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EDITORIALI

Per la corrispondenza: [email protected]

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Le mutate condizioni del contesto sanitario, perl’incremento delle opportunità diagnostico-tera-

peutiche, la modifica del tipo di patologie (cresce ilfenomeno del riacutizzarsi di patologie croniche),l’aumento dell’età media dei pazienti, la modificadelle modalità del mo-rire, sempre più spes-so gestite dalla medi-cina anziché dalla fa-miglia, ci costringonoa confrontarci con unnuovo paradigma eti-co, quello del limiteda porre al nostroagire per non sconfi-nare in cure inappro-priate per eccesso, ilcosiddetto “accani-mento terapeutico”.L’invecchiamento del-la popolazione com-porta la necessità diun nuovo approccioai sistemi di cura allafine della vita; nelXXI secolo questosarà il problema fon-damentale per la sa-nità pubblica. Occor-re rendersi conto cheun’assistenza non ade-guata alla fine dellavita rappresenta una mancanza gravissima per unsistema sanitario. Purtroppo notiamo notevoli ritar-di proprio sul problema di questo tipo di cure.Perché? Perché il tema della morte e della fine dellavita è molto “impopolare”, ma è un tema che non si

può né nascondere, né ignorare. In fondo non c’èargomento che ci riguardi tutti indistintamente piùda vicino. A differenza del passato e in conseguen-za dell’accresciuto potere medico sulla vita, oggi lamorte è sempre meno un evento improvviso. Anche

nelle malattie ingua-ribili, la medicina è ingrado di prolungare ilprocesso del morire.Sono divenute perciòsempre più frequentiquelle situazioni, de-finite “prive di di-gnità”, che periodica-mente affiorano allaconsapevolezza pub-blica attraverso casiclamorosi (es. TerriSchiavo, PiergiorgioWelby, Eluana En-glaro).Cosa ci si aspetta dal-la medicina? Il vissu-to psicologico del-l’uomo contempora-neo evidenzia il rifiu-to della morte e un’at-tesa sproporzionatanell’efficacia dellamedicina. I risultatinegativi, inevitabili,non devono essere

considerati come sconfitte; bisogna sempre tener pre-sente che esistono dei limiti dovuti alle leggi di natu-ra. Spesso, invece, molti non accettano questi limiti eprevalgono perciò speranze infondate che sono all’o-rigine delle numerose denunce improprie di “colpe ed

Lo scompenso terminale e le cure palliative.Cosa il cardiologo sta imparando dall’oncologo

Lorenzo Boncinelli

Dirigente Medico S.O.D. Cardiologia e Medicina GeriatricaDipartimento Area Critica Medico Chirurgica A.O.U. Careggi - Firenze

Nicola Mangoni di Caravaggio (1519) - Santa Maria Annunziata - Abbiategrasso.La figura morente è al centro delle cure e degli affetti di tutti i presenti. Ancor oggi,nei momenti estremi della vita, viene richiesta ai curanti alta sensibilità ed alta uma-nità.Nelle fasi più avanzate della malattia, i malati provano angoscia per la paura dellamorte, dell’isolamento e dell’abbandono sociale. La comunicazione col paziente allo-ra può attenuare l’angoscia, configurandosi oltre che come impegno etico, nel suoindubbio valore terapeutico.

Iconografia fuori testo a cura di Bruno Domenichelli.

