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La Collina degli Ulivi

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Fabio Carapezza, giallo Un balcone al quarto piano, di fronte al Luna Park. Giada è un’impiegata di quarant’anni, si affaccia per farla finita quando è distratta dall'incursione di un ladro che vuole derubarla. Daniele è il fratello di Giada, ha dato un valore alla propria spiritualità grazie alla guida di un monaco che da un trentennio si prepara all'incontro con il passato scavando un calice di terriccio ogni giorno. I personaggi agiscono scegliendo fra le proposte estratte da un agente di commercio dalla sua valigetta di pelle. Egli non giudica se siano buone o cattive, le propone soltanto perché questo è il suo lavoro. Tutti dovranno misurarsi con la propria paura di vivere e amare, attratti verso la Collina degli Ulivi dal volto del Cristo sopra a un altare, da un assessore avido di potere e da una piantina che nasconde un segreto. "Ci sono segreti fatti per essere mantenuti, altri sono fatti per essere confessati"

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In uscita il 23/12/2015 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio febbraio 2016

(4,99 euro)

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FABIO CARAPEZZA

LA COLLINA DEGLI ULIVI

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LA COLLINA DEGLI ULIVI Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-940-1 Copertina: “Silenzi”, di Veronica Canetti

Prima edizione Dicembre 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Prologo Parma dava il benvenuto a San Giuseppe e a un marzo gravido d’acqua, pioggia fra i palazzi ottocenteschi di Maria Luigia gloriosa, nei parcheggi dei centri commerciali spuntati come funghi in periferia, pioggia a ingrossare il torrente che incuriosiva i pedoni lungo i ponti della città. Al Luna Park, avventori inzuppati sotto il cielo mummificato in un grigio perenne, che non ne voleva sapere di aprirsi a un po’ di sole. Luci, colori, venditori di palloncini che sorridevano, famigliole d’ignari cornuti a tenere per mano figli minorati dall’alta tecnologia. Lei osservava dalla finestra la scia dell’ottovolante che sfidava le leggi gravitazionali del vento. Si contorceva come un budello più in alto di tutti, così vicino al paradiso e al suo desiderio. Un posacenere pieno di mozziconi stava lì, accanto al Corpus Hermeticum di Trismegisto, “ai dunameis ai en emoi, umneite to en kai to pan”, “potenze che siete in me, elevate inni all’Uno e al Tutto”. Sul tavolo di ciliegio, due pacchetti vuoti e alcuni appunti scritti a mano. In cucina, la minestra che aspettava di diventare bolo, come bolo della terra diventa l’uomo quando la Dolce Signora lo deciderà. A termine cottura, si affacciò ancora a osservare quelle luci di fronte al balcone, che le ricordavano quanto il Tutto procedesse nonostante la sua ossessione a farla finita. Può capitare che si prepari una zuppa per poi lanciarsi dal quarto piano, vedersi cullare in quei secondi che non sono diversi da un giro di giostra in mezzo alla pioggia, prima di comprendere che Tutto è finito. “O kuklos o athanatos tou theou, prosdexasthô mou ton logon”, “il cerchio immortale di Dio ascolti le mie parole”. Scalza, con i capelli crespi per l’umidità, si avvicinò pericolosamente all’istante che precedeva la trasfigurazione, l’attesa millimetrica di trovare il coraggio per farla finita. “Mellô gar umneim ton ktisanta ta panta”, “ elevo inni a Colui che ha creato tutti gli esseri”. Il ladro forzò la porta nell’indifferenza delle ore serali, dove si è soliti spadellare le proprie solitudini dietro a giri di chiave che fanno

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precipitare gli spazi comuni di un condominio nel silenzio. Eppure, qualcosa sembrava muoversi, il rivolo di gocce espulse dal rubinetto della lavanderia, o il riverbero del contatore a tempo della luce d’ingresso. S’introdusse nonostante la serratura blindata, una mosca pronta ad armeggiare con briciole di ricchezza presunta, che in quella zona di casette-per-benino non poteva mancare. Si accorse subito che non sarebbe stato solo, c’era una pentola che fumava sui fornelli e si poteva scorgere una candela accesa nella stanza che doveva essere il salotto, oltre il corridoio centrale. Nessuna voce, se non il batticuore della zuppa e il tambureggiare della pioggia sulla balaustra del balcone. Procedette determinato nella penombra stringendo per le mani un cutter a cambio rapido. Ancora nessuno. Ancora quattro passi, perché la finestra era aperta oltre una libreria a sei mensole e un vaso di Sansevieria Laurentii, che sembrò indicargli dove cercare segnali di vita. Lei stava già iniziando a sporgersi per sentire meglio l’aria tagliente della notte, lasciarsi scivolare laggiù, nel giardino dove qualche vicino l’avrebbe raccolta con la testa massacrata di sangue ed ematomi. Forse quel povero vecchio del primo piano, che la mattina si alzava sempre presto, da svegliare l’alba e dirle “allora, iniziamo un nuovo giorno, che ce ne sono ancora troppi prima di ritirare la pensione alle poste”, forse la famiglia del secondo, quella del padre pendolare e della madre insegnante precaria da una vita, due figli e mezzo a carico essendo il terzo in arrivo. Che cosa avrebbe pensato in quei quattro o cinque secondi della caduta libera? Come sarebbe sopraggiunta la Dolce Signora? E se per un miracoloso quanto imprevisto caso di cui la vita è zeppa, fosse sopravvissuta al tentativo di suicidio finendo poi sopra una sedia a rotelle, con la spina dorsale spezzata in tante schegge? Magari, dopo qualche tempo alla clinica di Monticelli, e molto altro da passare in un ricovero della mutua. Eppure era carina, aveva avuto quasi tutto dalla vita, forse perché non aveva desiderato quasi niente che non fosse un ritaglio di sicurezza e quell’indipendenza garantita dal suo posto d’impiegata comunale, settore Sviluppo Economico. Quando usciva con le amiche, si rafforzava in lei la speranza che qualcosa sarebbe successo, magari una vincita al Win for life, o una vita colorata come il Luna Park. Si vive nell’attesa di un autobus magico che forse non passerà mai.

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Era rimasta sola, le piaceva stare più possibile nella sua casa zeppa di foto di lapidi, di cimiteri, di fontanelle arrugginite che scattava nelle borgate di montagna, o davanti agli altari delle chiese. Foto ritagliate, appese, consultate e catalogate in appositi raccoglitori blu, che custodiva gelosamente meglio dello scarso ma dignitoso oro di famiglia, foto incorniciate che costituivano la vera ossatura della casa, perfino sulle piastrelle del bagno. Era bello infilarsi in auto e prendere scatti da ogni angolazione con la sua pratica Nikon FM2, per poi fare sviluppare i rullini al supermercato, con quel commesso che le radiografava il culo dopo la ricevuta dell’arrivederci e grazie. Il bianco e nero. Folle ossessione che rende ogni volto così miseramente umano. Ecco perché voleva farla finita. Perché era miseramente umana. «Che… cosa vuoi?» riuscì a soffiare più sorpresa che spaventata, sentendosi stupida per non avere avuto la forza di urlare nel trovarsi faccia a faccia con la mosca entrata, chissà come, nella casa a lei intestata dopo la morte dei genitori in un incidente. La domenica si dovrebbe restare a casa a friggere o seguire le partite alla radio, raggiunta una certa età, ammettendo che è pericoloso guidare di notte, in inverno, a settantacinque anni. L’auto aveva sbandato, un malore del conducente ovvero del padre, le dissero poi, e la ruota del Luna Park aveva smesso di girare, perché che lo vogliamo oppure no, che viviamo o che ci danniamo per farlo oppure no, arriva il momento in cui la Dolce Signora apre le braccia e ci sorride. «Che cosa vuoi tu?» aveva risposto quel ladro, a sua volta sorpreso dal trovare una donna con quasi due gambe oltre l’ultimo ostacolo che la divideva dalla Dolce Signora. Navigavano in due mari di solitudine che sembravano avere abbattuto ogni istmo di terra, per prendere a bracciate nello stesso momento le ultime fette di vita. Lei per suicidarsi, lui per farsi al più presto una pera. Due gatti miagolarono poco lontano rendendo il dipinto più surreale, perché quello era il miagolare d’amore di due confusi animali in calore.

