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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA parte 1 - ecostat.unical.it Economica... · Appunti di Politica Economica 2 CAPITOLO I ELEMENTI DI POLITICA ECONOMICA 1.1 Introduzione La politica economica

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a cura della Dott. Bernardina Algieri a cura della Dott. Bernardina Algieri a cura della Dott. Bernardina Algieri a cura della Dott. Bernardina Algieri

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Appunti di Politica Economica

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CAPITOLO I

ELEMENTI DI POLITICA ECONOMICA

1.1 Introduzione

La politica economica è una parte della scienza economica che prende in esame l'azione compiuta in economia dall'autorità pubblica, in ambito sia macroeconomico che microeconomico. In un sistema economico che presenta un livello di disoccupazione elevato, un intervento da parte dell’autorità pubblica volto a sanare o quanto meno a mitigare il fenomeno mettendo in campo strategie atte a contrastarlo è un’azione di politica economica. L’intervento pubblico nell’economia è giustificato dalla presenza di fallimenti di mercato, quali la disoccupazione, l’inflazione, gli squilibri di bilancia dei pagamenti e il sottosviluppo.

Storicamente l'esigenza di una politica economica si manifesta allorché appare chiaro che l'economia, lasciata in mano agli interessi egoistici dei singoli operatori, non è in grado di evitare squilibri e diseguaglianze economiche, anzi spesso finisce per rendere instabile l'economia stessa, oltre che il tessuto sociale di un paese e i rapporti tra nazioni.

Adam Smith, fondatore della scienza economica, riteneva che nel Mercato operasse una “mano invisibile”, in virtù della quale l'interesse privato si trasformava in interesse collettivo. Nessuno avrebbe potuto fare meglio di quanto facesse per conto suo il mercato, capace di stabilire in modo continuo equilibri tra le forze in gioco. L'interazione della domanda e dell'offerta genererebbe di continuo prezzi di equilibrio capaci di soddisfare entrambe le parti, garantendo ad esempio condizioni di pieno impiego.

Le politiche economiche liberiste, che al pensiero di Smith si ispirano, tendono quindi a promuovere la rimozione di ogni vincolo al libero dispiegarsi delle forze di mercato e a tracciare un ruolo il più possibile ridotto per lo Stato, il cui comportamento deve essere quello di non intervenire o di intervenire il meno possibile nell'economia, dove devono prevalere gli "spiriti animali". Le posizioni liberiste di Smith sono state successivamente da molti criticate, man mano che si prendeva coscienza che esse richiedono condizioni di mercato che difficilmente si trovano nella realtà.

In particolare, in seguito alla grave crisi del ’29, molti economisti si resero conto dell’impossibilità da parte del mercato di raggiungere da solo il pieno impiego. Infatti, la profonda crisi nei consumi, che caratterizzò quel periodo, portò alla fame una gran parte della popolazione e questo succedeva perché la produzione era ben lontana dal pieno impiego. In questo contesto nasce la teoria economica di John Maynard Keynes (1936), destinata ad avere molti sostenitori (sia pure con varie rielaborazioni, soprattutto ad opera dei cosiddetti post-keynesiani). I punti salienti delle osservazioni di Keynes erano i seguenti:

Appunti di Politica Economica

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l’insufficienza della domanda: era, secondo Keynes, il basso livello della spesa per consumi ed investimenti (delle imprese) ad aver causato la crisi del 1929 e l’allontanamento del sistema dalla piena occupazione;

l’intervento statale: era evidente la necessità di un intervento statale per uscire dalla crisi e per evitarla in futuro. Si imponeva una manovra pubblica di Politica economica che rialimentasse la domanda di consumo, sia quella dei consumatori, sia quella delle imprese (per i beni d’investimento);

modalità di intervento: l’intervento poteva realizzarsi sia in termini di politica monetaria, sia in termini di politica fiscale. Secondo Keynes la manovra migliore risiedeva in una operazione di politica fiscale, e in particolare, la sua attenzione si concentrava sulla politica di spesa pubblica (ovvero l’aumento delle spese dello Stato nel sistema economico, per la costruzione di opere pubbliche, per offrire ai cittadini maggiori servizi d’istruzione, di difesa, di assistenza sanitaria, e così via). L’aumento della spesa pubblica in economia era per Keynes la manovra di politica economica più efficiente, ai fini del ritorno alla piena occupazione, perché la spesa pubblica costituisce essa stessa una domanda di consumo (proveniente dall’apparato pubblico, e non dai cittadini o dalle imprese). Attraverso la spesa pubblica in economia, quindi, lo Stato può aumentare la domanda (aggregata) di beni e la conseguente ripresa dei consumi porta il sistema verso una maggiore occupazione e lontano dalla crisi da insufficienza di domanda.

In breve, secondo John Maynard Keynes poiché i sistemi economici non sono sempre in grado di raggiungere l'equilibrio di pieno impiego in modo automatico, anzi è possibile che essi si attestino su posizioni di disequilibrio, determinate da carenze nella domanda aggregata, la politica economica ha il ruolo di stimolare la domanda e permettere di raggiungere il pieno impiego delle risorse. In Italia, uno dei maggiori interpreti del pensiero keynesiano è stato Federico Caffè. Secondo l’economista scomparso nel 1987 l’intervento pubblico in economia è auspicabile, esplicitamente:

« Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio. Non si può non prendere atto di un recente riflusso neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore. »

« ...i limiti intrinseci all’operare dell’economia di mercato, anche nell’ipotesi eroica che essa funzioni in condizioni perfettamente concorrenziali. È molto frequente nelle discussioni correnti rilevare un’insistenza metodica sui vantaggi operativi del sistema mercato, e magari su tutto ciò che ne intralci lo “spontaneo” meccanismo, senza alcuna contestuale avvertenza sui connaturali difetti del meccanismo stesso. »

DEFINIZIONE TECNICA di Politica Economica

Vi sono due definizioni di Politica Economica che possono ricondursi una ad una visione

classica e una relativamente moderna.

1) Visione classica

È dovuta all’economista Lionel Robbins che nel 1935 riprese l’idea di Jeremy Bentham

secondo cui

La politica economica è il corpo di principi dell’azione o dell’inazione del Governo

rispetto all’attività economica.

Appunti di Politica Economica

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Laddove l’azione è qualunque intervento da parte di un’autorità pubblica diretto a

influire sui comportamenti degli agenti allo scopo di ottenere determinati risultati

economici.

L’azione è la cosiddetta AGENDA di Governo

L’inazione è la NON AGENDA

2) Visione relativamente moderna

È stata proposta da Federico Caffè nel 1978, secondo cui

La politica economica è quella disciplina che ricerca le regole di condotta tendenti a

influire sui fenomeni economici in vista di orientarli in un senso desiderato.

« La politica economica è quella parte della scienza economica che usa le conoscenze

dell’analisi teorica come guida per l’azione pratica. »

Le due definizioni sono similari in quanto fanno entrambe riferimento a

PROGRAMMI DI INTERVENTO che sono definiti

La definizione di Caffè risulta più completa in quanto indica esplicitamente che i programmi

dipendono dagli obiettivi che si desiderano raggiungere.

Le due definizioni sono differenti in quanto

a) Nella definizione di Robbins, rientrano nella politica economica anche le decisioni di

non intervento, la suddetta non agenda, e quindi risultano scelte programmate non

solo le azioni che si devono fare, ma anche quelle che si sceglie di non fare. In questi

termini, allora, la politica del “lasciare fare al mercato” non è la negazione della politica

economica, ma solo un modo suo di essere. Nella definizione di Caffè si considerano

invece solo le azioni di intervento.

b) Nella definizione di Caffè rientrano nella politica economica sia le decisioni del

Governo sia quelle di altri soggetti economici singoli quali consumatori, imprese, sia

quelle di altri soggetti economici aggregati come sindacati, confederazioni di

produttori che si pongano un problema di strategia. Nella definizione di Robbins invece

si parla propriamente di esclusive azioni di Governo.

In termini riassuntivi

La politica economica studia l’azione economica compiuta dall’autorità pubblica, in ambito sia

macroeconomico che microeconomico.

Principi dell’azione Regole di condotta

Appunti di Politica Economica

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Differenza fra la Politica Economica e l’Economia Politica

La politica economica differisce dall’economia politica perché mentre quest’ultima mira allo

studio di “ciò che è”, la politica economica mira allo studio di ciò che dovrebbe essere, o “ciò

che si desidererebbe fosse”.

Mentre l’economia politica tratta fenomeni nel loro contenuto positivo (ossia riguarda la

costruzione di schemi e modelli per spiegare i fenomeni, come ad esempio la disoccupazione),

la politica economica analizza fenomeni economici nel loro contenuto NORMATIVO, ovvero

individua ed esplicita norme di comportamento per trattare i fenomeni (ad esempio interventi

atti a ridurre la disoccupazione).

Un esempio di lettura dati per discipline distinte.

Nella media del decennio 1994-2003, il PIL degli USA è cresciuto del3.3% l’anno. Nello stesso

periodo nell’Area Euro la crescita è stata in media del 2% e in Italia dell’1.7%. Vi sono tre modi

di guardare questi dati:

- La Statistica economica si chiede come si costruiscono questi numeri.

- L’Economia Politica si domanda perché si arriva a questi numeri.

-La Politica Economica si interroga su cosa si può fare per cambiare questi numeri.

1.2 Gli attori della Politica Economica

Gli attori coinvolti nei processi decisionali di natura politica sono: il decisore pubblico (o

teoricamente il Comitato), il policy maker, e il policy advisor. Essi per affrontare un problema di

politica economica definiscono e predispongono modelli economici di riferimento, che

vengono identificati nella fase iniziale dal Decisore.

I soggetti che propriamente pongono in essere la politica economica sono i:

Essi non sono altro che i responsabili della politica economica che perseguono determinati

obiettivi sulla scorta dell’ideologia del Decisore Pubblico (che può essere il partito di Governo,

un capo politico come Mao Zedong, Lenin, un capo religioso come l’ayatollah Khomeini, ma

anche opinioni di esperti come Bill Gates). L’ideologia del Decisore è detta ideologia interna.

I policy maker possono essere coadiuvati da Policy advisor, esperti di analisi e calcolo con

elevate capacità tecniche. In altri termini, essi sono tecnocrati e consulenti di cui le

amministrazioni pubbliche e politiche spesso si dotano per risolvere modelli di politica

economica.

Policy Makers

Appunti di Politica Economica

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Per essere più schematici

Il policy maker, l’autorità di politica economica, può essere vista come un unicum o come un

insieme di enti differenti fra loro con compiti specifici. L’economista Musgrave (1959)

suggerisce di rappresentare il policy maker come l’insieme di tre uffici: allocation,

stabilization e distribution buerau, che verranno analizzati successivamente.

1.3 Il programma e le azioni di Politica Economica

Per fare politica economica bisogna programmare. Un programma include gli OBIETTIVI, GLI

STRUMENTI e un MODELLO DI ANALISI.

Gli Obiettivi

Gli obiettivi sono i traguardi che la politica economica vuole raggiungere. Esempio: portare la

disoccupazione ad un livello più basso dell’anno precedente, ridurre l’evasione fiscale,

aumentare il reddito nazionale.

Gli obiettivi definiti dal Decisore pubblico e trasmessi al policy maker possono essere FISSI e

FLESSIBILI. Sono FISSI gli obiettivi il cui valore è stabilito numericamente. E’ il caso in cui il

governo mirasse a un livello di pieno impiego del 6%, oppure la Banca Centrale mirasse ad un

tasso di inflazione del 2%.

Sono FLESSIBILI gli obiettivi espressi in modo non strettamente definiti, cioè viene stabilito dal

decisore, ad esempio, il raggiungimento di un livello massimo di reddito o un livello minimo di

disoccupazione senza identificare numericamente il livello massimo o minimo, viene indicata

una funzione obiettivo e un ordinamento delle preferenze sui possibili risultati

Il Decisore Pubblico (Partito di Governo) detta gli obiettivi e il

modello economico di riferimento sulla base della propria ideologia

Il Policy maker è responsabile della

messa in atto delle azioni di politica

sulla base delle linee di Governo

Il Policy Advisor,

tecnico di strategie

e fattibilità, risolve i

modelli

Appunti di Politica Economica

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Naturalmente gli obiettivi possono esprimere:

� Ideologie conservatrici;

� Ideologie riformiste;

� Ideologie rivoluzionarie,

sulla base dei programmi di Governo e delle diverse visioni del Mondo. Di conseguenza è

chiaro che un problema di politica economica può essere affrontata secondo modelli

diversi. Ciò fa sì che alcuni obiettivi politici possono essere in conflitto.

Definiti gli obiettivi si predispongono gli strumenti per raggiungere tali obiettivi.

Gli Strumenti

Gli strumenti sono una “LEVA” di cui dispongono i policy maker per raggiungere dati obiettivi,

in altri termini si tratta di grandezze che possono essere manovrate dai responsabili in grado di

influenzare la variabile-obiettivo. Gli strumenti possono essere

DIRETTAMENTE MANOVRATI (ad esempio un intervento sulla spesa pubblica G, oppure sulla

tassazione T). Per diminuire la disoccupazione, il policy maker può pensare alla realizzazione di

grandi opere, aumentando la spesa pubblica e impiegando un numero più elevato di persone.

