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L’AVVENTURA DELLA SOLITUDINE PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA OPERA DON GUANELLA – BARI RITIRO D’AVVENTO DICEMBRE 2012

L’avventura Della solitudine

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PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA OPERA DON GUANELLA – BARI . L’avventura Della solitudine. RITIRO D’AVVENTO DICEMBRE 2012. - PowerPoint PPT Presentation

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L’AVVENTURA DELLA SOLITUDINE

PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA

OPERA DON GUANELLA – BARI

RITIRO D’AVVENTODICEMBRE 2012

Si può infine notare che spesso i comportamenti causati dalla solitudine ci appaiono addirittura attraverso ma nifestazioni di segno contrario. Il voler stare sempre in mezzo agli altri; il non

saper dimorare, rimanere in un luogo; il divertimento come intontimento spirituale4;

4. Mi riferisco a un celebre pensiero di Blaise Pascal: “Miseria. La sola cosa che ci consola delle nostre miserie è la distrazione (divertissement), che pure è la nostra più grande miseria. Infatti proprio questo, principalmente, ci impedisce di pensare a noi stessi e ci porta inavvertitamente alla distruzione. Senza di questo saremmo nel tedio, e il tedio ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Invece la distrazione (divertissement) ci diverte, e ci fa arrivare inavver titamente alla morte” (Blaise Pascal, Pensieri 33, a cura di C. Ca rena, Einaudi, Torino 2004, p. 19).

il parlare tanto senza interrompersi per

ascoltare; la bu limia di incontri, di riunioni, di

inviti ricercati affannosamente: tutto

questo in verità nasconde «solitudini desolate e

ululanti» (Dt 32,10), come quelle del deserto. Ma c’è una solitudine, o meglio ci sono solitudini po sitive?

Canto: «Padre mio»

Padre mio, m’abbandono a Te, di me fai quello che ti piace. Grazie di ciò che fai per me, spero solamente in Te! Purché si compia il tuo volere in me e in tutti i miei fratelli. niente desidero di più: fare quello che vuoi Tu.

Rit. Dammi che Ti riconosca, dammi che Ti possa amare sempre più, dammi che Ti resti accanto. Dammi d’essere l’Amor. (2 v)

Fra le tue mani depongo la mia anima, con tutto l’amore del mio cuore, mio Dio, la dono a Te perché ti amo immensamente. Sì, ho bisogno di donarmi a Te, senza misura affidarmi alle Tue mani, perché sei il Padre mio, perché sei il Padre mio.

Le solitudini feconde

Nasciamo con una separazione dalla madre e il pri mo sentimento che proviamo è la solitudine, condizio ne che

dobbiamo assumere sempre di più, per poter giungere alla maturità, alla pienezza di vita possibile.

Si impara e si deve imparare a essere soli, a pensare da

soli, ad agire in base alla propria

coscienza e non se condo

l’omologazione dominante.

Essere soli, saper stare soli è una conquista che esige fatica, esercizio, audacia. Senza la solitudine e senza il

silenzio come si potrebbe conoscere se stessi, scavare in sé, innestare in sé con consapevolezza germi di

comunione?

Ecco dun que quelli che mi sembrano i momenti

essenziali per imparare a vivere una solitudine feconda.

In primo luogo occorre il coraggio di ritirarsi, di

fa re anacoresi, di allontanarsi dal

quotidiano, dal proprio impegno, dai propri

legami: e questo non per rinnegar li ma per

prendere una distanza da ciò che è uscito da noi, è

stato generato da noi, ma non è dentro di noi.

È un uscire dal turbinio quotidiano per fermarsi: “Siediti e và”, diceva un padre del deserto. È un

sedersi inteso come sostare, fermarsi, riposare,

dimora re, ponendo volontariamente un freno

al “sistema pla netario” di pensieri e impegni che ci

girano attorno, prendendo distanza dall’opera delle

nostre mani.

In questa condizione di solitudine ci si sente corpo e spi rito, ora e qui; nello stesso tempo, si sperimenta una sensazione di vuoto, ci si sente

spersi. Ma se si accet ta, con fatica, di ascoltarsi, di ascoltare ciò che ci cir conda, ecco che poco a poco si è immersi in uno spazio inesplorato, in una solitudine abitata da cose, da voci, perché non c’è creatura senza

voce («nihil est si ne voce» : 1 Cor 14,10).

È dopo aver accolto questa situazione di “dimora”, segnata dal restare nel silenzio e nella solitudine, che si può aprire il cuore e

scendere nelle proprie profon dità. Si sentono allora affiorare domande,

si sentono parole efficaci, che ci forniscono conoscenza e consapevolezza,

si accende in noi la responsabilità.

Così si rientra in se stessi (in se redire)5, si abita con se stessi (habitare secum)6, si esercita il linguaggio perché si cer cano e

si trovano, talvolta addirittura si inventano, parole per comunicare con sé.

