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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 30 DICEMBRE 2012 NUMERO 408 CULT La copertina IAN TUCKER Ecco le formule della semplicità per spiegare la scienza a tutti I libri GIORGIO VASTA Quei nuovi autori che preferiscono la scrittura alla trama All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Andrea Camilleri “Quando litigai con Pasolini a casa della Betti” Spettacoli GUIDO BARBIERI Tutto Verdi in tv con leggerezza sir Gardiner saluta l’anno nuovo La lettura JOHN e KATYA BERGER Così l’officina di Raffaello assomigliava ad Hollywood “Io e il signor G. che inventammo il bastardone ” Spettacoli GINO CASTALDO e SANDRO LUPORINI Il Futurismo disegnato sulle copertine L’immagine GIUSEPPE DIERNA Q uello qui sopra non è il mio vero nome — la persona a cui appartiene mi ha autorizzato a usarlo per firmare questo racconto. Il mio vero nome non posso dirlo. Sono un editore. Accetto lunghi romanzi sull’amore giovanile scritti da zitelle del South Dakota, polizie- schi che trattano di uomini di mondo e donne apache dai “selvaggi occhi scuri”, saggi sui pericoli di questo e quello e sul colore della Luna a Tahiti scritti da professori di college e altri di- soccupati. Non accetto romanzi di autori al di sotto dei quindici anni. Tutti i columnist e i comunisti (non riesco mai a scrivere giu- ste queste due parole) mi insultano perché dicono che ciò che vo- glio sono solo i soldi. È vero, li desidero in modo terribile. Mia mo- glie ne ha bisogno. I miei figli ne fanno un uso continuo. Se qual- cuno mi offrisse tutti i soldi che ci sono a New York non rifiuterei di certo. Preferirei di gran lunga far uscire sul mercato un libro che abbia già cinquecentomila copie prenotate che aver scoperto in un solo anno Samuel Butler, Theodore Drieser e James Branch Ca- FRANCIS SCOTT FITZGERALD boll. E così pure fareste voi, se foste un editore. Sei mesi fa mi sono impegnato con contratto per un libro che senza dubbio sarebbe stato un libro sicuro. Era di Harden, il ricer- catore del paranormale. Il Dottor Harden. Il suo primo libro — l’ho pubblicato io nel 1913 — aveva venduto moltissimo, diffonden- dosi come un granchio di sabbia a Long Island, e a quel tempo la ricerca sul paranormale non era neppure vicina a essere così di moda come lo è oggi. Abbiamo reclamizzato il nuovo libro come un documento appassionante. Suo nipote era rimasto ucciso in guerra e il Dottor Harden ha scritto con eleganza e decoro il reso- conto della sua comunione psichica per mezzo di vari medium con suo nipote, Cosgrove Harden. Il Dottor Harden non è nato dal nulla, dal punto di vista intellettuale. È un illustre psicologo, con un PhD preso a Vienna e un dottorato conseguito a Oxford, ed è stato visiting professor all’università dell’Ohio. (segue nelle pagine successive) con un articolo di GABRIELE PANTUCCI e le illustrazioni di GIPI DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI ILLUSTRAZIONE DI GIPI PER REPUBBLICA Libro FRANCIS SCOTT FITZGERALD Una feroce satira sul mondo dell’editoria Dall’autore del “Grande Gatsby” in esclusiva mondiale il racconto mai pubblicato Il Grande

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 30DICEMBRE 2012

NUMERO 408

CULT

La copertina

IAN TUCKER

Ecco le formuledella semplicitàper spiegarela scienza a tutti

I libri

GIORGIO VASTA

Quei nuovi autoriche preferisconola scritturaalla trama

All’interno

Straparlando

ANTONIO GNOLI

Andrea Camilleri“Quando litigaicon Pasolinia casa della Betti”

Spettacoli

GUIDO BARBIERI

Tutto Verdi in tvcon leggerezzasir Gardinersaluta l’anno nuovo

La lettura

JOHN e KATYA BERGER

Così l’officinadi Raffaelloassomigliavaad Hollywood

“Io e il signor G.che inventammoil bastardone ”

Spettacoli

GINO CASTALDOe SANDRO LUPORINI

Il Futurismodisegnatosulle copertine

L’immagine

GIUSEPPE DIERNA

Quello qui sopra non è il mio vero nome — la persona acui appartiene mi ha autorizzato a usarlo per firmarequesto racconto. Il mio vero nome non posso dirlo.Sono un editore. Accetto lunghi romanzi sull’amoregiovanile scritti da zitelle del South Dakota, polizie-schi che trattano di uomini di mondo e donne apache

dai “selvaggi occhi scuri”, saggi sui pericoli di questo e quello e sulcolore della Luna a Tahiti scritti da professori di college e altri di-soccupati. Non accetto romanzi di autori al di sotto dei quindicianni. Tutti i columnist e i comunisti (non riesco mai a scrivere giu-ste queste due parole) mi insultano perché dicono che ciò che vo-glio sono solo i soldi. È vero, li desidero in modo terribile. Mia mo-glie ne ha bisogno. I miei figli ne fanno un uso continuo. Se qual-cuno mi offrisse tutti i soldi che ci sono a New York non rifiuterei dicerto. Preferirei di gran lunga far uscire sul mercato un libro cheabbia già cinquecentomila copie prenotate che aver scoperto inun solo anno Samuel Butler, Theodore Drieser e James Branch Ca-

FRANCIS SCOTT FITZGERALD

boll. E così pure fareste voi, se foste un editore. Sei mesi fa mi sono impegnato con contratto per un libro che

senza dubbio sarebbe stato un libro sicuro. Era di Harden, il ricer-catore del paranormale. Il Dottor Harden. Il suo primo libro — l’hopubblicato io nel 1913 — aveva venduto moltissimo, diffonden-dosi come un granchio di sabbia a Long Island, e a quel tempo laricerca sul paranormale non era neppure vicina a essere così dimoda come lo è oggi. Abbiamo reclamizzato il nuovo libro comeun documento appassionante. Suo nipote era rimasto ucciso inguerra e il Dottor Harden ha scritto con eleganza e decoro il reso-conto della sua comunione psichica per mezzo di vari mediumcon suo nipote, Cosgrove Harden. Il Dottor Harden non è nato dalnulla, dal punto di vista intellettuale. È un illustre psicologo, conun PhD preso a Vienna e un dottorato conseguito a Oxford, ed èstato visiting professor all’università dell’Ohio.

(segue nelle pagine successive)con un articolo di GABRIELE PANTUCCI e le illustrazioni di GIPI

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FITZGERALD

Una feroce satirasul mondo dell’editoria

Dall’autore del “Grande Gatsby”in esclusiva mondiale

il racconto mai pubblicato

IlGrande

LA DOMENICA■ 26DOMENICA 30 DICEMBRE 2012

la Repubblica

I

La copertinaFrancis Scott Fitzgerald

(segue dalla copertina)

Il suo non era un libro ingenuo. Alla base di tutto il suo mododi fare c’era sempre una sostanziale serietà. Per esempio, nellibro il Dottor Harden aveva riportato il fatto che un giova-notto di nome Wilkins si era presentato un giorno alla suaporta sostenendo che il defunto gli doveva tre dollari e ot-tanta centesimi. Gli aveva quindi chiesto di informarsi su

che cosa il defunto pensasse di fare in proposito. Ma il Dottor Har-den si era rifiutato risolutamente di prendere in considerazione lacosa. Considerava quella richiesta equiparabile al fatto di appel-larsi a qualche santo per recuperare un ombrello perduto.

Per novanta giorni ci siamo preparati alla pubblicazione. La pri-ma pagina del libro è stata predisposta con tre caratteri tipograficidiversi e a ciascuno dei cinque artisti che chiedevano compensiesorbitanti sono stati commissionati due bozzetti prima che ve-nisse scelta la copertina vera e propria. Le ultime bozze sono stateriviste da non meno di sette correttori esperti, nel timore che un mi-nuscolo tremolio nella coda di una virgola o una minima sbavatu-ra nell’occhiello di una maiuscola potesse offendere gli occhi esi-genti del Grande Pubblico Americano.

Quattro settimane prima del giorno fissato per la pubblicazioneenormi casse sono partite alla volta di un migliaio di punti diversidella bussola letteraria. Nella sola Chicago ne sono state mandateventisettemila. A Galveston, in Texas, ne sono state spedite sette-mila. A Bisbee in Arizona, Redwing in Minnesota e Atlanta in Geor-gia ne sono partite con sollievo un centinaio per ciascuna città. Es-sendo le città più grandi considerate separatamente, mucchi diventi e trenta e quaranta copie sono stati spediti qua e là in tutto ilcontinente, così come un artista che lavora con la sabbia ricopre lascultura quasi del tutto ultimata con spolverate leggere lasciate ca-dere dalle sue stesse mani.

Il numero effettivo di copie per la prima tiratura è stato di tre-

centomila. Nel frattempo il Reparto Pubblicità era freneticamenteal lavoro dalle 9 alle 17 sei giorni alla settimana per stampare corsi-vi, mettere in risalto, inserire maiuscole, usare doppie maiuscole;preparare slogan, titoli, articoli esclusivi e interviste; selezionare fo-tografie raffiguranti il Dottor Harden intento a pensare, a rifletteree in contemplazione; scegliere istantanee che lo ritraessero conuna racchetta da tennis in mano, con una mazza da golf, con unacognata, con l’oceano. Si approntavano comunicati letterari al-l’ingrosso. Si impilavano le copie regalo destinate ai critici di un mi-gliaio tra quotidiani e settimanali.

La data prestabilita era il 15 aprile. Il quattordici un silenzio ap-prensivo ha pervaso gli uffici e sotto, nel Reparto Vendite, i com-messi fissavano nervosi gli spazi lasciati liberi dalle pile di libri in at-tesa e le vetrine vuote affacciate sulla strada dove tre vetrinistiesperti avrebbero lavorato tutta notte per sistemare i libri in qua-drati e mucchi e cumuli e cerchi e cuori e stelle e parallelogrammi.

La mattina del 15 aprile alle nove meno cinque Miss Jordan, lacapo stenografa, per l’agitazione si è accasciata priva di sensi nellebraccia del mio junior partner. Quando sono scoccate le nove inpunto un anziano gentiluomo con le basette ha acquistato la pri-ma copia de L’aristocrazia del mondo degli spiriti. Il Grande Libroera stato pubblicato.

Tre settimane dopo mi sono deciso a partire per Joliet, in Ohio,per fare visita al Dottor Harden. È stato un caso di Maometto (o sitrattava di Mosé?) che si reca alla montagna. Egli è di natura intro-versa e riservata; è necessario incoraggiarlo, fargli le congratula-zioni, anticipare le possibili proposte di editori della concorrenza.Avevo quindi intenzione di prendere tutti gli accordi necessari a ga-rantirmi il suo libro successivo, e tenendo ciò a mente mi sono por-tato appresso svariati contratti meticolosamente redatti che loavrebbero alleggerito di tutte le seccanti questioni d’affari per iprossimi cinque anni.