Oppure

INDIRETTAMENTE MANOVRATI (ad esempio incentivando gli Investimenti con politiche ad

hoc).

Riduzione della pressione fiscale per le imprese in modo da stimolare gli investimenti e quindi

l’occupazione.

Modelli di analisi

Per poter raggiungere gli obiettivi attraverso l’uso di strumenti appropriati il responsabile di

politica si serve di modelli di analisi. Il modello non è altro che una rappresentazione

semplificata della realtà generalmente espresso in termini matematici. All’interno del modello

vi sono delle variabili, o meglio delle equazioni che esprimono relazioni fra variabili. I policy -

makers quindi devono avere un modello dell'economia che metta in relazione gli strumenti e

gli obiettivi per poter scegliere i valori ottimali degli strumenti. Ad esempio considerando un

modello semplice a cui è applicata l’equazione fondamentale della macroeconomia

Y=C+I+G

Appunti di Politica Economica

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Se il policy maker ha l’obiettivo di raggiungere un determinato reddito, conoscendo C e I deve

agire sulla spesa pubblica....In questo caso G è lo strumento, Y è l’obiettivo.

la regola di Tinbergen

Il teorema di Tinbergen afferma che in caso di obiettivi fissi se le autorità di politica economica

si propongono di raggiungere “n” obiettivi, devono poter disporre di almeno “n” strumenti.

Naturalmente le ricette di politica economica sono fortemente condizionate dalle ideologie

interne tipiche del Decisore/policy maker e quelle incorporate nel modello di riferimento

ossia le ideologie esterne.

UN PROBLEMA DI POLITICA ECONOMICA E MODELLI ECONOMICI DI RIFERIMENTO

Si ipotizzi che l’obiettivo del policy maker sia quello di ridurre la disoccupazione giovanile

tramite l’aumento dell’occupazione in proprio, cioè divenire imprenditori. Che fare? Il policy

maker dovrà adottare una teoria/modello di riferimento, ossia si potrà rifare ad una delle

seguenti visioni:

1) Modello di Walras. Prevede che l’ imprenditore abbia capacità di coordinare l’attività

produttiva, e quindi gli uomini e i mezzi necessari all’attività produttiva. In questo

senso la strategia adottabile dal policy maker di ispirazione walrasiana è quella di

promuovere la formazione professionale, e attuare quindi interventi in questa

direzione.

WALRAS => PROMOZIONE DI INTERVENTI DI FORMAZIONE PROFESSIONALE

2) Modello di Knight. L’imprenditore è colui che ha una alta propensione al rischio, per

cui il policy maker di ispirazione knightiana ha il compito di facilitare l’informazione

affinchè i soggetti propensi non si sentano bloccati da una difficoltosa e non corretta

valutazione dei rischi dell’attività. La strategia di politica economica è quindi quella di

programmare interventi a livello del sistema informativo.

KNIGHT => PROMOZIONE DI INTERVENTI SUL SISTEMA INFORMATIVO

3) Modello di Schumpeter. L’imprenditore è colui che ha la capacità di creare. In questo

senso il policy maker di ispirazione schumpeteriana dovrebbe agire per stimolare le

vocazioni all’innovazione.

SCHUMPETER => PROMOZIONE DI INTERVENTI SULL’AMBIENTE SOCIALE

4) Modello di Kalecki. L’imprenditore diviene tale grazie alla disponibilità di capitali

propri. In quest’ottica il policy maker dovrebbe allentare il vincolo al capitale proprio,

per cui la sua strategia potrebbe essere quella di organizzare interventi al livello del

settore del credito.

KALECKI=> PROMOZIONE DI INTERVENTI A LIVELLO DI CREDITO

Appunti di Politica Economica

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AZIONI DI POLITICA ECONOMICA

Le azioni di politica economica si distinguono in

1) Azioni di breve periodo verso azioni di lungo periodo;

2) Azioni di natura qualitativa verso azioni quantitative.

Il criterio alla base della prima distinzione fa riferimento alla prospettiva temporale in cui si

colloca l’azione del policy maker e questa è dettata

- dagli obiettivi che si pone;

-dai tempi di efficacia degli strumenti che usa.

La distinzione fra la politica economica qualitativa e quantitativa fa riferimento:

-alla natura degli interventi attuati

-alla rilevanza delle modificazioni strutturali prodotte.

La politica delle riforme è l’espressione più compiuta di politica economica qualitativa, essa

include scelte di privatizzazioni di un’industria, devolution federalismo ecc. che determina

ripercussioni profonde nel sistema economico, modificando a volte gli stessi modelli di

comportamento degli agenti economici e il quadro istituzionale.

I Governi generalmente utilizzano con più frequenza provvedimenti di politica economica

quantitativa, che consistono nella modificazione dei valori degli strumenti normalmente in

funzione nel sistema economico per raggiungere determinati obiettivi.

1.4 Tipologie di Politica Economica

Gli interventi di politica economica possono essere di natura microeconomica e

macroeconomica.

In ambito macroeconomico si individua:

POLITICA FISCALE

POLITICA MONETARIA

POLITICA COMMERCIALE

In ambito microeconomico si individuano:

POLITICHE REDISTRIBUTIVE

POLITICHE INDUSTRIALI

POLITICHE REGIONALI

POLITICHE ANTITRUST

Appunti di Politica Economica

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POLITICA FISCALE

POLITICA FISCALE ossia l’insieme delle misure concernenti le entrate e le spese del settore

pubblico. In termini più specifici la politica fiscale è la linea di azione adottata dal governo

riguardo l'entità della spesa pubblica per beni e servizi, l'ammontare dei trasferimenti e il

sistema fiscale.

Le variabili manovrabili dallo Stato sono:

• G = spesa pubblica • TR = trasferimenti (quota di denaro che lo Stato eroga gratuitamente a vario titolo alle

famiglie) • t*Y = T = imposte riscosse (dato da una aliquota t calcolata sul reddito Y)

Con queste tre variabili si può, inoltre, evidenziare la composizione del bilancio di uno Stato (BS):

BS = T − (G + TR)

e come si può agire. In generale possiamo affermare che le manovre attuabili dallo Stato sono di due tipi: manovre espansive e manovre restrittive. Una manovra espansiva consiste nell'aumento della spesa pubblica o dei trasferimenti, oppure in una riduzione delle imposte. Tale manovra, come risulta evidente, può generare un disavanzo nel bilancio dello Stato. Una manovra restrittiva invece, consiste nella riduzione della spesa pubblica o dei trasferimenti, oppure in un aumento delle imposte.

POLITICA MONETARIA

La politica monetaria è l'insieme degli strumenti, degli obiettivi e degli interventi, adottati dalla Banca Centrale per modificare e orientare la moneta, il credito e la finanza, al fine di raggiungere obiettivi prefissati di politica economica, di cui la politica monetaria fa parte.

La politica monetaria assume il compito di garantire la stabilità dei prezzi interni ed esterni.

Tale obiettivo non può essere raggiunto attraverso il controllo diretto dei prezzi, ma con operazioni che, influendo sulla domanda e l'offerta di beni e servizi, spinga i prezzi nella direzione desiderata. In particolare se, come spesso accade, il problema da affrontare è l'eccessivo aumento dei prezzi, il compito della politica monetaria è di rallentare le dinamiche della domanda in modo da contenere l'aumento dei prezzi nei limiti desiderati.

Poiché le autorità monetarie non possono influenzare direttamente gli obiettivi finali (crescita del PIL, inflazione, tassi di cambio) devono puntare a raggiungere obiettivi intermedi (tassi di interesse, circolazione monetaria espressa attraverso gli aggregati monetari) che a loro volta influenzano gli obiettivi finali.

Per raggiungere tali obiettivi, le banche centrali, cui viene affidata solitamente la politica monetaria, compiono operazioni di mercato aperto che, attraverso la compravendita di titoli, modificano i tassi di interesse. A loro volta le modifiche dei tassi influiscono sulla domanda e l'offerta di moneta e credito e per questa via, sulla domanda e l'offerta di beni e servizi.

Appunti di Politica Economica

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Le banche centrali possono poi influire sulla riserva obbligatoria e sul tasso di sconto che, attraverso il meccanismo del rifinanziamento delle banche, serve a regolare il credito concesso dalle banche alla clientela.

Si definisce espansiva una politica monetaria che, attraverso la riduzione dei tassi di interesse, voglia stimolare l'offerta di moneta delle banche alle imprese, e quindi gli investimenti e la produzione di beni e servizi.

Al contrario si definisce restrittiva una politica monetaria che, attraverso l'aumento dei tassi di interesse, riduca l'offerta di moneta e quindi renda meno conveniente investire e produrre. Le politiche monetarie restrittive hanno l'obiettivo di ridurre l'inflazione, o far calare il disavanzo pubblico, facendo rallentare la crescita dell'economia.

POLITICA COMMERCIALE

Le politiche commerciali sono realizzate per intervenire e influenzare il commercio internazionale e generalmente agiscono nelle relazioni commerciali fra Paesi. Esse possono essere poste in essere o da singoli Governi dei Paesi o da gruppi di Paesi in concerto. Per esempio, a livello europeo vi è un’unica politica commerciale, mentre la Cina, Stati Uniti, Canada gestiscono singolarmente la propria politica.

Fra gli strumenti di politica commerciale vi sono:

Accordi bilaterali/multilaterali per stimolare il commercio

Dazi

Sussidi

Quote

Standard sanitari e fitosanitari.

A livello europeo la politica commerciale comune costituisce uno dei principali strumenti delle relazioni esterne dell'Unione europea. Tale politica rientra nella sfera di competenza esclusiva della Comunità (articolo 133 del trattato che istituisce la Comunità europea). Essa costituisce la contropartita dell'Unione doganale fra gli Stati membri. La politica commerciale comune implica una gestione uniforme delle relazioni commerciali con i paesi terzi, segnatamente tramite una tariffa doganale comune e tramite regimi comuni che regolano le importazioni e le esportazioni. La Comunità persegue l'eliminazione delle restrizioni agli scambi, nonché delle barriere doganali. Per proteggere il mercato comunitario, la Comunità dispone di strumenti quali le misure antidumping e antisovvenzioni, il regolamento sugli ostacoli al commercio e le misure di salvaguardia. La Commissione negozia e conclude accordi internazionali a nome della Comunità nel quadro delle sue relazioni bilaterali e multilaterali. Essa partecipa attivamente all'Organizzazione mondiale del commercio. L'Unione europea sostiene un commercio liberalizzato, equilibrato e favorevole agli interessi di tutti gli operatori internazionali e in particolare dei paesi meno favoriti. In tal senso, le misure preferenziali generali e specifiche in favore di questi ultimi costituiscono un aspetto importante della politica commerciale comune.

In ambito microeconomico si individuano:

POLITICHE REGIONALI

POLITICHE INDUSTRIALI

Appunti di Politica Economica

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POLITICHE ANTITRUST

POLITICHE REGIONALI

Sono politiche che hanno come obiettivo la redistribuzione geografica del reddito fra le aree territoriali di una economia. Esse quindi mirano a ridurre gli squilibri di quelle economie cosiddette duali, quali l’Italia che si caratterizza per il forte divario in termini economici, di occupazione, produzione e reddito fra il Nord e il Mezzogiorno, divario che si è andato sviluppando già con l’Unità d’Italia. Altri esempi di economie duali sono la Germania con i Länder dell’Est e dell’Ovest, il Regno Unito con la questione del Nord (povero) e Sud (ricco). Le politiche regionali possono essere stabilite a livello nazionale e locale.

POLITICHE INDUSTRIALI

La Politica Industriale è intesa come un complesso di interventi più o meno coerenti nel settore secondario.

L’Obiettivo della politica industriale è quello di creare le condizioni affinché la produzione

possa essere realizzata con costi competitivi in modo da soddisfare la domanda sia interna sia

estera.

Le forme di intervento sono di tipo settoriale, possono incidere sulle forme dei mercati, sulle relazioni con i sindacati, sulle componenti dei costi, e della domanda pubblica, con nuove tecnologie per assicurare una maggiore competitività dei prodotti. In Italia la politica industriale si attua mediante le agevolazioni creditizie destinate alle produzioni nel settore industriale o in particolari aree geografiche del Paese; ci sono anche altre forme di sostegno della produzione, come le commesse pubbliche e le agevolazioni fiscali.

L’industria include i sottosettori:

1) Manifatturiero; 2) delle Costruzioni; 3) Energia (nucleare, eolica, gas)

Le politiche realizzate nel settore industriale spesso mirano a rafforzare determinati settori, ad esempio in Italia sono state sostenute le industrie automobilistiche.

Possiamo distinguere 3 fasi distinte del comportamento dei governi riguardo alla Politica industriale, dovute al mutamento delle regole del commercio tra i singoli paesi e della progressiva globalizzazione dell’economia.

Fase 1) La politica industriale nazionale (tradizionale) – dal dopoguerra ai primi anni Ottanta. Gli stati nazionali intervenivano in sostituzione o opposizione al mercato favorendo specifici settori produttivi attraverso politiche interventiste attive. L’obiettivo principale era l’aumento della competitività internazionale attraverso i “campioni nazionali”. Con le crisi degli anni Settanta gli scopi diventarono soprattutto difensivi.

