’altra parte, mentre i giudici di merito avevano configurato, altresì, la responsabilità dell’imputato stesso per tentato omicidio nei confronti degli altri giovani rimasti illesi, i giudici di legittimità modificavano tale statuizione, affermando la non compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato593. Da parte della dottrina che si è occupata del caso di specie, tuttavia, viene posto l’accento sul fatto che proprio la circostanza della effettiva verificazione dell’uccisione di uno dei giovani dovrebbe rendere incontestabile la valutazione della sussistenza di una concreta messa in pericolo per beni giuridici (in questo caso, il bene “vita”), attraverso la realizzazione di atti “idonei” e “diretti in modo non equivoco” alla produzione dell’evento lesivo: viene, dunque, valutata la sussistenza di una condotta che oltrepasserebbe la soglia della punibilità e che, quindi, dovrebbe essere sanzionata anche a titolo di dolo eventuale594. Tale valorizzazione della concreta messa in pericolo di beni giuridici induce, altresì, a ritenere che, nell’ottica di un accoglimento di essa, sarebbero opportune differenziazioni di

590 Cass. Pen., Sez. I, 8 aprile 1991, in Cass. pen., 1993, 5, 1104 – 1105. Nel caso di specie l’imputato, nel corso di un diverbio, aveva reagito ad uno schiaffo sferrando alla vittima una coltellata che era passata presso il rene, l’aorta, l’uretere e la colonna vertebrale. Secondo i giudici di legittimità, non era possibile formulare, alla luce degli elementi considerati, un giudizio di idoneità ed univocità della direzione teleologica dell’azione ad uccidere.

591 Cass. Pen., Sez. I, 8 aprile 1991, in Cass. pen., 1993, 5, 1104 – 1105; Cass. Pen., Sez. I, 19 febbraio 1990, n. 1263, in Cass. pen., 1992, 10, 2345.

592 L. DE MATTEIS, op. cit., 996. 593 La sentenza di legittimità a cui si fa riferimento è Cass. Pen., Sez. I, 8 novembre 1995,

in Cass. pen., 1997, 4, 991. Il caso specifico è descritto ed analizzato da L. DE MATTEIS, op. cit., 993 – 995.

594 L. DE MATTEIS, op. cit., 995.

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valutazione fra tentativi “perfetti” e tentativi “imperfetti”, dato che questi ultimi configurano un pericolo meno concreto595.

Volendo trarre conclusioni con riguardo alle varie impostazioni qui esposte, appare maggiormente condivisibile l’orientamento il quale nega la compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato; in effetti, non si vede per quale motivo l’art. 56 non dovrebbe costituire una fattispecie autonoma; nondimeno, posto che, in linea generale, l’oggetto del dolo debba riguardare tutti gli elementi rilevanti del fatto tipico, non si comprende in base a quale fondamento dovrebbe configurarsi un’eccezione per l’elemento dell’“univoca direzione degli atti”, richiesto dal legislatore all’interno della norma che definisce il delitto tentato. Una volta accolta la concezione del tentativo come fattispecie autonoma, è incontestabile la considerazione per cui la rappresentazione dell’univoca direzione teleologica degli atti verso la realizzazione dell’evento lesivo sia inconciliabile con la rappresentazione della sola possibilità (e non della certezza) di realizzazione dell’evento lesivo stesso, che non sia intenzionalmente perseguito e che sia collaterale (e non necessario o condizionante) rispetto alla realizzazione del fine intenzionalmente perseguito. Deve concordarsi, inoltre, con i rilievi mossi da quella parte di dottrina che evidenzia il permanere dell’incompatibilità fra dolo eventuale ed univocità anche qualora quest’ultima sia intesa in senso meramente oggettivo: infatti, il concetto stesso di tentativo è rivelatore di una tendenza verso uno scopo, la quale non può consistere in un elemento volitivo diverso dalla volontà diretta (o intenzionale)596.

L’assetto in questione, come si è già precisato, può fondatamente dirsi essere, allo stato attuale, quello dominante in giurisprudenza: anche nell’ultimo biennio, tra l’altro, i giudici di legittimità hanno confermato che “è pacifico, in giurisprudenza, che l’ipotesi del tentativo richiede il dolo diretto, nella forma, al più, di dolo alternativo” mentre “non è configurabile, invece, ove ricorra il dolo eventuale”597 (con riferimento ad un caso concreto in cui l’imputato, a bordo di un veicolo rubato e inseguito dai Carabinieri in una strada senza uscita, aveva proceduto in retromarcia, urtando l’auto della forza pubblica, mentre il maresciallo che aveva preso parte all’inseguimento era sceso dal mezzo, collocandosi alle spalle del veicolo rubato).

2. Dolo eventuale e fattispecie con dolo specifico

Il dolo specifico consiste in uno scopo che, ai fini della configurabilità del reato e per espressa previsione da parte della norma incriminatrice, deve essere preso di mira non essendo, tuttavia, necessario che esso venga effettivamente realizzato. Uno degli esempi tradizionalmente addotti ai fini della comprensione del concetto di dolo specifico è dato dal reato di furto, per la rilevanza del quale è necessario che l’agente realizzi la condotta perseguendo il

595 L. DE MATTEIS, op. cit., 995 – 996.596 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 468 – 469. 597 Cass. Pen., Sez. I, 31 marzo 2010, n. 25114, in Cass. pen., 2011, 6, 2245.

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fine di trarne profitto, non essendo invece necessario che il profitto, effettivamente, si realizzi598.

Talvolta, il dolo specifico qualifica come reato una determinata condotta che, in mancanza del perseguimento dello scopo indicato, appunto, dal dolo specifico, non assumerebbe rilevanza penale (si pensi, ad esempio, alle associazioni con fine illecito); altre volte, invece, il dolo specifico si inserisce nell’ambito di una condotta che, altrimenti, sarebbe comunque penalmente illecita ad altro titolo: nel qual caso, esso comporta un mutamento del titolo del reato (può farsi riferimento, ad esempio, al sequestro di persona che, a seconda della finalità perseguita dall’agente, può delinearsi come sequestro con finalità di terrorismo o eversione, ovvero sequestro a scopo di estorsione)599.

Parte della dottrina, peraltro, non ha mancato di rilevare che sarebbe possibile individuare un’ampia categoria, comprendente reati a dolo specifico, tentativo e reati di attentato, caratterizzata dal dato comune consistente nella tipizzazione, da parte del legislatore, di elementi di cui non è richiesta, ai fini dell’integrazione del reato, l’effettiva e completa realizzazione600.

Poste tali premesse generali sul concetto di dolo specifico, occorre passare all’analisi inerente i potenziali rapporti fra dolo specifico e dolo eventuale. A tali fini, è indispensabile prendere le mosse da alcune considerazioni di fondo: anzitutto, va preso atto che il dolo specifico non si sostituisce al dolo generico, ma si aggiunge ad esso601; nondimeno, si tratta effettivamente di un elemento soggettivo sfornito di un corrispondente dato sul piano oggettivo, essendo irrilevante la realizzazione dello scopo al quale si riferisce il dolo specifico stesso, tanto che si evidenzia come parte della dottrina ne abbia posto in discussione la natura di vero e proprio dolo602; infine, va considerato il carattere intenzionale insito nel dolo specifico603, sicché lo scopo che esso inquadra dovrà essere perseguito, tendenzialmente, in modo intenzionale, e non sarà sufficiente, ad integrarlo, il dolo eventuale.

A partire dai rilievi suddetti, si potrebbe essere indotti ad escludere la compatibilità fra dolo eventuale e fattispecie con dolo specifico604: in realtà, tale conclusione non appare soddisfacente, in quanto un conto è sostenere che il dolo specifico, in sé stesso considerato, non possa assumere la forma del dolo eventuale; altro, invece, è sostenere che l’intera fattispecie caratterizzata da dolo specifico non possa essere sorretta da dolo eventuale. In altri termini, posto che il dolo specifico configuri un obiettivo finale che debba essere perseguito tramite la realizzazione di un fatto – base605, affermare che detto

598 Cfr. G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 365, tanto per la spiegazione del concetto di “dolo specifico”, quanto per l’esemplificazione tramite il riferimento al delitto di furto.

599 Cfr. G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 366.600 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 169. L’Autore, tra l’altro, sostiene che anche nell’ambito

dei reati di attentato, alla stregua di quanto necessario per il tentativo, la direzione degli atti verso il risultato finale debba essere presente sia con riguardo al finalismo oggettivo sia con riguardo al finalismo soggettivo dell’agente.

601 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 173.602 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 170.603 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 172.604 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 172 – 173.605 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 173.

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obiettivo debba essere perseguito intenzionalmente non significa, necessariamente, negare che il fatto – base possa essere realizzato con dolo eventuale.

D’altra parte, non risulta esaustiva neppure la conclusione opposta: infatti, sostenere che il dolo eventuale possa sempre configurarsi nell’ambito delle fattispecie a dolo specifico, stante il fatto che il dolo specifico non sostituisce il dolo generico ma si aggiunge ad esso, significa non tenere conto del rapporto di connessione fra fatto – base ed obiettivo finale perseguito606.

La conclusione che appare più soddisfacente, in quanto deriva effettivamente da un’indagine analitica di tutti gli aspetti che caratterizzano le fattispecie a dolo specifico, sembra essere la seguente: posto che, come si è detto, la fattispecie a dolo specifico si caratterizza per un “fatto – base”, il quale assume rilevanza penale in quanto avente valore “strumentale” per la realizzazione di un obiettivo finale intenzionalmente perseguito (ma la cui realizzazione è irrilevante), il dolo eventuale non potrà caratterizzare la fattispecie a dolo specifico qualora il fatto – base sia nella sua totalità strumentale alla realizzazione dell’obiettivo finale che costituisce il dolo specifico stesso; viceversa, qualora il fatto – base non sia strumentale nella sua integrità alla realizzazione dell’obiettivo finale, potrà configurarsi dolo eventuale per la fattispecie, purché esso ricada, ovviamente, su elementi del fatto – base i quali non costituiscano un requisito necessario per la realizzazione dell’obiettivo finale perseguito607. Emblematico, in tal senso, risulta ancora il richiamo al delitto di furto: in tal caso, posto che il dolo specifico è dato dal fine di conseguire profitto, la componente dell’altruità della cosa non costituisce un elemento necessario a detto fine, per cui si ha uno spazio di configurabilità del dolo eventuale. Al contrario, il dolo eventuale non sarà configurabile, ad esempio, con riguardo alla fattispecie di frode processuale, ove la realizzazione della condotta consistente nell’alterazione di luoghi, persone o cose è interamente correlata al fine di trarre in inganno il giudice608.

Occorre poi rilevare che, in taluni casi, si abbia un dolo specifico meramente “apparente”. Non sempre, infatti, l’utilizzo di clausole quali “allo scopo di” o affini indica necessariamente un dolo specifico: talvolta può accadere che tali clausole, pur contribuendo ad una selezione descrittiva della condotta penalmente rilevante, in effetti identifichino uno scopo che viene a coincidere con la realizzazione della fattispecie stessa. Un esempio significativo in tal senso è dato dal reato di bancarotta preferenziale, ove lo scopo di favorire taluno dei creditori dovrebbe realizzarsi in modo contestuale rispetto alla condotta609.

Passando all’analisi del versante giurisprudenziale, si rilevano in larga misura pronunce che affermano l’incompatibilità fra dolo eventuale e dolo specifico: ciò è evidente, ad esempio, in tema di reati sessuali, con particolare riguardo al delitto di corruzione di minorenne, in relazione al quale si afferma che il dolo specifico, consistente nel perseguimento del fine di far assistere il minore agli atti sessuali compiuti, rende incompatibile, con tale fattispecie, il

606 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit.607 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 174. 608 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 174 – 175.609 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 175.

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dolo eventuale610. Analoghe conclusioni sono state tratte con riguardo al reato di devastazione, saccheggio e strage, in forza del rilievo che esso richieda un duplice dolo specifico: finalità di arrecare un pregiudizio alla sicurezza interna della collettività ed aggredire l’incolumità dei consociati o del loro patrimonio611. Sulla stessa linea, con riferimento al reato di strage (art. 422 c.p.), si è ritenuto che il fine di uccidere configuri un dolo specifico, incompatibile con il dolo eventuale612. Ancora, l’incompatibilità fra dolo eventuale e fattispecie con dolo specifico è stata affermata relativamente ai reati associativi di cui agli artt. 416 e 416 – bis c.p., ove il dolo specifico consisterebbe nel perseguimento della realizzazione di delitti, ovvero, nel caso dell’art. 416 – bis, degli ulteriori scopi indicati dal comma 3 di tale norma613.

Tuttavia, non si può fare a meno di notare che si tratti, nella maggior parte dei casi appena citati, non già di negazione della configurabilità del dolo eventuale con riguardo al fatto – base, bensì di negazione di tale configurabilità con riguardo allo scopo che deve essere perseguito affinché risulti integrato il dolo specifico: in sostanza, ciò che si nega è che il dolo specifico possa essere eventuale. Ad esempio, con riguardo al delitto di strage, si afferma che il “fine di uccidere” non possa essere “degradato” a dolo eventuale, sicché non sarebbe sufficiente ad integrare il delitto in questione il fatto che l’agente, avendo previsto la possibilità di uccidere, avesse agito “a costo di determinare” tale evento614. Tutto ciò sembra confermare l’impostazione dottrinale alla quale si è aderito, a sostegno del fatto che la questione sulla compatibilità o meno del dolo eventuale con le fattispecie a dolo specifico non possa essere risolta in modo univoco a priori, ma debba tenere conto, caso per caso, dell’interconnessione tra fatto – base e realizzazione dell’obiettivo identificato dal dolo specifico.

3. Dolo eventuale e concorso di persone

Affrontare la tematica relativa al dolo eventuale in rapporto al concorso di persone significa, principalmente, fare riferimento all’individuazione della soglia di elemento soggettivo la quale segni il passaggio dalla fattispecie di “concorso anomalo” di cui all’art. 116 c.p. alla fattispecie di cui all’art. 110: questo è, infatti, l’aspetto più trattato e discusso in giurisprudenza, nonché maggiormente connesso propriamente a quella forma di imputazione soggettiva che è il dolo eventuale. Tuttavia, l’argomento non può esaurirsi solamente in questi termini,

610 Trib. La Spezia, 22 aprile 2010, n. 435, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. III, 12 marzo 2008, n. 15633, in dejure.giuffre.it, relativamente ad un caso in cui erano stati compiuti, da parte dell’imputato, atti masturbatori alla presenza di due minori, uno dei quali dormiva, mentre l’altro fingeva di dormire: circostanza, quest’ultima, ignota all’imputato. I giudici della Corte affermano che l’accettazione del rischio che uno dei due minori potesse svegliarsi non rileverebbe nell’ambito della fattispecie in questione, la quale sarebbe incompatibile con il dolo eventuale.

611 Cass. Pen., Sez. II, 6 giugno 2007, n. 25436, in Cass. pen., 2008, 5, 1910. 612 Cass. Pen., Sez. I, 13 novembre 1991, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. I, 29

gennaio 1990, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., 5 luglio 1988, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. I, 18 dicembre 1987, in dejure.giuffre.it

613 Cass. Pen., Sez. I, 14 ottobre 1994, in dejure.giuffre.it614 In tal senso, tra le altre, Cass. Pen., Sez. I, 5 luglio 1988, in dejure.giuffre.it

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dato che le ipotesi di compartecipazione criminosa costituiscono un peculiare “banco di prova” per l’analisi dei problemi attinenti alla dogmatica penale (e, per quel che interessa in questa sede, attinenti all’elemento soggettivo) generalmente proposti con riferimento a fattispecie monosoggettive615.

Gli aspetti che meritano di essere analizzati sono, in sintesi, i seguenti: in primo luogo, il rapporto fra elemento soggettivo della compartecipazione ed elemento soggettivo del reato realizzato; in secondo luogo, l’ammissibilità o meno di concorso fra condotte dolose e condotte colpose; altresì, possono risultare interessanti alcune considerazioni effettuate da parte della dottrina circa l’elemento soggettivo dell’“istigatore”; infine, occorrerà esaminare l’art. 116 c.p., alla luce dell’evoluzione interpretativa che lo ha caratterizzato, per poi indagare quale debba essere, dal punto di vista soggettivo, il discrimine fra art. 116 ed art. 110 c.p.

Relativamente al rapporto fra elemento soggettivo della compartecipazione ed elemento soggettivo del reato realizzato, sono rilevabili posizioni contrapposte. La prima di esse sostiene, fondamentalmente, la “fusione”616 fra elemento soggettivo del concorso di persone ed elemento soggettivo del reato realizzato617. Una delle conseguenze connesse all’accoglimento di tale impostazione sarebbe la non ammissibilità di forme di colpevolezza diverse fra i vari concorrenti618: dovrebbe negarsi, quindi, la configurabilità di concorso doloso a reato colposo, nonché di concorso colposo a reato doloso. A supporto della prima conclusione (inammissibilità di concorso doloso a reato colposo) si adducono, generalmente, due ordini di argomentazione: in primo luogo, si rileva che l’espressione “medesimo reato”, utilizzata dall’art. 110, sembrerebbe deporre a favore di una concezione unitaria della compartecipazione criminosa, compreso il coefficiente di colpevolezza; in secondo luogo, si sostiene che il legislatore, laddove avrebbe inteso ammettere la responsabilità dei concorrenti per titoli diversi di colpevolezza, lo avrebbe fatto espressamente (un esempio potrebbe essere dato dall’art. 116)619. Quanto alla impossibilità di inquadrare concorso colposo a reato doloso, tale tesi è supportata mediante il rilievo della necessità di una previsione legislativa espressa per la responsabilità colposa, nonché delle previsioni, anch’esse espresse, di particolari ipotesi tassative di agevolazione colposa, che parrebbero rafforzare la prima considerazione delineata; inoltre, si osserva

615 Queste le osservazioni di S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 187.616 Il termine “fusione” è utilizzato da S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 190.617 In tal senso, tra gli altri, M. GALLO, voce Dolo, 796 ss.; ID., Lineamenti di una teoria

sul concorso di persone nel reato, Milano, Giuffrè, 1957, 98 ss. (l’Autore rileva che il richiedere la rappresentazione, da parte dell’agente, dell’apporto dato all’altrui condotta non significherebbe una differenziazione sostanziale rispetto all’ordinario concetto di dolo, essendo applicazione alla fattispecie del concorso del criterio generale per cui oggetto di volontà dolosa debba essere il fatto tipico); L. STORTONI, Agevolazione e concorso di persone nel reato, Padova, Cedam, 1981, 38.

618 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 189 – 190.619 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 506 – 507. Viene riportato l’esempio di Tizio che,

consapevolmente e volontariamente, induca Caio, il quale versi in errore inescusabile (e, quindi, colposo) sul carattere tossico di una sostanza, a versarla in acque destinate all’alimentazione.

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come non potrebbe essere, in ogni caso, considerato colposo il comportamento di chi, semplicemente, si limiti a fornire ad altri l’occasione di delinquere620.

La seconda impostazione teorica inerente l’elemento soggettivo del concorso di persone è quella per la quale ogni forma di compartecipazione (e, quindi, anche quella colposa, prevista dall’art. 113 c.p.) richieda la rappresentazione dell’agire altrui in cooperazione con il proprio o, dal punto di vista inverso, del fatto che la propria condotta cooperi con quella altrui: occorrono, quindi, coscienza e volontà della propria condotta in quanto destinata a cooperare con la condotta altrui; il che implica, necessariamente, anche la coscienza della condotta altrui, posto che non sia possibile avere coscienza e volontà del carattere concorsuale della propria condotta rispetto a quella altrui, qualora si ignori la condotta altrui621. A tale conclusione si giunge, tra l’altro, attraverso un’analisi dell’istituto della cooperazione colposa, la quale conduce a concepire le ipotesi di cui, rispettivamente, agli artt. 110 e 113 come riconducibili ad un’unica area di “compartecipazione criminosa” caratterizzata, in tutte le sue forme, da un comune denominatore, consistente nella coscienza e volontà del fatto che la propria condotta concorra con quella altrui: in particolare, prendendo le mosse dalla contrapposizione fra impostazioni teoriche a sostegno della sufficienza, ai fini della cooperazione colposa, della consapevolezza del fatto di concorrere all’altrui condotta ed impostazioni che, in senso più restrittivo, ritengono altresì necessaria la conoscenza del carattere colposo dell’altrui condotta alla quale si cooperi, si opta per la prima tesi, evidenziando che l’accoglimento della seconda condurrebbe a modellare i requisiti strutturali del concorso sulla base dei requisiti del reato realizzato622. Si conclude, quindi, in favore di una concezione della cooperazione colposa come autentica forma di compartecipazione criminosa, parallelamente al concorso doloso: in entrambi i casi, l’elemento soggettivo della compartecipazione dovrebbe essere tenuto distinto rispetto all’elemento soggettivo del reato realizzato, e dovrebbe consistere nella coscienza e volontà del concorso tra il proprio agire e quello altrui. Un assetto di questo genere vede il proprio fondamento anche nell’art. 42 c.p., il quale richiede, ai fini della punibilità in generale, che la condotta sia compiuta con coscienza e volontà: il che dovrebbe postulare la consapevolezza non solo dell’agire fisico, in sé e per sé considerato, ma anche del significato assunto da tale agire nel contesto in cui esso sia posto in essere623; del resto, non dovrebbe essere elemento essenziale della struttura del concorso l’atteggiamento dell’agente rispetto ad elementi del fatto di reato diversi dalla condotta624; e, di conseguenza, dovrebbe essere prospettabile una condotta concorsuale dolosa in fatto colposo o, viceversa, una condotta concorsuale colposa in fatto doloso625.

Quest’ultima impostazione di cui si è trattato giunge a sostenere, peraltro, che la “consapevolezza” del concorso fra la propria e l’altrui condotta possa

620 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 507 – 508. 621 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 193 – 194, 196. 622 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 190 – 192.623 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 195 – 196.624 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 193. 625 M. RONCO – S. ARDIZZONE, a cura di, Codice penale ipertestuale: commentario con

banca dati di giurisprudenza e legislazione, II edizione, UTET, Torino, 2007, 654.

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manifestarsi anche in forma dubitativa, qualora il soggetto si rappresenti il convergere del proprio agire con quello altrui anche solo in termini di possibilità o probabilità626: il che sembrerebbe, dunque, ammettere che l’elemento soggettivo proprio del concorso possa assumere una fisionomia assimilabile a quella del dolo eventuale, nonostante la parte di dottrina di cui trattasi concluda, effettivamente, per l’affermazione in base alla quale l’elemento soggettivo della compartecipazione in generale, sia essa relativa a reato doloso o a reato colposo, non consista tanto in dolo o colpa, quanto nella suitas della condotta627.

Per quanto concerne, quindi, la tematica strettamente inerente il dolo eventuale in rapporto al concorso di persone, possono essere tratte valide conclusioni attraverso l’applicazione della teoria per cui tale forma di imputazione soggettiva sia rinvenibile in una deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro, attraverso la quale venga accettata la lesione del bene giuridico subordinato quale evento collaterale rispetto al perseguimento di un fine intenzionale; in particolare, prendendo le mosse da tale assetto, occorrerebbe stabilire quale debba considerarsi come fine rilevante: se quello che caratterizza il piano comune, ovvero quello potenzialmente diverso e previsto dal singolo concorrente. Orbene, la parte di dottrina che sostiene l’impostazione teorica qui richiamata conclude che, mentre con riferimento al soggetto che agisca perseguendo un proprio interesse, il quale coincida con lo scopo comune della compartecipazione, la suddetta alternativa non si ponga (in quanto lo scopo della cooperazione coinciderebbe effettivamente con lo scopo personale), con riguardo al soggetto che non possegga detti requisiti occorrerà valutare, invece, se, posto l’affiancarsi di uno scopo personale al fine che anima la cooperazione, il fine che abbia ispirato la sua condotta consista in un fine proprio ed individuale, ovvero se egli abbia reso proprio un fine originariamente altrui628; a tali scopi, occorrerà tenere conto delle valutazioni e deliberazioni effettuate dal singolo concorrente in modo individuale629.

Se, fermo restando quanto si è fin qui delineato, il concorso materiale non dovrebbe suscitare ulteriori particolari problemi, alcune precisazioni possono rendersi necessarie per quanto attiene al concorso morale e, in particolare, all’istigazione: alcuni Autori hanno, infatti, evidenziato che tale forma concorsuale sia dotata di una propria autonomia, essendo espressamente richiamata e disciplinata dall’art. 115 c.p. (ma si ammette, comunque, la parificazione di fondo fra istigazione e concorso materiale)630. Sulla base di tali rilievi, non viene condivisa la posizione per la quale l’istigazione sarebbe inquadrabile anche se sorretta solamente da dolo eventuale: invero, si evidenzia come il concetto stesso di istigazione, tra l’altro, dovrebbe possedere ed esprimere una particolare pregnanza, che sarebbe incompatibile con il dolo eventuale631; quantomeno, sarebbe necessaria una forma diretta di volontà con riferimento alla condotta del soggetto istigato; il dolo eventuale sarebbe, invece,

626 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 196. 627 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 199.628 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 210 – 211. 629 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 210.630 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 212.

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ammissibile con riguardo alle conseguenze di tale condotta632. Il tutto presupponendo il riferimento a casi in cui l’istigazione non determini un illecito penale a sé stante: qualora essa, al contrario, costituisca reato in sé e per sé, non dovrebbe essere ammessa la forma del dolo eventuale in considerazione, ancora una volta, della particolare pregnanza del concetto di istigazione633.

A questo punto, è possibile passare all’analisi del nucleo probabilmente più significativo nell’ambito delle questioni inerenti il dolo eventuale con riferimento al concorso di persone: si tratta, come si è accennato, dell’argomento relativo all’art. 116 c.p., il quale disciplina le ipotesi c.d. di “concorso anomalo”, richiamando i casi in cui venga realizzato un reato diverso rispetto a quello voluto da taluno dei concorrenti. Più precisamente, la norma prevede che “qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione o omissione”634.

Originariamente, l’art. 116 rappresentava una ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto era interpretato nel senso che, ai fini della responsabilità (per il reato effettivamente realizzato e a titolo di concorso) del concorrente che avesse voluto il reato diverso rispetto a quello effettivamente realizzato, fosse sufficiente il solo nesso di causalità materiale, a prescindere dall’atteggiamento psicologico di detto concorrente rispetto alla fattispecie penale concretamente prodotta635. Attualmente invece, alla luce di una importante pronuncia della Corte costituzionale636, la responsabilità del concorrente che volle un reato diverso rispetto a quello effettivamente realizzato necessiterebbe, oltre che di un requisito di “causalità materiale”, anche di un requisito definito come “causalità psichica”.

L’espressione “causalità psichica” dovrebbe indicare, sostanzialmente, una “prevedibilità” della realizzazione del reato diverso. Tuttavia, sono rilevabili differenti interpretazioni giurisprudenziali di tale concetto: una prima di esse sostiene che debba trattarsi di “prevedibilità in astratto”, tenuto conto degli sviluppi che potrebbero generarsi in linea meramente logica; mentre una seconda impostazione sostiene che sarebbe necessaria, invece, una “prevedibilità in concreto”, tenuto conto di tutte le circostanze, appunto, della vicenda concreta; a queste, se ne aggiunge una terza, la quale ritiene necessaria addirittura l’effettiva previsione e, quindi, la rappresentazione del fatto diverso concretamente realizzato637.

631 S. PROSDOCIMI, op. loc. ult. cit. L’Autore, poi (ivi, 214 – 215), evidenzia che l’istigazione parrebbe caratterizzata, addirittura, da tre momenti, ciascuno dei quali dovrebbe delinearsi a livello di rappresentazione: il radicamento o rafforzamento, nell’animo dell’istigato, della determinazione ad agire; l’esecuzione da parte dell’istigato; il risultato della condotta posta in essere dall’istigato.

632 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 216.633 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 217.634 La differenza sostanziale fra concorso anomalo ed aberratio delicti sta nel fatto che,

nel caso del concorso anomalo, l’evento diverso deve essere “voluto” da taluno dei concorrenti mentre, nel caso dell’aberratio delicti, l’evento diverso che si realizzi deve essere il risultato di un errore nell’esecuzione del reato. In tal senso, G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 514.

635 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 514.636 Corte cost., 13 maggio 1965, n. 42, in Riv. pen., 1965, 2, 598.637 E. DI SALVO, Dolo eventuale e concorso anomalo, in Cass. pen., 2003, 1, 125.

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Per quanto concerne il criterio che pone l’accento sulla “prevedibilità in astratto”, esso è stato oggetto di applicazione giurisprudenziale da parte di pronunce di legittimità che, ad esempio, hanno considerato la rapina come (astrattamente) prevedibile sviluppo del c.d. “scippo”638, ovvero l’omicidio del sequestrato come conseguenza prevedibile del sequestro di persona a scopo di estorsione639. In dottrina, tuttavia, si è evidenziato che l’adozione di tale criterio possa condurre a conclusioni non congrue, posto che un evento astrattamente imprevedibile possa essere, alla luce delle circostanze concrete, effettivamente prevedibile: sicché si potrebbe giungere ad escludere la responsabilità ex art. 116 laddove l’evento fosse astrattamente (tenuto conto dei generali e teorici sviluppi logici) non prevedibile, ma prevedibile in concreto640.

Relativamente al criterio della “prevedibilità in concreto”, d’altro canto, il giudizio di prevedibilità verrebbe effettuato tenuto conto di tutte le circostanze caratteristiche del caso concreto, nonché in base al parametro dell’homo eiusdem conditionis et professionis641: sicché, tale giudizio diverrebbe del tutto analogo a quello relativo alla valutazione della “prevedibilità” ai fini della responsabilità colposa, e la struttura della responsabilità ai sensi dell’art. 116 c.p. diverrebbe, sostanzialmente, coincidente con le caratteristiche essenziali dell’agire colposo (assenza di volontà del fatto realizzato, prevedibilità dell’evento in base al parametro dell’homo eiusdem conditionis et professionis e inosservanza di regole precauzionali di condotta che, in tal caso, si sostanzierebbe anche nell’affidarsi alla condotta altrui, la quale non può essere controllata)642. Al contrario, qualora la realizzazione del reato non voluto sia totalmente atipica, dovuta a circostanze eccezionali, dovrebbe escludersi la responsabilità ai sensi dell’art. 116: si evidenzia che, invero, verrebbe meno, in tal caso, ancor prima che il rapporto di “causalità psichica”, quello di “causalità materiale”643. Nondimeno, ulteriore corollario delle considerazioni elencate consiste nella concezione del dolo eventuale come soglia che dovrebbe comportare il passaggio dalla sfera di applicazione dell’art. 116 a quella di applicazione dell’art. 110: infatti, l’effettiva previsione della realizzazione del reato diverso, nonché l’accettazione del rischio di tale realizzazione, non sarebbero più compatibili con i soli requisiti strutturali della colpa. Di conseguenza, due sarebbero i limiti dell’ambito di applicazione dell’art. 116: da un lato, la sussistenza delle connotazioni strutturali della responsabilità colposa; dall’altro, la soglia del dolo eventuale, la quale segna il discrimine fra art. 116 ed art. 110644. In forza di dette osservazioni, la responsabilità di cui all’art. 116

638 Cass. Pen., Sez. VI, 3 settembre 1986, in C.E.D. Cass., n. 175366.639 Così evidenzia E. DI SALVO, op. ult. cit., 125. 640 E. DI SALVO, op. loc. ult. cit. L’Autore adduce l’esempio della comparazione tra reato

di furto e violenza sessuale: astrattamente, il reato di violenza sessuale non dovrebbe essere conseguenza logicamente prevedibile del reato di furto; tuttavia, in concreto, la prevedibilità potrebbe ben sussistere laddove il concorrente sia a conoscenza che all’interno dell’immobile, il quale dovrebbe essere il luogo del furto, sia presente una ragazza, e che l’ulteriore concorrente si fosse precedentemente reso responsabile di atti di violenza sessuale.

641 E. DI SALVO, op. ult. cit., 125 – 126. 642 E. DI SALVO, op. ult. cit., 126. 643 E. DI SALVO, op. loc. ult. cit.644 In tal senso, Cass. Pen., Sez. I, 20 novembre 2000, n. 4399, in Cass. pen., 2001, 12,

3400.

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diviene responsabilità per colpa: il dolo eventuale comporta il passaggio alla sfera di applicazione dell’art. 110, mentre l’assenza di “prevedibilità” in base al parametro dell’homo eiusdem conditionis et professionis renderebbe atipico, eccezionale ed imprevedibile l’evento, facendo venire meno addirittura il nesso di causalità materiale.

Può fondatamente definirsi dominante la giurisprudenza che avvalla tale assetto. Così sì è affermato, in tempi recenti e con termini molto chiari, che “ il concorso anomalo di cui all’art. 116 c.p. postula pur sempre una contrapposizione psichica alla realizzazione dell’evento da parte del concorrente che ha voluto il reato meno grave, essendo pur sempre richiesto che l’evento diverso sia prevedibile, in quanto logico sviluppo di quello concordato, sì da restare escluso se il reato diverso consiste in un evento atipico, del tutto eccezionale ed imprevedibile”645. Del resto, è il caso di fare riferimento a pronunce meno recenti che, tuttavia, hanno definito la questione in maniera molto precisa, attraverso considerazioni che evidenziano la logicità delle conclusioni tratte anche con riguardo al piano del trattamento sanzionatorio; in particolare, si è affermato che “tra la concreta prevedibilità […] e la concreta previsione dell’evento più grave con correlativa accettazione del rischio del suo verificarsi […] passa un displuvio tra concorso anomalo e concorso puro. Uno iato, d’altra parte, che agevolmente si spiega giacché, ove così non fosse, si realizzerebbe una inammissibile disparità di trattamento a seconda che l’evento più grave sia attribuito a titolo di dolo eventuale in una fattispecie monosoggettiva (con responsabilità piena e trattamento sanzionatorio ordinario) ovvero in una fattispecie concorsuale (per la quale opererebbe, appunto, la più favorevole disciplina del concorso anomalo)”646.

La ricostruzione a sostegno della correlazione fra concorso anomalo e “prevedibilità in concreto” è accolta anche in dottrina, laddove si evidenzia che la colpa costituisca, al contempo, il coefficiente minimo e massimo che l’art. 116 possa “sopportare”, mentre qualsiasi forma di “volizione”, seppur anche nella graduazione “eventuale”, dovrebbe comportare l’inapplicabilità dell’art. 116 e, parallelamente, l’applicabilità dell’art. 110647.

Con riguardo alle fattispecie specifiche, uno degli ambiti principali nei quali si tende a ravvisare la prevedibilità in concreto del reato diverso è quello relativo ai casi in cui il reato voluto da tutti i concorrenti sia la rapina a mano armata, mentre il reato effettivamente realizzato (di norma, in questi casi, in aggiunta rispetto al reato di rapina) e diverso sia l’omicidio648.

645 Cass. Pen., Sez. I, 19 novembre 2009, n. 283, in dejure.giuffre.it; in senso analogo, Cass. Pen., Sez. II, 10 novembre 2006, n. 40156, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. V, 25 ottobre 2006, n. 10995, in dejure.giuffre.it.

646 Cass. Pen., Sez. I, 25 giugno 1999, n. 10795, in dejure.giuffre.it; si richiamano anche Cass. Pen., Sez. I, 14 marzo 1996, n. 5188, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. I, 10 aprile 1996, n. 4894, in dejure.giuffre.it.

647 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 221 – 222.648 Cass. Pen., Sez. I, 20 novembre 2000, n. 4399, in Cass. pen., 2001, 12, 3400. Nel

caso di specie, a fronte dell’ipotesi di omicidio commesso durante una rapina con uso di armi, i giudici di legittimità hanno sostenuto l’applicazione dell’art. 110, in luogo dell’art. 116, in considerazione della prevedibilità della realizzazione dell’omicidio, a sua volta ricavata alla luce di circostanze concrete ed univoche, quali la consapevolezza, da parte degli imputati, che le armi avessero il colpo in canna e che, la sera precedente, l’autore dell’omicidio avesse commesso altra rapina con le medesime modalità e con reazione armata della vittima. Si

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In sintesi, dunque, è possibile trarre conclusioni sul criterio della “prevedibilità in concreto” tramite uno schema tripartito, determinato da “atipicità/imprevedibilità/eccezionalità” del reato diverso, “prevedibilità in concreto” ed “effettiva previsione” (con conseguente accettazione del relativo rischio): la prima componente di tale tripartizione dovrebbe comportare, ancor prima che la mancanza del nesso di causalità psichica, l’assenza del nesso di causalità materiale649, per cui dovrebbe addirittura escludersi la rilevanza penale della fattispecie realizzata; la seconda dovrebbe comportare la configurazione di un elemento psicologico strutturalmente analogo alla colpa, con possibilità di inquadramento all’interno della sfera delineata dall’art. 116; la terza, infine, dovrebbe indicare il dolo eventuale, con conseguente applicazione non già della fattispecie del concorso anomalo, bensì del concorso “puro” di cui all’art. 110. In altri termini, la responsabilità ai sensi dell’art. 116 richiederebbe almeno la colpa e, allo stesso tempo, al massimo la colpa, posto che il dolo eventuale comporterebbe l’applicazione dell’art. 110; l’applicabilità del concorso anomalo, cioè, necessiterebbe che il reato diverso effettivamente realizzato non fosse voluto, neppure nella forma indiretta, da parte del concorrente il quale avesse – questa volta sì – voluto la realizzazione di un reato diverso650: significa, dunque, che l’art. 116 richiede la totale mancanza di intenzionalità da parte dell’agente con riferimento al fatto realizzato e diverso, la quale deve essere esclusa anche nella forma dell’accettazione del rischio651.

Tali conclusioni appaiono coerenti alla luce di diversi punti di vista: in primo luogo, in base alla considerazione per cui l’adozione del criterio della “prevedibilità in astratto” ai fini dell’inquadramento del concorso anomalo potrebbe condurre a risultati non congrui allorché l’evento fosse in astratto imprevedibile, ma prevedibile in concreto; in secondo luogo, in forza del fatto che, qualora si identifichi la correlazione fra responsabilità per concorso anomalo e previsione in concreto, si avrebbe una indebita disparità di trattamento fra realizzazione del fatto di reato monosoggettivo e realizzazione del medesimo in concorso: nel primo caso si avrebbe imputazione per dolo eventuale, con trattamento sanzionatorio ordinario; nel secondo, si avrebbe

sostiene, comunque, che la questione debba essere risolta caso per caso, senza il ricorso ad aprioristiche conclusioni. Ai fini di una trattazione esaustiva, è opportuno precisare che la sentenza in questione applichi, ai fini dell’inquadramento del dolo eventuale, il tradizionale criterio dell’accettazione del rischio. Sostanzialmente conformi in quanto a conclusioni, e sempre con riguardo al reato di omicidio come conseguenza di rapina a mano armata, Cass. Pen., Sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 18489, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. V, 26 maggio 2011, n. 36135, in dejure.giuffre.it

649 Cass. Pen., Sez. V, 24 ottobre 2002, n. 42861, in dejure.giuffre.it: “La giurisprudenza costante di questa Corte afferma […] che la responsabilità del compartecipe ex art. 116 c.p. può essere esclusa solo quando il reato diverso e più grave si presenti come evento atipico, dovuto a circostanze eccezionali e del tutto imprevedibili, non collegato in alcun modo al fatto criminoso su cui è innestato, oppure quando si verifichi un rapporto di mera occasionalità idoneo ad escludere il nesso di causalità”.

650 Cass. Pen., Sez. I, 16 maggio 2003, n. 30262, in dejure.giuffre.it: “Per la sussistenza del concorso anomalo è necessario […] che l’evento diverso non sia stato voluto neppure sotto il profilo del dolo indiretto e che il reato più grave non sia stato già considerato come possibile conseguenza ulteriore e diversa della condotta criminosa concordata o che, nonostante la previsione, non sia stato ugualmente accettato il rischio del suo verificarsi.”

651 Cass. Pen., Sez. I, 27 settembre 1996, n. 9487, in dejure.giuffre.it

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imputazione per concorso anomalo, con trattamento sanzionatorio ridotto rispetto a quello relativo al concorso “puro” di cui all’art. 110.

Tutto ciò, a parere di chi scrive, è sicuramente lineare e logico ma, probabilmente, tende a trascurare la definizione di “dolo eventuale”: in effetti, la giurisprudenza che si è cimentata sull’argomento in questione ha avvallato pedissequamente il tradizionale criterio dell’accettazione del rischio il quale, di per sé considerato, suscita le problematiche che sono già state evidenziate all’interno del capitolo precedente (in particolare, ed in estrema sintesi, la difficoltà di conciliazione fra i concetti di “rappresentazione della possibilità di realizzazione dell’evento” e “sicura fiducia che l’evento non si verificherà”, ai fini dell’inquadramento della colpa cosciente; nonché il carattere ambiguo dell’espressione “accettazione del rischio” la quale, invero, parrebbe identificare proprio l’atteggiamento soggettivo tipicamente colposo). Inoltre, la medesima giurisprudenza sembra quasi escludere, ai fini della trattazione dell’argomento in questione, la categoria della colpa cosciente: infatti, la “previsione in concreto” potrebbe ben configurare, appunto, la colpa cosciente; ammettere il contrario significherebbe o configurare ipotesi di dolo in re ipsa (ritenendo sussistente l’elemento volitivo alla luce dell’elemento intellettivo in sé considerato), ovvero accoglimento di un’impostazione riconducibile al paradigma indicato dalla teoria della rappresentazione, non condivisibile per i motivi che sono già stati esposti (supra, cap. II, par. 1). Si vuole sostenere, cioè, che, laddove si identifichi il concorso anomalo qualora l’evento diverso sia rimasto nella sfera della mera “prevedibilità”, ed il concorso “puro” laddove, invece, l’evento diverso sia stato “concretamente previsto” ed “accettato”652, non viene menzionata l’ipotesi in cui l’evento sia stato previsto ma non accettato, ossia l’ipotesi della previsione non accompagnata da un atteggiamento psicologico che configuri una presa di posizione della volontà e, quindi, l’elemento volitivo necessario ai fini dell’inquadramento del dolo.