Siamo partiti da New York alle quattro. È mia abitudine, quandoviaggio, mettermi in borsa una mezza decina di copie del mio libropiù importante in quel momento, e offrirlo a caso ai miei compa-gni di viaggio dall’aria più intelligente nella speranza che l’opera

Trecentomila copiee il morto che parla

Un editore affamato di soldiun inviato nel paranormale

un nipote inopinatamente vivo

FRANCIS SCOTT FITZGERALD

l 3 aprile 1920 cadeva di sabato, e nella sacre-stia della Cattedrale cattolica di Saint Patrick, aNew York, si celebrarono le nozze tra FrancisScott Fitzgerald e Zelda Sayre. Soltanto tregiorni prima il ventiquattrenne Francis avevatelegrafato a Zelda in Alabama (dove il padre dilei era giudice dell’Alta Corte) che si sarebberosposati di sabato anziché il lunedì successivocome inizialmente previsto: «Saremo incredi-bilmente nervosi finché non avremo concluso,non riuscirei a dormire fino a lunedì». Così, ilgiorno del matrimonio, nella maestosità neo-gotica di San Patrizio, non furono presenti né igenitori di lei né quelli di lui. Non ci fu pranzodi nozze, né ricevimento alcuno, mentre la lu-na di miele fu trascorsa al Biltmore Hotel, cate-goria medio-ordinaria.Fatto salvo l’essere stati cacciati via dall’hotelper ubriachezza molesta, fu un avvio in sordinaper i Fitzgerald, la coppia che diventerà il sim-bolo dell’età del jazz in una nube caleidoscopicadi danze e festini nei saloni più celebrati, oltreche d’incontri negli speakeasy. Ciononostantequel matrimonio celebrò per Fitzgerald l’incipitd’una carriera inimitabile che gli assegnò in po-chi mesi nei circoli letterari il titolo di Voce d’u-na generazione, ancorché perduta. E fu proprioin quei primi mesi dopo il matrimonio che scris-se questo The I. O. U (I Owe You in inglese sta pertitolo di credito, cambiale, pagherò). Fu un periodo di produzione febbrile, che videil futuro autore di Belli e dannati (1922) e de Ilgrande Gatsby (1925) consegnare al suo agentenel giro di tre mesi cinque lunghi racconti cheHarold Ober piazzò sul Saturday Evening Post,lo slick magazine — cioé il settimanale in cartapatinata — che pagava di più. Per ciascuno deiprimi due racconti ottenne 360 dollari, perquelli successivi 450, tra i 4 e i 5000 dollari di og-gi. Leggendo la lettera con cui il 2 giugno 1920Ober offrì The I. O. U. al Post non sorprende piùdi tanto il fatto che quello fu il solo racconto ri-fiutato dalla rivista: «È un racconto intelligente.Quasi una satira del mondo editoriale. Narratada un editore...». Di certo per l’originalità dellatrama, la vivacità della scrittura e la vena comi-ca è di qualità non inferiore a quelli pubblicati.Tanto che Fitzgerald tentò di insistere con Har-per’s Bazaar. C’è una lettera dello scrittore all’a-gente del 17 luglio: «Se The I. O. U. viene respin-to dal Post per favore rimandamelo. Credo dipoterlo modificare in modo che non avrai diffi-coltà a venderlo». Poi, forse, se ne dimenticò,assorbito com’era da The Beautiful and Dam-ned. O forse fu Ober a ignorare la cosa, impe-gnato nel lancio degli altri lavori dello scrittore. Ora Repubblica ha trovato una copia dattiloscrit-ta negli archivi della sua agenzia. L’originale,scritto a matita in 42 pagine, è stato venduto daSotheby’s per 194,500 dollari lo scorso giugno.

“Non si riesce a vendere?Posso sempre modificarlo”

GABRIELE PANTUCCI

IL MANOSCRITTOQui sopra, la lettera di accompagnamentoche Harold Ober inviò nel 1920 al SaturdayEveninig Post insieme al manoscrittodi Fiztgerald intitolato The I. O. U. Lo scorsogiugno è stato messo all’asta da Sotheby’s

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■ 27DOMENICA 30 DICEMBRE 2012

la Repubblica

possa incontrare nuovi giri di lettori. Prima ancora che arrivassimoa Trenton una signora con gli occhialini stava già girando sospet-tosa le pagine del libro in una delle carrozze di lusso, il giovanottoche occupava la parte superiore della mia era assorto profonda-mente nella lettura di una mia seconda copia, e una ragazza dai ca-pelli rossi e lo sguardo particolarmente maturo giocava a tris sul re-tro di una terza.

Quanto a me sonnecchiavo. Il panorama del New Jersey è scivo-lato in modo quasi impercettibile in quello della Pennsylvania. Ol-trepassavamo numerose mandrie e una profusione di boschi ecampi e ogni venti minuti o poco più lo stesso contadino apparivaseduto sul suo carretto accanto alla stazione del villaggio, intento amasticare tabacco e a fissare meditabondo i finestrini dei vagoniPullman. Dovevamo aver superato quel contadino una decina ouna quindicina di volte quando il mio sonnellino ha avuto repen-tinamente fine non appena mi sono reso conto che il giovanottoche condivideva il mio vagone muoveva il piede in su e in giù comeil percussionista di un’orchestra, emettendo gemiti e grugniti. Nesono stato allarmato e compiaciuto insieme, perché mi sono ac-corto che era impressionato. Molto impressionato dal libro chestringeva forte tra le lunghe dita bianche — L’aristocrazia del mon-do degli spiriti del Dottor Harden.

«Beh» ho osservato cordiale, «sembra proprio che le interessi». Il giovane ha sollevato lo sguardo, sul suo volto emaciato c’era

quel genere di occhi che si vedono soltanto in due tipologie di uo-mini: quelli molto bene informati di spiritismo e quelli per nullainformati di spiritismo.

Dato che sembrava ancora alquanto stordito, ho ripetuto la miaconsiderazione.

«Interessato!» ha strillato. «Interessato! Mio Dio!». L’ho guardato attentamente. Sì, doveva proprio essere un me-

dium o in alternativa uno di quei giovani pieni di sarcasmo che scri-vono racconti umoristici sullo spiritismo per le riviste popolari.

«È un’opera considerevole» ha detto. «Il protagonista, per cosìdire, evidentemente ha passato buona parte del tempo trascorsodalla sua morte a dettarla a suo zio».

Ho concordato con lui che così doveva essere stato. «Naturalmente, il valore dell’opera» ha osservato con un sospi-

ro, «dipende per intero dal luogo in cui il giovane dice di essere». «Naturalmente». Ero perplesso. «Il giovanotto deve trovarsi in …

paradiso e non in… in purgatorio». «Sì» ha convenuto pensoso, «sarebbe imbarazzante se si trovas-

se in purgatorio… e ancor più se fosse in un altro posto ancora». Questo era davvero troppo. «Non c’è stato niente nella vita di quel giovane che faccia presu-

mere che egli possa trovarsi… essere…»«Certo che no. Il posto al quale si riferisce lei non mi è neppure

passato per la mente. Dico soltanto che sarebbe imbarazzante seegli si trovasse in purgatorio, ma ancora più imbarazzante se si tro-vasse in qualche altro posto ancora».

«E quale, signore?». «A Yonkers, per esempio». A queste parole sono scattato. «Che cosa ha detto?». «In realtà se si trovasse in purgatorio si tratterebbe soltanto di un

piccolo errore da parte sua… mentre se si trovasse a Yonkers…». «Mio caro signore» sono sbottato, perdendo la pazienza. «Che

cosa c’entra Yonkers con L’aristocrazia del mondo degli spiriti?». «Niente. Ho detto soltanto che se egli fosse a Yonkers…». «Ma non è a Yonkers». «No, infatti». Ha fatto una breve pausa e dopo un forte sospiro ha

detto: «In realtà è da poco passato dall’Ohio in Pennsylvania». Questa volta ho avuto un vero sobbalzo, e sono stato preso da au-

tentico nervosismo. Non avevo ancora capito dove volesse andarea parare, e malgrado ciò sentivo che le sue parole dovevano per for-za alludere a qualcosa di molto preciso.

«Quel che intende dire» ho chiesto subito «è che lei ne avverte lapresenza astrale».

Il giovanotto si è tirato su con slancio. «Basta» ha detto con veemenza. «Sembra proprio che per tutto

un mese io sia stato lo zimbello di sprovvedute regine e di vari Ba-sil King in tutti gli Stati Uniti. Signore, si dà il caso che il mio nomesia Cosgrove P. Harden. Non sono morto. Non sono mai stato mor-to e dopo aver letto questo libro non mi sentirò mai più al sicuro sedovessi morire».

II

La ragazza dall’altra parte del corridoio è rimasta cosìcolpita dal mio grido di afflizione e sbalordimento cheinvece di una croce ha tracciato un cerchio.Quanto a me, ho avuto immediatamente la visione diuna lunga coda di persone allungarsi dalla Quarante-sima strada, dove si trova la mia casa editrice, fino a

Bowery — cinquecentomila persone, ciascuna delle quali con unacopia in mano de L’aristocrazia del mondo degli spiriti, ciascunadelle quali preparata a esigere la restituzione dei suoi 2,50 dollari.Ho anche preso in considerazione la possibilità di cambiare tutti inomi dei protagonisti e passare il libro dalla sezione non-fiction al-la sezione fiction. Ma era troppo tardi anche per quello. Nelle ma-ni del Pubblico Americano c’erano trecentomila copie del libro.

Quando mi sono ripreso a sufficienza il giovanotto mi ha rac-

contato l’intera storia delle sue vicissitudini sin da quando ne erastato riferito il decesso. Tre mesi in una prigione tedesca — diecimesi in un ospedale con febbre cerebrale — un altro mese ancoraprima di riuscire a ricordarsi il suo stesso nome. Mezz’ora dopo es-sere arrivato a New York aveva incontrato un amico di vecchia da-ta che lo aveva fissato a lungo, aveva perso i sensi ed era caduto aterra. Quando si era ripreso erano andati insieme in un bar a pren-dere un cocktail e nel giro di un’ora Cosgrove Harden si era sentitoraccontare la storia più clamorosa su se stesso che sia mai capitataa un uomo di ascoltare. Ha preso un taxi e si è diretto in una libre-ria. Il libro che cercava era esaurito. A quel punto aveva preso im-mediatamente il treno per Joliet, in Ohio, e per un raro colpo di for-tuna gli era stato messo nelle mani proprio quel libro.

Il primo pensiero è stato che potesse essere un ricattatore, mamettendolo a confronto con la sua fotografia a pagina 226 de L’ari-stocrazia del mondo degli spiritimi sono reso conto che egli era sen-za alcun dubbio Cosgrove P. Harden. Era più esile e più vecchio chenella foto, i baffi erano spariti, ma era di sicuro il medesimo uomo.

Ho tirato un sospiro, profondo e tragico. «Proprio quando stava andando meglio di un libro di fiction». «Fiction!» ha reagito con rabbia. «Questa è fiction!». «In un certo senso…» ho ammesso. «In un certo senso? Questa è un’opera di fantasia! Ne ha tutti i re-

quisiti! È tutta una lunga garbata menzogna. Vorrebbe forse dirmiche la chiamerebbe realtà?».

«No», ho risposto con calma. «Dovremmo chiamarla non-fic-tion. Il genere non-fiction è una forma di letteratura che si collocaa metà strada tra la fiction e la realtà». Ha aperto il libro a caso e haemesso un breve energico grido di angoscia che ha interrotto perun istante la ragazza dai capelli rossi in quelle che dovevano esserequanto meno le semifinali del suo torneo di tris.

«Guardi!» ha gemuto penosamente. «Guardi qui! Dice “Lunedì”.Consideri qual è la mia esistenza in questo “lido nell’aldilà” di “Lu-nedì”. Per favore! Guardi! Annuso il profumo dei fiori. Trascorro lagiornata intera ad annusare fiori. Vede o no? Qui, a pagina 194, pro-prio in cima alla pagina io sento profumo di rosa…».

Ho sollevato il libro con attenzione, portandolo alle narici.«Non sento niente» ho detto. «Forse l’inchiostro…». «Non annusi!» ha strillato. «Legga! Io annuso una rosa e per due

paragrafi interi sono in estasi per l’istintiva nobiltà dell’uomo. So-lo una piccola annusatina! Ma ecco che dedico un’altra ora interaalle margherite. Dio! Non sarò mai più in grado di prendere parte auna rimpatriata tra compagni di college».

Ha girato qualche altra pagina e ha emesso un altro lamento.«Qui invece sono con dei bambini… e ballo insieme a loro. Tra-

scorro l’intera giornata con loro e balliamo. Non balliamo neppu-re uno shimmy in modo decente. Facciamo esercizi aggraziati. Ionon so neanche ballare. E detesto i bambini. Ma ecco che non ap-pena muoio divento un incrocio tra una bambinaia e un corista!».

«Beh, in questo caso» ho iniziato a dire con tono di rimprovero,« il brano è stato considerato davvero molto bello. Vede, descriveanche i suoi abiti. Indossa — vediamo un po’ — una specie di in-dumento trasparente… che fluttua dietro di lei…».

«…Una specie di indumento intimo fluttuante» ha detto risen-tito, «e in testa porto una corona di foglie!».

Ho dovuto ammetterlo, le foglie erano sottintese. «Tuttavia», ho suggerito, «pensi che sarebbe potuta andare peg-

gio. Avrebbe potuto renderla veramente ridicolo se le avesse fattorispondere a qualche domanda relativa al numero che comparesull’orologio di suo nonno o sui 3,80 dollari che deve a qualcuno,un debito contratto a poker».

C’è stata una breve pausa. «Tipo davvero stravagante mio zio» ha detto pensieroso. «Credo

che sia un po’ matto». «Niente affatto» ho assicurato. «Ho avuto a che fare con scrittori

per tutta la vita e suo zio è una delle persone più sane di mente cheabbia conosciuto. Non ha mai provato a prendere soldi in prestitoda noi; non ci ha mai chiesto di mandare via il nostro Reparto Pub-blicità; e non ha mai sostenuto che tutti i suoi amici fossero inca-paci di procurarsi copie del suo libro a Boston, in Massachusetts».