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errori” nei confronti dei medici. Tali denunce in Italiasono aumentate in 8 anni del 184%. Nella maggio-ranza dei casi sono causate da cattiva comunicazio-ne con i pazienti e soprattutto con i familiari.Fino a qualche anno fa la medicina era centrata sulpaziente (una medicina paternalistica), alla dia-gnosi seguiva una terapia; oggi non è più così, oggisi avverte la necessità di confrontarsi con il vissutodel paziente, prestando attenzione alla sua volontà eal suo consenso. È indispensabile, quindi, una buonainformazione/comunicazione, che deve coinvolgerel’intera équipe sanitaria. L’informazione cominciadall’ascolto; è recente la nascita della medicinanarrativa. Occorre parlare col paziente e non alpaziente. La comunicazione ha pregio, se impronta-ta a profonda umiltà. L’informazione è così impor-tante che al punto 5 della “Carta di Firenze sullasanità” si legge: “il tempo dedicato all’informazio-ne, alla comunicazione e alla relazione è tempo dicura”. Quindi la principale funzione della comu-nicazione è di tipo terapeutico, perché è una pre-stazione professionale vera e propria, volta a favori-re il successo delle terapie e a sostituirle, quandoqueste abbiano esaurito la loro efficacia. Proprio ilpaziente, e non altri, deve essere posto al centrodella comunicazione e della cura: lo impone la leggesulla privacy, che vieta che la diagnosi sia fattaconoscere ai familiari. Il paziente deve essere messonelle condizioni di poter pianificare al meglio lapropria vita: spetta a lui scegliere il medico, gestirela situazione patrimoniale e/o sentimentale. La dia-gnosi va comunicata al paziente, sarà lui a farcicapire se non desidera conoscere tutta la verità.Invece l’atteggiamento di iperprotezione, messo inatto dai parenti, è spesso più dannoso che vantag-gioso. Il malato, i cui parenti si sostituiscono nelrapporto col medico, a dispetto delle apparenze, siritrova solo di fronte alla malattia e alla morte.Le persone affette da malattie croniche gravi pre-sentano spesso le stesse preoccupazioni e gli stessibisogni; perciò, seguendo il protocollo utilizzatodagli oncologi, e valido per qualsiasi altra patologia,per una adeguata comunicazione di fronte ad unpaziente critico occorrre: a) preparare il dialogo; b)verificare quanto e cosa malato e familiari già san-no; c) accertare quanto e cosa essi vogliono sapere;d) dare informazioni vere, graduate nel tempo econdivise con l’intera équipe dei curanti; e) gestirela relazione con empatia, prevenendo i conflitti, nonsoffocando l’emotività.

Ciascuno di noi, di fronte a un soggetto malato, devechiedersi: “Cosa provano i malati nella fase avanza-ta della malattia?” Sappiamo che provano grandeangoscia per paura della morte e, soprattutto, per iltimore dell’isolamento, dell’abbandono sociale,della dipendenza dagli altri.A tal proposito si consiglia di leggere il testo“Dall’altra parte”, pubblicato nel 2006; i tre autori,Sandro Bartoccioni, Gianni Bonadonna, FrancescoSartori, famosi medici, raccontano la loro malattia,come storia di paura, di sofferenza e di solitudine.Questi colleghi ci esortano al “prendersi cura”.Prendersi cura è dovere imprescindibile del medico.Prendersi cura significa occuparsi globalmente delmalato, sia nella fase curativa, (quella in cui le curemodificano la storia naturale della malattia), sianella fase delle cure palliative, in cui la nostra azio-ne è volta essenzialmente a controllare i sintomi emantenere una accettabile qualità della vita.È opportuno quindi affrontare il percorso del mo-rire come un percorso di cura che si prolunga conun’azione di sostegno alla famiglia, fino al periododel lutto. È ovvio che, in questo percorso di cura,dobbiamo coinvolgere tutto il personale che si occu-pa dell’assistenza al malato terminale1.Ma cosa si intende per cure di fine vita? Secondol’OMS, per cure di fine vita si intende una cura glo-bale e attiva di pazienti, la cui malattia non è piùresponsiva ai trattamenti curativi. Questo approccioal problema richiede che si cerchi di mantenere lamigliore qualità possibile di vita attraverso il con-trollo delle innumerevoli alterazioni fisiche, psico-logiche, sociali e spirituali dei pazienti e delle lorofamiglie. Poiché le cure palliative, o cure di finevita, sono nate soprattutto per i pazienti affetti dapatologia tumorale, è proprio dall’esperienza deglioncologi che i cardiologi devono acquisire compe-tenze in questo ambito della medicina.A questo punto occorre chiedersi che rilevanza ha loscompenso cardiaco (SC) nella pratica quotidianadei medici, in particolare dei cardiologi. Da moltiautori lo SC è considerato la pandemia del XXIsecolo. In Italia ci sono circa 700.000 pazienti affet-ti da questa patologia. Lo SC costituisce il I° DRGmedico: ogni anno sono 75.000 i nuovi casi; 500sono i ricoveri giornalieri (un numero superiore aquelli causati dall’infarto miocardico) di cui l’80-90% sono casi di riospedalizzazioni. In Europa iltasso di mortalità per SC è superiore a quello delleforme più comuni di cancro.