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1 L’uomo è un essere che prega, rivolgendosi a un Tu totalmente altro per invocarlo, per chiedergli delle grazie, per cercare conforto e sostegno nella propria esistenza. La religione è dunque un aspetto costitutivo dell’uomo, del suo essere, in quanto, come sostiene Alberto Caracciolo nell’opera “La religione come struttura e momento autonomo della coscienza umana”, sin da quando nasce l’uomo è religioso, quindi proiettato verso l’assoluto. «Bella roba che leggi, ci credo che ti vuoi buttare di sotto.» «Quelli sono appunti di mio fratello, quel coglione sta per laurearsi in filosofia, dev’essere la relazione che stava preparando e che ha lasciato qui da me domenica.» «Senti, dammi dei soldi che è finita la scimmia e non ce la faccio più, me ne vado subito e ti lascio alla tua giostra baby, al tuo Luna Park, capolinea, fine della corsa.» «I… io qui non ho soldi adesso, ma c’è il bancomat nel portafogli, lo prendo ok? Per favore però, tu stai calmo, non farmi del male!» «Ma se già ti vuoi fare male con un volo di quattro piani! Mi chiedi di non farti male. Sei più fuori di me, io ancora per qualche minuto resisto ma dopo sono cazzi tuoi, sto per vomitarti le budella addosso, a te e a questi compitini.» «Prendo il portafogli e scendiamo giù, va bene?» «Se apri la bocca te la taglio in due, hai capito?» Le scale erano appesantite dal loro silenzio. Uscirono nella notte per rifornirsi di qualche biglietto giallo, consapevoli che in breve i loro mari di solitudine sarebbero tornati a dividersi per consegnarsi ai rispettivi destini. Doveva liberarsi di quella mosca urlando per strada o allontanandosi di corsa, veloce come in terza superiore, quando consegnò alla fierezza del padre il primo posto in una gara campestre. Non ci voleva andare a quel raduno, non le era mai piaciuto ingannare l’orgoglio dei suoi, avessimo avuto noi le possibilità che hai tu, e, quando vide il traguardo là davanti, come presa da una furia

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selvaggia per finire il compito prima possibile, tagliò il nastro fra le lacrime. Invece rimase ferma e pensò che fosse deprimente avere rimandato la propria autodistruzione a causa di un tossico che le chiedeva aiuto per autodistruggersi a sua volta, sparandosi in vena quella merda dopo il rifornimento con il bancomat. Arrivati allo sportello, lui iniziò a contorcersi in avanti espellendo rigagnoli rossi con forti conati. «Prendi i soldi, sbrigati dai!» Transazione eseguita il suo saldo è di euro 925,70 premere un tasto per uscire. Gli diede alcune banconote aspettando la sua prossima mossa. Lui doveva farsi adesso, immediatamente. Lo vide allontanarsi zoppicante come un ubriaco, sparendo dietro al supermercato dove lei faceva spesa di alimentari e di sguardi dell’addetto allo sviluppo dei suoi rullini. … Così, come la religione è costitutiva nell’uomo, la preghiera è elemento ineludibile del comportamento religioso; essa non è opzione, perché non c’è uomo senza preghiera… Il suo pensiero si era soffermato a ricordare la relazione del fratello laureando, nel passaggio a proposito della preghiera come rito necessario e ineludibile, valore essenziale di ogni essere pensante. Si prega anche quando non si vorrebbe, si prega anche quando si bestemmia, forse si prega tutte le volte che si respira. Ora, poteva ritornarsene a casa, risalire alla zuppa di farro ancora tiepida, oppure ripensare alla sua ipotesi di suicidio. Già una volta, nell’età della gara campestre, aveva pensato di sottrarsi a quello che definiva “l’incubo corporeo”, arrivando a tagliuzzarsi il polso in superficie quasi per gioco, come a scoprire cosa ci sia sotto l’epidermide visibile. Non scorse il sangue vermiglio subito, ma il bianco latteo dei fasci muscolari che la guardavano per dire fermati, non tagliare più profondo, non adesso. In quel momento, il suo organismo le parlò da cavernosità interiori fino allora sconosciute, ed ebbe la sensazione di essersi da sempre osservata ma mai scoperta. Perché non seguire quel poveraccio? Magari pedinarlo spiando i suoi meccanismi per vedere da vicino come vive chi vive peggio di te. Neppure il tempo di darsi una risposta e sorprese le sue gambe già in direzione dell’angolo oltre il quale lui era sparito.

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Si chiamava Giada, era vicina al traguardo dei quarant’anni che il benessere vetrato dei tempi moderni fa assomigliare a una bomboniera bombardata da TV e giornali che lavano il cervello con status symbol di giovinezza, di vigore psicofisico preservato con la dieta ricca di fibre. Se non sai cucinare con la TV impari a cucinare, se non sai dimagrire con la TV impari a perdere chili, ad accudire casa e figli grazie al pronto intervento di SOS Tata, se non sai sopravvivere in un deserto con la TV impari a mangiare scarafaggi, puoi fare tutto ed essere tutto. Poi ci sono i ritocchini, la cavitazione dell’addome o la liposcultura per i primi cedimenti di cui non ci si dovrebbe mai preoccupare, come se fosse possibile vendere l’anima al diavolo facendosi pagare con botulino o corsi yoga. Giada vide la luce settimina in un pomeriggio d’inizio novembre, le foglie tremavano dal grigiore, incantucciandosi sotto i rami prima di morire spente. Vide quelle foglie tuffarsi silenziose fra l’incubatrice e i disinfettanti dell’ostetricia, ebbe un fremito al pensiero di essere caduta nel maremoto degli umani, angeli squassati dal peccato e chiamati a soffrire sulla Terra. Nacque con lo Stellium impresso sul destino; Vita in Casa I, ascendente 28° in Gemelli; Pietas in Casa IX,1° in Acquario; Mors in Casa VIII, 12° in Capricorno; Sole 10° in Scorpione, Mercurio 13° in Scorpione, Giove 15° in Scorpione, Nettuno 29° in Scorpione. Sole congiunto Mercurio e Giove; Luna sestile Venere, trigono Saturno e Plutone; Mercurio congiunto Venere e Giove, opposto Saturno; Venere congiunto Giove, opposto Saturno; Marte congiunto Urano; Giove opposto Saturno; Saturno opposto Nettuno, Nettuno sestile Plutone; Lilith quadrato Plutone. Saturno regnava l’opposizione sbriciolando su Giada la terra dell’arsura e del vuoto. Sentì caldo al pensiero di essere arsa nel regno dei morti, gli umani. Magra ma tenace, palpebre incavate, mani secche e psichiche, Monte di Apollo sviluppato, linea di Mercurio intrecciata e stanca, griglie sull’area di Venere, bassa e un poco piatta, linee di ostacoli su Testa, Cuore e Destino, linea della vita interrotta, linee d’influenze e preoccupazioni, attività occulte della mente e della volontà. Fronte ampia e convessa, senso di perlustrazione interiore, facilità ad apprendere e a ritenere informazioni, indole acuta e stravagante, temeraria negli attacchi al Tutto, minacce di shock mentali ma questo non la impressionava, già nascere è uno shock mentale. Prima di allora, Giada viaggiava sospesa in bagni di luce con l’anima libera da ogni appesantimento corporeo, lontana dalle ombre della Terra,

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viva negli stadi astrali più infiniti. Volava, nella voluttà cosmica e nella quiete con il pensiero privo d’inerzia, un equilibrio nucleare in cui Assenza era la legge. Il Tutto le danzava attorno volando milioni di anni luce nel fremito di un attimo. Descrivendo orbite fluide, saliva contro il Sole danzando in se stessa, un equilibrio idrostatico senz’acqua, vita terrestre e pensieri. Non aveva condizione fisica, non c’era colore materico in quello spazio, nessuna sensazione, solo una Grande Coscienza e la trasparente composizione di ciò che essa era in qualche angolo di universo, non avvertiva il bisogno di esistere nel senso umano del termine. Si dissetava di eterno e si bagnava di energia, il suo involucro gassoso le rendeva i movimenti ampi e voluttuosi. Regolarmente, come goccioline di un’onnipresente vetrata, danzava attratta e respinta da tempeste irradianti, vortici solari e particelle atomiche di materia non materializzata. Assisteva al grandioso spettacolo degli Universi senza leggi gravitazionali, poteva stabilire in quale punto delle infinite galassie trovarsi senza il bisogno di chiedersi il perché del tutto. Poi, la decapitazione di questo Tutto Meraviglioso, un tunnel lungo un’eternità di attimi, la legge della palingenesi, il ritorno schiacciante, le dissonanze del caos, la nascita in quell’asettica sala parto. Non pianse, conobbe il destino e lo accettò. Perché la Morte? Perché la Vita? Perché l’acqua, idrogeno più ossigeno? Qualcosa non andò. Il cesareo segmentario la scaraventò nel mondo, e Giada vide la luce, con essa il buio. Il feto piccolo piccolo e immaturo respirò l’aria della Terra con ritardo, ma Giada combatté forte, e indiavolata sopravvisse perché questo era il suo destino. Era spesso presa da melanconie ipocondriache che tentava di combattere con un profondo rigore verso se stessa, preferendo l’amore per la solitudine piuttosto che l’amore per un uomo, ma in fondo è per questo che si nasce. Per essere soli. L’insania della sua coscienza la portava ad accarezzarsi il collo, pensando a come sarebbe stato bello guidare di nuovo il suo battello nel sugo primordiale, arricchirsi di sali minerali in un rinnovamento continuo, embrione eterno che aspira all’acqua pontica, al mercurio animato, al Latte dei Filosofi che la transustanziazione renderebbe sacro per convertire il male in bene, la morte in vita. Giada leggeva ossessivamente per riflettere sulle verità nascoste attraverso il seme dei metalli atto alla Grande Opera. Anelava alla