«Nondimeno intendo suonarle per bene al suo corpo astrale». «È questo tutto ciò che intende fare?» ho chiesto in preda all’an-

sia. «Non intende rivelarsi con il suo vero nome per compromette-re le vendite del libro, non è così?».

«Come?». «Certo che non intende fare niente del genere. Pensi solo alla de-

lusione che provocherebbe. Renderebbe infelici cinquecentomi-la persone».

«Tutte donne» ha detto accigliato. «A loro piace sentirsi infelici.Pensi alla mia ragazza… la ragazza con la quale ero fidanzato. Co-me crede che si sia sentita dopo aver letto di quella mia corsa sui fio-ri… Pensa che approvi il fatto che io balli in giro con un sacco dibambini per tutta … tutta pagina 221. E nudo, per di più!».

Ero disperato. Dovevo affrontare subito il peggio che poteva ar-rivare.

«Che cosa… che cosa intende fare?». «Fare!» ha esclamato furioso. «Beh, intendo spedire mio zio in

prigione insieme al suo editore e al suo agente e all’intera redazio-ne fino all’ultimo di quei dannati tipografi che hanno utilizzatoquella maledetta macchina tipografica».

(segue nelle pagine successive)

Accetto solo lunghi romanzisull’amore giovanile scrittida zitelle del South Dakota,polizieschi con donne apacheoppure saggi sul coloredella Luna a Tahitiscritti da professori di collegee altri disoccupati

Come rovinare un bestsellere tradire tutte le aspettative

del Grande Pubblico Americano

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I

(segue dalle pagine precedenti)

III

Quando siamo arrivati a Joliet, in Ohio, alle nove delmattino seguente, ero riuscito a calmarlo abbastanzae a indurlo quasi a ragionare. Suo zio era una personaanziana, gli avevo detto, un uomo caduto in errore. Siera ingannato egli stesso, c’erano pochi dubbi in pro-posito. Forse era anche di cuore debole e vedere suo

nipote risalire il vialetto d’ingresso di casa sua avrebbe potuto as-sestargli il colpo di grazia.

Naturalmente, dentro di me si andava delineando l’idea di po-ter arrivare con lui a una sorta di compromesso. Se Cosgrove si fos-se lasciato convincere a starsene alla larga per cinque anni o unacosa del genere per una somma ragionevole di denaro tutto pote-va ancora andare a finire bene.

Così, quando abbiamo lasciato la piccola stazione ci siamo te-nuti lontani dal centro abitato e in un silenzio colmo di depressio-ne abbiamo percorso il mezzo chilometro che porta alla casa delDottor Harden. Quando ci siamo trovati a un centinaio di metri dalì, mi sono fermato e mi sono rivolto a lui.

«Lei aspetti qui» gli ho ingiunto. «Devo prepararlo per lo shock.Ritornerò da lei tra mezz’ora».

Dapprima il giovane ha sollevato obiezioni, ma alla fine si è se-duto tutto scontroso nell’erba folta sul ciglio della strada.

Asciugandomi la fronte umida, ho risalito a piedi il viale di casa. Il giardino del Dottor Harden era inondato di sole e pieno di al-

beri di magnolia giapponese in fiore che lasciavano cadere lacrimerosa sull’erba. L’ho individuato subito, era seduto accanto a una fi-nestra aperta. La luce del sole penetrava nella stanza, riversandosidi soppiatto in quadrilateri dilatati su tutta la sua scrivania e sullaconfusione di carte che la ricopriva; poi finiva in grembo allo stes-so Dottor Harden e sul suo volto ispido sovrastato dai capelli bian-chi. Davanti a lui sulla scrivania c’era una busta marrone vuota e lesue esili dita si muovevano rapide nel fascio di ritagli di quotidianiche aveva appena tirato fuori.

Mi sono avvicinato, in parte nascosto dalle magnolie, e stavo perrivolgermi a lui quando ho visto una giovane con un abito viola damattina camminare ricurva attraverso il groviglio di rami bassi deimeli che si trovavano all’estremità nord del giardino e dirigersi at-traverso il prato verso la casa. Mi sono tirato indietro e l’ho vista ar-rivare direttamente davanti alla finestra spalancata e rivolgersisenza ritegno al grande Dottor Harden.

«Voglio scambiare due parole con lei!» ha detto secca. Il Dottor Harden ha alzato gli occhi e una pagina del Philadelphia

Press gli è caduto dalle mani. Mi sono chiesto se fosse il ritaglio digiornale nel quale lo chiamavano “il nuovo St. John”.

«Di questa roba!» ha proseguito la giovane. Così dicendo ha tirato fuori un libro da sotto il braccio. Era L’ari-

stocrazia del mondo degli spiriti. L’ho riconosciuto dalla copertinarossa con gli angeli sugli angoli.

«Di questa roba!» ha ripetuto con rabbia, e poi ha scaraventato illibro con violenza in un cespuglio dove è scivolato tra due rose sel-vatiche ed è atterrato tristemente tra le radici.

«Perché, Miss Thalia?». «Perché, Miss Thalia?» lo ha scimmiottato lei. «Perché lei, vec-

chio pazzo, dovrebbe essere terragliato per aver scritto questolibro!».

«Terragliato» ha ripetuto il Dottor Harden, la cui voce esprime-va la vaga illusione che potesse trattarsi di un’altra onorificenza. Manon gli è rimasto il dubbio a lungo.

«Terragliato» è esplosa lei. «Mi ha sentito? Santo cielo, ma non locapisce proprio l’inglese? Non è mai stato a un ballo scolastico?».

«Ignoravo che i balli studenteschi si tenessero nei bassifondi» harisposto gelido il Dottor Harden, «e non conoscevo alcun prece-dente nell’uso del sostantivo terraglie come verbo transitivo. Perquanto riguarda il libro…».

«Si tratta della peggiore sciagura al mondo». «Se vuole, può leggere lei stessa questi articoli…». Lei ha appoggiato i gomiti sul davanzale, si è mossa come se aves-

se intenzione di tirarsi su e poi di colpo ha appoggiato il mento sul-le mani e guardandolo dritta negli occhi ha iniziato a parlare.

«Lei aveva un nipote» ha detto. «Questa è stata la sua grande for-tuna. Era l’uomo migliore che sia mai esistito e l’unico uomo che ioabbia mai amato o amerò mai».

Il Dottor Harden ha annuito e ha fatto per interloquire, ma Tha-lia ha picchiato il piccolo pugno sul davanzale ed è andata avanti.

«Era coraggioso, un tipo per bene, tranquillo. Ed è morto in unacittà straniera per le ferite riportate, è deceduto come Sergente Har-den del 105esimo Fanteria. Una vita tranquilla e una morte onore-vole. E cosa ha fatto lei?». La sua voce è salita fino a tremare, invian-do una solidale vibrazione ai rampicanti sulla finestra. «Che cosaha fatto! Lo ha reso uno zimbello! Lo ha riportato in vita come unacreatura fantastica che manda messaggi idioti su fiori e uccelli e ilnumero delle otturazioni di George Washington. Lei ha…».

Il Dottor Harden si è alzato in piedi. «E lei è venuta qui» ha iniziato bruscamente «per dirmi che…». «Stia zitto!» ha gridato lei. «Le dirò io quello che ha fatto! E lei non

riuscirà a fermarmi con tutti i corpi astrali da questa parte delleMontagne Rocciose».

LA DOMENICA■ 28DOMENICA 30 DICEMBRE 2012

la Repubblica

Ho avuto immediatamentela visione di una lunga coda,trecentomila persone,ciascuna delle qualicon una copia del libroin mano, ciascuna delle qualipronta ad esigere indietroil prezzo segnato in copertina

La copertinaFrancis Scott Fitzgerald

Il Dottor Harden si è accasciato sulla sua sedia. «Vada avanti» hadetto, sforzandosi di mantenere l’autocontrollo. «Dica tutte le co-se petulanti che ha in mente».

La giovane ha fatto una breve pausa e ha voltato la testa verso ilgiardino. Mi sono accorto che si stava mordendo un labbro e strin-geva le palpebre per trattenere le lacrime. Poi si è girata e ha fissatonuovamente gli occhi scuri su di lui.

«Lei ha preso suo nipote» ha continuato «e lo ha usato come unpezzo di pasta di pane per il suo menzognero medium e per farneuna bella torta… una torta da servire a tutte le donnette istericheche pensano che lei sia un grande uomo. Così la chiamano: UnGrande Uomo! Senza alcun rispetto per la dignità e riguardo per lamorte? Lei è un vecchio sdentato e incartapecorito, che non hanemmeno l’attenuante di provare vero dolore nel giocare con lasua stessa dabbenaggine e quella di un sacco di altre persone ottu-se. Questo è tutto. Ho finito».

E con ciò si è girata e velocemente come era arrivata se ne è an-data, con la testa eretta, percorrendo il vialetto verso di me. Ho at-teso che passasse e si allontanasse di una ventina di metri dalla vi-suale della finestra. Poi l’ho seguita tra l’erba soffice e mi sono ri-volto a lei senza indugio.

«Miss Thalia». Lei mi ha fissato, piuttosto sconcertata. «Miss Thalia, vorrei dirle che c’è una sorpresa che l’aspetta più

giù lungo il sentiero… qualcuno che lei non vede da molti mesi». Dal suo volto non è trasparito segno alcuno che avesse capito. «Non voglio rovinargliela, ma non vorrei che si spaventasse se tra

qualche istante riceverà la sorpresa più bella della sua vita». «Che cosa intende dire?» mi ha chiesto calma. «Niente. Ma continui a camminare lungo la strada e pensi alla

cosa più bella del mondo e all’improvviso le accadrà qualcosa dimeraviglioso».

E con ciò le ho fatto un inchino e sono rimasto a sorriderle conbenevolenza e col cappello in mano. L’ho vista studiarmi perples-sa, poi voltarsi lentamente e allontanarsi. In un istante l’ho persa divista dietro la curva dei ciottoli sistemati intorno alla magnolia.

IV

Sono trascorsi quattro giorni — quattro giorni oppri-menti e pieni d’angoscia — prima che riuscissi a ripor-tare ordine a sufficienza in quel caos e a predisporreuna sorta di riunione di lavoro. Il primo incontro tra Co-sgrove Harden e suo zio ha rappresentato per me l’e-sperienza più terribile, tesa e agitata della mia vita. So-

no rimasto seduto per un’ora sul bordo sdrucciolevole di una sediatraballante, pronto a scattare in piedi ogniqualvolta vedevo con-trarsi i muscoli del giovane Cosgrove sotto la manica del soprabito.Scattavo istintivamente e ogni volta scivolavo impotente dalla se-dia e atterravo seduto sul pavimento. Il Dottor Harden ha final-mente posto termine a quel colloquio alzandosi e andandosene alpiano superiore. Io sono riuscito non so come a portare il giovaneHarden nella sua camera a colpi di minacce e promesse, e gli hostrappato la promessa di mantenere il silenzio per ventiquattroore. Ho utilizzato tutti i contanti di cui disponevo per corrompere idue anziani domestici. Non dovevano dire nulla, ho fatto promet-tere loro. Il signor Cosgrove Harden era appena scappato da SingSing. Tremavo mentre dicevo ciò, ma a quel punto l’aria era tal-mente satura di bugie che una in più o in meno faceva poca diffe-renza. Se non fosse stato per Miss Thalia avrei rinunciato sin dal pri-mo giorno e sarei tornato a New York ad aspettare la rovina. Ma leiera in uno stato di tale evidente beata felicità da essere disposta adassecondarmi in tutto. Le ho fatto una proposta: se si fossero spo-sati e avessero vissuto a ovest sotto falso nome per dieci anni li avreiaiutati generosamente. Lei ha fatto i salti di gioia. Io ho colto l’oc-casione al balzo e le ho dipinto a colori vivaci il loro adorabile villi-no in California con il clima mite e bello tutto l’anno e Cosgrove chesarebbe tornato a casa per cena percorrendo il vialetto d’ingressoe le vecchie romantiche missioni nei dintorni e Cosgrove che sa-rebbe tornato a casa per cena percorrendo il vialetto d’ingresso e ilGolden Gate nella luce del crepuscolo a giugno e Cosgrove che sa-rebbe tornato a casa per cena e così via.

Mentre parlavo lei emetteva piccoli strilli di gioia e si è convintaa partire immediatamente. Il quarto giorno è stata lei, alla fine, aconvincere Cosgrove a unirsi a noi in salotto. Ho detto alla dome-stica che non avremmo dovuto essere disturbati per nessun moti-vo e ci siamo seduti per districare e risolvere quel pasticcio una vol-ta per tutte.