Probabilmente, alla luce delle conclusioni che poi la giurisprudenza trae (nel senso della configurazione del concorso “puro” allorché si abbia il dolo eventuale), si potrebbe considerare implicito che, comunque, le ipotesi di colpa dovrebbero essere ricondotte alla sfera dell’art. 116, con inclusione della categoria della colpa cosciente; permane, ad ogni modo, un’aura di incertezza a riguardo. Si tratta, insomma, di un ulteriore frangente in cui il criterio dell’“accettazione del rischio” palesa i propri limiti.

Alcune pronunce giurisprudenziali sembrano, forse, spingersi oltre, accogliendo un’impostazione in base alla quale il dolo eventuale distinguerebbe la responsabilità per concorso “puro” dalla responsabilità per concorso anomalo (beninteso che il dolo eventuale inquadrerebbe il concorso “puro”) laddove, a fronte della rappresentazione in concreto della possibilità di realizzazione del reato diverso, non vi sia stata “esplicita dissociazione”: per cui, la realizzazione del fatto diverso potrebbe dirsi “accettata” sotto il profilo volitivo653.

È anche vero, tuttavia, che, nell’ipotesi in cui taluni concorrenti abbiano anche solo previsto la possibilità di realizzazione di un reato diverso rispetto a quello che formi oggetto della compartecipazione criminosa, ci si trova in una

652 Cass. Pen., Sez. VI, 13 gennaio 2010, n. 18489, in dejure.giuffre.it653 Cass. Pen., Sez. II, 24 giugno 2011, n. 32972, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. VI,

13 gennaio 2010, n. 18489, in dejure.giuffre.it

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situazione che si manifesta, rispetto all’ipotetica realizzazione del reato diverso, fondamentalmente come un versari in re illicita: dunque, non sembra eccessivamente forzato far tornare attuali le considerazioni effettuate da parte della dottrina, la quale ha evidenziato come, nei casi in cui si agisca in contesto di base illecito, qualora sia anche solo prevista la possibilità di realizzazione di un fatto ulteriore, divenga difficile l’esclusione della componente volitiva e la conseguente affermazione della colpa cosciente; viceversa, sarà più facile l’inquadramento del dolo eventuale, posto che il decorso causale è, molto spesso, già “parzialmente avviato”, e che l’elemento psicologico dell’agente tende a coincidere con quello proprio del dolo eventuale654.

La tematica del concorso anomalo permette, inoltre, di cogliere spunto per l’identificazione di un ulteriore fondamento, il quale potrebbe supportare la teoria che individua il dolo eventuale nell’accettazione dell’evento collaterale mediante una deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto al fine intenzionalmente perseguito: la dottrina che ha sostenuto tale teoria (in particolare, come si è visto, Salvatore Prosdocimi) evidenzia che alcune pronunce di legittimità, sostenendo che “la mera previsione ed accettazione del rischio di un evento diverso, sostitutivo o aggiuntivo rispetto a quello proprio dell’azione concordata, non è riconducibile allo schema del concorso tipico previsto dall’art. 110, bensì a quello del concorso atipico di cui all’art. 116”, sembrino, a tutta prima, deporre nel senso che il dolo eventuale sarebbe, contrariamente a quanto si è esposto con riguardo al principio di “prevedibilità in concreto”, incompatibile con l’art. 110 e compatibile con l’art. 116; ad una analisi più accorta, tuttavia, si sostiene che un assetto di questo genere dovrebbe confermare l’insufficienza della mera previsione ed accettazione del rischio ai fini dell’inquadramento del dolo eventuale655: in tal senso, dunque, permarrebbe la validità delle associazioni “dolo – art. 110” e “colpa – art. 116”. Ora, a parte il carattere condivisibile o meno di tale rilievo, è da apprezzare lo sforzo di evidenziare il maggior numero possibile di fondamenti a sostegno di una teoria che mira a risolvere le discrasie giurisprudenziali in tema di distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente: quantomeno, si pone in evidenza la labilità del criterio dell’accettazione del rischio.

Restano da analizzare le applicazioni del criterio della “previsione in concreto”: pur trattandosi di un’impostazione minoritaria, essa è stata effettivamente adottata in taluni casi656, ed in particolare, tra l’altro, proprio in ipotesi di omicidio come “sviluppo” di rapina a mano armata, mediante l’affermazione della responsabilità ai sensi dell’art. 116 del compartecipe il quale, pur non avendo commesso l’azione tipica dell’omicidio, avesse previsto in concreto la possibilità di realizzazione di tale evento come conseguenza dell’azione concordata657. È stato osservato, in dottrina, che una ricostruzione di questo tipo dovrebbe essere quella maggiormente garantista ed aderente al principio di personalità della responsabilità penale658.

654 S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, 131 – 140; v. supra, cap. II, par. 14.

655 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 224.656 Tra le altre, Cass. Pen., Sez. I, 3 febbraio 1992, in Giust. pen., 1993, 2, c. 227.657 Cass. Pen., Sez. I, 22 ottobre 1990, in Cass. pen., 1993, 1, 46. 658 E. DI SALVO, op. ult. cit., 127.

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Ancora, a sostegno del principio della “previsione in concreto”, si è osservato che l’applicazione, in luogo di esso, del criterio della “prevedibilità in concreto” potrebbe condurre ad un indebito ampliamento della sfera del dolo eventuale, essendo facile che il giudizio sulla prevedibilità in concreto si tramuti in giudizio sull’effettiva previsione in concreto: la parte di dottrina alla quale sono riferibili tali osservazioni conclude, quindi, che la responsabilità ai sensi dell’art. 116 necessiti della previsione in concreto, effettiva, ma che si connoti in termini di mera possibilità o scarsa probabilità; si sostiene, altresì, che il dolo non intenzionale debba essere caratterizzato dalla rappresentazione della realizzazione del fatto di reato in termini di elevata probabilità, sicché si conclude comunque per l’ascrivere la responsabilità dolosa, in ogni sua forma, alla sfera dell’art. 110, e non a quella dell’art. 116; parallelamente, la responsabilità ai sensi dell’art. 116 verrebbe a collocarsi, effettivamente, al di fuori della sfera del dolo659.

Una teoria di questo tipo ha sicuramente il pregio di inserirsi in un’ottica garantista, ma incorre nei limiti, più volte evidenziati, in cui incorrono, in linea generale, tutte le ricostruzioni basate su valutazioni di carattere quantitativo ai fini della distinzione di elementi, invece, qualitativamente diversi: è vero che il dolo eventuale sarà, di norma, più agevolmente ravvisabile allorché sussista una rappresentazione di realizzazione del fatto collaterale in termini di elevata probabilità, mentre sarà più agevole l’identificazione della colpa cosciente laddove il livello intellettivo fosse caratterizzato da percezione di livelli di probabilità meno intensi; tuttavia, ciò non legittima a far assurgere tali considerazioni a criteri di carattere decisivo o identificativo a priori, rispettivamente, di dolo eventuale o colpa cosciente.

Da un altro punto di vista, ci si potrebbe chiedere se il dolo eventuale sia compatibile con l’atteggiamento psicologico del concorrente in relazione al reato da egli voluto (che dovrebbe essere il reato “originariamente” oggetto della compartecipazione criminosa): sembra fondato ritenere che, in mancanza di elementi a supporto della conclusione negativa, si possa propendere per la soluzione positiva, con la conseguenza che detto atteggiamento psicologico potrà assumere la forma del dolo eventuale660. È da rilevare, tuttavia, che parte della dottrina si sia pronunciata nel senso che il dolo eventuale rileverebbe soltanto con riguardo ad un reato effettivamente realizzato661, sicché l’atteggiamento psicologico del concorrente relativamente al reato da egli voluto e diverso da quello effettivamente realizzato potrebbe assumere valenza in forma di dolo eventuale soltanto qualora il reato voluto fosse stato anche esso realizzato, in aggiunta rispetto al reato diverso da quello voluto: ma tale conclusione non appare condivisibile, in base all’osservazione del fatto che l’art. 116 faccia riferimento, in ogni caso, ad un atteggiamento psicologico relativo al reato diverso da quello realizzato che avrebbe integrato il dolo se il reato fosse stato effettivamente commesso662.

659 E. DI SALVO, op. ult. cit., 133. 660 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 218. 661 A. PAGLIARO, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto,

Milano, Giuffrè, 1966, 46.662 S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., 220.

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4. Dolo eventuale e preterintenzione

La preterintenzione costituisce una forma autonoma di elemento soggettivo, a sé stante e distinta rispetto a dolo e colpa: lo si evince dall’art. 42, comma 2, c.p., laddove esso dispone che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente previsti dalla legge”663; nonché dall’art. 43, comma 1, alinea 2, c.p., ove compare la definizione di “delitto preterintenzionale”, il quale si avrebbe allorché “dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”.

La dottrina non manca di rilevare che, invero, la preterintenzione non costituisca effettivamente un elemento soggettivo “nuovo”, ma sia dato da dolo misto a responsabilità oggettiva664, ovvero dolo misto a colpa665: l’accoglimento della prima impostazione (preterintenzione come dolo misto a responsabilità oggettiva) conduce a valutare il delitto preterintenzionale come caratterizzato da un’azione dolosa diretta a commettere un delitto meno grave la quale realizzi, invece, un risultato lesivo più grave rispetto a quello voluto; risultato che viene accollato all’agente in base alla sola sussistenza di un nesso di causalità materiale fra la condotta da lui tenuta ed il risultato lesivo e, dunque, in base ad un criterio corrispondente alla responsabilità oggettiva666. La seconda tesi, d’altra parte, appare maggiormente conforme al principio costituzionale di colpevolezza, che renderebbe necessaria una rilettura costituzionalmente orientata di tutte le ipotesi originariamente previste come forme di responsabilità, in tutto o in parte, oggettiva: per quel che attiene, in particolare, alle ipotesi di delitto preterintenzionale, una tale “rilettura in chiave costituzionale” dovrebbe imporre al giudice di verificare la sussistenza della colpa o, almeno, della prevedibilità dell’evento non voluto da parte dell’agente667.

663 Analogo rilievo è effettuato da G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 637. Gli Autori aggiungono che la preterintenzione dovrebbe considerarsi, altresì, come distinta rispetto alla responsabilità oggettiva, in base al dato normativo di cui all’art. 42, comma 3, c.p., il quale prevede che “la legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente, come conseguenza della sua azione o omissione”: tale disposizione dovrebbe indicare, appunto, la responsabilità oggettiva, concepita a sua volta, dunque, come forma di responsabilità distinta rispetto a dolo, colpa e preterintenzione. Nondimeno, viene effettuato il rilievo delle sole due ipotesi pacificamente considerate come forme di delitto preterintenzionale: l’omicidio preterintenzionale (art. 584) e l’aborto preterintenzionale (art. 18, comma 2, legge 22 maggio 1978, n. 194).

664 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 637.665 S. CANESTRARI, op. ult. cit., 128. 666 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 637. Gli Autori evidenziano, a sostegno

dell’accoglimento della tesi la quale vede la preterintenzione come dolo misto a responsabilità oggettiva, che la legge non faccia alcun riferimento alla necessità, ai fini della configurazione della responsabilità preterintenzionale, che l’evento più grave sia prodotto con colpa.

667 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 638. Gli Autori osservano che tale tesi costituisca una prospettiva de jure condendo, ma sostengono che, allo stato attuale, mancando un riferimento normativo il quale preveda espressamente la necessità della colpa per l’attribuzione della responsabilità per l’evento più grave realizzato, la preterintenzione debba considerarsi come dolo misto a responsabilità oggettiva.

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Ad ogni modo, qualunque sia l’impostazione che si accolga (preterintenzione come dolo misto a colpa, ovvero preterintenzione come dolo misto a responsabilità oggettiva), sembra essere abbastanza univoco, in base all’attuale lettera della legge, che l’evento più grave non debba essere voluto e che, quindi, relativamente ad esso non debba sussistere un atteggiamento soggettivo doloso, neppure nella forma del dolo eventuale: si avrebbe, altrimenti, una ipotesi di solo dolo, e non dolo misto a colpa, ovvero dolo misto a responsabilità oggettiva; e, d’altra parte, non si avrebbe alcuna differenziazione fra delitto doloso e delitto preterintenzionale: differenziazione, invece, chiaramente indicata dal legislatore. Del resto, dovrebbe ritenersi necessario il dolo con riguardo all’evento meno grave. In sintesi, la preterintenzione, nell’attuale assetto normativo, dovrebbe consistere nella realizzazione di un evento lesivo più grave rispetto a quello voluto: con riferimento a quest’ultimo, dovrebbe essere necessario un atteggiamento soggettivo doloso, mentre il primo non dovrebbe essere voluto, neppure nella forma del dolo eventuale.

In senso conforme alla ricostruzione appena delineata si pronuncia la giurisprudenza dominante, perlopiù relativa ad ipotesi di omicidio preterintenzionale. Così, si afferma che “l’omicidio preterintenzionale va escluso in radice” nei casi in cui, in base alle risultanze processuali, debba “del tutto escludersi che” l’intenzione fosse “solo quella di cagionare mere lesioni”668; l’omicidio preterintenzionale, cioè, necessiterebbe del dolo di lesioni, ma dell’assenza di qualsiasi manifestazione dell’elemento soggettivo doloso con riferimento all’evento “morte”669.

Insomma, la configurazione del dolo eventuale con riguardo all’evento “morte” renderebbe non prospettabile l’attribuzione di responsabilità per omicidio preterintenzionale: emblematica, in tal senso, è una pronuncia dei giudici di legittimità, la quale ha negato la sussistenza dell’omicidio preterintenzionale affermando, invece, l’omicidio sorretto da dolo eventuale, con riferimento alla condotta dell’agente che, reagendo ad un tentativo di aggressione da parte di soggetti armati di coltello – tentativo di aggressione che l’agente stesso avrebbe potuto evitare semplicemente non rispondendo alla provocazione di “scendere in strada” e “raccogliere la sfida” – sparando colpi di pistola all’altezza della zona addominale ed a distanza ravvicinata, aveva provocato l’evento “morte”, alla luce dell’osservazione che la preterintenzione necessiti del dolo di lesioni e dell’assenza assoluta di ogni previsione (e, si potrebbe aggiungere, dall’assenza di qualsiasi tipo di volizione) dell’evento più grave provocato (la morte, in questo caso)670. Sulla stessa linea, è stata esclusa

668 Cass. Pen., Sez. I, 18 maggio 2011, n. 30283, in dejure.giuffre.it 669 Cass. Pen., Sez. I, 31 marzo 2011, n. 16793, in dejure.giuffre.it: “[…] questa Corte di

legittimità ha sempre insegnato come il criterio discretivo tra l’omicidio volontario ed il reato ex art. 584 c.p. risieda nell’elemento psicologico, sul rilievo che nella figura preterintenzionale l’agente deve escludere qualsivoglia previsione, anche indiretta (per dolo eventuale o alternativo), dell’evento morte”. Cass. Pen., Sez. I, 30 giugno 2009, n. 30304, in dejure.giuffre.it: “il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e preterintenzionale è che in questo secondo caso la volontà dell’agente esclude ogni previsione dell’evento morte che si determina per fattori esterni e l’accertamento deve fondarsi su elementi oggettivi desunti dalla modalità dell’azione”.

670 Cass. Pen., Sez. IV, 1 dicembre 2010, n. 2291, in dejure.giuffre.it: “Non può ravvisarsi nella specie l’ipotesi di omicidio preterintenzionale, di cui all’art. 584 c.p. Il criterio distintivo fra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale risiede nell’elemento psicologico, atteso che, nell’ipotesi della preterintenzione, la volontà dell’agente è diretta a percuotere od a ferire la

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la preterintenzione con riguardo alla condotta di soggetti che, nel tentativo di compiere una rapina all’interno di una villa, avevano causato la morte di un’anziana donna presente all’interno della stessa, imbavagliandola in modo eccessivo e provocandone asfissia: tale evento fu considerato sorretto, quantomeno, da dolo eventuale, valutandosi che i rapinatori, pur non volendo direttamente la morte della donna, possedessero tutti gli elementi per prevedere la morte stessa, ed avessero agito accettando il rischio di uccidere671.

Se mai, si tratta di stabilire se il dolo di lesioni, ai fini della rilevanza della responsabilità per preterintenzione, possa sussistere come dolo eventuale, ovvero debba essere almeno diretto: la giurisprudenza maggioritaria accoglie la prima opzione, affermando che “il delitto di omicidio preterintenzionale ricorre anche quando gli atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dall’art. 581 c.p. e art. 582 c.p., dai quali sia derivata, come conseguenza non voluta, la morte, siano stati posti in essere con dolo eventuale”672; sulla stessa linea, si è precisato che l’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale vada ravvisato nella trasgressione del precetto il quale vieti di porre in essere atti lesivi dell’altrui incolumità; d’altra parte, l’espressione “atti diretti a ledere o percuotere” non escluderebbe il dolo eventuale, in quanto dovrebbe essere interpretata come descrittiva di un requisito strutturale oggettivo della condotta673.

Non mancano tuttavia, seppur non più recenti, pronunce di segno opposto, le quali sostengono che il dolo di lesioni, ai fini della responsabilità per omicidio preterintenzionale, debba essere almeno diretto, con esclusione della rilevanza del dolo eventuale674. Alcune sentenze sembrano richiedere, addirittura, il dolo intenzionale675.

È il caso di porre qualche cenno ai rilievi mossi da parte di alcuni esponenti della dottrina, connessi ad una concezione per la quale, ai fini del dolo, si dovrebbe richiedere un elemento intellettivo che si configuri come rappresentazione in termini di elevata probabilità, e non mera possibilità o scarsa probabilità676. Più precisamente, tra le altre cose, si evidenzia che concepire il dolo eventuale come inquadrabile anche nelle ipotesi in cui la realizzazione del reato si fosse presentata, sullo schermo mentale dell’agente, in termini di mera possibilità o bassa probabilità significherebbe dilatare in modo eccessivo la sfera di applicazione del dolo a scapito della sfera della preterintenzione: infatti, si sostiene che sia, in pratica, impossibile o, se non altro, molto difficile escludere che la raffigurazione mentale di una almeno

vittima, con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte; nell’omicidio volontario la volontà dell’agente consiste nell’intenzione di arrecare la morte, intesa quale dolo intenzionale, nelle sue note graduazioni di dolo diretto e dolo eventuale”.

671 Cass. Pen., Sez. I, 23 ottobre 1997, n. 2587, in dejure.giuffre.it 672 Cass. Pen., Sez. fer., 15 settembre 2011, n. 34745, in dejure.giuffre.it. In senso

conforme, Cass. Pen., Sez. I, 13 ottobre 2010, n. 40202, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. V, 11 dicembre 2008, n. 4237, in Arch. giur. circol. e sinistri, 2009, 9, 719; Cass. Pen., Sez. V, 12 novembre 2008, n. 44751, in dejure.giuffre.it.

673 Cass. Pen., Sez. V, 11 dicembre 2008, n. 4237, in Arch. giur. circol. e sinistri, 2009, 9, 719.

674 Cass. Pen., Sez. I, 5 luglio 1988, n. 4904, in Giust. pen., 1988, 2, 28 ss.; Cass. Pen., Sez. I, 15 marzo 1982, in Giust. pen., 1983, 2, c. 234.

675 Cass. Pen., Sez. I, 23 ottobre 1997, n. 2587, in dejure.giuffre.it676 E. DI SALVO, Dolo eventuale e colpa cosciente, 1943.

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remota possibilità di realizzazione dell’evento lesivo si fosse manifestata nell’agente a livello intellettivo677. Non varrebbe ad eliminare il problema l’accoglimento della distinzione fra dolo eventuale e preterintenzione in base alla dicotomia “effettiva previsione” – “prevedibilità” dato che, a fronte della valutazione della “prevedibilità” dell’evento lesivo, il passo ulteriore alla valutazione dell’effettiva previsione è molto agevole: il procedimento di accertamento del dolo, come si è già evidenziato, si basa sull’analisi delle caratteristiche oggettive del caso concreto, alla luce delle quali si inferisce all’inquadramento dell’elemento soggettivo, in considerazione di massime d’esperienza ed in base al criterio dell’id quod plerumque accidit, sicché ove si accerti, tramite detto procedimento, che la realizzazione dell’evento fosse “prevedibile”, sarà ben difficile non giungere all’affermazione della sussistenza di effettiva previsione678. La preterintenzione verrebbe, così, relegata alle ipotesi in cui la realizzazione dell’evento più grave non fosse neppure prevedibile da parte dell’agente, o lo fosse soltanto in base al parametro della “miglior scienza ed esperienza”: il che la collocherebbe nettamente nell’alveo della responsabilità oggettiva, con i dubbi di legittimità costituzionale che ne conseguono679.

Infine, per completezza di trattazione, vale la pena di fare riferimento ad una particolare tesi680 che, pur senz’altro minoritaria e difforme rispetto alla giurisprudenza prevalente (per ammissione dello stesso Autore che la sostiene), concorre a rendere evidente le problematiche sottotese all’inquadramento delle fattispecie preterintenzionali in un’ottica di conformità rispetto al dettato normativo del codice penale e, altresì ed al contempo, rispetto al principio costituzionale di colpevolezza. Si tratta della c.d. “tesi temeraria dell’omicidio preterintenzionale” che, in estrema sintesi, sostiene un’interpretazione costituzionalmente orientata della fattispecie di cui all’art. 584, concependola come caratterizzata dal dolo eventuale del fatto più grave realizzato.

Lo sviluppo argomentativo a supporto della “tesi temeraria” prende in considerazione diversi aspetti alla luce dei quali si dovrebbe essere indotti a dubitare del carattere “sufficiente” della responsabilità oggettiva per l’evento più grave realizzato, nonché a ritenere necessario, appunto, il dolo eventuale per detto evento. Più precisamente, viene effettuato un raffronto fra il tenore letterale dell’art. 584 e quello dell’art. 586 (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto), e si rileva che, mentre il secondo specifica expressis verbis che gli eventi “morte” o “lesioni” debbano essere “conseguenza non voluta” di un “fatto previsto come doloso”, il primo non pone alcun riferimento al fatto che l’evento “morte” debba essere “non voluto” o, comunque, possa prescindere dalla volizione del soggetto agente, quantomeno configurata nella forma del dolo eventuale: da ciò si dovrebbe ricavare che il legislatore, laddove abbia inteso escludere la necessità del dolo, lo abbia fatto espressamente; e che, dunque, la

677 E. DI SALVO, op. ult. cit., 1940. 678 E. DI SALVO, op. ult. cit., 1941.679 E. DI SALVO, op. ult. cit., 1941 – 1942. L’Autore ripropone, con riferimento al reato di

cui all’art. 586 c.p. (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto), considerazioni analoghe a quelle svolte con riguardo al dolo eventuale in rapporto alla preterintenzione.

680 L. VIOLA, Ancora sulla tesi temeraria dell’omicidio preterintenzionale come dolo eventuale del fatto più grave, in www.altalex.it

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fattispecie di cui all’art. 584, non escludendo espressamente la necessità del dolo per l’evento “morte” debba richiedere, per quest’ultimo, appunto il dolo nella forma eventuale. Il tutto sarebbe, del resto, conforme ai principi generali per cui la forma ordinaria di responsabilità sia il dolo, mentre la colpa o, comunque, forme di imputazione che prescindano dal dolo, debbano essere espressamente previste dalla legge681.

Alla suddetta ricostruzione si potrebbe obiettare che, conformemente ad essa, non si avrebbe alcuna distinzione fra omicidio preterintenzionale ed omicidio doloso: ma ad essa si replica che, invece, la differenziazione tra tali forme di delitto consista nella presenza necessaria, nel caso dell’omicidio preterintenzionale, di un evento “intermedio”, il quale consiste in “percosse” o “lesioni”; anche l’omicidio doloso potrebbe, in effetti, essere caratterizzato da un evento “intermedio”, ma si differenzierebbe rispetto all’omicidio preterintenzionale per il fatto che tale evento non consista in “percosse” o “lesioni”, oltre che, ovviamente, alla luce del carattere non necessario di detto evento “intermedio”. A titolo esemplificativo, l’omicidio doloso potrebbe ben essere caratterizzato da un evento intermedio consistente in minacce o tentativo di estorsione posti in essere con dolo, e seguiti dall’evento “morte” sorretto da dolo eventuale: si pensi all’ipotesi di chi, al fine di spaventare la vittima con scopo di estorsione di denaro, la spinga con forza, prevedendo ed accettando la possibilità che la vittima stessa inciampi e urti la testa in modo letale682.

A supporto della “tesi temeraria” viene, altresì, richiamato il fatto che l’art. 584 contenga l’inciso “cagiona la morte di un uomo”, analogo a quello contenuto nell’art. 575 c.p.: si sostiene, in particolare, che tale inciso dovrebbe essere interpretato come indice della necessità del dolo per la fattispecie di cui all’art. 584 e con riferimento all’evento “morte”, stante il fatto che la lettera della legge sia la medesima utilizzata nell’ambito della disciplina dell’omicidio doloso683.

La “tesi temeraria” appena analizzata si distingue senza dubbio per vari aspetti positivi: si tratta senz’altro di un apprezzabile tentativo di valorizzazione della reinterpretazione in chiave costituzionalmente orientata delle norme del codice penale le quali configurino ipotesi di responsabilità oggettiva, sia essa pura o mista. D’altra parte essa appare, fondamentalmente, inattuabile alla luce del contesto attuale, e non risultano appieno convincenti i rilievi, effettuati dall’Autore che ha sostenuto tale tesi, i quali fanno riferimento ai dati normativi di cui agli artt. 575, 584 e 586 c.p.: è vero che l’art. 586 richiede espressamente che gli eventi “morte” o “lesioni” debbano essere “non voluti”, mentre non è lo stesso per quanto attiene all’art. 584; tuttavia, tale considerazione tralascia completamente i riferimenti normativi di cui agli artt. 42 e 43 c.p., i quali prevedono espressamente e definiscono la preterintenzione, mantenendola distinta rispetto a dolo e colpa; e l’art. 584 è rubricato come “omicidio preterintenzionale”, per cui non avrebbe potuto esservi richiamo più chiaro da parte del legislatore. Sostenere la necessità di un’ulteriore precisazione espressa circa l’assenza del requisito del dolo con riferimento all’evento “morte”

681 L. VIOLA, op. cit. 682 L. VIOLA, op. cit.683 L. VIOLA, op. cit.

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per l’omicidio preterintenzionale equivarrebbe quasi a voler richiedere che, ai fini della rilevanza della colpa per le fattispecie in relazione alle quali essa sia prevista, il legislatore debba ogni volta enunciare nuovamente la definizione di delitto colposo, già predisposta dall’art. 43. Considerazioni analoghe possono essere trasferite all’argomento che evidenzia il raffronto fra art. 575 ed art. 584: il fatto che entrambe le norme contemplino l’espressione “cagiona la morte di un uomo” non pare, di per sé, idoneo ad indurre a sostenere che essa debba significare la necessità del dolo; l’art. 584 è intitolato “omicidio preterintenzionale”, e la nozione di “delitto preterintenzionale” è contenuta all’interno dell’art. 43; ragionando altrimenti, non si comprenderebbe per quale motivo l’art. 584 sia stato intitolato “omicidio preterintenzionale”: se fosse stato intitolato, ad esempio, “omicidio come conseguenza di lesioni o percosse”, il ragionamento effettuato a supporto della “tesi temeraria” avrebbe potuto essere coerente; ma, dato che così non è, appare opportuno interpretare la legge senza tralasciare dati letterali effettivamente presenti (magari non condivisibili, ma pur sempre presenti).

5. Dolo eventuale e dolo alternativo

Nella prevalente giurisprudenza, il dolo alternativo viene individuato allorché l’agente preveda e voglia, con scelta sostanzialmente equipollente, eventi alternativi causalmente ricollegabili alla sua condotta: si tratterebbe, più precisamente, di una forma di dolo diretto, ove gli eventi alternativi, al momento della realizzazione oggettiva del fatto di reato, siano previsti e voluti direttamente, e non in forma eventuale; la differenziazione sostanziale fra dolo diretto alternativo e dolo eventuale consisterebbe, dunque, nel fatto che quest’ultimo sia caratterizzato da un evento che non è direttamente voluto, bensì previsto ed accettato in forma eventuale684, mentre il primo si connoterebbe per una componente volitiva diretta, seppur relativa ad eventi distinti ed alternativi. Talvolta, dolo alternativo e dolo eventuale sono espressamente definiti come “proposizioni antitetiche”685. Talaltra, sono definiti come forme di dolo “indiretto”686: ma è ragionevole interpretare tale prospettiva come significante del fatto che dolo alternativo e dolo eventuale costituiscano entrambi forme di dolo di intensità minore rispetto al dolo intenzionale.

In effetti, l’ultima definizione citata (quella che concepisce il dolo alternativo come forma di dolo “indiretto”) appare riconducibile alla tendenza originaria a considerare l’essenza del dolo in senso restrittivo come sola intenzione, con conseguente configurazione di una bipartizione: da un lato, il

684 In tal senso, tra le altre, Cass. Pen., Sez. I, 14 giugno 2011, n. 36171, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. V, 31 maggio 2011, n. 32100, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. I, 24 maggio 2011, n. 33021, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. II, 13 aprile 2011, n. 28477, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. I, 25 giugno 2010, n. 4731, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. I, 11 novembre 2011, n. 42267, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. I, 25 febbraio 2009, n. 11521, in Cass. pen., 2010, 2, 627; Cass. Pen., Sez. I, 17 giugno 2008, n. 27767, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. I, 24 maggio 2007, n. 27620, in Cass. pen., 2008, 5, 1845; Cass. Pen., Sez. V, 17 gennaio 2005, n. 6168, in Cass. pen., 2006, 9, 2848; Cass. Pen., Sez. I, 18 marzo 2003, n. 16976, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. I, 19 novembre 1999, n. 385, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. I, 11 febbraio 1998, n. 8052, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. I, 12 gennaio 1989, in dejure.giuffre.it

685 Cass. Pen., Sez. Un., 6 dicembre 1991, in Cass. pen., 1993, 1, 14. 686 Cass. Pen., Sez. I, 29 ottobre 1990, in dejure.giuffre.it

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dolo intenzionale, rappresentativo dell’essenza della volontà dolosa; dall’altro, tutte le ipotesi in cui il soggetto avesse realizzato fatti di reato ritenendoli solamente possibili o accettandone il rischio di verificazione (fermo restando, chiaramente, la necessità di sussistenza del nesso causale fra condotta e risultato lesivo provocato); tale seconda categoria, che si potrebbe definire, dunque, “residuale”, comprendeva anche le ipotesi di dolo alternativo, individuate nei casi in cui l’agente, ponendo in essere una condotta rivolta indifferentemente alla produzione di eventi lesivi alternativi, avesse concretamente realizzato uno di essi687. L’impostazione qui delineata è rilevabile, in particolare, nell’ambito della giurisprudenza degli anni Settanta e Ottanta del Novecento688.

Solo successivamente ci si avviò verso un mutamento di tendenza, attraverso la ricostruzione di una concezione tripartita del dolo, caratterizzata da dolo intenzionale, dolo diretto e dolo eventuale. Il passo successivo fu la distinzione fra dolo eventuale e dolo alternativo: quest’ultimo fu individuato nell’ipotesi in cui il soggetto avesse agito prevedendo e volendo in modo paritetico eventi alternativi, prefigurandosi come indifferente quale, fra di essi, sarebbe venuto effettivamente a realizzarsi; dunque, con volizione diretta – benché alternativa – di entrambi gli eventi in modo equipollente, e non con semplice accettazione del rischio689. Venne a definirsi, quindi, una differenziazione fra dolo eventuale e dolo alternativo basata sull’intensità dell’elemento volitivo: il quale, nel caso del dolo alternativo, si sostenne dovesse essere, necessariamente, almeno diretto, stante anche il rapporto di incompatibilità tra gli eventi previsti e voluti, tale per cui la realizzazione dell’uno avrebbe escluso la realizzazione dell’altro690. Differente, peraltro, veniva concepita la struttura del reato realizzato con dolo eventuale, ove il risultato sorretto, appunto, da dolo eventuale veniva inquadrato come collaterale rispetto alla realizzazione del fine intenzionalmente perseguito.

La giurisprudenza, come si è detto, è ormai pacifica sul fatto che il dolo alternativo configuri una forma di dolo diretto, distinta rispetto al dolo eventuale. Non può dirsi lo stesso per quanto attiene la dottrina: alcuni Autori, infatti, sostengono che il dolo alternativo possa, a sua volta, assumere la forma del dolo diretto ovvero del dolo eventuale, rispettivamente qualora l’agente preveda la conseguenza della propria condotta come certa ovvero come solamente possibile691.

Mantenendosi, comunque, sul versante giurisprudenziale, risulta interessante osservare il fatto che il problema della distinzione fra dolo eventuale e dolo diretto alternativo si ponga molto frequentemente e sia risolta, perlopiù, in considerazione dell’intensità dell’elemento volitivo, come risultante del processo induttivo tramite il quale, a partire da dati inerenti le circostanze concrete che caratterizzavano la situazione in cui fu realizzata la condotta, nonché le modalità concrete di realizzazione della condotta stessa, l’organo

687 Nota giurisprudenziale in Cass. pen., 2008, 5, 1847 – 1848.688 Cass. Pen., Sez. I, 17 aprile 1979, in C.E.D. Cass., n. 142952; Cass. Pen., Sez. I, 12

giugno 1981, in C.E.D. Cass., n. 150753.689 Nota giurisprudenziale in Cass. pen., 2008, 5, 1848 – 1849. 690 Nota giurisprudenziale in Cass. pen., 2008, 5, 1849.691 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 365. Gli Autori richiamano, a loro volta, M.

GALLO, voce Dolo, 793.

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giudicante ricavi la sussistenza dell’elemento volitivo692. Così, ad esempio, è stato affermato il dolo alternativo (diretto), con parallela negazione del dolo eventuale, per il caso concreto in cui l’imputato, portatosi al di fuori dell’abitazione della vittima e postosi presso una porta finestra, aveva esploso quattordici colpi di pistola, colpendo la persona offesa al collo e ferendola gravemente (l’imputato fu condannato per tentato omicidio sorretto da dolo alternativo): il numero dei colpi esplosi, la frequenza di essi, l’esplosione di essi senza preavviso, la collocazione dell’imputato al momento della realizzazione della condotta, nonché la consapevolezza, da parte dell’imputato stesso, della presenza della vittima in luogo raggiungibile dai colpi furono ritenuti dati oggettivi idonei a fondare la valutazione della sussistenza del dolo diretto alternativo, inteso come volontà di ledere o uccidere, alternativamente ed in modo equipollente693.

In modo analogo, si è ritenuto sussistente il dolo diretto alternativo, in luogo del dolo eventuale, con riferimento alla condotta dell’imputato il quale aveva inferto una coltellata alla parete addominale della vittima: il tal caso, si affermò la responsabilità per tentato omicidio, sorretto da dolo alternativo diretto, in considerazione della potenzialità lesiva dello strumento usato, della localizzazione del colpo inferto, dell’intensità del colpo, della profondità della ferita provocata; elementi, questi, dai quali si valutò essersi manifestata una volontà diretta, alternativamente ed indifferentemente, a ledere o uccidere, e non la mera accettazione del rischio di uccidere, previsto nel suo possibile concretizzarsi694.

Ancora, si è affermata la responsabilità per dolo alternativo in capo all’imputato che aveva lasciato cadere un masso su un gazebo in cui erano presenti persone: egli avrebbe agito con l’intento di danneggiare il gazebo o uccidere, indifferentemente; il tutto in considerazione, principalmente, dell’idoneità del masso a provocare la morte di persone, nonché dell’impossibilità per l’imputato, dal luogo in cui egli si trovava, di verificare i movimenti delle persone all’interno del gazebo695.

In altri casi, il dolo omicidiario diretto è stato ritenuto sussistente sulla base della reiterata esplosione di colpi di arma da fuoco contro gli arti inferiori, alla luce della presenza, in quella zona, di grossi vasi venosi ed arteriosi696; oppure con riferimento alla condotta consistente nel tentativo di accoltellare al petto la vittima, intesa come diretta a determinare, alternativamente, la morte o gravi lesioni697.

È il caso di evidenziare alcune ulteriori precisazioni effettuate dalla giurisprudenza in tema di distinzione fra dolo eventuale e dolo alternativo

692 Cass. Pen., Sez. I, 8 marzo 2011, n. 15451, in dejure.giuffre.it: “È noto che, per aversi omicidio volontario, è necessario che la volontà dell’agente sia fermamente intesa a cagionare la morte della vittima; e tale atteggiamento mentale è qualificato come dolo intenzionale, nelle sue note graduazioni del dolo diretto e del dolo alternativo. L’accertamento dell’uno o dell’altro elemento psicologico è rimesso ad una valutazione attenta e rigorosa degli elementi oggettivi, che i giudici di merito sono tenuti ad effettuare, procedendo ad un’accurata analisi delle concrete modalità della condotta dell’agente.”

693 Cass. Pen., Sez. I, 14 giugno 2011, n. 36171, in dejure.giuffre.it694 Cass. Pen., Sez. V, 31 maggio 2011, n. 32100, in dejure.giuffre.it 695 Cass. Pen., Sez. I, 30 marzo 2011, n. 21235, in dejure.giuffre.it 696 Cass. Pen., Sez. I, 11 novembre 2010, n. 42267, in dejure.giuffre.it 697 Cass. Pen., Sez. V, 17 gennaio 2005, n. 6168, in dejure.giuffre.it

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diretto, ed ai fini dell’inquadramento del delitto tentato, con particolare riferimento alle ipotesi in cui l’alternativa si ponga con riguardo a delitti contro la vita o contro l’incolumità individuale, che differiscano solo in quanto a gravità dell’evento: in tali casi, qualora si sia verificato l’evento meno grave, potrebbe prospettarsi il problema di distinzione fra dolo eventuale e dolo diretto soltanto allorquando risulti che l’evento perseguito intenzionalmente come scopo finale fosse l’evento meno grave; qualora, invece, si tratti di dover individuare il tipo di dolo del tentativo del reato comportante la lesione più grave, non potrebbe porsi il problema suddetto, in particolare nel caso in cui la condotta sia stata di intensità tale da non permettere di distinguere se la volontà dell’agente fosse indirizzata a provocare la lesione o la morte; sicché, in questo secondo frangente, non si dovrebbe dubitare della configurabilità del tentativo sorretto da dolo alternativo diretto698.

698 Cass. Pen., Sez. I, 10 febbraio 2011, n. 29147, in dejure.giuffre.it

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CAPITOLO IVAPPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DI DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE CON RIFERIMENTO A CASI SPECIFICI

SOMMARIO: 1. Sinistri stradali con gravi violazioni al Codice della strada. – 2. Contagio da HIV e responsabilità dell’AIDS carrier. – 3. Ricettazione. – 3.1. Ricettazione e incauto acquisto. Configurabilità o non configurabilità del dolo eventuale in caso di ricettazione? – 3.2. La decisione delle Sezioni Unite (Cass. Pen., Sez. Un., ud. 26 novembre 2009, dep. 30 marzo 2010, n. 12433). – 4. Lancio di sassi da cavalcavia. – 5. Responsabilità dell’ente e delle persone fisiche per incidenti sui luoghi di lavoro. La sentenza di primo grado sul caso Thyssenkrupp.

1. Sinistri stradali con gravi violazioni al Codice della strada

I casi di reato derivante da sinistro stradale con gravi violazioni al Codice della strada rappresentano un banco di prova particolarmente valido per verificare la tenuta delle teorie sulla distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, nonché per porne in rilievo i punti critici e le difficoltà applicative. Si tratta, più precisamente, di un contesto che palesa i problemi connessi alla teoria dell’accettazione del rischio, tradizionalmente applicata dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, eccezion fatta solo per alcune recenti pronunce che propongono la teoria della deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro, congiuntamente rispetto alla prima formula di Frank699, e che potrebbero rappresentare una svolta.

A costo di essere ripetitivi, va ribadito che il principale limite della teoria dell’accettazione del rischio è dato dall’erroneità dell’identificazione del dolo eventuale, appunto, nell’“accettazione del rischio”, la quale pare, invece, essere riferibile anche alle condotte realizzate con colpa cosciente: infatti, agire in modo imprudente o negligente a fronte della percezione della possibilità di

699 In tema di sinistri stradali, Cass. Pen., Sez. I, 1 febbraio 2011, n. 10411, in www.penalecontemporaneo.it; ripropone lo stesso criterio Corte. Ass. Torino, 15 aprile 2011 (deposito 14 novembre 2011), in www.penalecontemporaneo.it, ma non si tratta di un caso riferito a reati da sinistro stradale, bensì inerente incidenti sui luoghi di lavoro.

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realizzazione dell’evento lesivo significa, di per sé, “accettare un rischio”700. Tali aspetti emergono in modo “amplificato” nel contesto dei reati da sinistro stradale, in quanto le violazioni al Codice della strada costituiscono senz’altro una condotta colposa; e si tratta di condotta il cui carattere colposo è, nella quasi totalità dei casi, percepito dall’agente (quindi, si tratta di colpa “cosciente” intendendosi, in questo caso, la condotta caratterizzata, appunto, dalla coscienza del carattere colposo della stessa).