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propria germinazione con le opere segnate da Geber, Paracelso, Vesalius, nella ricerca del Leone Verde, il Mercurio Nato che la potesse rendere infinita. Voleva fare il balzo da quella finestra semi socchiusa per tornare a nascere veramente nella luce. Seneca diceva che il sapiente vivrà tutto il tempo che ha il dovere di vivere, non tutto il tempo che può vivere, e lei voleva fare ritorno all’eternità. Si sorrise e comprese che il divino è tale proprio perché nascosto come il Leone Verde, e soltanto l’opus della scoperta di sé lo può portare alla coscienza dissetandone l’arsura. Le capitava di attardarsi nella tromba delle scale all’ingresso del condominio, per fissare di nascosto gli sguardi dei vicini, immaginare i loro mondi mentre le passavano distrattamente a tre metri senza accorgersi di lei, facendole provare un senso di malessere, ma anche un sincero amore per le loro debolezze e limiti, che finivano per essere i suoi limiti e le sue debolezze. Qualcuno la prendeva per matta quando curava le rose del giardino comune, offrendole ai vicini nel desiderio di accarezzare le loro anime. Sapeva che gli umani esistono solo come tappe intermedie di un percorso che punta al non-terrestre. Lei è chiamata a sacrificare la propria spada di luce, porta le mani alle tempie e le accarezza lisciandosi i capelli neri, socchiude gli occhi e indaga il mondo. Un’intelligenza demoniaca sembrava spesso tenerla distante dai suoi simili, dai quali era costantemente trafitta con strali d’indifferenza, soprattutto al lavoro. Una vita di lavoro e carte economiche redatte con il paziente scrupolo di chi non ha mai votato per la giunta in carica, ma che le riforniva il conto corrente con lo stipendio. Poi, c’era qualche nuotata nella piscina di via Zarotto, c’erano le foto e i rullini rubati nelle sue perlustrazioni vitali, a consegnare al per-sempre ogni più banale insignificanza, fosse un topo morto, un’epigrafe incisa su un travertino, o un contrasto di luce fra le grondaie di una casa. C’era quasi tutto nella sua vita, proprio perché non c’era quasi niente e, naturalmente, non c’era l’amore. Si divincolava da esso come da un polipo incapace di risucchiarla nelle sue ventose e, ogni volta che il polipo si avvicinava, Giada godeva sapendo che avrebbe vinto la lotta. Sembrava che dedicasse la sua vita alla costruzione d’impalcature stratificate, non concedendo a se stessa la possibilità di godere di una persona, di un amico caro, di un uomo caldo, di una scopata rigenerante dopo la doccia fatta insieme, accomodandosi sempre più in fondo alle tavole nuziali dei conoscenti che invece

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salivano all’altare. In quegli odiosi matrimoni s’impastava nella gola la sensazione che pensassero quanto fosse scema a non trovarsi un mezzo ingegnere, oppure un impiegatuccio comunale da poco, come lei. Per esempio, quel coglione di Massimo, il “signor Io” lo chiamavano in ufficio, un tipo simpatico ma sostanzialmente insignificante che, in qualche occasione, aveva provato a infrangere il reticolato di Giada, la no-fly zone della sua conclamata misantropia. Molto corteggiato dalle colleghe più giovani, ambito da quelle più navigate che gli mettevano gli occhi addosso, sperando lui mettesse loro addosso qualcos’altro, il messo comunale si dava da fare con buona pace del suo testosterone, e nel mirino, da tempo, aveva localizzato l’obiettivo Giada, uscendo ogni volta umiliato dalla sua indifferenza. Quando per disgrazia le capitava di non soffrire, faceva di tutto per riaffondare fra le branchie del nulla, avvolta in esso per energia centripeta. Avrebbe almeno voluto crederci in quel Dio della preghiera di cui parlavano gli appunti del fratello, in modo da poterlo bestemmiare, oppure respirare. Qualche tempo prima della sera in cui aveva pensato al suicidio, aprì distrattamente “I Fratelli Karamazov”, facendo scorrere a caso le sue unghie smaltate fino a una pagina che la turbò parecchio. In essa, l’intensità drammaturgica del dialogo si manifestava con una tal energia, che finì per imparare a memoria lo scambio fra Fëdor Pavlovič, Ivan e Alëša, circa l’esistenza di Dio. Come un Inquisitore, Fëdor sottoponeva prima a Ivan e poi ad Alëša la domanda assillante, non una domanda qualsiasi ma La Domanda. - Ma dimmi, tuttavia; c’è Dio o non c’è? Purché seriamente! Ora mi bisogna che parli seriamente. - No, Dio non c’è. - Piccolo Alëša, c’è Dio? - Dio c’è. - Ivan, e l’immortalità c’è, voglio dire qualche cosa al di là, sia pure poca cosa, sia pure una cosina da nulla? - Non c’è neppure l’immortalità. - Proprio in nessuna forma? - In nessuna forma. - Cioè il più perfetto zero: non ci sarebbe alcunché. O forse, un certo alcunché potrebb’esserci? Sarebbe pur sempre, nevvero?, meglio che niente. - C’è il più perfetto zero. - Piccolo Alëša, c’è l’immortalità?

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- C’è. - Dio e l’immortalità? - Dio e l’immortalità. - Ehm… è più verosimile che abbia ragione Ivan. Signore mio, e pensare quanta fede ha speso l’uomo, quante forze d’ogni genere, inutilmente, per questo miraggio, e da quante migliaia d’anni!1 Giada stava con Ivan, e non sopportava l’ipotesi di schierarsi con il pio Alëša anche solo per un secondo, per il tempo necessario a gridare con tutta la gola, le parole che avrebbe voluto sempre urlare: “Mondo, tu, mi devi ascoltare”, e ripeterlo ancora più forte, sempre più forte gridandolo fino all’isteria grave: “Mondo, tu, mi devi ascoltare”. Nascendo, aveva dimenticato come si viaggia fra gli Universi, non poteva ricordare di essere l’essenza della luce, irradiazione di poteri che l’uomo al suo livello attuale di evoluzione non conosce. La sua vita era sempre stata una corsa campestre affannosa, senza averne coscienza si era consumata gli occhi su letture specifiche, saggi, studi che trattavano il problema fondamentale, quello per cui valga davvero la pena provare a sentirsi vivi. Perché tutto questo? Incapace di arrivare a un’intuizione qualsiasi, aveva più volte pensato alla finestra di fronte al Luna Park. Si chiamava Salvo, si era sposato giovane con il matrimonio riparatore di chi ha messo incinta la prima scema portata fra le lenzuola, mentre i genitori sono accanto al tornio di qualche fabbrichetta di provincia. Quelle piccole fabbriche con dieci, quindici operai e un datore di lavoro attento a non lavorare meno di dieci ore al giorno, compresa la domenica. Il matrimonio era crollato come una mela marcia sebbene fosse acerbo, perché era nata una piccola vita, un ragazzino che cresceva in fretta e costava più di quanto Salvo avrebbe saputo spendere in termini di responsabilità e attenzione. Aveva ventitré anni, la madre che gli diede l’erede - di miseria avrebbe pensato - poco più di diciotto, e comprese che forse non sarebbe mai diventato uomo, incapace di godersi la gioia inattesa di un bambino nonostante le responsabilità da affrontare.

1 Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Giulio Einaudi Editore, Torino 2007, pagg. 178,179.

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Iniziò a uscire spesso la sera, drogandosi in bettole che lo allontanarono da parenti, moglie, figlio concepito per sbaglio e diploma che non avrebbe mai conseguito. E il tempo iniziò a correre velocemente sui binari anche per lui. C’è una linea strana, un momento preciso in cui si passa dalla convinzione dell’immortalità ostentata dalla giovinezza, alla consapevolezza della sua illusione nella maturità, proprio quando i giochi sono ormai fatti, se non definitivi, almeno tracciati. Salvo sbrigò la pratica del passaggio da uno stato all’altro a suon di fughe ed eroina, vivendosi i vent’anni con la separazione, con i rimorsi di coscienza di avere abbandonato moglie e figlio, preferendo comprarsi la roba piuttosto che il latte per quel bambino. Non gli mancava la materia grigia per essere un vincente e scommettere sulla bontà estetica della vita, perché questa vita qualcosa di bello lo deve senza dubbio avere. Magari, si tratta di un bello generato dalla casualità, ancora prima che dalla causalità, basterebbe pensare alla bellezza degli alberi. Non c’è un albero uguale all’altro e sullo stesso albero ci sono rami con foglie diverse fra loro. Casualità o causalità della bellezza? Il novantanove per cento della biomassa presente sul pianeta è costituito dalle piante, esse restano immobili, vulnerabili, sono mangiate, inquinate, abbattute, eppure possono benissimo vivere senza gli esseri umani, quando non è possibile il contrario. Contava poco pensarci, ma Salvo ci meditava su nei rari momenti di feconda lucidità che intervallavano una siringa dall’altra. Sarebbe stato meglio, per lui, dedicarsi con cura al cambio del pannolino, alla sterilizzazione di biberon e tettarelle, alle tranquille passeggiate lungo i viali del Parco Ducale con le sue suggestioni settecentesche, piuttosto che perdersi in un’inutile corsa per superare se stesso, perché, qualunque cosa facesse, Salvo restava sempre indietro. I genitori non avevano mai avuto troppo tempo per lui, con il padre che faceva meno fatica a ignorarlo che a menarlo. In questo modo la strada se lo prese presto, insegnandogli la difficile quanto ammaliante arte della fuga. Ci vuole arte anche per scappare e Salvo era un vero professionista che si abituò presto alle circostanze più pericolose ed eccitanti. Aveva un comportamento primitivo e allo stesso tempo raffinato, che in qualche modo lo proteggeva quando con un piede varcava la soglia della legalità, ma il problema, in questa fuga esistenziale, non erano le sue azioni illegali, quanto quelle degli altri nei suoi confronti. Perché a vivere per la strada i nemici sono molti.