I nostri punti di vista erano totalmente divergenti. Quello del giovane Harden era molto simile a quello della regina

di cuori di Alice nel Paese delle meraviglie. Qualcuno aveva com-messo un errore madornale e qualcuno doveva subirne le conse-guenze, subito. In quella famiglia c’erano già stati abbastanza de-funti fasulli e se qualcuno non fosse stato più che attento ce ne sa-rebbe stato uno vero!

Il punto di vista del Dottor Harden era che si trattava di un brut-to guaio e non sapeva che fare, Dio solo lo sa, e avrebbe preferito es-sere morto.

Il punto di vista di Thalia era che aveva individuato la Californiain una guida e il clima era fantastico e Cosgrove sarebbe tornato acasa per cena percorrendo il vialetto d’ingresso.

Se il ragazzo non era caduto in guerra,come aveva fatto il Dottor Harden

a vederlo danzare nudo in paradiso?

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Il mio punto di vista era che non esiste nodo così stretto da nonpoter essere districato e farci uscire dal labirinto — e molte altre me-tafore mescolate tra loro che rendevano semplicemente molto piùconfusi tutti quanti rispetto a quanto già lo fossimo all’inizio.

Cosgrove Harden sosteneva che dovevamo prendere quattrocopie de L’aristocrazia del mondo degli spiritie discuterne. Suo ziodiceva che la sola vista del libro gli dava il mal di stomaco. Thaliaproponeva che partissimo tutti per la California e regolassimo lìl’intera faccenda.

Ho preso quattro libri e li distribuiti. Il Dottor Harden ha chiusogli occhi ed ha emesso un gemito. Thalia ha spalancato la sua copiaall’ultima pagina e ha iniziato a disegnare celestiali villini con unagiovane moglie sulla soglia di ciascuno di essi. Il giovane Harden siè messo freneticamente a cercare pagina 226.

«Ecco qui!» ha gridato. «Proprio di fronte alla foto di “CosgroveHarden il giorno prima di partire, mentre mostra il piccolo neo sul-l’occhio sinistro” ecco che troviamo scritto: “Questo neo avevasempre preoccupato Cosgrove. Aveva la sensazione che i corpi do-vessero essere perfetti e che questa fosse un’imperfezione che nel-l’ordine naturale delle cose dovesse essere eliminata”. Mmm…ionon ho nessun neo».

Il Dottor Harden si è detto d’accordo. «Può darsi che si tratti di undifetto del negativo» ha suggerito.

«Sant’Iddio! Se il negativo non avesse mostrato la mia gamba si-nistra, probabilmente mi avresti fatto desiderare ardentementeper tutto il libro di avere una gamba sinistra… e al capitolo venti-nove infine me l’avresti data».

«Ascoltate!» li ho interrotti. «Non possiamo trovare una specie dicompromesso? Nessuno sa che lei è in città. Non possiamo…».

Il giovane Harden mi ha fissato con sguardo accigliato e fiero. «Non ho neppure incominciato. Devo ancora accennare ai tur-

bamenti affettivi di Thalia!». «Turbamento!» ha protestato il Dottor Harden. «E perché? Non

le ho prestato alcuna attenzione. Lei mi detesta. Lei…». Cosgrove ha riso amaramente. «Ti lusinghi da solo. Pensi che sia

geloso delle tue vecchie e grigie basette? Sto parlando di come il suoaffetto sia rimasto turbato dalle descrizioni che hai dato di me».

Thalia si è sporta in avanti con fervore. «Il mio affetto non ha maivacillato, Cosgrove. Mai…».

«Andiamo, Thalia», ha detto Cosgrove un po’ scorbutico. «Deviessere rimasta per forza un po’ turbata. Che mi dici di pagina 223…potresti amare un uomo che indossa biancheria fluttuante? Tra-sparente?».

«Ne sono costernata, Cosgrove. O meglio, ne sarei stata coster-nata se ci avessi creduto, ma non ci ho creduto».

«Nessun turbamento, dunque?» ha risposto con tono che espri-meva quasi delusione.

«Nessuno, Cosgrove». «Beh» ha proseguito risentito Cosgrove. «In ogni caso dal punto

di vista politico sono rovinato. Quel che voglio dire è che se deci-dessi di scendere in politica non potrei mai diventare presidente.Non sono neppure un fantasma democratico… sono uno spirito epure snob».

Il Dottor Harden si è preso la faccia tra le mani, con un atteggia-mento di profondo sconforto. Io mi sono fatto avanti quasi dispe-ratamente, e ho parlato a voce così alta che Cosgrove è stato co-stretto a fermarsi e ad ascoltare.

«Le garantisco diecimila dollari l’anno se se ne starà lontano die-ci anni».

Thalia ha battuto le mani e sbirciandola con la coda dell’oc-chio Cosgrove ha iniziato a mostrare per la prima volta un vagointeresse.

«E che accadrà, una volta trascorsi i dieci anni?». «Oh», ho detto speranzoso, «il Dottor Harden forse… forse…». «Lo dica» ha detto cupo il Dottor Harden. «Potrei essere morto.

E sinceramente lo spero». «… Così lei potrebbe tornare con il suo vero nome» ho prosegui-

to caparbiamente. «E nel frattempo ci metteremmo d’accordo pernon stampare nessuna nuova edizione del libro».

«Mmm… E supponiamo che non muoia entro dieci anni… Cheaccadrebbe?» ha chiesto sospettoso Cosgrove.

«Oh, morirò» lo ha subito rassicurato il Dottor Harden. «Nonpreoccuparti per questo».

«Come fai a sapere che morirai?». «Come lo sa chiunque altro. Fa parte della nostra natura». Cosgrove lo ha guardato con contrarietà. «Non c’è spazio alcuno per l’umorismo in questa nostra discus-

sione. Se prendi il solenne impegno di morire, senza nessuna ri-serva mentale…».

Il Dottore ha annuito tetramente. «Potrei farlo benissimo. Con i soldi che mi saranno rimasti di cer-

to in quell’arco di tempo morirò di fame». «Sarebbe apprezzabile. E quando morirai, per amor del cielo, fai

in modo di farti seppellire. Non restartene in giro per casa morto,in attesa che io torni e mi debba occupare di tutto».

A queste parole il Dottore è parso amareggiato, poi Thalia che erarimasta in silenzio per un pezzo all’improvviso ha alzato la testa.

«Non sentite niente là fuori?» ha chiesto con curiosità. Io avevo sentito qualcosa — in verità nel mio subconscio avevo

percepito come un brusio… un brusio crescente, inframmezzatodal suono di molti passi.

«Sì, sento…» ho detto «… è strano». C’è stata un’improvvisa interruzione… il brusio fuori è cresciu-

to assumendo le proporzioni di un coro, la porta si è spalancata e ladomestica si è precipitata nella stanza con gli occhi sbarrati.

«Dottor Harden! Dottor Harden!» ha urlato terrorizzata. «Fuoric’è una folla incredibile, saranno un milione di persone… stannopercorrendo la strada e si stanno dirigendo qui, a casa. Saranno al-la veranda tra …».

Un incremento del chiasso ha fatto capire che erano già arrivati.Sono balzato in piedi.

«Nasconda suo nipote!» ho gridato al Dottor Harden. La barba gli tremava, i suoi occhi acquosi si sono spalancati e il

Dottor Harden ha afferrato mollemente Cosgrove al gomito. «Che succede?» ha farfugliato.«Non lo so. Lo porti subito in soffitta — lo ricopra con delle foglie,

lo schiacci dietro a un cimelio di famiglia!». E con ciò sono uscito, lasciandoli tutti e tre nel panico e sconcer-

tati. Mi sono precipitato all’ingresso e sono uscito dalla porta in ve-randa. Era troppo tardi.

La veranda era gremita di uomini, giovani uomini in completi ascacchi e cappelli a cencio, uomini anziani con bombette e polsiniusurati, che si ammassavano e sgomitavano e ciascuno di loro michiamava, si rivolgeva a me sopra la folla. Il loro marchio distintivoera una matita nella mano destra e un taccuino nella sinistra, unblocchetto per gli appunti aperto, in attesa, immacolato e al con-tempo terribilmente funesto. Dietro di loro sul prato c’era una fol-la ancora più vasta — macellai e fornai nei loro grembiuli, donnecorpulente con le braccia incrociate, donne esili che sollevavanosporchi marmocchi perché potessero vedere meglio, bambini chestrillavano, cani che abbaiavano, terribili bambine piccole che sal-tellavano urlando e battendo le mani. Dietro ancora, in una sortadi anello esterno, c’erano i vecchi del villaggio, sdentati, dallosguardo apatico, a bocca aperta, con le lunghe barbe grigie che sfio-ravano la sommità delle loro canne. E al di sopra di tutti il sole, ros-so sangue, spaventoso, tramontava gettando ombre sulle spalle ditrecento persone che si contorcevano.

Dopo il boato che si era levato al mio apparire è caduto il silenzio— un silenzio profondo, denso di significato — e da questo silenziosi sono levate una decina di voci. Erano gli uomini con i taccuiniaperti di fronte a me.

«Jenkins del Toledo Blade!»«Harlan del Cincinnati News!»«M’ Gruder del Dayton Times!»«Cory del Zanesville Republican!»«Jordan del Cleveland Plain Dealer!»«Carmichael del Columbus News!»«Martin del Lima Herald!»«Ryan dell’Akron World!»Era irreale, inquietante… Come se la cartina geografica del-

l’Ohio fosse impazzita, con i conti delle miglia che non tornavano,e le città che saltavano da una contea all’altra. Ho avuto un gira-mento di testa. Poi è caduto nuovamente il silenzio. Ho notato unpo’ di scompiglio nel mezzo della folla, una sorta di onda o di mu-linello che fluttuava verso il centro di essa, come se un sottile alitodi vento passasse attraverso un campo di grano.

«Che cosa volete?» ho urlato con voce soffocata. Con una sola voce da mezzo migliaio è arrivata la risposta.«Dov’è Cosgrove Harden?». L’avevano saputo! I giornalisti mi accerchiavano, supplicando,

minacciando, chiedendo. «... l’hai tenuto segreto, vero… per poconon si sapeva…. deve saldare i conti in sospeso… non vorrebbe ri-lasciare un’intervista… mandaci fuori il vecchio bugiardo…».

Poi quello strano mulinello nel campo affollato di gente è arriva-to tutto a un tratto in prima fila e si è fermato. Dalla folla è uscito ri-solutamente fuori un giovanotto alto, dai capelli biondi e le gambecome trampoli, e decine di mani volenterose lo hanno spinto finverso di me. Si è fatto sotto, verso la veranda. Ha salito i gradini.

«Chi è lei?» ho sbraitato. «Sono Elbert Wilkins» ha risposto ansimando. «Sono quello che

l’ha detto a tutti». Ha fatto una pausa gonfiando il petto. Era il suogrande momento. Era lui il messaggero immortale degli Dei.

«L’ho riconosciuto il giorno stesso che è arrivato. Vede…vedequesto?».

Noi tutti ci siamo chinati in avanti, incuriositi. «Io ho questo suo “Pagherò” di 3 dollari e 80 centesimi. Sono i sol-

di che mi deve, li ha persi giocando a poker. E io voglio i miei soldi!».

Sono un editore. Pubblico libri di ogni genere. Ne cerco uno chevenda cinquecentomila copie. Questo è il tempo dei romanzi conun risvolto metafisico. Se possibile però, preferirei qualcosa scrit-to da un materialista convinto, che parli di un benestante uomo dimondo e di un’apache dagli occhi scuri…o qualcosa sull’amore.L’amore è un tema sicuro. E ci vuole un uomo vivo per amare.