Nella fase 1 gli strumenti di politica economica variarono a seconda del paese: gli Stati Uniti ad esempio usarono la domanda pubblica protezionistica; il Giappone adottò la pratica del piano settoriale; l’Europa si servì soprattutto di sussidi alle imprese.

Appunti di Politica Economica

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Fase 2) La politica industriale come politica di aggiustamento strutturale (dall’inizio degli anni ‘80 all’inizio dei ’90) – lo Stato interviene assecondando il mercato senza sostituirlo. Si mantengono gli scopi difensivi con l’attuazione di politiche per i settori in declino.

In Italia si punta alla politica per la concorrenza. In Inghilterra cominciano processi di deregolamentazione e privatizzazioni.

Fase 3) La Politica Industriale come garanzia di condizioni-quadro - Inizia con l’avvio del Mercato Unico Europeo e la trasformazione della Comunità in Unione Europea, e la nascita del World Trade Organization. La UE resta la sola organizzazione dotata di poteri di intervento sia nella politica per la concorrenza sia nella politica industriale.

La Commissione europea presenta una politica industriale al fine di realizzare un quadro più adeguato per l'industria europea. La realizzazione di una base industriale solida e dinamica favorisce la crescita dell'Unione europea e sostiene la sua leadership tecnologica ed economica in un contesto di globalizzazione crescente.

POLITICHE ANTITRUST

Le politiche antitrust sono quelle politiche economiche volte a combattere accordi e intese fra imprese finalizzati a limitare la concorrenza; contrastare gli abusi di posizioni dominanti; impedire acquisizioni e fusioni di imprese che determinerebbero minore concorrenza. Le prime politiche antitrust vennero attuate negli USA, con il noto Sherman Antitrust Act del 1890. Successivamente, la normativa antitrust si diffuse in Europa e precisamente nel 1957 in Germania, nel 1968 nel Regno Unito, nel 1977 in Francia e nel 1990 in Italia con l’istituzione dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato.

Perché la politica antitrust in Europa nasce in ritardo rispetto agli USA? Per due motivi:

A fine Ottocento, sia gli USA che i Paesi europei iniziano a sperimentare processi di industrializzazione pesante, con episodi di concentrazione industriale e con la nascita di cartelli industriali. Gli USA e i Paesi europei scelgono di seguire due strade di intervento correttivo differenti:

- Negli USA lo Stato ricopre un ruolo di “arbitro”, quindi non era direttamente presente nel mercato, ma lo sorvegliava dall’esterno e lo svolgimento di tale compito si ripercosse sull’attuazione delle normative antitrust.

- Le Autorità di politica economica europee scelsero invece di fare intervenire direttamente lo Stato nel mercato, soprattutto incidendo sull’offerta, lo Stato, quindi, esercitava il ruolo di “giocatore”; il ruolo interventista dello Stato portò alla creazione di monopoli pubblici, il cui esercizio, almeno in astratto, si ispirava più all’ottimizzazione del benessere sociale, che a quella del profitto. Ciò portava l’Autorità di politica economica a disinteressarsi delle normative antitrust.

L’economia statunitense era chiusa e poco propensa agli scambi internazionali, mentre in Europa gli scambi con l’estero erano frequenti ed avevano come conseguenza una spiccata concorrenzialità, il che escludeva fisiologicamente la necessità di norme esterne.

Appunti di Politica Economica

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CAPITOLO II

POLITICA ECONOMICA E CRESCITA

2.1 Introduzione

"Il 2011 sarà un anno decisivo per l’economia. E la direzione in cui essa andrà dipenderà in modo cruciale dalla politica. Sono un convinto liberista e so che non sono i governi che possono determinare da soli la crescita economica. Ma vi sono fasi della storia in cui i mercati aspettano segnali dalla politica e l’anno che si apre non permetterà alla politica di seguire il detto inglese ’wait and see’. Questo vale sul piano globale, sul piano europeo e sul piano nazionale". Inizia così il lungo intervento del ministro della Pubblica Amministrazione, pubblicato su Il Sole 24Ore.

Con l’agenda internazionale attualmente in discussione si mira a dare i segnali attesi e a conseguire i due obiettivi principali. Il primo e’ quello del consolidamento fiscale, e cioè come assicurare la convergenza rapida di tutti paesi europei verso una politica di bilancio che consenta la sostenibilità di lungo periodo dei debiti pubblici e l’equilibrio macroeconomico. In discussione vi è una nuova regola europea diretta ad accelerare il processo di riduzione del debito e che prevede un obiettivo annuale di riduzione del rapporto debito/pil pari al 5 per cento del divario di questo rapporto dal valore di riferimento del 60 per cento. Il secondo obiettivo e’ quello di poter attuare politiche di sostegno alla crescita economica non basate sulla spesa in deficit, ma evitando politiche fortemente deflattive e con gli spazi necessari ad attuare le riforme necessarie ad aumentare la competitività dell’Europa nel suo complesso e dei singoli paesi membri. Fra gli obiettivi più importanti di politica economica vi sono gli interventi per favorire crescita e

sviluppo.

Il concetto di crescita è un concetto essenzialmente quantitativo: con questa parola si designa il processo di aumento del reddito nazionale di un Paese. Il concetto di sviluppo è più esteso e necessita di importanti qualificazioni relativamente ad altri aspetti del cambiamento dell’economia e della società, quali la distribuzione del reddito; le condizioni di vita; la speranza di vita; il grado di istruzione ed altro. Può esserci crescita senza sviluppo.

Indicatori di Crescita e di Sviluppo

Il principale indicatore del livello di crescita raggiunto da un’economia è il PIL e più specificatamente il PIL pro capite. Il ritmo di crescita è misurato dal tasso annuo di variazione

Appunti di Politica Economica

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del PIL. Il livello dello sviluppo è solitamente analizzato integrando gli indicatori precedenti con altri indicatori qualitativi. L’indicatore sintetico di sviluppo più utilizzato e diffuso è l’Indice di

Sviluppo Umano elaborato dall’ONU. Iniziamo la trattazione con l’analisi del Pil per individuare il livello di crescita e il ritmo di

crescita economica di un Paese per poi individuare gli strumenti di politica economica che lo

influenzano. Infine si passerà in rassegna l’indicatore sintetico del livello di sviluppo.

2.2 Il Prodotto Interno Lordo

Una delle variabili macroeconomiche che rende in maniera più immediata l’attività

economica di un paese è il PIL, prodotto interno lordo. Il PIL è “interno” in quanto comprende il valore dei beni e servizi prodotti all'interno in un paese, indipendentemente dalla nazionalità di chi li produce. Il PIL è “lordo” perché include gli ammortamenti (cioè la misura del deprezzamento dello stock di capitale). Se vengono esclusi gli ammortamenti cioè si tiene conto del deprezzamento, si parla di prodotto interno netto (PIN). In breve PIN=PIL-ammortamenti.

Il PIL può essere riferito all’intero sistema economico, si parla di PIL complessivo,

oppure può essere riferito ai singoli individui, in questo caso si parla di PIL in termini pro-

capite (questo è calcolato dividendo il PIL per il numero di abitanti). Il PIL complessivo esprime la misura della ricchezza nazionale, il PIL pro-capite misura, invece, la ricchezza individuale e permette di quantificare il tenore di vita di un dato paese. Se il PIL complessivo cresce a un tasso superiore a quello della popolazione, il tenore di vita del paese (e quindi il PIL pro-capite) registra un miglioramento, e viceversa.

Per confrontare i tenori di vita tra i diversi paesi, si può pensare di convertire il PIL pro capite in un’unica valuta, per esempio esprimere tutto in dollari statunitensi. In altri termini significherebbe utilizzare i tassi di cambio correnti per esprimere tutto in una valuta internazionale come ad esempio il dollaro americano e poi procedere alla comparazione. Questo metodo, tuttavia, non tiene conto delle differenze del costo della vita nei vari paesi, (ad esempio il prezzo di un’abitazione di uguali caratteristiche non è lo stesso fra i diversi paesi, così il prezzo per un taglio di capelli in India è molto differente da quelli registrati in Italia o in Ingliterra) per cui molti economisti ritengono opportuno tener conto dei prezzi interni di ciascun paese, quando ciò viene fatto il PIL pro capite si dice che viene espresso in termini di parità dei poteri d’acquisto, o semplicemente PIL alla PPP (“purchasing power parity”). I calcoli basati sulla PPP sono misure più ragionevoli che cercano di trasformare una valuta in un’altra a un tasso che preservi il potere d’acquisto medio e quindi tenga conto anche dell’inflazione1. La parità dei poteri d’acquisto, in altri termini, è un indicatore che elimina le differenze fra Paesi nel livello generale dei prezzi permettendo confronti in volume del Prodotto interno lordo. Il PIL pro capite alla PPP dà quindi una valutazione del tenore di vita di un paese più rappresentativa rispetto al semplice PIL pro capite ai tassi di cambio corrente. In base a dati relativi al 2007, il PIL pro capite italiano alla PPP è di 30.365 dollari statunitensi, quello del Giappone di 35.484,30, quello statunitense di 45.725. Le significative differenze di reddito fra le economie mondiali riflettono differenze di produttività (efficienza), quest’ultima è definita come il rapporto fra la produzione o PIL e il numero di lavoratori occupati. Nella seguente tabella è riportato un confronto del reddito pro-capite lordo valutato alla parità dei poteri d’acquisto per i 27 Paesi dell’Unione Europea.

1 In termini analitici la parità dei poteri di acquisto si calcola PPP2011 = tasso di cambio2011*(indice prezzo

paese A/indice prezzo paeseB)

Appunti di Politica Economica

16

Fonte: ISTAT, 2009

Box 1. Esempio, parità dei poteri di acquisto

«PPP, chi era costui?», avrebbe detto don Abbondio. Ma ai suoi tempi le parità di potere d'acquisto non esistevano. O, per meglio dire, avevano un'esistenza virtuale, nel senso che la realtà statistica esisteva, e sarebbe stato anche interessante indagarla, quando l'Italia era divisa in vari Stati con varie monete. Allora, che cos'è la PPP? Il concetto è semplice. Supponiamo di dover confrontare lo stipendio di due postini, uno che vive a Milano e uno che vive a Matera. Lo stipendio è eguale, ma i prezzi a Milano sono più alti che a Matera. Quindi lo stipendio del postino lucano ha più potere d'acquisto di quello del postino milanese. Insomma, quando si confrontano due quantità monetarie bisogna tenere conto di quello che si può comprare con quei soldi, indipendentemente dal livello nominale dei redditi. Lo stesso principio vale per il confronto fra i redditi medi – Pil pro-capite – di due diversi Paesi. Traducendo la moneta del Botswana in euro, si vede che i redditi medi di quel Paese povero sono, mettiamo, un ventesimo di quelli della Germania. Vuol dire che anche il potere d'acquisto degli abitanti del Botswana è un ventesimo di quello dei tedeschi? No, perché in quel Paese africano la roba costa di meno. Quindi, per fare un vero confronto bisogna adottare un particolare tasso di cambio, diverso da quello di mercato: un cambio che prenda in conto la diversità del livello dei prezzi nei diversi Paesi. Per fare questo bisogna rilevare i prezzi in moneta locale nei diversi Paesi e usare poi le quattro operazioni per calcolare questi particolari tassi di cambio: appunto, le parità di potere d'acquisto. Glossario Sole24ore

Appunti di Politica Economica

17

2.3 Definizioni e metodi di misurazione del PIL

In economia per analizzare lo stato di salute di un Paese, il primo passo da fare è misurare il prodotto interno lordo. Esistono quattro modi equivalenti di definire e misurare il Pil di una economia:

1. Secondo il metodo del prodotto, il PIL è il valore di mercato di tutti i beni e servizi finali nuovi prodotti in un paese in un dato periodo di tempo, generalmente l’anno o il trimestre

2. Sulla base del metodo del valore aggiunto, il PIL è la somma del valore aggiunto in una economia in un dato periodo di tempo

3. Secondo il metodo del reddito, il PIL è la somma dei redditi dell’economia in un dato periodo di tempo

4. Usando il metodo della spesa, il PIL è la somma della spesa aggregata dell’economia in un dato periodo di tempo ().

Il metodo del prodotto

Si analizzi la prima definizione: “Il PIL è il valore di mercato di tutti i beni e servizi finali

nuovi prodotti in un paese in un dato periodo di tempo”.

Per valore di mercato si intende il valore dei beni e i servizi misurato ai prezzi di mercato, cioè ai prezzi a cui i prodotti vengono venduti sui mercati. Il vantaggio di utilizzare il valore di mercato è che esso permette di sommare beni e servizi eterogenei. Si immagini di voler misurare il prodotto di una economia che produce 3.000 scooter e 10.000 panini, i cui prezzi medi sono 2.000 euro per ogni scooter e 1 euro a panino, il valore del PIL ammonta a:

3.000*2.000 + 10.000*1=6.010.000 euro

Ossia il PIL è il risultato della somma del prodotto fra il prezzo dei beni e servizi (P), e la

quantità di essi scambiata (Q).