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Svoltato l’angolo, fuori dalla vista di Giada rimasta immobile sull’auto, Salvo tentò di chiedere un passaggio, ma rimediò solo il dito medio di un conducente meritando poi l’indifferenza di altri dieci. «Pronto Condor, dove ti trovo?» «Sono al Bel Sole, o ti sbrighi o ti mollo a secco stronzo, hai capito?» «Se vai via e non ti trovo ti spacco la faccia, dammi quindici minuti ok?» «Salta su, dai, veloce!» La Renault Clio di Giada era sgonfia come la sua voglia di vivere e di redigere rapporti di servizio, doveva pur ricordarsi di fare il tagliando, ma lei non capiva niente di motori, e a ogni scadenza di manutenzione o nevicata che richiedesse un paio di braccia maschie, si ricordava di quanto fosse sola. Una volta, aveva dovuto chiedere in prestito una pala al distributore per liberare la macchina da una nevicata che aveva innescato le solite polemiche per l’inefficienza del piano antineve del Comune, con le lamentele anche dei vicini di casa che sapevano del suo impiego municipale. Era stato umiliante doversi spalare la neve rancida da sola, nonostante le sue rivendicazioni di autonomia femminile che le davano sempre l’illusione di sentirsi libera. «Dici davvero che mi vuoi dare uno strappo?» le chiese incredulo Salvo, solo per un momento distratto dalle contorsioni al suo stomaco. Aveva fame chimica di sostanze psicoattive che potessero calmierare i recettori del cervello ormai in ebollizione, come una zuppa di farro sul fuoco di un’impiegata comunale. «Dove ti devo portare?» «Andiamo al Bel Sole vicino a Piazzale Santa Croce, lo conosci?» «Sì, ci sono stata una volta in quella pizzeria lurida, e non ci metterò piede mai più.» «Il Condor mi aspetta lì, il mio sponsor ufficiale», disse Salvo, quasi ridendosela al pensiero che aveva rimediato un passaggio dalla vittima della sua rapina. Che poi rapina sarebbe dovuta essere, ma alla fine era diventata un’azione buona, un atto di solidarietà di una disperata a un disperato. Fece anche in tempo a pensare che il benefattore in realtà fosse stato lui: grazie alla minaccia del suo cutter quella cretina aveva rimandato il balzo verso la morte. La macchina viaggiò fra il traffico annoiato e le luci del Luna Park a distanza, dopotutto non erano lontani dalla casa di Giada. «Quando arrivi, lasciami al tabaccaio e aspettami lì, io faccio acquisti e torno indietro. O vuoi correre dalla tua zuppa e al suicidio?» «Certo che sei proprio uno stronzo, lo sai? E hai addosso una puzza da vomito.»

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«Prova a dormire fra parchi e panchine per una settimana, poi vediamo chi puzza di più. Ecco dai, fermati qui e non scendere dalla macchina, metti la sicura e spegni i fanali. Comunque io sono Salvo.» Due cuori pompavano sangue a flussi per due ragioni diverse. Giada tremava per paura, ma anche per la curiosità di viversi quei momenti così non ordinari nella sua vita piuttosto daltonica, come un ventaglio monocorde incapace di aria e freschezza. Salvo, invece, al posto del cuore teneva una pompa idrovora pronta a collassare sotto i colpi della mancanza di sostanze reagenti sul sistema neuroendocrino. «L’hai buona questa volta?» «Come sempre amico, che cazzo vuoi?» gli rispose il Condor, occhiali scuri ventiquattro ore il giorno, anche sotto la doccia o sopra la tazza di porcellana del cesso, scarpettine di ginnastica color droga. Di tutta un poco, o di tutta di più. Si riforniva all’ingrosso dai congolesi di via Palermo, comprando ovuli che poi divideva in dosi da circa un grammo, mietendo la felicità di zone urbane in cui era bravo a spacciare di tutto, miscelando eroina pura con mannitolo, procaina e psicofarmaci più o meno tagliati. Uno shake bianco o più spesso marroncino cacca, che rivendeva a venti-venticinque euro a dose. I clienti se la sparavano su ogni residuo di vena disponibile sul corpo, anche su quelle varicose ammesso fossero le uniche non ancora massacrate, oppure se la fumavano riscaldandola con la stagnola delle sigarette. Neppure lui si ricordava il vero nome, per tutti era il Condor, forse perché, come un avvoltoio rapace, si cibava di carogne umane facendo da pronto intervento alle loro miserie. Era il caporale della periferia Nord, dove era riuscito a entrare in contatto con il giro, ritornandosene a casa la sera con le tasche piene di soldi. Gente strana i clienti. Nonostante che con la roba si crepi, gli acquirenti si moltiplicano come blatte pronte a dissanguarsi l’anima, ciascuno per le proprie ragioni. … Diverse sono le concezioni proposte da vari autori relativamente al tema della preghiera. Kant si sofferma su questo aspetto nell’opera “La religione entro i limiti della sola ragione”, sostenendo in una nota che la preghiera è snaturata quando diviene un'illusione superstiziosa, una forma di feticismo, un mezzo per ottenere i favori di Dio… Giada stava lì, in auto con il motore spento, aspettava gli acquisti di Salvo. La testa correva lungo due fili paralleli, avendo accantonato per il momento l’ipotesi di buttarsi dalla finestra. Era aggrovigliata dall’affare

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in cui aveva voluto infilarsi, mentre non riusciva a staccare le sue meditazioni sul valore della preghiera. Aveva forse appreso i contenuti della relazione più del fratello autore, poteva quasi ricordarne ogni passo. Non aveva mai pregato, proprio perché lo riteneva un’illusione superstiziosa per vecchiette della domenica, uno strumento di autolavaggio delle coscienze che attende l’intercessione divina. In quel momento, però, stava pregando. Pregò una preghiera viva, al contrario di lei, una preghiera che le restituisse intatto Salvo, forse per utilizzarlo come strumento di comparazione della sua miseria, oppure per sondare dove sarebbe arrivata quella specie di avventura. Poi sentì urlare e suoni sordi che assomigliavano a una scazzottata la fecero girare d’istinto. Dal lunotto posteriore vide Salvo a testa piegata con la lingua appesa in bocca che cercava di chiedere aiuto, pestato marcio da tre, forse quattro tipi che gli camminavano sopra come un asfaltatore. Che cosa poteva fare? Mettere in moto e scappare come aveva fatto sempre, ma per andare dove? Ritornare a casa facendo finta di niente, infilarsi nella sua zuppa di farro ormai fredda e ritornare a sporgersi dal balcone, ecco cosa poteva fare. Non dopo aver gustato la zuppa, perché morire è più piacevole se lo fai con la pancia piena. Ce l’avrebbe davvero fatta a finire il lavoro? A consegnare la propria anima all’asfalto e a qualche distratto necrologio? Non l’avrebbe fatto neanche quella sera, sarebbe rimasta scura a maledire la notte, a osservare le lampadine del Luna Park spegnersi una dopo l’altra, avrebbe riprovato ad abituarsi alla placenta del mondo come in ciascuna delle sue mattine. Fine della giostra in attesa del giorno che verrà. Con l’incubo di ritrovarsi magari Salvo nuovamente intorno, minaccioso e incazzato perché l’aveva lasciato marcire sotto le botte di quei bastardi. Tutto finito. Aveva già la risposta su cosa fare. I tipi se ne erano andati dimenticandosi di Salvo, con una fuga di corsa sotto i portici di Strada D’Azeglio fra il buio e le auto in sosta davanti alle vetrine dei kebab. Non aveva visto niente nessuno naturalmente, perché anche quello che secondo lei doveva essere il Condor era rientrato nella pizzeria. Ancora il cuore come un orologio impazzito. Scese dalla macchina presa dalla paura, avvicinandosi a ciò che “pregò” non essere diventato un cadavere. Salvo stava accasciato dolorante in posizione fetale, pronto a essere espulso nella morte, non nella vita. Sembrava respirare, perché, in effetti, era vivo. «S… Salvo, Salvoo! Mi puoi sentire?» «S… sì, sto bene, merda aiutami a tirarmi su.»