(Traduzione di Anna Bissanti)

Copyright 2012 by Eleanor Lanahan, Cristopher T. Byrne, Thomas P. Roche, trustees under agreement dated July 3, 1975

created by Francis Scott Fitzgerald Smith. Published by arrangement with Harold Ober Associates Inc. (New York)

and Agenzia Letteraria Internazionale (Milano). All rights reserved

Quella mattina bussò alla sua portaVoleva parlare col defunto

Voleva i suoi tre dollari vinti a poker

L’avevano saputo!I giornalisti mi accerchiavanosupplicando e minacciandoPoi dalla folla è uscito un giovanotto alto e biondoChi è lei? Ho sbraitato“Io sono quelloche l’ha detto a tutti”

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LA DOMENICA■ 30DOMENICA 30 DICEMBRE 2012

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Da vent’anni fotografail nostro pianeta dall’alto,producendo strepitoseimmaginiper poster, cartoline e desktop. E attirandosi le critichedegli ecologisti più radicaliOra Yann Arthus-Bertrandha un nuovo progetto“Scendere dal cielo per ascoltare gli uomini”

L’attualitàGreen economy

Bella la Terra se vista da lontanoFORTE DI BARD (AOSTA)

Èdisceso dal cielo per ascoltare lavoce degli uomini. Certo: rias-sunta in questo modo, la para-bola di Yann Arthus-Bertrand

suona un po’ troppo evangelica. Eppure ècosì. Dopo un quarto di secolo passato a fo-tografare la Terra dall’alto, considerato or-mai il re della visione a volo d’uccello, osan-nato in tutto il mondo per le immagini spet-tacolari, pittoriche e quasi astratte della su-perficie del Pianeta, creatore del libro foto-grafico di autore singolo più venduto nellastoria della fotografia (La Terre vue du ciel,tre milioni e mezzo di copie, tradotto in ven-tiquattro lingue), questo sessantaseiennecol physique du rôle del lupo di mare, che gliammiratori chiamano ormai solo con le ini-ziali, YAB, ora vuol passare più tempo possi-bile coi piedi per terra, nelle strade, nellepiazze del mondo, a far domande alla gente,domande come «Quando hai pianto l’ulti-ma volta e perché? Come definiresti la feli-cità? Hai dei nemici? Ti senti libero?», e poifilmare le risposte, e comporre in uno smi-surato film-mosaico i sentimenti di Settemiliardi di altri. Ha già un archivio di sette-mila interviste. Vuole arrivare a dieci, venti-mila. Lo ha convinto una donna incontratain Madagascar, una delle prime che mise asedere davanti alla cinepresa. «Le chiesi: se-condo te, perché ti faccio tutte queste do-mande? Mi rispose: ma è ovvio, perché soloio in tutto il mondo posso darti le risposte

che ti ho dato io. Aveva ragione. Ogni uomoè un mondo irripetibile».

Nel tragitto fra cielo e terra, per il momen-to siamo a mezza strada. Nell’antico Forte diBard, ora splendida sede di eventi culturali,appollaiato su uno sperone di roccia all’im-bocco della Valle d’Aosta, YAB controlla chela centocinquantaseiesima replica mondia-le della sua mostra di fotografie dall’alto siaperfettamente allestita. Ci sono anche i suoifilm “volanti”, come Home, proiettato gratui-tamente nelle sale di 126 paesi. Fa alzare il vo-lume delle musiche di Armand Amar, il suomusicista esclusivo, che lo accompagnasempre, anche oggi. Ecco, ora è tutto a posto.Si rilassa pranzando con una zuppa valdo-stana: «Sono vegetariano». Ovviamente.«Quella carne che lei ha nel piatto», indicaammonitore, «viene sicuramente dal SudAmerica. Deforestazione, trasporti a lungoraggio, lei capisce...». Capisco. «Vede», s’ad-dolcisce, «quando sono nato, sulla Terra era-vamo due miliardi e mezzo. Oggi sette mi-liardi. Ma facciamo finta di non saperlo, pernon spaventarci. Facciamo finta di ignoraretutte le cose che sappiamo».

Lo chiamano “l’ecologista coi baffi”. Non èsempre un complimento affettuoso. Non èun personaggio facile, YAB. Tanto amato,tanto detestato. Portano il suo nome unadozzina di scuole, in Francia, «non posso evi-tarlo, sono gli studenti che scelgono il nomedella loro scuola», è ambasciatore di buonavolontà dell’Onu, ha un medagliere di onori-ficenze da far invidia a chiunque. Ma gli eco-logisti radicali lo hanno preso di mira. Lo con-siderano un ambientalista inefficace, gli rim-proverano di depoliticizzare l’ecologia in

MICHELE SMARGIASSI

LA MOSTRALe immagini di Yann Arthus-Bertrand (a sinistra) che ritraggonoi cambiamenti del pianeta negli ultimi venti anni sono al centrodella mostra intitolata Dalla Terra all’Uomo, al Forte di Bard(Aosta), fino al 2 giugno 2013. È la prima retrospettivain Italia dedicata al fotografo e regista francese e al suo progetto:oltre cento fotografie di grandi dimensioni e film in alta definizioneaccompagnati dalle musiche del compositore Armand Amar

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LE IMMAGININella foto grande al centro l’immaginepiù celebre di Yann Arthus-Bertrand,il Cuore di Voh in Nuova Caledonia (1990)Sotto, la miniera di carbone a cielo apertonei pressi di Delmas, Sudafrica Dall’alto, il Great Blue Hole in Belize; balle di cotone a Korhogo in Costa d’Avorio; barche di cercatori di sabbia di Kalaban Koro,alla periferia di Bamako, Mali; Kabut Bay sull’isola di Waigeo, arcipelago di Raja-Ampat in Papuasia Occidentale, Indonesia;villaggio nelle paludi del Sudd, nei pressi di Bor, nel Sudan del Sud

sentimentalismo, lo accusano di produrre“cartoline plastificate”, lo hanno beffarda-mente ribattezzato hélicologiste, fanno il cal-colo di quanto inquina l’elicottero che lo haportato in questi vent’anni nei cieli di tutti gliemisferi. È l’unico momento della nostraconversazione in cui si rabbuia: «Ma io sonoil primo a parlare di tutto questo. Nessuna at-tività umana è a costo zero per l’ambiente. Ioperò compenso tutto il Co2 che produco». Hacreato una fondazione apposta, per “com-pensare il carbonio”: si chiama GoodPlanet eoffre progetti virtuosi in giro per il mondo achi si senta in colpa per averlo inquinato: peresempio, la mostra di Bard rimette in pari labilancia dell’ossido di carbonio emesso perprodurla (6,8 tonnellate) con un finanzia-mento alla costruzione di serbatoi di biogas aSiddlaghata, in India. Ma anche questo, agliécolos più estremi non va bene, parlano di«vendita delle indulgenze»... «Una volta miarrabbiavo molto», sospira YAB, «ora nonpiù. Mi detestano perché non sono anticapi-talista. Ma non funziona così, il mondo. Nonci sono i felici consumatori da una parte e icattivi industriali dall’altra. Questa è la casa ditutti, e se crolla, crolla su tutti. Non voglio con-flitti, voglio convinzioni, non parlo mai di col-pe, ma di responsabilità». Le rimproverano lemultinazionali che la sponsorizzano... «Me-glio spendere i loro soldi per un buon fine cheper uno sbagliato, non crede? Mi dia retta,non ci servono le guerre ideologiche per sal-vare il pianeta, ci serve un rassemblementamoureuse, un abbraccio solidale».

Pensatela come volete, ma una cosa è cer-ta: le fotografie dal cielo di YAB hanno cam-biato il modo di guardarci allo specchio, noi

terrestri. Anche se in questi paesaggi astratti,di uomini se ne vedono pochi... «Non è così:non esiste Terra senza uomini, ogni mia fotoè accompagnata da una spiegazione di quelche si vede, un racconto dove l’uomo è sem-pre il protagonista». Ma che questa crostasporca su cui mettiamo i piedi potesse essereastratta come un disegno di Klee, complessacome un incastro di Escher, misteriosa comeun quadro di Chagall, l’ha scoperto lui. Fu unautentico richiamo della foresta. Trentenne,erede di una dinastia di gioiellieri ma stufod’Europa, con la moglie Anne era andato a ge-stire la riserva naturale Masai Mara, in Kenya.«I miei maestri di fotografia furono i leoni. Percinque anni documentai la vita di una fami-glia. Mi insegnarono la pazienza». Ma le deli-zie della fotografia aerea le scoprì in mongol-fiera, come il grande Nadar cent’anni primadi lui: «Per sbarcare il lunario portavo i turistiin volo a vedere gli animali. Cominciai a scat-tare foto, venivano bene...». Gliele presero ilNational Geographic, Life, Géo, Paris Match.La svolta fu un lavoro commissionato dallaConferenza di Rio, nel ’92: fare il ritratto glo-bale al Pianeta, dall’alto, entro il 2000. Nessu-no ci credeva. Espose le sue fotografie sullacancellata dei Giardini del Lussemburgo, aParigi, e si mise dietro un tavolino. «Non fini-vo più di firmare foto». Le prime trentacin-quemila copie di La terre vue du ciel andaro-no esaurite in poche settimane. Il fenomenoYAB era esploso. Le sue immagini diventava-no icone. La radura a forma di cuore in Nuo-va Caledonia («la mia immagine simbolo...»),le ombre dei cammelli sulle dune del Sahara,il villaggio galleggiante degli indiani Kuna, imosaici di tappeti stesi al sole in Marocco, i

campi di grano pettinati dal vento nell’Idaho,sono immagini che strappano gli “oooh” deipassanti quando vengono esposte, di solitonelle piazze e nelle strade, e che la gente siporta poi via sotto forma di libri, poster, car-toline, magneti da frigorifero...

Qualcuno dirà: è così bello questo Pianeta,non c’è nulla da cambiare, teniamocelo così.«Non è colpa mia se la Terra è un’opera d’ar-te. Ma non fotografo solo paesaggi inconta-minati». Certo che no. Anche colate di petro-lio, anche discariche di rifiuti, anche catastedi automobili sfasciate. Ma dall’alto tutto di-venta pattern, “motivo”, la geografia si fa geo-metria, la terra diventa arte, appunto, e anchel’inquinamento sembra bello... «No, le miefotografie parlano di fragilità, richiamano al-la sollecitudine. Il mio compito è questo».

Chi è lei, Yann? Un artista, un fotografo, unprofeta? «Un uomo libero che restituisce i do-ni avuti dalla vita. Non faccio edizioni nume-rate delle mie fotografie, voglio che venganoviste da tutti. Sono un giornalista, un attivista,cerco di convincere gli umani che abitanonella casa più bella che possa esistere, ma an-che che le civiltà possono scomparire. Agiscosenza rabbia, senza odiare nessuno. Agirerende felici».

Fra qualche mese YAB inizierà dalla Cam-bogia la sua ultima impresa globale. Ha già untitolo, Human, e un’idea ancora vaga: intrec-ciare le visioni dal cielo e le interviste sulla ter-ra, costerà 15 milioni di euro, la lavorazionedurerà tre anni. «Dopo smetterò. Lavoreròsolo in Francia». Allora è vero, lei vuole scen-dere dal cielo. Ci pensa un po’: «Forse vogliosalire ancora più in alto».

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L’immagine

Se unadecina di anni fa la Vallecchi ave-va pubblicato un meritorio Dizionariodel futurismo, quella che oggi si prean-nuncia dalla collaborazione della casaeditrice Gli Ori e della FondazioneEchaurren-Salaris è allora una vera e

propria Enciclopedia, organizzata in sette tomiche promettono una ricostruzione dell’universofuturista attraverso volumi monografici che sa-ranno dedicati ai libri, ai manifesti, alle cartoline ealle fotografie, alla ceramica, ma anche — e il vo-lume riserverà certo interessanti sorprese — allapresenza del futurismo italiano nel mondo, dallaSpagna alle terre sudamericane. Il tutto partendodai ricchi scaffali della collezione iniziata da PabloEchaurren più di trent’anni fa, la più completa og-gi sull’argomento, e a cui Claudia Salaris ha lunga-mente attinto nella sua attività di storica del movi-mento futurista.

Si parte da uno dei campi d’intervento più viva-ci e rivoluzionari del futurismo: le pubblicazioniperiodiche, alle quali Claudia Salaris dedica Rivi-ste futuriste, volume dall’elegante composizione,col testo in italiano e in inglese e abbondanza dibelle immagini a colori, inusuali in simili reperto-ri.

E fa impressione vederle tutte assieme, le rivistedel futurismo. E le fiancheggiatrici. E quelle che sulfuturismo campavano di ironia, come Il Travasodelle idee, che gli dedica spesso feroci vignette, oMarameo! Giornale politico satirico pupazzettato,che se ne esce — e siamo già nel ’31 — con una pa-

rodica «Edizione quasi futurista». O gli almanac-chi goliardici e quelli degli allievi delle accademiemilitari, infarciti di ironiche tavole parolibere (matalvolta anche vere, come quelle di Masnata perPutiferio).

Riviste interamente futuriste, o che alle sue no-vità dedicavano una o due facciate, o magari solouna «Mezza pagina di futurismo», come la napo-letana Il clacson. Pubblicazioni di respiro europeoe fogli che invece testimoniano (che già non è po-co) una vivacità locale, costruite con le sole forzecittadine o regionali, o sostenute con materiali for-niti dalle teste di serie del movimento.