Inoltre, si potrebbe ragionevolmente osservare che la circolazione stradale costituisca un ambito ove, nel contesto storico – sociale attuale, vi sia una sorta di “assuefazione al rischio” (richiamando i termini di Jakobs701) che, se da un lato, certamente, non giustifica né attenua la gravità di violazioni al Codice della strada quali la “guida alla cieca”, la guida in stato di ebbrezza o intossicazione da stupefacenti o simili, dall’altro non è da trascurare in sede di valutazione dell’effettività della previsione dell’evento, la quale è necessaria tanto ai fini del dolo eventuale quanto ai fini della colpa cosciente: spesso, infatti, è probabile che nel soggetto agente, che realizzi una condotta pericolosa tramite la guida di un autoveicolo, manchi proprio la rappresentazione della possibilità concreta di realizzazione dell’evento, per cui non dovrebbe neppure porsi l’alternativa fra dolo eventuale e colpa cosciente, in quanto si dovrebbe optare per la colpa incosciente; del resto, se, come si è già sottolineato varie volte, “accettare una situazione di pericolo” non significa necessariamente “accettare la possibilità di realizzazione dell’evento”, dovrà anche ammettersi che la rappresentazione della pericolosità della propria condotta non significhi necessariamente “previsione della realizzazione dell’evento”.

In aggiunta rispetto a tali considerazioni di carattere strettamente giuridico, vi è di più: volendo scendere in valutazioni di tipo sociologico e criminologico, è stato evidenziato che la criminalità stradale costituisca un vero e proprio ambito di devianza al quale, tuttavia, venga attribuito un disvalore sociale relativamente scarso702. Si tratterebbe di una sorta di “indulgenza” nei confronti del “pirata della strada”, che non è riconducibile solamente alla minor intensità dell’elemento soggettivo rispetto a chi uccida o provochi lesioni con dolo intenzionale, ma si spiega anche in base alla c.d. “teoria dell’associazione differenziale”, elaborata da Sutherland, la quale sostiene che una delle cause sociologiche dello sviluppo della devianza sia l’apprendimento delle “tecniche” e “modalità” di devianza all’interno del gruppo sociale di riferimento. In sintesi: il soggetto medio, in effetti, è egli stesso utente sella strada, ed appartiene ad una subcultura sociale che vede nell’elevata velocità e nelle abilità di guida un modello da imitare703; la teoria dell’“associazione differenziale” sostiene che i processi di apprendimento, nell’ambito del gruppo sociale di riferimento, conducano al comportamento deviante qualora le “definizioni favorevoli” alla trasgressione di norme prevalgano sulle “definizioni sfavorevoli” a detta

700 S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, 38. 701 Tale Autore è citato da S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, 58.702 D. RIPONTI, Responsabilità penale connessa alla circolazione stradale e dolo

eventuale, in www.altalex.com 703 D. RIPONTI, op. cit.; sulla teoria dell’“associazione differenziale” si rileva una chiara

ricostruzione da parte di A. SBRACCIA – F. VIANELLO, Sociologia della devianza e della criminalità, Roma – Bari, Laterza, 2010, 23 – 26.

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trasgressione704; in base a tali premesse, è logica conseguenza che, nel gruppo sociale di riferimento dato dagli “utenti della strada”, il comportamento di chi realizzi condotte di “pirateria stradale” verrà stigmatizzato in misura minore rispetto a quanto sarebbe necessario ai fini di un’adeguata efficacia preventiva705. Tali considerazioni sono ricollegabili anche alla c.d. labelling theory, che individua nella mancata reazione sociale l’assenza di una forma di prevenzione primaria706.

Ancora, si è evidenziato che, nonostante l’allarme sociale destato da chi provochi morte o lesioni tramite condotta caratterizzata da gravi violazioni al Codice della strada, tali eventi siano percepiti più come sfortunate verificazioni, che non come frutto di un comportamento criminale: il tutto in considerazione, anche in questo caso, dell’identificazione del soggetto medio – anche egli utente della strada – con il soggetto che abbia provocato il sinistro stradale con esiti lesivi o letali707.

Le osservazioni appena esposte sono confermate dalle sentenze di legittimità le quali, a fronte di un comportamento che si potrebbe definire, genericamente, “guida spericolata”, ravvisano costantemente la colpa; se non altro, si afferma la sola colpa cosciente in mancanza di elementi idonei a dimostrare una presa di posizione della volontà nei confronti della realizzazione dell’evento lesivo (generalmente, morte o lesioni), ed in forza del principio in dubio pro reo. Un esempio emblematico di tali meccanismi è dato dal noto (e relativamente recente) “caso Bodac”, nel quale il soggetto accusato di aver investito due persone, procedendo alla guida di un veicolo di grossa cilindrata ed in stato di ebbrezza alcolica, fu condannato per omicidio colposo, con sentenze sostanzialmente concordi sino al terzo grado di giudizio: ma la tesi a sostegno della colpa cosciente, con negazione del dolo eventuale, era già stata affermata dalla Suprema Corte in sede di procedimento cautelare, dopo che, peraltro, tale tesi era stata applicata dal GIP e confermata dal Tribunale del riesame708.

La pronuncia della Cassazione nell’ambito del procedimento cautelare sul “caso Bodac” richiama, condividendole, le osservazioni del Tribunale del riesame, in base alle quali la giovane età del conducente ed il fatto che egli fosse alla guida di un veicolo di grossa cilindrata (questo, peraltro, da poco nella sua disponibilità), il fatto che egli fosse alla presenza di amici ed accompagnato dal desiderio di attrarre la loro attenzione, l’ostentazione del veicolo “sgommando per il centro cittadino e procedendo a velocità eccessiva”, rivelavano il quadro di un giovane “spericolato ed eccitato”, indotto ad una condotta “estremamente imprudente e negligente”; l’aver superato più volte lo stesso percorso in modo spericolato senza incorrere in ostacoli di sorta avrebbe contribuito ad alimentare la condotta suddetta; inoltre, lo stato di ubriachezza avrebbe anche esso concorso a generare un “senso di onnipotenza”, che avrebbe condotto il soggetto a persistere nell’azione. Viene rimarcata, inoltre, la

704 A. SBRACCIA – F. VIANELLO, op. cit., 25.705 D. RIPONTI, op. cit.706 D. RIPONTI, op. cit.; M. C. PANICO, Asfalto rosso sangue: colpa cosciente o dolo

eventuale?, in www.altalex.com 707 M. C. PANICO, op. cit.708 Cass. Pen., Sez. IV, 10 febbraio 2010, n. 13089, in dejure.giuffre.it

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differenziazione tra “prevedibilità” e “concreta previsione” (quest’ultima necessaria ai fini dell’inquadramento del dolo eventuale), nonché la necessità di evitare affermazioni di dolo in re ipsa in base alla sola considerazione dell’attuazione consapevole di una condotta trasgressiva di regole cautelari. Si afferma, quindi, una distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente basata sul fatto che il primo si manifesti come previsione della concreta possibilità di realizzazione di un evento lesivo – dovendosi avere riguardo all’effettiva previsione, e a nulla rilevando la mera prevedibilità obiettiva –, accompagnata dall’accettazione del rischio di tale realizzazione; mentre la seconda si connoti per una rappresentazione della “semplice” possibilità di realizzazione dell’evento lesivo, accompagnata dalla fiducia nella non verificazione di esso.

Considerazioni analoghe a quelle appena esposte, in ordine alla non sufficienza della mera violazione, per quanto grave e seppur consapevole, di regole cautelari ai fini dell’affermazione della volizione, benché in forma eventuale, dell’evento, sono riproposte ai fini dell’inquadramento della colpa cosciente – con parallela negazione del dolo eventuale – nell’ambito del “caso Lucidi” (supra, Cap. II, par. 4). In primo grado, e con rito abbreviato, l’imputato era stato condannato per omicidio doloso sorretto da dolo eventuale: il GUP, in particolare, aveva ravvisato tale elemento soggettivo (mentre, in sede di procedimento cautelare, il fatto era stato qualificato come omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento) richiamando la teoria dell’accettazione del rischio, e valutando la sussistenza di tale accettazione con riguardo all’evento mortale verificatosi, in considerazione del fatto che l’imputato si fosse posto alla guida di un’autovettura di grossa cilindrata, a velocità superiore ai 90 km/h, procedendo in una zona centrale della capitale e ad un orario caratterizzato da importante traffico pedonale e veicolare, con attraversamento di due incroci consecutivi nonostante il semaforo indicasse, verso la sua direzione, luce rossa; si trattava, secondo il GUP, di una condotta nell’ambito della quale nessuno avrebbe potuto effettuare manovre d’emergenza, ed in considerazione della quale il soggetto agente non poteva non essersi rappresentato il rischio di verificazione di incidenti, anche con esiti letali; la persistenza nella tenuta di tale tipologia di condotta, a fronte della suddetta rappresentazione del rischio di eventi lesivi, veniva valutata come indicativa della componente volitiva, seppur nella sua forma eventuale. Nondimeno, veniva considerato significativo il fatto che l’imputato, dopo la verificazione dell’incidente, avesse tentato di darsi alla fuga: tale aspetto, coordinato con la “folle corsa” precedente, veniva definito come rivelatore di un atteggiamento di “totale noncuranza” per la vita umana709. La sentenza di secondo grado710, d’altra parte, critica negativamente l’impostazione adottata in primo grado, consistente nella valorizzazione della sola gravità della violazione di regole cautelari ai fini dell’induzione alla valutazione della sussistenza dell’elemento volitivo, seppur connotato come “accettazione del rischio”. Inoltre, non viene condivisa l’impostazione – pure essa adottata in primo grado – in base alla quale la “previsione di scongiurare l’evento” doveva essere esclusa in forza

709 La ricostruzione operata dal GUP si ricava dalla sentenza di legittimità sullo stesso caso: Cass. Pen., Sez. IV, 18 febbraio 2010 (deposito 24 marzo 2010), n. 11222, in dejure.giuffre.it

710 Ass. App. Roma, 18 giugno 2009, in dejure.giuffre.it

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dell’irragionevolezza obbiettiva di tale previsione, posto che, ove tale giudizio si effettuasse ex post, allorquando l’evento si fosse verificato, esso si risolverebbe sempre a danno dell’agente, con affermazione in ogni caso del dolo e con esclusione della configurabilità stessa della colpa cosciente; mentre, qualora tale giudizio si effettuasse ex ante, esso potrebbe senz’altro comportare l’affermazione di una colpa generica associata ad una colpa specifica (alla luce dell’effettuazione di una “previsione irragionevole”, in modo tipicamente colposo), ma non potrà comportare il passaggio dalla colpa al dolo. Infine, per quanto concerne l’aspetto della “previsione ed accettazione in concreto” dell’evento, i giudici di secondo grado rilevano che la dinamica stessa dell’incidente, prodottosi in brevi istanti, fosse incompatibile con quel quid di cosciente necessario per l’imputazione a titolo di dolo eventuale: infatti, l’incidente si era caratterizzato per uno scontro fra il veicolo condotto dall’imputato ed un ciclomotore; il ciclomotore si era manifestato improvvisamente alla vista dell’imputato, e fra detto momento improvviso e lo scontro era intercorso un lasso temporale incompatibile con l’effettuazione di una presa di posizione della volontà con riferimento all’evento concreto (lo scontro con il ciclomotore, appunto); e, come sottolineano i giudici, non si potrebbe “far retroagire la collocazione di un tale momento decisionale alla fase antecedente, a quando l’imputato iniziò a superare la teoria dei veicoli fermi al rosso, o, ancor prima, alla, altrettanto scorretta, tenuta di guida antecedente e consistita nel superamento di altro semaforo rosso, perché, in questo caso, si incorrerebbe nella impossibilità di connotare la previsione dell’evento con quella concretezza che, come si è detto, è requisito essenziale perché possa mobilitarsi […] la categoria del dolo eventuale”.

L’esito del procedimento penale sul caso in questione consiste nella conferma, da parte dei giudici di legittimità, dell’impostazione adottata dai giudici di secondo grado711. La motivazione della decisione prospetta una interessante disamina sulle varie teorie che definiscono la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, tra le quali spiccano, in particolare, la valorizzazione delle dicotomie “rappresentazione concreta”/ “rappresentazione astratta” o “semplice” della verificazione dell’evento, ed “accettazione del rischio”/ “sicura fiducia nella non verificazione dell’evento”, ove l’accettazione del rischio dovrebbe indicare una “presa di posizione della volontà” o, quantomeno, uno stato interiore che si avvicini molto ad essa, ed idoneo a manifestare l’elemento volitivo necessario ai fini della sussistenza del dolo; emerge, di conseguenza, la valorizzazione di una distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente basata sul profilo volitivo, posto che la rappresentazione sia elemento comune ad entrambe le categorie. Si evidenzia, inoltre, l’esigenza di non snaturare l’essenza del dolo eventuale, trasformandolo in una “comoda scorciatoia” per presumere un dolo che non si riesca a provare; e, parallelamente, l’esigenza di non dilatare eccessivamente la sfera di applicazione della responsabilità dolosa. Interessante risulta anche il richiamo alla teoria che identifica il dolo eventuale nell’accettazione del rischio effettuata a seguito di una deliberazione con la quale l’agente subordini un bene giuridico rispetto ad un altro; tuttavia, tale impostazione viene solo citata, ma non

711 Cass. Pen., Sez. IV, 18 febbraio 2010 (deposito 24 marzo 2010), n. 11222, in dejure.giuffre.it

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applicata, dato che i giudici di legittimità propendono, poi, per l’accoglimento della teoria dell’accettazione del rischio. Quest’ultima, ad ogni modo, viene meglio specificata, attraverso la valorizzazione della concretezza che dovrebbe caratterizzare l’oggetto di rappresentazione ed “accettazione”: in particolare, si sostiene che il dolo eventuale necessiti della rappresentazione della concreta possibilità di verificazione dell’evento, con conseguente accettazione non già di una mera e generica situazione di pericolo, bensì dell’evento, considerato hic et nunc. Quest’ultima osservazione rappresenta, probabilmente, il dato fondamentale della pronuncia in questione: applicata al caso concreto di cui trattasi, conduce all’esclusione della sussistenza dell’elemento soggettivo doloso in capo all’imputato, in base al rilievo per cui egli avesse percepito “a fulmine” la presenza del ciclomotore con il quale poi si verificò lo scontro, e tale circostanza sarebbe incompatibile con la rappresentazione, nonché con una presa di posizione della volontà (seppur nella forma eventuale), con riguardo all’evento considerato hic et nunc. Un’impostazione di questo genere è astrattamente condivisibile ma, applicata nel modo in cui lo è stata nel caso di specie, appare eccessivamente rigorosa ai fini della configurazione del dolo eventuale nell’ambito dei reati da sinistro stradale: è vero che la percezione improvvisa della presenza del ciclomotore non avrebbe potuto permettere una presa di posizione della volontà con riferimento allo scontro con esso, ma è anche vero che, se si attraversa un incrocio non osservando il rosso, è altrettanto “concreto” che, in quel momento, i veicoli nei confronti dei quali il semaforo segnali luce verde impegnino l’incrocio stesso: qui non si tratta di un discorso di confusione fra “obbiettiva possibilità di rappresentazione” ed “effettiva rappresentazione”; a parere di chi scrive, appare estremamente arduo identificare una tipologia di soggetto che, scegliendo coscientemente di attraversare un incrocio nonostante il semaforo rosso e in un momento di intenso traffico veicolare, potrebbe non rappresentarsi in modo concreto la possibilità di impatto con altri veicoli, eccezion fatta solo per l’incapace di intendere e volere.

Non è neppure condivisibile la valorizzazione delle manifestazioni emotive dell’imputato emerse ex post rispetto all’incidente, quali le espressioni di panico e rammaricata sorpresa: si tratterebbe, infatti, di valorizzazione di stati emotivi o passionali, non meritevole di accoglimento per i rilievi che sono già stati esposti (supra, Cap. II, par. 3). Né appare condivisibile il rilievo per cui il fatto che la condotta dell’imputato creasse pericolo per lui stesso dovrebbe essere inteso come indice a favore dell’esclusione dell’elemento volitivo: un’impostazione di questo genere condurrebbe, infatti, ad escludere il dolo praticamente in ogni ipotesi di sinistro stradale derivante da gravi violazioni al Codice della strada, dato che esse comportano senz’altro un pericolo anche per chi le attui.

Altro dato di particolare evidenza, relativamente al “caso Lucidi”, consiste nel fatto che l’imputato si fosse posto alla guida dell’autovettura nonostante fosse stato privato della patente di guida in quanto assuntore di cocaina e tossicodipendente: tali aspetti, seppur idonei a fondare un elevato grado di rimprovero morale, attengono alla personalità del reo e – come rilevano i giudici di legittimità – non avrebbero inciso direttamente sul decorso causale; del resto – proseguono i giudici, in motivazione –, la legge prevede già un’aggravante per

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lesioni gravi o gravissime, provocate con colpa e tramite guida in stato di alterazione alcolica o da assunzione di stupefacenti o sostanze psicotrope.

Orbene, a parte la nozione di dolo eventuale accolta dalla sentenza di legittimità in esame, in questa sede interessa evidenziare le significative perplessità che una soluzione del genere di quella adottata ha suscitato nell’opinione pubblica e, in particolare, nei soggetti in qualche modo legati alle “vittime della strada”: più precisamente, si avverte un certo allarme sociale destato dalle condotte del tipo di quella adottata dall’imputato nel caso concreto di cui trattasi (conduzione di un veicolo di grossa cilindrata a velocità superiore ai 90 km/h, in una zona centrale di Roma, ad un orario caratterizzato da traffico intenso, sia veicolare che pedonale, e con superamento di vari incroci senza rispetto del semaforo rosso; il tutto nonostante la sospensione della patente di guida a causa dello stato di tossicodipendenza712), e non ci si rassegna a vedere l’imputato stesso punito solamente a titolo di colpa. Il ricorso del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma, avverso la sentenza di secondo grado che aveva già affermato la condanna per colpa cosciente, era sembrato essere portavoce delle suddette istanze sociali713: esso evidenzia che “la norma astratta risponde alle esigenze ed alle pulsioni sociali del momento storico in cui viene posta”, e che “spetta al giudice, soprattutto laddove il legislatore non sia intervenuto sollecitamente, il delicato compito di modularla via via per adattarla all’incessante mutare del vivere civile”; si aggiunge, quindi, che il “tipico esempio della sensibilità evolutiva della Corte di Cassazione è costituito dal dolo eventuale”; prosegue, dunque, osservando che “la trasformazione della società impone una correlata e adeguata interpretazione della norma che disciplina il delitto di omicidio volontario con dolo eventuale nel corso della circolazione stradale”, non senza rilevare che “la tendenza alla deresponsabilizzazione in colposa della criminalità omicidiaria stradale ha costituito, sinora, un dato consolidato sia nella giurisprudenza sia nelle scelte legislative”; viene, altresì, valutata positivamente la statuizione, nel procedimento penale di riferimento, del giudice di primo grado, il quale, “con una pronuncia improntata ad elevatissima sensibilità sociale, aveva avuto il coraggio di tracciare un nuovo percorso interpretativo, che la Corte di Assise d’Appello ha ritenuto di cancellare”. Il ricorso conclude, in punto di diritto, deducendo vizio di motivazione della sentenza di secondo grado, laddove l’elemento soggettivo sarebbe stato identificato in base ad una valutazione del “pensiero manifestato dall’imputato” successivamente rispetto al fatto, e non in forza dell’analisi della rappresentazione dell’evento e dell’accettazione del corrispettivo rischio, alla luce delle risultanze probatorie derivanti dai testimoni e dalle stesse dichiarazioni dell’imputato, nonché in considerazione del principio dell’id quod plerumque accidit. Ne seguiva, peraltro, un’esortazione alla Corte di Cassazione, affinché essa ponesse “ il suo innovativo sigillo alla sentenza del primo giudice, travolgendo il modello giovanile di esaltazione della cultura della morte e riaffermando il principio di sacralità della vita”: esortazione che, come si è visto, non è stata accolta.

712 La ricostruzione del fatto si ricava dalla stessa sentenza di legittimità sul caso in questione.

713 Si riportano, di seguito, gli estratti del ricorso del Procuratore della Repubblica citati in Cass. Pen., Sez. IV, 18 febbraio 2010, n. 11222, in dejure.giuffre.it).

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L’analisi del ricorso del Procuratore Generale permette senz’altro di cogliere osservazioni socialmente condivisibili; si tratta, tuttavia, di osservazioni che esulano, in gran parte, da una sfera strettamente giuridica, per sforare in ambiti “sociologici” o “metagiuridici”: ciò è rilevato, effettivamente, dai giudici di legittimità, con riguardo ai riferimenti al “modello giovanile di esaltazione della cultura della morte”. Inoltre, la Suprema Corte evidenzia che lo stesso ricorso ammetta che l’affermazione del dolo eventuale nel caso di specie costituirebbe un “innovativo sigillo”: in tal modo, sostanzialmente, si ammette il carattere consolidato dell’orientamento opposto, per un mutamento del quale, a parere dei giudici di legittimità, non si ravvisano i fondamenti. Del resto, la motivazione della sentenza in questione osserva che, in ogni caso, l’“innovazione” dovrebbe svolgersi comunque entro il rispetto del principio di legalità, ed entro la più ampia cornice di garanzie indicata dall’art. 27 Cost.; nondimeno, non si tratterebbe di porre in discussione il “principio di sacralità della vita”, anche esso di rilevanza costituzionale, bensì di effettuare le opportune commisurazioni di pena ai fini di tutela del bene “vita”, sempre entro il rispetto del principio di legalità714.

I casi sin qui analizzati (rispettivamente, il “caso Lucidi” e il “caso Bodac”) sono emblematici ai fini dello studio dell’orientamento che ha dominato sino ad ora in giurisprudenza, con riguardo ai reati provocati tramite sinistri stradali: ovvero, costante applicazione della categoria della colpa cosciente da parte dei giudici di legittimità, in luogo del dolo eventuale; al più, possono rilevarsi “azzardi” di affermazione del dolo eventuale da parte dei giudici di merito (come è avvenuto per il “caso Lucidi”), che però vengono ribaltati in secondo grado ovvero in sede di giudizio di legittimità.

È degno di nota un ulteriore caso, piuttosto recente, in cui è stato affermato il dolo eventuale in primo grado715: si tratta di un soggetto che, conducendo un’autovettura di notte, ad elevata velocità, su strada cittadina e sprovvisto di patente di guida, aveva investito un pedone che attraversava sulle strisce pedonali; l’automobilista, dopo l’impatto, aveva effettuato manovre plurime per liberarsi del corpo del pedone rimasto aggrappato al cofano, infine riuscendovi e provocandone la morte. È evidente, tuttavia, che ci si trova di fronte ad un caso concreto in cui le modalità della condotta sono dotate di una rilevante pregnanza e di una dinamica peculiare, dalla quale potrebbe – in questo caso sì – essere fondato dedurre la sussistenza di un elemento volitivo, seppur in forma eventuale: si ha, infatti, una prima fase della condotta, caratterizzata da un atteggiamento propriamente colposo (gravi violazioni di regole cautelari), seguita da una seconda fase, connotata per un atteggiamento intenzionale, volto a far sì che il corpo della vittima si distaccasse dal cofano dell’autovettura716; questa seconda fase potrebbe fondatamente dirsi sorretta da un atteggiamento di disposizione a provocare la morte della vittima, pur non essendo tale evento direttamente voluto.

714 Cass. Pen., Sez. IV, 18 febbraio 2010 (deposito 24 marzo 2010), n. 11222, in dejure.giuffre.it

715 Corte Ass. Milano, 16 luglio 2009, in Foro it., 2010, I, 35. 716 Tale ricostruzione è evidenziata, oltre che dalla sentenza di merito di cui trattasi, anche

da G. RICCARDI, Reati alla guida. Percorsi giurisprudenziali, Milano, Giuffrè, 2010, 205.

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Da notare, però, che non sempre l’alternativa si pone fra dolo eventuale e colpa cosciente: infatti, talvolta, la “guida spericolata” è stata valutata come indicativa di un atteggiamento di “totale noncuranza” nei confronti di beni giuridici e sorretta, dunque, da una colpa incosciente, seppur da valutare come “colpa grave” per “difetto di percezione sociale di propri atti”717. Il dato costante resta, comunque, la non affermazione del dolo eventuale.

Preso atto di quello che è stato l’orientamento dominante nell’ultimo ventennio, va precisato che, recentemente, vi è stata una pronuncia dei giudici di legittimità718 la quale potrebbe segnare una “svolta storica”, attraverso un duplice ordine di aspetti: da un lato, l’affermazione del dolo eventuale per reati da sinistro stradale con gravi violazioni al Codice della strada; dall’altro, l’inquadramento di tale tipologia di elemento soggettivo non più attraverso la teoria dell’accettazione del rischio, bensì in base alla teoria che individua il dolo eventuale nell’accettazione del rischio effettuata tramite una deliberazione con la quale l’agente subordini un bene giuridico rispetto ad un altro. Su tale sentenza e sugli aspetti rilevanti dell’assetto teorico da essa delineato ci si è già soffermati ampiamente (supra, Cap. II, par. 8). Quello che, a questo punto, preme evidenziare, è la netta contraddizione di alcune conclusioni a cui essa è giunta rispetto alla precedente pronuncia di legittimità sul “caso Lucidi”: in quest’ultima, come si è osservato, era stato escludo il dolo eventuale principalmente sul rilievo del fatto che l’imputato non avrebbe potuto percepire ed accettare la realizzazione dell’evento hic et nunc considerato, in quanto il ciclomotore con il quale l’autovettura condotta dall’imputato si scontrò si era manifestato “a fulmine” sulla traiettoria; la prima, invece, con riferimento ad una situazione apparentemente identica (superamento ad elevata velocità di incrocio con semaforo rosso, e successivo scontro con un’autovettura che impegnava l’incrocio), afferma la sussistenza del dolo eventuale, ribaltando l’impostazione adottata dai giudici di secondo grado che, invece, si erano linearmente attenuti all’assetto tracciato dalla Suprema Corte con riferimento al “caso Lucidi”. Altro aspetto che potrebbe destare qualche perplessità consiste nel fatto, quasi paradossale, per cui precedentemente, tramite l’utilizzo del criterio dell’“accettazione del rischio”, non venisse mai affermato il dolo eventuale, mentre la sentenza di cui trattasi, proponendo un criterio che definisce il dolo eventuale in modo più rigoroso e restrittivo, lo afferma: in effetti, definire il dolo eventuale come “accettazione del rischio” effettuata tramite una “deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro” significa richiedere un quid pluris rispetto alla sola “accettazione del rischio”; di conseguenza, si prospetta una nozione di “dolo eventuale” che dovrebbe essere, logicamente, più restrittiva, non essendo sufficiente la sola “accettazione del rischio” (caratteristica anche della colpa cosciente) ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo in discorso, ed essendo necessario, invece, che tale accettazione venga effettuata alla luce di una particolare modalità psicologica. A parere di chi scrive, tale “paradosso” non depone a sfavore della “nuova” teoria adottata, bensì mette in luce l’inadeguatezza della teoria precedentemente applicata, ovvero quella dell’“accettazione del rischio”:

717 Trib. Milano, 21 novembre 2008, n. 2118, in dejure.giuffre.it718 Cass. Pen., Sez. I, 1 febbraio 2011 (deposito 15 marzo 2011), n. 10411, in

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il fatto che tramite quest’ultima non si riuscisse ad inquadrare coerentemente il dolo eventuale, mentre ciò sia possibile tramite la prima (benché essa sia, astrattamente, più restrittiva nell’identificazione del dolo eventuale), palesa in modo lampante il carattere non esaustivo del criterio tradizionalmente applicato fino ad ora nella giurisprudenza; più precisamente, il fatto che, tramite il solo concetto di “accettazione del rischio”, non si riuscisse ad individuare una presa di posizione della volontà, seppur in forma eventuale, dovrebbe indurre a valutare che tale presa di posizione non possa consistere, appunto, nella sola “accettazione del rischio”.

L’innovativa sentenza citata è stata, con parole molto forti, definita come “una sentenza importante e di civiltà giuridica, che supera ed azzera lo stato di apatica routine e di arcaica concettualità giuridica con il quale fino ad oggi sono state affrontate le stragi sulle strade, ormai seriali e frequenti”, come “un guizzo di coraggio istituzionale che adegua la norma ai tempi ed alla realtà concreta delle cose quotidiane, uscendo fuori dagli standardizzati ad asettici cliché di lettura ed applicazione della norma che molti fino ad oggi hanno seguito nell’individuare la colpa (e cioè una mera ‘imprudenza’ o ‘negligenza’) nell’azione di chi, volontariamente e sapendo bene quello che sta facendo ed a cosa lo porterà quello che sta facendo, si droga e/o si ubriaca (o tutte e due le cose insieme…) e poi si mette a guidare a velocità impensabili in pieno centro cittadino”719. Si tratta di osservazioni molto critiche nei confronti della giurisprudenza antecedente, le quali indubbiamente pongono in rilievo l’allarme sociale provocato da condotte del tipo indicato e l’esigenza di adeguati metodi di corrispettiva tutela: il che, però, non dovrebbe significare utilizzare la figura del dolo eventuale a titolo puramente repressivo; non bisogna, cioè, incorrere nella tendenza opposta rispetto a quella adottata fin’ora, ovvero ritenere sempre ed a priori sussistente il dolo eventuale in contesti di questo genere. La sentenza in esame, a parere di chi scrive, prospetta un criterio che può, effettivamente, essere idoneo a coerenti applicazioni del dolo eventuale, laddove si ravvisi il consenso alla realizzazione dell’evento attraverso una deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro: tale deliberazione, come si è osservato, permette di inquadrare una vera e propria presa di posizione della volontà, adeguata a fondare il dolo e, conseguentemente, il maggior trattamento sanzionatorio, ovvero la soglia della punibilità, se si tratta di reati non punibili per colpa (ma, nelle ipotesi di reati da sinistro stradale, si tratta quasi sempre di omicidio o lesioni, punibili a titolo di colpa).

2 . Contagio da HIV e responsabilità dell’AIDS carrier

I casi di contagio da HIV tramite rapporto sessuale non protetto e/o senza informazione del partner costituiscono un ulteriore ambito interessante ai fini dello sviluppo della dogmatica inerente l’elemento soggettivo, resa ancor più complessa, in questo frangente, dalla necessità di contemperare diversi interessi giuridicamente rilevanti: da un lato, il diritto alla salute tutelato dall’art.

719 M. SANTOLOCI, La Suprema Corte finalmente riconosce il dolo eventuale per i killer al volante, in www.dirittoambiente.net

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32 Cost.; dall’altro, il diritto all’autodeterminazione del singolo, nonché il diritto alla privacy ed alla riservatezza in capo al soggetto sieropositivo. In altri termini, si pone la problematica dell’individuare l’equo contemperamento fra diritti del sieropositivo e diritto alla salute del partner sano, posto altresì che il principio generale del neminem laedere dovrebbe comportare che il diritto penale debba esigere, dal soggetto sieropositivo consapevole del proprio stato, l’adozione delle cautele necessarie ai fini della neutralizzazione del pericolo720.

È ormai una conoscenza quasi generalizzata il fatto che il rapporto sessuale non protetto sia una modalità di potenziale trasmissione del virus HIV; ed è altrettanto chiaro che l’eventuale trasmissione comporti una lesione del diritto alla salute per il soggetto precedentemente sano: sicché il rapporto sessuale non protetto, praticato dal soggetto sieropositivo e consapevole del proprio stato, costituisce sicuramente una tipologia di condotta la quale è catalogata come intollerabile dall’ordinamento; e lo è anche qualora si tratti di un rapporto singolo, nonostante la percentuale di rischio di contagio insita, appunto, nel rapporto singolo e non protetto si aggiri fra lo 0,1% e l’1 % (in misura comunque variabile in base a diversi fattori, quali tipologia del rapporto, presenza di microlesioni o infezioni genitali, presenza di altre malattie sessualmente trasmesse, tasso di viremia e sesso del partner infetto)721. È stato giustamente evidenziato che la dottrina (in particolare quella d’oltralpe) giustifichi la considerazione del singolo rapporto sessuale non protetto come “rischio intollerabile” sulla base degli effetti sociali che avrebbe la liberalizzazione dello stesso singolo rapporto non protetto: ciò che renderebbe “intollerabile” il rischio sarebbe la sommatoria dei rischi connessi al singolo rapporto722.

Qualora il virus HIV venga effettivamente trasmesso, in genere si verifica un periodo di incubazione di durata variabile tra i 5 ed i 10 anni, a seguito del quale si manifesta lo sviluppo dell’Aids conclamata: e questa ha, come conseguenza quasi certa, la morte del soggetto infetto723. In base a tali considerazioni, è fondato definire la pratica del rapporto sessuale non protetto, posta in essere dal soggetto sieropositivo e consapevole del proprio stato, come condotta non solo potenzialmente lesiva dell’integrità fisica ma, nello specifico, come idonea ad avviare un decorso causale che, alla luce dell’attuale contesto medico – scientifico, conduce con “quasi certezza” alla morte del soggetto contagiato.

Del resto, il rapporto sessuale protetto riduce il rischio, ma non lo azzera (pur rendendolo comunque, in linea di massima, prossimo allo 0%): si tratta, dunque, di stabilire quali siano le condizioni idonee a rendere il rischio in questione “consentito”724; occorre, altresì, valutare se l’obbligo di adozione di precauzioni sorga alla luce del mero sospetto, da parte del soggetto agente, di essere sieropositivo, o se, invece, esso sorga solamente a seguito dell’esito

720 K. SUMMERER, Contagio sessuale da virus HIV e responsabilità penale dell’AIDS – carrier, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 1, 305 e nota (3).

721 K. SUMMERER, op. cit., 307 e nota (11). 722 Queste le considerazioni di K. SUMMERER, op. cit., 307 e nota (13).723 K. SUMMERER, op. cit., 307. 724 K. SUMMERER, op. cit., 308 e nota (16).

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positivo del test apposito; infine, si dovrà specificare se il soggetto sieropositivo sia chiamato comunque a rispondere o meno dell’eventuale trasmissione del virus al partner, qualora tale trasmissione si verifichi nonostante l’adozione, da parte del primo, delle opportune misure cautelari725. In aggiunta rispetto a quel che attiene, propriamente, alla neutralizzazione (o, meglio, riduzione) del rischio di contagio, ci si dovrebbe porre un ulteriore interrogativo: se, qualora il soggetto sieropositivo adotti le adeguate protezioni, sussista o meno un obbligo giuridico di informazione del partner. Il tutto, comunque, in un’ottica di definizione della dogmatica penale inerente la responsabilità in questi frangenti, la quale dovrebbe sempre prescindere da valutazioni di carattere meramente morale, ed evitare di condurre ad un utilizzo distorto delle figure del tentativo e del reato di pericolo, sulla base di una deformazione dei confini fra dolo e colpa, già di per sé labili726.

La risposta ai suddetti interrogativi, ovviamente, è essenziale, per quel che qui interessa maggiormente, allo studio dell’elemento soggettivo in ipotesi di contagio da virus HIV mediante rapporto sessuale non protetto e da parte di soggetto sieropositivo consapevole del proprio stato: nella maggior parte dei casi, infatti, il problema riguarderà l’alternativa fra dolo eventuale e colpa cosciente727, posto che i casi di dolo intenzionale o dolo diretto sono piuttosto esigui728 (seppur non inesistenti: si pensi, ad esempio, al caso del soggetto sieropositivo che, proprio con l’intenzione di contagiare, emetta volontariamente dal cavo orale saliva mista a sangue in direzione di parti sensibili del corpo della prefigurata vittima729).

In merito alle modalità di riduzione del rischio, le quali possano rendere l’attività sessuale praticata dal soggetto sieropositivo consapevole del proprio stato un’attività a “rischio consentito”, le posizioni dottrinali principali sono le seguenti: da parte di alcuni Autori, sono ritenute sufficienti, alternativamente, l’adozione del condom o l’informazione del partner; da parte di altri, si ritengono necessarie entrambe730.

In base alla prima posizione citata, dunque, il soggetto infetto da virus HIV e consapevole del proprio status renderebbe la propria attività sessuale rientrante nel “rischio consentito” qualora, alternativamente, adotti il condom, ovvero informi il partner: la sola prima opzione sarebbe, di per sé, sufficiente a rendere “consentito” il rischio, seppur in mancanza di informazione del partner731; allo stesso modo, dovrebbe essere sufficiente, al medesimo fine, la

725 K. SUMMERER, op. cit., 308.726 A. CASTALDO, AIDS e diritto penale: tra dommatica e politica criminale, in Studi

Urbinati, 1988 – 89/1989 – 90, 7; K. SUMMERER, op. cit., 304. 727 Tale connessione fra casi di contagio da HIV tramite rapporto sessuale non protetto e

dibattito sulla distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente è evidenziata anche da C. BRUNELLI, L’elemento soggettivo nei delitti contro la persona commessi da persona malata di HIV/AIDS, in www.diritto.it

728 K. SUMMERER, op. cit., 312.729 L. VIOLA, Dolo eventuale e colpa cosciente, con particolare riferimento al contagio da

virus HIV in caso di rapporto sessuale non protetto, in www.overlex.com 730 K. SUMMERER, op. cit., 309. 731 È questa l’impostazione accolta, tra l’altro, da K. SUMMERER, op. cit., 309 e nota (23).

L’Autore, tuttavia, specifica che l’adozione di tale posizione non significhi escludere l’esistenza di un obbligo “morale” di informazione del partner, accennando al fatto che le riflessioni in

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sola seconda opzione (informazione del partner), alternativamente all’adozione del condom; si sostiene, in sintesi, che al soggetto sieropositivo debba essere concesso un certo margine di scelta fra comportamenti alternativi ed idonei a ricondurre l’attività sessuale da egli praticata nella sfera del “rischio consentito”, escludendo senz’altro la configurabilità di un dovere di astensione totale dall’attività sessuale per il soggetto infetto da HIV e consapevole di tale stato732.

La seconda posizione citata, del resto, appare indubbiamente come più rigorosa, richiedendo che il soggetto sieropositivo e consapevole del proprio stato debba sia adottare idonee misure di contenimento del rischio di contagio, sia informare il partner del proprio stato di sieropositività.

Entrambe le posizioni, a parere di chi scrive, manifestano dei punti critici. La prima ritiene sufficiente la sola informazione del partner, alternativamente all’adozione del condom, ma si tratta di un aspetto che non contribuisce in misura drastica alla riduzione del rischio (perlomeno non quanto l’adozione del condom, appunto, la quale riduce la percentuale di rischio a termini prossimi allo 0%); al più, dando per ipotesi la scelta di mancata adozione del condom con previa informazione del partner, tale informazione potrebbe contribuire a ridurre oggettivamente il rischio di contagio qualora sussistano fattori idonei ad incidere sulla misura del rischio e che siano a conoscenza del solo partner sano (per esempio, presenza di microlesioni o infezioni genitali nel partner sano, o presenza di altre malattie sessualmente trasmissibili). Per esempio, il partner non sieropositivo, se informato dello stato di sieropositività dell’altro, essendo consapevole di avere microlesioni genitali, potrebbe optare per l’astensione dal rapporto non protetto, cosa che non avrebbe fatto se avesse ritenuto l’altro partner sano: tuttavia, in questi casi, la “riduzione del rischio” si avrebbe, oggettivamente, con l’astensione dal rapporto non protetto, sicché non potrebbe parlarsi propriamente di “riduzione del rischio” connessa al rapporto. Il tutto tralasciando il discorso inerente il consenso dell’avente diritto: il contagio da HIV produce una lesione permanente all’integrità fisica e, dunque, attinge un bene giuridico indisponibile, per il quale la scriminante in parola non opera733. In

materia possano complicarsi ulteriormente qualora si considerino le stabili relazioni di coppia o il contesto del matrimonio: casi nei quali alcuni esponenti della dottrina, in forza del rapporto di fiducia intercorrente fra i soggetti coinvolti, ritengono sussistente comunque un obbligo di informazione del partner.

732 K. SUMMERER, op. cit., 330.733 Sui limiti di operatività del consenso dell’avente diritto, G. FIANDACA – E. MUSCO, op.

cit., 261 – 264. Risultano interessanti anche le considerazioni effettuate da K. SUMMERER, op. cit., 327 – 328, che evidenzia la distinzione fra “autoesposizione a pericolo” ed “esposizione a pericolo di terzo con il suo consenso”: la prima si avrebbe nel caso in cui il soggetto intraprenda autonomamente una condotta per sé stesso pericolosa, oppure si esponga ad una preesistente situazione di pericolo; la seconda si avrebbe nel caso in cui il soggetto si esponga consapevolmente ad un pericolo provocato da un altro soggetto, il quale detenga il controllo di detto pericolo; si tratta, insomma, di una distinzione basata sull’identificazione del soggetto che detenga il controllo degli accadimenti. Si evidenzia, quindi, che, nel caso del rapporto sessuale non protetto, dovendosi individuare quale, fra i soggetti coinvolti, detenga il controllo, non si debba incorrere nell’errore di individuare necessariamente tale soggetto in quello infetto, posto che il “pericolo” è dato dal “rapporto sessuale non protetto”, e non dalla mera “contagiosità”: il che dovrebbe essere utile a non accollare necessariamente all’infetto conseguenze lesive dovute non già esclusivamente alla sua condotta, bensì all’atteggiamento “autolesionista” della vittima. Si precisa, inoltre, che il consenso ad un rapporto occasionale non protetto, in considerazione della scarsa probabilità di contagio nel singolo rapporto, possa equivalere ad un

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giurisprudenza, peraltro, è stata chiaramente specificata l’irrilevanza del consenso dell’avente diritto proprio con riguardo ad ipotesi di contagio da HIV da rapporto sessuale reiterato e non protetto: si afferma, infatti, che, ai fini della configurabilità del reato di lesioni gravissime, sia “del tutto irrilevante […] l’eventuale consenso della vittima”, essendo “la operatività della esimente di cui all’art. 50 c.p. […] esclusa” in caso di lesioni di diritti indisponibili, “quali sono le lesioni produttive di una diminuzione permanente della integrità fisica a fini non terapeutici”; si afferma, dunque, che la sussistenza o meno del consenso potrebbe rilevare solo ai fini della valutazione della gravità della condotta, nonché ai fini della concessione di eventuali circostanze attenuanti, ma non ai fini del giudizio inerente l’antigiuridicità della condotta e, dunque, l’esistenza del reato734.