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«Cosa faccio Salvo? Io chiamo un ambul…» «Tu non chiami proprio nessuno», le disse. «Non posso andare in ospedale o mi arrestano.» Troppo tardi. Gli occhi invisibili dell’omertà possono essere anche pietosi. Qualcuno aveva avvisato che c’era un problema. Arturo Bertocchi era rimasto suggestionato da “L’uomo senza qualità” di Musil, aveva spolpato i due tomi in neanche cinque settimane, peggiorando di molto la sua presbiopia. Ripose l’ultima pagina soddisfatto di essersi innamorato di Ulrich, l’inetto protagonista ammalato nell’anima, in cui non esitò a ritrovare una parte di sé. Ripensò a un passaggio del libro in cui Ulrich parlava delle proprie qualità, sostenendo che i suoi amici lo definivano, appunto, un uomo senza qualità. Wiky, il gatto fulvo dalle unghie smorfiose, gli aveva appena regalato una striatura sulla mano destra, obbligandolo a scollarsi dalla poltroncina di lettura per recarsi in bagno a prendere disinfettante e cotone. Fu lì, nel bagno dalle finestre semiaperte, che sentì alcune grida provenire dalla strada, quasi sotto l’entrata della pizzeria Bel Sole. Vide una donna magra, indossava una tuta o qualcosa di similmente sportivo che la rendeva poco credibile come impiegata del Settore Economico del Comune, ma egli non saprà mai della sua vita, dei suoi affari, del balcone da cui aveva desiderato lanciarsi poco prima. Per lui, quella donna faceva parte della multietnicità dell’altro, entità astratta che caratterizza il diverso da sé. Una semplice e poco significante persona, come altri sette miliardi su questa Terra, che si aggirano fra i giorni e le notti, fra le giostre terrificanti del Luna Park esistenziale, dove a fluire e perdere sempre è la materia. Si chiedeva quale fosse il comune denominatore che fagocita gli altri in noi stessi, accomunandoci tutti in una casa madre che dovrebbe farci sentire fratelli, ma la sua indifferenza verso la vita gli aveva fatto prendere le distanze da qualsiasi palpito verso “l’altro”. Eppure, questo altro sembrava avere bisogno di aiuto e, a guardare bene, di “altri” ce n’erano almeno due. Giada e Salvo, agonizzante a pochi passi dalla pizzeria. Ci mise poco a compiere il dovere civico di segnalare che ci fosse un problema e si dissolse come si potrebbe dissolvere una schizzata di grasso sul lavabo. Davvero non incontrerà mai Giada o non conoscerà mai Salvo? Se è vero che tutto ha un senso, l’avere chiamato il pronto soccorso gli aveva fatto venire in mente che fra tutte le cose mezze incominciate e spesso mai

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finite, c’erano anche desideri socialmente utili, tipo donare il sangue o fare il volontario all’Assistenza Pubblica. Per Salvo, messo là in una pozzanghera di asfalto e sangue, non esisteva senso da tempo, forse da sempre, perché l’autodistruzione cui aveva preso a dedicarsi durava già da tantissimo, forse da quando esiste il mondo in sé. «N… non dovevano chiamare, non dovevano», farneticò Salvo rivolgendosi a Giada con fatica attraverso la bocca a fessura, fra due labbra violacee da capillari rotti di sangue. Fu trasportato all’Ospedale Maggiore percorrendo via Abbeveratoia con la scorta di Giada, che avrebbe dovuto ibernare la voglia di ammazzarsi - di compiere il bene o il male? - insieme alla sua zuppa di farro, ricetta toscana. A volte, trovava divertente affinare le sue doti culinarie, spesso dava soddisfazione ai succhi gastrici preparando cibarie di sopravvivenza, che facevano concorrenza a pizze o take away cinesi. Veniva un cinesino che si faceva chiamare Francesco, almeno due volte la settimana la raggiungevano gli spaghetti di soia o un bel risotto al curry introdotto da involtini primavera. Quando mangiava uno di quegli involtini, le sembrava di essere simile a loro, così grassi dentro e inzuppati di fritto. Le fecero alcune domande al presidio di polizia dell’ospedale, mentre Salvo era medicato. «Lei è una parente?» «N… no, sono una sua conoscente.» «Dove abita signora?» «Abito alla Crocetta, ha presente vicino alla zona del Luna Park?» «Sì, ho capito, non siamo distanti, io abito proprio quasi di fronte alla pizzeria Bel Sole, dove vi ha raggiunto il pronto soccorso.» In quel momento, il preposto di turno che le stava facendo alcune domande s’interruppe scusandosi e, avvicinando la bocca al telefonino, parlò al figlio che lo aveva cercato. All’altro capo ci stava Arturo Bertocchi, che informò il padre di avere avvisato il pronto soccorso per il problema sotto casa. «Vattene a letto Arturo, è tardi», gli fece suo padre ritornando poi alla compilazione del verbale, fissando la magra felpa di Giada. «Lei, è informata che il suo conoscente Salvo è tossicodipendente? Ha abbandonato la comunità e da allora sembra che viva per strada. Lei lo conosce bene, signora? Abbiamo fatto un controllo, non si può dire che sia uno stinco di santo.»

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La sua voce suonò severa, simile a un rimprovero o a un invito a voler collaborare, come se non esistesse il diritto, o il dovere, o il piacere di essere i conoscenti di un tossico con le vene bucate. «Io, in pratica non lo conosco. Mi trovavo vicino alla pizzeria e ho solo fatto in tempo a vedere qualcuno che lo pestava, ho avuto paura ad avvicinarmi, ma quando dalla mia auto ho visto che lo hanno lasciato per terra, volevo vedere chi fosse, se avesse bisogno… e ho visto che era Salvo. Poco prima mi aveva chiesto cinque euro e per togliermelo di dosso glieli ho dati», rispose determinata Giada. Non avrebbe potuto riferire che Salvo si era infilato nel suo appartamento. «D’accordo signora, se avremo qualche altra domanda, la contatteremo.» «Che farete con Salvo?» «In questi casi lo controlliamo fino a quando non sarà pronto per le dimissioni e sarà bene che faccia ritorno in comunità dove si trova in affidamento, o gli toccherà tornare in prigione come alternativa. E poi c’è la questione del cutter che si dovrà valutare. Ora vada a casa, ha già fatto anche troppo.» Che cosa aveva fatto Giada quella sera, se non pensare di uccidersi e poi di dare aiuto a un quasi rifiuto umano, uno di quegli invisibili miserabili che fanno da arredamento mediocre alla già di per sé mediocre giungla urbana? Uno di quei disgraziati che rinnegano se stessi e chi sta loro vicino, tipo una giovane moglie o un bambino, che in questo momento si starà chiedendo dove si trovi il papà. Un bambino ha doti paranormali, potrete dirgli che il padre è via per lavoro, o che si trova in un posto isolato, gli leggerete una lettera in cui lui afferma che vuole bene a suo figlio, ma che in questo momento non può fare ritorno a casa. Gli regalerete una ruspa meccanica dicendo che questa gliela manda il papà, ma non servirà a nulla. I bambini hanno il vizio extrasensoriale di non farsi prendere in giro da nessuno, e i veri ingenui sono gli adulti che invece pensano si possa fare. Non si può fare, soprattutto quando all’uscita dell’asilo i bambini vedono i papà degli altri bambini, magari in giacca e cravatta, elegantissimi, pronti a caricare i figli, che non sono forse figli di un drogato, non sono mai figli del rifiuto. Se lo sono non lo sembrano, perché almeno un passaggio a casa con eventuale pit stop al parco ce l’hanno, è già qualcosa. Viene il dubbio se sia meglio un padre assente ma fisicamente presente, o un padre assente e fisicamente sempre assente.

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…Nell’esperienza della preghiera il soggetto mobilita quelle facoltà extra-razionali che permettono di cogliere certe realtà, certi stati che sono preclusi all’intelletto discorsivo. Più che ragionare su Dio la preghiera è un “adorarlo”… Dopo una doccia calda, Giada cercò di riorganizzare gli eventi di quella serata, sdraiandosi sul divano e dimenticando la sua zuppa. Non aveva fame e non si sentì così stanca da non leggere la relazione del fratello sulla preghiera. “Dove desidero andare con quest’afonia quotidiana? E il lavoro? Solo uno strumento di partecipazione alla giostra della società. Un meccanismo di dare-avere come il conto corrente in banca, con tutte quelle voci incomprensibili che sembrano gridare circa la possibilità di permettersi cose, benesseri e oggetti che alla fine non mi fanno sentire felice. Vorrei solo essere libera e mi accorgo che manca tutto, ma dove incominciare? E quel tossico ora è all’ospedale guardato a vista da un piantone, in attesa di essere interrogato. Siamo uguali, alla fine, pestati a sangue dal male e dal marcio di un lavabo che più gratti, più spunta fuori. Proverò a dormire, domani non andrò in ufficio, chiamerò e prenderò permesso, domani”… Il sonno. Erano due i sogni ricorrenti di Giada. In uno prendeva le sembianze di una zattera con la prua a forma di medusa che colava a picco, nonostante il mare piatto e tranquillo; nell’altro camminava non riuscendo a reggersi in piedi, perché le uscivano continuamente le scarpe facendola inciampare. Si prese anche la briga di verificare nel libro dei sogni di Nostradamus l’eventuale significato, soprattutto del secondo sogno, che era quello che le dava più ansia. Il primo, dopotutto, le restituiva il sapore della dissoluzione e, mentre la zattera affondava, le sembrava di raggiungere la pace, senza zavorre e problemi, soltanto un grande blu che la accoglieva nelle sue profondità. Era curiosa circa il sogno delle scarpe e trovò che sognare di perdere le scarpe significherebbe presagio di malattia o morte. La sua incertezza su dove mettere i piedi cedeva spazio alla certezza di non lasciare alcuna impronta nella vita. “Proverò a dormire, domani non andrò in ufficio, chiamerò e prenderò permesso, domani”… Il sonno.