Si spazia dalla letteratura all’architettura, dallaradio al cinema, dalla politica alla pubblicità (an-che se Marinetti fu tra i primi a intuire la sovrap-ponibilità delle due cose). Stampate su carta gial-la, rosa, arancione, verde, ma anche con variazio-ni dell’abbinamento carta/inchiostro in uno stes-so numero, con carta rossa e inchiostro nero, oavorio e verde…. E con in testa le più gloriose, co-me Lacerba (1913-15) di Soffici e Papini, modelloeuropeo di una nuova visione, rivista sulla qualeuscivano i manifesti della nuova rivoluzione tipo-grafica e immediatamente anche le sue applica-zioni pratiche, stravolgendo in maniera definitival’idea stessa di impaginazione (e ne sanno qualco-sa i pur reticenti dadaisti di Zurigo). E poi L’Italiafuturista (1916-18) di Settimelli, sulle cui paginesfocia un profluvio di tavole parolibere, dai poetifuturisti spesso spedite direttamente dal fronte. Ola seconda serie di Noi(1923-25) di Prampolini, col

LE RIVISTE Dall’alto in senso orario: Almanacco della guerra 1915 (1915), Almanacco dell’Italia veloce (1930), Artecrazia (1938), Attualità (1911), Cronache d’attualità (1916), Dinamo futurista (1933), Corso 1934-1937,Cip!... Cip!... (1931) Crac (1934), Noi siamo le colonne (1931), Almanacco letterario Bompiani 1937-XV (1936), Broom (1922), La Ghirba (1918), La Giovane Italia (1909), Index rerumque virorumque prohibitorum (1923),

Quando l’arte scompagina le carteGIUSEPPE DIERNA

IL LIBROIl volume Riviste futuriste. CollezioneEchaurren Salaris (Claudia Salaris, Gli Ori, 1184 pagine, 100 euro) è in libreria: con il testo in italiano e in inglese, arricchito da immagini a colori, il libro ricostruisce l’universofuturista attraverso le pubblicazioniperiodiche a esso dedicate

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la Repubblica

Dalla letteraturaalla pubblicità,dalla goliardiaalle tavole parolibere,dalle copertinein forma di aereoa quelle ridottea biglietto postaleFu una rivoluzioneanche graficae tipografica quellache attraversòla cultura italianadel primoNovecentoCome dimostra orauno splendido volume

facilmente trasportabile, dove un banale tavolo puòmutarsi in «scrittoio, tavolo da fumo e gioco, da la-voro per signora, da pranzo, da visita» ma anche —con una lieve pressione — in «toilette con specchi,luce interna e vari cassetti». E se è alto il numero del-le riviste futuriste a fianco del fascismo, una paginadi Artecrazia (ottobre ’37), col titolo «Noi e Hitler» eun’accorata difesa dell’arte moderna da parte deldirettore Somenzi, ci ricorda che era da poco inizia-ta in Germania la campagna contro l’Arte degene-rata, e i futuristi italiani non ne erano esclusi. A gio-care col fuoco…

Si va avanti per assaggi, ma soprattutto si guarda,e ci perdoni la curatrice che di ogni rivista ha meti-colosamente ricostruito ascendenze e discendenze,collaborazioni, passaggi di testimone da una all’al-tra per litigio o mancanza di soldi. Troviamo un boz-zetto di Munari per l’Almanacco dell’Italia veloce, lesue illustrazioni robotiche per Il suggeritore nudo diMarinetti; il frontespizio di Dinamo futurista, crea-tura di Depero, e l’elegante composizione con tre«Caproni 101» + «bombe chimiche e incendiare» inpicchiata per pubblicizzare (e ci si accappona la pel-le) i rassicuranti «ricoveri EIA con impianti brevetta-ti SICA» (Artecrazia, 1936).

Risalta l’eleganza modernista della prima serie diStile futurista (1934), con audaci punti di fuga, men-tre un numero di Campo grafico(maggio ’39) è dedi-cato proprio alle invenzioni futuriste, con straordi-narie tavole parolibere e splendida copertina: suuno sfondo carta da zucchero si disegna la sagomarossa di un aereo che quasi atterra sul grande titolo

verde: Campo grafico aeroporto della rivoluzionefuturista delle parole in libertà poesia pubblicita-

ria, il tutto a sua volta tagliato in nero da: italia-nità velocità simultaneità.

Ma la più inventiva è senza dubbio 25. Sinte-si pubblicitaria dell’arte contemporanea, mi-

cro-rivista del triestino Carmelich, un car-toncino 26x14 che — ripiegato in tre e ri-

chiuso — si trasforma in un biglietto po-stale formato cartolina, con spazio per

indirizzo e francobollo. E su ognunadelle facce di questa tripla cartolina,

notazioni critiche sul costruttivismo,la riproduzione di un nudo, la pub-

blicità di una raccolta di SofronioPocarini e la poesia «Comete sul-

le camionabili». Certo che eranoproprio maestri d’invenzione.

suo internazionali-smo al servizio di unrafforzamento del futu-rismo come arte di Stato,su esplicito modello diquanto avvenuto in Urss do-po la rivoluzione.

Dirompenti alcuni titoli: Di-namo, Elettroni, Rovente, Origi-nalità, La scintilla, Artecrazia, Bi-sogna creare, Poker futurista…, esottotitoli non meno scoppiettanti:Arancione + rosso + ultravioletto, o Al-toparlante bisettimanale, mentre Za-bum — «antiletteraria» e «ultradinami-ca» — si presenta come Rivista coi capellialla garçonne.

Si avanza per curiosità, per assaggi. Parten-do magari da Poesia, dove Marinetti si era fattole ossa e dove — in totale dissonanza col cielostellato e l’idra trafitta dalla freccia della nudaPoesia dell’affascinante copertina, ancora simbo-lista, di Alberto Martini — ripubblicherà nel 1909 ilManifesto del futurismo. Perché per Marinetti, veroesempio di avanguardista, i passi avanti e gli strappivanno sempre ostentati in corso d’opera.

Sul primo numero dell’Antenna (1926) una notac’informa che «L’Antenna riceve e trasmette le on-de di tutti i cervelli creatori ultradinamici» (e all’in-terno i collaboratori stranieri figureranno nella ru-brica «Radiodiffusione estera»), mentre Il Passo ol-tre mostra un «Arredamento simultaneo», leggero e

Duemila (1932), Futurismo (1932), L’Italia futurista (1916), Mediterraneo futurista (1943), Noi (1920), Il Travaso delle idee (1933), L’Arcipazzo (1932), Ciapa Chilü (1933),Il Mare nostro (1942), Milano che si diverte (1921), 900 (1929), Occidente (1934), Poesia ed arte (1920), Rinascita (1924), La Ruota (1916)

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orì allo scoccare del nuovo anno, il primogennaio di un decennio fa, lasciando nellamemoria collettiva la maschera somma-mente ironica di quel viso adunco e asim-metrico, e un mare di parole cantate che peranni avevano scavato, dubbiose e provoca-torie, nella nostra condizione di invasatiabitatori dell’esistenza. Molte di quelle pa-role le aveva scritte, ma in una forma spe-ciale di simbiosi intellettuale e fraterna,Sandro Luporini, che ci ha messo esatta-mente dieci anni per decidere di superare lasua naturale e sobria riservatezza, e scrive-re infine la suastoria, il suoracconto di quel-la irripetibile avventura di pensiero. Usciràil 2 gennaio, col titolo G. Vi racconto Gabered è un eccezionale documento, un viaggioattraverso un intenso periodo della storiadel nostro Paese vissuto da due liberi pen-satori, accaniti indagatori di quella zona diconfine che sta tra noi e la realtà, tra noi e ladimensione sociale, tra l’individuale e ilcollettivo.

Il viaggio comincia verso la fine degli an-ni Sessanta, a Milano, quando il pittore San-dro Luporini e il cantante Giorgio Gabers’incontrano in un bar e iniziano a scam-biarsi idee e punti di vista. Gaber allora eragià famoso, aveva inciso molte canzoni disuccesso, e ormai era diventato anche unbeniamino del pubblico televisivo. Ma in-torno al Sessantotto le cose cambiavano, ilsommovimento era potente e il cantautorecominciò a provare una forte insoddisfazio-ne verso un successo che, più che una grati-ficazione, sembrava una gabbia. Curiosa-

mente, come racconta Luporini, la spintaverso il teatro arrivò da Mina, a quei tempivenerata, che volle organizzare un recital elasciò a Gaber il compito di aprire lo spetta-colo. Eravamo all’inizio del 1970 e i due ini-ziarono quella serie di conversazioni cheavrebbero portato ai celebri spettacoli deglianni seguenti. La prima ad apparire fu l’im-magine de Il signor G. La G stava sì per Ga-ber, ma anche per un uomo qualunque, unborghese che, accerchiato dagli eventiesterni, comincia a dubitare, a farsi doman-de, a discutere la sua condizione.

Il racconto diventa sempre più ricco e in-calzante. La storia del signor G va a incro-ciarsi con i profondi cambiamenti allora in

atto in Italia e, come si evince perfettamen-te dal racconto, gli sviluppi successivi di tut-ta l’opera scritta dai due potrebbero esserevisti come l’evoluzione di questa prima fi-gura, la crescita, i conflitti, i successivi ap-profondimenti.

Gaber, in fin dei conti, non era tanto in-teressato al lavoro discografico, non ama-va lo studio di registrazione, e la ragione èpiuttosto comprensibile. Per lui cantare,raccontare, riflettere, voleva dire solo unacosa, condividere, vivere il suo lavoro in-sieme al pubblico, e questo lo spinse natu-ralmente a coltivare la dimensione teatra-le, nella quale si ritrovò interamente, esal-tando anzi le sue qualità di attore, di straor-

dinario performer. Dopo Il signor G. la pro-gressione fu inarrestabile. Gaber abban-donò gradualmente la televisione e si con-centrò interamente sugli spettacoli. Lui eLuporini di fatto inventarono un genere,che oggi chiamiamo teatro-canzone, mache allora era meno identificabile. E infattiloro, svela ora Luporini, lo chiamavano “Ilbastardone”, un ibrido, che però funziona-va a meraviglia e fu affinato anno dopo an-no con spettacoli di grande successo, pri-ma il Dialogo tra un impegnato e un non so,poi Far finta di essere sani che fu l’esplosio-ne, due anni di repliche a furor di popolo,con Gaber diventato a quel punto un pun-to di riferimento essenziale. Il signor G. era

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SpettacoliImpegnati

Il mioamicoGsignoril

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Si conobbero in un bar di Milano e da lì attraversarono un pezzo di storia d’Italia,inventando un genere, il “teatro-canzone”, e un modo di lavorare, il monologo a quattro mani. A dieci anni dalla scomparsa di uno dei cantautoripiù originali, il suo alter ego racconta quella strana coppia

Luporini & Gaber“Ora vi parlo di noi”

GINO CASTALDO

LE COPERTINEA sinistra, la cover dell’albumPolli d’allevamento (1978). Sopra,Far finta di essere sani (1973)

LE IMMAGINIGaber e Luporini durantele prove de Il Grigiostagione 1988-1989A sinistra, Luporini oggiFO

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la Repubblica

IL LIBROG. Vi racconto Gaberdi Sandro Luporini(Mondadori,312 pagine, 18 euro)è in libreria dal 2 gennaioMartedì 1° gennaioRadio Capital,in collaborazione con Repubblica.it,ricorderà Gaber per l’intera giornata

Il monologo Qualcuno era comunista creò, co-me del resto aveva fatto Io se fossi Dio, una for-te divisione nel nostro pubblico. C’era chi lo

criticava aspramente e chi lo amava alla follia.L’argomento era delicato. Il concetto di comuni-smo, che nell’immediato dopoguerra aveva vis-suto un momento di grande fioritura, con il tem-po aveva subito qualche batosta. Alcune ancheingiustificate, se si parla del concetto in sé e nondei protagonisti militanti. Dopo l’ultima scossa— la caduta del muro di Berlino — quasi non sisentiva più parlare di comunismo. Fu proprio aquel punto che io e Giorgio sentimmo il bisognodi rivalutare almeno in parte gli slanci vitali di chiaveva creduto in quegli ideali. (...)

