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La Leggenda dei Quattro Regni

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di Emanuele Alongi, fantasy Un’antica leggenda narra che la discesa sulla Terra di una divinità, Treyan, ha portato alla divisione del mondo in quattro regni. Un conflitto al confine porterà il regno di Veran e quello di Aseram ad affrontarsi in uno scontro all’ultimo sangue, che vedrà schierati in prima linea i generali dei due regni, Ansen e Drekan. Nel piccolo villaggio di Atrias, la storia di un giovane ladro di nome Ethan inizia con una promessa fatta a un uomo morente, promessa che lo porterà a rischiare tutto per riportare sua figlia Sophia a Delanim, il regno di cui era originaria, gettato nel caos da misteriosi omicidi. Allo stesso tempo, nel pacifico regno di Lyram, inizia il viaggio di Garet, un ragazzo tranquillo e timido che dovrà affrontare un mondo a lui sconosciuto. Le storie di questi e altri personaggi si intrecciano fra loro, modificando il destino dei Quattro Regni. La spietata guerra per il confine richiederà ai suoi eroi un tributo di sangue.

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EMANUELE ALONGI

LA LEGGENDA DEI QUATTRO REGNI

IL SANGUE DEGLI EROI  

 

 

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LA LEGGENDA DEI QUATTRO REGNI Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-633-2 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Dicembre 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

 

Questo romanzo è opera di fant asia, ogni riferimento a fat ti o personaggi è da ritenersi puramente casuale.

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“A volte una leggenda viene narrata e diffusa a tal punto che chiunque la conosca, benché a volte sia ignaro delle sue ori-gini, non può fare a meno di ritenerla vera. Quando ciò accade, essa non rimane più un semplice raccon-to dai contenuti incredibili, ma diventa parte della storia del mondo.”

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Tutto ebbe i nizio con la comparsa sulla terra di un dio, Treyan, che, stanco di vedere gli u mani combattersi e uccidersi fra loro per motivi futili, decise di intervenire ponendo fi ne a qualsiasi conflitto bel lico. Questa divinità, tuttavia, non è l’unic a a essere presente all’interno della leggenda. Si narra ch e egli avesse quattro figli, tre maschi e una femmina. Dei pri mi tre, Aseram e Veran erano spesso in conflitto fra loro, entrambi avevano un caratte re particolarmente competitivo che non gli permetteva di andare d’ accordo e che li portava spesso a scontrarsi l’uno con l’ altro. Delanim invece era caratterizzato da una timidezza che lo costringeva spesso a stare sulle sue, prendendo le distanze da entrambi i su oi fratelli e preferendo a essi la loro unica sorella, Lyram, la figlia fe mmina di Treyan, considerata incapa ce di manifestare sentimenti negativi. Forse era proprio questo che la portava a essere amata da tutti e tre i fratel li, benché lei fosse più legata all’ultimo. La leggenda in question e narra che la divinità s uperiore, una volta ristabilito l’ordine sul pia neta, decise di dividere le terre emerse in quattro grandi regni, ognuno dei quali sarebbe stato protetto da u no dei suoi figli e, pertanto, avrebbe preso il suo nome. Non è una c asualità quindi che il Lyram sia un regno pacifico, i cui abitanti sono caratteriz zati da un forte senso di solidarietà, mentre il confine che separa l’Aseram dal Veran è spesso sede di conflitt i che causano, giorno dop o giorno, morte e distruzione. Una situazio ne a parte è quella del Delanim, il regno dalle dimensioni più ridotte, tenuto conto che gli altri tre, seppur con form a diversa, sono estesi allo stesso modo. È ormai risaputo da tutti che al cuni abitanti di queste terre sono capaci di utilizzare l a magia. Sempre in accordo alla leggenda si dice che Treyan, resosi conto dell’ errore fatto nella divi sione territoriale, avesse cercato di farsi perdonare da Delanim concedendo ad alcuni di coloro che abitano nel suo regno le abilità magiche. Nonostante Lyram fosse d’accordo con la decisione del padre, Aseram e Veran non accolsero qu esta scelta con altrettanta benevolenza, e mostrarono diverse preoccupazioni riguardo la possibilità di concedere

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un dono potente co me la magia a normali es seri umani, incapaci di gestire poteri sim ili. Per questo motivo all’interno dei regni sot to la protezione dei due, il credo diffuso fra gli abitanti li portò a considerare la magia come un peric olo mortale e, pertanto, chiunque fosse stato sorpreso a ut ilizzare abilità di quel genere, sar ebbe stato condannato alla pena di morte. I quattro regni sono accom unati dal calendario; questo scandisce il passare del tempo, ed è stato istituito in seguito all’intervento di Treyan. Venne fatta una distinzion e fra quattro tipi di anni: quello più freddo, lungo 92 giorni, venne de finito Lunare. Esso era pr eceduto da quello Semilunare e seguito da quello Sem isolare, entrambi dalla durata di 91 giorni. A quest’ultimo seguiva quell o Solare che, come il prim o, era formato da 92 giorni. Che si tratti di una storia v era o meno, ormai sarebbe impossibile dirlo, poiché la leggenda di Treyan e dei suoi quattro figli è divenuta presto una credenza comune, destinata a cambiare non solo la per cezione del tempo e dello spazio degli abitanti dei quattro regni, ma persino le loro coscienze collettive, il loro credo e i loro obiettivi da perseguire. Anno Semilunare 1422, Giorno 66, Atrias, Regno di Aseram Ogni uomo ha un modo diverso pe r reagire alla paura e alle preoccupazioni che si trova ad affrontare durante la propria vita. Quello di Janus il Mercante, un u omo di mezz’età, era particolarmente strano. Si era creato un copione che ripeteva ogni gi orno, da quando si a lzava all’alba fino al momento in cui si metteva a letto, quando ormai la luna era alta nel cielo. Ripetendo sem pre le stesse azioni e creando quindi uno schema che, in un certo senso, co nteneva la sua vita, era convinto che nulla di negativo potesse entrare a farvi parte. E così, ogni giorno si comportava allo stesso modo e compiva gli ste ssi gesti, a prescindere dall’anno in corso e dalle condizioni del tempo. Una volta alzatosi, all’alba, dopo essersi lavato e vestito, faceva una passeggiata tran quilla per le vie del piccolo villaggio di Atrias, ancora assopito nel sonno, soffermandosi spesso a osservare le barche che si allontanavano dal porto andando a cercare fortuna nella loro pesca in mare aperto. Una volta terminato questo suo giro, andava ad aprire la propria bottega di prodotti importati dal regno di Delanim , luogo che gli aveva dato le origini. Si trattava di oggetti di ogni genere, che andavano dai più strani

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gioielli ad armi dalle forme eleganti e originali, se paragonate a quelle prodotte sul suolo di Aseram. Quando terminava il suo lavoro, che gli fruttava abbastanza monete d’oro da portarlo a essere considerato uno degli abitanti più ricchi del villaggio di Atrias, spendeva ciò che restava del pomeriggio a tagliare la legna per il fuoco o svolgendo alcune commissioni utili al suo mestiere, per poi tornare a casa dove lo attendeva sua figlia Sophia , la quale era solita fargli trovare la cena pronta. La ragazza era di una bellezza straordinaria e nel suo viso Janus poteva ancora intravedere quello di sua moglie, morta pochi anni prima a causa di una malattia che i gu aritori non erano riusciti a individua re. A differenza della madre che aveva i capelli castani e relativamente corti, lei li aveva b iondi, molto chiari, e li p ortava lunghi fin quasi alla metà della schiena. Erano gli occhi che avevano identici, az zurri e tanto chiari quanto profondi. Aveva un altro figlio, a bbastanza grande da decidere di restare a Delanim quando il resto della sua famig lia decise di trasferirsi in u n altro regno, dopo la morte della madre. Le giornate di Janus terminav ano dopo la cena quando, dopo aver scambiato poche parole con la propr ia figlia, si metteva a letto per riposarsi in attesa del giorno successivo, in cui avrebbe com piuto le stesse azioni, portando la sua vita in una dimensione diversa da quella reale, nella quale accadevano le cose peggiori che un uomo potesse trovarsi ad affrontare. Come aveva sem pre fatto, quella m attina, dopo aver terminato la propria passeggiata per le vie di Atrias, aprì la sua bottega e segnò sul calendario appeso al muro il passare di un altro giorno. Ne mancavano 25 all’inizio dell’anno Lunare, quello che lui odiava di più a causa del gelo che gli rendeva le passeggiate mattutine molto più dif ficili da affrontare. Passarono poche ore, prima che si trovasse a servire un uomo calvo, di bassa statura e visibilm ente sovrappeso, avvolto in un cappott o di pelliccia che sembrava voler ostentare, insie me all’atteggiamento di colui che lo indossava, una ricchezza sconsiderata. «Qual è il prezzo di questo gioiello?» chiese, studiando un anello d’ oro in cui era incastonato un piccolo sm eraldo, tenendolo stretto in una morsa fra l’indice e il pollice della mano destra. «Sono 35 monete d’oro, Signore! Ma voi sembrate un intenditore, per cui vi farei il prezzo speciale di 30 monete. Si tratta di un gioiello molto raro, si dice che...» L’uomo lo fermò con dei cenni della mano e iniziò a ridere in maniera scomposta, sussultando a ogni ghigno.

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«Solo 35 monete?» «Veramente vi avevo detto che...» L’uomo lo fermò con un altro cenno, contò 35 monete d’oro e le poggiò con eleganza sul bancone di legno. Jan us non si era sbagliato su di lui, era un uom o a cui piace va ostentare la propria ricchezz a e lo stava facendo. Le sue abilità da mercante non gli erano state utili in quel caso. Era una tecnic a che gli aveva insegnato suo padre, quella di gonfiare leggermente il pr ezzo degli oggetti messi in vendita, per poi ridurlo accompagnando la cosa a delle piccole ceri monie fatte al compratore, cosa che avrebbe messo quest’ultimo a proprio agio rendendolo più amichevole. Il mercante ripose il piccolo ane llo in un sacchet to di pelle e l o consegnò all’uomo che lo prese mostrando un altr o ghigno divertito, per poi allontanarsi e uscire dal negozio con fare baldanzoso. Janus allora prese le monete, aprì il cassetto dal suo lato del banc one e le posò lì. Quando rialzò lo sguardo, di fronte a lui vi erano due uomini. Indossavano entrambi un’armatura leggera e, benché nei loro volti si potessero leggere odio e rancore, non avevano una postura minacciosa. «Janus Galven?» chiese quello più secco dei due, con tono aggressivo. «Sì, sono io!» rispose l’uomo, assumendo un’espressione confusa. «Abbiamo ragione di credere che sua figlia sia capace di us are la magia. Lei dove si trova in questo momento?» «Magia? La mia Sophia?» Janus rise, più per dissimulare la paura ch e lo attanagliava in quel momento che per fare il gradasso. Sua figlia non aveva mai mostrato segni che potessero acco munarla con il mondo magico, a di fferenza di s ua moglie e suo figlio. Sapeva benissimo, tuttavia, quello che accad eva ad Aseram a chi mostrava di avere quel genere di capacità. «Sì, esatto! Ci dica dove si trova! Abbiamo qui un docum ento firmato dal generale Drekan che ci impone di prenderla in custodia.» Tirò fuori un foglio di pergamena dalla borsetta di pelle che teneva legata alla cinta e lo passò immediatamente a Janus. L’uomo impallidì, riconoscendo la firma del Generale, considerato che era già apparsa in numerosi avvisi appesi per le vie del villaggio. «Ci dev’essere un errore… mia figlia non ha mai dato motivo di…» «Non sono q uestioni che ci riguardano ! Noi svolgia mo solo il n ostro lavoro. Con le buone o...» Non terminò la frase; se mplicemente l’uomo che lo a veva accompagnato si limitò a estrarre un’ascia dalle dimensioni ridotte dal fodero che teneva legato dietro la schiena. «Permettetemi di parlare con il Generale! Gli spiegherei che mia figlia