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2 Il mattino smise di lacrimare pioggia proprio quando Giada uscì da casa, destinazione ospedale. Decise di andarci in bus, rinunciando a chiedere un passaggio al vento che sbatteva lungo i muri, e infilò nella borsetta la cioccolata che riuscì a rimediare in cucina. Si trattava forse di aspettativa umana e desiderio di dare impulso a quell’istinto di sopravvivenza che sembrava avere smesso di farle compagnia, durante anni di lotte silenziose. In un certo senso, la divertiva immaginare la faccia di Salvo nel vederla fargli visita, si chiese come l’avrebbe presa, quasi sperò che gli avrebbe fatto piacere ritrovarsela lì, un po’ più carina della sera prima, ripulita dalla sua voglia di ammazzarsi con un bagno rigenerante e una longuette semplice e tranquilla. C’era da deprimersi a pensare di mettersi un po’ in ordine per andare a far visita a un tossico che avrebbe voluto svaligiare la sua casa e quasi si vergognò del suo strano coraggio. Si giustificò con se stessa, ammettendo che il gioco delle probabilità nella vita è più complesso di un elaboratore multifunzionale, o di un documento di programmazione finanziaria del Comune. Qual è la probabilità di estrarre un multiplo di dieci nella tombola, dopo che il primo numero estratto è stato il dieci. Qual è la probabilità di vedere uno sconosciuto due volte in una settimana sullo stesso percorso casa lavoro. O qual è la probabilità di essere felici. Il suo vizio, oltre che fotografare millimetricamente qualsiasi soggetto-oggetto le capitasse a tiro nel tempo libero, era cercare di leggere nella mente dei passanti che incrociava in strada, immaginando i fili di pensieri, i nessi logici delle loro emozioni. Scesa dall’autobus, si accorse subito che qualcuno la stava pedinando. Cercava di trasformarsi nella sua ombra da quanto le camminava vicino, ma lei non si allarmò, perché la strada era abbastanza congestionata di traffici di ogni genere. Decise di voltarsi bruscamente, quando questo qualcuno le rivolse la parola. «Ma tu, non lo senti il terremoto sotto i piedi? Ecco, ecco… senti un’altra scossa.» «Ma guardi che non c’è nessun terremoto.»

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«Io il terremoto lo sento sempre, la terra mi trema dentro, e ti dico che non sono le gambe a squassarsi così, il terremoto esiste, è una fame che non muore mai, cresce ovunque io lasci le mie impronte, e guarda che è impossibile che non lo senta anche tu. Per tutti trema il mondo e tu non sei diversa, a meno che non sia immune alla paura. Il mondo ha paura, lo sai? Se non lo sai, te lo dico io, cara signora. Il mondo si fotte dalla paura e allora trema. Lo vedi quel signore che sta per attraversare sulle strisce? Eh? Lo vedi?» «…» «Ecco, quel signore dentro di sé ha paura di essere mangiato, magari da una macchina, o dal suo capo quando arriverà al lavoro, o dalla moglie se l’ha, quando stasera tornerà a casa e si dimenticherà che è il loro anniversario e lui, come tutti gli anni, mancherà di portarle tre girasoli come faceva quando erano giovani e s’incontravano di nascosto dietro il cortile di casa sua, perché i suoi genitori non volevano che frequentasse quella semplice panettiera…» «Scusi ma perché mi sta dicendo queste cose? E poi io non ho tempo, sto andando in ospedale a fare visita a una persona.» «Lo capirai da sola signora, lo vedrai da te, il terremoto esiste dappertutto, anche per quell’amico che stai andando a trovare.» Quando Giada si rese conto che stava parlando da sola, e che non c’erano ombre che la seguivano, comprese che ci fosse un ottimo e stimolante rischio di diventare pazza. Non si può definire la pazzia attraverso le classificazioni cliniche dei manuali, con le eziologie che intendono descrivere il disturbo deviante partendo dai comportamenti delle cavie umane osservate. Ognuno è insano a modo suo, così come il pazzo sa di non essere normale, e Giada sapeva di essere pazza. Odore d’ipoclorito di sodio lungo la corsia del reparto. In certi ambienti la percezione del profumo diventa puzza di sofferenza. Si tratta di quel pulito mascherato tipico degli ospedali, spalmato sui pavimenti per distruggere le molecole biologiche responsabili di malattie e infezioni, dove assidui addetti alle pulizie riescono a fare breccia anche nelle narici meno sensibili. Si tratta di un pulito che ha il gusto del presagio, che ti fa capire che stai in mezzo ad ammalati, traumatizzati, a portatori dell’ancestrale miseria che da sempre accompagna l’uomo e i suoi passi, la vita prima della vita. Meglio starci lontano da questo lercio profumo, ma esso continua a gridare come grida il terremoto che Giada sente sempre. Un infermiere

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era lì, nella stanza dove Salvo giaceva come un cristo in attesa della resurrezione. «Sei sveglio? Ciao, ho pensato di fare un salto per vedere come stessi. Devo… vuoi che chiami qualcuno? Magari la comunità?» «Ciao Giada. Ho un mal di testa da sbattermi giù dalla finestra, lo so io che medicina ci vorrebbe. Tu mi ami Giada, forse non farai in tempo a rendertene conto.» «Perché ti hanno pestato ieri sera?» cambiò registro lei, facendo finta di non avere raccolto la sua provocazione. Vedeva quel cristo crocefisso con ecchimosi al posto di mento e guance, assomigliava a un marocchino da tanto la sua faccia era scura. I suoi occhi le sembrarono raggrinzati, cercò d’immaginarsi l’età precisa di quel tossico, come avrebbe potuto essere quel volto ripulito dalla droga, o dal passato che lei non conosceva, ma di cui poteva vedere i segni in quel ghigno beffardo che sottintendeva in realtà un’ingenua timidezza. Nel suo appartamento, alterata dalla follia maniacale di gettarsi di slancio dal balcone, lo aveva perfino visto vigoroso e possente, ma ora, in quel sudario bianco e stropicciato, gli sembrava un cristo indifeso che implorava briciole di cure. Avrebbe voluto fargli delle foto, consegnarlo alla storia con qualche scatto in bianconero a ottica fissa e con luce naturale, per rubare l’espressività dei suoi occhi che intuiva. Non è certo scandalo prendersi cura di un tossico, o cercare di capire, ma può esserlo se si vede farlo. Teresa e Federico, amici di vecchia data e perennemente insieme in attesa di decidere di sposarsi, le avrebbero urlato di esporre denuncia per l’irruzione di Salvo in casa sua, altro che lasciarsi spingere dallo spirito da crocerossina che le riconoscevano. Ma cosa te ne frega di un morto di fame da andare a trovare, questa sera ce ne andiamo tutti e tre al Barilla Center, si passa la serata, ci si fa un paio di spritz sotto le note acide di Van Buuren, si guarda qualche vetrina e si sta in compagnia. Teresa e Federico facevano parte della categoria dei benestanti, dei puri, di quelli che alla fine del gioco se ne fregano del dolore nel mondo, semplicemente ignorandolo. C’è una forma sottile d’ipocrisia che si chiama indifferenza. Pensò, in fondo, che Teresa e Federico fossero due bravi ragazzi, attenti a tutelare i portoni delle proprie ricchezze esistenziali, maestri di cinismo nello stare dalla parte dei vincenti, dei liberi professionisti a tre-quattromila euro al mese sul conto, dei sostenitori di un materialismo strutturale che cementa le intenzioni ancor più dell’agire pratico. Non facevano che godere la vita e questo non è un

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male. Caso mai, agli occhi pseudo invidiosi di Giada, sembravano carnefici e vittime del loro ipocrita perbenismo. Il mondo si divide in ricchi e poveri, è questa l’insuperabile dicotomia. Soltanto il caso ti fa stare da una parte o dall’altra. Gli avrebbe forse telefonato per informarli di quanto successo la sera prima, omettendo le sensazioni dissonanti che aveva avvertito sporgendosi sul bancone per guardare in faccia il Luna Park e decidere di buttarsi di sotto, su quel selciato che a volte sembrava chiamarla a braccia aperte. Non si decide quasi mai di ammazzarsi, perché se si medita a lungo, è proprio per scacciare l’idea come una zanzara fastidiosa, per esorcizzarla con l’immaginazione degli attimi prima, del “durante”, di quello che capiterà subito dopo. Avrebbe potuto dire ai suoi amici che stava passando un periodo difficile, di distonia generale e difficoltà a muoversi tra i flussi del Tutto e del Mondo, perché, in fondo, questo Tutto e questo Mondo la tediavano profondamente. Avrebbe dovuto recarsi in biblioteca un giorno, magari prendendo in prestito “L’uomo senza qualità” di Musil, di cui aveva sentito parlare. Era sicura, però, che Teresa e Federico non l’avrebbero capita, scarrozzandola in giro per locali a far finta che tutto andasse bene. Magari parlare con Daniele, il fratello vicino alla laurea in filosofia, che si era iscritto all’Università proprio per avere qualche risposta su questo Tutto e Mondo che ci circonda assediando lo spirito. In questo, Daniele aveva fatto un leggero errore. Perché la filosofia non serve a dare risposte, ma a porre nuove domande. E poi non correva un buon sangue fraterno con Daniele, l’ultimo superstite oltre a lei della famiglia. Lui era molto più giovane, frutto del ripromesso e rinnovato amore dei suoi genitori. Oltrepassata la soglia dei quaranta suonati, avevano pensato bene di regalarle già cresciuta un fratello. Ora stava lì, accanto alla finestra, in attesa della risposta di Salvo. «Mi hanno pestato perché devo dei soldi a uno stronzo. Non te ne posso parlare, è meglio per te. Anzi guarda, è meglio se te ne vai.» Il rifiuto. Ma cosa aveva questo protoantropo al posto della vena cava? Un sacco di pietre? Giada si sentì umiliata, perché non c’è niente di più umiliante per una donna del rifiuto. Ci sono diverse forme di rifiuto, ma tutte staffilanti nel centrare il volano interiore su cui posano le emozioni di una donna. E il difetto di Giada consisteva in un divino istinto salvifico che la portava a esporsi, a scornarsi, a svenarsi nel tentativo di salvare