Il PIL include beni e servizi nuovi, vale a dire prodotti nel periodo considerato, e finali, ossia quelli ottenuti nella fase terminale del processo produttivo. Le brioches vendute da un bar sono beni finali, e vengono contabilizzati nel PIL, la farina, il lievito e il burro impiegati per fare le brioches sono beni intermedi e per questo non inclusi nel calcolo del PIL.

Box 2. Esempio, beni finali & beni intermedi

Si supponga che un allevatore di bovini venda una mozzarella a “Pizza Hut” per 1 euro e che questa venda una pizza a 4 euro. Il computo del PIL dovrebbe includere sia la mozzarella che la pizza per un totale di 5 euro o solo la pizza per 4 euro? Nel calcolo del PIL secondo il metodo del prodotto vengono inclusi solo i beni e servizi finali, quindi viene considerata esclusivamente la pizza e non la mozzarella: il PIL aumenta di 4 euro e non di 5 euro, perché il valore del bene intermedio è già compreso nel prezzo di mercato del bene finale che ha concorso a produrre. Aggiungere il valore del bene intermedio a quello finale significherebbe effettuare una doppia contabilizzazione, cioè calcolare due volte il valore della mozzarella.

I beni e servizi devono essere prodotti all’interno del paese per essere contabilizzati nel

PIL di quel paese. Il PIL italiano misura tutto ciò che è prodotto in Italia, sia da italiani che da

Appunti di Politica Economica

18

soggetti stranieri. Dal PIL italiano viene invece, escluso quello che è prodotto da soggetti italiani all’ estero.

Ad esempio mentre il valore di mercato dei servizi venduti dal Club Med (multinazionale

francese) in Italia rientra nel calcolo del PIL italiano, il valore di mercato dei beni prodotti da un italiano che ha una pasticceria in Francia, viene contabilizzato nel PIL francese.

Accanto al PIL esiste un’altra variabile che permette di misurare la ricchezza nazionale e

che viene adottata dal sistema di contabilità nazionale dei paesi dell’ONU, il Prodotto

Nazionale Lordo (PNL). Il PNL valuta la ricchezza di un Paese (ad esempio l’Italia) prendendo in considerazione la produzione realizzata dai cittadini di quel Paese (gli italiani), indipendentemente dal fatto che essi si trovino nel Paese o all’estero (nel caso dell’Italia è quindi il valore della produzione degli italiani). Nell’esempio precedente, il valore di mercato dei beni del produttore italiano che ha una pasticceria in Francia viene contabilizzato sia nel PNL italiano che nel PIL francese.

Si ribadisce che, bisogna valutare il PIL in un determinato arco temporale.

Il metodo del valore aggiunto

Secondo il metodo del valore aggiunto, il PIL è la somma dei valori aggiunti in tutti gli

stadi di produzione in una economia in un dato arco temporale. Il valore aggiunto non è altro che il valore del prodotto finale meno il valore dei beni intermedi utilizzati per produrlo.

Si riprenda l’esempio dell’allevatore di bovini che vende una mozzarella a “Pizza Hut” per 1 euro e che quest’ultima venda la pizza prodotta a 4 euro. Nel caso della mozzarella il valore aggiunto dell’allevatore è di 1 euro, supponendo che non abbia acquistato alcun bene intermedio per produrla. Il valore aggiunto di “Pizza Hut” è di 3 euro (4 euro-1 euro). Il valore

aggiunto totale è pari a 4 euro (ossia 1 euro + 3 euro).

Il metodo del reddito

Il PIL è dato dalla sommatoria di tutti i redditi generati nell’economia in un anno, esso include:

i redditi da lavoro

i redditi da capitale o profitto

le imposte indirette

I redditi da lavoro sono i salari pagati ai lavoratori dipendenti; i redditi da capitale o profitto sono quelli che rimangono alle imprese dopo avere pagato i lavoratori; le imposte indirette sono quelle pagate al governo sotto forma di imposte sulle vendite.

Il metodo della spesa

Secondo il metodo della spesa il PIL (Y) o prodotto o reddito o offerta aggregata, si

compone di cinque elementi:

Y = C+I+G+E-X (1)

Appunti di Politica Economica

19

dove C=consumi, I=investimenti, G=spesa pubblica, E=esportazioni X=importazioni. L’espressione (1) rappresenta l’equazione fondamentale dell’economia. La differenza fra esportazioni ed importazioni costituisce le esportazioni nette, NX, per cui la (1) si può anche formalizzare come

Y = C+I+G+NX (1.1)

La sommatoria, C+I+G+NX rappresenta la spesa aggregata. Quando un’economia è chiusa, ossia di tipo autarchico, le esportazioni nette sono nulle (NX=0) perciò vale la relazione:

Y = C+I+G (1.2) offerta domanda

aggregata aggregata

La produzione o PIL, indicata con Y, rappresenta l’offerta aggregata del sistema economico, il secondo membro indica la domanda aggregata. L’equazione 1.2 esprime quindi l’equilibrio nel mercato dei beni e servizi poiché la domanda aggregata è pari all’offerta aggregata.

Si analizzi nel dettaglio ciascuna delle componenti della spesa aggregata.

I Consumi

I consumi delle famiglie (C), rappresentano la spesa in beni e servizi finali, dall’abbigliamento alle lezioni di tennis, effettuata sul territorio italiano. I beni e servizi consumati possono essere stati prodotti nel paese o importati. Nei consumi italiani sono inclusi anche i consumi dei turisti stranieri in Italia, mentre sono escluse le spese per turismo all’estero degli italiani.

Il consumo è la componente più rilevante del PIL e in Italia contribuisce con più del 60%

alla sua formazione. Si possono individuare quattro tipologie di consumo: 1) beni durevoli, destinati ad un uso prolungato nel tempo, come ad esempio

automobili, mobili, televisioni; 2) beni semidurevoli, aventi di solito una durata media superiore all’anno, ma di

gran lunga inferiore a quella dei beni durevoli. Appartengono a questo gruppo il vestiario e le calzature, la biancheria e gli pneumatici;

3) beni non durevoli, acquistati e consumati nel periodo di riferimento, come

generi alimentari, medicinali; 4) servizi come ad esempio i servizi finanziari, le spese per alberghi e ristoranti.

Il reddito disponibile (che si indica con YD) è il fattore principale da cui dipendono le decisioni di consumo degli individui. Esso è il reddito al netto delle imposte, ossia dopo avere pagato le imposte T, per cui risulta in termini analitici, YD=Y-T. È possibile assumere che la forma funzionale della relazione tra il consumo e il reddito disponibile sia lineare:

Appunti di Politica Economica

20

DYcCC ⋅+= con 10 <<> c0 C (2)

dove C è il consumo, C è la componente autonoma dei consumi2, YD il reddito disponibile e c è la propensione marginale al consumo, ossia evidenzia di quanto varia il consumo in seguito ad una variazione unitaria di reddito3. c rappresenta graficamente l’inclinazione della funzione di consumo. La propensione marginale al consumo è compresa fra 0 e 1, in quanto gli individui tendono ad aumentare i propri consumi all’aumentare del reddito, ma non nella stessa misura in cui il reddito aumenta. Se un soggetto guadagna un euro in più, normalmente ne consuma una parte e ne risparmia la parte restante. L’equazione (2) è la funzione consumo di matrice keynesiana, ed evidenzia la relazione positiva che sussiste fra consumo e reddito disponibile, ossia al crescere di quest’ultimo i consumi aumentano, e viceversa. In un piano cartesiano la funzione di consumo può essere rappresentata nel modo che segue:

Figura 1 La funzione consumo keynesiana

Nel piano cartesiano sull’asse delle ascisse è riportato il reddito disponibile, su quello delle

ordinate i consumi. Data l’ipotesi di linearità, la funzione è rappresentata da una retta che

ha inclinazione positiva; il segmento intercettato dalla retta sull’asse delle ordinate

rappresenta la componente autonoma dei consumi, inoltre la pendenza della retta dà la

propensione marginale al consumo.

2 La grandezza è detta “autonoma” in quanto non dipende dal reddito. 3 Oltre alla propensione marginale al consumo, vi è la propensione marginale al risparmio. Quest’ultima rappresenta l'aumento del risparmio determinato da un incremento del reddito disponibile pari ad una unità di moneta (ad esempio un euro). La propensione marginale al risparmio è il complemento a 1 della propensione marginale al consumo, ossia s = 1 − c dove s = propensione marginale al risparmio e c = propensione marginale al consumo.

Yd reddito disponibile

C

C

Funzione consumo, YcCC ⋅+= d

c

Appunti di Politica Economica

21

Box 3. Risparmio privato e risparmio pubblico

Il risparmio è l’altra faccia della medaglia dei consumi. Per capire meglio la natura del risparmio è necessario distinguere fra risparmio privato e pubblico. Il risparmio privato é reddito che rimane agli individui dopo aver soddisfatto i propri bisogni di consumo e aver pagato le tasse, ossia:

Sprivato= (Y – C – T)

Il risparmio pubblico è differenza tra entrate pubbliche e la spesa pubblica, in particolar se T > G avremo un avanzo pubblico (entrate maggiori delle uscite), se invece T < G avremo un deficit di bilancio (uscite maggiori delle entrate):

Spubblico= (T – G)

Il risparmio nazionale o risparmio totale è dato dalla somma del risparmio pubblico e privato.

S= Sprivato + Spubblico

S = (Y – C – T) + (T – G)

S = (Y – C – G)

Modo alternativo per esprimere l’equilibrio nel mercato dei beni e servizi

Un modo alternativo all’equazione 1.2 per descrivere l’equilibrio nel mercato dei beni e servizi in un’economia chiusa è considerare gli investimenti e i risparmi di un paese. In particolare, partendo dall’uguaglianza Y = C + I + G e isolando il termine investimenti, si ottiene:

Y-C-G=I

Sapendo che se dal reddito complessivo vengono sottratte la spesa per i consumi correnti e la spesa pubblica (spesa corrente dello stato) si ottiene il risparmio nazionale ossia S = Y – C – G , allora in un sistema economico in equilibrio il risparmio deve essere quindi uguale agli investimenti:

S=I

L’ equazione 1.2, ossia Y = C+I+G e l’uguaglianza S=I sono, pertanto, due modi equivalenti per formalizzare l’equilibrio macroeconomico di un paese in condizioni di autarchia.

Gli Investimenti

La componente “I” nella precedente relazione (1) rappresenta gli investimenti, questi si distinguono in: investimenti fissi delle imprese (ad esempio impianti, attrezzature e fabbricati), investimenti residenziali (ad esempio immobili abitativi) e investimenti in scorte, ossia beni rimasti invenduti. Generalmente per acquistare beni di investimento le imprese prendono denaro in prestito. Maggiore è il tasso di interesse su tali prestiti, minori sono i profitti che le imprese si aspettano di realizzare perciò minori sono i capitali destinati all’acquisto di nuovi macchinari e fabbricati, e quindi inferiore sarà la disponibilità a prendere a prestito per fare investimenti. Viceversa, in presenza di tassi di interessi più bassi le imprese saranno maggiormente disposte ad investire.

Appunti di Politica Economica

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Gli investimenti e il tasso di interesse

La funzione della spesa per investimenti (I) può essere espressa dalla seguente relazione:

ibII ⋅−= b>0 (3)

dove la variabile i rappresenta il tasso di interesse, il coefficiente b misura la sensibilità degli investimenti al tasso di interesse e la variabile Ī indica la spesa autonoma in investimenti, ossia quella che non dipende né dal livello del reddito né dal tasso di interesse. L’equazione (3) indica che quanto minore è il tasso di interesse, tanto maggiore è l’investimento; se il valore del coefficiente b è elevato, un aumento relativamente modesto del tasso di interesse provoca una riduzione notevole della spesa in investimenti.

La Figura 2, rappresentazione della curva di investimento espressa dall’equazione (3),

indica l’ammontare della spesa che le imprese programmano di destinare agli investimenti in corrispondenza di ogni livello del tasso di interesse. La curva ha pendenza negativa, a conferma dell’ipotesi secondo la quale una riduzione del tasso di interesse porta le imprese a investire di più.

Figura 2 La curva di domanda per investimento

Bisogna notare che il tasso di interesse può essere nominale o reale: il tasso di interesse nominale, si indica con i , include l’inflazione (π); il tasso di interesse reale si indica con r ed esclude l’inflazione, per cui in termini analitici quest’ultimo è pari a r =i-π. L’andamento del tasso di interesse in termini reali e nominali sui BOT a tre mesi in Italia è riportato in Figura 3. Il confronto rende evidente il livello di inflazione.

I, investimento

i, tasso di interesse

nominale

Appunti di Politica Economica

23

Figura 3 Andamento dei tassi di interesse sui BOT a tre mesi.