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non ha m otivo di essere ritenuta una maga.» si difese ancora il mercante, osservando con puro terrore l’arma della guardia. Si sentì la p orta cigolare, poi un ragazzo entrò con fare disinv olto, bloccandosi confuso di fronte alle due guardie. Aveva i capelli chiari, biondi, folti ma non troppo lunghi, e gli occhi verdi che, a vederli in quel momento, si sarebbero potuti definire molto vivaci. Sul suo viso vi era un po’ di barbetta incolta, seppur abbastanza curata, che av rebbe portato chiunque a dar gli qualche anno in più di quelli che aveva realmente. «Signor… Signor Galven. » iniziò stranito, studian do i due om accioni che gli si trovavano di fronte. «La spada che mi avevi c hiesto si tr ova nello scaffale alla tua destra, prendila e vattene!» Il giovane restò sorpreso da quei modi, tuttavia decise di non contraddirlo. Intravide subito l’arma in questione, la la ma era d’acciaio e dritta, e su di essa si p otevano leggere delle inci sioni fatte in una lingua che non riuscì a decifrare. No n era trop po lunga, il ch e la rendeva maneggiabile con una m ano. L’elsa era elegante, ricoperta in pelle scura e, per questo, molto comoda. Aveva qualcosa di particolare quell’arma, sembrava emanare un’energia che la rendeva diversa dalle spade comuni. La prese e la infilò nel fodero di pelle che portava legato dietro l a schiena per mezzo di una lunga fascia, anch’ essa di pelle. Aveva un’altra spada, infoderata al fianco sinistro. «Avevo già saldato il conto, quindi...» «Vattene adesso!» alzò il tono per dirlo, Janus. Il ragazzo non si mosse, era sempre stato un tipo p articolarmente curioso, benché molto timido. Tutto in quella bottega, che aveva scoperto p ochi giorni prima, sembrava poter attirare la sua attenzione, ma in quel momento quella era rivolta ai due uom ini di fronte al merc ante, che sembravano non curarsi di lui. «Signore, va tutto bene?» Janus non fece in tem po a rispondere che l’uomo con l’ascia lo incalzò prendendo la parola per la prima volta. «Dicci dove si trova.» «Fate di me ciò che volete, ma non vi dirò mai dov’è!» Allargò le braccia in segno di resa. Un sorriso seccato acco mpagnò il gesto della guardia che, a un cenno del compagno che aveva parlato per primo, fece librare la propria arma nell’aria per poi abbatterla verso il malcapitato Janus. Questi provò a schivare il colpo bal zando all’indietro, ma il suo

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movimento risultò in parte ostacolato dallo scaffale dietro di lui, per cui finì con l’essere colpito comunque. Uno squarcio si aprì sul suo petto, in obliquo, dalla spalla sinistra fino alla parte destra del ventre e da esso iniziò a fuoriuscire una copiosa quantità di sangue. Tutto ciò venne accompagnato da un urlo, quello del giovane che, vista la scena, rimase quasi impietrito. Estrasse immediatamente la spada dal fodero accanto al fianco, era visib ilmente più vecchia di quella ch e aveva appena comprato, ma della stessa lunghezza. L ’impugnatura era più chiara e sulla lama non vi era alcun genere di incisione. Era un’arma comune. Caricò immediatamente verso la guardia disarmata, colpendola con una spallata poderosa che la mandò a cozzare contro una vetrina che andò in frantumi, lasciando l’uomo a terra esanime, fra schegge di vetr o e pietre preziose. Scattò immediatamente in piedi e ri uscì ad alzare l a spada appena in tempo per respingere un colpo d’ ascia che lo fece comunque indietreggiare. «Tu non hai idea di cosa hai appena fatto!» sibilò minaccioso il suo avversario, stringendo la propria arma con entrambe le mani. Era vero, il giovane aveva agito d’ impulso, senza riflettere. Aveva avuto paura e aveva fatto ciò che gli sembrava più opp ortuno. Non sapeva chi f osse dalla p arte della ragione, in quella bottega non conosceva nessuno, ma il modo spietato in cui avevano colpito quell’uomo non l’aveva portato a porsi delle domande. I due si studiarono, poi un altro colpo d’ascia andò a vuoto. La guardia era fisicamente superiore al ragazzo. Era molto più muscolosa di lui e più alta; a vederli in quel modo chiunque avrebbe detto che lo scontro si sarebbe risolto a suo favore. Dopo aver provato diversi affondi, che finirono solo col tagliare l’aria, l’uomo riuscì a mettere il suo avve rsario con le spalle allo stess o scaffale da cui aveva preso la sua spada nuova poco prima. «È finita.» sibilò anc ora, alzando m inaccioso la sua ascia e abbassandola con una violenza inaudita contro il rag azzo che, con un gesto rapido, scivolò alla sua sinistra. L’arma andò allora a incastrarsi nel legno e la guardia non fece nemmen o in tempo a estrarla che venne colpito da due rapidi attacchi. Il pr imo le venne inferto a una gamba, in orizzontale, e la m ise in ginocchio, i l secondo fu dritto e m irato al centro del petto. Pochi istanti dopo anche quell’uomo giaceva a terra, morto. «Rag… ragazzo.» Era l’unico a essere rimasto in piedi nella stanza, perciò capì subito che

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il mercante si riferiva a lui. «Mi chiamo Ethan.» rispose lui inginocchiandoglisi a fianco. «Sei… sei forte, lo sai? » Riuscì a esibire un sorriso sofferente, seguito da diversi co lpi di tosse che lo por tarono a espellere una quantità non indifferente di sangue. «Mi dispiace, Signore, non ho potuto fare nulla.» «Promettimi…» L’uomo chiuse gli occhi e per un attimo Ethan credette che l’avesse lasciato, poi riprese: «Promettimi che metterai in salvo mia figlia.» La vita di Ethan non era mai stata semplice, per cui quella richiesta, non conoscendo la situazione, gli suonò come qualcosa di utopico. Nei secondi successivi si rese conto del fatto che è moralmente impossibile negare un desiderio a un uomo morente. «Come? Cosa è successo?» domandò agitato, alzando lentamente il capo dell’uomo da terra. «Gaston Martel… cercalo, vi aiuterà!» «Io non capisco… aiutarci? Perché?» Ethan era sem pre più agitato, continuava a non avere idea di cosa stesse accadendo e stav a considerando di rispondere negativ amente, quando grossi lacrim oni iniziarono a uscire dagli occhi dell’uomo. «Promettilo, ti prego.» «Io...» «PROMETTILO!» Il ragazzo sospirò, poi annuì in modo quasi impercettibile. «Lo farò.» «Grazie.» L’uomo accennò a un alt ro sorriso q uando la p orta si spalancò di nuovo. Ethan estrasse i mmediatamente la spada, ma si trovò di fronte una ragazza dall’ aspetto incantevole, benchè f osse pallida e visibilmente spaventata. «Padre!» la giovane corse verso l’uomo, inginocchiandosi accanto a lui allo stesso modo in cui aveva fatto il ragazzo. Scoppiò immediatamente in lacrime. «No! NO! Io vi aiuterò padre! Lasci ate che prenda.» Janus, con quello che sembrò essere uno sforzo sovrum ano, le port ò il proprio i ndice sulle labbra, poi si voltò verso Ethan e gli disse semplicemente: «È lei!» Lui annuì, poi l’uomo si rivolse alla propria figlia: «Ti voglio bene… te ne ho sempre, sempre voluto.» Altre lacrime solcarono il viso di entram bi, mentre il ragazzo assisteva alla scena con un’espressione triste e rassegnata. Sophia baciò il padre sulla fronte, poi lui, forzand o un altro so rriso, chiuse gli occhi. Questa volta per non riaprirli più.

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Nei minuti successivi tutto ciò che si udì fu il pianto sommes so della ragazza che non riusciva a darsi pace. Fu Ethan a interromperla a un certo punto, poggiandole una mano sulla spalla. «Forse è meglio andare!» La ragazza si voltò furi osa e dopo avergli lanciato un ’occhiataccia infuocata, rispose che non avrebbe lasciato il padre lì da solo. «Fra poco arriveranno altre guardie! Dobbiamo assolutamente andare!» insistette lui, lanciando un’occhiata furtiva verso l’uscita. «DOVE?» domandò lei, cercando di calmarsi. «Conosci un certo… Gaston Martel?» Anno Semilunare 1422, Giorno 70, La fortezza di Parael, Regno di Aseram La fortezza di Parael era certamente l’edificio più grande che gli esseri umani avessero m ai costruito. Era visibile anche dai villaggi vicini e costruito su un territorio c ollinare nella parte più alt a della stessa città di Parael, la capitale del regno d i Aseram. Benché anche le abitazioni circostanti fossero i mponenti, il contra sto con la fortezza le facev a apparire di piccole dimensioni . La costruzione era a pianta quadrata, completamente fatta in pietra e dall’aspetto piuttosto cupo, attorno a essa si er gevano imponenti mura, circondate a loro volta da un fossato oltrepassabile con una barca o per mezzo di un ponte levatoio. A conferirgli un’aria più tetra erano sicuramente le voci che co rrevano riguardo le condanne che venivano eseguite al suo interno o, per rest are in tema estetico, la scelta di dare attraverso i t etti neri a spi ovente un aspetto minaccioso all’edificio. A ognuno dei quattro angoli vi era una torre e ciascuna di esse era adibita a una funzione diversa. In quella che dava a nord est vi erano le stanze delle guardie scelte dell’Im peratore, guidate dal generale Drekan. In quella a Nord Ovest vi erano invece le stanze della servitù, quindi di tutti coloro che svolgevano le loro funzioni lavorative all’interno della fortezza. Nella torre a Su d Est si trovavano le sta nze imperiali, che ospitavano l’Imperatore e i suoi familiari più strett i, mentre quella a Sud Ovest era sede dell’armeria, dell’infermeria e di altre stanze utili. Era il settant esimo giorno dell’ anno Semilunare, fuori dalla fortezza pioveva a dirotto e il vento sof fiava talmente forte da poterlo udire. Le notizie degli ultimi giorni erano da poco giunte anche lì, e nel giro di

