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Le associazioni degli insegnanti italiani a Trieste e l’identità linguistico-nazionale 45 Le associazioni degli insegnanti italiani a Trieste e l’identità linguistico-nazionale alla vigilia della Prima guerra mondiale di Vittorio Caporrella Abstract ‒ The italian teachers associations in trieste: language and national identity before the World war I Language policy, schools and minority rights were essential elements of the political struggle in the Habsburg monarchy in the Early Twentieth Century. In the Austrian lands, the school system played a key role in the language policies of both the State and national movements. The teachers associations were an important element of national activism. Through the role and views of the italian teachers associations in Triest, the paper examines the relationship between Austrian constitution (1867), education, politics, social and ethnic identity. Key words: Language policy, Education, Minority rights, Austria, History, 19th-20th century Parole chiave: politica linguistica, educazione, diritti delle minoranze, Austria, storia, 19°-20° secolo «Dove c’è un maestro, là ci deve essere un combattente» e «ovunque la vostra missione vi abbia sbalestrati, siate sempre pronti all’appello e nell’imminenza del pericolo che non tarderà ad incombere su di voi, accorrete tosto; nel nome della scuola e della nazione noi vinceremo» 1 . «La scuola slava che, a guisa di cuneo mordente, s’imbietta nel tronco della nostra vita nazionale, è all’opera in parecchi punti» 2 . «È necessario destare tra il nostro popolo il sentimento nazionale assopito, quello che popoli nuovi o soverchiatori, hanno fino al fanatismo, e a ciò nessuno strumento più effi- cace della scuola» 3 . Chi leggesse le affermazioni di questi insegnanti triestini di inizio secolo, potrebbe essere erroneamente portato a considerarli come prodromi del conflitto nazionale che di lì a poco sarebbe stato trascinato nella Grande guerra. Si tratta invece di una collaudata retorica, non specifica del territorio giuliano bensì comune ad alcuni influenti gruppi di insegnanti austriaci di nazionalità diversa operanti attorno ad associazioni magistrali nazionaliste nate in Cislei- tania alla fine dell’Ottocento, come l’influente Deutsche Schulverein (1880), la Südmark (1889), la ceca Ustredni matice skolska (1880) 4 , la slovena Cirillo e Metodio (1883), La Lega degli insegnanti triestini (attiva dal 1869 con il nome di Società pedagogico-didattica poi 1 M. Pasqualis Discorso inaugurale. Atti del VI congresso della Federazione degl’insegnanti italiani della Regione Giulia, in «La Voce degli Insegnanti», a. I, n. 1 (luglio 1910), p. 2-3. 2 La conquista silenziosa, in «La Voce degli Insegnanti», a. III, n. 38 (10 giugno 1913), p. 121-122, poi pubblicato in forma sintetica sul «Piccolo» il 26 giugno 1913. 3 Appello diramato dalla Commissione per l’educazione nazionale il 25 marzo 1908, pubblicato in «Rassegna Scolasti- ca», n.s. a. I, n. 4 (maggio 1908), pp. 184-185. 4 Sul ruolo degli insegnanti nel partito dei giovani cechi vedi J. Havránek, The education of Czechs and Slovaks under foreign domination, 1850-1918, in Schooling, educational policy, and ethnic identity, a c. di J.J. Tomiak, European Science Foundation, New York NY-New York University Press , New York NY-Dartmouth Pub. Co., Aldershot, Hants, England 1991, pp. 235-261.

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Le associazioni degli insegnanti italiani a Trieste e l’identità linguistico-nazionale 45

Le associazioni degli insegnanti italiani a Trieste e l’identità linguistico-nazionale alla vigilia della Prima guerra mondiale

di Vittorio Caporrella

Abstract ‒ The italian teachers associations in trieste: language and national identity before the World war I

Language policy, schools and minority rights were essential elements of the political struggle in the Habsburg monarchy in the Early Twentieth Century. In the Austrian lands, the school system played a key role in the language policies of both the State and national movements. The teachers associations were an important element of national activism. Through the role and views of the italian teachers associations in Triest, the paper examines the relationship between Austrian constitution (1867), education, politics, social and ethnic identity.

Key words: Language policy, Education, Minority rights, Austria, History, 19th-20th centuryParole chiave: politica linguistica, educazione, diritti delle minoranze, Austria, storia, 19°-20° secolo

«Dove c’è un maestro, là ci deve essere un combattente» e «ovunque la vostra missione vi abbia sbalestrati, siate sempre pronti all’appello e nell’imminenza del pericolo che non tarderà ad incombere su di voi, accorrete tosto; nel nome della scuola e della nazione noi vinceremo»1.«La scuola slava che, a guisa di cuneo mordente, s’imbietta nel tronco della nostra vita nazionale, è all’opera in parecchi punti»2.«È necessario destare tra il nostro popolo il sentimento nazionale assopito, quello che popoli nuovi o soverchiatori, hanno fino al fanatismo, e a ciò nessuno strumento più effi-cace della scuola»3.

Chi leggesse le affermazioni di questi insegnanti triestini di inizio secolo, potrebbe essere erroneamente portato a considerarli come prodromi del conflitto nazionale che di lì a poco sarebbe stato trascinato nella Grande guerra. Si tratta invece di una collaudata retorica, non specifica del territorio giuliano bensì comune ad alcuni influenti gruppi di insegnanti austriaci di nazionalità diversa operanti attorno ad associazioni magistrali nazionaliste nate in Cislei-tania alla fine dell’Ottocento, come l’influente Deutsche Schulverein (1880), la Südmark (1889), la ceca Ustredni matice skolska (1880)4, la slovena Cirillo e Metodio (1883), La Lega degli insegnanti triestini (attiva dal 1869 con il nome di Società pedagogico-didattica poi

1 M. Pasqualis Discorso inaugurale. Atti del VI congresso della Federazione degl’insegnanti italiani della Regione Giulia, in «La Voce degli Insegnanti», a. I, n. 1 (luglio 1910), p. 2-3.

2 La conquista silenziosa, in «La Voce degli Insegnanti», a. III, n. 38 (10 giugno 1913), p. 121-122, poi pubblicato in forma sintetica sul «Piccolo» il 26 giugno 1913.

3 Appello diramato dalla Commissione per l’educazione nazionale il 25 marzo 1908, pubblicato in «Rassegna Scolasti-ca», n.s. a. I, n. 4 (maggio 1908), pp. 184-185.

4 Sul ruolo degli insegnanti nel partito dei giovani cechi vedi J. Havránek, The education of Czechs and Slovaks under foreign domination, 1850-1918, in Schooling, educational policy, and ethnic identity, a c. di J.J. Tomiak, European Science Foundation, New York NY-New York University Press , New York NY-Dartmouth Pub. Co., Aldershot, Hants, England 1991, pp. 235-261.

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mutato nel 1904) e la Federazione degli insegnanti italiani della Regione Giulia (1904-1918)5. Cionondimeno, per la loro posizione di formatori dei giovani della generazione del ’14, per il ruolo di attivisti nazionali che svolgevano in classe e fuori, per le prerogative di difen-sori della nazionalità che si auto-attribuivano, risulta significativo comprendere la partico-lare concezione di identità nazionale che gli insegnanti propugnavano. Esamineremo quanto venisse considerata fondante e imprescindibile la connessione fra lingua e identità nazionale sopra qualsiasi altra forma di appartenenza sociale, religiosa, culturale; quanto fosse ritenuto pericoloso il contatto con lingue differenti («ibridismo») o studenti della lingua «dell’altro», necessaria la creazione di spazi linguistici omogenei all’interno di un territorio plurilingue e multietnico, sbandierato il pericolo della sopravvivenza della propria identità nazionale deter-minato dalla diffusione di scuole nella lingua «dell’altro».

Tutto ciò non solo ci richiama al consueto compito di decostruire e contestualizzare il discorso ideologico nazionalista, ma ci offre anche altre possibilità: gli obiettivi pole-mici contro cui il discorso si scaglia, le battute di arresto, le incrinature tra gruppi diffe-renti, costituiscono documenti indiretti che lasciano intravedere prassi sociali e strategie familiari che sfuggono alle logiche nazionaliste e costituiscono fattori di resistenza tanto più solidi quanto più legati ad assetti e quotidiane esigenze sociali ed economiche.

Con l’avvicinarsi del 1914, al divario tra società reale e nazionalismo intellettuale, si aggiunse lo scontro tra l’attivismo degli insegnanti e i dirigenti comunali liberal-nazio-nali di Trieste, un conflitto da cui traspare il ruolo di difensori della nazionalità auto-at-tribuitosi dai docenti.

In questo contesto, alla prospettiva di un’innegabile specificità irredentista del gruppo degli insegnanti e studenti italiani6, si privilegerà un’analisi comparata con le altre nazio-nalità dell’Impero, all’interno della dinamica che Marina Cattaruzza, sulla scia di Char-les Maier, ha descritto come divario fra lo «spazio dell’identità» e «lo “spazio della decisione” (politica), ossia con quell’ambito che sembra garantire la sicurezza fisica, economica e culturale»7.

Sarà però prima necessario chiarire in premessa quale fosse lo status giuridico asse-gnato alle lingue e quali fossero le peculiarità del sistema scolastico in Cisleitania.

5 Le due società contavano centinaia di iscritti appartenenti a tutti i gradi della scuola e avevano come luogo di dibattito interno ed esterno rispettivamente i periodici «La Rassegna Scolastica» (1896-1910) e «La Voce degli Insegnanti» (1910-1916). Il primo fu l’organo prima della Società pedagogico-didattica poi Lega degli insegnanti triestini, che era stato precedu-to da altri periodici sociali e cessò la pubblicazione nel 1910, quando cominciò ad uscire «La Voce degli Insegnanti», organo della Federazione degli insegnanti italiani della Regione Giulia. Le citazioni di questo articolo provengono prevalentemente dallo spoglio di questi due mensili.

6 Riguardo alla specificità dell’irredentismo degli intellettuali formatisi nelle scuole triestine e il loro ruolo di mediatori culturali cfr. R. Lunzer, Irredenti redenti. Intellettuali giuliani del ’900, LINT, Trieste 2009; Intellettuali di frontiera: Triestini a Firenze, 1900-1950, a c. di R. Pertici, 2 voll., Olschki, Firenze 1985.

7 M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, 1866-2006, il Mulino, Bologna 2007, p. 8, a cui si rimanda anche per una ricostruzione del clima di radicalizzazione e risveglio nazionale che caratterizza il territorio giuliano tra la fine dell’Ottocento e la vigilia della Prima guerra mondiale, pp. 47-68; C.S. Maier, Consigning the Twentieth Century to History: Alternative Narratives for the Modern Era, in «American Historical Review», 105/3 (6/2000), p. 816.

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Le associazioni degli insegnanti italiani a Trieste e l’identità linguistico-nazionale 47

Lo spazio giuridico

I Länder asburgici, pur distinguendosi ognuno per una particolare situazione lingui-stica e sociale, condividevano lo stesso spazio giuridico, analoghe dinamiche politiche e il medesimo sistema scolastico su cui inscenare un conflitto nazionalista che invece, questo sì, risultava avere delle peculiarità tutte insite alla Cisleitania di fine Ottocento.

È opinione radicata in molti storici, che la radicalizzazione del conflitto linguistico in ambito scolastico avesse trovato uno spazio giuridico in cui manifestarsi proprio nell’im-postazione liberale e garantista dell’articolo 19 della Costituzione del 1867, che stabiliva non solo la libertà di uso e di istruzione nella propria lingua madre, ma anche il divieto di imporre l’insegnamento di una seconda lingua (Sprachenzwangsverbot).

Due sono le tipologie giuridiche di attribuzione dei diritti linguistici delle minoranze: «territoriale» e «personale». Con il criterio «territoriale» le norme di tutela minoritaria sono attribuite in base a una ripartizione del territorio nazionale in zone linguistiche cui venga applicato un regime giuridico differenziato. Una lingua specifica connota ciascuna zona, nei pubblici uffici delle quali deve essere usata la rispettiva lingua. Vi è dunque un regime di diglossia in cui coesistono due lingue usate però in ambiti funzionali dif-ferenti (ad esempio una lingua riconosciuta a livello formale ed una usata solo a livello familiare o di comunità).

Si parla generalmente di lingue «tradizionali» o «storiche» o del «territorio», esclu-dendo dunque quelle derivanti da fenomeni nuovi come l’immigrazione. Tale criterio viene oggi applicato ad esempio in Svizzera, Belgio (con esclusione di Bruxelles), Canada.

Quando invece l’ambito di efficacia delle norme di tutela è delimitato in base al crite-rio «personale» (in rapporto ad una certa misura che definisce minoranze diffuse in zone non contigue e in aree urbane plurilingue, come ad esempio Bruxelles), all’interno dei territori deve essere assicurata la possibilità ad ogni individuo di utilizzare la propria lin-gua nella sfera pubblica. Ciò comporta il bilinguismo dei funzionari pubblici (questione che all’epoca fu causa di grandi scontri in Cisleitania, ed in particolare in Boemia)8.

Il criterio «personale» prevede un regime di bilinguismo paritario, ma comporta che la connotazione linguistica del territorio sia potenzialmente temporanea, perché può cambiare col mutamento della composizione etno-demografica, dovuta ad esempio a fenomeni migratori come quello dei cechi a Vienna9. Tale criterio veniva adottato in Cisleitania dopo il 1867 – anno che segnò un punto di svolta nel diritto linguistico asbur-

8 M. Bellabarba, L’impero asburgico, il Mulino, Bologna 2014, pp. 179-180.9 H. Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit im osterreichischen Unterrichtswesen 1867-1918, Verlag der Os-

terreichischen Akademie der Wissenschaften, Wien 1995, p. 115.

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gico10 –, sebbene i detentori dei diritti linguistici non fossero i singoli individui come tali ma «Personengruppen» che avessero in comune la medesima nazionalità11. Il paragrafo 19 della Legge fondamentale dello Stato decretava che:

Tutte le nazionalità (Volksstamm) godono eguali diritti e ciascuna di esse ha un diritto inalienabile di conservare e sviluppare la propria nazionalità e la propria lingua. L’egua-glianza dei diritti di tutte le lingue di uso comune nelle province, nelle scuole, nell’ammi-nistrazione e nella vita pubblica è riconosciuta dallo Stato. Nelle province abitate da più nazionalità, l’istruzione pubblica deve essere organizzata in modo tale che ciascuno di questi popoli riceva le necessarie facilitazioni per l’istruzione nella propria lingua, senza essere costretto ad apprenderne una seconda.