La seconda impostazione, del resto, appare eccessivamente rigorosa nel richiedere che il soggetto sieropositivo, pur adottando misure idonee a ridurre il rischio a termini prossimi allo 0%, debba necessariamente esporre aspetti attinenti il proprio stato di salute e, dunque, la sfera della propria riservatezza.

In base alle osservazioni appena elaborate, si dovrebbe coerentemente concludere – a parere di chi scrive – che l’unica modalità esigibile, attraverso la quale la pratica del rapporto sessuale da parte del soggetto sieropositivo e consapevole del proprio stato possa restare nella sfera del rischio consentito, sia l’adozione del condom: essa sarebbe, ai fini dell’azione all’interno del “rischio consentito”, condizione necessaria e sufficiente; del resto, non dovrebbe essere necessaria, previa l’adozione del condom, l’informazione del partner; né tale informazione potrebbe essere sufficiente, in caso di mancata adozione del condom, ad instaurare una sfera di “rischio consentito”.

Sin qui si è fatto riferimento al presupposto per il quale, ai fini del sorgere degli obblighi di adozione del condom o informazione del partner, il soggetto sieropositivo debba essere “consapevole del proprio stato”. Si tratta, a questo punto, di specificare quando, effettivamente, tale “consapevolezza” possa dirsi sussistente: se l’alternativa si pone fra la rilevanza del mero stato di “sospetto” e la “consapevolezza” in base all’esito positivo dell’apposito test, appare maggiormente condivisibile sostenere che solo in questa seconda ipotesi il soggetto possa dirsi “consapevole dello stato di sieropositività” e, di conseguenza, gravato dall’obbligo di adozione di idonee misure di riduzione del rischio connesso alla pratica del rapporto sessuale735.

Un ultimo punto che – prima di passare all’analisi dei casi concreti – merita approfondimento è dato dalla valutazione se l’adozione del condom possa essere effettivamente sufficiente a costituire un effetto scriminante: la risposta dovrebbe essere affermativa in quanto, se così non fosse, si ricadrebbe nel controproducente risultato di rendere inefficaci le campagne di informazione le quali promuovono, appunto, l’adozione del condom; in particolare, se l’adozione del condom non comportasse efficacia scriminante, i soggetti infetti potrebbero essere indotti a rinunciare a priori all’utilizzo di tale metodo precauzionale, essendo essi nella consapevolezza di correre

consenso al rischio di contagio o morte, ma non certo agli eventi “contagio” o “morte” (ivi, 329). 734 Trib. Savona, 6 dicembre 2007, in www.altalex.com 735 Questa è la posizione accolta dalla dottrina maggioritaria, come evidenzia K.

SUMMERER, op. cit., 308.

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comunque il rischio di rispondere degli eventuali esiti lesivi che siano in rapporto materialmente causale rispetto alla condotta consistente nel rapporto sessuale736. Tali considerazioni risultano, altresì, a supporto delle conclusioni esposte precedentemente, per le quali l’adozione del condom dovrebbe essere condizione sufficiente (oltre che necessaria) a ricondurre nella sfera del “rischio consentito” la pratica di rapporti sessuali da parte del soggetto sieropositivo e consapevole del proprio stato: si è rilevato che, in effetti, la dottrina e la giurisprudenza dominanti depongano in tal senso737.

Poste tali premesse di carattere generale, è possibile passare ad una precisa analisi dei casi concreti nei quali si è posto il problema dell’identificazione dell’elemento soggettivo per i reati di lesioni o omicidio come conseguenza di contagio da virus HIV da parte di soggetto sieropositivo e consapevole del proprio stato. La prima sentenza che, in Italia, si è occupata specificamente della questione in discorso risale al 1999738: si tratta di una pronuncia ove i giudici di merito di primo grado riconoscono la responsabilità per omicidio sorretto da dolo eventuale in capo all’imputato che, sieropositivo e consapevole della propria sieropositività, nonché essendo stato informato circa le modalità di trasmissione del virus HIV, avesse intrattenuto ripetuti rapporti sessuali non protetti con il partner non informato; rapporti i quali, in base alla ricostruzione evincibile dal quadro probatorio complessivo, avevano costituito il presupposto causale non solo della trasmissione del virus HIV, bensì anche della morte della vittima del contagio. Gli aspetti maggiormente significativi del fatto e, in particolare, del comportamento tenuto dall’imputato nel caso di specie, sono i seguenti: l’intrattenimento di rapporti sessuali non protetti con consapevolezza del proprio stato di sieropositività e delle modalità di trasmissione del virus; il carattere reiterato di tali rapporti (nel corso di una relazione decennale); la mancata informazione del partner (e, successivamente, coniuge); la circostanza che l’imputato avesse fatto di tutto affinché il partner/ coniuge non venisse a conoscenza del suo stato di sieropositività, adoperandosi in tal senso attivamente e ripetutamente.

Una prima questione che, in considerazione del caso in esame, merita di essere trattata, è quella relativa al nesso causale fra contagio e morte: i giudici di primo grado, nello specifico, rilevano che debba considerarsi “causale”

736 K. SUMMERER, op. cit., 308 – 309. 737 Nell’ambito della dottrina italiana si rivelano concordi S. CANESTRARI, La rilevanza del

rapporto sessuale non protetto dell’infetto HIV nell’orientamento del BGH, in Foro it., 1991, IV, 152; L. CORNACCHIA, Profili di responsabilità per contagio da virus HIV, in AA. VV., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Bologna, Monduzzi, 1998, 320; A. CASTALDO, AIDS e diritto penale, 118.

738 Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 1, 299. Sul fatto che si tratti del “primo caso” giurisprudenziale in Italia ad occuparsi della questione inerente la punibilità e l’elemento soggettivo in ipotesi di contagio da HIV tramite rapporto sessuale non protetto, si esprime in tal senso K. SUMMERER, op. cit., 303. In realtà, sembra essere antecedente il caso sul quale si è pronunciato Trib. Ravenna, 3 maggio 1999, in Supp. Rass. med. leg. prev., 2000, 23: si tratta, tuttavia, di una ipotesi in cui il giudice di merito ravvisò addirittura il dolo diretto, per tentate lesioni personali aggravate, in capo alla prostituta sieropositiva che, pur essendo consapevole del proprio stato, volutamente intratteneva rapporti non protetti con i propri clienti, manifestando una sorta di atteggiamento di rivalsa nei confronti della categoria di persone fra le quali vi era quella che le avesse trasmesso il virus (da ciò, appunto, si ritenne sussistente il dolo diretto).

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qualsiasi fattore che sia risultato determinante ai fini dell’evento concretamente verificatosi, e considerato hic et nunc; in base a tale assunto, la condotta consistente nella tenuta di reiterati rapporti sessuali non protetti dovrebbe a ragione considerarsi “causale” non solo rispetto al contagio, bensì proprio rispetto all’evento “morte”, stante il fatto, scientificamente comprovato, che la reiterazione dei rapporti non protetti a seguito del primo contagio da HIV comporti un’accelerazione della degenerazione negativa della malattia. D’altra parte – osservano i giudici di primo grado – anche la mancata informazione del partner si porrebbe come fattore (almeno in parte) causale rispetto all’evento “morte” hic et nunc considerato, dato che l’eventuale informazione del partner avrebbe potuto far sì che questi usufruisse di trattamenti terapeutici in grado quantomeno di ritardare o contrastare il decorso della malattia; non si sarebbe neppure potuto escludere che l’imputato non fosse a conoscenza di tale possibilità, dato che egli stesso, al tempo del processo, se ne stava avvalendo739. Si è giustamente evidenziato che i giudici di merito abbiano, in pratica, “saltato” la fase “intermedia” della identificazione del reato di lesioni, approdando direttamente all’affermazione del reato di omicidio740.

Quanto, nello specifico, all’indagine sull’elemento psicologico, nell’ottica di individuazione del dolo è necessario, anzitutto, verificare la sussistenza del requisito della rappresentazione: i giudici di primo grado, nel caso di specie, ravvisano tale sussistenza, principalmente in base alle dichiarazioni rilasciate dallo stesso imputato, il quale aveva affermato di essere perfettamente a conoscenza del rischio di contagio connesso alla tenuta di rapporti sessuali non protetti, nonché di essere stato informato dai medici della necessità di utilizzo del profilattico ai fini della riduzione di detto rischio. Del resto, si osserva che, comunque, già all’epoca dei fatti in esame, le nozioni concernenti i rischi di contagio da HIV e le relative modalità di prevenzione rientravano nel patrimonio conoscitivo comune: e, a maggior ragione, sarebbero dovute rientrare nel patrimonio conoscitivo del soggetto sieropositivo, direttamente interessato741.

Appurata la sussistenza dell’elemento intellettivo si tratta di passare, ai fini dell’inquadramento del dolo, all’individuazione dell’elemento volitivo: orbene, la ricostruzione operata dai giudici di primo grado sembra, inizialmente, prestarsi ad aderire alla teoria che individua l’elemento volitivo caratteristico del dolo eventuale nella deliberazione tramite la quale l’agente subordini un bene giuridico rispetto ad un altro; più precisamente, si osserva che se l’imputato, nonostante la consapevolezza del rischio di contagio connesso ai rapporti sessuali non protetti, “ha accettato, ha scelto di continuare ad avere rapporti non protetti con il coniuge, pur di non rivelargli la malattia dalla quale era affetto e, per giunta, facendo di tutto perché anche i familiari a conoscenza del suo stato di salute non lo rivelassero, indubbiamente si configura una condotta accompagnata dall’accettazione piena e completa del rischio di verificazione dell’evento lesivo”742. In base a tali osservazioni, potrebbe individuarsi, effettivamente, una condotta caratterizzata dal perseguimento intenzionale di un fine principale – ovvero, nel caso di specie, il “non rivelare al coniuge la

739 Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 1, 299 – 300.740 K. SUMMERER, op. cit., 306.741 Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 1, 301.742 Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 1, 302.

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propria malattia” – nella quale si inserisce la prospettazione, a livello intellettivo, della possibilità/probabilità di realizzazione, tramite detta condotta, di un evento collaterale non intenzionalmente perseguito – ossia, il “contagio”, con conseguente “morte” del coniuge: nell’ambito di tale assetto, è possibile inquadrare una scelta di persistere nella tenuta della condotta descritta, una mancata desistenza anche “di fronte all’agghiacciante prospettiva di trasmettere la malattia” non solo alla moglie, ma anche “al figlio che la moglie desiderava ardentemente”743; scelta, questa, che potrebbe configurarsi come subordinazione di un bene giuridico (la vita del coniuge) rispetto ad un altro (il proprio interesse, ovvero non rivelare alla moglie il proprio stato di sieropositività).

Tuttavia i giudici, in motivazione della sentenza, non propendono espressamente per la suddetta teoria, bensì accolgono la teoria del consenso, sostenendo che l’imputato si fosse rappresentato seriamente le probabili conseguenze lesive della propria condotta e, ciononostante, avesse scelto di agire comunque, propendendo a favore della lesione del bene giuridico e, quindi, a favore dell’evento “morte”, e non solo a favore del “contagio”, posto che, allo stato attuale, non esistono trattamenti specifici in grado di debellare completamente il virus HIV, e che il decorso quasi certo della malattia conduce alla morte del soggetto infetto744.

È anche vero, tuttavia, che l’effettuazione di una “scelta a favore della lesione del bene giuridico”, laddove si connota come “inclusione”, “messa in conto” nel proprio piano della possibile realizzazione di un determinato fatto lesivo, senza che tale prospettiva distolga l’agente dall’azione, si ha indubbiamente una scelta fra modelli comportamentali alternativi e, quindi, una decisione di subordinazione di un interesse rispetto ad un altro745. Come si è già sostenuto, la teoria della “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico” e la teoria che sostiene la rilevanza della “deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro” dovrebbero, in realtà, esprimere la stessa valenza sostanziale, dato che “decidere a favore della possibile lesione di un bene giuridico”, se detta lesione non è intenzionalmente perseguita, ma è prevista come collaterale ed accessoria rispetto alla tenuta della condotta funzionale al perseguimento intenzionale del fine principale, significa necessariamente subordinare il bene giuridico esposto alla lesione rispetto ad un altro (cioè, l’interesse intenzionalmente perseguito).

Con riguardo alla configurazione “diretta” del reato di omicidio è stato osservato, inoltre, che, qualora si riconoscesse come reato il solo contagio (attraverso il reato di lesioni), emergerebbe una palese contraddizione alla luce del non riconoscimento dell’omicidio, essendo la stessa condotta a provocare prima il contagio e successivamente, in modo quasi inevitabile, la morte: si rileva che gli studi scientifici prospettino percentuali di probabilità di sviluppo, a seguito di contagio da HIV, dell’Aids conclamata le quali oscillano fra il 50% ed addirittura il 100%; peraltro, come si è detto, attualmente non esistono trattamenti o modalità terapeutiche in grado di debellare completamente il

743 Cit. Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 1, 302.744 Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 1, 303.745 A favore di una ricostruzione di questo tipo sembra essere K. SUMMERER, op. cit., 320

e nota (64).

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decorso del male, per cui l’evento “morte” appare come conseguenza quasi certa del contagio746; né varrebbe ad escludere la sussistenza del nesso causale, e della responsabilità dell’agente per omicidio, il fatto che, tra il rapporto sessuale il quale abbia provocato il contagio e l’evento “morte”, intercorra un significativo arco temporale, dato che l’ordinamento non fornisce alcuna indicazione in tal senso747.

La sentenza di primo grado di cui si è trattato è stata, successivamente, riformata in appello748, con qualificazione del fatto come omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento: i giudici di secondo grado prospettano tale conclusione in considerazione del fatto che l’imputato sarebbe giunto a ritenere che alla moglie non sarebbe accaduto nulla di male, tenuto conto delle sue cognizioni, delle sue qualità caratteriali e delle sue stesse condizioni di salute, le quali erano state per lungo tempo stabili749; si sostiene, dunque, che non fosse stata raggiunta una prova sufficiente a fondare la sussistenza della rappresentazione, in capo all’agente, dell’alto rischio di trasmissione del virus HIV e del decorso mortale della malattia; né, conseguentemente, sarebbe da valutare sussistente un elemento psicologico interiore assimilabile alla volizione dell’evento “morte”750. Il giudizio di legittimità sul caso di specie conferma l’assetto individuato dalla Corte d’Assise d’Appello, identificando nell’atteggiamento interiore dell’imputato un “fenomeno di rimozione e di allontanamento psicologico della eventualità del contagio e della susseguente possibilità di morte della consorte”751. Si ritorna, insomma, all’utilizzo della tradizionale teoria dell’“accettazione del rischio”, con identificazione della colpa cosciente sulla base della “fiducia” nutrita dall’agente nella non verificazione dell’evento, chiaramente a sua volta individuata nel fenomeno di “rimozione psicologica” dell’eventualità della morte della vittima: tuttavia, è corretto parlare di colpa “con previsione” identificandola, poi, come associata ad un fenomeno di “rimozione” della previsione stessa? La risposta dovrebbe essere negativa. Si tratta di un ulteriore caso in cui emerge l’inadeguatezza del criterio dell’“accettazione del rischio”, e la necessità di individuare la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente in un quid pluris rispetto all’accettazione del rischio stessa (caratteristica, invero, anche della colpa cosciente): e tale quid pluris dovrebbe essere l’ “opzione” con la quale l’agente subordini un bene giuridico rispetto ad un altro.

A parere di chi scrive, qualora si accerti effettivamente un fenomeno di rimozione psicologica della prospettiva di verificazione dell’evento lesivo, si dovrebbe propendere per l’affermazione della colpa “incosciente”, poiché la suddetta “rimozione” comporta, logicamente, il venir meno dell’elemento rappresentativo, necessario ai fini dell’inquadramento della colpa cosciente.

I giudici di legittimità, nella sentenza in esame, affermano, inoltre, che “ il soggetto sieropositivo da HIV che, avendo rapporti sessuali senza protezione

746 K. SUMMERER, op. cit., 310 e nota (27); 311 e nota (31).747 K. SUMMERER, op. cit., 311. 748 Ass. App. Brescia, 26 settembre 2000, in Foro it., 2000, II, 348.749 La sintesi delle conclusioni della sentenza in esame è effettuata anche da G. COCCO,

Gli insuperabili limiti del dolo eventuale. Contro i tentativi di flessibilizzazione, in Resp. civ. e prev., 2011, 10, 1966.

750 C. BRUNELLI, op. cit.751 Cass. Pen., Sez. I, 14 giugno 2001, n. 30425, in dejure.giuffre.it

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con un partner inconsapevole, lo contagi e ne cagioni la morte per AIDS, ne deve rispondere o a titolo di omicidio volontario, sotto il profilo del dolo eventuale, o a titolo di omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente, a seconda di quale risulti essere stato il suo atteggiamento psicologico rispetto all’evento letale”752: tramite tale enunciato, si afferma chiaramente che non si possa, nei casi del tipo di quello delineato, stabilire a priori quale debba essere il titolo di imputazione soggettiva del reato, bensì debba verificarsi quale fosse stato l’effettivo stato soggettivo dell’agente rispetto alla realizzazione del reato stesso.

Da notare come, in tempi più recenti, la giurisprudenza di merito753 abbia affermato la sussistenza del dolo eventuale con riferimento ad un caso sostanzialmente molto simile a quello appena trattato (consumazione di plurimi rapporti sessuali non protetti da parte del soggetto sieropositivo, consapevole del proprio stato e delle modalità di trasmissione del virus, e senza informazione del partner) nel quale, tuttavia, non è stato ravvisato alcun fondamento idoneo a ritenere che l’agente potesse “confidare” nel “non contagio” del partner.

Anche la giurisprudenza di legittimità754, ad ogni modo, appare in tempi recenti assestata nel riconoscere il dolo eventuale in capo al soggetto che, essendo sieropositivo e consapevole di tale stato, abbia intrattenuto plurimi rapporti sessuali non protetti con partner sano, poi contagiato tramite tale tipologia di condotta. Con riferimento ad un caso di questo genere, in primo grado, l’imputata, accusata di tentato omicidio per aver trasmesso al partner il virus HIV consumando con quest’ultimo plurimi rapporti sessuali per un arco temporale di cinque anni, veniva inizialmente condannata per lesioni volontarie gravissime sorrette da dolo eventuale. In secondo grado veniva confermata la statuizione pronunciata dai giudici di prime cure755. Fra i motivi di ricorso per cassazione presentati da parte della difesa dell’imputata, vi è quello di “vizio di motivazione” in ordine all’affermazione del dolo eventuale: in particolare, si sostiene che l’imputata, sentendosi sommariamente bene, avesse psicologicamente rimosso la sua condizione di malattia, e che non fosse a conoscenza dei rischi di contagio; inoltre, si evidenzia che l’atteggiamento psicologico dell’imputata sarebbe stato caratterizzato, da un lato, dalla previsione della possibilità di realizzazione dell’evento lesivo e, dall’altro, dalla speranza e dal desiderio di non realizzazione di detto evento: sicché avrebbe dovuto essere affermata la colpa cosciente, in luogo del dolo eventuale.

I giudici di legittimità rigettano il ricorso, affermando che “ i giudici di merito […] hanno ragionevolmente concluso per la sussistenza […] del dolo eventuale sulla base di alcune considerazioni di fatto che consentono di ritenere che la donna fosse perfettamente a conoscenza del male dal quale era affetta, che fosse altresì consapevole della concreta possibilità di trasmettere il male al proprio compagno con il protrarsi della relazione sessuale e che non potesse avere dubbi in ordine al possibile, ed anzi probabile, esito letale della infezione da HIV”. Nello specifico, la conoscenza dello stato di sieropositività da parte

752 Cass. Pen., Sez. I, 14 giugno 2001, n. 30425, in dejure.giuffre.it753 Trib. Savona, 30 gennaio 2008, in www.altalex.com 754 Cass. Pen., Sez. V, 17 settembre 2008, n. 44712, in www.altalex.com 755 Gli esiti dei giudizi di merito si ricavano dalla sentenza di legittimità sul caso in

questione (Cass. Pen., Sez. V, 17 settembre 2008, n. 44712, in www.altalex.com).

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della donna era stata comprovata da vari documenti clinici; la conoscenza della pericolosità del male era, del resto, testimoniata dal fatto che essa stessa si fosse sottoposta, nel corso degli anni, ad ulteriori controlli; inoltre, la consapevolezza, da parte dell’imputata, del carattere letale del male era indubbio in base al fatto che il marito della stessa imputata fosse deceduto proprio per AIDS; il tutto tralasciando le esaustive campagne di informazione volte ad illustrare i rischi di contagio e le modalità di riduzione o prevenzione di tali rischi, le quali dovrebbero aver ormai reso tali conoscenze come appartenenti al patrimonio intellettivo del soggetto medio. L’imputata, insomma, pur perfettamente consapevole del proprio stato di sieropositività, delle modalità di trasmissione del virus HIV e della gravità della malattia, aveva scelto di intrattenere reiterati rapporti sessuali non protetti con il proprio partner, senza informarlo della propria condizione: tale condotta rivelerebbe l’accettazione del rischio di contagio, in questo caso previsto non solo come possibile, ma come altamente probabile.

Sin qui si è discusso di casi caratterizzati da plurimi rapporti sessuali non protetti: condotta che, come è stato affermato nella giurisprudenza di merito, “colora fortemente il contenuto volitivo del dolo”756, considerato anche che, come si è già visto, a seguito del primo contagio, la tenuta di ulteriori rapporti sessuali non protetti accelera il decorso della malattia. Deve, a questo punto, valutarsi se considerazioni analoghe rispetto a quelle fino ad ora delineate possano applicarsi al caso di contagio tramite un singolo rapporto sessuale non protetto.

A tale fine, è possibile fare riferimento ad un caso, relativamente recente, in cui l’imputato veniva accusato di lesioni personali gravissime per aver contagiato la vittima tramite un unico rapporto sessuale anale non protetto. I nodi problematici sono, fondamentalmente, due: in primo luogo, si tratta di stabilire se un singolo rapporto sessuale non protetto possa dirsi “causale” rispetto al contagio; in secondo luogo, occorre determinare se la condotta del soggetto il quale non intendesse intenzionalmente contagiare la vittima, ma fosse consapevole della propria situazione di sieropositivo e del pericolo di trasmissione del virus HIV tramite il rapporto sessuale non protetto, possa qualificarsi come sorretta da dolo eventuale757. I giudici di merito di primo e secondo grado concludono, effettivamente, per l’affermazione della responsabilità a titolo di dolo eventuale: deponevano a favore della sussistenza del nesso causale la manifestazione dei sintomi, da parte della vittima, dopo solo una settimana dall’episodio (mentre, nei due mesi precedenti, la vittima non aveva avuto alcun rapporto sessuale intrusivo, ed aveva altresì effettuato, in occasione di un intervento chirurgico, esami diagnostici i quali avevano appurato che egli non fosse affetto da HIV), nonché l’accertamento medico – legale in base al quale risultava che l’imputato fosse portatore dello stesso tipo di virus di quello che aveva infettato la vittima; infine, il fatto che l’imputato fosse solito ricercare partner con cui praticare rapporti sessuali non protetti, presentandosi con uno pseudonimo e pur essendo consapevole del proprio stato, deponeva fortemente a favore dell’identificazione del dolo758.

756 Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 1, 302.757 S. MARANI, Contagio da HIV e lesioni personali gravissime, in www.altalex.com

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La Corte di Cassazione conferma la responsabilità a titolo di dolo eventuale, e lo fa sulla base di vari rilievi. Quanto alla valutazione del nesso causale, viene confermata la correttezza dell’applicazione della legge scientifica per cui “un solo rapporto anale non protetto con soggetto ammalato può contagiare il soggetto passivo”; a nulla rileverebbe il basso rischio di contagio connesso al singolo rapporto sessuale non protetto, dato che, nel caso in questione, vari elementi deponevano a sostegno del fatto che, in mancanza della tenuta del rapporto sessuale non protetto (modalità, peraltro, non voluta dalla vittima), il contagio non si sarebbe verificato: si tratta degli accertamenti già citati in base ai quali risultava che, nei due mesi antecedenti all’episodio, la vittima non fosse infetta da HIV, e non avesse avuto rapporti sessuali intrusivi; nonché della circostanza che la vittima avesse manifestato i primi sintomi del contagio dopo solo una settimana dall’episodio, e del fatto che era stato appurato che il virus il quale aveva colpito la vittima fosse dello stesso tipo di quello dal quale era infetto l’imputato. Si afferma, in sintesi, che “dalla constatazione che non tutti gli esposti a contagio si ammalano non può certo trarsi l’implicazione che deve revocarsi in dubbio la sussistenza del nesso di condizionamento tra condotta ed evento nei casi in cui il contagio si verifica, perché nella valutazione deve prevalere il giudizio controfattuale”. In ogni caso, il rischio di contagio sarebbe stato, nel caso di specie, comunque più elevato rispetto a quello che avrebbe caratterizzato una situazione “ordinaria”, dato che le pareti anali della vittima risultavano indebolite a causa dell’intervento chirurgico subito.

Quanto, invece, all’indagine sull’elemento soggettivo, la Corte afferma che il caso di specie corrisponda esattamente allo schema legale del dolo eventuale: questo sarebbe caratterizzato, oltre che dalla previsione, dall’accettazione delle conseguenze estreme della propria condotta le quali, con riferimento a particolari aspetti del caso concreto (continua ricerca, da parte dell’imputato, di partner con cui intrattenere rapporti sessuali non protetti, al fine di provare l’ “ebbrezza morbosa di esporsi ad un rischio mortale”), “sembrerebbero quasi auspicate”.

È anche il caso di porre riferimento ad una sentenza di merito759 che ha affermato addirittura il dolo diretto (nello specifico, tentativo di lesioni personali aggravate sorretto da dolo diretto) in capo alla prostituta la quale, essendo consapevolmente sieropositiva, intratteneva rapporti sessuali non protetti con i propri clienti: si individuò, in particolare, una sorta di atteggiamento di “rivalsa” nei confronti delle persone che le avevano trasmesso l’infezione, ovvero una “piena adesione” alla realizzazione del reato, e quindi, appunto, dolo diretto760.

3. Ricettazione

758 La sintesi delle valutazioni effettuate nei giudizi di merito è rilevabile all’interno della sentenza di legittimità sul caso in questione: Cass. Pen., Sez. V., 17 dicembre 2008, n. 13388, in dejure.giuffre.it

759 Trib. Ravenna, 3 maggio 1999, in Supp. Rass. med. leg. prev., 2000, 23. 760 Su tale sentenza si pronuncia, tra gli altri, F. CURI, Tertium datur, 228 – 229.

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La configurabilità del dolo eventuale nella ricettazione rappresenta un ulteriore argomento significativo, in quanto si tratta non solo di descrivere l’inquadramento dell’elemento psicologico del reato con riferimento alla sussistenza dei presupposti della condotta (quindi, rispetto ad elementi del fatto tipico diversi dall’evento e dalla condotta materiale), bensì anche di specificare la distinzione fra il delitto di “ricettazione” (art. 648 c.p.) e la contravvenzione di “acquisto di cose di sospetta provenienza” (art. 712 c.p.), comunemente indicata come “incauto acquisto”.

L’argomento in questione riveste un’importanza particolarmente “attuale”, alla luce di una sentenza delle Sezioni Unite761 la quale, recentemente, è intervenuta a dirimere le problematiche che emergevano in tale contesto ed il contrasto giurisprudenziale precedentemente sussistente: essa, come si vedrà, non soltanto afferma la compatibilità fra dolo eventuale e ricettazione, ma contribuisce anche ad un superamento della tradizionale formula dell’“accettazione del rischio”, richiamando la prima formula di Frank, e precisando che lo stato di “mero sospetto” non sia, di per sé, sufficiente ad integrare il dolo eventuale di ricettazione.

3.1. Ricettazione e incauto acquisto. Configurabilità o non configurabilità del dolo eventuale in caso di ricettazione?

L’art. 648 c.p. inquadra il delitto di ricettazione nella condotta di chi, al di fuori dei casi di concorso nel reato, “al fine di procurare a sé o ad altri profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare”.

D’altra parte, l’art. 712 c.p. stabilisce la punibilità di “chiunque, senza averne prima accertata la legittima provenienza, acquista o riceve a qualsiasi titolo cose, che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per la entità del prezzo, si abbia motivo di sospettare che provengano da reato”, nonché di “chi si adopera per fare acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcuna delle cose suindicate, senza averne prima accertata la legittima provenienza”: si tratta della norma che descrive la contravvenzione di “incauto acquisto”.

L’art. 648 non contempla espressamente la punibilità a titolo di colpa: ragion per cui, trattandosi di un delitto, sarà ammessa la punibilità solo a titolo di dolo. Si pone, tuttavia, il problema in ordine alla configurabilità o meno del dolo eventuale con riguardo all’art. 648: occorre, in particolare, fornire risposta all’interrogativo se, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo della fattispecie descritta dalla norma, sia necessaria la certezza della provenienza delittuosa della cosa, ovvero sia sufficiente lo stato di dubbio relativamente a detta provenienza. In maniera connessa a tale problema, si pone la questione in ordine alla distinzione fra ricettazione ed incauto acquisto, qualora si ammetta la compatibilità del dolo eventuale con riguardo alla prima: se, infatti, si conviene che il dolo di ricettazione possa manifestarsi anche quando il soggetto agente versi in dubbio sulla provenienza delittuosa della cosa, diviene molto labile il confine fra lo stato di dubbio necessario ad integrare il dolo

761 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass. pen., 2010, 7 – 8, 2548.

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eventuale di ricettazione e lo stato in cui versi il soggetto nel caso in cui vi siano “motivi di sospetto” della provenienza illecita della cosa, posto che il dolo eventuale va comunque provato tramite elementi esterni i quali, ovviamente, comprenderanno gli aspetti da cui possa evincersi oggettivamente la sospettabilità sulla provenienza illecita762.

Gli orientamenti di fondo (e contrapposti) in materia erano, prima della già citata decisione delle Sezioni Unite, i seguenti: un primo di essi sosteneva la non compatibilità del dolo eventuale con il delitto di ricettazione, postulando la necessità di certezza in ordine alla provenienza delittuosa della cosa e, dunque, richiedendo il dolo diretto; un secondo, viceversa, sosteneva la configurabilità del dolo eventuale con riguardo a quel presupposto della condotta che, nel caso della ricettazione, è la provenienza delittuosa della cosa, riservando alla fattispecie di cui all’art. 712 le ipotesi di condotta colposa, ovvero nelle quali lo stato di dubbio non apparisse sufficiente ad integrare la forma del dolo eventuale in quanto, a fronte della rappresentazione della possibilità di provenienza illecita della cosa, l’agente non fosse stato nelle condizioni di poterla verificare, sicché non si sarebbe potuto parlare propriamente, in quest’ultimo caso, di “accettazione dell’illecito”763.

762 M. DONINI, Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione, 2557. 763 M. DONINI, op. ult. cit., 2556 – 2557. Per quanto riguarda l’orientamento a favore della necessità del dolo diretto per la

ricettazione, si richiamano, ex plurimis, Cass. Pen., Sez. III, 17 dicembre 1965, n. 3497, in C.E.D. Cass., n. 100332; Cass. Pen., Sez. II, 11 ottobre 1979, n. 5794, in C.E.D. Cass., n. 145220; Cass. Pen., Sez. II, 28 ottobre 1983, n. 2834, in C.E.D. Cass., n. 163369; Cass. Pen., Sez. II, 14 maggio 1991, n. 9271, in C.E.D. Cass., n. 187933; Cass. Pen., Sez. II, 20 giugno 1996, n. 8072, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. II, 7 aprile 2004, n. 18034, in dejure.giuffre.it (“il discrimine tra il delitto di ricettazione e la contravvenzione di incauto acquisto è dato esclusivamente dall’elemento intenzionale, nel senso che nel primo l’agente è pienamente consapevole della provenienza illecita della res, mentre nella seconda non ne accerta colposamente la legittimità della provenienza); Cass. Pen., Sez. IV, 12 dicembre 2006, n. 4170, in dejure.giuffre.it (ove si richiede che, ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del reato di cui all’art. 648, “i sospetti sulla legittimità della provenienza della res ricevuta siano così gravi ed univoci da ingenerare, in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e secondo la più comune esperienza, la certezza che non possa trattarsi di cose legittimamente detenute da chi le offre”).

Circa l’orientamento a favore della configurabilità del dolo eventuale di ricettazione, ex plurimis, si rilevano Cass. Pen., Sez. II, 21 dicembre 1981, n. 4376, in C.E.D. Cass., n. 153436; Cass. Pen., Sez. II, 24 marzo 1988, n. 129, in C.E.D. Cass., n. 180084; Cass. Pen., Sez. II, 7 dicembre 1995, n. 2311, in dejure.giuffre.it (“il reato di ricettazione non richiede, per la sua configurazione, la conoscenza precisa e completa del delitto presupposto, essendo sufficiente ad integrarne l’elemento soggettivo la consapevolezza, anche non assoluta, da parte dell’agente, di acquistare cose di provenienza illecita”); Cass. Pen., Sez. II, 21 febbraio 1997, n. 3306, in dejure.giuffre.it (ove si specifica che il dolo eventuale possa rientrare fra gli atteggiamenti psicologici propri del delitto di ricettazione); Cass. Pen., Sez. II, 12 febbraio 1998, n. 3783, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. II, 17 maggio 2006, n. 30651, in dejure.giuffre.it (“ in tema di ricettazione, la consapevolezza della provenienza illecita della res da parte del soggetto agente deve ritenersi sussistente anche quando nella mente di costui si sia affacciato il dubbio della provenienza delittuosa e, nonostante ciò, egli abbia agito accettandone il rischio”); Cass. Pen., Sez. II, 17 dicembre 2008, n. 2807, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. II, 18 febbraio 2009, n. 13358, in dejure.giuffre.it (“del tutto compatibile con il reato di ricettazione è il dolo eventuale allorché, come nella specie, l’agente acquisti una cosa pur apparendo concreti e gravi motivi per dubitare della liceità della provenienza di essa’).

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Il primo orientamento citato, in particolare, tendeva ad evidenziare una differenziazione fra ricettazione ed incauto acquisto basata essenzialmente sul livello soggettivo, sostenendo che la prima dovesse essere individuata solamente nella condotta di chi avesse agito avendo la certezza circa la provenienza delittuosa della cosa; mentre la seconda avrebbe dovuto essere inquadrata nelle ipotesi in cui fosse sussistente il mero sospetto circa detta provenienza illecita764.

Il secondo, d’altra parte, prendeva le mosse dall’analisi del tenore letterale delle norme relative ai reati in questione, osservando che l’art. 712 faccia riferimento non già alle “ipotesi di sospetto”, bensì ai casi in cui “si abbia motivo di sospettare” la provenienza da reato: di conseguenza, la norma dovrebbe mirare a punire il comportamento di chi, avendo “motivo di sospettare”, abbia realizzato la condotta tipica omettendo di verificare la liceità o illiceità della provenienza della cosa e, dunque, agendo con mancanza di diligenza (e per ciò, chiaramente, con colpa). Per converso, l’art. 648 non dovrebbe escludere la configurabilità del dolo nella forma eventuale, posto che da esso non possa evincersi alcuna indicazione riguardo alla necessità di certezza assoluta sulla provenienza illecita della cosa. Si osserva, nello specifico, che “ponendo a raffronto il testuale tenore delle due norme incriminatrici non emerge affatto che il dolo di ricettazione non possa sussistere se non quando vi sia la soggettiva certezza dell’illecita provenienza della res, per cui mancando questa si verterebbe automaticamente nella minore e diversa ipotesi di cui all’art. 712 c.p.”; si rileva, di conseguenza, che la contravvenzione di “incauto acquisto” punisca “non chi ha acquistato o ricevuto cose di cui ‘sospetti’ la provenienza da reato, ma chi quelle cose ha acquistato o ricevuto quando ‘si abbia motivo di sospettare’ la suddetta provenienza”765. In tempi recenti, tale assetto è stato riaffermato e meglio precisato mediante il criterio dell’“accettazione del rischio”: si ammette la configurabilità del dolo eventuale di ricettazione laddove l’agente abbia posto in essere la condotta tipica prevista dall’art. 648 accettando il rischio della provenienza illecita della res, seppur in mancanza di certezza assoluta in ordine a detta provenienza766; altre volte, si è richiamato un criterio basato sul concetto di “indifferenza”, con identificazione del dolo eventuale di ricettazione qualora l’agente, essendosi posto il quesito circa la legittimità della provenienza della cosa, lo abbia risolto, appunto, nel senso dell’“indifferenza”, mentre si verserebbe nella fattispecie di “incauto acquisto” allorquando l’agente abbia realizzato la condotta non ponendosi alcun problema benché fossero sussistenti oggettivi motivi di sospetto e, dunque, comportandosi con connotati propriamente colposi767.

In alcuni casi, inoltre, si è configurata un’impostazione la quale valorizza significativamente la componente del “dubbio”: in un’ipotesi di ricettazione di

764 Lo si ricava da Cass. Pen., Sez. II, 12 febbraio 1998, n. 3783, in dejure.giuffre.it ove, tuttavia, tale criterio è esposto a titolo descrittivo, ma non è condiviso: viene affermato, infatti, l’orientamento opposto, a sostegno della configurabilità del dolo eventuale di ricettazione.

765 Cass. Pen., Sez. II, 12 febbraio 1998, n. 3783, in dejure.giuffre.it766 Cass. Pen., Sez. II, 17 dicembre 2008, n. 2807, in dejure.giuffre.it; Cass. Pen., Sez. II,

2 aprile 2009, n. 17813, in dejure.giuffre.it 767 Cass. Pen., Sez. II, 22 novembre 2007, n. 45256, in dejure.giuffre.it, in accoglimento

dell’impostazione prospettata dai giudici di secondo grado; Cass. Pen., Sez. II, 15 gennaio 2001, n. 14170, in dejure.giuffre.it

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assegni rubati, il “dubbio” viene quasi fatto assurgere ad elemento di per sé sufficiente a fondare il dolo eventuale (nonostante si concluda poi, nel caso di specie, per l’insussistenza del dolo eventuale, in forza della valutazione della “buona fede” dell’agente)768: tale assetto è stato criticato da parte della dottrina, la quale ha evidenziato l’inidoneità del riferimento al “dubbio” tout court a fondare il criterio discretivo fra dolo eventuale e colpa cosciente; piuttosto – si sostiene – si dovrebbe associare il dolo eventuale ad un “dubbio” accompagnato da una “riflessione”, da una “valutazione” sulla situazione di incertezza, effettuata da parte dell’agente con coscienza e razionalità769.

Resta da analizzare quando, nei casi concreti, la giurisprudenza a sostegno dell’ultimo orientamento citato (quello a favore della configurabilità del dolo eventuale di ricettazione) abbia ritenuto sussistente, in mancanza dell’assoluta certezza circa la provenienza delittuosa della cosa, uno stato psicologico sufficiente ad integrare il dolo eventuale: ciò è avvenuto, ad esempio, con riguardo alla condotta del soggetto che avesse omesso di dare indicazioni sulla disponibilità di un ciclomotore sprovvisto di documento di circolazione770; ovvero, con riferimento ad una ipotesi di ricezione di un assegno bancario provento di furto, in considerazione dell’astrusità della tesi difensiva conformemente alla quale l’imputato avesse ricevuto l’assegno stesso da un suo fornitore di droga, che aveva indicato “non meglio precisate” difficoltà a presentare personalmente il titolo in banca (si sostiene che, anche dando accredito a tale tesi, sarebbe comunque emersa una consapevolezza in ordine alla provenienza illecita dell’assegno)771; ancora, si è affermato il dolo di ricettazione, quantomeno nella forma eventuale, in relazione alla condotta dell’imputata che aveva ricevuto da parte del proprio datore di lavoro un’autovettura rubata, essendo essa a conoscenza del fatto che il datore di lavoro stesso fosse dedito a traffico illecito di automobili, ritenendosi irrilevante la tesi difensiva per la quale il rapporto di fiducia intercorrente tra l’imputata e il datore di lavoro avrebbe dovuto comportare che la prima mai si sarebbe aspettata di ricevere dal secondo un’autovettura di provenienza illecita772; altresì, con riguardo all’ipotesi di ricettazione di un assegno, si è fatto leva sulla situazione caratterizzata dall’assenza di girata del soggetto all’ordine del quale figurava l’assegno stesso, considerata come sintomo inequivoco dell’illecita

768 Pretura Terni, Sez. V, 19 marzo 1999, in Giur. merito, 2000, 2, 385; in nota a tale pronuncia, S. D’ARMA, Sull’accertamento del dolo eventuale in un’ipotesi di ricettazione di assegni rubati, in Giur. merito, 2000, 2, 388. Nel caso di specie, la Pretura di Terni afferma la compatibilità del dolo eventuale con il delitto di ricettazione giungendo, tuttavia, ad escluderne la sussistenza nell’ipotesi concreta; in particolare, viene valutata la “buona fede” dell’agente in base ad aspetti quali i seguenti: il fatto che gli assegni fossero già compilati al momento in cui l’imputato li ricevette; il fatto che l’imputato avesse ricevuto gli assegni in un luogo in cui è notorio vengano smerciati titoli di credito (una bisca, nello specifico); la circostanza per cui l’imputato aveva ricevuto i titoli da un operatore di commercio; il fatto che i titoli fossero stati smerciati dall’imputato a persone che lo conoscevano; il post factum che vede l’imputato risarcire i prenditori del danno da essi subito (tali rilievi sono effettuati da S. D’ARMA, op. cit., 391 – 392).