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poche ore av rebbero stravolto le vite di tutti coloro che ne fos sero venuti a conoscenza. In particolare quella del Generale. Drekan era un uomo austero e fiero a vederlo e, a parlare con lui, non si sarebbe mai detto che si trattasse di un uomo privo di scrupoli. In realtà non era sempre stato così. Un tem po era un u omo di sani pri ncipi, rispettoso delle vite altrui, ma una serie di eventi f unesti lo portò a perdere tutto ciò che di buono c’era in l ui e a guadagnare una cicatrice che gli solcava buona parte della gua ncia sinistra, per arrivare poco sotto l’occhio. Il suo era, prim a di allora, un viso quasi perfetto, nascosto in parte solo da una lunga chiom a di cap elli, neri co me il carbone, che solitamente usava legare in una lunga coda. Aveva degli occhi talmente chiari da sembrare di ghiaccio, forte mente malinconici; era tuttavia uno di quegli uomini per cui le ragazze avrebbero fatto di tutto e, seppur quella cicatrice aves se turbato il suo aspetto, questo non era cambiato. Era risaputo, all’ interno della fortezza, che quello sfregio lo aveva ferito più psicologicamen te che nell’aspetto, e in pochi sapevano che a cambiarlo era stato ben altro. Un debole bussare alla porta della sua stanza interr uppe il suo lavoro quel giorno, visto che era intento a esaminare i rapporti presentati dalle sue guardie negli ultim i giorni. Ciò che più temeva stava per dive ntare realtà, i conflitti al confine fra Aseram e Veran stavano sfociando in qualcosa di più grosso: l’inizio di una guerra vera e propria. «Avanti.» disse, alzandosi dalla propria poltrona. Entrò una guardia, dal vol to visibilmente sfigurato da numerose ferite che sembravano essersi richiuse da poco e che, probabilm ente, si sarebbero trasformate presto in cicatrici. «Generale.» cominciò, portandosi una mano fra i capelli e assu mendo un’espressione visibilmente sconfortata. «Lei dov’è?» «Scappata, Generale!» «Come avete fatto a farvela scappare? È solo una ragazza! Che ci risulti potrebbe anche non avere il dono!» «Signore.» «COME?» urlò sbattendo un colpo p oderosissimo con entrambe le mani sulla massiccia scrivania di legno. «Un ragazzo… è intervenuto prima che potessimo rintracciarla!» «Dov’è il soldato che ho inviato con te?» «Morto, Signore.» Drekan si al zò, fece il giro della scrivania fino a trovarsi di fronte all’uomo. «Morto?»

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La guardia sbiancò all’ istante, sapeva che la pena che toccava a c oloro che fallivano nell’eseguire i suoi ordini era l a stessa di chi fosse stato trovato a utilizzare la magia. «Mi dispiace, Generale! Quel ragazzo ci ha presi alla sprovvista, ma io… datemi un’altra opportunità e li porterò entrambi da voi!» Drekan sorrise, poi senza aggiungere altro estrasse dal fodero, che stava poggiato sulla scrivania, un lungo spadone d’ acciaio. La guardia riuscì a fare appena un passo indietro e a urlare qualcosa di indistinto. Pochi istanti dopo la sua testa giaceva al suolo, a pochi metri dal suo corpo. «Non sarei riuscito a ridurre i rischi portati dalla magia in questo modo se avessi co ncesso una seconda po ssibilità a chi ha fallito.» Detto questo sollevò la testa del malcapit ato di tur no per i capelli e, guardandola negli occhi sbarrati, conc luse: «Odio i fallimenti.» Quindi aprì le dita, facendola cadere nuovamente al suolo. Quelle parole gli servivano a giustifica re le sue azioni con sé stesso, a far tacere quella parte di sé che ancora aveva una coscienza. All’inizio, facendolo, trovava serie difficoltà ad affrontare i sensi di colpa c he lo assalivano ogni volta che toglieva la vita a qualcuno. Adesso, tuttavia, quel metodo iniziava a fu nzionare, gli bastava dirsi che lo aveva fatto per una causa maggiore e tutto in lui taceva. «C’È DA PULIRE QUI!» urlò, tornando a sedersi nella sua poltrona. Un ragazzino, dall’ aspetto pulito e innocente, entrò nella stanza del Generale. Impallidì, ma non fece commenti osservando la scena raccapricciante che si trovò davanti. Gli accadeva quasi tutti i gior ni di affrontare situazioni simili, per questo ormai si recava nella stanza del Generale con un sacco di stoffa, in cui infilare le t este dei malcapitati. Era quello c he aveva f atto anche que lla volta, in religioso silenzio, senza osservare Drekan, ripulendo tutto e, una volta finito, portando fuori dalla stanza il corpo senza testa della guardia. Il Generale sbuffò, una volta sola, e si portò lentamente la mano sulla cicatrice. Dicono che nell a vita è im portante saper scegliere bene le proprie battaglie, ma in pochi sanno che più sp esso sono loro a scegliere chi le combatterà. Era quello i l suo caso, non aveva scel to lui di combattere la magia e sopprimerla. Un tempo, nonostante il credo di Aseram lo portasse ad avere un att eggiamento quantomeno dista ccato nei confronti dei maghi, avrebbe desiderato che nessuno si facess e male. Poi er a stato s celto da quella battaglia e l ui aveva dec iso di combatterla. Lui non falliva mai nel proprio obiettivo, qualunque ordine ricevesse dall’Imperatore lo portava a termine. Ma estirpare la magia da Aseram non era una cosa da poco e quello che era appena accaduto ne era un esempio.

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Bussarono nuovamente alla porta, interro mpendo il flusso dei suoi pensieri, cosa che lo portò a essere grato a chiunque fosse stato a farlo. «Avanti!» Questa volta restò seduto sulla poltrona di pelle. A fare il suo ingresso fu un uomo che indossava una tonaca grigia, compresa di cappuccio. Sotto di esso si poteva int ravedere un viso visibilmente scavato e nessun accenno di capelli, per il resto era difficile riuscire a disting uere qualcosa di definito. Era il porta voce dell’Imperatore, nessuno conosceva il suo vero nome all’interno della fortezza. «Generale, le porto alcune notizie di im portanza fondamentale. Riguardano ciò che è accaduto alla guardia che… be’…» indicò lo spadone, ancora ricoperto di sangue, adagiato sulla scrivania di fronte a lui. «Avete notizie sulla ragazza? Sapete dove si trova?» chies e Drekan raggiante, convinto finalmente di poter ricevere una buona notizia. «No, Signore, in realtà si tratta del ragazzo che ucciso la guardia!» Drekan si adagiò con la schie na alla poltrona, incrociando nervosamente le mani. Le brutte notizie che aveva ricevuto quel giorno non erano nulla in confronto a quelle che stava per ascoltare. Anno Semilunare 1422, Giorno 70, Tempio di Treyan, Regno di Lyram I canti dedic ati a Treyan erano qualc osa di speci ale. Forse p er le musiche arpeggiate che li accompagnavano, o per le parole forti da cui erano composti, riuscivano quasi a far venire i brividi a chi li ascoltava per le prim e volte. Non era questo il caso di Caleb e Garet, che si presentavano al te mpio per i ca nti del mezzogiorno quasi quotidianamente. Il primo era più grande del secondo ed era ormai un uomo, come si poteva capire dai capelli neri leggermente brizzolati ai lati e dal carattere saggio e tranquillo . Garet, dal canto suo, era un ragazzo che aveva da poco superato la maggiore età e, benché di natura fosse un tipo sregolato e vivace, l’ influenza del fratello lo teneva rigidamente sulla retta via. Si somigliavano molto al di là del colore dei capelli; avevano i lineamenti del viso molto simili l’uno con l’altro, ma soprattutto gli occhi della stessa t onalità di castano ereditati dal loro padre, venuto a mancare quando Garet era ancora un bambino. Caleb, in un certo senso, gli aveva fatto da genitore, ma a sua volta era sposato

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ed erano passati pochi giorni da quan do aveva saputo che sua moglie aspettava un ba mbino. Se c’ era una cosa che l’ uomo aveva i mparato, era che non avrebbe avuto alcun problema a prendersi cura di qualcuno, ragion per cui l’idea di diventare padre non lo preoccupava affatto. Quel giorno i due fratelli si trovavano entrambi al tempio di Treyan per pregare la divinità af finché proteggesse la gravidanz a della moglie di Caleb. Non erano soliti chiedere grazie particolari, in generale non avevano molto da chiedere in qua nto conducevano entrambi una vita agiata e tranquilla, cosa che tutta via, in un certo senso, s tava contribuendo a frustrare il carattere di Garet. «Ho saputo di vostra moglie, Caleb, pregherò af finché vada tutto bene!» esordì il sacerdote del tem pio, raggiungendo i due fra telli. Indossava una tonaca bianca, che se mbrava essere stata appena lavata, dal candore e dal profum o di lavanda che emanava. Lui era abbastanza alto e secco, sul capo gli erano ri masti pochi capelli bianchi che, tuttavia, si era ostinato a sistemare in m odo che sem brassero più di quanti fossero in realtà. Aveva la car nagione piuttosto chiara e i suoi occhi blu e scuri sembravano da soli capaci di tras mettere un forte senso di tranquillità. «Eravamo qui per fare altrettanto. Grazie, lo apprezzo davvero!» annuì, in segno d’approvazione. I tre iniziarono a camminare per i co rridoi interni del tempio e, ben presto, si trovarono nel cortiletto a cielo aperto dentro di esso. Il sacerdote fece cenno a entrambi di accomodarsi su una delle pa nchine di pietra che si alternavano a diverse colonne portanti di marmo. Garet fece come richiesto, m entre Caleb preferì restare in piedi. Fu il sacerdote a riprendere la parola: «A vete sicuramente saputo dei recenti conflitti fra i regni di Aseram e Veran, non è così?» I due risposero positivamente all’unisono, lasciando di nuovo la parola al sacerdote. «Ebbene, i due regni se mbrano ormai sul piede di guerra. Conoscet e bene il n ostro credo, vi vedo quotidianamente ai canti del mezzogiorno.» «Sì, certo che lo conosciamo, ma...» Caleb venne interrotto dal proprio fratello che terminò la domanda in maniera più diretta. «Dove volete arrivare?» «Giusto. Stiamo organizzando un’azione diplomatica, io stesso sto scegliendo coloro che far anno parte di un gruppo che partirà f ra tre giorni per muovere verso il confine fra i due regni. Speriamo di riuscire a far ragionare i due imperatori.» «E vorreste che noi vi accom pagnassimo?» chiese Caleb, visibilmente