Non si può parlare di criterio «personale» in modo generico senza analizzare gli specifici diritti linguistici concretamente attribuiti agli individui. Sulla scia di Beer12 li possiamo schematizzare in cinque gradi: a) parlare la propria lingua; b) essere compresi nella propria lingua dalle istituzioni pubbliche; c) essere educati nella propria lingua (lingua materna come lingua d’insegnamento); d) non essere costretti ad imparare una seconda lingua; e) ottenere il riconoscimento di un’identità etnica su base linguistica.

La Costituzione del 1867 garantiva tutti questi postulati tranne l’ultimo, perché il criterio delle rilevazioni statistiche della lingua era quello di «lingua d’uso» (Umgangs-sprache) e non di lingua madre13. Il punto d) era soddisfatto dal famoso principio dello Sprachenzwangsverbot: «Non coercibilità dell’apprendimento di una lingua diversa da quella madre». Il principio fu fortemente voluto dagli austro-tedeschi di Boemia contro l’insegnamento obbligatorio del ceco14, aprendo un mai risolto conflitto che ebbe con-seguenze giuridico-politiche di grandissimo rilievo per tutta la Cisleitania fino al 1914.

Nei Länder con due comunità linguistiche rilevanti, era evidente la contraddizione tra il principio di non coercibilità e il diritto ad essere compresi nella propria lingua dalle istituzioni pubbliche, che invece obbligava i funzionari a imparare la seconda lingua del territorio. Le ordinanze Badeni del 1897 avevano questo scopo e introdussero lo statuto

10 Per un’analisi sugli effetti politici cfr. T. Wallnig, Language and power in the Habsburg empire: The historical context, in Diglossia and power language policies and practice in the 19th century Habsburg Empire, a. c. di R. Rindler Schjerve, Mouton de Gruyter, Berlin-New York 2003, pp. 15-32. Per un quadro d’insieme sulla storia scolastica nell’Impero vedi H. Engelbrecht, Geschichte des osterreichischen Bildungswesens: Erziehung und Unterricht auf dem Boden Österreichs, bd. 4, Von 1848 bis zum Ende der Monarchie, Osterreichischer Bundesverlag, Wien 1986. Per una ricostruzione completa e dettagliata fino alla Prima guerra mondiale cfr. H. Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit, cit.; per un’analisi comparativa rispetto al diritto linguistico cfr. L. Le Borgne, Les droits linguistiques à l’école et dans l’administration de l’Autriche-Hongrie entre 1867 et 1914, in Langue et droit: Actes du Premier Congrès de l’Institut international de droit lin-guistique comparé, 27-29 avril 1988, Université du Québec à Montréal, a c. di P. Pupier et al., Institut international de droit linguistique comparé, Wilson & Lafleur, Montréal 1989, pp. 325-341; per una ricostruzione relativa alla città di Trieste e ai territori giuliani cfr. D. Bonamore, Disciplina giuridica delle istituzioni scolastiche a Trieste e Gorizia, Giuffrè, Milano 1979.

11 G. Stourzh, Die Gleichberechtigung der Nationalitäten in der Verfassung und Verwaltung Österreichs, 1848-1918, Verlag der Osterr. Akad. d. Wiss., Wien 1985, p. 191.

12 W.R. Beer, J.E. Jacob, Language policy and national unity, N. J. Rowman & Allanheld, Totowa 1985, p. 165.13 E. Brix, Die Umgangssprachen in Altosterreich zwischen Agitation und Assimilation: die Sprachenstatistik in den

zisleithanischen Volkszählungen, 1880 bis 1910, Böhlau, Wien 1982, pp. 182-223; P.M. Judson, Guardians of the Nation: Activists on the Language Frontiers of Imperial Austria, Harvard University Press, Harvard 2006, p. 14 e 27.

14 G. Stourzh, Die Gleichberechtigung der Nationalitäten, cit., pp. 53-56.

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bilingue delle amministrazioni in Boemia e in Moravia15: esse non solo scatenarono la protesta degli austro-tedeschi, ma ebbero dirompenti effetti secondari in tutte le province della Cisleitania, rimettendo in questione gli equilibri politico-etnici locali anche per i territori italiani16.

L’introduzione dei principi di Sprachenrecht, Sprachengerechtikeit e soprattutto lo Sprachenzwangsverbot aprì uno spazio giuridico molto ampio alle rivendicazioni lin-guistiche, spostando il conflitto nazionale proprio sull’insegnamento e aprendo la strada a continui ricorsi alla Corte suprema (Reichsgerichtshof) e ai tribunali amministrativi (Verwaltungsgerichtshof), trasformando l’ambito giudiziario nello scenario delle riven-dicazioni nazionali17 in cui singoli gruppi linguistici a livello locale divenivano deten-tori del diritto18. Le élite locali nazionaliste trovavano così nella battaglia scolastica uno spazio di competizione e autolegittimazione dove, come faceva notare Apih, l’idea di nazione era «scaduta a concezione territoriale e municipale»19.

Le lingue e le scuole

Numerosi studi, di cui questo lavoro è debitore, hanno già ricostruito le peculiarità del sistema scolastico triestino20 che, come in altre realtà asburgiche, era formato da scuole statali (generalmente con lingua d’insegnamento tedesca), scuole comunali finan-ziate direttamente dai municipi (generalmente con lingua d’insegnamento della maggio-ranza linguistica che amministrava il territorio), scuole di società nazionali specifiche (quali la Pro Patria – dopo il 1890 Lega Nazionale21 – o la slovena Cirillo e Metodio). La realtà triestina e giuliana esprimeva pienamente questa complessità sia a livello di scuole

15 Cfr. B. Sutter, Die Badenischen Sprachenverordnungen von 1897; ihre Genesis und ihre Auswirkungen vornehm-lich auf die innerosterreichischen Alpenländer, H. Böhlaus Nachf., Graz 1960; H. Burger, H. Wohnout, Eine «polnische Schufterei»? Die Badenischen Sprachverordnungen für Bohmen und Mähren 1897, in Politische Affären und Skandale in Österreich. Von Mayerling bis Waldheim, a c. di M. Gehler e H. Sickinger, Thaur 1995, S.79-98; H. Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit, cit., pp. 161-167; N.M. Wingfield, Flag Wars and Stone Saints: how the Bohemian Lands became Czech, Harvard University Press, Cambridge MA. 2007, pp. 48-78.

16 M. Cattaruzza, I conflitti nazionali a Trieste nell’ambito della questione nazionale nell’Impero asburgico: 1850-1914, in «Quaderni giuliani di storia», a. X, 1 (1989), pp. 131-134.

17 H. Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit cit., p. 13.18 G. Stourzh, Die Gleichberechtigung der Nationalitäten cit., pp. 189-199.19 E. Apih, Trieste, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 89.20 D. De Rosa, Libro di scorno, libro d’onore: la scuola elementare triestina durante l’amministrazione austriaca (1761-

1918), Del Bianco, Udine 1991; A. Andri, G. Mellinato, Scuola e confine. Le istituzioni educative della Venezia Giulia 1915-1945, Irsml FVG, Trieste 1994; Id., La scuola giuliana e friulana tra Austria ed Italia, in Friuli e Venezia Giulia. Storia del ’900, Irsml FVG, Libreria editrice Goriziana, Gorizia 1997, pp. 205-217; U. Cova, Istituzioni scolastiche in Austria e a Trieste da Maria Teresa al 1918, in La lavagna nera. Le fonti per la storia dell’istruzione nel Friuli-Venezia Giulia, atti del convegno, Trieste-Udine, 24-25 novembre 1995, a c. di G. Tatò, Archivio di Stato di Trieste, Trieste 1996, pp. 61-84; L. Della Venezia Sala, La scuola triestina dall’Austria all’Italia, in Il movimento nazionale a Trieste nella Prima guerra mondiale, a c. di G. Cervani, Del Bianco, Udine 1968, pp. 79-156; D. De Rosa, La formazione e il ruolo del maestro nella scuola triestina dell’Ottocento, in «Quaderni giuliani di storia», XXI (1) (2000), pp. 23-41; Ead., Piazza Lipsia n. 1015: gli studi nautici nell’Accademia reale e di nautica di Trieste, Del Bianco, Udine 2008.

21 Cfr. F. Salimbeni, La Monarchia austroungarica tra irredentismi e nazionalismi. L’azione della Lega nazionale ai confini italici, in «Quaderni giuliani di storia», XV, 1, 1994, pp. 101-121.

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elementari che di scuole medie, rappresentando un elemento di dibattito e di studio non solo locale22.

Gli istituti si differenziavano poi sotto il profilo della tutela «personale» dei diritti linguistici in base a tre differenti sistemi: a) Il diritto a studiare la propria lingua madre, ad esempio: lingua d’insegnamento tedesca e lingua madre come L2, da 2 a 4 ore di lezione. A Trieste era il sistema generalmente adottato nelle scuole popolari statali (Volksschulen); b) diritto a studiare nella propria lingua: la lingua di insegnamento in questo caso coincide con la lingua madre dell’alunno, mentre la lingua veicolare viene insegnata come materia L2. Era il sistema adottato nelle scuole popolari comunali a Trie-ste (insegnamento in lingua italiana); c) un sistema misto: due gruppi distinti di materie insegnate in due lingue diverse. Fu in vigore per un certo periodo di tempo negli isti-tuti magistrali di Capodistria e di Gorizia, che appartenevano al gruppo delle così dette scuole «utraquiste» che ‒ a partire al 1870 ‒ conobbero una drastica contrazione23 proprio grazie all’uso nazionalista dell’articolo 19 che consentì di costituire istituti monolingui al posto di quelli bilingui, creando dunque le condizioni per fare delle scuole uno spazio etnicamente determinato anziché un’istituzione dove si incontravano le diverse culture presenti sul territorio24.

Il primo dei tre sistemi, riconoscendo solo il diritto a studiare la (e non nella) propria lingua madre, produce scuole dove la lingua d’insegnamento è quella della maggioranza o quella veicolare. Le minoranze hanno diritto a studiare la propria lingua come L2, ovvero come una delle materie. Questo sistema corrispondeva ad una concezione che individuava nel tedesco la lingua veicolare dello Stato (in quanto trading-language e Amtssprache a livello centrale) e attribuiva alla seconda lingua un ambito locale e/o familiare, sancendo uno status asimmetrico e attribuendo diversi ambiti d’uso ai due codici linguistici che erano trattati secondo lo statuto della diglossia25, ma favorendo il bilinguismo delle minoranze, obbligandole ad imparare la lingua veicolare dello Stato.

Il sistema produce un Transitional bilingualism, ovvero un bilinguismo orientato a compensare il deficit socio-linguistico dei giovani della minoranze rispetto alla maggio-ranza, ma può determinare fenomeni di indebolimento culturale delle minoranze lingui-stiche rispetto alla lingua dominante.

È proprio per compensare quel deficit che molte famiglie italiane di Trieste (ad esem-pio gli Stuparich)26 iscrivevano i propri figli alle elementari tedesche o che le famiglie

22 Oltre ai testi già citati, cfr. M. Raicich, La scuola triestina tra «La Voce» e Gentile. 1910-1925, [1983], in Id. Di grammatica in retorica, Id., Archivio Guido Izzi, Roma 1996, pp. 299-345; Id., Storie di scuola da un’Italia lontana, a c. di S. Soldani, Archivio Guido Izzi, Roma 2005.

23 Per le sole scuole popolari la percentuale di scuole utraquiste passò dal 9% 1870 al 1,1% del 1912. Cfr. H. Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit cit., p. 246; G. Stourzh, Die Gleichberechtigung der Nationalitäten cit., pp. 178-183.

24 H. Engelbrecht, Geschichte des osterreichischen Bildungswesen cit., vol. 4, p. 268.25 R. Rindler Schjerve, Introduction, in Diglossia and power cit., p. 1; J.A. Laponce, Languages and Their Territories,

University of Toronto Press, Toronto 1987, p. 199.26 Si veda il racconto autobiografico di Giani Stuparich, Cuore adolescente. Trieste nei miei ricordi, Editori riuniti, Roma

1984, p. 24. Su Giani e Carlo Stuparich cfr. V. Frosini, La famiglia Stuparich: saggi critici, Del Bianco, Udine 1991; F. Todero, Carlo e Giani Stuparich: itinerari della Grande guerra sulle tracce di due volontari triestini, LINT, Trieste 1997; R. Lunzer, Irredenti redenti, cit.; S. Arosio, Scrittori di frontiera: Scipio Slataper, Giani e Carlo Stuparich, Guerini, Milano 1996.

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italiane del Ginnasio di Gorizia reclamavano l’insegnamento dello sloveno27. Ed è pro-prio contro tali strategie familiari (definite «utilitaristiche») che si scagliavano gli inse-gnanti della Federazione della Venezia Giulia e della Lega triestina.

L’accusa, avanzata attraverso le pagine dei periodici sociali delle associazioni degli insegnanti, aveva come bandiera il termine «ibridismo»28. L’idea di fondo era che l’ibri-dismo deformasse l’intero equilibrio psichico del bambino, minandone l’unità del carat-tere nazionale. Le citazioni in proposito sono numerosissime. I ragazzi che studiavano nella scuola tedesca erano abbandonati

alle strette di un torchio dal quale usciranno con l’anima compressa: non potranno diven-tare in tutto alemanni, perché la scuola non ha tale forza da disseccare il succhio della natura alimentato dal suolo, ma certo lo schietto tipo nazionale svanirà nell’indetermina-tezza dei contorni, in due figure miste, in una faccia, ove son due perduti. [Mentre invece l’istruzione ha il compito di] svolgere i germi della pianta umana con razionale coltiva-zione, non inaridirli con esotici innesti29.