5. Cfr. SENECA, La vita felice 8,4, in Id., Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bom piani, Milano 2000, p. 167; Agostino di Ippona, Discorsi 13,7, a cura di P. Belli ni, F. Cruciani e V. Tarulli, Città Nuova, Roma 1979, vol. I, pp. 238-329.

6. Cfr. PERSIO: “Abita con te stesso: saprai quanto esigua sia la tua scorta” (Te cum habita: noris quam sit tibi curta supellex: Persio, Satire, a cura di L. Canali, Mondadori, Milano 2003, pp. 3z-33. Trad. nostra). Gregorio Magno usa per ben quattro volte l’espressione habitare secum a proposito di Benedetto.

Si è resi capaci di ascolta re il silenzio,

e nel silenzio la «voce sottile» (cfr. 1

Re 19, 12) della coscienza, quanto

più distinta tanto più esercitata ed

equipaggiata al discernimento e al

giudi zio.

È in questa fase della solitudine assunta che la mu sica, la lettura, la vista

di un’immagine, la contempla zione di una

pianta o di un sasso sono eloquenti, ci pongono

domande, accennano a risposte, ci fanno fremere

di gioia, ci fanno piangere... «Beata

solitudo, so la beatitudo!», gridava Bernardo di

Clairvaux.

Sì, la so litudine può apparire come una valle che si ammanta di fiori, come un deserto che fiorisce. E qui che si spe rimenta e si

comprende la verità della promessa di Isaia: «Exsultabit solitudo» (Is 35,1).

Si entra così nel terzo momento della solitudine positiva: l’incontro, il dialogo, il bacio.

La solitudine ci appare come unicità: siamo unici e davanti a noi c’è l’altro, ci sono gli altri, con i quali intrattenere

l’esercizio dell’amore.

In questa solitudine l’amore è incontro di

volti, scambio di respiro, pensieri che danzano l’uno verso

l’altro, gioiosa sensazione dell’unione. «Oc chio contro occhio» (Is 52,8), la solitudine

diventa giar dino dell’amore.

Ma l’altro che si incontra, l’amante o

l’amato, chi è, chi può essere? L’incarnazione dell’a more o l’amore

stesso? Un volto cercato o un volto

ricordato? Dio o un essere «a sua immagine e

somiglianza» (cfr. Gen 1,26-27)?

L’Altro, oppure l’altro, oppu re gli altri? Mistero della presenza... In ogni caso, «l’a nima cessa di essere solitudine quando diviene un san tuario»

(Bernardo di Clairvaux), cioè quando contie ne una presenza e diventa dimora per l’altro. Così la cella da fornace di Babilonia diventa Santo

dei santi e la solitudine diventa un roveto ardente d’amore.

Che miracoli può fare la solitudine feconda! Boezio, arrestato e imprigionato a Pavia, in attesa della sen tenza capitale invita

nella sua cella la signora Filosofia e si mette a dialogare con lei, non per addolcire la sua sorte di condannato a morte ma per

affermare la sua gloriosa libertà: il risultato è la splendida opera La con solazione della filosofia.

Qualcosa di analogo avviene per Tommaso Moro il quale, rinchiuso nella torre di Londra, scrive il Dialogo

sulla consolazione dalle tribo lazioni.

Oscar Wilde nel carcere di Reading

Gaol com pone il De profundis, una lunga confessione in forma di lettera in cui rilegge tutta

la propria vita.

E Jean Genet, dopo una vita di passioni e vizi, una volta in carcere può scrivere: «La cella è il paradiso in cui si gusta la

dolcezza».

«Exsultabit solitudo»? Sì, per chi sa assumere la so litudine e in essa accoglie l’altro con ospitalità intellet tuale e amorosa, il

deserto esulta e fiorisce. E così può essere dato di sperimentare ciò che scriveva Michel de Montaigne:

«Bisogna riservarsi una retrobottega tutta nostra, del tutto indipendente, nella quale stabilire la nostra ve ra

libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitu dine. Là noi dobbiamo trattenerci abitualmente con noi stessi, e

tanto privatamente che nessuna conver sazione o comunicazione con altri vi trovi luogo; ivi discorrere e

ridere come se fossimo senza moglie, sen za figli e senza sostanza, senza seguito e senza servi tori, affinché, quando verrà il momento di perderli, non ci riesca nuovo il farne a meno. Noi abbiamo un’a nima capace di ripiegarsi in se

stessa; essa può farsi compagnia; ha i mezzi per assalire e per difendere; per ricevere e per donare; non dobbiamo temere di mar cire d’ozio noioso in questa solitudine»7.