Fonte: Istat, 2008

Nella contabilità nazionale vengono inclusi esclusivamente gli investimenti in capitale fisso (macchinari e infrastrutture), investimenti residenziali e scorte, non vengono considerati gli investimenti intangibili, ossia gli investimenti in R&D (research & development), in software, in educazione, e le spese sostenute dalle imprese per riorganizzare la produzione, migliorare un prodotto, portarlo sul mercato e consolidarne la reputazione. Gli investimenti intangibili sono quella componente degli investimenti che permette di accrescere il capitale umano. Studi economici recenti per gli Stati Uniti e il Regno Unito indicano che da circa dieci anni l’accumulazione di capitale “intangibile” ha superato o raggiunto per dimensioni gli investimenti in capitale fisso. Si stima che essi abbiano superato il 10% del PIL, per cui le statistiche ufficiali tenderebbero a sottostimare il quadro aggregato (il livello del reddito e il suo tasso di crescita). È probabile che il peso degli investimenti intangibili sia cresciuto nel tempo, insieme alla terziarizzazione delle economie avanzate. Quanto sono rilevanti gli investimenti intangibili in Italia? Le stime non appaiono attendibili. Sembra tuttavia che questi siano meno significativi nel nostro Paese rispetto ad altre economie. Sommando spesa in R&D, software, istruzione avanzata in percentuale del reddito nazionale, l’Italia è in fondo alla classifica dei Paesi OCSE, poco davanti al Portogallo e Grecia (Tabellini, il Sole 24 ore, 6-5-2007).

La Spesa Pubblica

G esprime la spesa pubblica o consumi collettivi, ossia l’acquisto di beni e servizi da parte dello Stato e degli Enti pubblici. In questa voce rientrano, quindi, i consumi delle Amministrazioni pubbliche (dalla manutenzione delle strade agli stipendi dei dipendenti pubblici) e delle Istituzioni sociali private (es. sindacati, partiti politici, associazioni religiose). La voce principale di spesa pubblica italiana è costituita dalla spesa sanitaria, seguono la spesa previdenziale e le retribuzioni ai dipendenti pubblici.

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Le Esportazioni Nette

Con NX si indicano le esportazioni nette (o saldo commerciale) ossia la differenza fra esportazioni ed importazioni. Le esportazioni sono i beni e servizi prodotti in un paese e venduti all’estero. Le importazioni sono i beni e servizi che un paese compra dall’estero. Se si verifica che le esportazioni superano le importazioni l’economia presenta un avanzo commerciale. Viceversa se sono le importazioni a superare le esportazioni si è di fronte a un disavanzo commerciale.

Il PIL valutato secondo i quattro metodi

Il PIL misurato secondo i quattro metodi, ossia il metodo del prodotto, il metodo del valore aggiunto, il metodo della spesa e il metodo del reddito deve coincidere. In altre parole, a meno di problemi di completezza o errori nella trascrizione dei dati, i metodi forniscono un’identica misura del livello dell’attività economica. Proprio per questo, deve essere vero che in ogni specifico periodo di tempo,

prodotto totale=valore aggiunto totale=reddito totale=spesa totale (4)

dove prodotto, valore aggiunto, reddito e spesa sono misurati in termini monetari. L’equazione 4 è detta identità fondamentale di contabilità nazionale. Nella seguente tabella si riportano le componenti del PIL italiano relativo al 2009.

Fonte: Banca d’Italia, 2010

100% PIL

-1,9% Esportazioni nette

19,2% Investimenti fissi lordi

21,8% Spesa delle P.A.

60,9% Consumi

%

Le componenti del PIL in Italia nel 2009, contributi %

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25

2.4 Distinzione fra PIL reale e PIL nominale

Come ogni variabile economica, il PIL può essere misurato in termini reali o termini nominali. Il PIL nominale è il valore della produzione espresso in termini di moneta, ossia la somma delle quantità di beni e servizi finali prodotti moltiplicata per il prezzo corrente. Per questo Il PIL nominale si chiama anche PIL a prezzi correnti. Il PIL nominale, varia nel tempo o perché varia la produzione o perché variano i prezzi, o entrambi. Quindi il PIL nominale descrive l’andamento della produzione includendo sia le variazioni delle quantità prodotte, sia le variazioni dei prezzi dei beni prodotti.

Yt=qt*pt

Il PIL reale, è il valore della produzione espresso in termini di beni, ossia la somma delle quantità di beni e servizi finali prodotti moltiplicata per un prezzo costante. Per questo si chiama anche PIL a prezzi costanti. Il PIL reale, varia nel tempo solo perché varia la produzione. Quindi esso esprime l’andamento della produzione di beni e servizi frutto solo delle variazioni delle quantità. Il PIL reale è quindi depurato dagli effetti delle variazioni di prezzo (o inflazione). È una grandezza più significativa rispetto al PIL nominale, perché esso misura la produzione in termini di effettivo potere d’acquisto della collettività e valuta quindi, il benessere economico di un paese.

Yt=qt*p

PIL nominale

PIL reale

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Nel seguente grafico sono messi a confronto il PIL reale e nominale in Italia dal 1987 al 2011. Si nota che il PIL nominale è cresciuto di più del PIL reale e questo si è verificato soprattutto dopo il 2000.

Figura 4 Andamento del PIL nominale e reale in Italia in miliardi di euro.

0

200

400

600

800

1000

1200

1400

1600

18001987

1988

1989

1990

1991

1992

1993

1994

1995

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

PIL reale

PIL nominale

Fonte: Elaborazioni su Economist Intelligence Unit

Secondo i dati ISTAT, nel 2006 il PIL reale dell’area Euro4 è stato pari a 13.000 miliardi di euro, i Paesi che hanno maggiormente contribuito alla sua formazione sono stati, la Germania, la Francia, l’Italia e la Spagna (Figura 5).

Figura 5 Contributi % dei Paesi alla formazione del PIL dell’area Euro, 2006

Francia

16%

Germania

20%

Italia

13%Spagna

9%

Altri paesi

42%

Fonte: ISTAT, 2008.

4 Quando si parla di “Area dell’Euro” o di “Eurozona” o di di “Eurolandia” si intende l’area che

comprende i paesi dell’Unione Europea che hanno adottato l’Euro come moneta ufficiale. L’Area euro dal 1° gennaio 2001 è costituita da Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna. Si aggiungono dal 1° gennaio 2007 la Slovenia, dal 1° gennaio 2008 Cipro e Malta, dal 1° gennaio 2009 la Slovacchia e dal gennaio 2011 l’Estonia. L’Unione

europea è costituita da 27 Paesi, i 17 dell’area euro e Bulgaria, Danimarca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Regno Unito,Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Ungheria. L’Area euro è quindi un “sottoinsieme” dell’Unione Europea.

Appunti di Politica Economica

27

2.5 Determinazione del PIL reale e nominale

Per passare dal PIL nominale al PIL reale è necessario eliminare gli effetti delle variazioni dei prezzi sulla produzione, ciò si fa selezionando un anno base, ossia un anno di riferimento, e utilizzando poi i prezzi di quell’anno per valutare la produzione di beni e servizi in altri periodi.

A titolo di esempio, si consideri un paese che produce quattro beni: pane, latte, mele e barrette di cioccolata. Nella tabella sono riportate le quantità prodotte di ciascun bene e i relativi prezzi nell’anno 1 e nell’anno 2. Supponendo l’anno 1 come anno base, è possibile trovare il PIL nominale e reale nei due periodi.

Anno 1 Anno 2

quantità prezzo (euro/kg) quantità prezzo (euro/kg)

pane 100 1,20 pane 108 1,50

latte 80 1,30 latte 85 1,70

mele 120 0,90 mele 130 1,20

cioccolata 76 0,50 cioccolata 85 1,00

Il PIL nominale nell’anno 1 è 370 euro, ossia

37050,0*7690,0*12030,1*8020,1*100 =+++

Il PIL nominale nell’anno 2 è 547,50 euro, ossia

50,54700,1*8520,1*13070,1*8550,1*108 =+++

Il PIL reale nell’anno 1 è uguale al PIL nominale dell’anno 1, ossia

37050,0*7690,0*12030,1*8020,1*100 =+++

Il PIL reale nell’anno 2 è 399,60 euro, ossia

60,39950,0*8590,0*13030,1*8520,1*108 =+++

Dal confronto si rileva che il PIL reale nell’anno 2 è minore del PIL nominale relativo allo

stesso anno, questo perchè il PIL reale è privato dell’inflazione. Si ricava inoltre che nel

passaggio dall’anno 1 all’anno 2 il PIL reale è aumentato: l’economia presenta una crescita di

produzione.

Appunti di Politica Economica

28

2.6 Il ritmo della crescita: il tasso di crescita del PIL

Per valutare il ritmo della crescita economica di un paese si utilizza il tasso di crescita del PIL.

Quando si sente parlare ad esempio di aumenti del PIL dell’ 1,5% fra il 2003 e il 2004, oppure si registra fra il primo e secondo trimestre del 2010 una contrazione della produzione dello 0,6%, si sta argomentando di tassi di variazione o tassi di crescita (in positivo o negativo) del prodotto interno lordo. L’utilizzo dei tassi di crescita è piuttosto efficace perché permette di confrontare, in maniera immediata, l’attività economica di un paese in momenti di tempo diversi. In termini analitici si ha:

100% var 1

1 ⋅−

=−

t

tt

Y

YYiazionediTasso

Il tasso di variazione percentuale può essere espresso in termini nominali e reali.

Il tasso di crescita o tasso di variazione nominale indica di quanto è cresciuto o diminuito in termini nominali il PIL dal periodo t-1 al periodo t.

Il tasso di crescita o tasso di variazione reale denota di quanto è variato in termini reali il PIL nell’arco temporale t-1, t.

La differenza tra i due tassi di crescita si spiega con la variazione nei prezzi intervenuta tra i periodi considerati. Qui di seguito si riporta il tasso di crescita reale del PIL italiano negli ultimi anni e le previsioni per il 2010 e 2011.

Figura 6 Variazione % del PIL reale italiano.

0

1.5

0.7

2

1.6

-1

-5.1

0.81.1

-6

-5

-4

-3

-2

-1

0

1

2

3

2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

Valori in %.

Fonte: IMF, WEO Aprile 2010. Previsioni per il 2010-2011

Si nota che il nostro Paese è stato colpito da una severa recessione fra il 2008 e la metà del 2009. Nel primo semestre 2009 il prodotto interno lordo italiano ha segnato una contrazione del 5,1 per cento, la più marcata del dopoguerra. Nel secondo semestre si è avviata una moderata ripresa, soprattutto a seguito del graduale miglioramento delle esportazioni (Banca d’Italia, 2010). Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale l’economia italiana il PIL reale crescerà dell’1.1% nel 2011 e dell’1.3% nel 2012.

Appunti di Politica Economica

29

2.7 Determinanti dei tassi di crescita economica fra Paesi

Il livello del PIL e la crescita economica di un paese sono strettamente correlati alla capacità produttiva del sistema economico del paese stesso. In altre parole, il tenore di vita di una economia dipende dalla sua capacità di produrre beni e servizi. Più i paesi sono produttivi, più sperimentano elevati tassi di sviluppo e ricchezza economica. Produttività e crescita sono quindi strettamente legate. Per produttività si intende la quantità di beni e servizi che un lavoratore può produrre in

un’unità di tempo.

La produttività dipende dalle seguenti determinanti: capitale fisico: disponibilità di attrezzature e di strutture che vengono utilizzate per

produrre beni e servizi; capitale umano: conoscenze e abilità che il lavoratore acquisisce attraverso

l’istruzione, l’addestramento e l’esperienza professionale. Specificatamente si designa col termine di ‘capitale umano' la popolazione in età lavorativa di un Paese e il complesso del "saper fare" (istruzione, abilità, formazione) incorporato nei lavoratori. A differenza del capitale fisico, il capitale umano è intangibile, ma non meno reale. Le moderne teorie dello sviluppo mettono ormai l'accento sul capitale umano come fattore essenziale dello sviluppo, man mano che il sistema economico si inoltra nell'"economia della conoscenza". Risorse naturali e trasformazione grezza sono molto meno importanti di prima (malgrado i vantaggi che oggi affluiscono ai Paesi produttori di petrolio e altre materie prime) e i vantaggi comparati oggi risiedono soprattutto nella qualità e nella quantità del human capital. Sistema educativo, formazione sul luogo di lavoro, ricerca e sviluppo, e riaddestramento di quanti sono costretti a passare da settori in declino a settori in espansione sono i principali strumenti per il miglioramento del capitale umano.

risorse naturali: i fattori della produzione di beni e servizi che vengono forniti dalla natura, quali terra, fiumi, giacimenti minerari;

conoscenze tecnologiche: l’insieme di conoscenze di cui la società dispone sulle modalità di produzione di beni e servizi.