All’inizio di ogni anno scolastico, la Società degli studenti triestini pubblicava sui maggiori quotidiani un proclama rivolto ai genitori che intendevano iscrivere i figli ad una scuola statale in lingua tedesca anziché alla comunale italiana:

Sottraendoli ad una educazione nazionale voi getterete i figli vostri preda di un’angoscia e d’un martirio che non ànno uguali: pensate che la nuova radice intrusa nella mente che voi italianamente cresceste ed educaste si apprenderebbe alla nobilissima radice nostra per corromperla e disseccarla con immenso danno per i figli vostri30.

Quella contro l’ibridismo veniva presentata come una lotta nobilissima «perché nella purezza e nella perfezione individuale essa vuole vinta e si affermi la purezza e la perfe-zione di tutta la nazione nostra»31, laddove invece il bilinguismo non generava altro che dei «bastardi intellettuali»32 e contemporaneamente era prova della suicida volontà di chi era dedito all’«autoimbastardimento»33. Ibrido e bastardo sono qui usati come sinonimi per indicare la perdita della purezza della stirpe causata dall’apprendimento precoce di un’altra lingua.

Non si tratta di una specificità degli insegnanti triestini, bensì di una convinzione e di una retorica comuni a tutte le associazioni magistrali della Cisleitania e in generale ai partiti nazionalisti. A solo titolo di esempio, in Boemia venivano esercitate grandi

27 V. Caporrella, Scuola, diritto linguistico e identità nazionale. Il caso del ginnasio di Gorizia, 1910-1912, in Trento e Trieste: percorsi degli italiani d’Austria dal ’48 all’annessione: atti del Convegno, Rovereto, 1, 2, 3 dicembre 2011, a. c. di F. Rasera, Accademia Roveretana degli Agiati, Osiride, Rovereto 2014, pp. 259-283.

28 Il termine derivava da una metafora biologica negativa, perché si riteneva che gli ibridi vegetali e animali non potes-sero generare.

29 [C.], Vigiliamo, in «Rassegna scolastica», a. IX (1 novembre 1904), pp. 1-4.30 Società degli studenti triestini, Per l’istruzione nella lingua materna, in «Rassegna scolastica», nuova serie a. V (ot-

tobre 1908), p. 208. 31 Appello ai genitori italiani, in «L’Indipendente», 11 agosto 1908.32 Per l’istruzione nella lingua materna, in «Rassegna Scolastica», nuova serie a. I, n. 5 (ottobre 1908), p. 207.33 F. Pasini, Per Gorizia e altre terre italiane, in «La Voce degli Insegnanti», a. II, n. 21 (1-15 marzo 1912), p. 80.

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pressioni sui genitori perché iscrivessero i figli alle elementari ceche anziché tedesche34, denunciando l’arbitrio di genitori insensati («der Willkür unvernünftiger Eltern») che costringevano i figli a pratiche contro natura («wiedernatürlich»)35.

In Moravia, al fine di impedire l’iscrizione a scuole diverse dalla lingua madre dell’a-lunno, nel 1905 venne approvata la cosiddetta Lex Perek in base alla quale l’iscrizione a una scuola in una determinata lingua doveva essere subordinata alla effettiva capacità dell’alunno di padroneggiarla36.

Nonostante ciò, le analisi delle iscrizioni dimostrano in tutti i Länder una costante resistenza delle famiglie che non si lasciavano condizionare dalle considerazioni nazio-naliste, ma optavano in favore di soluzioni scolastiche che garantissero il bilinguismo dei figli. Si trattava di una resistenza ampiamente documentata in tutti i Länder, in par-ticolare nei territori rurali ma anche tra i ceti medi37. I reiterati tentativi di imporre alle famiglie l’insegnamento nella lingua madre quando questa coincidesse con la lingua del territorio, naufragavano poi contro il parere dei tribunali, come nel caso della Volks-schule di Roiano. Si trattava di una scuola con lingua di insegnamento slovena e l’italiano come seconda lingua. Nel 1886 il Comune di Trieste ricorse al tribunale amministrativo (Verwaltungsgerichtshof) contro l’introduzione del tedesco quale materia obbligatoria a partire dalla III classe, in quanto il tedesco non era una Landessprache del territorio e quindi non poteva essere introdotto accanto all’italiano come materia obbligatoria. La corte respinse il ricorso: «l’introduzione del tedesco quale materia d’insegnamento per i ragazzi frequentanti le scuole del luogo è stata espressamente richiesta dagli abitanti di Roiano»38, la libera scelta dei genitori evitava un conflitto con lo Sprachenzwangsverbot costituzionale. La sentenza ricalcava, estendendolo, il parere espresso in altri luoghi dell’Impero39.

Lo spazio scolastico

La «Rassegna scolastica» (1896-1910) – il periodico sociale della Società pedagogica poi Lega degli insegnanti triestini – a proposito del bilinguismo, parla di germi che ven-gono innestati nella pianta umana40, secondo una diffusa convinzione in base alla quale

34 H. Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit, cit., pp. 93-94.35 Die Verhaltnisse an den offentlichen Prager deutschen Volks- und Bürgerschulen und Vorschlege zu deren Verbesse-

rung, Prag, 1895, 1ff.36 T. Zahra, Kidnapped souls: national indifference and the battle for children in the bohemian lands, Cornell University

Press, Ithaca 2011, pp. 33-48; H. Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit, cit., pp. 193-194.37 P.M. Judson, Guardians of the Nation, cit., pp. 41-42; T. Zahra, Reclaiming Children for the Nation: Germanization,

National Ascription, and Democracy in the Bohemian Lands, 1990-1945, in «Central European History», 37, 4, dicembre 2004, p. 507; V. Caporrella, A Trieste tra Otto e Novecento: tra casa e scuola in luogo di confine, in Famiglia e nazione nel lungo Ottocento italiano: modelli, strategie, reti di relazioni, a c. di I. Porciani, Viella, Roma 2006, pp. 189-216. Per le mol-teplici e diversificate scelte dei genitori nel caso della scuola di Barcola vedi A. Dessardo, Dentro e fuori d’Italia. Processi di nazionalizzazione e prima guerra mondiale in due scuole di Trieste, in «Percorsi Storici», 2, 2014.

38 Allgemeines Verwaltungsarchiv, Bestand Verwaltungsgerichtshof, II/62, 1886.39 Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit cit., p. 114 n. 135.40 [C.], Vigiliamo, in «Rassegna scolastica», a. IX, n. 1 (novembre 1904), pp. 1-4.

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lo studio generalizzato della lingua dell’altro (in questo caso lo sloveno) «sarebbe un germe di corruzione. E questo germe non ha da essere coltivato nella scuola»41. L’idea di «infezione» si estende poi dall’ambito individuale all’edificio scolastico per giungere infine all’intero territorio, dove il germe introdotto nello scolaro innescava un’epidemia inarrestabile42.

Il primo stadio di questa critica si concentrava sulle scuole che ospitavano sezioni parallele con lingua di insegnamento differente, come ad esempio le Magistrali di Capo-distria che avevano una funzione considerata «vitale»: preparare gli insegnanti per le scuole popolari di tutta l’Istria. Il presidente della Federazione denunciava come durante le ore d’istruzione comuni le tre sezioni (italiana, slovena e tedesca) fossero riunite nella stessa aula scolastica «tanto per affratellare gli alunni ed assopire in loro ogni sentimento nazionale!». Da qui la necessità di «separare del tutto le sezioni italiane e slovene», poi-ché tali istituti multietnici «imbastardiscono la scuola e cercano di imbastardire i maestri che poi insegneranno in cento altre scuole»43.

La stessa denuncia avveniva per il Ginnasio di Gorizia, dove l’impegno della Fede-razione riuscì prima a far aprire sezioni italiane (ma anche slovene) nello Staatsgymna-sium (1910), e dove la Federazione richiese che «le parallele slovene venissero trasfe-rite fuori di Gorizia, in luogo sloveno, nazionalmente chiuso»44. In questo contesto, fu incomprensibile per gli insegnanti della Federazione il fatto che i genitori italiani del Ginnasio nel 1911 avessero richiesto l’insegnamento obbligatorio dello sloveno per i propri figli, innescando uno dei più interessanti dibattiti su lingua nazionale e bilingui-smo che coinvolse i maggiori uomini di scuola e di cultura del tempo45.

Sarebbe assolutamente fuorviante interpretare tali posizioni contro il «contatto» tra studenti di diversa nazionalità come specifiche del nazionalismo degli insegnanti italiani: si trattava invece di dibattiti comuni ai territori plurilingue della Cisleitania e capaci di avere riflessi politici nazionali, come quando nel 1895 il governo Windischgrätz cadde per aver finanziato l’apertura di classi parallele slovene nello Staatsgymnasium tedesco di Cilli (Celje)46. La lotta contro gli istituti con sezioni parallele e contro quelli «utraqui-sti» era generalizzata a tutte le associazioni insegnanti della Cisleitania. Nato per tutelare le minoranze, il sistema delle cosiddette «Minoritätsschule», si trasformò presto nella rivendicazione di «Nationalitätenschule» linguisticamente omogenee47.

Gli edifici scolastici divennero non solo simboli, ma concrete reificazioni dello «spa-zio dell’identità»: palladi, bandiere, avamposti e fortezze della difesa nazionale, oppure obiettivi contro cui scagliarsi rompendone le vetrate o profanandone le facciate48. Ma

41 Italo [pseud.], Per Gorizia e altre terre italiane, in «La Voce degli Insegnanti», n. 21 (1-15 marzo 1912), pp. 81-82.42 Cfr. Per l’avvenire del ginnasio di Gorizia, nota della presidenza federale, in «La Voce degli Insegnanti», a. II, n. 16

(31 gennaio 1912), p. 52.43 Contro l’Istituto magistrale di Gorizia, in «Rassegna scolastica», a. I, n. 6 (gennaio 1911), pp. 88-89.44 Per il Ginnasio italiano a Gorizia. Note e documenti, in «La Voce degli Insegnanti», a. I, n. 2 (settembre 1910), pp.

23-24.45 V. Caporrella, Scuola, diritto linguistico e identità nazionale cit.; vedi anche G. Volpi, I Ginnasi di Stato a Fiume e

Gorizia, in «Annali di Storia Isontina», n. 5 (1992), pp. 69-96.46 H. Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit im osterreichischen Unterrichtswesen 1867-1918, cit., p. 160.47 G. Stourzh, Die Gleichberechtigung der Nationalitäten, cit., p. 172.48 P.M. Judson, Guardians of the Nation cit., p. 25.

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soprattutto, le pareti delle scuole nazionali costituivano i confini di uno spazio lingui-sticamente omogeneo all’interno del territorio plurilingue, uno spazio che attraverso la lingua e la cultura intratteneva un legame con il «centro sacro» di una nazione lontana (come per gli italiani) o di una «nazione culturale» senza un territorio proprio. Quasi che le scuole potessero costituire un surrogato di quella «esclusività spaziale dei territori, in cui polis e ethnos tendono a coincidere» di cui parla Emilio Cocco a proposito del con-fine adriatico49. Per questi motivi appariva così importante che i confini materiali delle scuole non fossero violati dal plurilinguismo e dalla multietnicità.

Il territorio e la lingua

«Landsübliche Sprache» (lingua abituale del Land) era la definizione giuridica con cui in Cisleitania venivano individuate le lingue del territorio, ovvero quelle che avevano diritto di diventare lingue d’insegnamento ma che contemporaneamente non potevano essere insegnate obbligatoriamente a un cittadino di un’altra lingua madre (ad esempio, il tedesco poteva essere obbligatorio per gli italiani di Trieste in quanto non era una landsübliche Sprache, ma non per i cechi di Boemia o Moravia dove vi erano consistenti minoranze austrotedesche).

Una volta definite le landsübliche Sprachen era possibile applicare il diritto personale all’interno del Land. Ma in realtà, in una visione nazionalista, parcellizzando il territo-rio si potevano individuare tante microzone linguisticamente omogenee in cui la lingua dell’altro non fosse riconosciuta come lingua della città. Questa era la tesi sostenuta da diversi gruppi nazionali. A Trieste, come noto, nonostante la presenza cospicua di sloveni (che nel 1910 superava i 50.000 residenti), la maggioranza liberal-nazionale del municipio non riconosceva lo sloveno come lingua della città. Così, nel 1909-10 vi erano 12 Volksschulen con lingua d’insegnamento slovena, ma tutte nel circondario della città e nessuna nell’area urbana, in base alla perseverante immagine di una dicotomia italiani/sloveni – città/campagna. Un trattamento simile veniva applicato ai cechi residenti a Vienna a cui non veniva riconosciuto lo status di popolazione stabile, e agli abitanti di Cilli, dove i deputati austro-tedeschi continuavano a sostenere lo storico carattere tede-sco della città nonostante gli evidenti rapporti numerici50.

Concezioni analoghe furono espresse anche per gli sloveni di Gorizia nel 1895, nel ricorso presentato dal Comune contro la decisione di aprire una scuola primaria con lin-gua d’insegnamento slovena e dove si citava esattamente il caso di Vienna: gli sloveni di Gorizia rappresentavano per il municipio una «popolazione straniera fluttuante» desti-nata prima o poi a tornare nella propria patria: «a Gorizia, una città italiana, le scuole mantenute dalla città sono italiane»51.

49 E. Cocco, Terra liquida, mare solido. Lo studio del confine nella regione di frontiera dell’Adriatico settentrionale, in Il confine nordorientale. Temi e prospettive nella storiografia recente, a c. di S. Rutar, in «Memoria e Ricerca», 45 (2014), pp. 117-121.

50 H. Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit, cit., p. 177.51 Ivi, p. 150.

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La disparità di trattamento degli sloveni era diffusa in tutta la Cisleitania52. In una petizione del 1861, essi si definivano come i «veri Paria nelle scuole dei propri territori» (Heimatländer) e non del tutto a torto: nonostante rappresentassero secondo i censimenti il 5,2% della popolazione nel 1880, nell’anno accademico 1881-82 non vi era alcun ginnasio o scuola reale in lingua slovena contro ad esempio i 33 in lingua ceca (23,8% della popolazione) o i 4 in lingua italiana (3,1% della pop.). In compenso vi erano 2 istituti a lingua mista tedesco-sloveno53. Nel 1900, a fronte di una popolazione di quasi due milioni di persone, non vi era nessun ginnasio con lingua d’insegnamento esclusi-vamente slovena54.