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preso alla sprovvista. «No, non voi.» il sacerdote scosse il capo, poi ap poggiò l’indice della mano destra sul petto di Garet. «Lui!» «SI’!» esclamò il giovane, co me se gli fosse appena stata proposta l’occasione migliore della sua vita. «NO!» si oppose invece il fratello maggiore. «Garet è ancora un ragazzo, potrebbe correre seri pericoli al confine. Io non credo che...» «Caleb… davvero non ti rendi conto ? Stai trasformando Garet in qualcosa che non è! Guarda nei suoi occhi e interrogati. Ti sei mai chiesto se la vita che lo stai portando a fare è davvero quella ch e vorrebbe lui?» Caleb si voltò verso Garet sper ando che prendesse le sue d ifese, dicendo che in realtà si era trattato di scelte non forzate, ma con suo grande disappunto non fu così. «È davvero così che stanno le cose, Garet?» «Caleb, pensi davvero che io voglia passare la mia vita chiuso a casa o in questo tem pio?» si voltò verso il sac erdote e, notata la sua espressione contrariata, si corresse subito: «Certo, è una vita di tutto rispetto, ma…» «Non è quello che vuoi, non è così?» terminò suo fratello. «No, esatto… io voglio esplorare il mondo! Voglio viaggiare, vedere il mondo… per favore, lasciami andare.» Forse avrebbe potuto. F orse avrebbe dovuto . Fra n on molto avrebbe avuto un figlio, non poteva continuare a vegliare anche su Garet. Quelle parole, poi, lo scossero come non gli era mai successo. Davvero a veva impedito al suo fratellino di realizzare le proprie ambizioni? Credeva di essersi preso cura di lui nel modo migliore, ma si era appena reso conto di essersi sb agliato completamente. A volte è vero che le azioni e l e scelte peggiori derivano dalle migliori intenzioni. «Io non posso accompagnarti, devo prendermi cura di mia moglie, lo sai questo?» precisò allora, osser vando Garet con un’apprensione che non aveva mai avuto prima di allora. «Certo, ma questo non vu ol dire che non ci vedremo per anni, no?» cercò conferma posando il suo sguardo verso il sacerdote che si affrettò a rispondere: « La cosa potrebbe b enissimo risolversi in p oche settimane, se tutto va bene!» Caleb sembrò sollevato da quelle parole, in fondo poteva andare, lui si sarebbe preso cura di sua m oglie e quando il bambino fosse nato, con ogni probabilità Garet sarebbe già stato a casa. «E allora v ai, non pos so impedirtelo! Ma promettim i che farai attenzione.»

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Lo prese per entrambe le braccia e lo mise in piedi, poi lo strinse forte, come se quello fosse il loro ultimo saluto. «Ci sono ancora tre giorni!» protestò contento il ragazzo. «Bene, allora ci vedremo qui, fra tre giorni, all’alba! Caro ragazzo, ti attende l’avventura più grande della tua vita!» Appena il sacerdote si fu allontanat o, Garet notò un particolare ch e negli ultimi secondi gli era sfuggito. Cal eb stava piangendo e lo fa ceva in modo silenzioso, senza proferir parola o accennare a un singhiozzo. «Andrà tutto bene, Caleb !» lo rassicu rò lui, allo stesso modo in cui aveva sempre fatto il suo fratello maggiore. «Lo so, ma…» Non lo disse, ma quello c he pensava in quel m omento era un pe nsiero così superficiale da suonare quasi ridico lo, vista l’età di entrambi. Loro due non si erano mai separati prima di allora, avevano vissuto la loro vita fra le mura solide di Calidas, la capitale del Lyram, in cui vi era la loro casa, o al massimo nei villaggi vicini. Quella che si prospettava era una separazione lunghissi ma e, benché Garet in quel momento non sembrava curarsene, per lui era difficilissimo lasciarlo andare. «Tornerò in tempo per vedere nascere il mio nipotino!» insistette Garet, così che anche Caleb decise di ripr endere un atteggiamento tranquillo e rispose: «O la tua nipotina!» Sorrisero entrambi, poi f u il pi ù grande a chiudere definitivamente il discorso: «Adesso andiamo, devi prepa rare le tue cose per il viaggio e… Garet.» «Sì?» «Se entro un anno non sarai qui, sappi che verrò a cercarti e ti riporterò a casa!» «Ne sono certo, Caleb, ne sono certo.» Anno Semilunare 1422, Giorno 71, La fortezza di Parael, Regno di Aseram Non era di certo fa mosa per la sua bellezza Elda, la figlia dell’Imperatore. Osservandola di spa lle la si sarebbe potuta benissim o scambiare per un uomo. Questo perché, sebbene avesse avuto la fortuna di avere un viso bello come pochi nel regno di Aseram , la sua corpora-tura robusta e solida la rendeva ben poco attraente. Non che fosse parti-

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colarmente in sovrappeso, ma aveva due spalle molto larghe che la fa-cevano sembrare più una guerriera che una dama di corte. Era ancora giovane, ma l’Im peratore, con suo grand e rammarico, non era riuscito a trovare qualcuno che la volesse prendere in sposa. A dir la verità qualcuno interessato vi era stato; la figlia dell a massima autorità del regno, ovviamente, aveva moltissimi pretendenti, ma in pochi la ap-prezzavano davvero al di là del suo titolo. Lei, dal cant o suo, aveva rifiutato tutti coloro che il padre gli aveva proposto, tanto da farlo spazientire al punto che aveva deciso di abban-donare i suoi propositi. Elda era innamorata di un uomo che non avr eb-be mai ricambiato i suoi sentimenti, o al meno così credeva. Era un a-more impossibile il suo, ma soprattutto pericoloso, per questo motivo lei l’aveva trasformato in un fardello che avrebbe portato con sé, in si-lenzio, per sempre. Nessuno sapeva cosa provava e, se fosse dipeso so-lo da lei, nessuno l’avrebbe mai saputo. Aveva un modo tutto suo di sfogarsi, la giovane d onna. Ogni volta che veniva colta dalla tristezza, scende va al campo di allenamento delle guardie. Prima le guardava esercit arsi contro i manichini, poi attendeva che passassero alle esercitazioni uno contro uno così che, appena essi si allontanavano per il resto dell’addestramento, si armava di una delle armi più pesanti che riusciva a trova re. Poi iniziava a infierire su un manichino a caso, al punto da danneggiarlo in pochi minuti anche più di quanto le altre guardie avevano fatto nel corso della giornata. Aveva una muscolatura molto sviluppata e quella era una delle cause. Non le importava nulla del propri o aspetto, ma le poche volte che era stata obbligata dal padre a farsi sistemare a dovere dalle sue serve, era apparsa discretamente bella, nonostante la sua corporatura. Quel pomeriggio, comunque, dopo aver abbattuto un altro manichino, stava tornando nella sua stanza quando una serie di urla provenienti dal-lo studio di suo padre attirò la sua attenzione. «MILLE UOMINI? COSA CREDI, DREKAN? CHE UN ESERCIT O SPUNTI FUORI DAL NULLA?» Elda si avvicinò allora all a porta iniziando a ori gliare. La prima voce che sentì fu quella di Drekan. «Signore, la guerra è ormai alle porte! Non è possibile fare tutto ciò che mi ha richiesto con quell’esercito ridotto!» «SONO STANCO DREKAN! Da questo momento in poi assum o la guida dell’esercito ai confini. Se deve scoppiare una guerra, la guiderò io.» «Ma, Signore…» «Nessun “MA” Drekan! Ti avevo detto che volevo le teste di quei

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criminali su una picca! E tu non ne hai trovato nemmeno uno! UNO! E vogliamo parlare dei maghi? I TUOI UOMINI SI SONO LASCIATI SCAPPARE UNA RAGAZZA!» «È una situazione complicata, se mi lasciasse almeno…» «FUORI! E non voglio più vederti qua dentro fino a quando n on avrai adempiuto ai tuoi incarichi!» Fu allora che Elda si allontanò di scatto dalla porta, per assu mere una posizione disinteressata poco distante da ess a, accanto a una finestra dalla quale si poteva osservare la capitale in tutta la sua estensione. Pochi istanti dopo Drekan uscì e le passò accanto, salutandola con un inchino rapido, il m assimo che riuscì a fare dopo aver affrontato una discussione come quella. «Mia Signora.» «Ge… Generale.» balbettò appena lei mentre lui si allontanava. Ancora una volta, come era solito accadere ogni volta che lo guardava, la velocità dei battiti del suo cuore aumentò a dismisura. Anno Semilunare 1422, Giorno 71, Il Rifugio, Regno di Aseram Il rifugio era la sede che fungeva da abitazione per tutti i ladri che agi-vano sotto il simbolo della Volpe Bianca. Si trattava di una banda di criminali dai principi insolitamente sani e dalle capacità molto svilup-pate. Non uccidevano se ciò non era stretta mente necessario e, in gene-rale, odiavano la violenza; tuttavia nessuno, nei quatt ro regni, era capa-ce di pianificare e attuare furti come il gruppo in questione. Drekan gli dava la cacci a da anni, ma non era riuscito a fare alcun tipo di progresso fino ad allora. I membri della Volpe Bi anca, per lui e le sue guardie, erano come fantasmi. Nel tempo avevano accumulato ricchezze per decine di migliaia di mo-nete d’oro; pochi colpi ancora, pr obabilmente, e in m olti si sarebbero potuti sistemare per il resto della loro vita. Era fra le montagne che circondavano il villaggio di Atrias che si tro-vava la caverna al cui inte rno era stato allestito il Rifugio della Volpe Bianca. L’ingresso era s barrato da un grosso m asso, impossibile da spostare con la se mplice forza umana, soltanto una serie di leve e funi permettevano di farlo, benché ciò fosse possibile solo dall’interno. I criminali che co mponevano il gruppo non si facevan o mancare alcun tipo di confort, non c’era nulla che non si potessero permettere. In tutto