769 S. D’ARMA, op. loc. cit. 770 Cass. Pen., Sez. II, 17 dicembre 2008, n. 2807, in dejure.giuffre.it771 Cass. Pen., Sez. II, 22 novembre 2007, n. 45256, in dejure.giuffre.it 772 Cass. Pen., Sez. II, 17 maggio 2006, n. 30651, in dejure.giuffre.it

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provenienza, nonché come elemento evincibile ictu oculi da qualsiasi soggetto di media esperienza e diligenza773.

Sempre con riguardo all’orientamento che accoglie la compatibilità del dolo eventuale con il delitto di ricettazione, alcune puntualizzazioni potrebbero rendersi necessarie in considerazione del fatto che la ricettazione configuri una fattispecie con dolo specifico, dato dal “fine di procurare a sé o ad altri profitto”. La giurisprudenza di legittimità, a tale proposito, ha specificato che detto aspetto non dovrebbe ostare alla possibilità di inquadrare un dolo eventuale di ricettazione, essendo il presupposto della “provenienza delittuosa” della cosa indipendente rispetto al fine di trarre profitto774: questo assetto sembra accogliere l’impostazione dottrinale conformemente alla quale, nell’ambito delle fattispecie a dolo specifico, può configurarsi il dolo eventuale, purché esso ricada su aspetti del fatto tipico che non siano condizione necessaria per la realizzazione del fine indicato dal dolo specifico775.

Fra i due orientamenti di cui si è trattato, a parere di chi scrive appare maggiormente condivisibile quello a sostegno della compatibilità fra dolo eventuale e ricettazione: nello specifico, sembra essere dotato di maggior coerenza il raffronto fra i dati letterali ricavabili, rispettivamente, dagli artt. 648 e 712. Tuttavia, in considerazione dei casi concreti nei quali detto orientamento ha ravvisato la sussistenza del dolo eventuale di ricettazione, non può sfuggire il rischio, osservato da parte della dottrina, di “appiattimento” della prova del dolo sulla sola considerazione dell’intensità dei fattori oggettivi dai quali emergesse il sospetto sulla provenienza illecita della res: il che darebbe adito a presunzioni di dolo776. Del resto, non sembra potersi accogliere neppure l’identificazione del parallelismo fra “ricettazione” e “mero sospetto”: in effetti, è vero che l’art. 712 richiede la sussistenza dell’“oggettiva sospettabilità” della provenienza illecita della cosa; ma è anche vero che esso non esclude espressamente che tale “oggettiva sospettabilità” abbia dato luogo ad un “sospetto” a livello soggettivo777. Entrambi gli orientamenti presentano, dunque, punti critici, e la soluzione del contrasto giurisprudenziale da parte delle Sezioni Unite appariva senz’altro necessaria.

3.2. La decisione delle Sezioni Unite (Cass. Pen., Sez. Un., ud. 26 novembre 2009, dep. 30 marzo 2010, n. 12433)

Il caso concreto che ha condotto alla sentenza in questione vedeva l’imputato accusato di ricettazione di una Viacard: nello specifico, egli aveva utilizzato tale Viacard dopo che essa era stata ritirata dall’operatore per essere stata rigenerata ed utilizzata indebitamente; l’imputato sosteneva di aver acquistato la tessera da uno sconosciuto, che gliela aveva venduta presso un’area di servizio, adducendo di essere rimasto senza benzina e con poco denaro. In entrambi i gradi del giudizio di merito, l’imputato veniva ritenuto

773 Cass. Pen., Sez. II, 12 febbraio 1998, n. 3783, in dejure.giuffre.it 774 Cass. Pen., Sez. II, 12 febbraio 1998, n. 3783, in dejure.giuffre.it775 S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, 174.776 M. DONINI, op. ult. cit., 2557.777 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass.

pen., 2010, 7 – 8, 2552.

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responsabile per ricettazione sorretta da dolo eventuale, sulla base del rilievo che le circostanze di fatto alla luce delle quali era avvenuto l’acquisto dimostrassero la sussistenza di tale tipologia di elemento soggettivo, nonché in base all’osservazione per cui “la mancata giustificazione del possesso di una cosa proveniente da delitto costituisce prova della conoscenza della sua illecita provenienza”778.

Avverso la sentenza di secondo grado proponeva ricorso la difesa dell’imputato: da un lato, si evidenziava che le circostanze le quali avevano caratterizzato l’atto dell’acquisto non fossero tali da far ritenere la provenienza illecita dell’oggetto dell’acquisto stesso; dall’altro, si evidenziava che l’impostazione per cui la mancata giustificazione del possesso della cosa di provenienza illecita equivalga alla prova della conoscenza di detta provenienza sarebbe indebita, e comporterebbe una inversione dell’onere della prova779.

Interessante risulta anche l’ordinanza tramite la quale il ricorso veniva rimesso alle Sezioni Unite: essa evidenzia, in primo luogo, la sussistenza del contrasto giurisprudenziale, ripercorrendo in sintesi gli orientamenti contrapposti di cui si è già trattato780; inoltre, si pone l’accento sull’ulteriore aspetto potenzialmente problematico, dovuto al fatto che la categoria del dolo eventuale sia stata sviluppata principalmente con riguardo ai reati di evento e, dunque, con riferimento all’atteggiamento psicologico dell’agente nei confronti, appunto, dell’evento, mentre nel caso della ricettazione si tratterebbe di valutare l’atteggiamento soggettivo dell’agente con riguardo ad un presupposto della condotta781; infine, viene evidenziata la mancanza di sufficiente approfondimento dei rapporti tra ricettazione ed incauto acquisto, e la mancata definizione degli aspetti in base ai quali, conformemente all’orientamento a favore della compatibilità fra dolo eventuale e ricettazione, il dubbio sul reato presupposto (che dovrebbe essere sufficiente ad integrare il dolo eventuale di ricettazione) si distinguerebbe dal “sospetto” caratteristico del reato di incauto acquisto. In relazione a quest’ultimo punto – si prosegue – risulterebbe particolarmente evidente l’inidoneità del criterio dell’accettazione del rischio, adottato principalmente nell’ambito dei reati di evento: sarebbe, in effetti, difficile sostenere che solo in un caso, e non nell’altro, l’agente abbia accettato il rischio di provenienza illecita della cosa782.

Fermo restando tali premesse, le osservazioni di diritto effettuate dalle Sezioni Unite prendono le mosse dalla valutazione della circostanza per cui, nel caso della ricettazione, si debba considerare l’atteggiamento soggettivo dell’agente con riferimento ad un presupposto della condotta: si specifica che tale problematica sia agevolmente risolvibile tramite la concezione dell’oggetto del dolo come comprendente l’intero fatto tipico e, dunque, non solo condotta

778 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass. pen., 2010, 7 – 8, 2548 – 2549.

779 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass. pen., 2010, 7 – 8, 2549.

780 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass. pen., 2010, 7 – 8, 2549.

781 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass. pen., 2010, 7 – 8, 2549 – 2550.

782 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass. pen., 2010, 7 – 8, 2550.

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ed evento, bensì anche i presupposti della condotta783. Si sottolinea, inoltre, che il contrasto giurisprudenziale non riguardi, comunque, tali aspetti, bensì quelli inerenti i rapporti tra ricettazione ed incauto acquisto784.

Effettuata tale precisazione, le Sezioni Unite passano all’analisi degli aspetti focali della questione, evidenziando che entrambi gli orientamenti che caratterizzano il contrasto giurisprudenziale ad esse devoluto presentino punti critici non condivisibili: l’orientamento a favore della compatibilità fra dolo eventuale e ricettazione, individuando il dolo di ricettazione in forma eventuale nel caso in cui l’agente abbia realizzato la condotta tipica versando in “dubbio” circa la provenienza illecita della cosa, condurrebbe ad espungere dalla sfera dell’art. 712 qualsiasi caso in cui, appunto, la condotta fosse stata realizzata in presenza di un “mero sospetto”; del resto, sulla stessa linea, si osserva che l’art. 712 richieda espressamente, ai fini dell’integrazione della fattispecie da esso dettata, la sussistenza di una “sospettabilità oggettiva”, ma non escluda espressamente che tale “sospettabilità” abbia dato luogo ad un “sospetto soggettivo”785; l’orientamento a favore della necessità, ai fini del dolo di ricettazione, del dolo diretto, del resto, ricadrebbe nell’estremo opposto, consistente nel dilatare in modo eccessivo la sfera di applicazione dell’art. 712, riconducendo ad essa tutte le ipotesi in cui l’agente versasse in uno stato psicologico rispetto alla provenienza illecita della cosa che, pur non configurandosi come certezza, si fosse caratterizzato per una intensità maggiore rispetto al “mero sospetto”. A partire da quest’ultima considerazione, si osserva che, fra ricettazione ed incauto acquisto, intercorra una differenziazione di carattere strutturale, non limitata solamente all’elemento soggettivo: la ricettazione, infatti, intenderebbe punire l’acquisto di cose di provenienza illecita e, dunque, dovrebbe richiedere un elemento soggettivo che abbia ad oggetto (anche) il reato presupposto; viceversa, l’art. 712 non intenderebbe punire l’acquisto di cose di provenienza illecita, bensì l’effettuazione di un acquisto “incauto”, con omissione della verifica della provenienza illecita della cosa, qualora fossero sussistenti oggettivi motivi di sospetto; sicché, in tale secondo caso, la struttura del reato comprenderebbe non l’effettiva provenienza illecita della cosa, bensì la sussistenza di oggettivi motivi di sospetto, e ciò che si rimprovererebbe all’agente non sarebbe l’acquisto o la ricezione di cose di provenienza illecita, bensì l’acquisto o la ricezione di cose rispetto alla liceità della provenienza delle quali fossero sussistenti oggettivi motivi di sospetto, nel caso in cui non fossero stati compiuti gli opportuni accertamenti. L’ulteriore conseguenza dovrebbe essere la

783 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass. pen., 2010, 7 – 8, 2550: “l’atteggiamento psicologico nel quale si fa consistere il dolo eventuale ben può riguardare i presupposti del reato, anche se si tratta di un atteggiamento che in questo caso si riferisce ad una situazione sussistente al momento dell’azione mentre, quando ha ad oggetto l’evento, si riferisce ad una situazione futura, che potrà derivare dalla condotta dell’agente”.

784 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass. pen., 2010, 7 – 8, 2550.

785 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass. pen., 2010, 7 – 8, 2552.

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considerazione per cui l’elemento soggettivo della contravvenzione di incauto acquisto non debba riguardare la provenienza illecita delle cose786.

Compiuti tali rilievi, la Corte giunge alle conclusioni inerenti la configurazione dell’elemento soggettivo con riguardo ai reati di ricettazione ed incauto acquisto. In primo luogo, si afferma l’ammissibilità del dolo eventuale di ricettazione; si aggiunge, altresì, che la situazione di “mero sospetto” sia compatibile con l’incauto acquisto: da qui la necessità di individuare un criterio idoneo a distinguere, appunto, il “mero sospetto” compatibile con (ma non indispensabile per) l’incauto acquisto rispetto al dolo eventuale di ricettazione. E si perviene all’affermazione per cui il dolo eventuale di ricettazione possa dirsi integrato qualora l’agente realizzi la condotta versando in uno stato psicologico che, pur non attingendo la certezza circa la provenienza illecita della cosa, si collochi ad un gradino superiore rispetto al “mero sospetto”; l’agente, in particolare, dovrà essersi rappresentato la concreta possibilità di provenienza illecita della cosa, sulla base di dati di fatto inequivoci, e dovrà essersi determinato ad agire comunque, attraverso una scelta consapevole tra non agire ed agire accettando, in tale seconda ipotesi, l’eventualità di acquisto o ricezione di cosa di illecita provenienza. L’assetto viene poi specificato attraverso il richiamo della prima formula di Frank (seppur con costruzione “in negativo”787): si sostiene che il dolo eventuale di ricettazione possa dirsi sussistenze qualora si riesca a dimostrare qualcosa corrispondente al fatto che l’agente non avrebbe agito diversamente se avesse avuto la certezza della provenienza illecita della cosa788.

Il “mero sospetto”, di conseguenza, potrà inquadrare solamente la fattispecie di incauto acquisto indicando, al limite, la colpa cosciente. Il che significa, implicitamente, che il dubbio sul presupposto non è, automaticamente, dolo eventuale, anche se non risolto in modo convincente; ed è, dunque, compatibile con la colpa. Ai fini della colpa cosciente, quindi, non è indispensabile il superamento del dubbio in senso positivo: è ben possibile, al contrario, che il soggetto, a fronte dello stato di “mero dubbio”, agisca non essendo persuaso che l’evento si verificherà, ovvero nel non convincimento della sussistenza di un determinato elemento della fattispecie o, ancora, rimuovendo il problema per superficialità, spavalderia, sufficienza, mancanza di esperienza, disattenzione; e questi ultimi identificano atteggiamenti propriamente colposi789.

Qualora, poi, la sussistenza di “oggettivi motivi di sospetto” non abbia dato luogo al “sospetto soggettivo”, residuerà soltanto l’applicazione dell’art. 712 per colpa incosciente.

Nel caso di specie, in base ai rilievi appena elencati, non vengono ritenuti integrati gli elementi in base ai quali avrebbe potuto configurarsi il dolo eventuale, sicché la sentenza oggetto di ricorso viene annullata con rinvio.

786 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass. pen., 2010, 7 – 8, 2553.

787 Così evidenzia M. DONINI, op. ult. cit., 2561. Del resto – prosegue l’Autore – la declinazione “in negativo” equivale, a livello sostanziale, a quella “in positivo”: “non avrebbe agito diversamente” = “avrebbe agito ugualmente”.

788 Cass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in Cass. pen., 2010, 7 – 8, 2554.

789 M. DONINI, op. ult. cit., 2566.

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Parte della dottrina, com’era prevedibile, si è cimentata nella valutazione di tale “terza via”790 scelta dalle Sezioni Unite, interrogandosi relativamente a due aspetti: in primo luogo, ci si domanda se la ricostruzione soggettiva operata in questo frangente sia, intrinsecamente, condivisibile o meno; in secondo luogo, ci si è posti il problema inerente lo stabilire se detta ricostruzione debba considerarsi come limitata al delitto di ricettazione, ovvero possa essere generalizzabile791. Molto più semplicemente, gli interrogativi che si sono posti sono i seguenti: la “terza via” individuata dalle Sezioni Unite è, nella sua strutturazione interna, corretta? E, se lo è, potrebbe considerarsi come “soluzione di parte generale”?

Quanto al primo interrogativo, si tratta di vagliare la validità dell’applicazione della prima formula di Frank: ragion per cui verteranno a favore della correttezza intrinseca della ricostruzione operata dalle Sezioni Unite gli argomenti a favore di tale formula, mentre deporranno a sfavore i limiti rilevati con riguardo al criterio probatorio proposto dal noto penalista tedesco (v. supra, Cap. II, par. 7). Da un lato, si osserva che la formula in questione, laddove la si intenda come identificativa dell’atteggiamento psicologico del soggetto che agisca “ad ogni costo”, dovrebbe individuare effettivamente l’essenza del dolo eventuale; dall’altro, se ne evidenzia la difficile praticabilità processuale, in quanto essa presupporrebbe l’effettuazione di un giudizio ipotetico: si tratterebbe, invero, di tentare di valutare quale sarebbe stato il comportamento dell’agente considerando ipoteticamente che egli avesse avuto la certezza di sussistenza del presupposto del reato. Ma ciò che importa, viceversa, è quello che l’agente abbia effettivamente deciso, e non quello che avrebbe deciso se, ipoteticamente, fosse versato nella certezza in ordine alla sussistenza del suddetto presupposto792. Si rileva che neppure ai fini del dolo intenzionale o diretto sia richiesto tanto: di conseguenza, ci si domanda se la prima formula di Frank non richieda “troppo”, evidenziando anche come in varie situazioni della vita, spesso, i soggetti non avrebbero, a posteriori, effettuato nuovamente determinate scelte intenzionali793. Si conclude, dunque, che l’esito negativo dell’applicazione della prima formula di Frank non possa essere considerato come decisivo ai fini dell’esclusione del dolo: tale formula dovrebbe essere uno dei vari strumenti da utilizzare ai fini del giudizio sull’elemento soggettivo, ma non l’unico ed esclusivo, nonché decisivo794.

Quanto alla questione relativa alla portata generale o speciale dell’assetto delineato dalla sentenza in esame, occorre prendere atto del dato per cui le stesse Sezioni Unite appaiano propendere per la seconda soluzione, laddove specificano che il dolo eventuale possa assumere “caratteristiche specifiche” per “particolari reati”795. Astrattamente, per “portata speciale” avrebbe potuto intendersi una portata limitata ai casi in cui l’atteggiamento soggettivo dell’agente debba essere analizzato con riguardo ai presupposti della condotta:

790 Utilizza questa terminologia M. DONINI, op. ult. cit., 2558.791 M. DONINI, op. ult. cit., 2561.792 M. DONINI, op. ult. cit., 2569.793 M. DONINI, op. ult. cit., 2570.794 M. DONINI, op. loc. ult. cit. L’Autore, inoltre, evidenzia che non possano risultare

praticabili ed assiologicamente indiscutibili, se di per sé e da sole considerate, le formule dell’“accettazione del rischio” e dell’ “accettazione dell’evento”.

795 M. DONINI, op. ult. cit., 2561.

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la sentenza in esame sembra, invece, voler circoscrivere ancora di più la riferibilità della ricostruzione operata, limitandola alle sole questioni inerenti ricettazione ed incauto acquisto. Sennonché, si è osservato come, logicamente, dovrebbe propendersi, anzitutto, quantomeno per una generalizzazione a livello di fattispecie “contigue” rispetto alla ricettazione quali, ad esempio, riciclaggio (art. 648 – bis) e reimpiego (art. 648 – ter)796. Tuttavia, si è concluso che la generalizzazione dovrebbe applicarsi anche rispetto ad ulteriori fattispecie nell’ambito delle quali l’elemento soggettivo debba valutarsi con riferimento a presupposti della condotta, nonché ai casi in cui l’elemento soggettivo si riferisca alle conseguenze della condotta: infatti, non si comprenderebbe per quale motivo, con riferimento al reato di ricettazione (ovvero a quelli ad esso contigui), dovrebbero indicarsi requisiti più stringenti ai fini dell’inquadramento del dolo; sulla stessa linea, non si vede per quale motivo dovrebbe richiedersi maggior rigore, ai fini del dolo, con solo riguardo ai presupposti della condotta. Emblematici sono, in tal senso, gli interrogativi che parte della dottrina si è posta, chiaramente in senso retorico: “perché rispetto ai presupposti della condotta (o a quelli che rilevano nell’art. 648 c.p., ma altrettanto nell’art. 648 – bis, o negli artt. 624, 378, 379 c.p.) si dovrebbe adottare una formula così impegnativa e comunque una nozione forte di dolo come volontà, e rispetto alla causazione dell’evento, per es. dell’evento – morte, no?”; “perché ‘più garanzie’ rispetto a un elemento del fatto di reato oggetto di rappresentazione, e meno garanzie rispetto a un elemento non meno decisivo e riguardante fattispecie anche più gravi, e oggetto di volontà?”797.

Peraltro, si evidenzia che, in effetti, i presupposti della condotta non pongano specifici problemi per il dolo eventuale: è vero che essi attengono al solo momento rappresentativo, mentre il dolo attiene, principalmente al momento volitivo; ma è anche vero che il momento volitivo non viene meno nel caso dei reati “costruiti” su presupposti della condotta; si tratta, se mai, di ammettere che le difficoltà di prova della rappresentazione dei presupposti della condotta possano condizionare la prova della volontà in senso stretto798. Si conclude, dunque, che l’indagine sul dolo debba considerare il rapporto della condotta rispetto a tutti gli elementi del fatto tipico, compresi i presupposti, fermo restando che essi non rivestano, comunque, un ruolo esclusivo: infatti, la carenza di rappresentazione di un qualsiasi elemento del fatto tipico rende incompleto l’elemento soggettivo (sotto il profilo del dolo, ovviamente)799. Sulla stessa linea, si può concludere che “il dubbio sull’oggetto della condotta o sull’evento partecipa delle stesse regole di ‘imputazione soggettiva’ del dubbio sui presupposti del fatto”, mentre “ciò che cambia è il ‘materiale probatorio’ da cui desumere indizi, più ampio in caso di evento”800. Uno dei pregi comunemente riconosciuti alla prima formula di Frank è, appunto, l’applicabilità di essa indistintamente a qualsiasi elemento del fatto tipico: condotta, evento e presupposti. Si dovrebbe, dunque, convenire nel senso che la decisione in questione, seppur non affermi espressamente il proprio carattere

796 M. DONINI, op. loc. ult. cit.797 M. DONINI, op. ult. cit., 2563. 798 M. DONINI, op. loc. ult. cit.799 M. DONINI, op. ult. cit., 2565. 800 M. DONINI, op. ult. cit., 2566.

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generalizzabile (anzi, sembrerebbe deporre espressamente in senso contrario), contenga una “premessa generalizzabile”801: non si tratta, invero, di una distinzione fra ricettazione ed incauto acquisto, bensì di una distinzione fra dolo (eventuale) e colpa; e, in tal senso, la questione non può dirsi di parte speciale, ma sarà necessariamente di parte generale; probabilmente, l’ambito inerente la distinzione fra ricettazione ed incauto acquisto si è posto come ideale “banco di prova” al fine della valutazione dell’applicabilità di un criterio più rigoroso, trattandosi di un ambito caratterizzato da particolare difficoltà in forza del fatto che l’elemento soggettivo debba essere indagato con riferimento ad un presupposto della condotta, e non con riferimento all’evento802.

Il discorso sulla portata generale dell’assetto delineato dalle Sezioni Unite deve, tuttavia, essere coordinato con le osservazioni sopra effettuate circa la praticabilità processuale della prima formula di Frank: essa deve essere non già uno strumento esclusivo, bensì uno dei vari strumenti probatori, al fine di dimostrare “qualcosa corrispondente al fatto che” l’agente avrebbe ugualmente realizzato la condotta se avesse avuto la certezza di sussistenza del presupposto803.

4. Lancio di sassi da cavalcavia

Vi sono determinati casi concreti per i quali se, da un lato, il forte allarme pubblico suscitato e l’estrema pericolosità del tipo di condotta che li caratterizza depongono a favore dell’individuazione del dolo in un’ottica generalpreventiva, dall’altro, ad un’analisi approfondita, può risultare non privo di ostacoli l’inquadramento di una vera e propria componente volitiva, alla luce della “dissennatezza” del tipo di comportamento adottato dai soggetti agenti: si tratta, ad esempio, degli episodi di lancio di sassi da cavalcavia, catalogati da parte della dottrina come, appunto, “dissennatezze”, “giochi tragicamente demenziali”804 o casi in cui la produzione del rischio non rappresenta un mezzo, bensì, di per sé stessa, il “fine”805.

La soluzione accolta dalla giurisprudenza dominante è molto forte: addirittura dolo diretto, e non semplicemente eventuale, per i reati derivanti dal tipo di condotta in questione (principalmente omicidio o tentato omicidio). Così, ad esempio, nel 1996, i giudici di legittimità confermavano l’assetto prospettato dai giudici di merito di primo grado i quali avevano indicato la responsabilità, in capo agli imputati, per omicidio doloso, nonché per tentato omicidio, sorretto da dolo diretto, a danno di utenti della strada nei confronti dei quali l’evento “morte” non si fosse realizzato; parallelamente, la Cassazione respingeva la ricostruzione operata dai giudici di appello i quali, pur avendo confermato

801 M. DONINI, op. ult. cit., 2571.802 In tal senso sembra esprimersi M. DONINI, op. ult. cit., 2566. 803 M. DONINI, op. ult. cit., 2570.804 Questa la terminologia utilizzata da F. CURI, op. cit., 232. 805 In tal senso, L. EUSEBI, Appunti, 1097. L’Autore, come si vedrà, giunge a sostenere

che, in fattispecie concrete nelle quali la produzione del rischio non sia il mezzo, bensì il fine, non risulti condivisibile la configurazione del dolo diretto o eventuale; secondo l’Autore dovrebbe, addirittura, propendersi per l’esclusione dell’imputabilità, non essendo ravvisabile in casi di tale genere una vera e propria prospettiva finalistica (ivi, 1098).

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l’addebito, avevano descritto l’elemento soggettivo come dolo eventuale, ritenendo che gli agenti avessero realizzato la condotta alla luce di uno scopo preponderante consistente nello “sperimentare un folle divertimento”, mentre l’eventualità di colpire automobili transitanti e/o provocare la morte dei relativi occupanti sarebbe rimasta, nella prospettiva psicologica degli agenti stessi, nell’ambito di una sfera “secondaria”806. L’argomentazione adottata dai giudici di legittimità prende le mosse dalla considerazione per cui in primo grado fosse stato affermato il dolo diretto non intenzionale, in considerazione della percezione dell’elevata probabilità, prossima alla certezza, della realizzazione dell’evento lesivo per l’ipotesi in cui i “bersagli” fossero stati attinti; elevata probabilità a sua volta evincibile dalla dimensione delle pietre lanciate, dalla velocità dei veicoli transitanti sull’autostrada “presa di mira”, dalla ricerca della “precisione del lanci” da parte degli imputati (i quali ambivano ad una sorta di “graduatoria di abilità”): elementi, questi, i quali rivelavano una piena accettazione non già del mero “rischio”, bensì dell’evento807. La sentenza di legittimità concorda con tale ricostruzione precisando, altresì, che la constatazione per cui lo scopo principale degli agenti fosse quello di sperimentare un “dissennato divertimento” – mentre la realizzazione della morte degli automobilisti sarebbe stata solamente un “pensiero secondario” – varrebbe unicamente ad escludere il dolo intenzionale, ma non ad affermare il dolo eventuale in luogo del dolo diretto non intenzionale: da qui il respingimento della conclusione dei giudici di secondo grado, i quali avevano deposto a favore dell’affermazione del dolo eventuale808.

Una delle particolarità, tutt’altro che di secondo piano, del caso appena analizzato è data dal “lancio mirato” sui veicoli: aspetto che senz’altro depone a favore dell’affermazione del dolo diretto e del tentato omicidio a danno dei soggetti non concretamente attinti dalle pietre lanciate. Tuttavia, il tentato omicidio è stato affermato anche per ipotesi di lancio “a pioggia” (quindi, non mirato) sui veicoli transitanti. È possibile fare riferimento ad un caso specifico in cui l’imputato, giunto in ora notturna su un cavalcavia sovrastante un’autostrada, aveva scagliato da esso, con un unico gesto, un quantitativo di oggetti comprendente sassi, cocci di terracotta ed una pietra a spigoli vivi, mentre sopraggiungevano alcune vetture sulle corsie interessate dal lancio: i giudici di merito di secondo grado affermavano il tentato omicidio plurimo sorretto da dolo alternativo diretto, valutando che la condotta tenuta dall’imputato fosse indubbiamente diretta ad investire un ampio tratto di carreggiata, nonché idonea a provocare gravi turbative alla marcia dei veicoli, ovvero eventi lesivi di carattere letale; tali conseguenze (recare grave turbativa alla circolazione, ovvero porre in pericolo la vita degli utenti della strada, con esiti anche letali) erano state – secondo i giudici – certamente previste e perseguite in modo equivalente, seppur in via alternativa809. Il ricorso proposto da parte della difesa dell’imputato sosteneva che avrebbe dovuto essere

806 La sentenza di riferimento è Cass. Pen., Sez. I, 3 luglio 1996, n. 7770, in dejure.giuffre.it. Osservazioni sul caso di specie sono effettuate anche da F. CURI, op. cit., 232 – 234.

807 Cass. Pen., Sez. I, 3 luglio 1996, n. 7770, in dejure.giuffre.it808 Cass. Pen., Sez. I, 3 luglio 1996, n. 7770, in dejure.giuffre.it809 La ricostruzione dei giudici di appello si ricava dalla sentenza di legittimità sul caso di

specie: Cass. Pen., Sez. I, 25 marzo 2003, n. 19897, in dejure.giuffre.it

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inquadrato, al più, il dolo eventuale, poiché erano stati utilizzati oggetti di minute dimensioni e il lancio non era stato effettuato con “presa di mira” dei veicoli: sicché l’evento “morte” avrebbe potuto presentarsi, nella psiche dell’imputato, al massimo come un mero “rischio”, dando luogo a dolo eventuale, incompatibile con il tentativo810. In punto di diritto, i giudici di legittimità respingono il ricorso, sostenendo che anche un lancio “non mirato”, bensì effettuato “a pioggia” sulla carreggiata, costituisca un elemento della condotta caratterizzato da una “non equivoca potenzialità offensiva” e idoneo “ad esprimere il fine perseguito dall’agente”; si evidenzia che tale conclusione sarebbe fondata anche qualora si volesse considerare non calcolato né prevedibile (ma, nel caso di specie, lo era stato) il transito di veicoli sulla carreggiata in coincidenza temporale con il lancio, posto che la presenza di oggetti del tipo di quelli che erano stati lanciati su una sede stradale interessata da rilevante traffico veicolare e, peraltro, in ora notturna, avrebbe certamente potuto recare grave turbativa alla circolazione delle autovetture, con esiti potenzialmente letali; in sintesi, si sostiene che anche la sola dispersione di materiale sulla carreggiata costituisca un elemento della condotta idoneo a provocare incidenti letali ed univocamente indicativo di una volontà in tale senso811.

Altro fatto emblematico, verificatosi nel 2003, vedeva l’imputato ritenuto colpevole, in esito dei giudizi di merito, di tentato omicidio poiché aveva lanciato un sasso del diametro di 12 cm da un cavalcavia in direzione dell’autostrada sottostante, colpendo una vettura che transitava in coincidenza con il lancio; l’esito mortale non si era verificato per la pronta reazione della persona offesa, che era riuscita a controllare l’autovettura e ad arrestare la corsa812. In particolare, i giudici di appello sostenevano la configurazione di un dolo alternativo diretto, caratterizzato da una volontà indirizzata, indifferentemente, a provocare un esito letale ovvero un evento diverso; inoltre, ritenevano sussistenti i requisiti di idoneità ed univocità della direzione degli atti a provocare esiti letali, tenuto conto delle dimensioni del sasso, del fatto che dal punto del lancio non fosse possibile vedere le vetture che transitavano sull’autostrada sottostante (da qui l’infondatezza dell’affermazione dell’imputato per cui egli avrebbe, prima del lancio, verificato che non vi fossero veicoli transitanti), nonché dello sforzo, compiuto dall’imputato, di superare con il lancio la rete metallica posta proprio a protezione da atti del tipo di quello effettivamente realizzato813. La Corte di legittimità conferma l’assetto delineato

810 Cass. Pen., Sez. I, 25 marzo 2003, n. 19897, in dejure.giuffre.it811 Cass. Pen., Sez. I, 25 marzo 2003, n. 19897, in dejure.giuffre.it. Conformemente,

Cass. Pen., Sez. I, 3 febbraio 2006, n. 18426, in dejure.giuffre.it, seppur relativamente ad un caso di lancio “mirato”: “le modalità […] dell’azione, alla luce della comune esperienza, sono […] sintomatiche della volontà di attentare all’integrità fisica, e finanche, seppur non in via esclusiva, alla vita dell’automobilista in transito, configurando un’ipotesi di dolo alternativo, compatibile con il tentativo.” Nel caso concreto a cui si riferisce la sentenza appena citata, la condotta si era connotata per un lancio “mirato” di cinque sassi, di peso compreso fra i 200 ed i 700 grammi, i quali avevano colpito il parabrezza ed il tettuccio di una vettura in transito, che procedeva ad una velocità tale per cui un’andatura superiore di soli 10 km/h, secondo la valutazione peritale, avrebbe prodotto un urto che avrebbe frantumato il parabrezza, con conseguente danno alla persona e perdita di controllo del veicolo da parte di essa.

812 La ricostruzione del fatto e degli esiti dei giudizi di merito si ricava dalla sentenza di legittimità sul caso in questione: Cass. Pen., Sez. I, 25 gennaio 2005, n. 5436, in dejure.giuffre.it

813 Cass. Pen., Sez. I, 25 gennaio 2005, n. 5436, in dejure.giuffre.it

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dai giudici di merito, rigettando il ricorso della difesa, il quale non poteva fare altro che tentare di affidarsi a motivi quali l’irrazionalità del gesto e la particolare situazione psicologica dell’imputato, o alla circostanza (evidentemente irrilevante) per cui l’imputato non conoscesse la vittima: a rigetto di tali motivi, si osserva che l’omicidio sia un gesto di per sé irrazionale, non valutabile alla stregua di criteri – appunto – razionali; si aggiunge l’irrilevanza della circostanza per la quale l’imputato non conoscesse la vittima, in quanto il dolo sostenuto dai giudici di merito si configurava proprio come volontà di ledere indifferentemente una od altra persona814.

Di diverso avviso, rispetto alla giurisprudenza sin qui analizzata, è quella parte di dottrina che considera il lancio di sassi da cavalcavia come “produzione fine a sé stessa di un rischio non consentito”. È il caso di fare riferimento, in particolare, alla concezione riconducibile, principalmente, a Luciano Eusebi, per cui l’individuazione di forme non intenzionali di dolo necessiterebbe sempre dell’individuazione di una intenzione (quest’ultima considerata come “prospettiva che dia causa alla condotta”) in vista della realizzazione della quale vi sia “disponibilità a pagare un prezzo”815: il lancio di sassi da cavalcavia mancherebbe, appunto, di detta prospettiva. Chi lancia sassi da cavalcavia – si sostiene – agirebbe con il solo fine, in sé e per sé considerato, di produzione di un rischio, e non con l’intento psicologico di danneggiare o ledere, né con l’intento di produrre altri eventi comunque diversi dalla produzione del rischio, di per sé stessa considerata816. Del resto, a conferma di ciò, si rileva che, ai fini della cessazione della condotta, nei casi in questione, non risulta decisivo l’essersi realizzato o meno di una delle possibili conseguenze lesive: l’unica prospettiva psicologica dell’agente è l’assunzione del rischio, in sé stessa intesa817. Si prosegue sostenendo che neppure nelle ipotesi di lancio “mirato” la condotta apparirebbe sorretta da una prospettiva psicologica consistente nel “ledere”, “danneggiare” o eventi affini: si osserva che, del resto, tali risultati non vengano in alcun modo perseguiti dall’agente in modo diverso818. Le conclusioni a cui giunge l’Autore, se raffrontate con l’assetto giurisprudenziale dominante, sono senz’altro drastiche: non solo esclusione del dolo eventuale o diretto, ma addirittura della capacità di intendere e volere e, dunque, dell’imputabilità, per una “anomala formazione del volere”819.

Per quel che si vuole sostenere in questa tesi, l’impostazione dottrinale appena descritta non appare condivisibile. Ammesso che, conformemente alla teoria finalistica dell’azione, ogni azione umana sia caratterizzata da un fine intenzionale, e che l’evento realizzato con dolo eventuale non sia intenzionalmente perseguito, ma collaterale ed accessorio (e non necessario) rispetto alla realizzazione del fine intenzionalmente perseguito, tuttavia a nulla dovrebbe rilevare la “razionalità” o “irrazionalità” del fine intenzionale stesso: nel caso del lancio di sassi da cavalcavia, il fine intenzionalmente perseguito è il “creare un rischio”, e il “mezzo” per il perseguimento di tale fine è il lancio di

814 Cass. Pen., Sez. I, 25 gennaio 2005, n. 5436, in dejure.giuffre.it815 L. EUSEBI, Appunti, 1097 – 1098.816 L. EUSEBI, Appunti, 1097.817 L. EUSEBI, op. loc. ult. cit. 818 L. EUSEBI, op. loc. ult. cit.819 L. EUSEBI, Appunti, 1098.

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sassi realizzato “a costo di” ledere, uccidere, o eventi affini. Nulla dovrebbe ostare, in base a tale assetto, alla configurabilità del dolo almeno eventuale. Nella presente tesi si è sostenuta, in particolare, la validità della teoria che identifica l’elemento volitivo proprio del dolo eventuale nella accettazione del rischio realizzata tramite subordinazione di un interesse rispetto ad un altro: nel caso del lancio di sassi da cavalcavia, l’interesse che viene “preferito” dall’agente è la soddisfazione del proprio desiderio di “rischiare”, e l’interesse sacrificato è l’incolumità degli utenti della strada. Se non vi fosse sacrificio dell’incolumità degli utenti della strada, l’agente non realizzerebbe il proprio interesse (cioè, “creare il rischio”), tanto che egli si asterrebbe dalla condotta se così non fosse; ragione, questa, per cui non si tratta di un rischio assunto con mera negligenza o imprudenza, ma vi è sicuramente un quid pluris. Quanto alla configurabilità del dolo diretto, essa appare accettabile sicuramente nei casi di lancio “mirato”, mentre in caso di lancio “non mirato” è, forse, eccessiva l’impostazione adottata dalla giurisprudenza: essa rivela, probabilmente, un intento di enfatizzazione dell’intervento punitivo e preventivo del diritto penale820, attraverso la configurazione del dolo diretto la quale permette, a sua volta, di superare l’ostacolo della compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato.

5. Responsabilità dell’ente e delle persone fisiche per incidenti sui luoghi di lavoro. La sentenza di primo grado sul caso Thyssenkrupp.

Prima di entrare nel cuore dell’argomento inerente l’elemento soggettivo nel caso di reati lesivi dell’incolumità fisica o della vita dei lavoratori per incidenti sui luoghi di lavoro, è opportuno delineare brevemente l’assetto legislativo che caratterizza la c.d. “responsabilità amministrativa” dipendente da reato degli enti collettivi: trattasi invero, come è stato osservato in dottrina, di una responsabilità formalmente amministrativa, ma sostanzialmente assimilabile a quella penale, in quanto strettamente legata alla commissione di un fatto di reato da parte di soggetti a loro volta connessi all’ente tramite un rapporto qualificato; a ciò si aggiunga il fatto che l’accertamento della responsabilità in questione venga effettuato in sede penale821.

Il riferimento normativo in tema di responsabilità amministrativa derivante da reato dell’ente è il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Esso prevede, quale ambito soggettivo di applicazione della forma di responsabilità in esso contemplata, enti collettivi forniti di personalità giuridica, nonché società o associazioni anche prive di personalità giuridica; restano esclusi, invece, lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici e quelli che svolgano funzioni di rilievo costituzionale822. Quanto, invece, ai presupposti la cui sussistenza è necessaria ai fini della responsabilità amministrativa dell’ente, essi sono i seguenti: anzitutto, è necessaria la commissione di uno dei reati rientranti fra quelli annoverati dallo stesso d. lgs. 231/2001; in secondo luogo, occorre che l’autore del reato sia un soggetto legato all’ente da un rapporto qualificato; in terzo

820 F. CURI, op. cit., 234. 821 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 163, 165. 822 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 164.

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luogo, è richiesto che la realizzazione del reato prospetti un “interesse” o “vantaggio” dell’ente; infine, il reato dal quale dipende la responsabilità amministrativa non deve essere stato oggetto di amnistia823. Fermo restando tali presupposti, la responsabilità amministrativa dell’ente gode, tuttavia, di una certa “autonomia” rispetto al reato presupposto: essa sussiste anche se non vengono identificati o non sono imputabili gli autori del reato, ovvero se il reato presupposto si estingue per causa diversa dall’amnistia824.

Per quel che riguarda il rapporto qualificato che deve sussistere fra autore del reato presupposto ed ente, dovrà trattarsi di soggetti in posizione apicale, ovvero di soggetti che dipendano da persone in posizione apicale. La posizione apicale, a sua volta, può essere inquadrata con riferimento ai soggetti che, all’interno dell’ente, svolgano funzioni di rappresentanza, amministrazione, direzione, gestione o controllo di fatto825.

Alcune osservazioni debbono essere effettuate anche con riferimento ai requisiti dell’“interesse” o “vantaggio” dell’ente. Trattasi di una connessione di tipo oggettivo fra ente e realizzazione del reato presupposto826, la quale ha ricevuto varie interpretazioni, ed ha suscitato problemi a seguito dell’annovero, fra i reati la cui commissione da parte di soggetti qualificati possa dare luogo alla responsabilità amministrativa dell’ente, di fattispecie colpose: prima del 2007, invero, la presenza di sole fattispecie dolose nel novero dei reati-presupposto non creava particolari problemi di compatibilità con i requisiti dell’“interesse” o “vantaggio” dell’ente, mentre problemi di sorta possono sorgere se si considerano le fattispecie colpose introdotte dal 2007 (in particolare, omicidio colposo e lesioni colpose), caratterizzate da assenza di un “finalismo” dell’azione orientato alla realizzazione del reato827.