Questa battaglia contro le scuole «dell’altro» corrispondeva a un’enfasi sul ruolo della scuola – sia nella sua funzione assimilatrice sia nella funzione di difesa della nazio-nalità – e a una fede nel potere della scuola di condizionare l’identità nazionale e la coesione sociale dei gruppi in un senso o nell’altro55. Si trattava di una convinzione ampiamente sopravvalutata ma diffusa sia nei gruppi maggioritari che tra le minoranze. Come rileva Cattaruzza, in un’assemblea delle associazioni di insegnanti jugoslave in Austria il deputato Ostokar Rybar dichiarò che se ci fossero stati insegnanti e istituti di insegnamento sloveni in numero sufficiente, «nel giro di trenta anni Trieste avrebbe perso la sua impronta esteriore italiana»56.

A inizio secolo risultava evidente l’aumento della popolazione slovena di Trieste cau-sato dal rapido inurbamento delle famiglie contadine e dal minor grado di assimilazione degli sloveni57, a cui si aggiunse una aspirazione alla mobilità sociale verso i ceti medi e borghesi. Uno studio prosopografico sullo Staatsgymnasium di Trieste dimostra come tra il 1890-91 e il 1911-12 le iscrizioni alle prime classi di ragazzi madrelingua sloveni fossero salite dal 20% al 50% del totale delle matricole58.

Questi dati, uniti alla generale radicalizzazione delle questioni nazionali nell’Impero, ebbero effetto sulla retorica nazionalista. In Giani Stuparich gli studenti sloveni diven-

52 Cfr. M. Verginella, Il confine degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena, Donzelli, Roma, 2008; Ead., Sloveni a Trieste tra Sette e Ottocento. Da comunità etnica a minoranza nazionale, LINT, Trieste 2001; M. Kacin Wohinz, Jože Pirjevec, Storia degli sloveni in Italia: 1866-1998, Marsilio, Venezia, 1998; P. Stranj, La comunità sommersa: gli sloveni in Italia dalla A alla Ž, Editoriale stampa triestina, Trieste, 1989.

53 H. Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit, cit., p. 256.54 Nell’Untergymnasium di Cilli, in teoria bilingue, venivano insegnate in sloveno solo Religione, Latino e Matematica,

mentre tutte le altre materie erano in tedesco.55 K. Eriksen et al., Governments and the Education of Non-Dominant Ethnic Groups in Comparative Perspective, in

Schooling, Educational Policy and Ethnic Identity. Comparative Studies on Governments and Non-dominant Ethnic Groups in Europe, 1850-1940, a c. di J. Tomiak, European Science Foundation, Dartmouth, 1990, pp. 389-417.

56 M. Cattaruzza, Italiani e sloveni a Trieste: la formazione dell’identità nazionale, in Ead., Trieste nell’Ottocento. Le trasformazioni di una società civile, Del Bianco, Udine 1995, p. 150.

57 Ivi, 121-122.58 Cfr. V. Caporrella, Strategie educative dei ceti medi italiani a Trieste tra la fine del XIX sec. e il 1914, tesi di dottorato,

Università di Bologna-Freie Universität Berlin, Berlin 2009, p. 66. In termini assoluti dal 1890 al 1910 le matricole aumenta-no da 288 a 320, quelle slovene da 62 a 159, mentre le italiane scendono da 113 a 70, le tedesche rimangono sostanzialmente stabili da 86 a 74. A questi mutamenti corrispondono anche movimenti nella composizione sociale delle matricole, con un aumento dei figli di operai che divengono il gruppo maggioritario con il 21,7% (di questi il 73% sono sloveni). Fonti: Archi-vio di Stato di Trieste, Staatsgymnasium, bb. 969-970, Cataloghi generali 1890/91; b. 972, Cataloghi generali 1900/1901; bb. 979-990, Cataloghi generali 1911/1912. Il campione totale ammonta a 833 matricole. La rilevazione della lingua madre avve-niva in base alle dichiarazioni dei genitori. Tale rilevazione deve essere ritenuta più attendibile della Umgangssprache poiché in base ad essa gli alunni italiani e sloveni erano tenuti a frequentare il corso della corrispondente seconda Landsprache.

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tavano «un’onda di gente che ti travolge»59. Altri denunciarono l’urgenza di «arrestare in qualche parte la marea invadente»60, mentre ecco come era descritta l’invasione slava nell’articolo significativamente intitolato La conquista silenziosa: «Così, lentamente, per rivoli sparsi s’incanala e si alimenta e si gonfia la corrente torbida e diversa»61. Più esplicitamente, Ferdinando Pasini62 usava metafore spaziali prese in prestito dalla reto-rica militare. Per lui, nel 1912, l’invasione dello spazio linguistico è in realtà già iniziata e con essa la guerra fra i popoli:

La lingua non è più strumento di coltura; è arma, è pretesto, è ponte d’approdo o d’ar-rembaggio. [...] La penetrazione pacifica ha lasciato il posto ad una invasione sistematica, con de’ piani vagliati e stabiliti in precedenza; le correnti sono incanalate, ci si prepara, si sa donde si muove, su cui contare per via, dove si deve arrivare. C’è la cassa di campo e ci sono le ambulanze: è insomma una guerra formale e dichiarata. Bisogna risolversi e affrontarla! Le varie nazionalità entrano in battaglia come tali, ciascuna con la propria fisionomia determinata; attendere che dal crogiuolo dell’assimilazione spontanea abbia a nascere una nuova razza, è vana illusione: la lotta non può metter capo che al trionfo di una sola delle razze belligeranti63.

In articoli dal titolo Hannibal ante portas (1911)64, l’infiltrazione sul suolo cittadino di scuole straniere (slovene) veniva rappresentata e vissuta come un’invasione territo-riale da cui dipendeva l’intera esistenza degli italiani (è l’argomentazione della «soprav-vivenza» che Pasini nel 1909 definiva addirittura «l’olocausto»)65.

Nel già citato La conquista silenziosa66 (1913) veniva denunciato con toni allarmistici come «La scuola slava che, a guisa di cuneo mordente, s’imbietta nel tronco della nostra vita nazionale, è all’opera in parecchi punti». L’articolo riportava l’elenco dettagliato degli istituti sloveni che tentavano di insediarsi a Trieste (con relativa localizzazione all’interno della città, elenco del numero delle classi, dei docenti e degli insegnanti, quasi si trattasse di individuare su una mappa militare gli avamposti del nemico) e con-clude che quella slovena era un’«avanzata» che doveva allarmare «in prima linea gli italiani»; i ragazzi venivano «reclutati»; «gli istituti piantati nel cuore della città sono quelli che distendono i fili più lontano»; «gli adescamenti [ai giovani] non falliscono»; si trattava di un «programma di conquista e di intorbidamento etnico e politico»; si affer-

59 G. Stuparich, Per un’educazione nazionale concreta, in «La Voce degli Insegnanti», a. III, n. 35-36 (20 aprile 1913), p. 93.

60 L. Dallapiccola, Per Gorizia e altre terre italiane, in «La Voce degli Insegnanti», a. II, n. 21, (1 aprile 1912), p. 96.61 La conquista silenziosa cit., p. 121.62 Su Ferdinando Pasini vedi F. Rasera, Insegnanti trentini a Trieste e in Istria (1866-1914). Un itinerario biografico, in

Trento e Trieste, cit., pp. 247-250; B. Maier, La letteratura triestina del Novecento, in Scrittori triestini del Novecento, a c. di M. Cecovini et al., LINT, Trieste 1968, pp. 237-249; Id., Fermenti culturali nei territori italiani dalla fine dell’Ottocento alla prima Guerra mondiale, in De Gasperi e il Trentino tra la fine dell’800 e il primo dopoguerra, a c. di A. Canavero e A. Moioli, Reverdito, Trento 1985, pp. 206-213; sul ruolo di Pasini nella lotta per l’università italiana di Trieste cfr. A. Vinci, Storia dell’Università di Trieste: mito, progetti, realtà, LINT, Trieste 1997, pp. 80-84.

63 F. Pasini, Per Gorizia e altre terre italiane, in «La Voce degli Insegnanti», a. II, n. 21 (1-15 marzo 1912), pp. 79-80.64 Hannibal antes portas, in «La Voce degli Insegnanti», a. II, n. 12 (1 novembre 1911), p. 4. 65 F. Pasini, Per l’esistenza di un popolo, Trieste 1909; il testo si trova anche nel volume pubblicato immediatamente

dopo la guerra: F. Pasini, Quando non si poteva parlare ed altri discorsi, Libreria editrice internazionale C.U., Trani 1921.66 La conquista silenziosa, cit., p. 121-122; a cui segue risposta della I.R. Scuola preparatoria il 28 giugno. Il dibattito

prosegue in «La Voce degli Insegnanti», a. III, n. 40, (10 luglio 1913), p. 157-158.

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mava invece l’assoluta necessità dell’esclusione delle scuole slovene dal «perimetro»: il confine. Come se la lingua fosse una qualità del suolo (criterio «territoriale») e la rete delle scuole ne rappresentasse i confini.

Analogalmente, rileva Cattaruzza, «lo spazio simbolico urbano, continuò a essere off limits per manifestazioni slovene pubbliche», tanto da vietare l’uso della bandiera della Cirillo e Metodio in una processione religiosa67.

In questo contesto, riconoscere la legittimità dell’apertura di scuole slovene comunali sul territorio cittadino di Trieste sarebbe equivalso a dare un «diritto di cittadinanza» allo sloveno, cosa che andava evitata in ogni modo68. La richiesta di istituire una scuola popo-lare in sloveno nel territorio urbano di Trieste fu sempre respinta appellandosi all’ar-ticolo 59 della Reichsvolksschulgesetz; in base ad esso, una nuova scuola in un’altra lingua poteva essere istituita solo dietro richiesta di almeno 40 genitori madrelingue resi-denti da 10 anni e a condizione che non vi fosse già una scuola con quella lingua d’in-segnamento a una distanza inferiore ai 4 chilometri69. Ma poiché la disposizione delle scuole popolari a Trieste garantiva sempre una scuola slovena del suburbio a meno di 4 chilometri, l’applicazione di questa norma fu un pretesto per restringere il diritto all’i-struzione nella propria lingua materna garantito dalla Legge fondamentale dello Stato, così come notava già Angelo Vivante70.

Alle scuole veniva attribuita la capacità di dare al territorio quel carattere nazionale, diremmo oggi etnico, che di fatto non aveva un riconoscimento giuridico o politico. Quanto questo fosse simbolicamente importante lo testimonia la piccola vicenda della costruzione nel 1894 della scuola popolare di Roiano in lingua slovena: pur essendo situata in un rione esterno alla città, una parte dell’edificio insisteva dentro al territo-rio urbano di Trieste, dunque il progetto doveva essere modificato affinché, rilevava il consigliere Piccoli, «nemmeno un pezzo resti nel confine della città, per non concedere quello che il comune ha sempre combattuto e che credo non concederà mai»71. Lo stesso principio ispirava il rifiuto della proposta socialista di annettere le scuole della Cirillo e Metodio (che pure avrebbe permesso al Comune di controllare gli insegnanti sloveni): lo sloveno non doveva avere un riconoscimento formale che avrebbe minato la conno-tazione linguistica univoca del suolo. La rete delle scuole «nazionali» fungeva così da «marcatura» linguistica del territorio, supplendo alla mancanza di confini e permettendo di affermare quel legame fra nazionalità e suolo, che è assente o instabile nelle regioni multietniche.

Tuttavia, a causa della porosità dei confini linguistici, specialmente in un periodo di modernizzazione economica con i conseguenti flussi migratori e le alterazioni degli

67 M. Cattaruzza, Italiani e sloveni a Trieste, cit., p. 146.68 Italo [pseud.], Per Gorizia e altre terre italiane, in «La Voce degli Insegnanti», a. II, n. 21 (1-15 Marzo 1912), p. 82.69 G. Stourzh, Die Gleichberechtigung der Nationalitäten, cit., p. 167.70 A. Vivante, Irredentismo adriatico, Libreria della Voce, Firenze 1912, p. 151n.71 Citato in G. Spiazzi, Il dibattito politico sui problemi dell’istruzione popolare al consiglio comunale di Trieste (1861-

1914), in Contributi per una storia delle istituzioni scolastiche a Trieste, a c. di FNISM, Federazione nazionale insegnanti scuole medie, sezione di Trieste, Grafiche Erredici, Padova 1968, p. 55.

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equilibri demografici72, la difesa della connotazione linguistica del territorio cittadino, la difesa di quel centro vitale che era Trieste per la minoranza italiana, poteva alimentare il senso «dell’insicurezza» ed essere coscientemente enfatizzata come accade con Pasini. Il suo «proclama di guerra» doveva essere inteso solo come una allegoria, ma in ogni caso vi risaltano le numerose metafore territoriali, dove l’espansione scolastica slovena diventava invasione di uno spazio, attentato alle sorgenti del territorio che alimentavano l’italianità, capace quasi di sradicare la nazionalità dal suo ancoraggio, minandone defi-nitivamente l’esistenza.

Si tratta di topos retorici di un nazionalismo linguistico comune alle associazioni di tutti i Länder dove insistevano territori mistilingui, in particolare ai cechi o agli austro-tedeschi di Boemia: il sacrificio nazionale delle popolazioni che vivevano nella frontiera linguistica, la battaglia quotidiana contro l’avanzata del nemico, la prossimità con la lingua «dell’altro» come fattore di indebolimento dell’identità nazionale, il peri-colo che incombeva, il nemico che avanzava, l’accerchiamento, la paura per la propria sopravvivenza73.

Questo bisogno di chiusura e di difesa diventava tanto più forte quanto maggiore era la mancanza di visibili confini materiali sul territorio. Che si trattasse di Trieste o di Gorizia, di Vienna o di Cilli, l’istituzione di una scuola degli «altri» veniva vissuta e descritta come la distruzione del carattere nazionale del territorio. Al di là della retorica politica condivisa tra i parlamentari croati, italiani, cechi e austro-tedeschi, anche in questo caso traspare il bisogno di una delimitazione territoriale del diritto e dell’iden-tità linguistica, che rassicurasse le popolazioni congelando i mutamenti socio-culturali imposti dal tempo e dallo sviluppo economico.