A questo punto, è inevitabile un chiarimento sulmio rapporto con Gaber al momento di scriverequesto monologo. Ricordo che (...) discutemmoper ore e con qualche divergenza, tanto per sfatarel’idea che fossimo una persona in due. Forse, dopoavere concordato sui temi più concettuali dellospettacolo, diventavamo anche una persona sola,ma prima c’era sempre un dibattito acceso. Quellavolta lì io sostenevo che non mi sentivo comunista,perché i comunisti avevano fatto più danni dellagrandine, ma che continuavo a essere interessatoall’idea di comunismo. C’è una bella differenza trai comunisti militanti e il concetto di comunismo.Ma per Gaber anche il concetto stesso era assai sor-passato: era quasi un pezzo di antiquariato. Alloraio (...) usai l’arma dello Zingarelli. «“Comunismo”»dissi a Giorgio «“dottrina politica, economica e so-ciale fondata sulla proprietà non individuale macomune dei beni esistenti e dei mezzi di produzio-ne”. Dico, ti sembra una brutta cosa?». «L’abbiamovisto cos’è successo con questa dottrina!» fu la suarisposta. A quel punto sembravo al tappeto, maavevo ancora qualche risorsa. E poi non era micauna di quelle discussioni in cui uno dei due dovevavincere per forza; era una di quelle conversazionicordiali che spesso degenerano in una litigata. No,litigata mai, casomai si alzavano un po’ i toni. (...).Mi ricordo di aver detto abbastanza forte: «Del co-munismo non si può sapere niente per il semplicefatto che non è mai stato realizzato! Forse ci si è an-dati vicino, almeno per quello che riguarda la re-munerazione, in alcune riserve di pellerossa e neikibbutz israeliani, ma non mi vengano a parlaredella Russia: lì siamo lontani una vita! Del resto an-che loro sapevano di non essersi neppure lontana-mente avvicinati, dato che si erano chiamati Urss enon Urcs, che oltretutto è anche impronunciabile».Era una battuta. Sai, per stemperare il clima. Ma ar-rivò subito la replica di Giorgio: «Infatti hanno fattoproprio un bel socialismo!». «È vero» dissi «è un di-sastro, ma non è questo che mi interessa. Io vogliosoltanto continuare a sperare che un domani gli uo-mini possano avere gli stessi diritti e la stessa remu-nerazione al di là della meritocrazia». Io mi rende-vo conto che quel «un domani» non era proprio lìdietro l’angolo. Infatti lui replicò subito: «Non haiproprio il senso della realtà, Sandro! Figuriamoci sel’uomo, con l’egoismo che si ritrova, può tolleraredi guadagnare quanto il fannullone che ha accan-to». Risposi che per il momento aveva ragione. Losapevo bene che nessuna politica poteva portare almio comunismo se non si fosse prima verificato unvero cambiamento antropologico dell’animale uo-mo. «Antropologico? Vai più alla radice: dì puremorfologico!» rispose Giorgio. «Che poi nemmenotra scimmie forse ci si intendeva». Anche lui avevastemperato il clima. Dopo due ore di discussione,trovammo un punto d’incontro. Eravamo d’accor-do sul fatto che non si poteva proprio buttare viatutto quello che di buono c’era stato nel nostro cre-dere, nel nostro avere fede in quell’utopia. Ecco, sì,su questo eravamo d’accordo, su questo eravamodavvero una persona in due: non si deve mai ri-nunciare all’utopia.

Alla fine abbiamo semplicemente deciso di spie-gare cosa aveva significato per noi essere comuni-sti; abbiamo elencato alcuni dei motivi, dai piùscherzosi ai più seri e veri, che condividevano tantidi coloro che, magari anche in modo improprio, sierano definiti comunisti. «Perché chi era contro eracomunista» diceva un verso del finale. Dalla plateamolti spettatori si alzavano in piedi commossi, per-sino alcuni di quelli magari troppo giovani per ca-pire cosa realmente avesse voluto dire essere co-munisti negli anni Settanta (...).

(brano tratto da G. Vi racconto Gaber)

Qualcuno erapiù o meno comunista

SANDRO LUPORINI

cresciuto, e se prima si interrogava sul suo am-biente, ora si apriva all’esterno, si confronta-va, faticava a prendere posizione tra le duegrandi componenti del Movimento, quellapiù dogmatica e ideologica, e l’altra più aper-ta e libertaria, ma inconcludente. Alcune can-zoni scandivano la crescita di questa consape-volezza: Un’idea, Lo shampoo, La libertà, aproposito della quale Luporini racconta oggicome fosse diventata motivo di disagio, pernon dire imbarazzo, perché quella frase — «laliberta è partecipazione» — fu manipolata,usata da tutti, anche come slogan del Partitosocialista, smarrendo il senso originario cheper Luporini era condividere «un valore eticocomune», e non utilizzare lo strumento del vo-

to, come molti hanno voluto intendere; vo-leva dire piuttosto la possibilità di incideresulla realtà, di cambiarla, di migliorarla, ri-flettendo amaramente su un concetto didemocrazia che rischia di essere solo lasembianza di tutto questo. Luporini rac-conta molto bene il clima febbrile, l’esalta-zione di quelle lunghe conversazioni a Via-reggio, ore, giorni, da cui scaturivano leidee degli spettacoli, mentre intorno a lorosi creava un clima di attesa, ragionando suL’io diviso di Laing, su Céline, Adorno, Rei-ch, Marcuse, Pasolini, la profonda sintoniacol pubblico che però si interruppe brusca-mente, quando, sempre decisi a dire la lo-ro, in assoluta libertà, cominciarono a cri-ticare proprio quel Movimento che li avevanutriti e col quale si erano sempre costan-temente confrontati, prima con Anche peroggi non si vola, poi con Libertà obbligato-ria e soprattutto con Polli d’allevamentoche creò un forte turbamento e perfino unaserie di rumorose contestazioni da parte diquelli che si sentivano “traditi” dalla ferocicritiche contenute negli spettacoli. Gaberne uscì devastato e interruppe per due an-ni le esibizioni in teatro. Poi ripresero, ov-viamente, del tutto liberati da quel difficileabbraccio col Movimento, continuando aindagare, a scavare nelle nostre contraddi-zioni, a trasformare una serata di monolo-ghi e canzoni in una seduta di consapevo-lezza collettiva che alla gente serviva comeun nutrimento essenziale, e che oggi cimanca terribilmente, col rimpianto di averperso una delle più alte espressioni dellacultura popolare del nostro tempo. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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I DOCUMENTIQui sopra,il manoscrittodi Una nuovacoscienza (1996)Accanto, appuntidi Gaberper Mi fa maleil mondo (1994)tratti da GaberL’illogica utopia(chiarelettereedizioni)Sotto, locandinadello spettacoloIo se fossi Gaber(stagione1984-1985)

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Non solo bianco, anche rosée ormai persino rossoDal Moscato al Marzeminoecco con quali vinichiudere in bellezzaConcedendosi un’ultimissimatrasgressione pasticcera

I saporiFrizzanti

«Versa il vino! Eccellente Marzemino!»,comanda allegro il Don Giovanni diMozart al servo Leporello, pregustan-do l’abbinamento con un poderosopiatto di fagiano. Non immaginava, ilNostro, che lo stesso rosso, diversa-

mente vinificato, due secoli più tardi sarebbe diventato il com-pagno ideale dei dolci di fine anno. È un elenco in aggiorna-mento continuo, la produzione di bollicine dolci pensate perchiudere in leggerezza alcolica e zuccherina i pasti delle feste.Una scelta variegata, che spazia tra bianco, rosé, rosso, tenoredi morbidezza, gradazione, profumi, arrivando fino alla ver-sione passita.

C’era una volta Re Moscato, signore e padrone dei bicchierial momento di tagliare il panettone. E con lui il fratello Asti Spu-mante. A debita distanza seguivano il Brachetto, trasgressorecolorato e beverino con un debole per le caldarroste, e la Bo-narda dell’Oltrepò, morbida e mossa come le colline su cui vie-ne coltivata. Negli anni, il piacere di concedersi un bicchiere inpiù, rinfrescando il palato a prova di palloncino, ha travalicatoallegramente le campagne del nord, contagiando cantine emenù da una parte all’altra d’Italia, giù giù fino al cuore dellaproduzione di vini liquorosi e potenti, figli del solleone del sud.In scia alla rivoluzione pasticcera — con gli artigiani meridio-nali a gareggiare per il miglior panettone dell’anno — i vignaiolidi Puglia e Campania, Sicilia e Sardegna sono saliti in passerel-la con la loro interpretazione degli spumanti dolci.

Più che una rivalità, un’opzione golosa da praticare primadel gran finale alcolico con passiti e muffati. Perché le bollicinedolci sono lievi e allegre, non pretendono degustazioni com-plicate e non accettano di essere dimenticate in cantina (lamaggior parte nel giro di pochi mesi smarrisce il meglio di sé).In compenso, la spuma e il poco alcol che la sorregge pulisco-no la bocca senza coprire i sapori, il corpo magro e suadenteesalta la fragranza delle paste lievitate, i sentori di frutta gioca-no con la dolcezza sfrontata di uvetta e canditi.

Facili, ma non banali. La spumantizzazione, infatti, spaziadalle scorciatoie della gassificazione (come per l’acqua mine-rale) alla rifermentazione in autoclave. A inventare a fine Otto-cento la tecnica che abbrevia i tempi della presa di spuma, pre-servando i profumi dei vitigni aromatici (e diminuendo i costi)fu il direttore dell’Istituto Sperimentale per l’Enologia di AstiFederico Martinotti. Progetto rifinito e brevettato pochi annidopo dal francese Eugène Charmat, il cui cognome ancora og-gi lo identifica. Ma la Francia vanta anche l’altra modalità dispumantizzazione, che ha regalato al mondo la magia delloChampagne. Il metodo della rifermentazione in bottiglia(Champenois, Classico in italiano) richiede grandissima curae tempi dilatati. Per evitare lo strazio gustativo dell’accoppia-ta brut-panettone (e dolci in genere) gli enologi aumentano laquota zuccherina del liqueur d’expedition, la piccola frazionedi sciroppo aromatico che diversifica le etichette delle bollici-ne d’autore. Se il pas dosé — niente liqueur — è un magnificoaperitivo, i 32 gr/litro di zuccheri residui (minimi) del demi secrenderanno il vostro panettone indimenticabile. Moscatopermettendo, of course.

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LICIA GRANELLO

Dolci&BollicineUn Capodannocol botto

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Panettone farcitoBrachetto d’Acqui

Ventisei comuni tra Alessandria e Asti producono lo spumantemetodo Charmat dal colore rubinoche profuma di rosa Da bere con il panettone farcito

PasticciniDemi Sec

Dai francesi Mumm e VeuveClicquot agli italiani Berlucchi e Ferrari: bollicine d’autore in versione zuccherina da gustareinsieme alla piccola pasticceria

Dolci di fruttaSangue di Giuda

Color rosso acceso e perlagecremoso caratterizzano l’uvaggiodi Barbera e Croatina realizzatocon una leggera presa di spumaPer accompagnare dolci di frutta

Pasticceria seccaMalvasia

Solo Malvasia di Candia aromaticanello spumante Colli Piacentini doc (Charmat) giallo paglierino,dall’intenso sentore fruttato Con pasticceria secca

ComposteAleatico

Lontano dal rosso corposodell’isola d’Elba, Puglia e Campaniafirmano uno spumante dal gustorotondo e accattivante Perfetto per composte e canditi

PanettoneMoscato d’Asti

Compagno ideale del panettone,rifermenta in bottiglia il vino biancodelicatamente frizzante e aromatico, amato perfino da astemi e ragazzini (5% vol.)

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Per dirla con la geografia dei vini e dei vigneti, l’ombeli-co del territorio si trova a est di Alba e a sud di Asti. Perdirla con la geografia delle storie, questa è la terra dove

si fanno vaghi i frastagli fra l’astigiano e il cuneese, e doves’incontrano le strade di Pavese e di Fenoglio, su e giù per lecolline, che qui sono mammelle, sono ritorno, sono casa, ilmovimento morbido cristallizzato di quello che fu mare.

Castagnole Lanze e Calosso, di qua, targati At; CastiglioneTinella e Santo Stefano Belbo, di là, targati Cn. E Canelli, lacittà dove le valli finiscono, a fare da porta. E laggiù, Acqui,che è già Alessandria, un altro mondo. Il fatto è che l’ombe-lico del territorio, qui, è anche l’ombelico delle storie. Pave-se e Fenoglio sono due che hanno trasformato la mappa diqueste colline nella mappa del mondo. E con le parole cel’hanno portato, il mondo, tutto il mondo, frase dopo frase,con La luna e i falò, con i racconti, con Il partigiano Johnny:Nuto e Milton, la valle del Belbo, Santo Stefano, la collina diMoncucco, che Pavese risale e Fenoglio discende per rag-giungere Canelli.

Bollicine e fatica, festa scacciapensieri e recupero di me-moria, il dolce ripassato con l’amaro, ridente ma petroso.Non tristezza, ma consapevolezza. E sguardo asciutto. Inquesta terra è prosa anche la poesia. E i versi non sono che fi-lari accuditi con lavoro quotidiano. Producono una prosache marcia a piedi. Come in Gente spaesata, una delle poesiedi Pavese che compongono Lavorare stanca: “Vedo solo col-line e mi riempiono il cielo e la terra/ con le linee sicure deifianchi, lontane o vicine./ Solamente, le mie sono scabre, estriate di vigne/ faticose sul suolo bruciato...”. Bisogna aver-la una terra così, non fosse che per il gusto di andarsene via.E ritornare. E ripartire. E poi tornare ancora.