Anzitutto, non si può trascurare quanto affermato nella relazione al d. lgs. 231/2001, ove si precisa che il requisito dell’“interesse” consisterebbe in un aspetto soggettivo della condotta, per il quale sarebbe sufficiente una verifica ex ante, mentre il requisito del “vantaggio” configurerebbe un aspetto di carattere oggettivo, potendo essere tratto dall’ente anche qualora l’autore del reato non avesse agito “nell’interesse” dell’ente stesso, e richiederebbe una verifica ex post828. Non può sfuggire, tuttavia, che un’impostazione di questo genere risulti quantomeno dubbia con riferimento ai reati-presupposto di carattere colposo, se non altro per quel che concerne il requisito dell’“interesse”: appare evidentemente evanescente la configurazione di un reato colposo – privo di atteggiamento finalistico orientato alla realizzazione del

823 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 165. 824 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. loc. cit.825 Il riferimento normativo è dato dagli artt. 6 e 7 del d. lgs. 231/2001. L’analisi del dato

normativo è effettuata, tra gli altri, da G. FIANDACA – E. MUSCO, op. loc. cit.; in modo più approfondito, F. CURI, Colpa di organizzazione ed impresa: tertium datur. La responsabilità degli enti alla luce del Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro, in F. CURI, a cura di, Sicurezza nel lavoro, Bologna, Bononia University Press, 2009, 136 – 138.

826 F. CURI, op. ult. cit., 132.827 F. CURI, op. ult. cit., 132 – 133; E. R. BELFIORE, La responsabilità del datore di lavoro

e dell’impresa per infortuni sul lavoro: profili di colpevolezza, in www.archiviopenale.it, 2011, n. 2, p. 9 del documento.

828 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., 165.

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reato stesso – caratterizzato dal perseguimento soggettivo di un “interesse”829; si è anche osservato che l’eventuale tentativo di inquadramento di un reato colposo commesso nell’interesse dell’ente divenga, sostanzialmente, un mero esercizio accademico830.

Le soluzioni proposte da dottrina e giurisprudenza al fine del superamento delle suddette problematiche sono, perlopiù, incentrate su una ricostruzione oggettiva del concetto di “interesse”: fondamentalmente, si sostiene che l’“interesse” debba essere inteso con riguardo non già al reato colposo, bensì alla condotta ad esso sottotesa, che sia stata posta in essere dalla persona fisica nello svolgimento della sua attività all’interno dell’ente831; ne consegue che – come è stato evidenziato in giurisprudenza – la responsabilità dell’ente dovrebbe avere quale presupposto un reato commesso concretamente ed oggettivamente nell’interesse dell’ente, e non necessariamente commesso con l’intenzione, da parte dell’autore, di perseguire l’interesse dell’ente832. Nonostante tale impostazione non sia stata esente da critiche negative833, è stato anche evidenziato che il criterio, oggettivamente inteso, dell’“interesse” dell’ente possa essere meglio precisato attraverso il riferimento – ancora una volta – alla relazione di accompagnamento al d. lgs. 231/2001, ove si afferma che detto criterio debba considerarsi espressivo del principio di “immedesimazione organica” fra autore del reato ed ente: se si intende offrire un’interpretazione conforme al principio di “immedesimazione organica”, dovrebbe considerarsi ascrivibile all’ente soltanto la responsabilità connessa ad un reato realizzato, da parte dell’autore, nello svolgimento di attività ontologicamente collegata all’attività dell’autore stesso all’interno dell’ente834. Volendo trarre conclusioni con riferimento alla responsabilità dell’ente dipendente da reati colposi, essa sussisterebbe qualora la condotta colposa che abbia dato luogo al reato sia stata trasgressiva di regole cautelari il cui rispetto fosse connaturato all’agire lecito dell’ente; dovrebbe essere, viceversa, esclusa qualora la condotta caratteristica del reato realizzato sia stata “abnorme” rispetto alle finalità tipiche dell’ente835.

Per quel che attiene alla componente della colpevolezza, la responsabilità amministrativa dell’ente richiede una “colpa di organizzazione”, ovvero una inefficacia e carenza organizzativa in quel che attiene all’attività di prevenzione e gestione del rischio o della realizzazione di eventi lesivi836. Trattasi di una colpevolezza che non può, ovviamente, essere intesa in senso psicologico,

829 M. RIVERDITI, “Interesse o vantaggio” dell’ente e reati (colposi) in materia di sicurezza sul lavoro: cronistoria e prospettive di una difficile convivenza, in www.archiviopenale.it, 2001, n. 2, pp. 3 – 4 del documento.

830 M. RIVERDITI, op. cit., 4. 831 F. CURI, op. ult. cit., 133 – 134. 832 M. RIVERDITI, op. cit., 8. L’Autore cita anche alcuni estratti di Trib. Trani, Sez. dist.

Molfetta, 11 gennaio 2010. 833 Trattasi di critiche negative puntualmente riassunte da F. CURI, op. ult. cit., 134. 834 M. RIVERDITI, op. cit., 12. Beninteso che ciò non significa richiedere che all’autore del

reato debbano essere state attribuite, all’interno dell’ente, funzioni consistenti nella realizzazione di attività penalmente illecita, bensì richiedere che l’autore avesse agito nel perseguimento di compiti ad esso affidati all’interno dell’ente (ivi, 13).

835 M. RIVERDITI, op. cit., 14. 836 F. CURI, op. ult. cit., 143.

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stante la mancanza di collegamento “psichico-naturalistico” fra ente e realizzazione del reato; piuttosto, si è evidenziato che dovrebbe trattarsi di una colpevolezza di carattere “normativo”: ciò che si rimprovera all’ente è la mancata attuazione di un modello organizzativo o di una politica d’impresa idonei alla prevenzione e gestione dei rischi o della realizzazione di eventi lesivi837. Tale tipo di colpevolezza, peraltro, viene meno qualora vi sia stata adozione di un “modello di organizzazione e gestione” (m.o.g.) idoneo a prevenire, appunto, rischi ed eventi lesivi838. L’adozione dei m.o.g. non è obbligatoria per l’ente, ma esonera l’ente stesso da responsabilità amministrativa: in tal senso, il legislatore ha voluto innescare una sorta di meccanismo incentivante839. Risulta significativo notare che la colpevolezza dell’ente, ricostruita alla stregua dei criteri e parametri qui menzionati, venga a caratterizzarsi come una colpevolezza non “per il fatto”, bensì “sganciata dal fatto”840.

A fronte del quadro delineato, si è tentata l’individuazione di un parallelismo fra responsabilità amministrativa dell’ente e categorie generali del diritto penale classico in ordine alla responsabilità e colpevolezza delle persone fisiche; fermo restando che non potrà, ovviamente, trattarsi di un parallelismo “rigoroso”, in quanto non è possibile individuare un legame psicologico fra ente e fatto di reato dal quale dipenda la responsabilità dello stesso ente841. Volendo identificare parallelismi con riferimento al solo diritto interno, si è osservato che la responsabilità amministrativa dell’ente possa connotarsi come di natura “essenzialmente colposa”, la quale ricorderebbe da vicino la “misura oggettiva della colpa”842. Vi è anche chi ha precisato che la non osservanza dei contenuti di cui agli artt. 6 e 7 del d. lgs. 231/2001 darebbe luogo a colpa generica, mentre il mancato rispetto dei contenuti minimi di cui all’art. 30 del d. lgs. 81/2008 comporterebbe una colpa specifica843. D’altra parte, è stato effettuato in dottrina un interessante spunto comparatistico, il quale ha evidenziato le

837 F. CURI, op. ult. cit., 143.838 F. CURI, op. ult. cit., 138 – 139. Si evidenzia, inoltre, che la prova liberatoria per l’ente

assume caratteri diversi a seconda che si tratti di reato presupposto commesso da soggetti in posizione apicale, ovvero da soggetti “sottoposti”: nel primo caso, l’ente si libererà da responsabilità dimostrando (con inversione dell’onere della prova) di aver attuato un m.o.g. idoneo a prevenire reati del tipo di quello verificatosi; nel secondo, l’ente sarà responsabile solo qualora la pubblica accusa dimostri che la commissione del reato si fosse resa possibile a causa dell’inosservanza di obblighi di direzione o vigilanza (si tratterebbe comunque, anche in tal caso, di un deficit organizzativo).

839 F. CURI, op. ult. cit., 139 – 140. Si specifica, inoltre, che i riferimenti normativi che precisano i contenuti e le funzioni dei m.o.g. sono l’art. 6, comma 2, d. lgs. 231/2001 e l’art. 30, d. lgs. 81/2008.

840 E. R. BELFIORE, op. cit., 7. L’Autore cita le osservazioni di Filippo Sgubbi, richiamando L. MONTUSCHI – F. SGUBBI, Ai confini tra dolo e colpa. Il caso Thyssenkrupp, in [email protected]. Studi e materiali di diritto penale, 2009, 2, 388.

841 F. CURI, op. ult. cit., 143.842 F. CURI, op. ult. cit., 145, ove si richiama G. DE SIMONE, I profili sostanziali della

responsabilità c.d. amministrativa degli enti: la “parte generale” e la “parte speciale” del D. lgs. 8 giugno 2001 n. 231, in G. GARUTI, a cura di, Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, Padova, Cedam, 2002, 107 ss.

843 F. CURI, op. ult. cit., 146, ove si richiama A. ROSSI, Modelli di organizzazione, gestione e controllo: regole generali e individuazioni normative specifiche, in Giur. it., 2009, 1840.

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analogie fra i caratteri della responsabilità amministrativa dell’ente e la recklessness di matrice anglosassone, che identifica una “terza forma” di colpevolezza, accanto all’intention ed alla negligence: una “terza forma” che si colloca, quindi, a metà strada fra dolo e colpa, e si inquadra, sostanzialmente e sinteticamente, nella “assunzione consapevole di un rischio”844. A ben vedere, la colpevolezza caratteristica della responsabilità amministrativa dell’ente, nell’ambito del sistema giuridico italiano, consiste proprio nella rimproverabilità per l’assunzione consapevole di un rischio: ciò che si rimprovera all’ente è il non aver predisposto un modello organizzativo e gestionale idoneo alla prevenzione dei rischi, a fronte dell’opportunità di farlo845.

Poste tali considerazioni sulla responsabilità amministrativa dell’ente, nell’ottica di un’analisi delle questioni inerenti il confine fra dolo e colpa, assume una particolare rilevanza la recente vicenda giudiziaria denominata “caso Thyssenkrupp”, nella quale aspetti riguardanti la responsabilità delle persone fisiche (e, in particolare, la colpevolezza delle persone fisiche) ed aspetti relativi alla responsabilità dell’ente si intrecciano: va infatti rammentato che, fra il novero dei reati-presupposto per la responsabilità amministrativa dell’ente, vi siano omicidio e lesioni (commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro) nella forma colposa, ma non nella forma dolosa. Il tutto senza tralasciare la già di per sé problematica questione concernente l’individuazione dell’elemento soggettivo delle persone fisiche, in un contesto di base lecito in cui l’evento lesivo non era certamente perseguito in modo intenzionale e caratterizzato, tuttavia, dalla consapevole (e, si potrebbe aggiungere, estremamente evidente e “grave”, nel caso di specie) mancata adozione di un modello organizzativo e di gestione idoneo a prevenire eventi del tipo di quello verificatosi.

Il fatto concreto sul quale si basa il caso Thyssenkrupp vede la morte di sette operai, provocata da un incendio divampato, nella notte tra il 5 ed il 6 dicembre 2007, all’interno delle acciaierie torinesi gestite dalla multinazionale interessata846. Quanto ai capi d’imputazione per le persone fisiche, essi riguardavano l’amministratore delegato per omicidio ed incendio sorretti da dolo eventuale, sulla base della mancata adozione di misure tecniche, organizzative, procedurali e di prevenzione, a fronte della rappresentazione della concreta possibilità del verificarsi di incidenti mortali o incendi; nonché altri cinque soggetti in posizione apicale (amministratori e dirigenti) per omicidio ed incendio colposi, aggravati dalla previsione dell’evento, in quanto essi avrebbero omesso di segnalare la necessità di adozione di idonee misure, a fronte – anche in tal caso – della rappresentazione della concreta possibilità di verificazione di incidenti mortali o incendi: non può sfuggire, fin da subito, l’evidente oscillazione nella configurazione del profilo psicologico847. L’imputazione nei confronti dell’ente, incentrata sulla responsabilità ex d. lgs. 231/2001, vedeva, quale reato presupposto, quello di omicidio colposo contestato ai cinque soggetti in

844 F. CURI, op. ult. cit., 148. 845 F. CURI, op. ult. cit., 148 – 149. 846 S. ZIRULIA, ThyssenKrupp, fu omicidio volontario: le motivazioni della Corte d’Assise,

in www.penalecontemporaneo.it 847 F. CURI, op. ult. cit., 149.

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posizione apicale da ultimo citati848. L’esito del giudizio di primo grado vede, sostanzialmente, l’accoglimento dei capi d’imputazione delineati.

Le motivazioni della Corte d’Assise di Torino, in oltre cinquecento pagine, ripercorrono dettagliatamente i risultati conseguiti nel corso del dibattimento, dai quali era emerso, in sintesi, che, sin dal 2006, le acciaierie torinesi della Thyssen fossero affette da gravi carenze e deficit a livello strutturale ed organizzativo con riguardo alla sicurezza sul lavoro e, in particolare, alle misure antincendio: si evidenziano, tra l’altro, la mancanza del certificato di prevenzione incendi, la riduzione degli interventi di manutenzione e pulizia sulle linee, la noncuranza relativamente alle perdite di olio le quali causavano frequenti incendi di varie proporzioni, la mancata adozione di adeguati mezzi di spegnimento incendi (lo spegnimento era affidato alla “mano dell’uomo”), il fatto che i dipendenti non fossero stati dotati di adeguata formazione o indumenti ignifughi849. Il punto cruciale consiste, tuttavia, nel fatto che tale quadro fosse frutto di precise scelte di politica aziendale adottate da parte della Thyssen: da un lato, il trasferimento degli impianti da Torino a Terni, con posticipazione di tutti gli interventi di fire prevention, i quali sarebbero stati effettuati solo nella nuova sede; dall’altro, il mantenimento dell’attività negli stabilimenti torinesi fino alla definitiva chiusura, “il più a lungo possibile”, con prospettazione di una sorta di “chiusura a scalare” progressivamente con il trasferimento degli impianti. È chiaro che tali scelte rispondevano a logiche di profitto850.

La sentenza in questione provvede, altresì, all’effettuazione di un elenco delle accertate violazioni del d. lgs. n. 626/1994 e del D.P.R. n. 547/1955 i quali prescrivono, sostanzialmente ed in sintesi, misure generali per la protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, valutazione dei rischi, adozione di programmi per la prevenzione, formazione ed informazione/consultazione/partecipazione dei lavoratori per le questioni attinenti alla sicurezza, adeguato aggiornamento delle misure di prevenzione in

848 F. CURI, op. loc. ult. cit.849 S. ZIRULIA, op. cit. Se si scende, poi, nel cuore delle motivazioni della sentenza (Corte

Ass. Torino, 15 aprile 2011, deposito 14 novembre 2011, in www.penalecontemporaneo.it ), ove i giudici ripercorrono nel dettaglio gli elementi probatori valutati a fondamento della decisione, si possono rilevare dati concreti particolarmente pregnanti, i quali pongono in estrema evidenza le carenze strutturali ed organizzative che caratterizzavano gli stabilimenti torinesi: carenze strutturali che rendevano detti stabilimenti inferiori rispetto agli standard degli altri stabilimenti delle sub – holding Thyssen (p. 89 della sentenza), risultanti non solo alla luce di dati e prove testimoniali, ma addirittura in considerazione della pura apparenza esteriore (p. 89 della sentenza); emblematiche sono le affermazioni di chi aveva avuto esperienza lavorativa in altri stabilimenti Thyssen, che definiscono le condizioni dello stabilimento torinese come un “pianeta diverso” (pp. 90 – 91 della sentenza); viene posto l’accento, tra gli altri aspetti, sul fatto che a Terni vi fosse una squadra interna di Vigili del fuoco, la cui presenza era obbligatoria quando i lavoratori dovevano compiere operazioni a rischio incendio (p. 91 della sentenza), mentre lo stabilimento di Torino era caratterizzato, al contrario, da un piano d’emergenza antincendio estremamente inadeguato, farraginoso (pp. 99 – 100 della sentenza) il quale, in sostanza ed in linea di massima, comportava che i lavoratori dovessero in prima istanza tentare di spegnere l’incendio autonomamente, riservando la chiamata della squadra d’emergenza alle sole ipotesi in cui ciò non fosse riuscito, nonché la chiamata dei Vigili del fuoco alla sola iniziativa, eventuale, della squadra d’emergenza (p. 105 della sentenza). Appare quasi sconcertante l’affermazione, riportata da un teste, per cui episodi di incendi fossero, nello stabilimento torinese, quasi giornalieri (p. 105 della sentenza).

850 S. ZIRULIA, op. cit.

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base al grado di evoluzione delle metodologie disponibili; il tutto, chiaramente, con configurazione di corrispettivi obblighi in capo al datore di lavoro851.

L’assetto appena delineato costituisce la base per lo sviluppo delle conclusioni in punto di diritto effettuate dalla Corte d’Assise, in particolare in ordine alla qualificazione dell’elemento psicologico del reato, rispettivamente in capo all’amministratore delegato ed agli altri cinque amministratori e dirigenti la cui imputazione si fondava sulla colpa aggravata. I giudici di primo grado richiamano espressamente la già citata sentenza della Corte di Cassazione n. 10411/2011, ove la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente viene individuata mediante un duplice riferimento: anzitutto, alla prima formula di Frank; quindi, alla teoria che valorizza l’aspetto della subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro. Tramite il richiamo alla prima formula di Frank, si sostiene che, a fronte dell’identità dell’elemento intellettivo, il dolo eventuale sussista qualora l’agente avrebbe realizzato la condotta anche se avesse avuto la certezza di realizzazione dell’evento, mentre sussisterebbe colpa cosciente quando l’agente, se avesse avuto detta certezza, avrebbe desistito. Si precisa inoltre, per quel che attiene al profilo della rappresentazione, che il tenore letterale dell’art. 61 n. 3 richieda, ai fini della colpa cosciente, persistenza della rappresentazione positiva di realizzazione dell’evento al momento della tenuta della condotta; rappresentazione positiva che, dunque, non deve essere stata sostituita da una rappresentazione negativa o dalla rimozione del dubbio, nel momento in cui la condotta venga posta in essere; ne consegue che il dubbio non esclude e non è sufficiente ad integrare il dolo, ed è compatibile sia con il dolo che con la colpa cosciente. Si prosegue con la valutazione per cui una qualche accettazione del rischio sussista ogniqualvolta ci si determini ad agire pur senza la certezza soggettiva in ordine alla non realizzazione dell’evento oggetto di rappresentazione. La conseguenza del complesso di tali affermazioni consiste nell’individuazione di un discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente che vada al di là della sola componente dell’accettazione del rischio (dato che questa caratterizza anche la colpa cosciente), e che viene inquadrato nell’accettazione del rischio realizzata tramite una subordinazione consapevole di un bene giuridico rispetto ad un altro: agirebbe con dolo eventuale, dunque, il soggetto che, perseguendo intenzionalmente un fine, si rappresenti e colga la correlazione tra il soddisfacimento del proprio interesse (il raggiungimento del fine intenzionale) ed il sacrificio di un bene diverso (sacrificio che però – è bene tenerlo sempre presente – si identifica in un possibile evento lesivo accessorio e collaterale rispetto alla realizzazione del fine intenzionalmente perseguito, e non necessario ad essa), valuti tali interessi in gioco ed attribuisca prevalenza al proprio, sacrificando il bene diverso. La lesione del bene diverso viene accettata quale “prezzo (eventuale) da pagare” per il conseguimento del risultato intenzionalmente perseguito, venendo posta coscientemente in correlazione con quest’ultimo, sicché l’obiettivo intenzionalmente perseguito attrae l’evento collaterale852. La colpa cosciente viene, per converso, identificata nell’ipotesi in cui l’agente, nonostante la rappresentazione dell’evento, abbia

851 Corte Ass. Torino, 15 aprile 2011 (deposito 14 novembre 2011), in www.penalecontemporaneo.it , pp. 208 ss. della sentenza.

852 Corte Ass. Torino, 15 aprile 2011 (deposito 14 novembre 2011), in www.penalecontemporaneo.it , pp. 325 – 326 della sentenza.

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posto in essere la condotta escludendone la possibilità di realizzazione, nella convinzione o nella ragionevole speranza di poterlo evitare, per proprie abilità o per intervento di altri fattori853.

Stabiliti i suddetti punti di diritto, la Corte d’Assise giunge ad inquadrare la colpa cosciente con riferimento ai cinque imputati diversi dall’amministratore delegato. La condotta penalmente rilevante viene individuata nell’omissione di segnalazione dell’esigenza di adozione delle misure indispensabili a prevenire e gestire il rischio di realizzazione di eventi del tipo di quello verificatosi, nonostante la previsione dell’evento854. I giudici ritengono, tuttavia, fondato che gli imputati in questione confidassero nella non verificazione dell’evento, alla luce della loro posizione aziendale, completamente dipendente dai dirigenti di Terni e dai vertici di TK AST (altra società del gruppo Thyssen): essi, cioè, avrebbero confidato che i vertici rispetto a loro gerarchicamente sovraordinati (compreso, peraltro, anche l’amministratore delegato) avrebbero evitato il verificarsi dell’evento oggetto di rappresentazione855.

A parere di chi scrive, da un punto di vista esclusivamente teorico, desta qualche perplessità il fatto che, ai fini dell’identificazione della colpa cosciente, si persista nel voler far leva su concetti quali “ragionevole speranza”/ “fiducia” nella non verificazione dell’evento. Se si accoglie l’interpretazione dell’art. 61 n. 3 per la quale, ai fini della configurazione della colpa cosciente, la rappresentazione positiva di realizzazione dell’evento debba persistere al momento della tenuta della condotta, e non debba essere stata sostituita da una previsione negativa, “controprevisione” o rimozione del dubbio, il ricorso ai suddetti concetti appare quantomeno discutibile: nel momento in cui il soggetto agisce con la “fiducia che l’evento non si verificherà”, agisce rappresentandosi la “non verificazione dell’evento”. Inoltre, se si accoglie la teoria per cui l’accettazione del rischio è, anch’essa, elemento comune a dolo eventuale e colpa cosciente, ed il dolo eventuale si distingue alla luce di un’accettazione del rischio realizzata tramite una deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro, tale deliberazione costituisce già, di per sé, l’elemento che differenzia dolo eventuale e colpa cosciente. L’inquadramento della colpa cosciente non dovrebbe necessitare, dunque, del ricorso ai concetti di “ragionevole speranza” o “fiducia” nella non verificazione dell’evento; dovrebbe essere, invece, sufficiente valutare se la determinazione ad agire, a fronte della rappresentazione della possibilità di realizzazione dell’evento lesivo, sia sorretta o meno da una deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro: in caso affermativo, si avrà dolo eventuale; in caso negativo, colpa cosciente (nello specifico, si avrà un’accettazione del rischio sorretta solamente da negligenza o imprudenza). Nel caso di specie, si sarebbe comunque – a parere di chi scrive – potuto pervenire alla conclusione della sussistenza della colpa cosciente in capo agli imputati diversi dall’amministratore delegato poiché, probabilmente, la loro posizione aziendale (subordinata rispetto ad altri vertici, nonché rispetto all’amministratore delegato)

853 Corte Ass. Torino, 15 aprile 2011 (deposito 15 novembre 2011), in www.penalecontemporaneo.it , pp. 302 – 303.

854 Corte Ass. Torino, 15 aprile 2011 (deposito 15 novembre 2011), in www.penalecontemporaneo.it , pp. 302 – 302.

855 Corte Ass. Torino, 15 aprile 2011 (deposito 15 novembre 2011), in www.penalecontemporaneo.it , pp. 302 – 303, 308, 320.

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avrebbe impedito di identificare una vera e propria presa di posizione della volontà, consistente nella deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro.

Appare, d’altro canto, perfettamente coerente l’impostazione relativa alla responsabilità dell’amministratore delegato: fu proprio lui, in persona, ad adottare la scelta di “chiusura a scalare” dello stabilimento; fu proprio lui a decidere l’azzeramento degli investimenti previsti e necessari, nonché delle condizioni minime di sicurezza indispensabili in uno stabilimento del tipo di quello in cui si verificò il fatto856; il tutto nell’ottica del profitto aziendale. Del resto, la sussistenza di un elemento intellettivo particolarmente pregnante (previsione di concreta ed elevata probabilità di verificazione di incendi o incidenti mortali) viene ricavata in considerazione della preparazione e della competenza specifica dello stesso amministratore delegato, nonché del fatto che egli avesse ricevuto anche pressioni da parte di altre società del gruppo, presso le quali si erano precedentemente verificati incendi857. In base a tali premesse, si può veramente identificare, con relativa facilità, un’ipotesi di dolo eventuale che si spiega perfettamente tramite la teoria che valorizza la subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro: si tratta dell’atteggiamento psicologico del soggetto che, nell’ambito del perseguimento intenzionale di un fine (vantaggio economico, nel caso di specie), si rappresenta la possibilità/probabilità che la condotta correlata al perseguimento di detto fine provochi eventi lesivi di altri beni giuridici (in questo caso, incendi e lesione della vita o dell’integrità fisica dei lavoratori) e, a fronte dell’alternativa fra non persistere nella tenuta della condotta correlata al perseguimento del fine intenzionale – con parallela tutela di altri beni giuridici – e, viceversa, persistere nella tenuta di essa a costo di ledere beni giuridici, opta per questa seconda alternativa, con deliberazione di subordinazione di beni giuridici rispetto al proprio interesse intenzionalmente perseguito. L’amministratore delegato avrebbe, quindi, consapevolmente subordinato l’incolumità dei lavoratori rispetto agli obiettivi economici aziendali, accettando il rischio che l’incolumità dei lavoratori venisse irrimediabilmente sacrificata858: ma si tratta di una “accettazione” che non connota il dolo eventuale di per sé stessa, bensì in quanto effettuata tramite l’appena descritto processo di comparazione fra gli interessi in gioco e susseguente deliberazione di subordinazione di taluni di essi rispetto ad altri.

Parte della dottrina non ha mancato di rilevare o, quantomeno, di suscitare il sospetto che un dispositivo di questo genere lasci trapelare la presenza di una logica presuntiva fondante la condanna per dolo eventuale in capo all’amministratore delegato, considerato quale vertice decisionale di Thyssenkrupp: se ciò fosse vero, la decisione in questione rischierebbe di assumere un carattere meramente simbolico859 o strumentale in un’ottica

856 S. ZIRULIA, op. cit.857 S. ZIRULIA, op. cit.858 S. ZIRULIA, op. cit.859 G. MARRA, Regolazione del rischio, dolo eventuale e sicurezza del lavoro. Note a

margine del caso Thyssen, in olympus.uniurb.it, pp. 5-6 del documento. Da notare, tuttavia, che il testo in questione è stato redatto prima del deposito delle motivazioni della sentenza in esame.

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puramente generalpreventiva860. Significative sono le osservazioni di chi ha evidenziato che la pronuncia sul caso Thyssenkrupp debba “far sperare i lavoratori e far pensare gli imprenditori”, dovendo essere interpretata come una sorta di “riscatto del lavoro”, in quanto “la vita di un lavoratore non si può trasformare in profitto”861: considerazioni che mettono in luce la potenzialità “simbolica” della sentenza in esame.

Ancora, si è criticato negativamente un utilizzo del dolo che pare svuotare il dolo stesso del suo contenuto psicologico, trasformandolo in un modello puramente normativo: si tratterebbe quasi di una trasformazione della “colpa macroscopica” in dolo o, quantomeno, di un surrettizio utilizzo del carattere macroscopico della colpa al fine di giustificare l’affermazione del dolo (svuotato, come si è detto, del proprio contenuto psicologico)862. Sostanzialmente sulla stessa linea si è evidenziato, con terminologia molto pregnante, che “ la ‘fame’ del dolo, stimolata dall’istanza generalprevenzionistica, assume sempre più i caratteri della crisi bulimica”863, giungendo a “trasformare in dolo la colpa, almeno quando quest’ultima si sostanzia in una grave trascuratezza dell’agente rispetto ai beni della vita, dell’incolumità fisica e della salute”, con insistenza ed accento sulla “riprovevolezza etica del comportamento colposo” e con “l’etichettamento come ‘assassino’ del colpevole”864. In tal modo, il dolo giunge a coincidere con l’antico concetto di “culpa”, intesa come consapevole deviazione da un modello comportamentale previsto per l’ambito di attività di riferimento865.

A parere di chi scrive, come si è già accennato, l’inquadramento del dolo eventuale con riferimento all’amministratore delegato è, nel caso di specie, condivisibile, e si addice quasi perfettamente alla teoria che valorizza il binomio “dolo eventuale” – “deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro”. Tuttavia, ciò non deve dare adito all’affermazione automatica della responsabilità per dolo eventuale in capo al datore di lavoro in qualsivoglia ipotesi di infortunio sul lavoro in contesti caratterizzati dall’omissione di misure precauzionali o antinfortunistiche866.

Passando alle conclusioni concernenti la responsabilità amministrativa dell’ente, la Corte d’Assise riconosce tale responsabilità ai sensi dell’art. 25 – septies, comma 1, del d. lgs. 231/2001 (quindi, in dipendenza del reato di omicidio colposo commesso con violazione di norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro), condannando la società ad una sanzione pecuniaria pari ad un milione di euro, nonché a diverse sanzioni di tipo interdittivo ed alla confisca del profitto del reato; a tutto ciò si aggiunga la disposizione della pubblicazione della sentenza su tre quotidiani a diffusione

860 G. MARRA, op. cit., 18.861 Questi i commenti citati da G. MARRA, op. cit., 18 – 19. 862 E. R. BELFIORE, op. cit., 7. 863 M. RONCO, La tensione tra dolo e colpa nell’accertamento della responsabilità per gli

incidenti sul lavoro, in www.archiviopenale.it , 2011, n. 2, p. 1 del documento. 864 M. RONCO, op. cit., 3. 865 M. RONCO, op. loc. cit.866 Lo stesso procuratore Guariniello, pubblico ministero occupatosi del caso in questione,

afferma che “il dolo non è applicabile meccanicamente a tutti i casi di infortunio sul lavoro” (citazione tratta da F. BACCHINI, La sentenza Thyssen, in www.hyperedizioni.com).

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nazionale867. In sede di motivazione della sentenza, la Corte si ritrova a dover affrontare e chiarire il problema della natura giuridica della responsabilità dell’ente, peraltro anche in conseguenza dei rilievi della difesa la quale riteneva addirittura incostituzionali gli artt. 5, 6 e 7 del d. lgs. 231/2001, per violazione dell’art. 27 Cost., in quanto essi avrebbero determinato una presunzione di colpevolezza in capo all’ente, con inversione dell’onere della prova; la difesa lamentava, inoltre, la genericità degli artt. 6 e 7, nonché l’irragionevolezza del sistema sanzionatorio complessivamente considerato e prospettato dal d. lgs. 231/2001, laddove esso, in taluni casi, comporta sanzioni più lievi per l’ente qualora il reato presupposto sia commesso con dolo, a fronte di sanzioni più gravi per l’ente qualora il reato presupposto sia di natura colposa868.

La Corte d’Assise rigetta le suddette doglianze, concludendo con l’affermazione della natura “senz’altro amministrativa” della responsabilità dell’ente ai sensi del d. lgs. 231/2001: la quale, dunque, esulerebbe dai principi propri del sistema penalistico, quali quelli di colpevolezza, tassatività e ragionevolezza869.

Quanto, poi, ai requisiti dell’“interesse” o “vantaggio” dell’ente, i giudici affermano che “le gravissime violazioni della normativa antinfortunistica ed antincendio, le colpevoli omissioni, sono caratterizzate da un contenuto economico rispetto al quale l’azienda non solo aveva interesse, ma se ne è anche sicuramente avvantaggiata, sotto il profilo del considerevole risparmio economico che ha tratto omettendo qualsiasi intervento”: in tal senso, viene accolta l’impostazione conformemente alla quale i concetti di “interesse” e “vantaggio” debbano essere valutati con riguardo alla condotta penalmente rilevante, e non con riguardo al reato considerato nel suo complesso (condotta ed evento; è chiaro che l’evento “morte” non potrà mai rappresentare un “interesse” o un “vantaggio” per l’ente)870. Coerente con tale ricostruzione dovrebbe essere la concezione oggettiva dei requisiti dell’“interesse” e del “vantaggio”: sicché sarà rilevante, ai fini della responsabilità amministrativa dell’ente, il reato realizzato dal soggetto apicale nell’esercizio delle proprie funzioni all’interno dell’ente, e con violazione di norme fondanti l’agire lecito dell’ente (nel caso di specie, le norme in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro)871.

Quanto alla mancata adozione del “modello organizzativo e di gestione” idoneo a prevenire rischi ed eventi lesivi del tipo di quello verificatosi, su tale punto la Corte non incorre in particolari problemi, in quanto non solo l’ente non aveva dimostrato l’adozione di tale modello, ma addirittura risultava provata, a livello documentale, la mancata adozione di esso al tempo in cui si verificò il fatto penalmente rilevante872.

867 M. L. MINNELLA, D. lgs. n. 231 del 2001 e reati colposi nel caso ThyssenKrupp. Sulla responsabilità dell’ente per gli omicidi colposi con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, in www.penalecontemporaneo.it

868 Le doglianze della difesa sono riassunte da M. L. MINNELLA, op. cit. 869 M. L. MINNELLA, op. cit. 870 M. L. MINNELLA, op. cit.871 M. L. MINNELLA, op. cit.872 M. L. MINNELLA, op. cit.

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CAPITOLO VPROGETTI DI RIFORMA, SPUNTI DI DIRITTO PENALE

COMPARATO ED AUSPICATA DEFINIZIONE DI UN TERTIUM GENUS NELL’AMBITO DELL’ELEMENTO SOGGETTIVO

SOMMARIO: 1. Progetti di riforma del codice penale italiano – 2. La recklessness nell’ordinamento inglese – 3. La mise en danger francese – 4. Il cosciente desprecio por la vida de los demas – 5. Verso la definizione di un tertium genus nell’ambito dell’elemento soggettivo? – 6. Considerazioni conclusive.

1. Progetti di riforma del codice penale italiano

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È opportuno fare riferimento ai più o meno recenti progetti di riforma del codice penale italiano che si sono susseguiti a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, i quali hanno tentato di proporre, tra l’altro, nuove formulazioni delle definizioni di dolo e colpa, nell’ottica di un miglioramento dell’attuale assetto indicato dall’art. 43: si tratta, in ordine cronologico, dei progetti Pagliaro, Riz, Grosso, Nordio e Pisapia. In estrema sintesi, il primo si limita a porre principi generali ai quali avrebbe dovuto ispirarsi il legislatore delegato (veniva, infatti, prescelto lo strumento normativo della delega legislativa) nella formulazione delle definizioni di dolo e colpa; il secondo recepisce, sostanzialmente, la teoria dell’accettazione del rischio873; i progetti Grosso e Nordio, come si vedrà, in effetti manifestano, per quel che attiene alla definizione del dolo, non già un progresso, bensì un regresso rispetto all’attuale art. 43, incorrendo nell’errore di svalutazione della componente volitiva del dolo eventuale e dando adito a tendenze di oggettivizzazione e normativizzazione del dolo eventuale stesso; con riferimento alla colpa, il progetto Grosso tenta una definizione di “delitto colposo” maggiormente complessa ed “arricchita” rispetto a quella attuale, quando invece il progetto Nordio appare, rispetto al progetto Grosso, “di retroguardia” anche su questo frangente874; il progetto Pisapia, infine, prospetta una definizione di dolo eventuale che potrebbe essere, in linea di massima, condivisibile875. D’altra parte, per quel che attiene alla colpa, l’ultimo progetto citato elimina l’aggravante prevista specificamente per la colpa “con previsione”, postulando una categoria generale di “colpa grave” non necessariamente coincidente con la colpa cosciente, e che debba essere individuata tenuto conto della concreta situazione, anche psicologica, dell’agente, nonché della pericolosità della condotta e della rilevanza della violazione di regole cautelari876.

Passando all’analisi dettagliata dei progetti de lege ferenda elencati, occorre prendere le mosse dal meno recente fra essi, ossia il progetto Pagliaro del 1992. Esso, come si è accennato, presceglie l’adozione dello strumento normativo della delega legislativa, e da tale aspetto deriva la “povertà” degli elementi offerti877: quanto al dolo, ci si limitò a proporre la formulazione di una definizione la quale comprendesse in modo univoco anche il dolo eventuale e che richiedesse, in ogni caso, la necessità che il soggetto fosse consapevole del significato del fatto878; per quel che riguarda la colpa, l’unica indicazione rivolta al legislatore delegato prevedeva che la formulazione della relativa definizione avrebbe dovuto essere effettuata in modo tale che, in qualsiasi forma di colpa, l’imputazione si sarebbe fondata su un criterio strettamente personale879.

Il progetto Riz del 1995, invece, assume la forma del procedimento di iniziativa parlamentare, abbandonando lo strumento normativo della delega

873 F. CURI, op. ult. cit., 41 – 42. 874 D. CASTRONUOVO, op. cit., 260, 268. 875 In questo senso, G. CERQUETTI, op. cit., 655 – 658 (per quel che attiene ai progetti Grosso

e Nordio); 663 – 664 (relativamente al progetto Pisapia). 876 D. CASTRONUOVO, op. cit., 271. 877 D. CASTRONUOVO, op. cit., 254. 878 F. CURI, op. ult. cit., 41. 879 D. CASTRONUOVO, op. cit., 253. L’Autore definisce, giustamente, “esangue” tale

indicazione rivolta al legislatore delegato.

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legislativa880. Per quanto concerne il dolo eventuale, il disegno di legge specificava che sarebbe stato responsabile a titolo di dolo anche chi avesse previsto “l’evento come conseguenza inevitabilmente connessa e concretamente possibile della propria azione od omissione” e ne avesse accettato il rischio881. Quanto alla definizione del delitto colposo, gli unici tratti di innovazione rispetto all’attuale art. 43 sono dati dalla espressa menzione del requisito di “prevedibilità” dell’evento, nonché dalla previsione di una forma di “imperizia grave” per l’ipotesi in cui l’evento fosse stato conseguenza di prestazione d’opera che implicasse la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà882. Come si è già osservato, il progetto Riz sembra accogliere, per quel che riguarda la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, la teoria dell’accettazione del rischio883.

Il progetto Grosso, in una prima fase (art. 30 dell’articolato approvato il 12 settembre 2000), attribuiva la responsabilità a titolo di dolo nei confronti del soggetto che avesse agito con l’intenzione di realizzare il fatto, oppure nei confronti di chi avesse agito essendosi rappresentato “la realizzazione del fatto come certa, ovvero come altamente probabile, accettandone il rischio”884; una successiva formulazione (art. 17 dell’articolato approvato il 26 maggio 2001) prevede, invece, l’attribuzione della responsabilità per dolo in capo a chi “con una condotta volontaria attiva od omissiva realizza un fatto costitutivo di reato: a) se agisce con l’intenzione di realizzare il fatto; b) se agisce rappresentandosi la realizzazione del fatto come certa; c) se agisce accettando la realizzazione del fatto, rappresentato come probabile”. Nell’ambito di entrambe le formulazioni, appare condivisibile la scelta di introduzione del riferimento al “fatto di reato”, in grado di eliminare le possibili incertezze in ordine alla determinazione ed individuazione dell’oggetto del dolo; tuttavia, non sono valutabili in senso positivo i riferimenti alla previsione in termini di “alta probabilità” o, nella seconda formulazione, “probabilità”: il rischio insito in approcci di questo genere è quello di dare adito a tendenze di oggettivizzazione e normativizzazione del contenuto volitivo del dolo, attraverso l’agevolazione della presunzione di sussistenza dell’elemento volitivo in presenza di un elemento intellettivo che assuma i connotati di rappresentazione in termini di “elevata probabilità” o, comunque, in termini di “probabilità” intesa come concetto più pregnante rispetto alla “mera possibilità”. Le conseguenze di assetti di questo genere sarebbero, invero, due: da un lato, un’indebita estensione della responsabilità dolosa attraverso l’oggettivizzazione del dolo; dall’altro, un’indebita restrizione della responsabilità dolosa, limitata alle sole ipotesi in cui la rappresentazione si configuri come previsione in termini di “elevata probabilità”, o “probabilità” intesa come concetto distinto rispetto alla

880 D. CASTRONUOVO, op. cit., 255. 881 F. CURI, op. ult. cit., 41.882 D. CASTRONUOVO, op. cit., 256. L’Autore riporta la definizione di “delitto colposo”

rilevabile all’interno del disegno di legge in questione: “Il delitto è colposo, o contro l’intenzione, se l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica come effetto prevedibile di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Se l’evento è conseguenza di prestazione d’opera che implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, l’imperizia deve essere grave.”

883 In questo senso, F. CURI, op. ult. cit., 41 – 42. 884 G. CERQUETTI, op. cit., 655.

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“mera possibilità”885, con esclusione, parallelamente, delle ipotesi in cui, seppur a fronte di un elemento intellettivo meno pregnante, vi fosse stata una “messa in conto” della realizzazione del fatto di reato, ovvero una presa di posizione della volontà, con “disponibilità” alla realizzazione del fatto di reato.