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erano una dozzina, non uno di più, non uno di meno e, ormai, si com-portavano come se si trattasse di una grande famiglia. Benché fosse relativamente giovane, Ethan era uno dei membri che vi facevano parte da più tempo. Sapeva una cosa con certezz a: se l’uomo che adesso era a capo del la Volpe Bianca non l’ avesse preso sotto la sua ala quando lui era ancora un bambino, adesso sarebbe sotto terra. Il padre di Ethan era un ladro, lavor ava da solo ed era considerato uno dei migliori in circolazione. Sua madre, dal canto suo, era una donna di ceto basso che tuttavia non stimava molto il modo con cui il m arito si guadagnava da vivere. Vivevano bene, l’uomo ci sapeva fare e a ogni colpo la sua famiglia di-ventava più ricca che mai. Un giorno, tuttavia, dopo aver preannunciato alla moglie che avrebbe messo a punto il suo ultimo furto, uscì di casa e non si fece più vedere. Nel giro di pochi anni tutte le ricchezze che ave-va messo da parte per la sua famiglia terminarono e Ethan, ancora bam-bino, si trovò a dover rubare per le strade, appena sua madre iniziò a manifestare i sintomi di una malattia al cuore. Morì pochi mesi dopo, lasciandolo solo. Era ancora un ragazzino, m a ci sapeva fare; ciò gli permise di sopravvivere rubando per d iversi mesi ancora. Un giorno, tuttavia, venne sorpreso da una delle guardie scelte dell’Imperatore. Fu allora c he, messo con le spalle al m uro, venne salvat o dall’intervento di un uomo. Ethan ricorda tuttora la sua lama trapassare il busto della guardia. Non avrebbe mai dimenticato come la sua at ten-zione di raga zzino venne attirata più dai capelli rossi di quell’uom o, corti e arruffati dal vento, o dalla lunga barba incolta che aveva sul vi-so, che dal sangue che gli schizzò addosso in quel momento. Il suo nome era Andres e l’ aveva salvato per un motivo ben preciso. Il ragazzo entrò a far parte del gruppo senza pensarci d ue volte, allora al suo interno vi erano solo altre tre persone oltre a lui. Gli insegnò a tirare con l ’arco, poi a combattere usando una spada e, quando fu pronto, con due. Nel giro di pochi anni Ethan aveva appreso tutto riguardo i migliori modi per evitare gli attacchi o, in altri casi, dar-sela a gambe. Lui era il figlio che Andres non aveva mai avuto e il gio-vane, col tempo, imparò a considerarlo come un padre. Ogni volta che il ragazzo tornava al rifugio, portava con sé una sacca piena di pietre preziose, monete d’oro, o qualcosa di simile. Quel gior-no, tuttavia, con lui vi era una ragazza. Atrias contava poco più di mille abitanti, non pochi per un villa ggio, certo, ma fra tutti questi Sophia era una di quelli che era impossibile non notare. Una di quelle figure che, viste una volta, non si possono e-liminare dalla mente. Camminando per strada, ad esempio, si osservano

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tantissimi volti di persone di ogni tip o, ma pochi passi dopo, ci si è già dimenticati che sembianze avessero. Alcuni, però, passano pri ma per gli occhi, poi per la mente, raggiungono il cuore e da lì non se ne vanno più, nella maggior parte dei casi per molto tempo, in alcuni per sem-pre… Ethan non aveva dimenticato il viso di quella ragazza, dalla prima volta che l’aveva vista per strada, e alla bottega la riconobbe subito, appena la vide entrare. Aveva fatto una promessa a Janus e aveva deciso di portarla a ter mine; tuttavia nei giorni successivi non riuscirono a trovare nulla che potesse ricondurli a Gaston Martel. Fu per quel motivo che Ethan decise d i portare la giovane con sé al ri-fugio, nella speranza che Andres potesse aiutarli. «Quindi questo è…?» «Non parliamo del rifugio fuori dal rifugio!» la zittì in maniera scortese quando lei provò ad avanzare quella domanda. La ragazza annuì confusa. Suo padre era un uomo onesto e, fino a pochi giorni prima, non si sarebbe mai immaginata di trovarsi ad avere a che fare con quella banda di criminali. Aveva sentito parlare della Volpe Bianca, nessuno conosceva i suoi membri, ma le loro azioni venivano esaltate in ogni angolo del villaggio di Atrias. Poi la loro fam a si era estesa al punto da raggiungere le orec-chie della gente della capitale che, a sua volta, iniziò a decantare le loro gesta. Erano ladri, ma ave vano il coraggio di andare contro un siste ma di cose che aveva costretto buona parte del popolo alla fame. Criminali, certo, ma per molti ormai erano veri e propri idoli. «Astuto come una volpe, coraggioso come un leone!» pronunciò Ethan di fronte a un m asso enorme ch e si sarebbe potuto benissimo confondere con qualsiasi altro presente in quella zona montuosa. Alle sue parole, questo iniziò a muoversi. Dietro si poteva distinguere il rumore provocato da un sistema di leve e carrucole progettato apposi-tamente. I due ragazzi allora avanzarono e superarono l’ingresso sotto lo sguardo stranito dell’uomo che gli aveva aperto il passaggio, il quale pensò bene di richiuderlo subito dopo. «Lei… lei chi è?» chiese studiando la ragazza da capo a piedi. «Vi spiegherò tutto dopo, ho bisogno di vedere Andres adesso!» Il suo amico annuì, ma preferì aggiungere immediatamente: «Sai come la pensiamo sui rapimenti, vero?» «Ma certo che lo so! Lei è… un’ospite!» Sophia li osservava confusa, era abbastanza sveglia da capire che avrebbe fatto meglio a restare fuori

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da qualsiasi discussione si fosse svolta nelle ore succes sive. Non conosceva Ethan, m a non aveva altra scelta se non quella di fi darsi ciecamente di lui all’interno di quella caverna. «Ospite, eh? Andres era preoccupato pe r te in ogni caso, lo trovi in cortile con gli altri.» «Grazie!» Il giovane annuì e fece un cenno de l capo a So phia, indicandole di seguirlo. Proseguirono quindi per un corridoio roccioso, alle cui m ura erano appese, tramite solidi ganci di fe rro, numerose torce che illu minavano l’ambiente. Poco dopo si trovarono in quella che sembrava essere una stanza enorme. Si trattava del luogo in cui dormivano, non era difficile capirlo visti i numerosi giacigli che si potevano scorgere al suo interno. Al di là di essi, quel po sto era addobbato in maniera i mpeccabile. Poltrone rivestite di stoffa, grandi specchi, tappeti in pelle d’orso bruno e candelabri d’oro creavano un co ntrasto incredibile con quello che li circondava, pareti rocciose solide che, t uttavia, davano alla stanza un aspetto cupo e tetro, benché qu esto fosse appunto alleggerito dall a presenza di quell’ arredamento elegante. Al centro di quello spazio vi era un grosso tavolo rettangolare in noce, circondato da sedie, sul quale erano riposti diversi fogli di pergamena arrotolati, a testi monianza del fatto che esso veniva usato più spesso per pianificare i loro furti che per mangiare. In un angol o della stanza vi erano div erse credenze, alcune piene di piatti e posate, altre ospitavano alim enti di ogni gene re. Poco distante da esse vi era un grosso braciere, spento in quel momento, sul quale era poggiato un grosso calderone. Il resto dell’arredamento era formato da armadi e cassettiere. Un altro breve corridoio, infine, portava all’ultima stanza della caverna, i l ba-gno. Dal lato opposto all’ ingresso di quel corridoio, invece, vi era una porta di ferro. Ethan puntò a quella e Sophia, studiando curiosamente tutto ciò che la circondava, lo seguì. L ui la aprì e la oltrepassarono, trovandosi i n un cortile circondato da rocce. Lì era stato allestito un piccolo cam po d’addestramento, vi erano manichini di diverse misure, bersagli per il tiro con l’arco e tutto ciò che potesse essere utile nell’allenamento. Erano tutti lì , quattro donne e sei uo mini che si stavano allenando nei modi più diversi. Fra loro vi era anche Andres. Un ragazzo dai c apelli castani che gli arrivavano fino alle spalle continuava a scocc are frecce contro un bersaglio circolare, colpendone sempre la parte centrale. Una ragazza dai capelli neri come il carbone e un fisico mozzafiato si stava esercitando con due pugnali contro un manichino, attaccandolo con

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precisione alle ga mbe e al le braccia, mentre il più grosso di tutti, un uomo dalla carnagione scura e dall’ aspetto monumentale, alto almeno due metri, sembrava intento a dare l ezioni agli altri su co me utilizzare le armi pesanti. I membri della banda lo chiamavano “il Macigno” viste le sue dimensioni e la sua corporatura muscolosa. Era poco agile, vista la stazza, ma quando il com battimento corpo a corpo diveniva inevita-bile, averlo dalla propria parte er a la cosa migliore che si potesse desi-derare. Tutti i presenti, in ogni caso, si voltarono immediatamente a osservare i due nuovi arrivati, o meglio, Sophia. Poi qualcuno di loro rivolse degli sguardi interrogativi a Ethan. «Iniziavo a preoccupar mi, sai?» li sorprese Andres, avvicinandosi a loro. «Ho avuto degli im previsti.» rispose il giovane, mentre l’uomo si soffermava a guardare la ragazza che era con lui. «Sì, credo tu abbia qualcosa da spiegarmi, rientriamo.» disse ai due, per poi passare a rivolgers i agli altri: «Voi continuate ad all enarvi, coraggio!» Tornarono tutti al proprio posto, come ordinato, benché nessuno di loro fosse particolarmente convinto dalla cosa. «Secondo voi quella ragazza chi è?» ch iese l’arciere dai capelli castani appena i tre scomparirono dietro la porta di ferro. «Un… ostaggio?» propose il Macigno, poggian do al suolo la g rossa alabarda di ferro con la quale si stava allenando. «Noi non facciamo ostaggi, a meno che non sia l’unica possibilità per salvarci la pelle, e questo Ethan lo sa benissimo!» si affrettò a ribattere lui, scoccando un’altra freccia in maniera disi nteressata verso il bersaglio. «Randall… se Ethan si fosse cacciato nei guai?» «Sono discorsi inutili! Non l’avete vista la sua espression e? Vi sembrava spaventata? Intimidita? Scommetto che avete guardato tutto tranne quella. Uo mini, tutti uguali!» in tervenne la ragazza con i due pugnali, per poi tornare ad accanirsi contro il manichino. Il suo nome era Irin ed era di gran lunga la pi ù attraente fra le quattro donne della Volpe Bianca. Era giovane, mostrava più o meno la stessa età di Ethan. Due delle altre donne erano più grandi, una aveva quasi la stessa età di Andres, mentre l’altra non era poi troppo più ava nzata con l’età in confronto a Irin. L’ultima rimasta era la più giovane, Alisa, aveva passato da poco la maggiore età e non aveva abilità particolari se non quelle mediche. Era la guaritrice de l gruppo e, nonostante fosse ancora giovanissima, aveva già esperienza da vendere a riguardo.