I governi nazionali possono intervenire sulla crescita economica aumentando la produttività del proprio sistema paese. In particolare, la politica economica può cercare di agire sulle determinanti della produttività attraverso:

l’istruzione: provvedendo ad un buon sistema scolastico e incoraggiando la popolazione ad utilizzarlo proficuamente;

la ricerca e lo sviluppo: promuovendo la ricerca tesa anche a favorire il progresso in campo tecnologico.

l’accumulazione del capitale: stimolando gli investimenti e la propensione al risparmio;

l’accumulazione del capitale estero: stimolando gli investimenti esteri diretti e gli investimenti esteri di portafoglio;

la stabilità politica: garantendo un sistema giudiziario efficiente, stabile e non corrotto;

i diritti di proprietà: proteggendo la possibilità da parte degli individui di esercitare la potestà sulle risorse che loro appartengono;

il libero scambio: favorendo la libera commercializzazione dei beni e dei servizi;

Appunti di Politica Economica

30

2.8 Critiche al PIL e la Commissione Sarkozy

Tra gli indicatori economici più contestati vi è senz’altro il Prodotto Interno Lordo. Il Pil fu l´unità di misura utilizzata per uscire dalla Grande Depressione del ‘29, in un periodo in cui la produzione di acciaio veniva considerata un indicatore universale di buona salute economica di un Paese. Il PIL risulta tuttavia un misuratore impreciso in quanto, per esempio, mette all´attivo anche gli esborsi monetari per riparare le catastrofi derivanti dal malgoverno del territorio o vede in un terremoto che distrugge una città un arricchimento collettivo. Già nel lontano marzo del 1968 Robert Kennedy pronunciava, presso l'Università del Kansas, un discorso nel quale evidenziava -tra l'altro- l'inadeguatezza del PIL come indicatore del benessere delle nazioni economicamente sviluppate. Tre mesi dopo veniva ucciso durante la sua campagna elettorale che lo avrebbe probabilmente portato a divenire Presidente degli Stati Uniti d'America.

“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero

perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.

Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, nè i successi del

paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria

e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle

carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte

di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che

valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la

produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la

disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa

per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i

bassifondi popolari.

Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o

della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la

solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici

dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti

fra di noi.

Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra

conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in

breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.

Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere

americani.”(Robert Kennedy).

Da tempo gli economisti cercano un’alternativa al PIL. Il dibattito ha fruttato una ricca letteratura economica e si è ampliato con il diffondersi di movimenti no e new global a cavallo del 2000. Le proposte lanciate sono state molte. Nel gennaio 2008, il presidente francese Nicolas Sarkozy incaricò una commissione, composta da una trentina di economisti di rilevanza mondiale e presieduta dai premi Nobel Joe Stiglitz e Amartya Sen, di studiare e proporre alternative al Pil. Il lungo rapporto conclusivo è stato presentato nel settembre 2009. Il risultato è deludente per coloro che si aspettavano un nuovo indicatore sintetico che sostituisse completamente il Pil. Le attese erano forse eccessive: ci si aspettava una nuova misura semplice e diretta come il Pil ma allo stesso tempo più complessa, per cogliere i tanti aspetti – prodotti e non prodotti – che influenzano il nostro benessere. La commissione ha, invece, dato dodici raccomandazioni piuttosto generali: il benessere materiale deve essere valutato al livello di nucleo familiare, tenendo in considerazione il reddito e il consumo e non tanto la produzione come accade ora con il Pil. Si deve dare una maggiore enfasi alla

Appunti di Politica Economica

31

distribuzione del reddito, del consumo e della ricchezza: un aumento medio non corrisponde per forza a un aumento per tutti, come Trilussa già notava a inizio Novecento. La commissione chiede, inoltre, di estendere la misura ad attività non di mercato. Questo punto riguarda il calcolo delle attività e servizi in famiglia, per esempio la cura degli ammalati e degli anziani, un tema sempre più di attualità. Raccomanda, inoltre, di prendere in considerazione la multidimensionalità della misura del benessere che tocca le condizioni economiche ma anche l’educazione, la salute, la qualità della democrazia, le reti sociali, l’ambiente, la sicurezza. Una gran parte del rapporto si occupa poi delle questioni di sostenibilità ambientale per misurare la crescita al netto della distruzione di risorse e i rischi del cambiamento climatico.

2.9 L’indice di Sviluppo Umano

Si è evidenziato che il PIL è un indicatore di crescita, ma non dà alcuna notizia circa lo sviluppo di un paese, che può avere crescita, ma non sviluppo. L’indicatore che permette di valutare il tenore di vita e quindi il grado di benessere è l’Indice di sviluppo umano (ISU), proposto per la prima volta nel 1990 dal Programma delle nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP). L’indice si costruisce considerando sia il PIL pro capite, sia parametri nuovi quali l’alfabetizzazione della popolazione adulta e la durata media della vita. Secondo i dati recentemente pubblicati, nel 2010 il valore dell’indice per l’Italia era 0,854, minore dello 0,885 della Germania e dello 0,902 degli Stati Uniti. Rispetto a questi due paesi, un reddito pro capite da noi più basso viene in parte compensato da una speranza di vita più alta. La graduatoria e le distanze fra i tre paesi che si evincono dall’indicatore dipendono tuttavia crucialmente dal fatto che alle sue tre componenti viene attribuito lo stesso peso. Molto spesso la difficoltà di optare per un indicatore oggettivo del livello di benessere (come il PIL o l’ISU) ha indirizzato la ricerca verso misure soggettive, basate su questionari e quindi, sulla valutazione individuale: si chiede alle persone quanto siano soddisfatte della vita che conducono. Questo tipo di domanda appare anche nell’Eurobarometro, un sondaggio di opinione condotto dalla Commissione europea fin dagli anni Settanta tra i cittadini della comunità. La quota di italiani che si dichiarano abbastanza o molto soddisfatti cresce dal 58 per cento nel 1975 all’80 nel 1991; da allora oscilla intorno a un trend costante. Questa dinamica è allineata con quella del PIL pro capite fino alla metà degli anni Novanta; dopo, l’indice di soddisfazione piega verso il basso, più della decelerazione del prodotto per abitante. Non è agevole spiegare questa divergenza. Essa potrebbe riflettere il “paradosso di Easterlin”, secondo cui la crescita del reddito, oltre un certo livello, cessa di associarsi a un aumento del benessere soggettivo; ma la validità empirica di questa ipotesi è controversa; inoltre, il fenomeno è osservabile solo in Italia fra i maggiori paesi europei. Gli indicatori di percezione soggettiva della qualità della vita hanno un valore informativo autonomo rispetto alle misure quantitative di reddito e ricchezza; è certamente eccessivo dire che essi soli costituiscano una misura attendibile del progresso umano. Come le preferenze nei consumi possono essere influenzate da fattori esterni, quali la pubblicità, così le valutazioni individuali sul grado di soddisfazione possono non rivelare alienazione, frustrazione: possono essere il frutto di una rassegnata, ma errata convinzione che non possa esistere un mondo più desiderabile, se conosciuto. La politica economica che deve rispondere alle vere aspirazioni dei cittadini non può non tenere conto di tutti gli indicatori: soggettivi, oggettivi. Nel grafico che segue viene confrontato l’andamento del PIL pro-capite con la quota percentuale di persone

Appunti di Politica Economica

32

soddisfatte della propria vita. Da esso si rileva che al crescere del PIL non corrisponde sempre una crescita della soddisfazione della propria vita.

Appunti di Politica Economica

33

CAPITOLO III

POLITICA ECONOMICA, DEBITO & DEFICIT PUBBLICO

3.1 Introduzione

Accanto alle politiche di sostegno alla crescita economica, i governi mirano ad avere bilanci in

attivo e a ridurre il debito pubblico.

3.2 Il bilancio pubblico: deficit e avanzi

Il bilancio pubblico è il documento giuridico contabile previsto dall'art. 815 della Costituzione da approvare con scadenza annuale che evidenzia il bilancio (entrate verso uscite) di tutti gli enti e le amministrazioni pubbliche (Stato, Regioni, Province e Comuni). Tale documento contabile è essenziale in quanto è attraverso il bilancio che si attuano le scelte operate dal governo circa gli obiettivi di politica economica. Il bilancio dello Stato può essere anche in versione pluriennale se si riferisce ad un arco temporale più lungo (in Italia un triennio) o di previsione se riporta le entrate e le uscite previste nell’arco temporale considerato. Il bilancio è di consuntivo se registra le uscite e le entrate già effettuate. Come tutti i bilanci, quello pubblico registra:

– Entrate – Uscite – Saldo

Le entrate del bilancio sono suddivise in categorie:

Imposte dirette, ossia le imposte prelevate sul reddito e sul patrimonio, si applicano

-sul reddito delle persone fisiche (Irpef) -sul patrimonio delle imprese (Irap6)

I redditi personali soggetti al regime d'imposta Irpef sono tutte le entrate economiche derivanti da:

5 « Le camere approvano ogni anno i bilanci ed il rendiconto consuntivo presentati dal governo.

L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori

complessivamente quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi

tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. »

6 Imposta regionale sulle attività produttive.

Appunti di Politica Economica

34

- attività di lavoro dipendente - attività di lavoro autonomo e d’impresa - pensioni e assegni assimilabili - immobili (terreni, edifici, appartamenti, ...) - redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria (plusvalenze). Al reddito complessivo (imponibile) si applicano le aliquote di imposta progressive secondo il sistema a scaglioni. Per il 2011 sono previsti cinque scaglioni di reddito con un’aliquota che varia dal 23% al 43%.

Scaglioni di reddito Aliquota Irpef lordo 2011

da 0 a 15.000 euro 23% 23% del reddito

da 15.000,01 a 28.000 euro 27% 3.450 + 27% sulla parte eccedente i 15.000 euro

da 28.000,01 a 55.000 euro 38% 6.960 + 38% sulla parte eccedente i 28.000 euro

da 55.000,01 a 75.000 euro 41% 17.220 + 41% sulla parte eccedente i 55.000 euro

oltre 75.000 euro 43% 25.420 + 43% sulla parte eccedente i 75.000 euro

Imposte indirette, colpiscono la ricchezza nel momento in cui viene trasferita (es. la

vendita di un bene) o viene consumata (es. fruizione di un servizio o di una prestazione) o viene prodotta . Esempi di imposte indirette sono: - le imposte sul consumo (Iva) - le imposte sulla produzione (Accise) - le imposte di registro - le imposte catastali - le imposte ipotecarie - le imposte di bollo

Contributi sociali (che rappresentano circa 1/3 del totale entrate) sono dei tributi pagati dai lavoratori e dai datori di lavoro per finanziare il sistema di sicurezza sociale (pensioni, sussidi di disoccupazione e assegni familiari).

Altre entrate correnti (ad esempio proventi delle lotterie e dei giochi)

Figura 7 Pressione Fiscale in alcuni Paesi Europei. Anni 2003-2007, incidenza percentuale sul PIL

Fonte: ISTAT, 2009.

Nel linguaggio corrente i termini tassa e imposta vengono spesso utilizzati in modo equivalente, ma in realtà, in sede giuridica, tali espressioni individuano tributi tra loro molto diversi.

Appunti di Politica Economica

35

La tassa è un tributo che il singolo soggetto è tenuto a versare quale corrispettivo per la prestazione a suo favore di un servizio offerto da parte di un ente pubblico. Si basa cioè sul principio della controprestazione.

A titolo esemplificativo si possono menzionare la tassa per la raccolta dei rifiuti, la tassa scolastica, tasse portuali ed aeroportuali, la tassa sulle concessioni governative, la tassa per l'occupazione di spazi e aree pubbliche ecc.

L'imposta è un tributo o prelievo coattivo di ricchezza non connesso ad una specifica prestazione da parte dello Stato o degli altri enti pubblici. L’IVA o le imposte sul reddito ne sono un esempio.

Tra le voci uscita rientrano:

la spesa pubblica i trasferimenti gli interessi

La spesa pubblica (G) consiste nelle spese sostenute per la produzione di servizi pubblici non destinabili alla vendita, quali l’istruzione, la sanità, la difesa nazionale, e la spesa per stipendi pagati ai dipendenti pubblici. In questa categoria di uscite sono inclusi anche gli investimenti pubblici (opere stradali, dighe, porti e ponti).

I trasferimenti sono pagamenti effettuati dallo Stato a favore di famiglie e imprese, in cambio dei quali le pubbliche amministrazioni non ricevono alcun bene o servizio. Le principali componenti della spesa per trasferimenti sono le prestazioni sociali ossia l’erogazione di pensioni, interventi di sostegno al reddito, sussidi di disoccupazione, assegni familiari.

Gli interessi sono quelli che si formano sul debito pubblico, che devono essere pagati dallo Stato ai detentori di titoli di debito pubblico. La spesa per gli interessi corrisposti ai detentori dei titoli statali viene indicata come servizio del debito.

Il saldo del bilancio pubblico è la differenza fra entrate ed uscite. Da esso si rileva la situazione dei conti pubblici, per cui se

le uscite pubbliche superano le entrate pubbliche lo Stato presenta un deficit o disavanzo; se

le uscite pubbliche sono inferiori alle entrate pubbliche lo Stato presenta un avanzo o surplus.

Fra le uscite non vengono contabilizzati i trasferimenti (TR) che vengono direttamente decurtati dalle tasse.

In termini ufficiali si distingue fra il deficit in senso stretto dato da:

0>−⋅+=+=−= TBiGentrate-passato debito sulnominali interessipubblica spesaentrateuscitedeficit 1-t

E il deficit primario, ossia il disavanzo che non include gli interessi nominali sul debito passato:

0>−== TGentrate-apubblic spesaprimario deficit

I due concetti di deficit forniscono informazioni differenti: il deficit primario ci dice se le amministrazioni pubbliche sono in grado di far fronte al costo dei propri programmi correnti di

Appunti di Politica Economica

36

spesa. Il deficit in senso stretto, includendo i pagamenti per interessi, presenta sia la situazione delle spese correnti che di quelle passate finanziate con l’indebitamento.