Andava in questo senso la decisione di individuare in Boemia tre zone distinte: due a maggioranza rispettivamente ceca o tedesca (un po’ secondo il modello dei cantoni sviz-zeri), e una terza composta dalle regioni dichiarate bilingui quando almeno il 20% della popolazione era costituito da un gruppo minoritario e dove l’amministrazione dovesse essere bilingue.

Laddove la natura mistilingue del territorio non permetteva la creazione di confini come in Moravia, si arrivò a sperimentate un «catasto delle nazionalità» cui seguì nel 1905 la costituzione di consigli scolastici locali distinti su base linguistica74 e l’anno suc-cessivo quella di distretti scolastici su base nazionale75. Il deputato austro-tedesco Karl Urban propose anche uno Schulkataster nel progetto di organizzare «entrambe le nazio-nalità boeme come comunità culturali chiuse» (geschlossene Kulturgenosseschaften).

L’intera dinamica del conflitto linguistico-nazionale in Cisleitania potrebbe essere descritta da questa contraddizione fra diritto personale e diritto territoriale, fra libertà personale e identità territoriale, tra esigenze socioeconomiche e una paura di perdere la propria identità nazionale, una paura ideologicamente costruita come una questione di

72 Sull’evoluzione demografica di Trieste cfr. M. Breschi et al., La nascita di una città. Storia minima della popolazione urbana di Trieste, secc. XVIII-XIX, in Storia economica e sociale di Trieste, vol. I, La città dei gruppi, LINT, Trieste 2001, pp. 63-237.

73 P.M. Judson, Guardians of the Nation cit., pp. 20-21.74 «Gesetz über die nationale Trennung der Schulbehörden», 1905.75 «Gesetz zur Regelung der Errichtung, Erhaltung, und des Besuchs der öffentlichen Volksschulen» art. 19 Abs. 2, 1906.

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vera «sopravvivenza». Il diritto personale garantito dalla Costituzione generava para-dossalmente spinte al riconoscimento di un diritto territoriale o microterritoriale che stabilisse una connotazione nazionale univoca del territorio.

Lo scontro tra insegnanti e politici

La retorica ideologica delle Associazioni magistrali in Cisleitania aveva due capi-saldi: da una parte, come abbiamo visto, l’allarmata denuncia dell’espansionismo nazio-nale altrui che avrebbe messo a repentaglio l’esistenza delle proprie minoranze nazionali (da qui discendeva la rivendicazione del proprio ruolo di difensori della sopravvivenza dell’identità nazionale sul territorio); dall’altra la polemica contro le autorità statali o comunali ree di aver abbandonato i bambini a un destino di snazionalizzazione. Questo paradigma ideologico era estremamente diffuso ed era alla base della fondazione anche della Deutsche Schulverein che accusava il governo centrale di aver abbandonato le minoranze austro-tedesche in Boemia76.

La Lega degli insegnanti triestini e la Federazione giuliana non sfuggivano a queste stesse dinamiche politico-ideologiche, come evidente nell’esame del significativo scon-tro politico che a partire dal 1908 li oppose a parte del movimento irredentista repub-blicano e liberal-nazionale77, ovvero all’élite politica cittadina. Uno scontro singolare poiché le scuole nazionali erano state fortemente volute dal Comune, che le sosteneva con un notevole sforzo finanziario nonché propagandistico. Inoltre, la maggior parte degli uomini politici del Comune si erano formati proprio nell’ambiente scolastico e nel clima ideologico del Ginnasio civico.

L’8 giugno 1908, al congresso della Federazione magistrale tenutosi a Pirano, Ferdi-nando Pasini denunciava le strategie ipocrite dei politici liberal-nazionali, accusandoli di non fare abbastanza in parlamento per la difesa della «nazionalità», cioè della scuola nazionale. Pasini arrivava addirittura a proporre di adottare una linea di sfiducia verso i deputati in parlamento e di agire autonomamente facendo pressioni direttamente sul governo centrale, «rinunciando ad ogni tramite di deputati parlamentari; proclamando magari alla prossima occasione l’astensione di tutti i maestri dalle urne»78. La minaccia dell’astensione elettorale era altamente simbolica, perché l’intero impianto propagandi-stico del Partito liberal-nazionale si basava su quello che Valdevit ha definito il seque-stro della nazione79, ovvero il monopolio della «difesa della nazionalità» nel territorio della regione Giulia, difesa che aveva nelle scuole il primo e centrale elemento. Gli atti del congresso riportarono l’accoglienza entusiastica del discorso di Pasini, ma il giorno dopo «Il Piccolo» criticò gli insegnanti e «il Lavoratore» ironizzò sul «Vangelo

76 H. Bürger, Sprachenrecht und Sprachgerechtigkeit, cit., pp. 88-91.77 Sul Partito liberal-nazionale triestino a inizio Novecento cfr. A. Millo, L’élite del potere a Trieste. Una biografia col-

lettiva 1891-1938, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 97-150, cui si rimanda anche per un‘attenta analisi delle élite triestine e una completa ricostruzione delle loro dinamiche sociali e politiche.

78 Citato in M. Pasqualis, Gli insegnanti e le elezioni politiche, in «La Voce degli Insegnanti», a. I, n. 10 (maggio 1911), p. 142.

79 G. Valdevit, Trieste: Storia di una periferia insicura, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 2.

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di Pirano», accusando i maestri di essere anarchici antiparlamentaristi, primitivi, rei di insegnare ai giovani l’odio anziché gli elementi basilari della convivenza umana. Ma se le critiche del «Lavoratore» potevano essere ricondotte al divario ideologico fra socia-lismo e nazionalismo80, lo scontro con la parte liberal-nazionale era senza dubbio più significativo: gli insegnanti non solo criticavano e accusavano, ma addirittura tentavano di scavalcare i politici dichiarando la propria attività nazionale indipendente dai partiti, anzi proclamando la loro inutilità.

Siamo stufi d’un parlamento a base di partiti politici, i cui ideali servono di bandiera a far passare merce di contrabbando o a nascondere le stigmate della più crassa incompetenza tecnica […]. Il Parlamento moderno ha da essere un’assemblea di commissioni tecniche, ciascuna delle quali rappresenti una data cerchia d’interessi e miri a un’ideal perfezione della propria funzione sociale, di cui essa sola, purché competente può indicare i mezzi e la vie81.

Attraverso la rivendicazione di competenze, gli insegnanti aspiravano ad assumere un ruolo politico. Mario Pasqualis, in qualità di presidente della Federazione auspicò la creazione di un «Partito della Scuola» capace di elevarsi al di sopra degli interessi dei singoli partiti82. D’altronde, a generare le aspirazioni politiche degli insegnanti era stata la stessa mitizzazione delle scuole, che attribuì ai docenti speciali prerogative. Secondo la legge, i dipendenti comunali non potevano candidarsi alle elezioni cittadine in quanto facenti parte della stessa amministrazione che si sarebbero trovati a governare. Da tale divieto erano però dispensati proprio gli insegnanti in base al particolare ruolo da essi ricoperto all’interno del territorio multietnico.

Quando nel 1909 si sollevarono alcune voci a sostegno dell’eliminazione di tale pri-vilegio, il professor Gino Saraval, in un articolo dal titolo Il diritto elettorale passivo degli insegnanti, si scagliò contro coloro che con lacci burocratici o con ragionamenti sulla rappresentatività di «casta» avrebbero voluto impedire agli insegnanti di candidarsi per le elezioni comunali in quanto dipendenti del Comune stesso. Per Saraval, l’impor-tanza dell’educazione nazionale, in particolare a Trieste dove «la scuola non è soltanto un istituto educativo, ma anche il principale Palladio della nostra difesa nazionale», giustificava la presenza degli insegnanti all’interno del consiglio comunale. La questione era importante e come vedremo si sarebbe protratta ancora fino al 1913.

Quando nel maggio 1911 si svolsero le elezioni per il parlamento nazionale, il presi-dente della Federazione Mario Pasqualis colse l’occasione per ricordare l’ammonimento del discorso di Pasini a Pirano. In un articolo significativamente intitolato Signori, la

80 Sul socialismo triestino cfr. M. Cattaruzza, Socialismo adriatico. La socialdemocrazia di lingua italiana nei territori costieri della Monarchia asburgica: 1888-1915, Manduria, Bari-Roma 2001; Ead., Il socialismo italiano in Austria: alcune riflessioni, in Ead., Trieste nell’Ottocento cit., pp. 167-211; S. Rutar, Kultur - Nation - Milieu. Sozialdemokratie in Triest vor dem Ersten Weltkrieg, Klartext, Essen 2004; Ead., Le costruzioni dell’io e dell’altro nella Trieste asburgica: i lavoratori e le nazionalità, in Nazionalismi di frontiera. Identità contrapposte sull’Adriatico nord-orientale 1850-1950, a c. di M. Cattaruz-za, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 23-46.

81 Citato in M. Pasqualis, Gli insegnanti e le elezioni politiche, cit., p. 142.82 Cfr. M. Pasqualis Discorso inaugurale. Atti del VI congresso della Federazione, cit., p. 3; Id., Il problema scolastico

ne’ rapporti sociali e nazionali, recensione di L. Granello della conferenza tenuta presso la Lega degli insegnanti triestini, in «La Voce degli Insegnanti», a. III, n. 34 (20 marzo 1913), p. 83.

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commedia sta per cominciare!, Pasqualis elencava tutto ciò che il governo non aveva fatto per la scuola e tutte le conquiste che gli insegnanti avevano strappato da soli senza l’aiuto dei partiti (ad esempio l’espulsione della sezione parallela slovena dall’Istituto magistrale di Capodistria e «la separazione degli alunni su base nazionale»). Pasqualis concludeva invitando gli insegnanti a non astenersi viste le contingenze particolari della lotta politica83, ma ammoniva i partiti che il voto dato dal corpo docente avrebbe dovuto essere guadagnato presso quella «classe magistrale che è all’avanguardia del progresso».

A elezioni concluse, «L’Indipendente», il quotidiano di ispirazione mazziniana por-tavoce dell’irredentismo triestino84, attaccò frontalmente gli insegnanti. L’articolo, dal significativo titolo Per l’educazione nazionale, contiene una notizia in sé non particolar-mente eclatante ma che nel contesto della lotta nazionale condotta attraverso le scuole assumeva i toni di una clamorosa sconfitta: al Ginnasio comunale si erano iscritti 140 allievi italiani mentre a quello tedesco «ben 160»85, fatto che l’autore definiva con l’e-spressione «è un’onta, un’enormezza [sic], un precipitare nell’abisso». Quali ne erano i motivi? Certamente, commentava l’autore, molte famiglie volevano che i propri figli imparassero la lingua tedesca per un criterio di utilitarismo pratico, ma questo non poteva esaurire tutte le ragioni di un simile fenomeno. «Al Ginnasio Comunale si respira aria di plutocrazia che fa a pugni con lo spirito dei tempi e anche con quello della parte liberale che con tanta cura e larghezza provvede da decenni all’istruzione pubblica». Dati alla mano, il Ginnasio venne accusato di essere troppo e ingiustamente selettivo, secondo una strategia tesa ad attaccare l’istituto sui metodi pedagogici per poterlo accusare di essere anti-nazionale.

Gli articoli dell’«Indipendente» (6 in nove giorni) si susseguirono secondo un dise-gno atto a screditare il corpo insegnante dell’istituto più rappresentativo della Lega degli insegnanti triestini, che, citando particolareggiati dettagli riferiti dalle famiglie degli alunni, veniva accusato di un’eccessiva e gratuita severità sia pedagogica che discipli-nare. Il 29 luglio il giornale torna all’attacco utilizzando l’accusa di spirito antinazionale del Ginnasio, criticandone i metodi definiti non a caso «tedeschi».

Al di là della loro fondatezza, queste accuse furono rilevanti in quanto portarono all’istituzione di una commissione d’inchiesta da parte della giunta comunale. Dandone notizia, «L’Indipendente» ricordava il valore ideale dell’istituto simbolo dell’educa-zione nazionale a Trieste «che è tanta parte del nostro patrimonio ideale di nazione». Il giornale concludeva con un appello evidenziando la necessità che il Ginnasio cam-biasse indirizzo, vista la sua importanza quale «arma nazionale». Tutte le scuole erano infatti importanti, ma «più di tutti ci interessa questo nostro Ginnasio che è la fucina donde deve uscire il terso metallo per le armi della nostra difesa. Così sentiamo, per quel

83 Evidentemente Pasqualis si riferisce sia all’aumento numerico degli sloveni sia alla forza acquisita dai socialisti, che nelle elezioni comunali del 1909 riuscirono a far eleggere alcuni consiglieri (fra cui i due maestri Doff-Sotta e Nicolao), mentre nelle precedenti elezioni parlamentari del 1907 (le prime a suffragio elettorale) i liberal-nazionali avevano ottenuto lo stesso numero di voti dei partiti sloveni e addirittura meno voti dei socialisti.

84 S. Monti Orel, I giornali triestini dal 1863 al 1902: società e cultura di Trieste attraverso 576 quotidiani e periodici analizzati e descritti nel loro contesto storico, LINT, Trieste 1976, pp. 555-557.

85 Per l’educazione nazionale, in «L’Indipendente», 26 luglio 1911. Il numero 160 viene riportato in neretto e in carattere più grande.

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patriottismo che “L’Indipendente” ha sempre insegnato e mai appreso dagli altri»86. Con quest’ultima frase, veniva inviato un messaggio chiaro ed esplicito a quegli insegnanti che prima delle elezioni avevano spinto troppo il proprio attivismo nazionale, volendosi quasi sostituire ai politici e accusandoli di scarso interesse nazionale. Il monopolio nella gestione del sentimento nazionale spettava al livello politico e nessun «tecnico» poteva sostituirsi ad esso.