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l’anima del mondo, col risultato di sentirsi un’eroina fallita nel momento in cui perdeva in questioni affettive. In questa materia, la donna è disposta all’apertura e all’accoglimento dell’uomo, caratteristica morfologicamente scolpita dal suo corpo materno che desidererebbe riaccogliere nel grembo l’uomo-bambino. Idealizzando il sentimento, la donna Giada avrebbe desiderato amare a costo di sforzi più caparbi delle resistenze mascoline, con il risultato di arrendersi all’evidenza della realtà. La realtà è spesso avara di quelle sensibilità ormonali che sono proprie dell’universo femminile, e ognuno di quei dinieghi o allontanamenti subìti da parte di un uomo l’avevano indotta a una resa che sapeva di cinica sconfitta, di scoramento totale. Incassò l’allontanamento voluto da Salvo come un pugile pestato e messo all’angolo, girandosi verso la finestra che le sembrò ricordare il balcone di casa sua, dove si affacciava meditando giorno per giorno l’ipotesi di farla finita. L’essere umano è spesso frigido di sentimenti, allo stesso modo in cui li avvelena con il pregiudizio e il sospetto, perché in ogni caso, in ogni luogo, i sentimenti possono fare paura. Salvo era troppo sofferente nell’anima per raccogliere qualche luce di quell’umanità che portava avanti il mondo (o si faceva portare da esso), mentre lui pensava solo alla sostanza. La droga era la sua donna, madre, figlio, compagna, sorella di dialogo e di parola, prolungamento reale di un mondo difficile da vivere e impossibile da conquistare. Cosa potevano interessargli le visite di Giada con quel vestitino tranquillo e il rossetto appena accennato sulle labbra, che le risaltava la penombra di viso e anima? Quella cretina aveva solo compiuto un’azione carina, ecco tutto ma… c’era un “ma”. Un “ma” che si concretizzò in una richiesta che Salvo si espose a fare. «Io, credo che… se puoi, dovresti procurarmi un cambio, delle mutande pulite.» Giada si accorse di quanto fosse stata stupida a pensare di portargli delle barrette di cioccolata, anziché qualche bene essenziale, considerando che a giudicare dalla bocca di Salvo dolorante, non sarebbe neanche stato in grado di masticare. Sorprese la sua stessa bocca ad accennare un timido sorriso, meditando che erano giorni, forse mesi, o anni che non sorrideva più a nessuno. Tantomeno a se stessa. Si voltò verso la porta e uscì, non poteva rimanere tutta la mattinata con Salvo.

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3 «Visto che lo avresti sentito il terremoto, visto? Io te l’avevo detto…» Rientrò a casa con un’amarezza sciatta in gola, voltandosi istintivamente verso il Luna Park che, alla luce del giorno, le sembrò spoglio come un albero di novembre. Anche lei era nuda, vulnerabile agli attacchi della frenesia e della quotidianità che le girava intorno. Il bar della colazione, dove qualche volta s’infilava per coccolarsi con un croissant alla crema o un cappuccino con zucchero di canna. La parrucchiera vedova rimasta sola dopo il decesso del marito, un tipo allungato verso l’alto, che vestiva sempre abiti dai colori grigi. Il cagnolino al guinzaglio del chirurgo che risiedeva nel quartiere, ormai in procinto di godersi la pensione, a testimonianza che anche i preservatori della salute pubblica cedono al tempo invecchiando. La casa era in disordine ma non se ne curò, Daniele stava lì ad aspettarla, parcheggiato in poltrona come uno stoccafisso. «Non sei andata al lavoro oggi?» «Ti ho detto mille volte di avvisarmi quando passi da casa o dovrai restituirmi la copia delle chiavi, hai capito?» «Sì, ma sono stato in Facoltà e mi trovavo qua vicino, mi servivano gli appunti per quella relazione.» … L’essere costitutivo formale della preghiera consiste per Bremond nella ”unione mistica”, la cui essenza è “l’adesione a Dio”, per esempio espressa nel Padre Nostro. Qui il cristiano nello stato di grazia aderisce pienamente alla volontà e all’essere di Dio. «Lo sai, Giada, che da quando non ci sono più mamma e papà, si rafforza sempre più in me quell’idea?» Sentì raggelarsi il sangue, ci mancava pure un fratello che decidesse di diventare prete. Era sempre stato un tipo schivo e solitario, più dedito alle faccende interiori, e in questo non era diverso dalla sorella. Giada, però, era troppo irrigidita in quel cinico agnosticismo tipico del suo

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tempo, in cui la secolarizzazione dell’anima si stava impossessando degli uomini come un’enorme macchia di sporco sul lavabo. «Mi vuoi dire che lascerai gli studi per rinchiuderti in un seminario?» Curiosamente, non aveva pensato al fratello quando si trovò sul balcone quella sera, più sporgente dello sgocciolatore e pronta per consegnarsi alla Dolce Signora. Quando usciva da casa per andare al lavoro o disperdersi in impellenze, avvertiva le lacrime che bussavano alle sue pupille per sgorgare sincere. Depressione? Disturbo borderline di personalità? Occorrerebbe sfogliare il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali per inquadrare il suo malessere, ma non sarebbe sufficiente. Era fragile e fredda allo stesso tempo e noncurante del fatto che il fratello potesse avere bisogno di lei. Certe idee iniziano a pulsare nelle tempie corrodendo il teschio come un tarlo continuo e silenzioso, lavorano nelle radici dell’inconscio fino a esplodere in tutta la loro grandezza. Suicidarsi o farsi preti, sono scelte dettate dall’arbitrio e, come la scabbia, hanno inizio in maniera invisibile, forse per questo ancora più subdola, per poi manifestarsi con onnipotenza. Giada non aveva voglia di addentrarsi nelle già dette e viste discussioni col fratello circa la necessità che completasse i suoi studi filosofici al più presto. Daniele era già fin troppo grande e lei non avrebbe neppure approvato l’ipotesi del dottorato, perché la carriera universitaria può andar bene se si hanno poco più di vent’anni, non quando la colonnina di mercurio inizia a sbattere verso i trenta. Il tentativo ambizioso di Giada era di dissuadere il fratello dall’idea di mollare tutto per ritirarsi in seminario. Sarebbe potuto andar bene qualsiasi altro pretesto, tipo fare un corso di centottanta ore all’Assistenza Pubblica, magari insieme a quell’Arturo Bertocchi che, senza saper nulla di lei, di Daniele, di Salvo o del Condor, aveva chiamato aiuto la sera del pestaggio di quel tossico. Quanti Arturo Bertocchi ci sono al mondo? Quante Giade o Danieli? E quanti sono i Condor con gli occhiali scuri che volano sulle spalle della solitudine per farci sopra dei soldi? Uno spacciatore, nel suo piccolo, è come un’azienda atta a produrre, per consumare o fare consumare. L’azienda produce profitto che viene poi distribuito ai dipendenti attraverso lo stipendio. Lo spacciatore propone polvere che è distribuita ad altri tipi di dipendenti, ripagati col valore monetario dell’illusione e della morte. «Consegnerò la relazione sulla preghiera e partirò per un viaggio. Starò via un paio di mesi.»