Per valutare la situazione effettiva delle finanze pubbliche bisogna distinguere fra i deficit causati da andamenti sfavorevoli del ciclo economico (deficit congiunturali) e i deficit di natura strutturali vale a dire i disavanzi che l’economia registra in condizioni di pieno impiego. Mentre i primi rappresentano un problema meno grave, i secondi, se elevati, costituiscono un serio pericolo per le economie.

3.3 Differenza fra debito pubblico e deficit pubblico

Fra debito pubblico e deficit pubblico esiste una importante distinzione, il deficit pubblico (che è una grandezza di flusso) è la differenza fra le uscite e le entrate delle amministrazioni pubbliche in un dato anno. Il debito pubblico (che è una grandezza di stock) è il debito dello Stato nei confronti di altri soggetti, individui, imprese, banche o soggetti stranieri, che hanno sottoscritto obbligazioni (come BOT e CCT) destinate a coprire il fabbisogno finanziario statale. In breve, il debito è rappresentato dal valore dei titoli emessi dalle amministrazioni pubbliche ed è costituito dalla somma del deficit di bilancio del periodo attuale più gli interessi che si stanno pagando per i titoli emessi nei periodi precedenti allo scopo di finanziare i precedenti disavanzi di bilancio. L’eredità dei disavanzi del passato quindi consiste in un maggior debito corrente. Il debito pubblico in Italia viene contratto a livello nazionale dal Governo Centrale, a livello locale dagli organi amministrativi regionali, provinciali e comunali.

Appare chiaro che, se anno dopo anno, il bilancio dello Stato chiude sempre con un deficit, ossia le uscite (spesa pubblica) superano sempre le entrate (essenzialmente gettito fiscale), alla fine viene a realizzarsi una situazione insostenibile, pari a quella di un individuo che sistematicamente spende più di quanto guadagna ed è quindi costretto ad indebitarsi con un meccanismo a spirale.

In termini analitici, il deficit relativo ad un qualsiasi anno equivale alla variazione del debito registratosi in quello stesso anno rispetto all’anno precedente. Se definiamo con Bt

7 il debito pubblico nell’anno t e con Bt-1 il debito pubblico nell’anno t-1, il deficit è dato dalla variazione fra il debito nei due periodi:

ttt BBBDeficit ∆=−= −1 (3.0)

per cui possiamo riscrivere l’equazione del deficit come:

3214342143421debito sul eressiint

t

primario deficit

tt

deficit

tt BiTGBB 11 −− ⋅+−=− (3.1)

Spostando il termine Bt-1 sul lato destro dell’equazione otteniamo il livello del debito pubblico corrente:

{ 443442143421debito sul eressiint passato debito

t

primario deficit

tt

debito

t B)i(TGB+

−⋅++−= 11 (3.2)

7 B deriva dall’inglese “Bond”. Il bond è un’obbligazione, un titolo emesso da persona giuridica che

contrae un prestito per un ammontare e data determinati, garantendo un rendimento a chi lo acquista e la restituzione della somma alla scadenza.

Appunti di Politica Economica

37

3.4 Perché gli Stati si indebitano

Storicamente gli Stati si sono indebitati per finanziare le guerre, ad esempio nel 1800 la Francia si indebitò per sostenere le spese belliche napoleoniche, in Italia il debito crebbe nella seconda metà dell’ ‘800 per realizzare l’unificazione del 1861, e proprio in quel periodo venne stilato il Grande Libro del Debito Pubblico in cui si riportavano le posizioni debitorie italiane. Gli Stati si sono indebitati inoltre per effettuare spese straordinarie, ossia finanziare grandi opere pubbliche. Il debito moderno è causato prevalentemente da spese ordinarie, scarso rigore delle Amministrazioni Pubbliche che causa significativi sprechi, evasione fiscale, costi della politica e sostegno delle aziende in crisi (caso Alitalia). Le conseguenze del debito sono notevoli in quanto si riducono le risorse per finanziare scelte strategiche quali investimenti in ricerca, scuola, infrastrutture, aumenta la pressione fiscale, si registra un possibile calo nel rapporto quantità/qualità dei servizi erogati, peggiorano le valutazioni delle agenzie di rating,

aumenta la disoccupazione (↓S → ↓I → ↓Y→ ↑u), il debito rappresenta inoltre un onere a carico delle generazioni future.

3.5 L’andamento del rapporto debito/PIL e deficit/PIL

Dal momento che i paesi caratterizzati da un reddito nazionale più alto dispongono di maggiori risorse con cui far fronte al proprio debito pubblico e ai pagamenti per interessi su di esso, un’utile misura dello stato di indebitamento di un paese è il rapporto fra lo stock di debito pubblico e il prodotto interno lordo (PIL). Questo permette di rilevare in maniera più immediata se il debito pubblico è troppo elevato. Infatti se due paesi, A e B, registrano lo stesso livello di debito es. 15 milioni di euro, ma PIL differenti ad esempio PILA=300 milioni di euro e PILB=10 milioni di euro i rispettivi rapporti debito/PIL percentuali sono 5% e 150%, per cui mentre il debito del paese A è contenuto quello del paese B è eccessivo. Allo stesso modo è più utile valutare il rapporto deficit/PIL rispetto al solo livello del deficit. L’andamento dei rapporti debito/PIL e deficit/PIL è stato alla base della definizione dei criteri di Maastricht.

In particolare il Trattato di Maastricht del 1992 stabiliva che per entrare a far parte dell’Unione monetaria i paesi dovessero avere un rapporto debito/PIL inferiore al 60% e allo stesso tempo un rapporto deficit/PIL sotto il 3%. Successivamente col trattato di Amsterdam del 1997 e l’adozione del Patto di Stabilità, i due criteri che si configuravano come condizioni di entrata sono diventati condizioni vincolanti che devono essere rispettate in maniera permanente. Ai paesi che superano il limite del 3% e non attuano rapidamente misure correttive si applicano le sanzioni previste dall’Ecofin8. Queste consistono in un deposito infruttifero pari allo 0,5% del PIL. Se la violazione perdura per oltre due anni il paese perde definitivamente il deposito. Le sanzioni non si applicano solo se il paese supera il limite del 3% a seguito di una recessione particolarmente grave.

8Con il termine Ecofin si indica il “Consiglio Economia e Finanza” formato dai Ministri dell'Economia e

delle Finanze dei 27 stati membri dell' Unione Europea riuniti in seno al Consiglio dell'Unione Europea. L'Ecofin si riunisce una volta al mese a Bruxelles o a Lussemburgo; e inoltre si riunisce in via informale, una volta ogni sei mesi nel paese che in quel momento detiene la presidenza del Consiglio dell'UE. L'Ecofin ha il compito di preparare e adottare ogni anno, insieme al Parlamento europeo, il bilancio dell'Unione europea e inoltre si occupa di monitorare le politiche di bilancio e le finanze pubbliche dei Paesi membri, coordinare le politiche economiche, sorvegliare la situazione economica e l’andamento dei mercati finanziari e, infine, si occupa delle relazioni economiche con i paesi terzi.

Appunti di Politica Economica

38

Per valutare analiticamente il rapporto debito/PIL, dividiamo entrambi i lati dell’equazione 3.2 per la produzione reale Yt, si ottiene:

t

t

t

tt

t

t

Y

B)i(

Y

TG

Y

B 11 −⋅++

−= (3.3)

moltiplicando e dividendo per il PIL dell’anno passato, Yt-1, l’ultimo termine della (3.3) si ottiene:

t

t

t

t

t

tt

t

t

Y

B)i(

Y

Y

Y

TG

Y

B 1

1

1 1 −

− ⋅+⋅+

−= (3.4)

Indicando con g il tasso di crescita della produzione, t

t

Y

Y 1− può essere scritto come g+1

1.

Inoltre, utilizzando l’approssimazione gig

i −+=++

11

1 possiamo scrivere l’equazione

precedente come:

1

11−

−⋅−++−

=t

t

t

tt

t

t

Y

B)gi(

Y

TG

Y

B (3.5)

Questa equazione indica i fattori che influenzano il debito pubblico: il disavanzo primario (se G-T>0, il debito pubblico aumenta, se invece G-T<0 il debito pubblico diminuisce); il tasso di interesse (i) sul debito passato (tassi di interessi più elevati rispetto al tasso di crescita del PIL implicano un aumento del debito corrente); il tasso di crescita della produzione (maggiore è il tasso di crescita del PIL, g, rispetto ad i, minore è il debito corrente).

Box 4 Il debito e deficit pubblico in Italia

L’Italia ha registrato tre periodi di debito pubblico elevato. Negli ultimi decenni dell’ ‘800 il debito (in rapporto al PIL) fu alimentato dallo sforzo dell’unificazione dell’Italia (1861), ma in seguito, la rapida crescita economica degli anni dei governi Giolitti lo ridusse rapidamente. Il debito crebbe di nuovo durante la 1

a guerra mondiale e poi durante la 2

a e in effetti i debiti sono stati storicamente causati dai

conflitti bellici, proprio per le ingenti spese di guerra e in armamenti sostenute. Negli ultimi anni 70’ il rapporto debito/PIL italiano crebbe di nuovo raggiungendo anche valori del 120%, questa volta però il debito fu causato da un aumento della spesa sociale (pensioni, sanità, istruzione) non finanziato da un parallelo aumento delle imposte. È necessario il trattato di Maastricht nel 1992 e la pressione esercitata dalle condizioni di ammissione all’Unione economica e monetaria, perché il debito ritornasse su valori più contenuti, dell’ordine del 105%. Le proiezioni attuali mostrano che la riduzione del debito/PIL italiano proseguirà nei prossimi anni, anche se la velocità del rientro è strettamente legata all’andamento della crescita economica nazionale. Secondo i dati Eurostat, l'Italia ha chiuso il 2006 con un debito pubblico al 106,5% del PIL e un deficit al 4,4% del PIL. Nella zona euro e nei Ventisette il disavanzo è sceso, rispetto al 2005: in Eurolandia è passato dal 2,5% all'1,6% lo scorso anno, mentre nell'UE nel suo insieme dal 2,4% all'1,7%. “Nel 2006 - scrive l'Ufficio europeo di statistica - i disavanzi maggiori rispetto al PIL sono stati registrati da Ungheria (-9,2%), Italia (-4,4%), Polonia e Portogallo (entrambi -3,9%) e Slovacchia (-3,4%). Undici paesi hanno invece concluso il 2006 in surplus, in testa Danimarca (+4,2%) e Finlandia (+3,9%). A seguire poi Estonia (+3,8%), Bulgaria (+3,3), Irlanda (+2,9%), Svezia (+2,2) Spagna (+1,8%), Paesi Bassi (+0,6%), Lettonia (+0,4%), Belgio (+0,2%) e Lussemburgo (+0,1%). »In tutto - scrive ancora Eurostat - 22 paesi membri hanno registrato un miglioramento del

Appunti di Politica Economica

39

deficit, rispetto al 2005, solo in 5 stati è stato osservato un peggioramento”. Nel 2007 il debito pubblico si è attestato a 103,5% del PIL per poi tornare a salire negli anni successivi.

Debito Pubblico Anni 1998-2011, incidenza percentuale sul PIL.

114.9

105.8106.5

103.5

106.1

115.8

118.2118.9

95

100

105

110

115

120

valori %

1998 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

Fonte: Elaborazioni su dati Commissione Europea, 2010. Stime per glianni 2010-2011

L’andamento di lungo periodo del rapporto debito/PIL italiano è mostrato nel seguente grafico.

Andamento del Debito/PIL italiano 1984-2007

50

60

70

80

90

100

110

120

130

1984

1985

1986

1987

1988

1989

1990

1991

1992

1993

1994

1995

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

%

Per quanto riguarda il rapporto deficit/PIL l’Italia ha superato il limite previsto dal trattato di Stabilità e Crescita. Deficit Pubblico Anni 2006-2011, incidenza percentuale sul PIL.

3.3

1.5

2.7

5.3 5.3 5

0

1

2

3

4

5

6

Valori %

2006 2007 2008 2009 2010 2011

Fonte: Elaborazioni su dati Commissione Europea, 2010. Stime per glianni 2010-2011

3.6 Perché si deve ridurre il debito

L'esigenza di tenere sotto controllo l'espansione del debito pubblico ha due principali motivazioni.

La prima risiede nel fatto che l’indebitamento dello Stato provoca un trasferimento dell’onere del rimborso sulle future generazioni di contribuenti, si parla di trasmissione

intergenerazionale del debito. Le generazioni future potrebbero perciò subire i contraccolpi di un elevato indebitamento pagando più tasse e beneficiando di minori servizi.

La seconda è connessa al fatto che il debito e i deficit producono effetti macroeconomici negativi. Il deficit pubblico, in altri termini un risparmio pubblico negativo, provoca una contrazione degli investimenti e un aumento dei tassi di interesse. Minori investimenti, a loro volta, conducono a una minore disponibilità di capitale e, in conseguenza, una contrazione della produttività del lavoro e della produzione di beni e servizi dell’economia.