Tuttavia nel Congresso straordinario dell’aprile 1912, la Lega degli insegnanti prose-guì nella sua lotta contro la dirigenza politica del Comune criticando la gestione dell’in-tera azienda scolastica e concludendo con il seguente commento:

Una critica agli organi esecutivi del magistrato avrebbe fino a poco tempo fa avuto l’odore di opposizione politica; una critica al Consiglio cittadino sarebbe sembrata una vera profa-nazione. Ebbene gli insegnanti hanno fatto nel congresso del 21 aprile l’una e l’altra critica e a nessuno è venuto in mente di vedervi un’opposizione di partito. Si è capito finalmente che gli insegnanti possono avere un loro punto di vista che trascende la direttiva e l’azione di tutti i partiti: il bene supremo della scuola e perciò della nazione87.

«L’Albania agli Albanesi e Trieste ai Triestini!»

Lo scontro tra questo gruppo di insegnanti e i politici del Comune di parte repub-blicana e liberal-nazionale non poteva non ripercuotersi all’interno delle associazioni degli insegnanti. L’occasione fu la nomina del direttore del nuovo Ginnasio comunale (il futuro «Petrarca»). Proprio Ferdinando Pasini fu il candidato indicato prima dalla direzione della scuola, poi dalla Commissione scolastica e infine approvato dal «Gre-mio» degli assessori. La sua nomina non fu però approvata dal Consiglio comunale. La reazione della Lega si concretizzò nell’articolo Sorpresa o sistema? pubblicato sulla «Voce degli insegnanti», dove si ritrova l’ennesimo attacco al Consiglio comunale per aver proceduto a nomine di docenti in maniera autonoma senza tener conto dei giudizi dati dalle commissione tecniche scolastiche e comunali88.

Dopo aver votato contro la pubblicazione dell’articolo, i due redattori della Sezione scuole medie89 della Lega riunirono la propria sezione, che votò a larga maggioranza una mozione per le dimissioni del consiglio di redazione e addirittura la sospensione delle pubblicazioni. Solo due furono i voti contrari90 mentre Pasini si astenne. Il resoconto fu pubblicato dal «Piccolo» il 29 ottobre. Tuttavia subito si riunirono le altre sezioni della Lega (scuole complementari, scuole popolari e giardini d’infanzia), condannando la Sezione scuole medie e difendendo l’operato della «Voce», che dunque avrebbe pub-blicato l’articolo. La scissione fu inevitabile: venne costituita la Società degli insegnanti

86 Ancora del nostro Ginnasio, in «L’Indipendente», 13 novembre 1911.87 L’azienda scolastica del Comune di Trieste discussa in un Congresso straordinario della «Lega degli Insegnanti» (21

aprile 1912), in «La Voce degli Insegnanti», a. II, n. 23-24 (1-15 maggio 1912), p. 121.88 Sorpresa o sistema?, in «La Voce degli Insegnanti», a. III, n. 30-31 (1-15 novembre 1912), pp. 19-20.89 Giovanni Brusi e Marino Graziussi.90 Luigi Granello e Artemio Ramponi.

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medi con un proprio «Annuario» e 137 soci, fra cui quasi tutti i più importanti docenti «medi» triestini ed in particolare quelli del Ginnasio comunale come Gino Saraval, Bac-cio Ziliotto, Luigi Candotti, Attilio Gentille, Giovanni Quarantotto, Marino Szomba-thely.

Alla fine di novembre, tra accuse pubbliche, adunanze delle sezioni e attacchi sui giornali, si giunse finalmente al Congresso generale. In apertura, tutti si dichiararono favorevoli ad abbassare il tono della discussione e a lasciare da parte rancori personali, con il fine di salvaguardare l’unità e l’immagine della società. Ma erano solo dichia-razioni di circostanza che aprirono un’aspra discussione. La Sezione medie mirava a sfiduciare il consiglio direttivo della «Voce». Intervenne dunque il presidente della Fede-razione Luigi Granello, parlando in prima persona come autore dell’articolo e denun-ciando un attacco contro la dirigenza stessa della Federazione. Granello andò subito al cuore della questione:

È tempo ormai che la classe magistrale esiga il rispetto del suo lavoro, e del suo lavoro soltanto; e che cessino certi sistemi e certi abusi che fanno dipendere nomine e promozioni da raccomandatizie, influenze, favoritismi, considerazioni inconfessabili: da tutt’altro insomma che dai meriti intrinseci e dai titoli genuini91.

L’intervento si distinse per la critica forte e coraggiosa rivolta ai politici del Comune. Accollandosi la responsabilità dell’articolo, per togliere definitivamente fuori dalla discussione il non designato direttore del nuovo Ginnasio, Granello dovette pronun-ciarne il nome in sala: Ferdinando Pasini. Fu a quel punto che dalla Sezione medie si levò un grido: «L’Albania agli albanesi, e Trieste ai Triestini». Era il triestino Oblak, che probabilmente si riferiva contemporaneamente ai due «stranieri» provenienti da Trento: Granello e Pasini. Un anno prima, come ricorda Fabrizio Rasera, Slataper spiegava che «A Trieste in questi ultimi anni specialmente l’antitrentinismo s’è fatto sentire viva-mente, perché Trieste è ancora una città di provincia che vuol fare “tutto da sé”. Fino a ieri i sui migliori professori furono i Trentini; oggi comincia a esser seccata della loro invasione»92. Un’«invasione» creata dalla necessità di importare personale insegnante di alto livello: nel 1897-98 su 18 insegnanti del Ginnasio civico 7 erano di origini trentine, 6 dei quali insegnavano materie letterarie. Degli 8 direttori succedutisi al Ginnasio 5 erano trentini, di cui Cesare Cristofolini e Riccardo Adami coprirono la carica dal 1903 al 191093.

91 Per la sincerità e la libertà della nostra stampa professionale. Origini, svolgimento, riflessi di una grave crisi interna: adunanze e congressi, note e documenti, in «La Voce degli Insegnanti», a. III, n. 32 (15 febbraio 1913), p. 53. Ancora all’i-nizio del 1912 si era verificato un caso simile rispetto alla nomina del giovane Ugo Pellis, glottologo con un lungo elenco di pubblicazioni, ma rifiutato dal consiglio comunale malgrado il parere favorevole della Commissione scolastica, cfr. Spartaco [pseud.], Metodi deplorevoli. Come si fanno le nomine al consiglio comunale di Trieste, in «La Voce degli Insegnanti», a. II, n. 15 (1-15 gennaio 1912), pp. 65-66.

92 S. Slataper, Trento e Trieste, in «La voce trentina», I, 1, 1 novembre 1911, citato in F. Rasera, Insegnanti trentini a Trieste e in Istria, cit., p. 237.

93 Ivi, 241-243.

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Ma la variabile del localismo triestino evocata da Slataper, se in parte può essere ricondotta a una concorrenza tra diversi gruppi di docenti94, deve essere esaminata anche alla luce del fattore politico: gli attacchi della Federazione indirizzati ai dirigenti comu-nali liberal-nazionali. La Federazione non aveva accettato che l’irredentismo pedago-gico restasse confinato entro limiti precisi.

Con un articolo dall’eloquente titolo Una cooperazione a cui si dovrebbe rinunciare, «L’Indipendente» celebrò la seconda scissione, quella del partito dalla classe magistrale: si arrivò così a contestare esplicitamente anche il privilegio dei docenti a candidarsi alle elezioni comunali95. Al di là delle ragioni di merito96 il nucleo della questione è tutto condensato nell’affermazione «il partito deve essere energico e non accettare imposi-zioni da parte di una lega che non è neppure la sola del genere esistente a Trieste», con chiaro riferimento alla scissione degli insegnanti medi. I docenti replicarono che era stato Felice Venezian, la grande icona della nazionalità italiana a Trieste, a dare agli inse-gnanti quel privilegio in virtù del fatto che gli impiegati comunali rispondevano diret-tamente al consiglio, mentre i docenti rispondevano al governo97. A questo punto «L’In-dipendente» giungeva addirittura a sostenere l’esistenza di testimoni diretti secondo i quali Venezian avrebbe promosso quel privilegio non per proprio convincimento, ma in seguito a pressioni esterne98. Nello stesso articolo si faceva riferimento alla «missione» dell’insegnante, la cui importanza non dovrebbe far distogliere il docente dalla sua atti-vità sprecando tempo e energie per la politica, insomma: «il posto dell’insegnante è la cattedra scolastica».

Il risultato conclusivo furono le dimissioni dalla Lega degli insegnanti triestini di 87 docenti delle scuole medie, e con loro anche delle maestre elementari addette al Liceo femminile, «quasi obbedissero a una parola d’ordine circolata attivamente a Trieste e fuori», come commenta la «Voce degli insegnanti».

Quello che più ci interessa è rilevare come con la scissione venisse colpito non solo Pasini in prima persona99, ma l’intera Lega. Questa piccola vicenda ci fa capire come a livello locale la funzione della retorica irredentista incrociasse le dinamiche esistenti tra le classi dirigenti presenti sul territorio a diversi livelli. Rimane per noi la testimonianza di come un nucleo influente di docenti delle scuole medie, facente capo in special modo al Ginnasio civico e al Liceo femminile, fosse in grado di concepire se stesso come un gruppo avente funzioni politiche tali da potersi contrapporre o addirittura sostituirsi ai

94 Anche l’anno seguente (1909) Pasini aveva provato a diventare direttore del Liceo femminile, ma gli fu preferito Luigi Candotti; cfr. D. De Rosa, Spose, madri e maestre: il Liceo femminile e l’Istituto magistrale G. Carducci di Trieste, 1872-1954, Del Bianco, Udine 2004, p. 61n.

95 Una cooperazione a cui si dovrebbe rinunciare, in «L’Indipendente», 21 aprile 1913.96 «L’Indipendente» si dichiarava contrario a questa eccezione, poiché la medesima persona avrebbe potuto trovarsi

sottoposto al consiglio disciplinare e a una commissione d’inchiesta in qualità di dipendente comunale, mentre in qualità di consigliere comunale poteva prendere parte alla commissione scolastica o al Consiglio comunale con un chiaro conflitto d’in-teressi. Inoltre un docente subalterno a un direttore si sarebbe potuto in posizione di predominanza sul loro stesso superiore.

97 Lettera pubblicata sull’«Indipendente» del 24 aprile 1913 e firmata «Un docente buon italiano e buon cittadino a nome della grandissima maggioranza». L’autore della lettera dà del «tu» al giornalista.

98 In risposta ad un dovente, in «L’Indipendente», 26 aprile 1913.99 La rivincita Pasini se la prenderà durante il fascismo, quando nel 1923 sarà nominato preside del Liceo femminile

(mentre nel 1909 la sua nomina era stata rifiutata) e poi nel 1943 quando assumerà la guida della prima cattedra di lingua italiana della Facoltà di lettere e filosofia di Trieste, che lo insignirà poi nel 1951 con la medaglia d’oro.

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politici liberal-nazionali. La proiezione sulle scuole della lotta nazionale, con la loro conseguente investitura a baluardi della battaglia linguistica, aveva illuso la nuova gene-razione di docenti di essere molto più che semplici insegnanti, e come tali di poter avere nella società una funzione politica autonoma.

L’insegnante «combattente»

L’insegnante si prestava dunque a divenire politico, antiborghese, dedito all’azione concreta, ma soprattutto combattente. L’ambizioso progetto di Mario Pasqualis avrebbe cominciato a realizzarsi prima con le istituzioni scolastiche integrative, quali i ricreatori e i convitti che protraevano il tempo di permanenza quotidiana dei giovani nella scuola e si ponevano come obiettivo un’educazione completa, caratteriale, ideologica e fisica dell’alunno; poi, con l’associazione degli ex-alunni progettata per accompagnare l’indi-viduo durante tutto l’arco della sua vita, rendendo la scuola un’organizzazione sociale che univa gli uomini al di là le distinzioni professionali o di classe dell’associazionismo borghese e al di là di quelle politiche dei partiti. I confini dell’istruzione venivano così largamente oltrepassati100.

L’impegno sul fronte della battaglia nazionale veniva affidato a due organi distinti. Il primo era la Commissione per l’educazione nazionale, che si costituì il 25 marzo 1908101. Lo scopo dichiarato della commissione era «l’educazione nazionale» definita «santa opera» e «sacrificio per la nobile idea». Un appello diramato a tutti gli insegnanti della Regione Giulia chiarisce bene quale fosse lo spirito della commissione:

L’italianità del nostro paese è da ogni parte minacciata, i suoi nemici le incombono sopra sempre più minacciosi ed invadenti e gli Italiani chiusi «nel misero orgoglio del tempo che fu» stanno a vedere inerti e lamentando. È necessario destare tra il nostro popolo il sentimento nazionale assopito, quello che popoli nuovi o soverchiatori, hanno fino al fanatismo, e a ciò nessuno strumento più efficace della scuola. Se la vita nazionale delle nostre terre venisse soffocata da quella d’altre nazionalità meno evolute, vorrebbe dire retrocedere di molti secoli sul cammino del progresso102.

L’insegnante, con una non celata critica ai partiti politici, si attribuiva il ruolo di difensore della nazione di fronte all’inerzia di parte della popolazione italiana. La mis-sione del maestro-attivista era poi esplicitata con l’espressione «nessuno meglio del maestro, che ha in mano e plasma la mente e la coscienza delle nuove generazioni, può, cogliendo ogni occasione che porga l’insegnamento e l’educazione, alimentare il sen-

100 Per un approfondimento cfr. V. Caporrella, Strategie educative dei ceti medi italiani a Trieste, cit., pp. 169-173.101 Presidente della Commissione per l’educazione nazionale è lo stesso Mario Pasqualis. Per Trieste ne fanno parte i

professori Cristofolini, Candotti, de Lyuk, Pasini, Vettach, i maestri Pasqualis e Scocchi e la maestra Di Poerl. Su 15 membri 8 sono triestini; i professori di scuola media sono tutti triestini, le donne sono 3 su 15.

102 Il testo dell’appello, diramato il 25 marzo 1908, è contenuto in «Rassegna Scolastica», n.s. a. I, n. 4 (maggio 1908), pp. 184-185.

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timento nazionale, ben meritando della scuola e della patria», perché «nella scuola è la nostra nazionalità, e l’essere della nostra Nazione è in gran parte questione scolastica»103.