D’altra parte, può essere valutata in modo sommariamente positivo la definizione della responsabilità per colpa prospettata dal progetto Grosso: “Risponde a titolo di colpa chi, con una condotta che viola regole di diligenza, o di prudenza, o di perizia, ovvero regole cautelari stabilite da leggi, regolamenti, ordini o discipline, realizza un fatto costitutivo di reato che è conseguenza prevedibile ed evitabile dell’inosservanza della regola cautelare”. Anzitutto, si può notare la costruzione di tipo “ascrittivo”: la norma non definisce il “reato colposo”, bensì fissa i criteri di imputazione in base ai quali debba sorgere la responsabilità colposa886; in secondo luogo, non può non notarsi, anche in tale caso, il riferimento al “fatto costitutivo di reato”, il quale elimina le possibili controversie in ordine all’interpretazione del concetto di “evento”887; inoltre, è significativa l’introduzione espressa dei requisiti di “prevedibilità” ed “evitabilità”888; infine, si è anche notato che il riferimento “in positivo” alle regole di diligenza, prudenza o perizia (e non, in negativo, al comportamento “negligente”, “imprudente”, o “imperito”) potrebbe valorizzare correttamente la dimensione normativa della colpa, al contempo scongiurando i rischi di identificazione della colpa attraverso suggestioni di carattere morale889.

Il progetto Nordio, del resto, rappresenta un “regresso” sia sotto il profilo della definizione del dolo, sia con riguardo alla definizione della colpa: la definizione del “reato doloso” è sostanzialmente analoga a quella prospettata dalla prima formulazione del progetto Grosso890; mentre quella del “reato colposo” ricalca, in pratica, l’attuale assetto ricavabile dall’art. 43 c.p., eccezion fatta che per l’introduzione di un requisito di “concreta prevedibilità” della conseguenza lesiva e di un espresso riferimento alla natura “cautelare” delle regole “di fonte specifica” violate.

Passando al progetto Pisapia (2006 – 2007), esso è stato caratterizzato da un mutamento fra versione originaria e versione finale delle definizioni di “reato doloso” e “reato colposo”. La versione originaria, all’art. 16, comma 1, del disegno di legge delega, prevede che “b) il reato sia doloso quando l’agente si rappresenta concretamente e vuole il fatto che lo costituisce; c) il reato sia doloso anche quando l’agente accetti il fatto rappresentato come altamente probabile e l’accettazione sia desumibile da elementi univoci, salva in tal caso

885 G. CERQUETTI, op. cit., 655 – 656. 886 D. CASTRONUOVO, op. cit., 263. 887 D. CASTRONUOVO, op. cit., 262. 888 D. CASTRONUOVO, op. cit., 264. L’Autore osserva che il requisito della “prevedibilità”,

in particolare, dovrebbe, almeno in parte, limitare i rischi di una eccessiva normativizzazione ed oggettivizzazione della colpa, sottraendola alla logica del versari in re illicita.

889 D. CASTRONUOVO, op. cit., 263 – 264. 890 G. CERQUETTI, op. cit., 657. Si riporta anche la testuale definizione di “reato doloso”

contenuta all’interno del progetto Nordio: “Il reato è doloso quando l’agente compie la condotta attiva od omissiva con l’intenzione di realizzare l’evento dannoso o pericoloso costitutivo del reato, ovvero con la rappresentazione che, a seguito della sua condotta, la realizzazione dell’evento offensivo è certa o altamente probabile”. Appare un ulteriore elemento di “regresso” il ritorno all’utilizzo del riferimento all’”evento”, anziché al “fatto di reato”.

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l’applicazione di un’attenuante facoltativa; c) il reato sia colposo quando il fatto che lo costituisce non è voluto dall’agente e questi lo realizzi come conseguenza concretamente prevedibile ed evitabile dell’inosservanza di regole di diligenza, di prudenza o di perizia ovvero di regole cautelari stabilite da leggi, regolamenti, ordini o atti di autonomia privata”891.

Per quel che riguarda la definizione di “reato doloso”, appare condivisibile, ancora una volta, il riferimento al “fatto che costituisce reato” quale oggetto di rappresentazione e volontà892. Ma, soprattutto, appare condivisibile la valorizzazione del dolo inteso come rappresentazione e volontà893. Meno positiva risulta invece, a parere di chi scrive, la scelta di introdurre, ai fini del dolo eventuale, il requisito della rappresentazione in termini di “alta probabilità”, in quanto una “presa di posizione della volontà”, intesa come “disponibilità” alla realizzazione del reato, è astrattamente effettuabile anche a fronte della sussistenza di un elemento rappresentativo dotato di pregnanza minore rispetto alla rappresentazione dell’elevata probabilità. Altra novità è data dall’introduzione dell’avverbio “concretamente”: in sostanza, viene affermato un espresso requisito di concretezza con riferimento alla rappresentazione della realizzazione del fatto necessaria ai fini del dolo eventuale; tale apporto non è stato valutato positivamente da una parte di dottrina, la quale ha rimarcato la necessità di mantenimento della distinzione fra diritto sostanziale e diritto processuale894. Alcune riflessioni debbono essere sviluppate anche con riguardo all’introduzione del requisito, necessario ai fini del dolo eventuale, della risultanza dell’“accettazione” da “elementi univoci”: se lo scopo dei compilatori del progetto era quello di contrastare le tendenze di oggettivizzazione o normativizzazione del dolo, ovvero di affermazione del dolus in re ipsa, si è notato che, viceversa, in tal modo si giunge con l’includere il dolo all’interno del fatto tipico, e tale tendenza sarebbe derivante, a sua volta, dalle impostazioni fondate sull’oggettivizzazione e normativizzazione del dolo895.

Quanto alla definizione di “reato colposo”, quella prospettata dalla prima formulazione del progetto Pisapia presenta una evidente lacuna: il mancato riferimento espresso alla “non necessità” della rappresentazione, ai fini della responsabilità colposa896. Tale lacuna è stata colmata nella formulazione definitiva del 22 novembre 2007.

La suddetta formulazione finale modifica anche il tenore letterale della nozione di “reato doloso”: si prevede che “b) il reato sia doloso quando l’agente si rappresenti concretamente e voglia il fatto che lo costituisce; c) il reato sia doloso anche quando l’agente voglia il fatto, la cui realizzazione sia rappresentata come altamente probabile, solo per averlo accettato, e ciò risulti da elementi univoci”. La sostanza non sembra mutare in modo significativo, se non per una maggior specificazione del fatto che l’“accettazione” sia non già

891 Le definizioni in questione sono riportate da G. CERQUETTI, op. cit., 663. 892 G. CERQUETTI, op. cit., 663 – 664.893 G. CERQUETTI, op. cit., 664. 894 G. CERQUETTI, op. cit., 672. 895 G. CERQUETTI, op. cit., 673. 896 G. CERQUETTI, op. cit., 666.

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una componente a sé stante ed autonoma, bensì una specie del genere “volontà”897.

Ritornando, in conclusione, sul versante della colpa, il progetto Pisapia elimina l’aggravante prevista per la colpa cosciente, sul presupposto di partenza in base al quale non necessariamente la condotta di chi agisca avendo riflettuto sulla possibilità (magari remota) di realizzazione di risultati lesivi sia più grave rispetto alla condotta di chi agisca senza porsi alcuno scrupolo di sorta898. Si propone, invece, una categoria generale di “colpa grave”, da identificarsi “quando, tenendo conto della concreta situazione anche psicologica dell’agente, sia particolarmente rilevante l’inosservanza delle regole ovvero la pericolosità della condotta, sempre che tali circostanze oggettive siano manifestamente riconoscibili”899. La Commissione, in particolare, riteneva che la colpa grave, giustificando una più rigida risposta sanzionatoria, avrebbe potuto evitare, in determinate fattispecie, il rischio di “scivolare” verso il dolo eventuale900.

Allo stato attuale, le definizioni di dolo e colpa non sono state riformate, e resta in vita l’originario art. 43 c.p.

2. La recklessness nell’ordinamento inglese

La recklessness costituisce, nell’ambito del sistema penale inglese, una forma autonoma di colpevolezza, parallelamente ad intention e negligence: si tratta, dunque, di una terza forma di elemento soggettivo901. In particolare, intention e recklessness rappresentano le ipotesi più frequenti e comuni di imputazione soggettiva, mentre la negligence assume un ruolo del tutto marginale e residuale902; addirittura, con riguardo alla negligence, sono stati avanzati dubbi circa la fondatezza della relativa rilevanza penale903.

897 Mentre il dubbio se l’“accettazione” costituisse una specie della “volontà” o se, invece, fosse un elemento a sé stante poteva sorgere alla luce della precedente formulazione, come evidenzia G. CERQUETTI, op. cit., 668.

898 D. CASTRONUOVO, op. cit., 270 – 271. 899 Citazione della Relazione Pisapia, evidenziata da D. CASTRONUOVO, op. cit., 271. 900 D. CASTRONUOVO, op. cit., 272. 901 F. CURI, Tertium datur, 47. 902 F. CURI, op. ult. cit., 67.903 F. CURI, op. ult. cit., 65 – 70. In sintesi, si osserva che se, da un lato, il sistema penale

inglese vede affermato il principio della mens rea intesa quale elemento necessario ai fini dell’attribuzione della responsabilità penale (parallelamente ad un elemento oggettivo, comprendente condotta ed evento, nonché al nesso di causalità), dall’altro possono sorgere dubbi circa l’estensione del concetto di mens rea. Un certo orientamento giurisprudenziale e dottrinale sostiene che soltanto intention e recklessness possano rientrare nell’ambito della mens rea. Alcuni autori hanno osservato che, con riferimento alla negligence, soltanto la gross negligence potrebbe assumere rilevanza penale, mentre per le ipotesi residuali risulterebbero più idonei gli apparati civilistici. Glanville Williams, autorevole esponente della dottrina giuridica inglese, ha evidenziato che la colpa incosciente mancherebbe dello “stato mentale” necessario ai fini della configurazione della mens rea: attribuendo rilevanza penale ad essa, si giungerebbe ad accollare all’agente responsabilità per un fatto solamente sulla base della divergenza fra condotta concretamente realizzata e standard comportamentale richiesto, in mancanza di qualsiasi elemento di “decisione” di causare il danno o, quantomeno, “previsione” di realizzazione di esso; il che, peraltro, frustrerebbe la funzione deterrente della sanzione penale,

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È necessario fare riferimento a due tipologie di recklessness: una prima tipologia di stampo soggettivo (modello Cunningham); una seconda di stampo oggettivo (modello Caldwell/ Lawrence). Va premesso, inoltre, che, attualmente, risulti affermata in misura maggiore la recklessness di tipo soggettivo, a seguito del caso Gemmel del 2003904, con il quale è stata abbandonata la recklessness di stampo oggettivo per i criminal damages.

La recklessness di stampo soggettivo vede la propria prima comparsa, in effetti, molto prima rispetto al caso Cunningham (1957): nel 1902 venne teorizzata dal prof. Kenny come forma di colpevolezza caratteristica del soggetto che, avendo previsto la possibilità di produzione di una conseguenza dannosa tramite la tenuta di una determinata condotta, abbia ugualmente persistito in detta condotta, con assunzione consapevole del rischio delle relative conseguenze905. Con il caso Cunningham906, tale impostazione iniziò a divenire un precedente vincolante907.

Nel 1981, tuttavia, tramite due sentenze pronunciate nello stesso giorno (rispettivamente sul caso Caldwell e sul caso Lawrence), fu affermata un’estensione della rilevanza penale della recklessness alle ipotesi in cui il soggetto avesse assunto un rischio “ovvio e serio”, senza aver riflettuto se esso ricorresse o meno; i caratteri di “ovvietà” e “serietà” del rischio sarebbero stati valutati in base al parametro della “persona mediamente ragionevole”908.

La recklessness di tipo oggettivo, come formulata in occasione delle decisioni sui casi Caldwell e Lawrence, si presta a vari ordini di critiche negative: anzitutto, la non necessità dell’effettiva previsione del rischio comporta la configurazione di una forma di imputazione la quale crea dubbi di appartenenza alla categoria della mens rea909; in secondo luogo, poiché la valutazione dell’“ovvietà” e “serietà” del rischio viene prospettata con riferimento al parametro oggettivo dell’uomo medio, la recklessness di tipo oggettivo tende a conferire rilevanza penale anche alla condotta del soggetto che avesse agito in una situazione di limitata capacità di intendere e volere, senza valutazione dell’effettiva possibilità di percezione del rischio da parte dell’agente concreto910; inoltre, parrebbe crearsi una lacuna per l’ipotesi in cui l’agente riconosca il

dal momento che essa può esplicarsi solo qualora la sanzione stessa venga comminata su fatti relativamente ai quali i soggetti possano esercitare controllo.

904 Per il caso Gemmel è possibile consultare www.publications.parliament.uk 905 F. CURI, op. ult. cit., 73. 906 Nel caso di specie, un soggetto aveva strappato dal muro della cantina di una casa

disabitata un contatore del gas al fine di prelevare il denaro che si trovava ivi nascosto; tale azione aveva comportato una fuga di gas, il quale era stato inalato dalla vittima stanziata nella abitazione adiacente, creando una situazione di pericolo di vita. In primo grado, l’imputato era stato condannato per aver agito maliciously, ma la Corte d’Appello giudica lo stesso imputato non colpevole, in quanto egli aveva agito non essendo a conoscenza del fatto (o non avendo riflettuto sul fatto) che il gas avrebbe potuto essere inalato da qualcuno: non era possibile, dunque, individuare una deliberata e consapevole assunzione di rischio (F. CURI, op. ult. cit., 76).

907 F. CURI, op. loc. ult. cit. 908 F. CURI, op. ult. cit., 74 – 75. Il caso Caldwell, in particolare, vide l’affermazione della

recklessness di stampo oggettivo con riguardo ai reati contro la proprietà, mentre il caso Lawrence estese tale tipo di recklessness ai reati contro la persona.

909 F. CURI, op. ult. cit., 79. 910 F. CURI, op. ult. cit., 83.

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rischio ma confidi nella non realizzazione del risultato lesivo911, con la conseguenza per cui la recklessness di tipo Caldwell includerebbe l’ipotesi del soggetto che agisca senza effettuazione di alcuna valutazione, ed escluderebbe le ipotesi di erronea valutazione del rischio912.

Con riferimento all’ultimo problema citato (la lacuna della recklessness di tipo Caldwell), va osservato che la giurisprudenza non ceda, tuttavia, alla soluzione assolutoria, provvedendo a colmare la lacuna in via interpretativa913. Emblematico in tal senso è il caso Shimmen, in cui si ritenne che il soggetto avesse agito con la consapevolezza di aver solamente “ridotto”, ma non “eliminato”, i rischi: in tal modo, tuttavia, si ritorna all’affermazione di una recklessness di tipo soggettivo914.

Per quel che riguarda, del resto, la problematica inerente le ipotesi in cui l’agente versasse in stato di ridotta capacità di prevedere o percepire il rischio, si osserva che, tramite l’utilizzo del solo parametro oggettivo del “soggetto mediamente ragionevole”, si potrebbe giungere a configurare ipotesi di responsabilità oggettiva915; inoltre, viene in questione la frustrazione della funzione deterrente della pena, poiché l’efficacia di tale funzione presuppone che il destinatario della pena stessa sia un soggetto capace di orientare le scelte sui propri comportamenti916.

Occorre precisare che l’affermazione della recklessness di tipo Caldwell/ Lawrence del 1981 non ha significato l’abbandono della recklessness di tipo soggettivo. In base a quanto si affermo nel 1983 con il caso Seymour, l’accezione Caldwell avrebbe dovuto essere applicata con riguardo ai reati di creazione legislativa, mentre l’accezione Cunningham avrebbe potuto essere applicata per i reati di creazione giurisprudenziale; il tutto salvo deroghe del legislatore in senso diverso917. Tuttavia, nel 1991, con il caso Spratt, si sostenne che l’originaria impostazione delineata con il caso Caldwell intendesse applicare la recklessness di tipo oggettivo non a qualsiasi criminal Statute, bensì solamente al Criminal Damage Act del 1971: in tal modo, si riapriva la strada per l’applicazione della recklessness di tipo Cunningham ai reati di creazione legislativa. Effettivamente, il modello Cunningham fu riaffermato in vari ambiti: ad esempio, per i reati in materia sessuale, per l’ipotesi di recklessy furnishing false information, per i reati di furto mediante inganno, ovvero per i casi di lesioni personali disciplinate per legge918.

Una svolta ulteriore è rappresentata dal già citato caso Gemmel (2003), il quale ha prospettato l’abbandono del modello Caldwell con riferimento ai reati di danneggiamento: nel caso di specie, si ritenne di non poter applicare il

911 F. CURI, op. ult. cit., 81.912 F. CURI, op. ult. cit., 82 – 83.913 F. CURI, op. ult. cit., 98.914 F. CURI, op. ult. cit., 82. Il caso di cui trattasi vedeva l’imputato accusato del

danneggiamento di una vetrina: egli, esperto di arti marziali, voleva dimostrare la propria abilità nello sferrare un calcio il più possibile vicino alla vetrina senza colpirla; tuttavia, la ruppe.

915 Così osserva F. CURI, op. ult. cit., 84, con particolare riferimento ad un caso in cui fu ritenuta responsabile per la distruzione di un capanno tramite incendio una ragazzina di 14 anni con ridotte capacità intellettive.

916 F. CURI, op. ult. cit., 86. 917 F. CURI, op. ult. cit., 89 – 90.918 F. CURI, op. ult. cit., 90 – 93.

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criterio di “ovvietà” tenuto conto del parametro del “soggetto mediamente ragionevole” al fatto commesso da due bambini di undici e dodici anni, affermandosi che la recklessness possa dirsi sussistente qualora l’agente, essendo consapevole della potenziale scaturigine di un rischio, lo assuma e, in base alle circostanze a lui note, sarebbe stato irragionevole farlo919.

Volendo trarre conclusioni con riguardo all’inquadramento dogmatico della recklessness ipotizzando analogie con le categorie del dolo e della colpa, si può anzitutto osservare che la recklessness di tipo Cunningham risulti molto affine al dolo eventuale: infatti, consiste nella consapevole assunzione di un rischio irragionevole, con persistenza nella tenuta di una determinata condotta, nonostante la consapevolezza del fatto che possa determinarsi un evento lesivo920. Tuttavia, si è visto anche come la giurisprudenza tenda ad estendere la sfera della recklessness di tipo Cunningham anche a casi che, nell’ambito dell’ordinamento italiano, sono stati tradizionalmente inquadrati come colpa cosciente, sulla base della “fiducia nella non verificazione dell’evento”: in particolare, si è fatto riferimento al caso Shimmen921, in cui si sostenne che l’imputato fosse stato consapevole di aver ridotto ma non eliminato i rischi. La recklessness di tipo Caldwell, viceversa, tende a conglobare in sé ipotesi che sembrano affini alla colpa incosciente, ritenendo non necessario che il soggetto fosse stato effettivamente consapevole dell’assunzione di un rischio irragionevole, ma sufficiente che detto rischio fosse “ovvio” e “serio” agli occhi di un soggetto mediamente ragionevole; si è osservato anche che un’impostazione di tale genere crei una lacuna per le ipotesi in cui il soggetto avesse agito con la “fiducia nella non verificazione dell’evento”, e che tale lacuna sia stata tradizionalmente colmata dalla giurisprudenza con richiamo alla recklessness di tipo Cunningham.

3. La mise en danger francese

Anche nell’ambito dell’ordinamento francese è rilevabile una terza forma di imputazione soggettiva, sostanzialmente simile alla recklessness922, la quale si colloca a metà strada fra dolo e colpa, ed assume i connotati di “volontaria esposizione a pericolo”923: si tratta della mise en danger délibérée de la personne d’autrui.

Tale terza forma di imputazione soggettiva è stata introdotta dal legislatore nel 1992. Prima del 1992, le sole forme di imputazione soggettiva nell’ordinamento penale francese erano dolo e colpa, e risulta interessante notare come le “vecchie” disposizioni del codice penale francese prevedessero che, in caso di dolo eventuale, il giudice dovesse comminare la pena prevista per il reato colposo, avendo la facoltà di aumentarla in base alla gravità dell’atteggiamento psicologico dell’agente924: tale aspetto mette in luce l’estrema labilità del confine fra dolo eventuale e colpa, la quale non è di

919 Per il caso Gemmel e le relative considerazioni è possibile consultare www.publications.parliament.uk

920 F. CURI, op. ult. cit., 101.921 F. CURI, op. ult. cit., 100. 922 F. CURI, op. ult. cit., 112. 923 F. CURI, op. ult. cit., 113.924 F. CURI, op. ult. cit., 112.

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rilevanza meramente teorica, ma giunge a comportare conseguenze anche con riferimento agli aspetti relativi alla commisurazione della pena; ed il fatto che fosse prevista, come “base” per la determinazione della pena da applicarsi in caso di dolo eventuale, la pena prevista per il reato colposo, potrebbe essere inteso quasi come “ammissione”, da parte del legislatore, della “commistione” fra dolo eventuale e colpa cosciente.

Ritornando all’assetto attualmente vigente, il fondamento normativo generale della mise en danger è dato dall’art. 121 – 3, comma 2, c.p. francese, il quale recita la seguente disposizione: “Toutefois, lorsque la loi le prévoit, il y a délit en cas de mise en danger délibérée de la personne d’autrui” (“Tuttavia, quando previsto dalla legge, vi è delitto in caso di deliberata messa in pericolo di altre persone”925). Dunque, si tratta di una forma di responsabilità non ordinaria, bensì ammessa soltanto nei casi in cui la legge espressamente la preveda; e tali casi sono, attualmente, i seguenti: in primo luogo, la mise en danger è prevista come circostanza aggravante per i delitti di omicidio colposo (art. 221 – 6, comma 2, c.p.926); in secondo luogo, essa è prevista con riguardo alle aggressioni involontarie all’integrità fisica, qualora si provochi un’incapacità totale al lavoro superiore ai tre mesi (art. 222 – 19, comma 2, c.p.927), ovvero un’incapacità inferiore o uguale ai tre mesi (art. 222-20, comma 2, c.p.928); la mise en danger è prevista, infine, con riferimento alla fattispecie denominata “des risques causés à autrui” (art. 223 – 1 c.p.)929.

In ognuno dei casi suddetti, si richiede che l’agente abbia commesso una “violazione manifestamente volontaria” di un “obbligo particolare di sicurezza o

925 Traduzione personale. Il “tuttavia” iniziale si spiega per il fatto che il primo comma dell’art. 121 – 3 disponga che non vi sia delitto in mancanza di “intenzione” (“Il n’y a point de crime ou de délit sans intention de le commettre”). Va, inoltre, precisato che la mise en danger goda di una collocazione autonoma all’interno dell’art. 121 – 3 solamente dal 1996: prima del 1996, essa era collocata congiuntamente alla colpa (F. CURI, op. ult. cit., 124 e nota 46).

926 Il testo letterale dell’art. 221 – 6 è il seguente: “Le fait de causer, dans les conditions et selon les distinctions prévues à l'article 121-3, par maladresse, imprudence, inattention, négligence ou manquement à une obligation de prudence ou de sécurité imposée par la loi ou le règlement, la mort d'autrui constitue un homicide involontaire puni de trois ans d'emprisonnement et de 45 000 euros d'amende.

En cas de violation manifestement délibérée d'une obligation particulière de prudence ou de sécurité imposée par la loi ou le règlement, les peines encourues sont portées à cinq ans d'emprisonnement et à 75 000 euros d'amende.”

927 Art. 222 – 19 c.p. francese: “Le fait de causer à autrui, dans les conditions et selon les distinctions prévues à l'article 121-3, par maladresse, imprudence, inattention, négligence ou manquement à une obligation de prudence ou de sécurité imposée par la loi ou le règlement, une incapacité totale de travail pendant plus de trois mois est puni de deux ans d'emprisonnement et de 30000 euros d'amende.

En cas de violation manifestement délibérée d'une obligation particulière de prudence ou de sécurité imposée par la loi ou le règlement, les peines encourues sont portées à trois ans d'emprisonnement et à 45 000 euros d'amende.”

928 Art. 222 – 20 c.p. francese: “Le fait de causer à autrui, par la violation manifestement délibérée d'une obligation particulière de prudence ou de sécurité imposée par la loi ou le règlement, une incapacité totale de travail d'une durée inférieure ou égale à trois mois, est puni d'un an d'emprisonnement et de 15 000 euros d'amende.”

929 F. CURI, op. ult. cit., 113, 137, 141. Per tale ricostruzione risulta interessante anche la consultazione dell’articolo Le délit de risques causés à autrui in www.juripole.fr

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di prudenza” il quale sia “imposto dalla legge o da regolamento”930. Il requisito della “manifesta volontarietà” della violazione sembra corroborare ulteriormente la disposizione di cui all’art. 121 – 3 c.p.931, laddove compare solamente l’espressione “mise en danger délibérée”. Ad ogni modo, il termine “délibéré”, di per sé, implica la necessità di una componente volitiva effettiva, cosciente, ponderata, la quale esclude la sufficienza di mere disattenzioni ai fini dell’integrazione della forma di responsabilità in questione932.

La “violazione manifestamente deliberata” deve, poi, avere ad oggetto un obbligo di “prudenza” o di “sicurezza”: deve trattarsi, tuttavia, di un obbligo “particolare” ed “imposto da legge o regolamento”. Tale assetto esclude, sostanzialmente, che possa rilevare la colpa generica, poiché dovrà sussistere la violazione di un obbligo previsto dalla legge o da regolamento: il termine “legge” sembra indicare in modo non equivoco la legge in senso formale (promanata dal Parlamento), mentre più ambiguo potrebbe risultare il termine “regolamento”; ad ogni modo, considerate anche le precisazioni fornite dallo stesso legislatore, il termine in questione dovrebbe interpretarsi in senso restrittivo, attraverso il riferimento ai soli regolamenti intesi in senso costituzionale (deve trattarsi di un testo normativo che, in ogni caso, può essere promanato solo dallo Stato), e con esclusione degli atti di enti privati, di enti locali, del governo o dei regolamenti interni933. Ma vi è di più: in ogni caso, rileverà solamente la violazione di un obbligo “particolare”, con esclusione, di conseguenza, di obblighi “generali” di sicurezza o prudenza, quand’anche previsti da legge o regolamento934.

Riassumendo, gli artt. 221 – 6, 222 – 19 e 222 – 20 prevedono, in ipotesi di realizzazione non volontaria di morte (art. 221 – 6) o incapacità totale di lavoro (artt. 222 – 19 e 222 – 20), una forma di responsabilità aggravata rispetto alla colpa, la quale sussiste nel caso in cui detti eventi fossero stati realizzati per “violazione manifestamente deliberata di un obbligo particolare di prudenza o di sicurezza imposto per legge o regolamento”.

Ancor più peculiare, tuttavia, è la responsabilità prevista dall’art. 223 – 1, la quale ricade sul soggetto agente a prescindere dalla realizzazione di un evento lesivo concreto, per il solo fatto che egli abbia “esposto direttamente altri ad un rischio immediato di morte o lesioni di carattere tale da generare una mutilazione o una malattia permanente, per violazione manifestamente deliberata di un obbligo particolare di prudenza o di sicurezza imposto per legge o per regolamento”935. Si tratta di una responsabilità che sorge per il solo fatto di

930 Le délit de risques causés à autrui in www.juripole.fr931 F. CURI, op. ult. cit., 150. 932 F. CURI, op. ult. cit., 141 e nota (99). 933 F. CURI, op. ult. cit., 140, 148, 149. Si veda anche l’articolo Le délit de risques causés

à autrui in www.juripole.fr934 A titolo esemplificativo, è di carattere “generale” l’obbligo, imposto al guidatore da

parte del codice della strada, di essere costantemente padrone della velocità della propria autovettura, in ragione dello stato del fondo stradale, delle difficoltà nella circolazione e degli ostacoli provvisori; mentre è di carattere “particolare” l’obbligo di non eccedere la velocità di 130 km/h sulle autostrade (F. CURI, op. ult. cit., 139).

935 Il testo originale dell’art. 223 – 1 è il seguente: “Le fait d’exposer directement autrui à un risque immédiat de mort ou de blessures de nature à entrainer une mutilation ou une infirmité permanente par la violation délibérée d’une obligation particulière de prudence ou de sécurité imposée par la loi ou le règlement est puni d’un an d’emprisonnement et de 15.000

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aver tenuto una condotta rischiosa, senza che sia necessario l’essersi prodotto un danno concreto a causa di detta condotta936.

Dal momento che il fatto tipico previsto dall’art. 223 – 1 risulta integrato qualora sia stato creato un rischio di “morte” o “lesioni”, in sede di accertamento occorrerà valutare il livello di probabilità di realizzazione di detti eventi alla luce della tenuta della condotta rischiosa concretamente posta in essere dall’agente. Ai fini dell’effettuazione di tale valutazione, appare preferibile ritenere che l’onere della prova in ordine alla sussistenza della probabilità di realizzazione dell’evento lesivo debba gravare sulla pubblica accusa: e si tratta della soluzione preferibile non solo nell’ottica del principio di presunzione di innocenza, nonché al fine di evitare la repressione di mere violazioni di regole cautelari, bensì anche tenuto conto dei requisiti di “immediatezza” e carattere “diretto” del rischio creato, stabiliti dalla norma in esame937. Ciò che si richiede è la sussistenza di un nesso di causalità diretta fra condotta tenuta dall’agente e rischio938. Da notare il fatto che l’oggetto di “immediatezza” sia il rischio, e non la realizzazione dell’evento potenzialmente connesso al rischio939: sicché la responsabilità in questione sussiste, fermo restando il requisito dell’ “immediatezza del rischio”, anche qualora detto rischio non fosse di realizzazione “immediata” di morte o lesioni.

Per quel che riguarda la “violazione manifestamente volontaria” e l’obbligo “imposto da legge o regolamento”, è sufficiente richiamare quanto già esposto sopra: la violazione deve essere “manifesta”, “cosciente” o “ponderata”, e deve essere relativa ad un obbligo particolare di prudenza o sicurezza, previsto dalla legge formale promanata dal Parlamento, ovvero da regolamento inteso in senso costituzionale e promanato dallo Stato940. Alcune precisazioni potrebbero essere necessarie, invece, per quanto riguarda il concetto di “particolarità” dell’obbligo violato: alcuni interpreti ritengono che l’aggettivo “particulière” nulla aggiunga al testo della norma; altri sostengono, invece, che esso debba essere interpretato nell’ottica di attribuzione ad esso di una valenza specifica; fra questi ultimi, alcuni interpretano l’aggettivo in questione come obbligo “particolarmente imperioso o ben conosciuto”, mentre altri lo considerano semplicemente come espressivo di un concetto contrario a quello di “obbligo generale”941.

Inoltre, occorre precisare se, ai fini della responsabilità ex art. 223 – 1, fermo restando la necessità della “coscienza” della trasgressione di obblighi particolari di sicurezza o prudenza imposti da legge o regolamento, sia necessaria o meno anche la “coscienza/conoscenza” del potenziale danno: sembra preferibile l’interpretazione che richiede la conoscenza del potenziale danno, la quale non dovrebbe essere presunta in base alla sola conoscenza della trasgressione di regole cautelari; diversamente ragionando, si

euros d’amende.”936 F. CURI, op. ult. cit., 141. 937 F. CURI, op. ult. cit., 143. Accanto a tale soluzione, si rilevano altre due impostazioni:

quella a sostegno di una “presunzione assoluta” della sussistenza del rischio in base al mero accertamento della violazione di regole cautelari, e quella a sostegno di una “presunzione semplice” nello stesso senso.

938 Si veda l’articolo Le délit de risques causés à autrui in www.juripole.fr939 F. CURI, op. ult. cit., 145. 940 Si veda l’articolo Le délit de risques causés à autrui in www.juripole.fr 941 F. CURI, op. ult. cit., 147 – 148.

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giungerebbe a reprimere la mera trasgressione di regole cautelari, ed a configurare una sorta di responsabilità oggettiva legata al versari in re illicita942. La preferibilità di una tale impostazione è supportata anche alla luce di una dichiarazione del Ministro della Giustizia la quale, appunto, deponeva in tale senso943.

Volendo trarre conclusioni di carattere generale sulla natura dogmatica della mise en danger, le posizioni dottrinali oscillano fra il considerarla una categoria affine al dolo eventuale, ovvero una categoria più simile alla colpa grave, che non ad una forma attenuata di dolo944. Peraltro, vi è anche chi sostiene l’impossibilità (e l’impraticabilità) di una distinzione netta fra dolo eventuale e colpa cosciente945: in accoglimento di tale impostazione, risulta positiva l’introduzione di una forma intermedia che sia in grado di costituire un ibrido fra dolo e colpa. È stato anche osservato che, fra le varie ipotesi specifiche per le quali la legge preveda la responsabilità per mise en danger délibérée, quella prevista dall’art. 223 – 1 risulterebbe, per certi aspetti, assai vicina al dolo946.

Resta da osservare il fatto che la mise en danger sia prevista, attualmente, in modo limitato ai reati contro la persona947: l’art. 223 – 1 prevede la responsabilità per la sola “messa in pericolo” della vita o dell’incolumità altrui, e trova applicazione per l’ipotesi in cui non si sia effettivamente verificato l’evento (morte o lesioni); qualora, invece, si siano verificati gli eventi “morte” o “lesioni”, troveranno applicazione gli artt. 221 – 6, comma 2 (per l’evento “morte”), 221 – 19 e 220 – 20 (per l’evento “lesioni”), e la situazione descritta dall’art. 223 – 1 (“messa in pericolo manifestamente volontaria” con “violazione di un obbligo particolare imposto per legge o regolamento”) diviene una circostanza aggravante rispetto alle medesime fattispecie realizzate con mera colpa948.

4. Il cosciente desprecio por la vida de los demas

Ai fini dell’analisi del cosciente desprecio por la vida de los demas è necessario, in via preliminare, delineare sommariamente il quadro che caratterizza il sistema giuridico penale spagnolo con riferimento all’elemento soggettivo ed alla collocazione sistematica del dolo eventuale.

L’ordinamento penale spagnolo è caratterizzato da una mera enunciazione generica di dolo e colpa, intesi come elementi psicologici del reato, senza che siano rinvenibili indicazioni espresse, da parte del legislatore, in ordine alla determinazione e delimitazione dei rispettivi contenuti e limiti,

942 F. CURI, op. ult. cit., 151. In senso contrario alla presunzione di “messa in pericolo” si veda anche Le délit de risques causés à autrui in www.juripole.fr

943 F. CURI, op. loc. ult. cit. 944 F. CURI, op. ult. cit., 124 – 126.945 F. CURI, op. ult. cit., 127.946 F. CURI, op. ult. cit., 155.947 F. CURI, op. ult. cit., 113.948 Si veda l’articolo Le délit de risques causés à autrui in www.juripole.fr

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nonché delle sfumature che dolo e colpa possano assumere: ne consegue che tali operazioni siano rimesse all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale949.

La produzione scientifica spagnola si è cimentata, in effetti, nell’individuazione della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, dando luogo a due teorie: la teoria del consentimento e la teoria della probabilidad. La prima coincide, sostanzialmente, con la teoria del consenso interpretata congiuntamente alla prima formula di Frank, mentre la seconda identifica il dolo eventuale nell’ipotesi in cui l’agente avesse realizzato la condotta a fronte della rappresentazione dell’elevata probabilità di realizzazione del risultato lesivo950. La prima fra esse valorizza una distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente basata sul profilo volitivo, dal momento che il consenso alla realizzazione del possibile evento dovrebbe configurare, appunto, una presa di posizione della volontà; la seconda, del resto, trascura totalmente il profilo volitivo, valorizzando unicamente la componente intellettiva951. Ulteriori contributi hanno tentato di valorizzare ulteriormente la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente con riferimento all’elemento intellettivo: si è precisato che il dolo eventuale dovrebbe richiedere la rappresentazione dell’intero fatto tipico, nonché di un pericolo o rischio concreto, non essendo sufficiente la rappresentazione astratta di un pericolo952.

Per quel che concerne la collocazione sistematica del dolo eventuale, sono rinvenibili quattro orientamenti: un primo di essi sostiene che il dolo eventuale consista, in realtà, in una forma di colpa; un secondo di essi valuta il dolo eventuale come appartenente effettivamente alla categoria del dolo; un terzo ritiene che il dolo eventuale inquadri una terza forma di elemento soggettivo, parallelamente rispetto a dolo e colpa; infine, un ultimo orientamento sostiene che il dolo eventuale non configuri una effettiva forma di elemento soggettivo e che, invece, consista in una forma di responsabilità oggettiva, ovvero presunzione di colpevolezza953.

Il primo orientamento valorizza il fatto che la dimensione del “rischio eccessivo” sia strettamente connaturata alla colpa, e non già al dolo; si è anche sostenuto che, qualora venisse meno l’assunzione del “rischio eccessivo”, a nulla rileverebbe la considerazione dell’atteggiamento di determinazione contro il bene giuridico954.

L’orientamento a favore della considerazione del dolo eventuale come vera e propria forma di dolo si basa, sostanzialmente, sulla teoria che valorizza la decisione contro il bene giuridico: il dolo eventuale si distinguerebbe dalla colpa in quanto caratterizzato da una coscienza della sussistenza del pericolo concreto, nonché da una “seria considerazione” di esso, e da una presa di posizione a favore della possibile realizzazione del fatto955.

L’impostazione a favore dell’inquadramento del dolo eventuale come tertium genus evidenzia, invece, le analogie fra esso e l’istituto della

949 F. CURI, op. ult. cit., 163. 950 F. CURI, op. ult. cit., 166 – 169.951 F. CURI, op. loc. ult. cit.952 F. CURI, op. ult. cit., 169 – 170. 953 F. CURI, op. ult. cit., 171, 177, 178.954 F. CURI, op. ult. cit., 172. 955 F. CURI, op. ult. cit., 174.

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recklessness: ad esso ha aderito anche parte della giurisprudenza la quale ha sollecitato il legislatore a disciplinare espressamente uno specifico trattamento per il dolo eventuale, con collocazione di esso ad un livello intermedio fra dolo e colpa956.

L’ultimo orientamento citato propone una soluzione particolarmente drastica, sostenendo che il dolo eventuale non faccia altro che mascherare forme di presunzione iuris et de iure sul grado di colpevolezza: in quest’ottica la teoria della probabilità, in particolare, configurerebbe ipotesi di responsabilità oggettiva957.

Il quadro delineato vede, in estrema sintesi, le indicazioni espresse del legislatore, le quali si limitano a prospettare una bipartizione dell’elemento soggettivo in dolo e colpa, senza determinazione delle sfumature che dette forme di imputazione possano assumere958; nonché, parallelamente ad esse, le posizioni dottrinali e giurisprudenziali che tendono a ricondurre il dolo eventuale alla sfera della colpa o, addirittura, a negare che il dolo eventuale possa costituire una forma di autentica colpevolezza. A tale assetto si contrappone, tuttavia, la presenza di un istituto di parte speciale la cui analisi interessa particolarmente ai fini della presente tesi, e che presenta significative analogie con il dolo eventuale959: si tratta dell’attuale art. 381 c.p. (prima della riforma del 2007, si trattava dell’art. 384).

L’attuale art. 381 prevede un espresso richiamo all’art. 380, e quest’ultimo prevede a sua volta un espresso richiamo all’art. 379: ragion per cui una trattazione esaustiva dell’art. 381 necessita del riferimento alle due ulteriori norme citate.

L’art. 379 prevede la punibilità di chi “conduce un autoveicolo o un ciclomotore a velocità superiore a 60 km/h su strada urbana, o a 80 km/h su strada extraurbana” (punto 1), nonché di “colui che guida un autoveicolo o un ciclomotore sotto l’effetto di farmaci tossici, stupefacenti, sostanze psicotrope o bevande alcoliche” (punto 2, primo capoverso), ovvero “colui che guida con un tasso alcolico espirato nell’aria superiore a 0,60 milligrammi/litro, o con un tasso alcolico nel sangue superiore a 1,2 grammi/litro” (punto 2, secondo capoverso)960. Si tratta, evidentemente, di una fattispecie di pericolo astratto; ad ogni modo, se, da un lato, non è necessario l’accertamento dell’effettività del pericolo creato, dall’altro la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che non sia sufficiente, ai fini dell’integrazione della fattispecie, il mero dato oggettivo consistente nel rilievo del tasso alcolico, ma è altresì necessario verificare che detto tasso alcolico abbia influenzato la condotta di guida961: in effetti, la norma

956 F. CURI, op. ult. cit., 175 – 176. 957 F. CURI, op. ult. cit., 177 – 178. 958 F. CURI, op. ult. cit., 178 – 179.959 F. CURI, op. ult. cit., 179. L’Autrice fa riferimento all’art. 384 in quanto l’opera in

questione risale al 2003, mentre la riforma attuata nel 2007 ha comportato modifiche tali per cui la fattispecie che nel 2003 era prevista dall’art. 384 risulta, attualmente, collocata all’interno dell’art. 381. La riforma del 2007 ha visto anche un aumento delle sanzioni previste per la fattispecie di cui all’attuale art. 381 (vecchio art. 384). Per il confronto fra l’assetto antecedente alla riforma e l’assetto attuale, si è fatto riferimento all’articolo Los nuevos delitos contra la seguridad vial, in www.datadiar.com

960 Los nuevos delitos contra la seguridad vial, in www.datadiar.com961 Delitos contra la seguridad del tràfico, in www.enciclopedia-juridica.biz14.com

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fa riferimento alla guida “sotto l’effetto di” alcol o stupefacenti, e tale tenore letterale sembra doversi interpretare nel senso che si è appena precisato.

L’art. 380, in secondo luogo, configura come penalmente rilevante la condotta di chi “guida un autoveicolo o un ciclomotore con manifesta temerarietà e pone in concreto pericolo le persone”, precisando che “ai fini della presente norma si reputerà manifestamente temeraria la guida in cui concorrano le circostanze previste al primo punto ed al secondo capoverso del secondo punto dell’articolo precedente”962. Anche il tal caso emerge una fattispecie di pericolo: si tratta, tuttavia, di pericolo concreto, per espressa previsione da parte della stessa norma di riferimento.