GIAN LUCA FAVETTO

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Sulla strada

Panna cottaAsti Docg

Profumo morbido e presa di spuma in autoclave (Charmat)per lo spumante da uva Moscatopoco alcolico (tra 7 e 9.5% vol.) da accompagnare alla panna cotta

CastagneBonarda

Versione dolce e frizzante per il rosso da uva Croatina,prodotto fra Oltrepò e Piacenza,vinoso e amabile da bere insieme a castagne o macedonia

AmarettiLambrusco

Parla emiliano il rosso che sa di violetta, nelle sue variedeclinazioni, dal secco (compagnodel cotechino) al dolce. Perfettocon amaretti o ciambellone

CrostataMarzemino

La vinificazione in chiave spumantedi questa uva rossa diffusa nel Nord Est accentua i profumi di sottobosco: ideale per accompagnare le crostate

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Tra Alba e Asti la poesia della collina

OSTERIA DEL DIAVOLOPiazza San Martino 6AstiTel 0141-30221Chiuso lunedì e martedìmenù da 28 euro

BUN BEN BONStrada Vecchia d’Asti 66Nizza MonferratoTel. 0141-726347Chiuso martedì sera e mercoledìmenù da 27 euro

I BOLOGNA Via Sardi 4Rocchetta TanaroTel. 014-644600Chiuso martedìmenù da 40 euro

LOCANDA AL CASTELLOVia Testa 47AstiTel. 0141-1856500Doppia da 90 euro colazione inclusa

AGRITURISMO MONSIGNOROTTIRegione San Nicolao 87Nizza MonferratoTel. 0141-721100Doppia da 90 euro colazione inclusa

DIMORA IL MOLINOVia 20 Settembre 15 GovoneTel. 0173-621638Doppia da 75 euro colazione inclusa

Gli indirizzi

ENOTECA REGIONALE (con cucina)Via Crova 2Nizza MonferratoTel. 0141-793350

VINERIA TASCHET (con cucina)Piazza Piacentino 11Rocchetta TanaroTel. 0141-644424

TORREFAZIONE PONCHIONECorso Alfieri 151AstiTel. 0141-592469

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LA DOMENICA■ 38DOMENICA 30 DICEMBRE 2012

la Repubblica

Suo padre è il grande direttored’orchestra, e lui ha faticato parecchioper liberarsi di un cognome “più scomodo che facilitante”Da bambino ha respirato musica,

poi si è innamorato del teatro, quest’annocome regista ha vintol’Oscar della liricaE assicura: “L’operanon è mai stata così viva

perché non è più intoccabile. Soloil palcoscenico ti permettedi esercitare l’immaginazione”

ROMA

Ci sono territori espressiviche plasmano una vita,campi d’indagine vissuticome inesauribili per-

corsi. Il teatro d’opera, per il regista Da-niele Abbado, rappresenta molto piùche un “semplice” mestiere. Imbarcar-si in questo mondo, per l’affermatissi-mo Daniele (quest’anno ha meritatol’Oscar della lirica per la categoria regi-sti), significa reinventare la tradizionedeclinandola al presente, guidare ilpubblico ad approfondirne la scopertae proiettare, nella concretezza dell’im-magine scenica, il racconto musicale digiganti quali Mozart e Verdi. «Sono unguardiano del museo», afferma riden-do, «che si misura col repertorio in ma-niera non museale. L’opera non hanulla di statico e antiquato. Piuttosto èviva e dinamica, sempre di più. Con laloro voglia di sperimentare e i loro inte-ressi culturali, i cantanti delle ultimegenerazioni stanno contribuendo a ta-le trasformazione. I capolavori operi-stici non sono più intoccabili, e il nuo-vo approccio alla lettura dei classici vadi pari passo con l’importanza assuntadal teatro, uno dei pochi luoghi in cui èancora possibile esercitare l’immagi-nazione».

La musica, per Daniele, che è figliodel mitico direttore d’orchestra Clau-dio Abbado, costituisce un clima origi-nario assimilato in famiglia al massimolivello, mentre il teatro è stato un’ade-sione e una fascinazione che ha nutri-to il suo fantasticare fin dall’adolescen-za: «Sono nato a Milano nel ’58, ed eroun ragazzo quando ho assistito aglispettacoli di Strehler, Eduardo De Fi-lippo e Ronconi. Ricordo ancora l’Or-

lando Furioso ronconiano e il Sogno diuna notte di mezza estatemesso in sce-na da Peter Brook come rivelazioni diun modo libero, aperto ed emozionan-te di fare teatro». Queste illuminazioni,coltivate nello studio e nell’esperienza,hanno fatto di Daniele il regista italia-no di lirica più internazionale e attivodella sua generazione.

Con quel cognome ingombrante,dovuto al padre famosissimo, il rischioera l’eterna soggezione, l’“essere figliodi”, la mancanza di autonomia. Ma luice l’ha fatta, affrancandosi dall’impe-gnativa leggenda paterna. «Ho provatosempre a mettere da parte, nella mia te-sta, quel che implica l’etichetta “Abba-do”, più scomoda che facilitante», rife-risce seduto in un caffè romano, con labella faccia dai lineamenti scolpiti cosìsomigliante a quella del padre da gio-vane. «Ho cercato la mia strada senzamai pensare a Claudio, ma rendendo-mi conto di ciò che era ed è, e di quantoteatro musicale di qualità elevata hopotuto godere grazie a lui, negli anni incui dirigeva la Scala». Mai che Danieledica: «Mio padre». Lo chiama sempre esolo per nome: Claudio. «Mi vienespontaneo farlo, e anche per mia sorel-la Alessandra è così. Un mio maestro discuola, un vecchio fascista, mi sgridavaper questo: gli parevo irrispettoso. Maper me è naturale. Forse perché conClaudio ho un rapporto da fratello eamico, molto paritario. Si parla di tut-to: musica, figli, mare… Intervenne sudi me solo riguardo allo studio, convin-cendomi a laurearmi in filosofia, men-tre io m’ero diplomato alla scuola d’Ar-te Drammatica del Piccolo di Milanocome regista».

Sua madre, Giovanna Cavazzoni, erastata cantante (oggi è la presidente diVidas, l’associazione di volontari che sioccupa di malati terminali). Durantel’infanzia di Daniele «Claudio insegna-va al conservatorio di Parma, facendo ilpendolare con Milano». Aveva undicianni quando i genitori si separarono, ea sedici si lanciò nel vivo del teatro co-me macchinista al Festival di Edimbur-go, «dove ho capito che mi trovavo esat-tamente nel posto giusto per me». Conun gruppo di studenti del Piccolo, a Mi-lano, il giovanissimo Abbado formauna compagnia, per poi fondare un tea-tro, l’Arsenale, dove lavora «puntandoallo sviluppo delle relazioni tra i diversilinguaggi del teatro, incluso l’utilizzo ditecnologie multimediali». A fine anniOttanta firma le prime regie, e risalgono

all’inizio dei Novanta alcune sue colla-borazioni con Moni Ovadia. Accanto aperlustrazioni sperimentali del teatrodi parola (memorabile la sua letturaasciutta e crudele di 4.48 Psychosis diSarah Kane, interpretata dalla bravissi-ma attrice Giovanna Bozzolo, che perinciso è sua moglie e la madre dei suoidue figli), irrompe la passione per la liri-ca, in un moltiplicarsi di produzioni diopere di Rossini, Donizetti, Verdi, Wa-gner… Il teatro di Mozart sembra all’a-pice dei suoi interessi, con un FlautoMagico diretto musicalmente dal pa-dre (Reggio Emilia 2005, Festival diEdimburgo 2006) e con una trilogia Mo-zart-Da Ponte andata in scena a Veronae a Reggio Emilia (2006). Qui i tre titolimozartiani (Le Nozze di Figaro, DonGiovanni e Così fan tutte) sono conce-piti come un unico spettacolo rappre-sentato in tre sere consecutive, con unasemplificazione di strumenti e unachiarezza di espressione che equival-

gono alla cifra dominante del registaAbbado. In un fertile innesto tra il vec-chio e il nuovo, sono numerose, nel suocatalogo, sia le messe in scene di autoridel Novecento (Berg, Weill, Stravinskij,Britten, Dallapiccola), sia le collabora-zioni con musicisti contemporanei(Berio, Battistelli, Henze, Vacchi). Lostile si fa preciso, nitido, eloquente emoderno senza provocazioni.

Un altro aspetto importante del la-voro di Daniele è l’attività organizzati-va. Uomo “puro” e tenace, la compiecon estro, coerenza e acuta compren-sione del teatro internazionale. Conqueste doti ha diretto per dieci anni laFondazione I Teatri di Reggio Emilia, ei tre teatri della città, grazie alla sua cu-ra artistica, sono diventati un modelloeuropeo. Ora ha appena concluso ilmandato rassegnando le dimissionidopo un lungo braccio di ferro conl’amministrazione cittadina, e nono-stante gli eccellenti risultati raggiunti:«I bilanci sono in ordine, e il consensonon è mai stato alto come nell’ultimodecennio». All’origine della crisi deisuoi rapporti col Comune, sostiene, c’èstata «l’indipendenza della linea cultu-rale che ha animato la Fondazione,cioè il modo rigoroso con cui il teatro,in questi anni, ha interpretato il rap-porto tra sfera culturale e ambito poli-tico». Vuol dire di aver pagato l’assenzadi condizionamenti politici? «Certo.Come dice Gustavo Zagrebelsky, sia-mo nell’epoca della compiacenza. Ildilagare di quest’atteggiamento nonha toccato la Fondazione I Teatri, che èstata un ottimo modello di progettua-lità e gestione».

L’attivissimo Daniele tuttavia nonsi scoraggia: come regista galoppa for-te, e per di più «accade spesso che imiei lavori del passato vengano capitie apprezzati maggiormente in annisuccessivi, acquisendo longevità». Èun criterio economico e profetico, chepuò salvare la vita difficile della lirica:«Quest’anno sarà ripresa in vari teatrila mia regia di The Rape of Lucrecia diBritten, creata quindici anni fa e già vi-sta molto. Ho portato nello scorso lu-glio la mia Tosca in Giappone, nata nel’95 a Torino, e disegnata tutta in ununico spazio. E la mia Butterfly del2008 andrà a Bari, Venezia e Pechino».

Il suo Puccini è elegante, “raffred-dato”, svuotato dal mélo: «È il compo-sitore a esigerlo. Togliendogli descrit-tività, tutto diventa più drammatico».E in Rigoletto, presentato alla Fenice

nel 2010 e rimontato sia nel 2011 sianell’ottobre scorso, ha reinterpretatola tragica vicenda del buffone dellacorte di Mantova «in un’ottica espres-sionista e brechtiana, proprio nell’ac-cezione di straniamento richiesta daBrecht». Verdi, secondo Abbado, è unincontro imprescindibile per ogni re-gista: «Ti ci devi confrontare ed è sem-pre un buon padre, perché ti dà mate-riali sui quali lui aveva già pensato intermini scenici. Le sue opere ci stan-no davanti nella pienezza dell’oggi:dobbiamo capirle nel presente, per-ché è al presente che ci parla Verdi. Ilche non significa portare in scena i se-gni delle odierne sciatterie. Serve unlavoro di elaborazione della dramma-turgia e va trovata una chiave prossi-ma a noi, come nel caso del Rigolettoespressionista».

Un suo nuovo Don Carlo ha debut-tato all’Opera di Vienna nel giugnoscorso, e nel 2013 firmerà la regia delNabucco alla Scala, coprodotto conLondra, Houston e Barcellona. Debut-to primo febbraio, con Nicola Luisottisul podio. Per questo titolo, che uniscefonti bibliche e Risorgimento, proget-ta una regia essenziale, comunicativae al solito non datata: «Penso a un ci-mitero reinventato e collocato in undeserto. In una guerra spesso i vincito-ri profanano la memoria dei morti edegli sconfitti. È avvenuto in Iran e inAfghanistan. La profanazione tocca ildominio del simbolico legato al culto.Nabucco tratta della liberazione di unpopolo oppresso e ci promette riscat-to e dignità. Sarebbe ridicolo inserirein questo grandioso e atemporalemessaggio le barbe finte di finti assiri.Bisogna mettere l’immaginario dellospettatore in condizione di spaziare efargli rintracciare nessi riconoscibili».

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L’incontroFigli d’arte

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Io e mia sorellaanche da piccolilo chiamavamoClaudioHo sempre avutoun rapporto paritariocon lui, come fosseun fratello o un amico

Daniele Abbado

LEONETTA BENTIVOGLIO

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