Il secondo organismo erano i comitati Pro schola nostra, istituiti nell’anno 1909 a Pola, Gorizia e Trieste, con il progetto di estenderli «in ogni piccolo centro della Regione, e in essi il maestro troverà il proprio posto di combattimento»104. I comitati Pro schola nostra avevano il compito di coinvolgere non solo gli insegnanti ma anche tutti i cittadini, inte-grandosi alla Commissione per l’educazione nazionale nell’«azione di difesa comune da cui saranno rintuzzate le armi degli avversari nostri implacabili»105. Ritroviamo qui la concezione delle scuole come baluardi e avamposti, dove la lingua costituiva quel con-fine immateriale da difendere come una trincea reale.

L’autorappresentazione dell’insegnante-combattente è certamente una costruzione retorica, che si ingigantì con il passare degli anni nutrendosi fondamentalmente di dan-nunzianesimo106. È difficile stabilire quanto la retorica corrispondesse alla realtà, tuttavia l’enfasi dei discorsi pronunciati dagli insegnanti è indicativa perlomeno dell’habitus sentimentale che essi indossavano nei riti congressuali. Un habitus con il quale è lecito presumere che molti di loro entrassero anche in classe. Si tratta della classica figura del martire cristiano: combattente che ha abbandonato i propri interessi materiali, votato alla santa causa, sempre in pericolo, solo, e soprattutto misconosciuto. «Dove c’è un mae-stro, là ci deve essere un combattente», diceva Pasqualis, e «ovunque la vostra missione vi abbia sbalestrati, siate sempre pronti all’appello e nell’imminenza del pericolo che non tarderà ad incombere su di voi, accorrete tosto; nel nome della scuola e della nazione noi vinceremo»107.

Simili appelli raffiguravano il milite pronto alla lotta e al sacrificio, che affronta la battaglia con la fronte serena e lo sguardo rivolto verso l’alto, incurante delle rinunce personali richieste dalla propria missione di «apostolo». In questo quadro di esaltazione quasi religiosa non poteva mancare l’attributo del misconoscimento sociale: l’insegnante che combatte è solo, spesso oggetto di ingratitudine, è «il paria della società» come lo definiva Pasqualis. Se per il presidente della Federazione giuliana quello del paria era uno stadio da superare, in Pasini la solitudine dell’insegnante-combattente diventava un attributo necessario al martire, un valore assegnato dal destino108. L’apoteosi dell’inse-gnante-combattente giungeva così al suo apice.

I testi di Pasini abbondano di simili analogie, ma quale era la loro reale ricezione da parte degli studenti? Ovviamente ciò dipendeva dai singoli individui, ma sicuramente su

103 Ibid.104 Ibid., il corsivo è mio.105 M. Todeschini, Resoconto morale. Atti del VI congresso della Federazione degl’insegnanti italiani della Regione

Giulia, in «La Voce degli Insegnanti», a. I, n. 1 (luglio 1910), p. 6.106 L’influenza di D’Annunzio fu certamente importantissima per molti intellettuali triestini. Se dovessimo prestar fede

a ciò che Giani Stuparich racconta in Un anno di scuola, al di là delle singole preferenze letterarie, tutti gli alunni erano dannunziani. Su D’Annunzio come modello del poeta combattente vedi il capitolo Il poeta e l’esercizio del potere politico: Gabriele D’Annunzio, in G.L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 97-115; Sull’importanza di D’Annunzio rispetto alla simbologia cristiana della guerra cfr. G. Bàrberi Squarotti, Le immagini della guerra, in D’Annunzio e la guerra, n. monografico di «Nuovi quaderni del Vittoriale», 3 (1996), pp. 195-218.

107 M. Pasqualis, Discorso inaugurale. Atti del VI congresso della Federazione degl’insegnanti italiani della Regione Giulia cit., pp. 2-3.

108 F. Pasini, Idealità e realtà nella scuola, a. II, n. 23-24 (1-15 maggio 1912), p. 127.

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alcuni adolescenti i toni guerreschi e apocalittici di Pasini avevano una certa influenza. Lo studente di ginnasio Carlo Stuparich, in una lettera dell’ottobre 1911 al fratello Giani, descriveva lo stato d’animo provocatogli da una conferenza di Pasini su Filippo Zam-boni: «Qualche tratto m’ha commosso vivamente, m’ha commosso il ricordo di quel martire condannato, circondato dalla congiura del silenzio, di colui che pensava per il bene dell’umanità ed era ricompensato con freddezza e ostilità»109. Pasini aveva utiliz-zato il modello di Zamboni per raffigurare l’intellettuale triestino secondo l’esemplare del martire misconosciuto, ma questo modello non apparteneva solo all’esaltazione let-teraria dell’insegnante di origine trentina: anche Slataper, ad esempio, accusava aper-tamente la sua città di costringere all’esodo i suoi spiriti migliori, esodo causato non dallo slavismo, ma dall’anima commerciale di Trieste e a volte favorito persino da cause politiche110.

Incompreso dalla società, l’insegnante combattente si trasfigurava quindi nel martire, anzi nel redentore stesso. Sembra siano stati «applausi entusiastici» quelli che la Fede-razione degli insegnanti, riunita nel pubblico congresso di Gorizia il 18 settembre 1910, riservò alla chiusa dell’intervento di Pasini dal titolo La nostra miseria intellettuale: «lo schiavo, bevuto sino alla feccia il calice dell’angoscia, abbraccia col furore della dispe-razione la sua croce come per disporsi ad attendere la morte liberatrice», ma proprio nell’abbraccio convulso avveniva la trasformazione dell’individuo, ora consapevole che «chi è pronto alla morte è pronto alla vittoria. La croce non è più per lui lo strumento di supplizio e d’infamia: ecco, egli la innalza sovra la turba dei suoi fratelli di sventura. La croce non è più la croce: è il segnacolo di fede che affiancherà tutte le genti»111.

I giovani e «sta eredità»

L’intellettuale redentore aveva però bisogno delle forze redentrici che lo seguissero e traducessero in azione i suoi ideali. Screditati i politici, denunciate come utilitaristi-che le strategie famigliari, sfiduciati i ceti borghesi, gli insegnanti individuavano il loro futuro «esercito» proprio nei giovani plasmati secondo gli ideali della scuola nazionale. L’ampio uso del culto della giovinezza fu una delle costanti del pensiero nazionalista in Europa112 e in seguito dell’ideologia fascista. La gioventù diventò simbolo di rinnova-mento, di rivoluzione, ma soprattutto di impulso all’azione. Si tratta di una mitizzazione del giovane tipica di numerose realtà nel volgere di secolo e alimentata dalla crisi cul-turale, che spinse scrittori e pedagogisti ad individuare nei giovani la sola forza sociale

109 C. Stuparich, lettera al fratello Giani, Trieste 1911, in Cose e ombre di uno, S. Sciascia, Caltanissetta-Roma 1968, p. 83. Il testo completo della conferenza si trova in F. Pasini, Quando non si poteva parlare, cit., pp. 86-89.

110 S. Slataper, Trieste non ha tradizioni di coltura, cit., in Id., Scritti politici, a c. di G. Stuparich, Alberto Stock, Roma 1925, p. 7. Sulle reazioni alle Lettere triestine di Slataper e più in generale sul concetto di «irredentismo culturale», cfr. R. Lunzer, Irredenti redenti, cit., pp. 146-153.

111 F. Pasini, La nostra miseria intellettuale, in «La Voce degli Insegnanti», a. I, n. 3 (ottobre 1910), p. 35.112 Cfr. G.L. Mosse, L’uomo e le masse cit., pp. 9 e ss.

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capace di superare la decadenza in atto113. All’interno di questa rappresentazione, un ruolo primario venne svolto dall’immagine della forza fisica che caratterizza il giovane, la quale si prestava ad essere percepita come simbolo di una vis spirituale in grado di cambiare il mondo circostante114. Nell’articolo del giornalino di classe «Iuvenilia» dal titolo Quello che si è fatto e quello che si dovrebbe fare, l’autore, che dallo stile non sembra essere uno studente di ginnasio ma con più probabilità un universitario, incitava i giovani a prendere parte più attivamente alla lotta nazionale, attribuendo proprio alla gioventù il compito innovatore: «È appunto dalla scuola che sorgono le forze rinnova-trici. Ognuno è in obbligo di dare tutte le sue energie, tutto il suo vigore giovanile per il trionfo dell’Idea»115. Stesso compito rivoluzionario veniva assegnato agli studenti dagli insegnanti. In quella che alcuni esponenti della Federazione rappresentavano e vivevano come una vera guerra fra nazionalità, il compito dell’uomo di scuola era la creazione dell’«esercito nuovo»116, sia per età sia in quanto formato delle nuove forze del lavoro, che l’educazione aveva cresciuto lontane dall’utilitarismo borghese. Questo esercito doveva essere non solo creato, ma anche guidato. Con orgoglio Pasqualis ricordava il prorompere dei giovani nell’azione di protesta contro il governo nella questione dell’I-stituto magistrale di Capodistria117.

Studenti che con precoce coscienza di cittadini e d’italiani e con virilità di propositi strap-pano il consentimento a’ propri genitori, e si gettano allo sbaraglio, infrangendo ogni disci-plina, perché fosse cancellata con l’Istituto magistrale capodistriano l’onta che si recava alla scuola e alla civiltà […]. Gli studenti italiani della Magistrale di Capodistria diserta-rono la scuola, reclamando quale lingua d’insegnamento la materna, e non si diedero a tirar sassi, non a menar bastoni, non a compier vandalismi, ma confidarono la loro buona causa nella mani degli educatori del popolo. La nostra Federazione sentì il dovere di farsi portabandiera degli studenti ribelli118.

Al di là di come i fatti si svolsero veramente, il passo citato ha almeno due elementi interessanti. Il primo è la raffigurazione dello «strappo» degli studenti rispetto ai propri genitori, poiché, se è vero che gli alunni avevano agito con il permesso delle famiglie, rimane la raffigurazione di una generazione che osava un’azione nuova rispetto ai padri e, allontanandosi dalla loro guida, si consegnava nelle mani degli insegnanti affidandogli la loro «irrefrenabile forza giovanile»: quella naturale ribellione adolescenziale contro le regole della propria società – che all’inizio del Novecento era considerata come peri-

113 Per questa interpretazione vedi J.C. von Buhler, Die gesellschaftliche Konstruktion des Jugendalters: Zur Entstehung der Jugendforschung am Beginn des 20. Jahrhunderts, Deutscher Studien Verlag, Weinheim 1990, p. 130. In ambito tedesco la mitizzazione raffigura il giovane secondo due modelli: «der Menschen der Sehensucht» del fondatore del Landerziehung-sheimbewegung Hermann Lietz, o il «Ritter der Unmoglichkeit» espressionista. Riguardo ai rituali e al complesso simbolico creati in ambito letterario intorno alla figura del giovane vedi anche R.P. Janz, Die Faszination der Jugend durch Rituale und sakrale Symbole. Mit Anmerkungen zu Fidus, Hesse, Hofmannsthal und George, in «Neue Erziehung» «Neue Menschen», a c. di H. Ulrich, Beltz, Weinheim 1987, pp. 104-120.

114 Cfr. G.L. Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Einaudi, Torino 1997.115 Quello che si è fatto e quello che si dovrebbe fare, in «Iuvenilia», a. I, numero speciale del luglio 1913.116 M. Pasqualis, Discorso inaugurale. Atti del VI congresso della Federazione degl’insegnanti italiani della Regione

Giulia, cit., p. 2.117 Uno degli istituti mistilingue e dunque «ibridi» con tre sezioni tedesca, italiana e slovena.118 M. Pasqualis, La questione magistrale, Atti del VI congresso della Federazione degl’insegnanti italiani della Regione

Giulia, in «La Voce degli Insegnanti», a. I, n. 1 (luglio 1910), pp. 6-7.

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colosa energia giovanile da imbrigliare119 – diventava così una forza positiva al servizio della lotta patriottica. Nel brano citato, c’è l’idea di una ribellione che sovvertiva un assetto sociale attraverso un atto assolutamente impulsivo, un atto proprio non delle stra-tegie dei partiti nazionali, più volte punzecchiati da Pasqualis per la sostanziale inerzia dimostrata, ma che utilizzava l’energia vitale della giovinezza «infrangendo» i vincoli della disciplina per imporre il proprio istinto nazionale. C’è anche l’idea che tutto ciò venisse realizzato dai giovani per loro spontanea volontà, insieme all’immagine di una generazione il cui impeto nazionale superava i vincoli posti dall’utilitarismo che guidava le strategie famigliari.

Il secondo aspetto riguarda la rappresentazione dei docenti condottieri della rivolta studentesca i quali, impossessandosi della forza fisica dei giovani, guidavano con l’in-telletto la loro l’energia innovatrice e irrefrenabile:

abbiamo con noi le balde schiere della nuove generazioni, che educhiamo, a cui la sto-ria schiude nuovi fulgidi orizzonti, le quali con entusiasmo giovanile affrontano per la libertà degli studi il bastone tedesco su la soglia inviolabile del tempio della scienza, che bagnarono di italico sangue dal quale, come sempre, germoglierà il buon seme dell’Italica gentilezza120.

Tre anni più tardi, fra il 3 e il 13 marzo 1913, scontri tra studenti italiani e sloveni nell’Istituto Revoltella avrebbero portato alla morte di uno studente italiano121. La Lega degli insegnanti triestini indisse subito un congresso straordinario, tenutosi il 19 marzo, in cui intervenne anche una rappresentanza della Società degli studenti italiani122, attra-verso il breve discorso dello studente universitario de Domini.

È nel lutto che si temprano gli animi. E la voce di oggi non è voce di pianto, ché abbiamo pianto anche troppo; è voce che chiama a raccolta, che spinge a vincere. Voi siate i duci, a noi lasciate l’azione; sarà azione lunga, difficile, tormentosa. Altre tappe dolorose segnano il nostro calvario, ma non a niente: noi ci offriremo sereni e contenti, pur di ottenere il completo adempimento dei nostri postulati più santi123.

Gli studenti, esaltando la lotta finora condotta, sembrano aderire alla rappresenta-zione complessiva in cui gli insegnanti apparivano come i condottieri delle nuove forze giovanili. Nella visione nazionalista, la scuola diventava il luogo di un tirocinio spi-rituale teso alla preparazione emotiva e intellettuale allo scontro, mentre da più parti veniva attribuito ai giovani il compito di redenzione futura124.