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«Magari è una nuova recluta!» propose timidamente quest’ultima, dopo aver alzato lo sguardo da un libro che stava leggendo. «No, a pelle direi di no.» rispose Irin, asciugandosi con la manica il sudore che le imperlava la fronte. «Avremo le nostre risposte, sapete come funziona, non ci sono segreti fra noi.» tagliò corto il Macigno, raccogliendo la sua alabarda da terra. «Forza uomini, torniamo ad allenarci!» Anno Semilunare 1422, Giorno 73, Tempio di Treyan, Regno di Lyram «Non stai dimenticando nulla?» si accertò Caleb, osservando le due grosse sacche di pelle del fratello. «No, sono pronto a partire.» «Garet.» «Caleb, ci rivedremo presto, stai tranquillo! Appena saremo al confine ti scriverò, promesso!» «Sei pronto per partire?» chiese il sacerdote avvicinandosi a loro. Oltre ai tre vi erano due guardie, armate di spada e scudo, e una sacerdotessa insieme a un’altra donna. «Sì, sono pronto!» «E tu, Caleb, sei pronto a lasciarlo andare?» L’uomo rispose scuotendo il capo, ma poi aggiunse piano: «Non sarò mai pronto per questo! Riportatelo a casa sano e salvo, non mi importa altro adesso!» Il sacerdote annuì, poi si rivolse nuovamente al più giovane: «La nostra nave salperà a breve, dobbiamo raggiungere il porto, vi lascio del tempo per salutarvi.» Li lasciò soli e fu allora che Caleb lo a bbracciò; nei giorni precedenti gli aveva fat to tutte le ra ccomandazioni che gli er ano passate per la mente, l’unica cosa che si sentì di dirgli in quel momento fu: «Ti voglio bene, Garet.» «Tornerò a casa presto, vedrai!» «Ti voglio bene, davvero!» disse nuovamente l’uomo. «Te ne voglio anche io!» Un altro abbraccio, poi il giovane si voltò e senza aggiungere altro iniziò a camminare. Quella era l’ultima volta che si sare bbero visti. Se lo avessero saputo, probabilmente, avrebbero scelto co munque quelle parole. Garet gli a-

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vrebbe rivelato tutti i suoi segreti, tutte le cose che per paura di deluder-lo non gli a veva mai raccontato e Caleb, dopo av erlo rimproverato, l’avrebbe perdonato e abbracciato come era solito fare. Avrebbero pian-to entrambi e si sarebbero detti qua nto importante fosse stato per l’uno poter contare sull’altro. Poi, forse, si sarebbero detti “Addio”. O magari avrebbero evitato comunque, non c’è parola più brutta di quella da dire al proprio fratello e, in ogni caso, la lor o fede in Treyan li avrebbe por-tati a credere che si sareb bero incontrati nuovamente alla fine di tutto. No, con ogni probabilità non avrebbero pronunciato quella parola. For-se, in fin dei conti, pur inconsapevolmente, avevano scelto il modo mi-gliore per salutarsi, per l’ultima volta. Anno Semilunare 1422, Giorno 74, Parael, Regno di Aseram Chiunque verrà sorpreso a essere complice di un mago, verrà condan-nato alla pena di morte. Chi in vece dovesse essere a conoscenza di in-formazioni utili alla cattura di uno di essi, verrà ricompensato con 100 monete d’oro. Dopo una serie di avvertimenti riguardo ai pericoli che avrebbe portato la magia nel regno di Aseram, quel manifesto si chiudeva così. Sotto vi era la firma dell’Imperatore stesso. Era l’ultimo di quei fogli di pergamena che Drekan doveva appendere per le vie della città. Aveva deciso di occuparsene in prima persona, cercando un modo per distrarsi da tutto quello che stava succedendo. Non aveva mai tollerato i fallimenti. Lui, tuttavia, aveva fallito. L’idea di dimettersi dal suo ruolo di generale gli era passat a per la mente in quegli ultimi giorni. Poi capì che sì, aveva perso delle battaglie, ma la guerra contro i maghi era ben distante dall’avere termine. C’era un’altra scoperta che aveva f atto e che riguar dava un artef atto magico, una spada, per l’ esattezza. Le guardie che avevano contr ollato da capo a fo ndo la botteg a di Janus, avevano trovato diversi fogli di pergamena riguardanti una spada ve nduta da quel mercante che p osse-deva abilità probabilm ente mai messe alla prova da quando era stata forgiata. Poteva essere frutto di un incantesimo particolarmente potente, o meglio, come trovarono scritto in uno di quei fogli, una possibile ma-ledizione. Il punto era che chiunque l ’avesse impugnata, se ciò f osse stato vero, sarebbe potut o diventare un pericolo per i l regno, già chia-

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mato ad affrontare la possibilità di entrare in guerra. Il problema princi-pale, tuttavia, era che a entrare in possesso di quell’arma era stato il ra-gazzo che aveva poi aiutato la giovane maga a scappare. Se Drekan a-vesse portato all’Imperatore entrambe le loro teste, forse avrebbe potuto puntare a riavere il potere di controllare le proprie truppe nel caso in cui la guerra con il regno di Veran fosse scoppiata. Per questo motivo negli ultimi giorni si era sforzato di interrogare molti abitanti di Atrias, senza tuttavia scoprire qualcosa che li riguardasse, a parte una descrizione che la guardia da lui uccisa non aveva avuto la possibilità di dare, quella di Sophia. Un fabbro gli riv elò che si trattava di una ragazza dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, ma ciò riduceva il campo in maniera molto relativa, benchè fosse pur sempre un punto di partenza. «Generale, vi stavo cercando.» Di fro nte a lui vi era il portavoce dell’Imperatore. «Cosa vuole l’ Imperatore questa volta ?» chiese lui, con un misto di sconforto e ironia. «Non si tratta dell’Imperatore, si tratta del nostro regno.» «Inizio a non seguirvi!» «Vi siete mai chiesti perché gli im peratori non prendono mai parte alle azioni militari?» «Perché spesso non sono capaci di combattere o comandare un esercito, suppongo!» «Sta scoppiando una guerra, Generale.» «La cosa non mi riguarda, guiderà lui le nostre truppe!» «Moriranno tutti, moriremo tutti, questo lo sapete?» Passarono diversi secondi di silenzio in cui Drekan sem brò soppesare ogni potenziale risposta che avrebbe potuto dargli. «E allora?» si limitò a rispondere in tono quasi provocatorio. «Dovete guidare voi l’esercito!» «L’Imperatore è stato chiaro.» «L’IMPERATORE NON HA IDEA DI COSA STIA SUCCEDENDO!» alzò il tono d ’un tratto, sorprendendolo. «Vi aiuterò a riconquistare la sua fiducia, ma sta a voi persuaderlo con le v ostre azioni.» continuò, per poi mettersi il cappuccio con fa re furtivo non appena un manipolo di guardie passò accanto a loro. «Come?» domandò ancora esasperato. «Avete tre possibilità. Portategli le teste di quei due ragazzi.» «Oppure?» «Portategli quella di chiunque sia al comando della Volpe Bianca!» Il Generale sorrise amaramente, conscio della difficoltà della cosa, poi si ricompose. «La terza quale sarebbe?»

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Il portavoce dell’Imperatore stava per allontanarsi, ma prima di farlo gli rispose con un’altra domanda: «Lo sapete che Elda è innamorata di voi, Generale?» Anno Semilunare 1422, Giorno 75, Il confine, Regno di Veran Alberius se ne stava seduto sopra un masso, poco distante dalla t enda più grande dell’ accampamento dell’esercito di Veran. Era irrequieto quella notte, visti gli avvenimenti che avevano stravolto il confine nelle ultime ore, e continuava a grattarsi nervosamente la lunga barba bianca, simbolo di una vecchiaia ormai raggiunta da te mpo. L’esercito di Ase-ram aveva provato a spin gere lontano dai propri confini quello di Ve-ran, ma si rivelò ben presto organizzato male, ragion per cui non solo venne respinto, ma subì anche un contrattacco che lo fece arretrare qua-si all’interno delle proprie terre. Era stato il conflitto più violento che si era visto al confine fino a quel momento: quello era un punto di non ri-torno, dopo quello scontro non si poteva tornare indietro. Continuava a fissare l’ingresso di quella tenda, Alberius, fino a quando non accadde ciò che atten deva. Una donna dalle curve accentuate, ma dal viso non particolarmente bello, uscì da essa, anc ora intenta a rive-stirsi completamente. Ogni notte la st essa storia, l ’anziano aspettava che il Generale giacesse con una donna sempre diversa, gli dava alcuni minuti per rivestirsi, infine lo ra ggiungeva nella sua tenda. Fosse stato per lui, raggiunta quella età, si sa rebbe tenuto il più lontano poss ibile dal confine, tuttavia l’Im peratore riponeva in esso una fiducia tale ch e non avrebbe mai voluto mettere fine ai suoi servigi. Un tempo Alberius era il Generale di Veran, il migliore che il regno avesse mai conosciuto; adesso era il consigliere fidato dell’uomo che si trovava in quella tenda: Daren Ansen, il nuovo Generale de ll’esercito, nonché l’ unico figlio dell’Imperatore del regno. Dopo aver aspettato per quasi dieci minuti, l’anziano si alzò e raggiunse la tenda in questione. «Generale Ansen! Posso?» «Certo, Alberius, accomodati!» L’uomo fece co me gli era stato perm esso, superando la tendina all’ingresso. Non si era f atto mancare niente il Ge nerale, per q uanto riguardava l’arredamento. La tenda era grandissima, fatta intera mente in stoffa e suddivisa in due grandi settori. In uno vi era un grande tavolo

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rotondo, sul quale era ste sa una cartin a ed erano st ati segnati al cuni appunti. Vi erano delle sedie, ma probabilmente non erano m olto utilizzate, dato che anche esse erano ricoperte da diversi fogli di pergamena arrotolati senza cura. Nell’altro settore vi erano una grossa cassettiera, una poltrona su cui era riposta l’armatura di ferro del Generale e un grosso giaciglio scomposto in cui, quasi sicuramente, Ansen si era dato da fare f ino a pochi minuti prima. A conferma di questo fatto, vi era l’ aspetto stesso dell’uomo. Si stava sistemando gli orli della vestaglia che aveva indossato per prep ararsi alla notte e i suoi capelli erano completamente in disordine. Non che ne avesse moltissimi, era abbastanza stempiato e la cosa non gli aveva mai creato problemi. In fin dei conti avev a pensato raramente di sposarsi o di trovare una persona che lo apprezzasse e lo amasse, poiché preferiva intrattenersi con una donna diversa ogni notte, ovunque si trovasse. Ormai si apprestava a raggiungere la mezza età, non era più giovanis-simo, ma al di là del suo aspetto di quella notte era solito mostrare un’eleganza nel vestirsi, nel muoversi e nel parlare che avrebbe conqui-stato moltissime donne, se solo lui l’avesse voluto davvero. Ansen si avvicinò al tavolo e vi si appoggiò, osservando l’anziano con fare ansioso. «Allora ci siam o.» esordì Alberius, puntando l’indice destro verso la cartina sul tavolo. «Lo sapremo domani. Devo chiederti un favore.» disse di ri mando il Generale, dopo aver preso uno dei fogli di per gamena poggiati sulle sedie e srotolandoglielo di fronte. «È quello che penso io?» «Se stai pensando a una dichiarazione di guerra, sì!» L’anziano studiò ciò che vi era s critto, era un ultim atum. Chiedeva all’Imperatore di Aseram di ritirare il suo esercito e di lasciare libere le terre che fino ad allora erano state sede dei loro conflitti. Queste sareb-bero diventate parte del Veran che avrebbe in questo modo esteso il proprio territorio, alle spese del regno nem ico. Questa era l’ unica con-dizione che avrebbe evitato una guerra. «Vuoi che la consegni al diplomatico di Aseram?» chiese, una volta terminata la lettura. «Esatto, sei l’unica persona a cui af fiderei la mia vita. Spero che nessuno in questo accam pamento venga a conoscenza di questo ultimatum prima di aver ricevuto una risposta!» «Non lo accetteranno, lo sai questo?» «Ovviamente sì! Se vogliono la guerra.»