7. MICHEL DE MONTAIGNE, Saggi I, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1992

Le solitudini del credente

Infine, si può dire qualche parola (audemus dicere...) anche sulla solitudine del credente in Dio. In questo rapporto c’è l’esperienza di una solitudine abitata

proprio da Dio, sicché molti credenti dalla vita

spirituale profonda hanno esclamato ed esclamano:

«Dio solo basta».

Come posso essere solo, se sono solo con Dio? «Chi ha

Dio per compagno non è mai meno solo di quando è solo»,

ha scritto Guglielmo di Saint–Thierry, nel contesto

dell’elogio della vita solitaria in cella, da lui ritenuta come

il cielo sulla terra. Altri credenti han no invece

conosciuto le tenebre della lontananza da Dio,

addirittura l’abbandono da parte di Dio, dicono di aver visto il volto muto di Dio.

Che dire, senza fare letteratura, senza appropriarsi di pensieri altrui pur di parlare della solitudine del cre dente rispetto a Dio? Osiamo,

per l’appunto, dire po co. Siamo nati in una stagione che tutti qualificano «senza Dio», perché - si dice - «Dio tace, non parla».

È proprio così? Non ne sono sicuro. So che è sempre difficile percepire la presenza di Dio fino a non sen tirci soli. So che anche

quelli che cercano Dio per tan ti anni, per tutta la loro vita, poi confessano che la vo ce di Dio è silenzio trattenuto, che Dio non lo

si fissa mai, lo si cerca ma si continua a non vederlo...

Alcu ne volte questi uomini e queste donne di Dio

attraver sano solitudini disperate, perché il deserto

invece che fecondo pare loro sterile, bruciato dalla calura: in tale situazione essi non sentono più la

presenza di Dio nean che come presenza elusiva (cfr. Is 45, 15), non sentono più

la parola di Dio come freccia, come spada che li

trafigge (cfr. Eb 4,12) .

Non si dica però che è Dio ad abbandonare

l’uomo, a giocare con lui a nascondino: è piuttosto l’insufficienza umana, il nostro venir meno nella

fede che provoca l’incapacità di discernere

la pre senza di Dio, di ascoltare la sua parola

per poi tradur la in parole umane, comunicabili.

Il credente di oggi non grida nemmeno più: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» ( Sal 22,2; cfr. Mc 15,34; Mt 27,46);

nelle ore di scoramento si sente semplicemente incapace di sostenere una relazio ne con Dio. Ora, so bene che nei salmi si

imputa a Dio silenzio, inerzia, e ci si sente autorizzati a scuoterlo:

«Fino a quando?» (Sal 6,4; 13,2-3, ); «Perché nascondi il tuo volto?» (Sal 44,25; 88,15); «Se tu re sti muto, scenderò nella fossa» (Sal

28,1). Ma in veri tà oggi, se siamo onesti, siamo divenuti incapaci di im putare a Dio ciò che dipende dalle nostre mani, dai nostri

occhi, dai nostri orecchi, dal nostro cuore.

In questo senso, la solitudine dell’uomo contemporaneo è aggravata e resa più dura da

sopportare perché egli sembra non poter neppure più

discutere con Dio, contestarlo. No, nella preghiera il credente dovrebbe ave re il coraggio di

invocare: «In te, Domine, speravi, non confundar in

aeternum» (Sal 30,2; 70, 1), di chiedere di essere risparmiato dalla prova della confusione,

dal sentire la parola di Dio come incapace di sostenerlo.

Senza questa fede animata dalla parrhesía si vive una

solitu dine che atterrisce, perché il cielo sembra chiuso e sul la terra gli altri uomini e donne, tutti incamminati ver

so la morte, non possono fare altro che andare avanti,

senza curarsi di chi viene meno per strada: e così il credente resta ancor più

solo, sul ciglio del cammino.

Il Dio che ci ha attirato nel deserto con la promessa di parlare al nostro cuore (cfr. Os 2,16) sembra incapace di incontrarci, mentre in

realtà siamo noi incapaci di ascoltare, siamo noi che manchiamo all'appuntamento. E così precipitiamo nella solitudine più profonda...

C’è una sola speranza: quella che, giunti al fondo de gli inferi, possiamo trovare Gesù Cristo il quale con le braccia aperte ci

attende per darci il bacio che tanto abbiamo desiderato; la speranza che le solitudini di morte siano vinte dall’amore che

«omnia vincit» ; la speranza che la comunione con quanti abbiamo amato non vada perduta ma risorga trasfigurata, perché an che

quando non abbiamo amato bene, abbiamo comun que cercato di amare e di non essere soli, pur in mez zo a tanti errori.

Allora forse sarà possibile cantare con le parole di Raimondo Lullo:

“Dio folle, che cos’è la solitudine?”.

Egli rispose: “Consolazione e compagnia dell’Amico e

dell’Amato”.“E che cos'è consolazione e

compagnia?”.Egli rispose: “La solitudine nel cuore dell’Amico che si

ricorda soltanto del suo Amato”.