119 Cfr. P. Dogliani, Storia dei giovani, Bruno Mondadori, Milano 2003.120 M. Pasqualis, Discorso inaugurale, cit., p. 4.121 Sugli eventi del Revoltella, e più in generale sugli scontri durante le manifestazioni per l’università italiana, vedi la

precisa ricostruzione in A. Vinci, Storia dell’università di Trieste, cit., pp. 88-145.122 Società degli studenti triestini, AST, Direzione di Polizia, Società (1850-1919), b. 302. 123 La voce dei giovani. Atti del congresso straordinario della Lega degli insegnanti triestini, in «La Voce degli Insegnan-

ti», a. IV, n. 47-48 (15 maggio 1914), p. 102.124 Vedi ad esempio: R. Timeus [Fauro], I fatti di Graz, in «L’Idea Nazionale», 4 dicembre 1913.

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Non sempre l’esaltazione coincideva con la realtà. Nel Mio carso, Slataper confes-sava sinceramente che all’interno dell’associazione la Giovane Trieste «non si faceva niente ma ci si consolava pensando alla preparazione»125, e ironizzava sulla segreta atti-vità irredentista degli studenti che si esauriva nel cantare per strada inni nazionalistici, per farsi inseguire dalle guardie regie e poi ritornare soddisfatti a casa a ricevere il bacio preoccupato della mamma. Rimane anche per questo Slataper il modello eroico di Ober-dan e Garibaldi, rimane l’eroismo adolescenziale condensato nella frase «avrei voluto morire come loro» e la delusione per essere costretto all’inazione: «ma noi nascemmo in un’altra generazione»...

Al di là dello scarto fra rappresentazione e realtà, è proprio il tema della differenza o scontro generazionale quello su cui questi insegnanti premevano. In una conferenza sulla figura di Pasquale Besenghi126, Ferdinando Pasini accusava la generazione dei nonni di essersi preoccupata solamente di questioni economiche, di dazi e porto franco, di navi e fabbriche, mentre non aveva alcun interesse per questioni ideali. Egli si spingeva ad affermare che quelle generazioni si erano spente «inonorate»127. Lo stesso Slataper, criti-cando «Il Piccolo», lo accusava di «non aver saputo mai ringiovanirsi nell’idea nazionale della nuova generazione»128. L’ex-studente si ritrovava dunque sullo stesso fronte degli insegnanti nella battaglia contro la generazione dell’élite borghese liberal-nazionale, e lo scontro era affidato ancora una volta ai due organi di stampa «Il Piccolo» e «L’Indipen-dente», che rispondevano alle accuse rivolte contemporaneamente dai docenti attraverso la «Voce degli insegnanti» e da un’avanguardia della gioventù intellettuale formatasi nell’ambiente ginnasiale e ora militante nella «Voce» di Prezzolini129. Lo scontro era fra due concezioni diverse della cultura nazionale, quella borghese della generazione paterna, in cui il patriottismo conviveva e si adattava alle dinamiche centro-periferia del governo austriaco, e quella degli intellettuali che in quell’ideale erano cresciuti. Slataper così commentava l’articolo dell’«Indipendente» del 5 luglio 1910130: «Tutto l’articolo dell’Indipendente è intonato sul motivo: lo scrittore della “Voce” è un giovincello. Ha la presunzione e l’ignoranza dei giovani. Ogni giovane vuol rifare il mondo. Lasciamo strillare i ragazzi; è il loro mestiere», e accusava la generazione dei padri di istillare nell’opinione pubblica «una pregiudiziale che nell’inerzia spirituale comune vale assai: quello là è un monello; ascoltate noi che siamo i vecchi, i vecchi, i vecchi, pieni di assen-natezza, di esperienza e di conoscenza». La contrapposizione fra utilitarismo borghese e valori ideali si incardinava sulla struttura generazionale, tramutandosi in scontro tra padri e figli, cioè tra coloro che avevano creato un ideale e coloro che in quell’ideale credevano.

125 S. Slataper, Il mio Carso, Rizzoli, Milano 2000, p. 105.126 Il testo della conferenza si trova in F. Pasini, Quando non si poteva parlare, cit., p. 33.127 Una critica simile si ritrova anche in Slataper, che nel ricordare Domenico Rossetti (fondatore fra l’altro del Ginnasio

Comunale), lo loda per aver contrapposto all’«onnipotenza della prosperità commerciale» l’importanza della «coscienza di sé che solo l’attività spirituale verso qualcosa di superiore poteva darle»; S. Slataper, Scritti politici, cit., p. 24.

128 Ivi, p. 35.129 Intellettuali di frontiera, a c. di R. Pertici, cit.130 L’articolo si inserisce all’interno di una vivace polemica tra «La Voce» e «L’Indipendente» durante l’estate del 1910.

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L’esaltazione della gioventù, che per gli insegnanti poteva avere un valore strumen-tale, nei giovani era assolutamente sincera: il loro essere italiani, in virtù della propria giovinezza, era sentito come un compito ereditato dai padri e che ora bisognava portare a termine, se necessario schierandosi contro di essi. Il ritornello che la canzone di successo Vita triestina fece risuonare per le strade nel 1913 è esemplificativo di questa conce-zione: il testo, dopo la lamentela per l’oppressione dello straniero, inneggia alla speranza riposta tutta nella giovane generazione:

Ma sento che ’l mio cuor me disi: «Spera!Xe salda nel pensier la gioventù; I brazi stagni, l’anima sincera;Xe qua la nuova forza che vien su!

Era attraverso questa «sincerità» del sentimento patrio e questa saldezza nell’ideale, accompagnati dalla forza fisica delle «braccia di ferro», che i giovani vivevano il ruolo di redentori. La missione ideale del Quarantotto, ereditata da intellettuali come Dome-nico Rossetti, era sinceramente sentita da giovani come Slataper, che affermava: «poi via via essa si rafforzò nel consenso dei giovani. Perché questo è bello a Trieste: il sangue si migliora; il figlio, e nell’opera nazionale e nell’intellettuale, supera il padre. L’aurora della generazione è più infocata del suo tramonto. S’ascende». «Sta preziosa eredità» è il verso finale del Lasse pur!, la famosa canzone triestina, la quale riepiloga sinteticamente il ruolo attribuito alla lingua nazionale (in dialetto triestino) nella formazione identita-ria del giovane. Il Lassè pur!, nella sua semplicità, illustra un processo educativo che avvolgeva il giovane da subito, prima nella famiglia, poi nei gruppi di ragazzi e infine nella scuola, tutto teso ad un obiettivo rimandato al futuro, ovvero alla maturazione del giovane che avrebbe trasformato la lingua in lotta attraverso il sacrificio personale.

E una volta grando e forteLa bandiera el spiegheràPer salvar fin ala morteSta preziosa eredità131.

Questa eredità ideale era sicuramente una costruzione artificiosa e tuttavia sincera-mente sentita da coloro che avevano recepito seriamente il complesso simbolico dell’ir-redentismo triestino: i racconti dei padri e i ritratti di Oberdan nel salotto, i canti della Lega Nazionale e i rituali della Società di ginnastica triestina132, venivano coltivati nelle scuole e poi nei piccoli peer groups di ragazzi italiani. Il processo di formazione dell’i-dentità personale si costruiva così su un modello di socializzazione interno a questa rete di simboli.

131 La canzone risale al 1893, le parole furono scritte dal popolare Giulio Piazza («Macieta») e musicate da Silvio Negri. Cfr. C. De Dolcetti, Trieste nelle sue canzoni, 1890-1950, Italo Svevo, Trieste 1974, p. 49-50.

132 Per gli importanti rituali della Società ginnastica triestina cfr. E. Maserati, Simbolismo rituale nell’irredentismo adria-tico, in Miscellanea di studi in onore di Giulio Cervani per il suo LXX compleanno, a c. di F. Salimbeni, Del Bianco, Udine 1990, pp. 125-150.

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Inserita in questo contesto, la confessione di Ruggero Timeus, nato e cresciuto come tanti in mezzo al clima del Lassè pur!, benché aderisse al canone di esaltazione della gioventù e alla propaganda nazionalista, appare del tutto sincera e significativa:

C’è qualche cosa che moltiplica le forze, che rende lieti i sacrifizi, che aguzza gli intelletti, che moltiplica gli uomini e i denari. È la speranza della vittoria. I nostri genitori la aspet-tano da quaranta anni, noi la aspettiamo da quando la nostra mente s’è schiusa al sole della vita. Là dentro c’è tutta la nostra anima e non possiamo aver torto133.

La differenza fra genitori e figli è tutta in quel «non possiamo aver torto»: l’aspettativa nel futuro diventava realtà presente in chi era stato stato plasmato prima dall’ambiente familiare poi da quello scolastico in un «irredentismo dell’attesa». L’attesa proiettava sulle generazione future la realizzazione degli ideali e costituiva per i genitori una forma di equilibrio fra nazione e territorio multietnico, fra identità culturale e utilitarismo bor-ghese, fra ideale e affari, lasciando al primo la dimensione del futuro e al secondo quella del presente.

La guerra è appunto lo snodo centrale che proiettò nel ’15 i giovani verso il fronte e, dopo il ’18, i caduti nel culto del sacrificio giovanile. È molto difficile affermare che le scuole nazionali o la Società ginnastica preparassero direttamente gli adolescenti al reale scontro bellico, ma vi era una preparazione emotiva ed intellettuale ad esso, e sicu-ramente c’era chi si chiedeva se i ragazzi dovessero essere preparati o meno alla guerra. La conferenza di Pasini Idealità e realtà nella scuola134 è incentrata sul tema «Verità e Menzogna». La conclusione è che si doveva mentire anche ai propri alunni nel caso in cui la menzogna servisse a perseguire un fine superiore: «Smettiamo dunque di predicare nella scuola l’ideale come si usa predicare, per fortuna non da tutti, il pacifismo: o segui-teremo ad avere i risultati che ha colto in questi giorni la propaganda del pacifismo»135. La guerra, dunque, era l’oggetto del ragionamento di Pasini, ed in particolare quella in Tripolitania. Essa aveva smentito gli insegnanti che instillavano negli alunni la convin-zione della necessità della fine delle guerre nel mondo e sostenevano che esse dovessero essere bandite dall’umanità. In questo modo, in realtà, si lasciava solamente impreparati i giovani ad affrontare una realtà che invece «se ne infischia» delle astrazioni filosofiche.

Gli animi, rimbecilliti da una forsennata predicazione dell’ideale, non sanno più ravvisare né distinguere la guerra legittima dalla illegittima, e in momenti da cui può dipendere l’e-sistenza e l’avvenire della nazione intera, lo spirito pubblico può rimanere disorientato e può essere compromessa un’azione concorde ed efficace di tutti i cittadini136.

133 R. Timeus [Fauro], Le elezioni a Trieste, in «L’Idea Nazionale», 5 giugno 1913. Su Ruggero Timeus cfr. D. Redivo, Ruggero Timeus. La via imperialistica dell’irredentismo triestino, Istituto regionale per la cultura istriana, Italo Svevo, Trie-ste 1995; interessante per il carattere rievocativo legato all’ambiente giovanile G. Secoli, Due eroi dell’Irredentismo triestino. R. Timeus e S. Slataper, in «La Porta Orientale», a. XIX (1949), pp. 266-270.

134 Pubblicata anche nel Regno d’Italia con il titolo Realtà e idealità nella scuola e nella vita, in «Nuovi Doveri», VII, 1-2 (1913), pp. 12-32.

135 F. Pasini, Idealità e realtà nella scuola, in «La Voce degli Insegnanti», a. II, n. 23-24 (1-15 maggio 1912), pp. 126-128.

136 Ibid.

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Pasini collegava poi la guerra fra le nazioni a quella con cui tutti gli uomini erano costretti quotidianamente a scontrarsi per l’intero arco della loro vita e alla quale era necessario che gli alunni fossero avvezzati fin da piccoli. Preparare alla realtà della vita significava per Pasini sostanzialmente insegnare i mezzi per concretare l’ideale in azione, «l’azione dell’attimo che trascina più che la contemplazione dell’eterno», l’a-zione che conciliava l’ideale con la realtà. Mancava un’artista che contribuisse con le sue opere a diffondere la conquista delle coscienze da parte di questa concezione, la quale educava contemporaneamente alla bontà e alla forza. Per adesso, tuttavia, vi erano gli insegnanti, che avevano la possibilità di dare alla società il più grande dei capola-vori d’artista: «l’anima dei nostri scolari» abituata dall’insegnamento e dall’esempio del docente a concretizzare l’ideale nella realtà dell’azione.

Per alcuni studenti triestini, la guerra rappresentava l’occasione di impossessarsi di quel ruolo («sta’ eredità» come recita l’ultimo verso del Lasse pur!) nel quale la generazione dei genitori li aveva cresciuti, costringendoli però a rimanere confinati den-tro la palestra dell’attesa. Si riconciliavano così pensiero ed azione, attesa del futuro e presente, soprattutto padri e figli. Secondo Giuseppe Secoli i volontari ex studenti del solo Ginnasio civico «Dante Alighieri» furono 400137, cioè un quinto del totale dei 2017 volontari – irredenti e no – provenienti dalla regione Giulia e dalle terre adriatiche138. Dopo la guerra sarebbero loro stati dedicati monumenti, cerimonie, famedi, aprendo una fase completamente diversa della storia della scuola nei territori della Venezia Giulia.

137 G. Secoli, La scuola triestina prima e dopo il 1918, in Contributi per una storia, cit., p. 81.138 Cfr. Comitato Trieste ’68, Contributo dei volontari giuliani, fiumani, e dalmati alla Guerra di Redenzione 1915-1918,

All’insegna del pesce d’oro, Milano 1968; vedi anche: F. Todero, Morire per la patria: i volontari del «Litorale austriaco» nella grande guerra, Gaspari, Udine 2005; La scelta della patria: giovani volontari nella Grande Guerra, a c. di P. Dogliani et al., Museo storico italiano della guerra, Rovereto 2006.

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Simbolo della Lega degli insegnanti di Trieste, 1907, da «La Voce degli insegnanti» (Biblioteca Civica A. Hortis, Trieste)