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«Che guerra sia!» concluse Alberius, con un pizzico d’eccitazione. «Lo consegnerai?» «Parto immediatamente!» Ansen gli prese una mano, stringendola, ma poi attirò l’ anziano a sé e lo abbracci ò, come avrebbe fatto con un qualsiasi familiare. «A presto, generale!» si co ngedò poi il vecchio generale, dirigendosi al proprio cavallo che lo attendeva legato accanto alla sua tenda. Iniziò a galoppare verso l’ accampamento dell’esercito di Aseram, por-tando con sé quel foglio di pergamena che conteneva la prima dichiara-zione di guerra dall’ intervento di Treyan sulla terra. Nei giorni succes-sivi, in un modo o nell’altro, la vita di tutti coloro che vivevano nei due regni in conflitto sarebbe cambiata radicalmente. Anno Semilunare 1422, Giorno 80, Il Rifugio, Regno di Aseram Con tutti gli impegni che si trovava ad affrontare, difficil mente Andres avrebbe accettato di affrontare una situazione si mile, se non si fosse trattato di Ethan. Iniziava ad apprezzare So phia, gli piaceva moltissimo il suo carattere. Nonostante tutto quello che le era successo in quei giorni era riuscita a non demoralizzarsi, merito anche dell’atteggiamento nei suoi conf ronti del ragazzo. Era diventato particolar mente protettivo, aveva preso alla lettera la promessa fatta a Janus e, da allora, si era impegnato anima e corpo per lei. Sapeva badare a s é stessa, questo era chiaro, ma senza l’aiuto dell’uomo, nessuno dei due sarebbe riuscito a trovare una pista utile per individuare colui che cercavano. Andres aveva proibito a entrambi di lasciare il rifugio. Drekan gli s tava dando la caccia e da soli si sarebbero cacciati nei guai. Aveva fiducia nel ragazzo, ma andare in giro in cerca di informazioni l’avrebbe potuto portare su strade pericolose. Sapeva che il General e stava interrogando e torturando gente innocente, nella speranza che gli rivelasse qualcosa sulla posizione della raga zza, per questo preferì oc cuparsi della cosa personalmente. I due ragazzi, dal canto loro, passarono le prim e mattinate al rifugio a chiacchierare, riuscendo a conoscersi meglio. Poi lei gli chiese di inse-gnarle a usare una spada e motivò la sua richiesta dicendogli che nel caso in cui fosse stata attaccata, avrebbe voluto potersi difendere da so-

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la. Lui acconsentì pur sapendo che, in r ealtà, come chiunque avesse vi-sto il proprio padre morire per mano di qualcun altro, Soph ia avrebbe voluto vendicarsi con le sue stesse mani se ne aves se avuto l’opportunità. Era una fredda mattinata dell’anno Semilunare, quella. L’anno lunare era alle porte, negli ultim i giorni, infatti, piogge e temporali non si era-no fatti attendere. Avevano passato diverse ore ad al lenarsi poi, esausti, avevano deciso di prendersi una pausa. «Come li hai conosciuti?» gli chiese lei a un certo punto del disc orso, indicando con un fugace cenno del capo i ragazzi intenti ad allenarsi come di consueto. «È una lunga storia.» «Ho tutto il tempo.» lo esortò lei, inc atenando il proprio sguardo a quello del ragazzo. «Dopo la morte di mia madre, be’…» «Eri rimasto solo?» realizzò imme diatamente Sophia, ricordando che Ethan gli aveva parlato di co me suo padre era sco mparso quando era ancora un bambino. «Sì, è allora che.» «Ottime notizie, ragazzi! Ho trova to Gaston Martel!» annunciò con eccitazione Andres, spalancando la porta di ferro con veemenza e interrompendoli. Ci si era messo d’impegno negli ultimi giorni e, dopo aver battuto diverse piste sbagliate, aveva deciso di prenderla come una sfida personale e quella per lui rappresentava una vittoria meravigliosa. I due scattarono in piedi. Fu lei a parlare per prima: «Chi è?» «Dove si trova?» continuò lui. «Entrate e vi spiegherò tutto! Si gela qua fuori!» I due lo segu irono all’interno della caverna, si avvicinarono al grande tavolo, ma non si sedettero. Andres srotolò la mappa arrotolata sul tavo-lo, la osservò per diversi secondi grattandosi nervosamente la barbetta rossa che gli solcava il mento, poi indicò convinto un punto rappresen-tato sul foglio di pergamena ben distante da Parael. «Si trova qui.» si allontanò leggerm ente dalla mappa, lasciando ai due la possibilità di studiarla da vicino. «Cosa hai scoperto su di lui? » chiese Ethan posando il suo sguardo su Andres. «È un…» osservò con apprensione So phia, che in quei giorni a veva fatto moltissime ipotesi riguardo chi potesse essere in realt à Gaston Martel, l’uomo a cui su o padre aveva affidato le loro possibilità di sopravvivenza. In tutte si trattava di un uomo leale, coraggioso, magari un lontano parente disposto a fare di tutto per metterla al sicuro.

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Sarebbe rimasta delusa ne llo scoprire chi fosse real mente, l’uomo ne era certo. «Un criminale, uno della peggior specie, ma anche uno dei migliori.» Sophia deglutì, ma non di sse nulla, fu Ethan a parl are per entram bi: «Un criminale? C’è qualcosa che dovremmo sapere?» «Sì, sotto la uto compenso permette ai maghi di e ntrare e us cire da Aseram.» «IO NON SONO UNA MAGA!» esclamò seccata la ra gazza, chiudendo entrambi i pug ni e stringen doli con rabbia. Suo padre era morto per una preoccupazione infon data del Generale, Ethan si era messo nei guai per lo stesso m otivo e lei non era ne mmeno sicura di sopravvivere nei prossimi giorni. Il tutto perché Drekan temeva che lei potesse essere una maga, e si sbagliava. «Noi lo sap piamo, ma il Generale no.» commentò aspro Ethan, abbandonandosi su una sedia. «Se riuscirai a raggiungere Delanim , sarai al sicuro. Lì protegg ono i maghi, li rispettano. A prescindere dal fatto che tu non abbia davvero quel dono, nessuno ti farebbe del male!» «Potrei andare a cercare mio fratello una volta lì!» ragionò lei, trovando d’un tratto il coraggio per affrontare la cosa. «Adesso dobbiamo soltanto raggiun gere Gaston e af fidarci a lui.» concluse Ethan, tornando a osservare la mappa sul tavolo. «Posso farlo da sola! Voi mi avete già aiutato molto e io...» «Non se ne parla!» la inter ruppe il ragazzo. «Ho f atto una promessa e ho intenzione di mantenerla, ti lascerò soltanto quando sarai al sicuro!» Lei annuì, poi mormorò: «Grazie.» e passò a osservare Andres. Poi aggiunse: «a entrambi.» Non sarebbe stato facile, nulla lo era stato negli ultimi giorni, ma alme-no adesso avevano una meta da raggiungere, inconsapevoli del fatto che l’Imperatore e il generale Drekan avrebbero avuto presto questioni mol-to più importanti della loro, di cui preoccuparsi. Anno Semilunare 1422, Giorno 82, Lungomare della Speranza Non era semplice navigare durante l’ anno Lunare e, allo stesso m odo, risultava abbastanza rischioso farlo d urante la seconda parte di quello Semilunare. Per chi non l’aveva mai fatto prima la cosa risultava ancora più ostica da affrontare. Il Lungomare della Speranza era uno dei tratti

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peggiori in cui trovarsi a fare esperien ze in mare per la prim a volta. Il Lyram era una grande isola, poco lo ntana dalla vasta penisola che con-teneva i regni di Aseram e Veran. Il tratto di mare su cui stava navigan-do il gruppo diplomatico guidato dal sacerdote era particolarmente pe-ricoloso e soltanto un cap itano con ottime capacità al timone sarebbe stato capace di affrontarlo. Correnti avverse e rocce che emergevano in parti a volte talmente irrilevanti che vederle sarebbe stato quasi impos-sibile, erano soltanto alcuni dei pericoli che avevano causato la morte di tantissime persone in quelle acque, con il passare degli anni. Aveva scelto bene l’equipaggio, il sacerdote, e tutto stava andando per il meglio. Non la pensava allo stesso modo Garet, che iniziava a ri m-piangere casa sua. Non che si fo sse realmente pentito di affrontare quell’avventura, ma il mal di mare che accusava si faceva sempre più grave, al punto che aveva già rigettato in mare tutto quello che aveva mangiato negli ultimi giorni. Aveva lo sto maco sottosopra, ma, appro-fittando del fatto che non pioveva, se ne stava sul po nte della nave, se-duto, a osservare ciò che si lasciavano indietro al proprio passaggio. Aveva visto molte navi, nella maggior parte dei casi più grandi d i quel-la sulla quale si trovava in quel momento, ma questa era la prima su cui saliva, per cui non sarebbe stato capace di esprimere un parere su di es-sa, benché nelle sue piccole dimensioni sembrasse fatta in maniera qua-litativamente ottima. «Garet.» si introdusse il sacerdote, sed endosi lentamente accanto a lui. «È la prima volta che sali su un a nave?» Garet an nuì. Pensava che evitando di aprire la bocca per parlar e avrebbe evitato ad altri conati di vomito di farsi largo. «La mia prima volta in mare è st ata anche peggio, sai? » Il ragazzo l’osservava in silenzi o, distraendosi solo quando i membri dell’equipaggio correvano verso la ringhiera di legno, per vomitare in mare come aveva già fatto lui diverse volte. «Andrà meglio con l’avanzare del viaggio, stai tranquillo! Hai bi sogno di qualcosa?» Lui scosse la testa, tornando a osservarlo. Il sacerdote incrociò le mani e riprese: «Ti sarai chiesto perché ho scelto te per questo viaggio.» In realtà non era stato così, era stato talmente preso dalla trepidazione per quella nuova avventur a, dalle preoccupazioni e dalla tristezza che l’avrebbero attaccato in a ssenza di C aleb, che quella dom anda non l’aveva nemmeno scalfito. Annuì, tuttavia, con vivo interesse. «Ecco, ho se mpre apprezzato la tua capacità di s tare al tuo posto! Spesso l’hai fatto controvoglia, pe r non andare contro Caleb, ma benché Lyram, la tua casa e quel te mpio, ti siano sempre stati stretti