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«Ma… non puoi mollare tutto così. E i due esami che ti mancano? E la tesi? Pensaci bene. E poi come faresti con i soldi? Hai la stanza da pagare, le rette, vivere. Insomma, tutto un casino e io sono stanca di tenerti dietro. Stanca, hai capito?» «Ho i risparmi della mia parte, tu hai avuto la casa, io un po’ di soldi da mamma e papà.» Avrebbe voluto mandarlo a quel paese per l’esasperazione, per quella sua ancora fanciullesca visione del mondo che gli permetteva di vivere nel cotone, senza risvegliarsi dalla narcolessia che sembrava non fargli concludere mai nulla. «Io non la voglio una vita come la tua! Non voglio inquadrarmi come hai fatto tu, che ti sei infilata dietro la prima scrivania a redigere atti e bilanci in uno scatolone di vetro… Quando passo dagli uffici mi viene da ridere. Sembrano una baleniera trasparente e dentro tutti voialtri, fatti di monitor e di carta, pronti ad accogliere con sorrisini ogni cittadino di questa città, così perfetta nella sua autoreferenzialità che mi fa ridere.» «Guarda che per me è solo un lavoro. Potrebbe essere meglio o peggio, ma cosa cambierebbe? E poi io penso ad altro e almeno un lavoro ce l’ho. Non leggi i giornali? La tua filosofia non t’informa? Dovresti averlo presente prima di scaldarti con i tuoi propositi di cambiamento del mondo. Per cambiare cosa poi? Non cambierà mai niente, anche se partirai per andarti a prestare in qualche missione, capisci?» Daniele voleva partire per cercare una propria stabilità interiore, un’esperienza meditativa lontana da convenzioni che non capiva come fossero stabilite. Se non lavori sei fuori, se lavori sei fuori lo stesso perché magari il tuo impiego non ti piace. E le ore della giornata sono troppo poche per sprecarne otto o dieci, tutti i santi giorni del calendario, con la sola concessione canonica di due settimane di ferie. Il tutto scorre e i mesi scorrono, c’è gente che si ammazza nello stesso buco per quarant’anni, copia scolorita del tempo che la uccide, con l’estratto conto della situazione contributiva ai fini pensionistici. Daniele non poteva accettare tutto questo, ma il non farlo non poteva dire svignarsela nella fuga della fede, nell’adesione a un dogma che gli avrebbe forse riempito la vita, più probabilmente sconvolto l’esistenza. Giada meditò sul fratello e meditò su Salvo. Entrambi potevano essere una buona ragione per arrendersi e morire, o una pessima per continuare a sopravvivere. A volte la realtà è più amara di quanto si possa temere. Doveva sempre pensare di prendersi cura degli altri? E a lei chi ci aveva mai pensato? Forse i genitori, che l’avevano cresciuta fra bestemmie e sacrifici dannandosi per l’intransigenza con cui preferiva restarsene sola,

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piuttosto che accompagnarsi con qualcuno. A quest’ora non avrebbe dovuto essere lì, indispettita dalle scelte del fratello, o dai buchi sulle braccia di Salvo. Si poteva fare come Teresa e Federico e godersi le giornate alla faccia di tutti, accontentandosi della dignità di un lavoro normale e di qualche passatempo altrettanto normale, tipo nuotare o fare fotografie alla realtà. Sì, ma quale realtà? E qual era la sua realtà? Salvo stava invece in faccia alla sera. All’ospedale raccattò i suoi quattro stracci strappandosi una flebo di soluzione fisiologica dalle vene, che avevano una devastante voglia di droga. Scappò per immedesimarsi ancora una volta nella puttana strada, spinto dalla follia autodistruttiva di chi intende non masticare per nulla il proprio destino, ma solo vomitarlo. Per un tossico le vene sono fogne in cui convogliare le acque reflue del rifiuto e dell’annegamento della realtà. In un altro angolo di terra una sega circolare preparava ceppi per il camino, in un altro ancora si faceva l’amore, la lotta o la guerra, in un altro qualcuno stava scrivendo un libro sui fantasmi o si preparava a diventare prete sentendo il terremoto dentro di sé. Riteneva che nella vita l’intero sistema dell’essere funzioni indipendentemente da qualsiasi nostra personale volontà. È come fare parte della componentistica di una macchina feroce, la quale può anche fare a meno di qualche bullone allentato, o essere un accessorio non indispensabile per fare funzionare a dovere lo sciacquone. Urlare all’universo che dovrebbe fermarsi o amare o non pulsare anche per un solo momento è inutile, e sarebbe altrettanto inutile se si potesse farlo. Fermare il flusso esistenziale anche solo per un secondo e gustare quale suono possa avere il Silenzio Più Totale. Il Vuoto. «Te l’avevo detto io che avresti sentito il vuoto quando hai iniziato a drogarti, te l’avevo detto…» Guardava le sue braccia martirizzate, erano stigmate dense, ricolme di vuoto. Camminò con lentezza dopo essersi allontanato dal reparto, indifferente a ogni interesse verso cose e persone che lo ignoravano facendolo sentire ancora più invisibile. Si riposò per ore sotto a una specie di tetto, dove un piccione spiumato stava preparando il nido in cui infilare la prole. Poté contare le decine, centinaia di volte in cui il piccione eseguiva il tragitto da un’acacia lì vicino alla sua alcova, nell’identica direzione di chi sa che si tratta di quella giusta, trasportando ogni volta un rametto sostenuto con il becco. Un lavoro faticoso,

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dispendioso in energia, che avrebbe portato a una covata vulnerabile. Fare sforzi improbabili per poi essere ricompensati dai morsi di un cane, com’è bella la vita. Gli sorvolava sulla testa, quel piccione, sembrava puntarlo minaccioso a mezza altezza prima d’insediarsi nel sottotetto. Il tutto mentre le vene gli prudevano. Un tizio più strano di lui, con capelli tinti con del cerume nero, indossava una mantella con un aggancio color oro, un po’ aperto sotto il mento per mostrare una cravatta eccentrica impeccabilmente annodata. Poteva assomigliare a qualche conducente di carrozze funebri di metà ottocento. Non era troppo alto, se avesse portato un cilindro, lo avrebbe reso stranamente più basso della sua altezza reale. Gli propose di dare un’occhiata a quello che vendeva. «Vattene via, non mi serve niente.» «Guardi qui dentro su, non sia ineducato, non è curioso di dare una sbirciatina alla mia valigetta?» «Se non contiene droga no, grazie.» Il piccione ignorava l’universo e pure Salvo o quella valigia, continuando la progettazione del nido. «Posso avere qualcosa di meglio della droga, dovrebbe dare un’occhiata, non le costerà nulla.» «Pensi abbia voglia di giocare, scemo? Lo pensi sul serio? Devo rubare un megafono per urlarti di lasciarmi perdere?» La voce gutturale di Salvo era spossata, indebolita ancora dalle botte prese, e la minaccia suonò poco credibile. «Dovrà guardare la mia piccola valigetta, signore, questa piccola valigetta di pelle.» A volere scappare o andarsene via per sempre non era Daniele, ma Giada. Al fratello, in fondo, sarebbe bastato il Nuovo Testamento per rifugiarsi nell’Innominabile, mentre Giada era ancora alla ricerca dei numeri per incominciare a nominare le cose della realtà. La vita è fatta di numeri, dai mesi della gestazione alla data di nascita, dagli scontrini del supermercato ai tempi di esposizione del diaframma per ottenere una foto ottimale. I princìpi matematici dopo tutto comandano la realtà. Il numero è il potere, la scienza pitagorica ricca di misteri arcaici, e Giada li sondava nelle ceneri del suo spettro demoniaco, vivendo in un limbo fatto di sogni e perle. Trascinando i suoi bianchi piedi lungo le vie, il tumulto la avvolgeva in un sudario di morte, al punto da adorare il silenzio e tumularsi in se stessa con barriere invalicabili. Pensò di

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ritornare all’ospedale con una macchina fotografica rubando qualche scatto mentre magari Salvo dormiva, ma così non avrebbe potuto dipingere con i clic quei due occhi stretti a fessura. Salvo finalmente si decise a dare un’occhiata nella valigetta di quel tizio e non volle per nulla credere ai suoi occhi, quelli che Giada meditava di fotografare. C’erano, all’interno, una serie di vite possibili, di alternative percorribili, non si poteva comprendere quali potessero essere buone o cattive, oppure frutto del cannibale Caos. Stavano lì, immobili ma visivamente chiare. «Ne prenda una suvvia, oggi gliela regalo, ho già guadagnato la giornata e non ci perderò nulla», gli disse il tizio, con modi insistenti ma gentili. La scelta tra le infinite possibili era fatta, aveva un nome, e quel nome era Giada. «Non ho soldi per pagarti la mia scelta, amico.» «Non dovrà preoccuparsi signore, questa volta non le chiedo nulla, la scelta è sua, l’ha fatta lei e solo lei la conosce, il prezzo si materializzerà per strada e non è detto che lo sforzo non sarà ripagato. Arrivederci signore, e buona serata.» Buona serata un cazzo. Salvo aveva fame di quella ventata di calore e benessere che nell’esatto momento dell’iniezione s’insediava in tutti i suoi centri nervosi, facendogli dimenticare la miseria di essere vivo. Nessun dolore, solo energia infinita per i minuti dell’effetto prima di cedere alla tentazione di farsi di nuovo. Aveva ancora i soldi di Giada, centocinquanta euro belli e pronti lì, tutti per lui nella tasca dei jeans. Impossibile ritornare dal Condor, quel cane doveva essersi messo d’accordo con i sicari che l’avevano pestato, segnalando che sarebbe andato da lui al Bel Sole per fare spesa di qualche grammo. Non è facile fidarsi di qualcuno a questo mondo, tantomeno di uno spacciatore che porta sempre gli occhiali scuri anche quando va al cesso, che compra droga a etti dagli africani e che indossa due paia di scarpe da ginnastica nuove ogni giorno. Quando Salvo fu pizzicato la prima volta dagli sbirri fu portato in questura per l’identificazione. Volevano mungergli il nome del Condor a forza, ma sapeva che, se avesse fatto quel nome, presto o tardi la sua vita sarebbe finita. Meglio continuare a esistere e continuare a farsi le pere, se non altro per vedere fino a che punto un uomo può scivolare in basso. Fine anteprima.Continua...