Box 5 I PIGS

Il termine PIGS è stato utilizzato a partire dagli anni novanta dagli analisti economici come acronimo dispregiativo (Pigs in inglese significa maiali) per indicare quattro paesi dell'Europa meridionale: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna con cattive situazioni economico-finanziarie. C' è anche chi inserisce nella «categoria», se così si può definire, l' Irlanda, un tempo «tigre celtica», oggi nazione dall' economia un po' malmessa, per cui il termine diventerebbe PIIGS. Fatto sta che i Pigs, nella formazione ristretta o allargata che sia, con la crisi economica stanno registrando un debito pubblico in veloce risalita e un rapporto deficit-pil in progressiva crescita. C' è un parametro cui gli addetti ai lavori guardano per indagare la salute dei PIGS: lo spread, cioè la differenza tra i rendimenti dei titoli di stato dei paesi in questione e i bund tedeschi. Più la forbice si apre maggiore è il rischio di default dei Paesi. A marzo 2011 lo spread dei bond decennali ellenici con il bund tedesco è salito a 963 punti, vicino al record di 974 punti del 7 gennaio. A ruota segue il rendimento dei titoli decennali irlandesi con 617 punti di spread, i rendimenti portoghesi con uno spread pari a 439 punti e quello dei bond spagnoli con 218 punti di spread. Più contenuto l'impatto sui titoli italiani, con 168 punti di spread.

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3.7 Strumenti per ridurre il debito pubblico elevato

Se il rapporto debito/PIL raggiunge un livello troppo elevato la situazione economica può degenerare a tal punto che si sfocia in una crisi finanziaria, come quella greca del 2010. Per quanto riguarda il nostro Paese, il debito pubblico è tra i più alti al mondo, arrivando alla gigantesca cifra di circa 1850 miliardi di euro, pari a oltre 30 mila euro per ciascun cittadino nel 2010.

Le opzioni che ha un governo per ridurre o stabilizzare il rapporto debito/PIL sono:

generare avanzi primari sufficientemente ampi. A questo scopo il governo può tagliare le spese, oppure aumentare le imposte;

promuove più crescita economica; ripudiare il debito pubblico, interamente o anche parzialmente, questo significa che il

governo cancella il debito in essere, oppure che introduce imposte sui titoli pubblici che non erano previste quando gli investitori avevano acquistato i titoli;

attuare una politica di signoraggio, ossia stampare moneta ricorrendo al finanziamento monetario della banca centrale

Generare avanzi primari è la strada più virtuosa per ridurre un elevato debito pubblico. Tuttavia è anche la più ardua. Tagliare le spese è politicamente costoso, e a volte non è socialmente proponibile; imporre nuove tasse è una scelta impopolare ed esiste comunque un limite massimo al carico tributario, oltre il quale il costo (soprattutto politico) dell’esazione di maggiori imposte diventa troppo alto. Per incamerare più introiti soprattutto in Italia, si sono fatte una serie di proposte: il policy maker potrebbe innanzitutto condurre una dura lotta

contro l’evasione. Il nostro Paese, infatti, è al primo posto in Europa, con il 54,5 per cento del reddito imponibile evaso (in crescita del 10,1 per cento, nei primi 11 mesi del 2010). Le imposte sottratte all’erario ammontano a 159 miliardi di euro l’anno. E proprio dalla lotta agli evasori, con tutte le difficoltà che comprende una tale operazione, potrebbe provenire una somma da destinare all’abbassamento del debito. Per generare avanzi primari si è poi proposto di tassare i redditi da capitale (interessi su titoli, conti correnti e dividendi su azioni) oltre la media attuale del 12,5 per cento. Tuttavia, tassando le rendite finanziarie si andrebbe a colpire anche quella forma di investimento con funzione “previdenziale” adottato dalle fasce medio - basse, visto che gran parte dei titoli di Stato (oltre il 40 per cento) e di azioni, fondi comuni e altri titoli (oltre il 30 per cento) è in mano di famiglie che fanno capo a un impiegato e un operaio. Inoltre si è proposta la patrimoniale su tutte le famiglie o sui cittadini più ricchi. L’istituzione di una imposta patrimoniale (per tutti) è stata avanzata dall’ex premier Giuliano Amato. Secondo Amato, lo Stato dovrebbe prelevare in media a ogni italiano (a seconda del patrimonio) circa 10.000 euro (pari a un terzo del debito pubblico pro capite) e in modo graduale, al fine di abbassare il debito dal 118% all’80% del Pil. Questa ipotesi, oltre che un pesante costo politico per chi la varasse, trova però una contestazione di merito: chi ci garantisce che, una volta pagata questa sovrattassa, il debito non torni a salire? Secondo Susanna Camusso, leader della Cgil occorre “varare una patrimoniale sulle grandi ricchezze per mettere il Paese al riparo dalla speculazione finanziaria”, accanto a una ”riforma fiscale che riesca a ridare fiato innanzitutto ai redditi da lavoro dipendente e alle pensioni”. Ma c’è anche chi ha rilevato come questa proposta sia inattuabile, perché spesso i patrimoni intestati fisicamente alle persone con un reddito di fascia alta risultano minimi e occorrerebbe un preciso vaglio su tutte le società (spesso all’estero) che possono essere ricondotte ai medesimi soggetti e non solo sulle persone fisiche.

Una strada alternativa può esser quella della maggior crescita che ha il pregio di aumentare il PIL e quindi di aumentare il denominatore della frazione riducendo il debito percentuale.

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Infatti a parità di debito, ma a PIL crescente il debito percentuale diminuisce. Ma a parte il debito, la crescita può influire su un altro parametro che sta a cuore ai tutti i paesi, ovvero la riduzione della disoccupazione.

Un’altra via che il governo può perseguire è quella di convincere la banca centrale a stampare moneta e finanziare il disavanzo tramite signoraggio. L’aumento dell’offerta di moneta, tuttavia porta ad un aumento del tasso di inflazione che potrebbe risultare vorticoso. L’inflazione se da un lato erode il valore della moneta posseduta dai cittadini e riduce il valore reale dei titoli di Stato da loro posseduti, dall’ altra favorisce la condizione del debitore e quindi quella dello Stato.

Infine il governo può adottare una soluzione più traumatica, ripudiando totalmente o parzialmente il debito pubblico, ossia non rimborsando o rimborsando solo minimamente i titoli di Stato. L’esito di questa soluzione è principalmente una rottura del rapporto di fiducia fra il governo e i cittadini, i quali potrebbero essere non più disposti a sottoscrivere ulteriore debito pubblico. Casi di insolvenza e conseguente ripudio del debito si sono verificati, in tempi più o meno recenti, in Spagna e Argentina. La Spagna dichiarò bancarotta per 16 volte fra metà ottocento e il novecento. Nel 2001 il governo argentino ha rifiutato di pagare i detentori di titoli ed ha tolto al pesos argentino corso legale. Con questo atto l'Argentina, rifiutandosi di pagare i vecchi creditori, ha azzerato il debito pubblico nella vecchia valuta. Dopo la bancarotta il Paese ha attraversato un periodo molto difficile, oggi si sta risollevando e i bond argentini hanno di nuovo un largo mercato nelle borse internazionali.

3.8 Il livello di tassazione: la curva di Laffer

Nei Paesi democratici esiste un dibattito sulle modalità di prelievo e sull'impiego delle tasse. Le tasse servono a ripagare il debito pubblico, finanziare servizi come scuole, sanità, assistenza. Alcuni Paesi hanno adottato un sistema di flat tax, ad aliquota unica o con poche aliquote per le principali imposte. Alcuni ritengono che la semplificazione fiscale, la riduzione delle aliquote riducano l'elusione e l'evasione e al limite che, in base alla curva di Laffer, un'aliquota unica, opportunamente scelta, massimizzi il gettito fiscale. Altri ritengono l'aliquota unica e la riduzione degli scaglioni profondamente iniqua verso i ceti medi e contro il principio di progressività del prelievo fiscale, affermato in varie Costituzioni.

La curva di Laffer è una curva a campana che mette in relazione l'aliquota di imposta t (asse delle ascisse) con le entrate fiscali T (asse delle ordinate) (vedi figura seguente) che l'economista dell'University of Southern California impiegò per convincere l'allora candidato repubblicano alle presidenziali del 1980, Ronald Reagan, a diminuire le imposte dirette.

Laffer ipotizzò che esiste un livello del prelievo fiscale oltre il quale l'attività economica non è più conveniente, il gettito diminuisce fino ad azzerarsi se il prelievo raggiunge il 100% del reddito, e quindi che le due grandezze sono legate da una curva continua a forma di campana. In particolare, spostandosi verso destra, all'aumentare delle aliquote, il gettito dapprima cresce (tratto t0 Tmax), una volta raggiunto il massimo, inizia a decrescere (tratto Tmax tmax). In particolare si può verificare che si riesce ad avere lo stesso gettito (T1) con aliquote diverse, in particolare t1 <t3. La spiegazione è semplice: all'aumentare dell'aliquota, poiché il debito di imposta aumenta, il beneficio di cui un soggetto gode lavorando per un'ora al netto di imposta si riduce sempre di più.

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Figura 8 La curva di Laffer

In altri termini, secondo Laffer esisteva un'aliquota t* che massimizzava il gettito fiscale Tmax, oltre Tmax un aumento delle imposte avrebbe disincentivato l'attività economica e quindi ridotto il gettito, in misura crescente, fino al punto in cui il prelievo fiscale, se raggiungesse il 100%, causerebbe l'azzeramento del gettito. È noto l'andamento qualitativo della curva, mentre esiste un dibattito fra economisti riguardo al valore dell'aliquota che ottimizza le entrate pubbliche. La riduzione del gettito è a sua volta interpretabile come cessazione delle attività economiche a causa di una pressione fiscale eccessiva, o come aumento dell'evasione ed elusione fiscale.

Oltrepassata l’aliquota ottimale t* il gettito fiscale tende a diminuire per tre fenomeni: evasione, elusione, sottrazione.

L’evasione consiste nel dichiarare un imponibile minore rispetto a quello reale con lo scopo di pagare meno imposte.

L’elusione consiste nel “truccare” la natura dell’operazione con lo scopo di beneficiare di minori imposte. A differenza dell’evasione l’elusione non si presenta come illegale; essa infatti formalmente rispetta le leggi vigenti, ma le aggira nel loro aspetto sostanziale frustrando il motivo per il quale sono state approvate. Ad esempio, se le imposte sulla vendita di un immobile sono del 35% e quelle sulla vendita di azioni del 20%, il possessore dell'immobile può conferirlo in una società per azioni al solo scopo di vendere poi le azioni della società proprietaria dell'immobile con fortissimo risparmio fiscale. Qui l'elusione sta nell'utilizzazione dello strumento società per azioni non per svolgere un'attività d'impresa, ma solo per trasferire la proprietà sostanziale dell'immobile, infatti in questo caso l'acquirente delle azioni in realtà ha acquistato l'immobile, ma in questo modo il venditore ha beneficiato di un'aliquota impositiva fortemente ridotta.

La sottrazione consiste nel sottrarre l’imponibile dalla tassazione eliminandolo o spostandolo. È l'effetto di cui gli economisti della supply side economics (cioè politica dell’offerta) più si preoccupavano. L’offerta è composta dalla produzione delle imprese, il reddito derivante dall’allocazione di tale produzione è soggetto ad imposta. Per sottrarre l’imponibile è necessario non produrre più questo reddito, o produrlo altrove. In entrambe i casi l’effetto è un calo della produzione globale e cioè della crescita del paese in questione.

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Alcuni fiscalisti, in base a questa curva, propongono il ritorno ad un sistema di tassazione ad aliquota unica (flat-tax), pari al valore ottimo che massimizza il gettito fiscale. Il problema, però, è duplice:

1. La flat-tax, dove tutti pagano la stessa aliquota, appare ingiusta, in quanto obbliga i meno abbienti a pagare in proporzione quanto i ricchi.

2. Calcolare a priori quale sia l'optimum per un dato sistema fiscale richiede una conoscenza troppo dettagliata delle psicologie individuali, ossia quanto ognuno ritiene "giusto" pagare, e non è detto che un sistema ad aliquota unica sia più valido di uno a più aliquote.

Gli USA si trovavano nel 1980, secondo Laffer e secondo gli economisti della supply side economics, a destra del punto t*, e pertanto una riduzione delle aliquote avrebbe prodotto un aumento dell'attività economica e quindi delle entrate fiscali.

Mancava tuttavia una qualsiasi evidenza empirica di tale tesi. Quando il presidente USA Ronald Reagan ridusse le imposte, coerentemente con le previsioni, le entrate fiscali diminuirono in rapporto al Pil, e avendo contemporaneamente aumentato spropositatamente la spesa pubblica, esplose il deficit pubblico degli Stati Uniti. Va precisato tuttavia che l'esplosione della spesa pubblica non ha niente a che fare con la curva di Laffer e che, in valore assoluto, le entrate fiscali sono in effetti aumentate in quel periodo.

Altri economisti sono scettici e sostengono che questa teoria non abbia avuto nessuna conferma empirica. Il premio Nobel per l'economia Joseph E. Stiglitz l'ha definita, nel suo libro I ruggenti anni Novanta, "una teoria scarabocchiata su un foglio di carta".