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addosso, non hai mai affrontato la cosa con tuo fratello.» Garet lo osservò scettico , la su a espressione in quel caso parlò benissimo per lui. «Garet, io ho bisogno di qualcuno capace di fare quello che gli chiedo, quando glielo chiedo, di parlare quando è interpellato e stare in silenzio quando l’occasione lo conviene. Mi sei sembrato la persona perfetta e sai.» si fermò per qualche secondo, si stemandosi gli orli della ton aca e regalando un po’ di suspense al suo discorso. «COSA? » il tono di voce che fuoriuscì dalla bocca del giovane fu più alto di quello che avrebb e voluto. Si portò immediatamente le mani davanti a essa, spaventato dall’ipotesi di poter rim ettere di nuovo in mare. «Ragazzo mio, potremmo dover fare delle cose che, penserai, Treyan e Lyram non apprezzeranno e potrei avere bisogno che tu ti fidi ciecamente di me e delle mie azioni, per quanto esse potrebbero sembrare errate.» Garet gli ris pose con un’espressione i nterrogativa, ma il sacerdote si alzò ponendo di fatto fine alla conversazione. Concluse con una do-manda. «E io, posso fidarmi di te? Farai quello che ti sarà chiesto, al m omento giusto?» Si rese conto di quanto stupido fosse stato fare soltanto allora quell a domanda, perciò fu molto sollevato nel vedere il ragazzo an nuire ancora una volta. «Fammi chiamare, se ti occorre qualcosa.» Detto questo si allontanò per diri gersi sotto coperta lasciando Garet sofferente, a causa del mal di mare, ad affrontare ciò che aveva appena appreso. Cosa avrebbe dovuto fare per co mpiacere il sacerdote e le due divinità in cui credeva? Anno Semilunare 1422, Giorno 83, La fortezza di Parael, Regno di Aseram Aveva deciso di non piang ere più per amore, Elda. Lo aveva fatto di-verse volte e aveva sempre finito per sentirsi stupida e debole. Lei non era così e chiunque la conoscesse lo sapeva bene. Avrebbe pot uto sop-portare qualsiasi tipo di dolore fisico, era diventata più forte della mag-gior parte degli uomini che lavoravano nella fortezza e, a volte, appari-

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va talmente fredda e distaccata da dare l’ impressione di non pote r pro-vare alcun genere di emozione. E, invece, lei si trovava a f are i conti tutti i giorni con il senti mento più brutto che vi possa esser e quando no n può giungere a un lieto fine: l’amore. Lei lo considerava così, la cosa più brutta che potesse capitar-le, ma ormai non poteva evitarla. Sperava di svegliarsi, un giorno, e di non provare più nulla per quell’uom o. A volte si alzava con dei b uoni propositi, ma poi bastava un suo saluto presso i corridoi della fortezza per farla tornare sui suoi passi. Av eva paura, credeva che non se ne sa-rebbe mai liberata. Il Generale non avrebbe m ai potuto ricambiarla, lui probabilmente non sapeva nemmeno cosa volesse d ire amare una per-sona, come lei faceva con lui, e anche se lo avesse saputo difficilmente sarebbe stato attratto da una ragazza, ormai donna, come lei. Anche quel pomeriggio, come spes so accadeva, mentre si recava nelle stanze di suo padre incontrò il Generale nei corridoi. Solitamente lei gli rivolgeva un inch ino rapido, mentre lui abbassando la testa le rispondeva co n poche parole educate, senza nemmeno fer-marsi. Allo stesso modo si salutarono in quei giorni, ma dopo aver fatto pochi passi Drekan si fermò. «Mia Signora.» Fu strano per lei, sentì il proprio cuore fermarsi per un attim o e poi iniziare immediatamente a battere a una velocità allarmante. «Sì, generale?» si voltò lentamente, cercando d i dissimulare le sensazioni che la stavano attraversando in quel momento. «Chiamatemi Drekan!» l e disse cortese, rivolgendole un sorriso rilassato. «Chiamatemi Elda!» «Non è cortese rivolgersi per nom e alla figlia dell’I mperatore! Credo sia più convenevole che continui ad appellarmi a voi chiamandovi “Mia Signora”.» «Allora credo che sia più convenevole che io continui ad appellarmi a voi chiamandovi “generale”» sorrise an che lei, lasci andogli intendere che non aveva intenzione di darsi per vinta. «Elda.» mormorò piano lui, st udiandola in viso. La figlia dell’Imperatore arrossì e se ne r ese conto, per questo cercò di sfu ggire allo sguardo di Drekan puntando il suo verso il pavimento. «Sì?» «Volevo chiedervi se fosse tutto a posto! Ormai sanno tutti benissimo cosa sta accadendo al confine ed è chiaro come ognuno all’interno della fortezza stia reagendo a proprio modo. Voi come vi sentite a riguardo?» «Be’, io...» balbettò appena, lei, ag itata come non lo era mai stata in

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vita sua. Lui , il Generale, quell ’uomo così freddo e distaccato dalle proprie emozioni, si stava davvero preoccupando per lei? «Confido nelle capacità vostre e di mio padre perché tutto si risolva per il meglio!» disse d’un fiato, ristabilendo un contatto visivo con lui. L’uomo annuì appena, poi la r assicurò: «Andrà tu tto bene! I n ostri uomini sono in numero nettamente superiore a quelli di Veran. Se la guerra dovesse scoppiare ho pochi dubbi riguardo il suo esito.» Non lo pensava davvero, anzi, negli ulti mi giorni si era ras segnato alla possibilità che quella guerra il regno di Aseram l’avrebbe persa senza nemmeno poter opporre una resistenza degna da essere considerata tale. Era vero che l’esercito del suo regno era più folto di quello nemico, ma quest’ultimo era meglio addestrato, vantava uomini fra le proprie fila le cui abilità erano conosciute in tutti e quattro i regni , mentre la stessa cosa si poteva dire soltanto di pochi me mbri dell’esercito che avrebbe guidato il padre di Elda, l’Imperatore. Forse quello era un problema an-cora più grosso, l’ esercito sarebbe stato condotto da qualcuno che non aveva alcun tipo di esperienza nel settore bellico. L’unica speranza per Aseram era inconsapevolmente riposta nello stes-so Generale e il diretto interessato se ne rendeva conto. Doveva ripren-dere in mano il suo es ercito e l’assenza di progressi per quanto riguar-dava la ricerca della giov ane maga e del suo salvatore, o di chiunque fosse a capo della Volpe Bianca, lo aveva convinto a intrattenere quella discussione con Elda quel giorno . Non era sicuro di cosa avrebbe fatto, ma voleva riprendere il comando dei suoi uom ini e se l’unico modo per farlo si fosse rivelato conquistare quella donna, l’avrebbe fatto, pur non provando nulla per lei. «Fatemi chiamare, se avete bisogno! Anche soltanto per confidarmi le vostre preoccupazioni in merito. A presto, Elda!» le rivolse un s orriso sghembo che sembrò toglierle le parole di bocca. «Drekan.» lo salutò lei, abbassan do leggermente il cap o e congedandolo. Ecco come la situazione si andava a definire: una donna inna morata che, presto, avrebbe potuto essere ricambiata dall’amore più falso che possa essere espresso e un uomo, incapace ormai di provare un s enti-mento simile, costretto a fingerlo pe r raggiungere i propri scopi. Se le cose fossero andate davvero così, ch i dei due ne avrebbe sofferto di più?

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Anno Semilunare 1422, Giorno 88, Il confine, Regno di Veran Era ormai notte inoltrata quando Albe rius irruppe nella tenda del suo Generale. Non attese, non chiese il per messo, non si curò nemmeno della possibilità che potesse coglierl o in un rappor to con una donna, come al solito. Rimase sorpreso, tuttavia, quando l o trovò in piedi, an-cora con la sua armatura addosso, a studiare la mappa poggiata sul ta-volo. Vederlo con la tenu ta da battaglia trasmetteva un certo senso di sicurezza. Teneva moltissimo alla sua spada, al punt o che la curava da solo, non affidandola a nessuno. A ve derla sembrava appena creata dal fabbro, ma in realtà quell’arma, solo negli ultimi giorni, aveva tolto la vita ad almeno dieci soldati di As eram. Sullo scudo era rappresentato un falco nero, mentre lo sfondo era dello stesso col ore con cui aveva fatto riverniciare la sua armatura: porpora. Aveva scelto quel colore ec-centrico perché voleva ch e chiunque, sul campo di battaglia, po tesse trovarlo senza problemi, che si tratta sse dei suoi uomini o di que lli ne-mici. I primi, vedendolo sempre in piedi, si sarebbero sentiti incorag-giati, mentre i secondi avrebbero temuto la sua presenza. Vantava degli ottimi uomini l’esercito di Veran, ma lui sul campo di battaglia era il migliore. Il ruolo di generale gli calzava a pennello, era anche un otti-mo stratega, secondo solo ad Alberius nel suo regno . Non era soltanto perché era il figlio dell’Imperatore che ricopriva quel ruolo, ma se l’era meritato, con anni di duro addestramento e studi sull’arte bellica. Nien-te di ciò che aveva studiato, tuttavia, l’aveva preparato a quello che sta-va per affrontare: una gue rra che avrebbe potuto ca mbiare le sorti dei due regni, o meglio, quelle del mondo intero. Nelle ultime notti era sta-to tutto il tempo a studiare quella mappa, cercando di capire che rela-zioni avessero i diversi sposta menti che compiva l’esercito di Aseram, per elaborare delle contromosse. Stava facendo lo stesso quando Albe-rius, ansimante, fece irruzione nella sua tenda. «Oh, sei tu.» lo accolse Ansen, alzando appena lo sguardo dalla cartina, per poi porlo di nuovo immediata mente su di essa. L ’anziano aveva il fiatone, quasi non riusciv a a parlare, così che il Generale lo tolse dall’incombenza di farlo. Tornò a osservarlo. «Hanno respinto le mie richieste, non è così?» Alberius annuì. «Sai, io credo che questa guerra, in realtà, sia iniziata quando è st avo versato per la prima volt a il sangue al confine, mesi fa. Credevo sarebbe stato complicato, ma osserva.»

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Entrambi passarono a guardare la mappa sul tavolo. Ansen aveva se-gnato diversi punti, scrivendo accanto a ognuno di essi una cifra e qual-che appunto. «Le mosse dell’esercito di Aseram un tempo erano molto complesse!» iniziò, indicando un punto della cartin a all’interno d el regno nemico, appena prima del confine. «Ma negli ul timi giorni sono diventate semplici, prevedibili! Se mbra che il loro esercito stia puntando ve rso il nostro accampamento, con un pessimo tentativo di sor prenderci ai lati. Manderanno una parte della cavalleria in un attacco frontale, mentre il grosso di essa, la fanteria, le catapulte e le baliste, nel frattempo, ci dovrebbero colpire ai lati.» «Il diversivo al centro, il grosso dell’ esercito ai lati? » riassunse Alberius ancora con il fiatone. «Una mossa troppo semplice! Forse Drekan ci sta sottovalutand o, o semplicemente lo stavo sopravvalutando io!» ragionò Ansen, non staccando gli occhi dalla cartina. «Perché rischiare così?» Non riuscivano a capire che cosa voles sero fare. Un attacco diretto, in campo aperto, era una mossa incred ibilmente rischiosa, che avrebbe potuto compromettere gli scontri successivi. «Non ne ho idea.» «Come proponi di respingere questo attacco? » gli chiese a ncora Alberius confuso, prendendo a grattarsi nuovamente la barba bianca. «È alla base della strategia militare, nulla di pi ù semplice!» sorrise sicuro e l’ anziano fece l o stesso. Quella guerra non sarebbe potuta iniziare in modo migliore. FINE ANTEPRIMA.Continua...