L’art. 381, quindi, dispone la rilevanza penale della condotta di chi “con cosciente disprezzo per la vita altrui, mette in atto la guida descritta nell’articolo precedente”; si aggiunge, poi, la rilevanza penale, seppur con applicazione di sanzioni più lievi, dell’ipotesi in cui la condotta in questione non abbia posto in pericolo concreto la vita o l’integrità fisica delle persone963. Si prevedono, quindi, due fattispecie: una di pericolo concreto; un’altra di pericolo astratto964, e sanzionata in modo più lieve rispetto a quella di pericolo concreto. La “guida descritta nell’articolo precedente” è, chiaramente, la guida “manifestamente temeraria”; e la guida “manifestamente temeraria” comprende, a sua volta, le ipotesi di guida “a velocità superiore a 60 km/h su strada urbana o a 80 km/h su strada extraurbana”, ovvero “con un tasso alcolico espirato nell’aria superiore a 0,60 milligrammi/litro o con un tasso alcolico nel sangue superiore a 1,2 grammi/litro”.

Fermo restando tali collegamenti che coinvolgono gli artt. 379, 380 e 381, occorre precisare ulteriormente il concetto di “temerarietà manifesta”, inteso in senso generale, e non con sola considerazione dei riferimenti di cui agli artt. 379 e 380. La “temerarietà” può essere intesa come “omissione della diligenza più elementare richiesta ad un conducente medio”965; deve trattarsi, altresì, di temerarietà “manifesta” e, dunque, evidente, chiara e notoria secondo il parametro dell’osservatore medio966.

Beninteso che il riferimento alla violazione della “diligenza più elementare” non debba, tuttavia, indurre in errore circa l’elemento soggettivo della fattispecie, il quale consiste nel dolo avente ad oggetto le modalità di guida e l’esposizione a pericolo della vita altrui: ed in merito a quest’ultimo oggetto si ritiene sufficiente il dolo eventuale967. Viceversa, il dolo necessario ai fini dell’integrazione della fattispecie in questione non deve comprendere l’effettivo risultato lesivo968. L’art. 381, tuttavia, aggiunge un ulteriore connotazione soggettiva necessaria ai fini della rilevanza penale della fattispecie da esso

962 Los nuevos delitos contra la seguridad vial, in www.datadiar.com963 Los nuevos delitos contra la seguridad vial, in www.datadiar.com964 F. CURI, op. ult. cit., 190. Si aggiunge che, fra le due distinte ipotesi, intercorre un

rapporto di sussidiarietà, essendo la fattispecie di pericolo astratto applicabile soltanto qualora non sia ravvisabile il pericolo concreto.

965 F. CURI, op. ult. cit., 181. 966 F. CURI, op. ult. cit., 182. Delitos contra la seguridad del tràfico, in www.enciclopedia-

juridica.biz14.com967 F. CURI, op. ult. cit., 182. 968 F. CURI, op. ult. cit., 191.

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descritta: il “cosciente disprezzo per la vita altrui”: il che giustifica l’aumento di pena rispetto all’attuale art. 380 (vecchio art. 381) 969.

A questo punto, è necessario descrivere le varie soluzioni interpretative che sono state proposte ai fini della collocazione sistematica dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 381. Risulta ormai datata una circolare del 1989, emessa dalla Fiscalia general, presso il Tribunal Supremo, la quale riteneva che per la “condotta temeraria” fosse necessario il dolo, mentre per le conseguenze che creassero il “pericolo concreto” fosse sufficiente la colpa cosciente o con previsione970. La circolare in questione precisava altresì che, qualora l’accettazione del rischio fosse stata effettuata con consapevolezza e con inclusione della possibilità di provocare la morte di un terzo, nel caso in cui l’evento non si fosse verificato si sarebbe dovuto riconoscere il tentato omicidio sorretto da dolo eventuale, mentre qualora l’evento si fosse verificato si sarebbe trattato di omicidio consumato971.

Una seconda impostazione configura l’elemento soggettivo richiesto dall’art. 381 come dolo eventuale: essa ritiene che “guidare un veicolo con cosciente disprezzo per la vita altrui” equivalga ad accettare il possibile o probabile risultato lesivo del bene “vita”972. Sulla base di tale assetto si è anche sostenuto che la fattispecie di cui all’attuale art. 381 configurerebbe una speciale ipotesi di tentativo sorretto dal solo dolo eventuale (e non suscettibile di essere sorretto anche dal dolo diretto)973. Ancora, si è evidenziato che il “cosciente disprezzo” tenda ad identificare, sostanzialmente, gli stessi caratteri attribuiti al dolo eventuale dalla teoria del consenso: in particolare, l’atteggiamento di indifferenza manifestato dall’agente nei confronti dei beni giuridici esposti a pericolo, stante la decisione di agire indipendentemente dal fatto che si realizzino o meno eventi lesivi974.

Infine, va citata la posizione di chi rinviene nell’art. 381 un’ipotesi di dolo generico esclusivamente diretto, con esclusione del dolo indiretto e del dolo eventuale: tale impostazione si fonda sulla considerazione del dato testuale della norma, il quale sembra richiedere che l’agente sia esattamente consapevole di ciò che egli stia realizzando tramite la propria condotta975.

5. Verso la definizione di un tertium genus nell’ambito dell’elemento soggettivo?

L’analisi dei peculiari istituti presenti negli ordinamenti inglese, francese e spagnolo, il quali configurano forme di responsabilità che si collocano a metà strada fra dolo e colpa, permette di suscitare quantomeno l’interrogativo se non sarebbe opportuno o utile introdurre anche nell’ambito dell’ordinamento italiano un tertium genus di colpevolezza, espressivo di una rimproverabilità per

969 F. CURI, op. loc. ult. cit.970 F. CURI, op. loc. ult. cit.971 F. CURI, op. ult. cit., 192. 972 F. CURI, op. loc. ult. cit.973 F. CURI, op. ult. cit., 193. 974 F. CURI, op. ult. cit., 194. 975 F. CURI, op. ult. cit., 195.

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volontaria assunzione di rischio, e conglobante in sé gli elementi propri delle attuali categorie del dolo eventuale e della colpa cosciente.

A favore di una prospettiva di questo genere si è espressa parte della dottrina (principalmente Francesca Curi) la quale ha effettuato, appunto, l’analisi degli istituti della recklessness, della mise en danger délibérée e del cosciente desprecio por la vida de los demas non già in un’ottica comparatistica fine a sé stessa, bensì con l’obiettivo di trarne prospettive de iure condendo, nonché considerazioni e riflessioni sulla capacità del sistema penale italiano di istituire una terza forma di elemento soggettivo che si inquadri come intermedia fra dolo e colpa976.

Fra i potenziali vantaggi dell’introduzione del tertium genus, inteso quale forma di imputazione soggettiva per assunzione consapevole di responsabilità da rischio, vi sarebbe, anzitutto, quella di eliminare i problemi e le difficoltà di distinzione netta fra categorie (dolo eventuale e colpa cosciente) i cui confini sono, in effetti, estremamente labili e di difficile individuazione977: si sostiene, dunque, che la ricostruzione di una categoria unitaria di responsabilità per assunzione di un “pericolo penalmente rilevante”, attualmente caratteristico sia del dolo che della colpa cosciente, potrebbe razionalizzare le operazioni di inquadramento dell’elemento soggettivo. Si è posto in evidenza che il modello tripartito rispecchierebbe meglio le dinamiche psicologiche proprie dell’agire umano: non risulterebbe, quindi, vantaggiosa un’impostazione bipartita (dolo/colpa), la quale imponga all’interprete un drastico “aut- aut” attraverso la definizione di una linea di demarcazione fra categorie i cui confini sono, in effetti, estremamente labili978.

Del resto, l’introduzione del tertium genus potrebbe avere l’effetto positivo consistente nella rivalorizzazione della funzione sussidiaria del diritto penale: verrebbero, infatti, a delinearsi una categoria di dolo circoscritta alle ipotesi di dolo “intenzionale”, ed una seconda categoria identificata dalle ipotesi di “volontaria”/ “consapevole” o “sconsiderata” assunzione di un rischio, che racchiuda in sé elementi propri del dolo eventuale e della colpa cosciente, con conseguente drastica riduzione delle ipotesi di applicazione della colpa incosciente; addirittura, si sostiene che la sanzione di ipotesi di colpa lieve dovrebbe essere demandata a rami extrapenali dell’ordinamento. Il tutto dovrebbe contrastare la tendenza che ha visto il diritto penale assumere i caratteri di uno “strumento di governo”, utilizzato con funzione “simbolica”979. Sul piano dell’applicazione della pena, alla luce dell’adozione di un modello tripartito, il compito di dosare l’entità della sanzione con riguardo al caso concreto sarebbe chiaramente assegnato al giudice: il che dovrebbe garantire una maggior aderenza fra dogmatica e piano applicativo980.

Nondimeno, nell’ottica dell’inserimento del tertium genus, occorrerebbe stabilire se la soluzione debba configurarsi come “di parte generale” o “di parte speciale”: in particolare è stata proposta l’iniziale circoscrizione della terza

976 F. CURI, op. ult. cit., 3. 977 F. CURI, op. ult. cit., 11.978 F. CURI, op. ult. cit., 18. 979 F. CURI, op. ult. cit., 19 – 20. 980 F. CURI, op. ult. cit., 12.

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forma ai reati contro la vita e contro l’integrità fisica981. Più precisamente, si è affermato che gli istituti più idonei a fungere da riferimento parrebbero essere quelli della mise en danger e della recklessness982: in quest’ottica, si propone l’introduzione di un trattamento aggravato rispetto all’attuale ipotesi di omicidio colposo per l’ipotesi in cui venga provocata la morte con attuazione di un grave rischio e cosciente messa in pericolo della vita altrui; nonché di un trattamento attenuato rispetto all’ipotesi appena delineata per il caso in cui non si fosse realizzato l’evento “morte”, ma fosse stato comunque creato consapevolmente un rischio, con disprezzo per la vita altrui. Si propone anche la parallela introduzione del tertium genus a protezione dell’integrità fisica, seppur in “scala ridotta” rispetto all’assetto delineato con riguardo alla protezione del bene giuridico “vita”983. Il carattere “limitato” alla parte speciale dell’introduzione del tertium genus comporterebbe anche la non necessità di inserimento di una apposita definizione o clausola “di parte generale”.

Qualora, tuttavia, si volesse optare per la soluzione “di parte generale”, si propone l’introduzione di una formula che prescriva la punibilità per “sconsideratezza” di chi agisca “mediante l’assunzione consapevole del rischio relativo alla verificazione dell’evento, essendo irragionevole assumere tale rischio, avuto riguardo alle conoscenze possedute dall’agente”984. Si specifica che tale forma di imputazione dovrebbe poi applicarsi solo ai reati di parte speciale per i quali sia espressamente prevista, analogamente a quanto avviene attualmente per la colpa985: la forma di imputazione ordinaria resterebbe, dunque, il dolo, mentre la colpa e la “sconsideratezza” si configurerebbero come forme speciali di imputazione.

Risulta interessante anche il rilievo in base al quale alcuni aspetti del codice penale e della legislazione complementare sembrerebbero costituire “segnali” a favore della concezione tripartita dell’elemento soggettivo: ad esempio, casi in cui la pena edittale prevista per la fattispecie dolosa si sovrappone parzialmente a quella colposa986; altresì, sembra deporre nello stesso senso la prospettazione di un’unica cornice edittale nell’ambito delle contravvenzioni, ai sensi dell’art. 42, comma 4, c.p.987

È indispensabile, a questo punto, fare riferimento anche alle posizioni che si sono espresse contro la prospettiva dell’introduzione di un tertium genus. Fra queste, vi è la voce di Canestrari, il quale pone in evidenza che proprio l’analisi comparatistica indurrebbe a far venire meno l’illusione del conseguimento di semplificazione attraverso l’introduzione di una terza forma di elemento

981 F. CURI, op. ult. cit., 18, 242, 243. 982 F. CURI, op. ult. cit., 241. Si sostiene che la mise en danger abbia saputo “tradurre in

modo più dettagliato” il contenuto della recklessness; ad ogni modo, la soluzione ipotetica di parte generale proposta dall’Autrice (ivi, 243 – 244) richiama evidentemente anche il contenuto della recklessness.

983 F. CURI, op. ult. cit., 242. 984 F. CURI, op. ult. cit., 243 – 244. 985 F. CURI, op. ult. cit., 244. 986 F. CURI, op. ult. cit., 252. Si riporta l’esempio degli artt. 256 e 259 c.p.: il delitto doloso

di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato (art. 256 c.p.) è punito con la reclusione da tre a dieci anni, mentre l’ipotesi di agevolazione colposa (art. 259) è punita con la reclusione da uno a cinque anni.

987 F. CURI, op. ult. cit., 248.

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soggettivo: si fa riferimento specifico alla recklessness ed alle oscillazioni fra recklessness di tipo Cunningham e recklessness di tipo Caldwell/Lawrence, e si osserva che l’onere di definizione di un terzo genere di elemento soggettivo non sia, in effetti, meno arduo dell’onere di definizione di dolo eventuale e colpa cosciente. Canestrari, inoltre, osserva che le forme intermedie di elemento soggettivo non riescano a risolvere la problematica della ricostruzione del carattere “ingiustificato” o “irragionevole” del rischio. L’Autore, in una prospettiva de lege ferenda, propone invece l’introduzione di una definizione legale di dolo eventuale che potrebbe essere del seguente tenore: “Si ha dolo eventuale allorquando l’agente si sia rappresentata concretamente la realizzazione del fatto tipico come conseguenza probabile della propria condotta e ne accetta la verificazione. Il rischio di realizzazione del fatto tipico deve essere non consentito e di natura tale che la sua assunzione non può neppure essere presa in considerazione da una persona coscienziosa ed avveduta del circolo di rapporti cui appartiene l’agente, posta nella situazione in cui si trovava il soggetto concreto ed in possesso delle sue conoscenze e capacità” 988.

6. Considerazioni conclusive

Il primo capitolo della presente tesi ha provveduto ad inquadrare i concetti e l’essenza di dolo e colpa, in modo funzionale all’analisi relativa al discrimen fra dolo eventuale e colpa cosciente. Con particolare riferimento al dolo, si sono analizzate le incertezze generate dal tenore letterale non pienamente soddisfacente dell’attuale art. 43, e si sono tratte, in linea di massima, le seguenti conclusioni: il dolo deve consistere in rappresentazione e volontà; tali componenti, in adesione alla teoria della volontà, debbono essere intese come autonome, distinte ed entrambe aventi ad oggetto l’intero fatto tipico, e non solamente l’evento; in particolare, la volontà deve riguardare l’intero fatto tipico, compreso l’evento o, comunque, gli elementi del fatto tipico diversi dalla condotta materiale, e non solamente la condotta materiale. Tali premesse sono funzionali al rigetto di qualsiasi impostazione che concepisca il dolo eventuale con valorizzazione del solo profilo intellettivo, ovvero tendente all’oggettivizzazione e normativizzazione del dolo: se il dolo consiste in rappresentazione e volontà dell’intero fatto tipico, non risulta accettabile qualsivoglia teoria che assuma come sussistente la volontà in base alla sola considerazione del livello intellettivo o delle caratteristiche oggettive del rischio assunto o della condotta.

988 S. CANESTRARI, La definizione legale del dolo: il problema del dolus eventualis, in www.dejure.giuffre.it . L’Autore, in una prospettiva de lege ferenda, propone l’introduzione di una definizione legale di dolo eventuale che potrebbe essere del seguente tenore: “Si ha dolo eventuale allorquando l’agente si sia rappresentata concretamente la realizzazione del fatto tipico come conseguenza probabile della propria condotta e ne accetta la verificazione. Il rischio di realizzazione del fatto tipico deve essere non consentito e di natura tale che la sua assunzione non può neppure essere presa in considerazione da una persona coscienziosa ed avveduta del circolo di rapporti cui appartiene l’agente, posta nella situazione in cui si trovava il soggetto concreto ed in possesso delle sue conoscenze e capacità”.

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Quanto alle varie tipologie di dolo, si è precisato che l’espressione “secondo l’intenzione” di cui all’art. 43 non significhi che la responsabilità dolosa debba essere limitata ai casi di dolo intenzionale, cioè alle ipotesi in cui il reato realizzato fosse proprio il fine intenzionalmente perseguito o, in altri termini, il fine che desse causa alla condotta. È apparsa preferibile l’impostazione la quale sostiene che l’espressione “secondo l’intenzione” debba richiamare, invece, il finalismo insito nella condotta umana: tale concezione ammette categorie di dolo “non intenzionale”, che andranno ricostruite considerando il rapporto tra fine intenzionalmente perseguito e reato realizzato. Significa, sostanzialmente, che la realizzazione del reato potrà dirsi “secondo l’intenzione” anche qualora detta realizzazione non fosse il fine intenzionalmente perseguito dall’agente, ma semplicemente fosse “conforme all’intenzione”, e non “contro l’intenzione”: potrà, dunque, trattarsi di un “mezzo necessario” e previsto come “certo” o “quasi certo” per la realizzazione del fine intenzionale (dolo diretto); ovvero di una “conseguenza accessoria” (dolo indiretto e dolo eventuale).

Per quel che riguarda la colpa, si è evidenziata la natura normativa di tale categoria di elemento soggettivo, con successiva analisi dell’art. 61 n. 3, il quale prevede un’aggravante per le ipotesi di colpa cosciente (o “con previsione”): si è, quindi, concluso a favore dell’interpretazione dell’art. 61 n. 3 nel senso che l’aggravante possa dirsi giustificata soltanto qualora si richieda, ai fini di essa, che l’agente abbia realizzato la condotta nonostante la persistenza della previsione positiva della realizzazione dell’evento. Tale conclusione è necessaria in via preliminare ai fini delle critiche negative alla teoria dell’accettazione del rischio, nonché ai fini dell’approvazione della teoria che valorizza la deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro.

Quanto, poi, al dibattito sull’accoglimento o meno del principio “non c’è dolo senza colpa”, si è ritenuta preferibile l’impostazione a favore di detto principio: non potrà, dunque, esservi responsabilità penale laddove il fatto penalmente rilevante non sia stato provocato dalla trasgressione di regole precauzionali volte ad evitare la realizzazione di fatti del tipo di quello effettivamente verificatosi. Ciò non dovrebbe creare particolari problemi nei casi in cui l’agente concreto godesse di conoscenze maggiori rispetto a quelle del parametro oggettivo dell’ “agente modello”, in quanto dette conoscenze eventuali e superiori dovrebbero anche esse essere considerate in sede di valutazione della prevedibilità ed evitabilità della realizzazione del risultato lesivo.

Il capitolo secondo è stato dedicato all’analisi approfondita di tutte le teorie inerenti la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, comprese anche le “voci” a favore dell’incostituzionalità del dolo eventuale. Si è appurato che risultino non condivisibili, sostanzialmente, tutte le teorie riconducibili al paradigma della teoria della rappresentazione o ai modelli tendenti all’oggettivizzazione del dolo, stante la svalutazione del momento volitivo espressamente richiesto dall’art. 43 ed i rischi di dare adito a presunzioni di dolo o affermazione di dolo in re ipsa. Non risulta neppure convincente la valorizzazione dei profili emozionali o intimistici, in quanto il concetto di “volontà” è essenzialmente diverso rispetto ai concetti di “speranza”, “sentimento” o affini. Parimenti, non sono accettabili le teorie che prospettano la

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distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente come “meramente quantitativa”, dato che si tratta di elementi qualitativamente diversi (anche se vi è chi ha sostenuto che l’agire a fronte della rappresentazione della “elevata probabilità” di verificazione dell’evento costituisca un atteggiamento psicologico qualitativamente diverso da quello di chi agisca a fronte della rappresentazione della “bassa probabilità” o mera “possibilità” di realizzazione dell’evento).

Nell’ambito dell’analisi delle teorie “volitive”, sono stati posti in evidenza i limiti in cui in corre la teoria dell’accettazione del rischio, se formulata sulla base della dicotomia “accettazione del rischio” / “sicura fiducia che l’evento non si verificherà”: in primo luogo, l’accettazione “del rischio” sposta l’oggetto del dolo dall’“evento” al “rischio”, potendo condurre alla conseguenza di trasformare i reati di evento in reati di pericolo; in secondo luogo, l’aver agito con la “sicura fiducia che l’evento non si verificherà” comporta, evidentemente, il venir meno della rappresentazione positiva dell’evento al momento di realizzazione della condotta e, di conseguenza, una difformità rispetto a quanto prescritto dall’art. 61 n. 3; infine, è stato osservato che una qualche misura di “accettazione del rischio” ricorra proprio nelle ipotesi di colpa cosciente. Le diverse sfumature assunte dalla teoria in questione, le quali fanno leva sull’“accettazione dell’evento” considerato hic et nunc, attenuano gli aspetti di non condivisibilità, ma non li eliminano se permane l’identificazione della colpa cosciente nella “sicura fiducia che l’evento non si verificherà”. Le sfumature basate sulla distinzione fra “rappresentazione della concreta possibilità” e “rappresentazione dell’astratta possibilità” non risultano decisive: è vero che l’elemento volitivo potrà più facilmente ricavarsi qualora il soggetto avesse agito a fronte della rappresentazione della “concreta possibilità” di realizzazione del fatto di reato, ma ciò può assumere solamente carattere indiziante, e non determinante. Del resto, l’eccessiva valorizzazione della dicotomia “concreto”/ “astratto” potrebbe indurre a concludere per il dolo in re ipsa laddove il soggetto avesse scelto di agire a fronte della rappresentazione della concreta possibilità di realizzazione del risultato lesivo. La teoria dell’accettazione del rischio, in forza delle considerazioni sopra effettuate, si presta particolarmente ad essere “manovrata” dalla giurisprudenza nell’ottica del perseguimento di obiettivi di politica criminale.

La teoria ipotetica del consenso appare non pienamente condivisibile se concepita in base alla prima formula di Frank, ma sostanzialmente condivisibile se interpretata alla luce della seconda formula (peraltro elaborata dallo stesso Frank proprio al fine del superamento degli inconvenienti connessi all’applicazione della prima formula): si identifica l’atteggiamento del soggetto che agisce con dolo eventuale nella prospettiva psicologica di chi, perseguendo intenzionalmente un determinato fine, si rappresenti la possibilità che la condotta correlata al perseguimento di detto fine provochi eventi lesivi collaterali, e scelga di agire comunque, “costi quel che costi”, “a costo di” provocare l’evento lesivo collaterale, “accettando il prezzo” di realizzazione dell’evento lesivo collaterale. Si è ritenuta condivisibile anche la formula che identifica il dolo eventuale della “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico”.

Ad ogni modo, la teoria che si è ritenuta maggiormente soddisfacente è quella che identifica il dolo eventuale nell’accettazione del rischio effettuata

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tramite deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro. Essa, peraltro, non appare in contraddizione con la teoria del consenso, poiché se è vero che l’evento realizzato con dolo eventuale non è intenzionalmente perseguito, ma è previsto come conseguenza collaterale ed accessoria (ma non necessaria) della tenuta della condotta correlata al perseguimento del fine intenzionale, “decidere a favore della possibile lesione del bene giuridico” significa necessariamente subordinare tale bene giuridico rispetto al proprio interesse. Il dolo eventuale dovrebbe consistere, quindi, in rappresentazione della possibilità di realizzazione del fatto di reato ed accettazione del relativo rischio tramite una deliberazione consapevole con la quale si subordini il bene giuridico esposto a pericolo rispetto all’interesse consistente nel persistere nella condotta correlata al perseguimento del fine intenzionale. La colpa cosciente sarebbe anch’essa caratterizzata da rappresentazione ed accettazione del rischio: quest’ultima sarebbe, tuttavia, effettuata semplicemente per negligenza o imprudenza, e non tramite una deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro.

La teoria che valorizza la conoscenza dei nessi causali è valutabile in modo positivo, ma non può avere, in sé e per sé considerata, carattere decisivo.

Si è analizzato, poi, l’articolata ricostruzione di Stefano Canestrari consistente tentativo di distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente basata anche sul profilo oggettivo, attraverso l’individuazione di un rischio peculiare proprio della responsabilità dolosa e, all’interno di esso, di un rischio peculiare della responsabilità per dolo eventuale: si tratterebbe di un rischio che non avrebbe potuto neppure essere preso in considerazione dall’homo eiusdem conditionis et professionis. A prescindere dalla condivisibilità o meno delle basi di partenza, che consistono, tra l’altro, nel rigetto del principio “non c’è dolo senza colpa”, lo stesso Autore afferma che il criterio da lui proposto non abbia valenza decisiva, ma sia volto a rafforzare l’inquadramento della “decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico”.

Risulta eccessivamente drastica l’impostazione che sostiene l’incostituzionalità del dolo eventuale, la quale prende le mosse dalla constatazione per cui il dolo eventuale sarebbe un “doppione mascherato” della colpa cosciente: in effetti, lo è se si considera la formulazione tradizionale della teoria dell’accettazione del rischio, ma non dovrebbe esserlo se si considera la teoria che valorizza la deliberazione di subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro.

Alcune precisazioni si sono rese necessarie per quel che riguarda la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente nei reati di mera condotta o con riferimento ad elementi del fatto tipico diversi dall’evento, nonché nei reati di pericolo e nei reati omissivi. Con riferimento ai reati di mera condotta o alla configurazione dell’elemento soggettivo relativamente ad elementi del fatto tipico diversi dall’evento, molti problemi si superano considerando quale oggetto del dolo, appunto, il fatto tipico considerato nella sua unitarietà; nondimeno, non pare suscitare particolari problemi l’applicazione, in tali casi, della teoria che valorizza la subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro; si è anche valorizzata la voce di parte della dottrina (principalmente Canestrari) la quale ha evidenziato che, nei reati di mera condotta a fattispecie neutra, stante il

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principio dell’ignorantia legis non excusat (che non vede, in tali casi, una espressa deroga, benché tale deroga sarebbe auspicabile), non sia possibile distinguere fra dolo e colpa, poiché vengono a coincidere fatto ed antigiuridicità. Quanto ai reati di pericolo, la dottrina (principalmente Canestrari e De Francesco, seppur sulla base di teorie differenti) ha evidenziato che, con riferimento ad essi, la distinzione si ponga non fra dolo eventuale e colpa cosciente, bensì fra dolo eventuale e colpa incosciente; del resto, la giurisprudenza tende ad applicare ai reati di pericolo la tradizionale teoria dell’“accettazione” del rischio, che diviene, in tali casi, “accettazione del pericolo”: anche sul versante giurisprudenziale, tuttavia, si tende ad inquadrare il dolo eventuale nei reati di pericolo semplicemente in considerazione della scelta di agire a fronte della rappresentazione della possibilità di realizzazione del pericolo, e ciò sembra confermare l’impostazione per cui, nei reati di pericolo, l’alternativa sia fra dolo eventuale e colpa incosciente.

Relativamente ai reati omissivi, la teoria della subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro non dovrebbe richiedere particolari adattamenti sostanziali, così come non dovrebbe comportarli l’applicazione del criterio che valorizza la distinzione fra rischio peculiare del dolo eventuale e rischio colposo. Parte della dottrina (Eusebi), tuttavia, ha ritenuto che nei reati omissivi impropri non possa configurarsi il dolo eventuale, dato che la sola inerzia non permetterebbe di inquadrare una “disponibilità a pagare un prezzo” per la realizzazione del fine intenzionale (dato che quest’ultimo, in caso di mera inerzia, mancherebbe). La giurisprudenza tende, invece, ad applicare anche in questi casi la teoria dell’accettazione del rischio.

Ulteriori considerazioni sono state effettuate con riguardo alla rilevanza o irrilevanza del versari in re illicita, e si è concluso che la liceità o illiceità del contesto di base non possa avere carattere determinante o decisivo ai fini della distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente; tuttavia, si è evidenziato che la giurisprudenza tenda a stabilire una sorta di parallelismo fra dolo eventuale e versari in re illicita, nonché fra colpa cosciente e versari in re licita. Risulta interessante anche la constatazione, effettuata in dottrina (Canestrari), per cui in effetti, in contesto di base illecito, sia più difficile l’inquadramento della colpa cosciente, poiché il decorso causale risulta già “parzialmente avviato”, e l’elemento della rappresentazione tende a configurare in atteggiamento psicologico affine al dolo eventuale.

Il terzo capitolo è stato dedicato all’analisi dei rapporti fra dolo eventuale e delitto tentato, fattispecie con dolo specifico, concorso di persone, preterintenzione, nonché la distinzione fra dolo eventuale e dolo alternativo. Quanto al delitto tentato, si è aderito all’impostazione a sostegno dell’incompatibilità fra delitto tentato e dolo eventuale, stante l’incompatibilità insormontabile fra rappresentazione dell’univoca direzione degli atti alla realizzazione del reato e carattere collaterale, accessorio e non intenzionale del reato realizzato con dolo eventuale. Non si è condivisa, invece, la tesi a sostegno della compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato, conformemente alla quale il requisito dell’univocità dovrebbe essere inteso solamente in senso oggettivo, ed il dolo del delitto tentato non si distinguerebbe rispetto al dolo del reato consumato; non si è condivisa neppure la teoria conformemente alla quale la valutazione del requisito dell’univocità dovrebbe essere effettuata in

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modo oggettivo, ma anche in correlazione rispetto al piano concreto perseguito dall’agente. Quanto alle fattispecie con dolo specifico, si è concluso che esse possano essere sorrette da dolo eventuale, purché esso riguardi elementi del fatto tipico che non siano presupposti necessari per la realizzazione del fine inquadrato dal dolo specifico. Mentre la conclusione di maggior interesse con riferimento al concorso di persone è stata quella per cui il dolo eventuale comporti il passaggio dalla sfera dell’art. 116 a quella dell’art. 110.

Si è poi rilevata la differenza fra dolo eventuale e preterintenzione, consistente nel fatto che la prenerintenzione richieda l’assenza di volontà dell’evento più grave (la morte, nel caso dell’omicidio preterintenzionale), anche se intesa nella forma eventuale o indiretta. Se mai, con particolare riguardo all’omicidio preterintenzionale, si tratta di stabilire se il dolo di lesioni possa essere eventuale o meno: la giurisprudenza prevalente risponde in senso positivo, anche se non mancano impostazioni di segno opposto. Si è anche analizzata la tesi “temeraria” che intende l’omicidio preterintenzionale come caratterizzato da dolo eventuale dell’evento più grave: pur trattandosi di una tesi che potrebbe generare condivisibili spunti de iure condendo, essa non è, attualmente, applicabile, poiché gli artt. 42 e 43 descrivono chiaramente la preterintenzione come autonoma e distinta rispetto a dolo e colpa. Nondimeno, si è chiarita la distinzione fra dolo eventuale e dolo alternativo: quest’ultimo, in effetti, si configura come dolo diretto, consistendo nella volontà di realizzazione, indifferentemente, di eventi alternativi considerati come equivalenti; mentre il dolo eventuale ha ad oggetto un evento collaterale ed accessorio, non direttamente voluto.

Il capitolo quarto è consistito nell’analisi di alcuni fra i principali ambiti nei quali è venuta maggiormente in rilievo la difficoltà di distinzione, in sede applicativa, fra dolo eventuale e colpa cosciente. Si sono osservate le “storiche” difficoltà di inquadramento del dolo eventuale nell’ambito dei reati da sinistro stradale tramite l’utilizzo della teoria dell’accettazione del rischio, e si è fatto riferimento alla recente sentenza della Corte di Cassazione la quale, ricorrendo alla teoria della subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro ha, invece, affermato il dolo eventuale. Si è anche notato come, nei casi di contagio da HIV tramite rapporto sessuale non protetto e da parte di soggetto consapevole del proprio stato, risulti più agevole l’inquadramento del dolo eventuale. Con riguardo alla ricettazione, si sono analizzati gli orientamenti giurisprudenziali diametralmente contrapposti in ordine alla configurabilità del dolo eventuale per il reato in questione, nonché la recente soluzione fornita dalle Sezioni Unite, la quale ha riesumato la prima formula di Frank ai fini della descrizione del dolo eventuale di ricettazione. Ancora, si è descritta la soluzione giurisprudenziale, particolarmente “forte”, che inquadra addirittura il dolo diretto per le ipotesi di lancio di sassi da cavalcavia (a fronte di alcune posizioni dottrinali le quali sostegono che, in questi casi, addirittura dovrebbe escludersi l’imputabilità, per “anomala formazione del volere”). Infine, con riguardo all’analisi del caso Thyssenkrupp, è parsa corretta l’affermazione della responsabilità per dolo eventuale in capo all’amministratore delegato, peraltro sulla base della teoria che valorizza la subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro; appare condivisibile, a livello di applicazione concreta, anche l’affermazione della colpa cosciente in capo agli altri cinque imputati, ma

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non sembra essere appieno coerente l’inquadramento teorico della colpa cosciente nella “sicura fiducia nella non realizzazione dell’evento”.

L’ultimo capitolo ha analizzato le prospettive de lege ferenda, le quali oscillano fra le proposte di definizione legislativa del dolo eventuale e l’introduzione di un tertium genus nell’ambito dell’elemento soggettivo, coniato con spunto, principalmente, dagli istituti della recklessness e della mise en danger. Nella presente tesi si è sostenuta, in particolare, la validità della teoria che identifica il dolo eventuale nell’accettazione del rischio realizzata con subordinazione di un bene giuridico rispetto ad un altro: tuttavia, nessuna fra le prospettive de lege ferenda ha proposto l’accoglimento di tale impostazione. A dire il vero, si tratta di una teoria che è stata solo recentemente riesumata dalla giurisprudenza e che dovrebbe essere rivalutata, magari, appunto, anche in prospettiva de lege ferenda. Per quel che riguarda la ventilata ipotesi di introduzione di un tertium genus nell’ambito dell’elemento soggettivo, essa senz’altro semplificherebbe l’assetto attuale, ma non del tutto: infatti, pur facendo confluire tutte le ipotesi di consapevole assunzione di rischio ad un’unitaria sfera, operazioni analoghe alla distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente dovrebbero comunque tornare in gioco in sede di commisurazione della pena.

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Cass. Pen., Sez. II, 15 gennaio 2001, n. 14170, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 14 giugno 2001 (deposito 3 agosto 2001), n. 30425, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. V, 24 ottobre 2002, n. 42861, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 19 giugno 2002, n. 28647, in dejure.giuffre.it Cass. Pen., Sez. I, 18 marzo 2003, n. 16976, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 25 marzo 2003, n. 19897, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 16 maggio 2003, n. 30262, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 15 dicembre 2003, n. 31523, in Cass. pen., 2005, 2, 474.Cass. Pen., Sez. II, 7 aprile 2004, n. 18034, in C.E.D. Cass., n. 100332.Cass. Pen., Sez. V, 17 gennaio 2005, n. 6168, in dejure.giuffre.it Cass. Pen., Sez. I, 25 gennaio 2005, n. 5436, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. III, 28 settembre 2005, n. 38936, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 3 febbraio 2006, n. 18426, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. II, 17 maggio 2006, n. 30651, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 13 giugno 2006, n. 23886, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. V, 25 ottobre 2006, n. 10995, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. II, 10 novembre 2006, n. 40156, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. IV, 12 dicembre 2006, n. 4170, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 24 maggio 2007, n. 27620, Cass. pen., 2008, 5, 1845.Cass. Pen., Sez. II, 6 giugno 2007, n. 25436, in Cass. pen., 2008, 5, 1910.Cass. Pen., Sez. II, 22 novembre 2007, n. 45256, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. IV, 13 febbraio 2008, n. 12364, in dejure.giuffre.it Cass. Pen., Sez. III, 12 marzo 2008, n. 15633, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 17 giugno 2008, n. 27767, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. V, 17 settembre 2008 (deposito 1 dicembre 2008), n. 44712, in www.altalex.com Cass. Pen., Sez. IV, 25 settembre 2008, n. 47373, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. IV, 6 novembre 2008, n. 45117, in dejure.giuffre.it Cass. Pen., Sez. V, 12 novembre 2008, n. 44751, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. V, 11 dicembre 2008, n. 4237, in Arch. giur. circol. e sinistri, 2009, 9, 719.Cass. Pen., Sez. II, 17 dicembre 2008, n. 2807, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. V., 17 dicembre 2008, n. 13388, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. IV, 10 febbraio 2009 (deposito 25 marzo 2009), n. 13083, in dejure.giuffre.it Cass. Pen., Sez. II, 18 febbraio 2009, n. 13358, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 25 febbraio 2009, n. 11521, in Cass. pen., 2010, 2, 627.Cass. Pen., Sez. II, 27 febbraio 2009 (deposito 19 marzo 2009), n. 12401, in www.altalex.com Cass. Pen., Sez. II, 2 aprile 2009, n. 17813, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. III, 10 giugno 2009, n. 31253, in dejure.giuffre.it Cass. Pen., Sez. IV, 24 giugno 2009, n. 28231, in dejure.giuffre.it Cass. Pen., Sez. I, 30 giugno 2009, n. 30304, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. 5 novembre 2009, n. 43960, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 19 novembre 2009, n. 283, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. Un., 26 novembre 2009 (deposito 30 marzo 2010), n. 12433, in dejure.giuffre.it

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Cass. Pen., Sez. IV, 10 dicembre 2009, n. 3568, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. VI, 13 gennaio 2010, n. 18489, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. IV, 10 febbraio 2010, n. 13089, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. IV, 18 febbraio 2010 (deposito 24 marzo 2010), n. 11222, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 31 marzo 2010, n. 25114, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. III, 12 maggio 2010, n. 28701, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 25 giugno 2010, n. 4731, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 13 ottobre 2010, n. 40202, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 21 ottobre 2010 (deposito 5 novembre 2010), n. 39266, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 11 novembre 2010, n. 42267, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. IV, 1 dicembre 2010, n. 2291, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 1 febbraio 2011 (deposito 15 marzo 2011), n. 10411, in www.penalecontemporaneo.it Cass. Pen., Sez. I, 10 febbraio 2011, n. 29147, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 8 marzo 2011, n. 15451, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 30 marzo 2011, n. 21235, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 31 marzo 2011, n. 16793, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. II, 13 aprile 2011, n. 28477, in dejure.giuffre.itCorte. Ass. Torino, 15 aprile 2011 (deposito 14 novembre 2011), in www.penalecontemporaneo.itCass. Pen., Sez. II, 5 maggio 2011, n. 33320, in dejure.giuffre.it Cass. Pen., Sez. IV, 13 maggio 2011, n. 25668. in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 18 maggio, 2011, n. 30283, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. VI, 24 maggio 2011, n. 24035, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 24 maggio 2011, n. 33021, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. V, 26 maggio 2011, n. 36135, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. V, 31 maggio 2011, n. 32100, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 14 giugno 2011, n. 36171, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. II, 24 giugno 2011, n. 32972, in dejure.giuffre.itCass. Pen., Sez. I, 11 luglio 2011 (deposito 1 agosto 2011), n. 30472, in dejure.giuffre.it Cass. Pen., Sez. fer., 15 settembre 2011, n. 34745, in dejure.giuffre.it

Giurisprudenza di merito

Ass. App. Cagliari, 13 dicembre 1982, in Giur. merito, 1983, 4-5, 961.Pretura Terni, Sez. V, 19 marzo 1999, in Giur. merito, 2000, 2, 385.Trib. Ravenna, 3 maggio 1999, in Supp. Rass. med. leg. prev. 2000, 23.Corte Ass. Roma, 13 settembre 1999, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 2, 819.Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 01, 299.Trib. Milano, 24 novembre 1999, in dejure.giuffre.itAss. App. Brescia, 26 settembre 2000, in Foro it., 2000, II, 348.Trib. Pescara, 19 marzo 2002, in dejure.giuffre.itCorte App. Bari, Sez. I, 8 febbraio 2006, n. 11, in dejure.giuffre.it

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Trib. Bari, Sez. I, 5 settembre 2007, in dejure.giuffre.itTrib. Bari, Sez. II, 24 gennaio 2008, n. 170, in dejure.giuffre.it Trib. Savona, 30 gennaio 2008, in www.altalex.comCorte App. Milano, Sez. II, 29 maggio 2008, in Foro ambrosiano, 2008, 2, 207. Trib. Milano, 21 novembre 2008, n. 2118, in dejure.giuffre.itAss. App. Roma, 18 giugno 2009, in dejure.giuffre.itCorte Ass. Milano, 16 luglio 2009, in Foro it., 2010, 1, 35.Trib. La Spezia, 2 dicembre 2009, in dejure.giuffre.itUff. indagini preliminari Bari, 9 dicembre 2009, in dejure.giuffre.itCorte App. Bari, sez. II, 15 marzo 2010, in dejure.giuffre.itTrib. La Spezia, 22 aprile 2010, n. 435, in dejure.giuffre.it

Giurisprudenza costituzionale

Corte cost., 13 maggio 1965, n. 42, in Riv. pen., 1965, 2, 598.Corte cost., 23 marzo 1988, n. 364, in www.giurcost.org

Sitografia

www.altalex.com www.archiviopenale.it www.datadiar.com (Los nuevos delitos contra la seguridad vial)www.diritto.it www.dirittoambiente.net www.enciclopedia-juridica.biz14.com (Delitos contra la seguridad del tràfico)www.giurcost.org www.hyperedizioni.com www.juripole.fr (Le délit de risques causés à autrui)www.legifrance.gouv.fr www.overlex.com www.penalecontemporaneo.itwww.publications.parliament.uk www.puntosicuro.it

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