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Di fronte ad una malattia cronica progressiva, perprogrammare meglio i nostri interventi, occorreconoscere quali sono le traiettorie verso il decesso.Le malattie neoplastiche hanno un chiaro declinoche precede il decesso; le malattie neurodegenerati-ve, hanno un declino lento e progressivo; invece loSC ha un percorso di declino non chiaro e ildecesso è spesso imprevedibile. I pazienti possonomorire all’improvviso oppure, benché ricoverati incondizioni critiche, con necessità di assistenza re -spiratoria, renale e cardiocircolatoria, possono ri -prendersi. Questo è il motivo per cui i pazienti conSC avanzato in genere ricevono meno cure pal-liative rispetto ai pazienti oncologici, pur manife-stando gli stessi sintomi. C’è meno certezza nellaprognosi, perciò, quasi sempre, un paziente criticonecessita del ricovero in terapia intensiva. Ciò com-porta anche degli aspetti non del tutto positivi, per-ché i pazienti più critici giacciono in Unità di CuraIntensiva (UCI), impauriti, terrorizzati, immersi esom mersi da cateteri e macchinari rumorosi; sonosoli, separati da coloro che li amano, a causa deiregimi restrittivi di accesso all’UCI: si parla infattidi “Sindrome da terapia intensiva”2, 3.Alcuni anni fa, un editoriale di JAMA, invitava acambiare regime di visita nelle terapie intensive4. Ilnostro gruppo di Firenze ha raccolto la sfida,andando a studiare gli effetti di un regime di visitalibero dei familiari. Per confrontare gli effetti di unperiodo di visita libero (parenti o amici potevanoaccedere alla UCI a loro piacimento) rispetto aquelli di un periodo di visita ristretto (30 minuti duevolte al giorno), abbiamo valutato: l’inquinamentomicrobiologico e le complicanze infettive, il profi-lo emozionale e gli outcomes clinici. I risultati sonostati pubblicati su Circulation nel 20065, e all’indo-mani sono stati divulgati anche dai principali quoti-diani nazionali, che hanno titolato: “Un amico vici -no aiu ta un cuore malato; provato, l’affetto fa beneal cuo re”. I risultati hanno dimostrato, infatti, che,durante il regime di visita libero, non aumentavanole in fezioni, si riduceva il livello dello stress deipazienti e si dimezzavano le complicanze cardiova-scolari. Da questa ricerca quindi emerge che, nellarelazione équipe-malato-famiglia, il familiare/caregiver deve essere considerato una risorsa non soloper l’ammalato, ma anche per l’équipe dei curanti:questi devono promuovere rapporti di fiducia e dicollaborazione col familiare, nel rispetto dell’auto-determinazione del paziente. Quindi alta tecnolo-

gia sì, ma anche alta sensibilità ed alta umanità.Purtroppo arriva un momento in cui siamo vera-mente nella fase finale della vita del paziente conSC, cioè quando le “armi” cardiologiche sono statetutte utilizzate (e di questo si è fatta verifica critica),nulla solleva più il paziente dai suoi sintomi: com-pare o peggiora insufficienza multi organo, vi è lanecessità di diuretici ad alte dosi e/o di inotropi ininfusione prolungata, l’eventuale defibrillatore con-tinua a scaricare sempre più spesso; si hanno fre-quenti e ravvicinate ospedalizzazioni. In questi casil’assistenza al paziente ormai terminale è ancoracompito del cardiologo? Noi riteniamo di sì. Il car-diologo, che segue il paziente nelle varie fasi dellamalattia, in ambulatorio, in ospedale e, a volte,anche a casa per alcuni anni, è inevitabilmente coin-volto nella storia personale del paziente e finiscecon l’essere coinvolto anche nella sua morte, chespera tutelare in termini di qualità, come ha fattoprima per la sua vita. Per far ciò, il cardiologo deveacquisire un bagaglio culturale adatto ad affrontare ibisogni del paziente alla fine della vita, negli ele-menti curativi e palliativi6-8. Deve essere in grado divalutare quando disattivare un defibrillatore (ICD);deve imparare ad utilizzare anche la sedazione pal-liativa, cioè la somministrazione intenzionale di far-maci sedativi, con lo scopo di controllare le soffe-renze intollerabili e refrattarie, attraverso la riduzio-ne della coscienza negli ultimi giorni di vita9, 10.Deve mettere in atto delle strategie per le cure com-passionevoli di fine vita. Appare evidente, infatti,che, in questo ambito di cura, non esistono dellelinee guida, ma dobbiamo affidarci alle raccoman-dazioni degli esperti delle varie società scientifi-che11, 12: la Commissione Etica della Società di Cri -tical Care Medicine, la Società italiana SIAARTI(Socieà Italiana Anestesia e Analgesia Rianima zio -ne e terapia del dolore). Da queste raccomandazionipossiamo trarre delle utili indicazioni sulle strategieda applicare per le cure di fine vita13, 14:

a) sviluppare un percorso personale di riflessio-ne al verificarsi della morte, abituarsi all’incer-tezza di malattia e morte;

b) sviluppare una buona capacità comunicativa:essere sinceri, manifestare una presenza compas-sionevole, ascoltare senza distrarsi;

c) creare un ambiente adatto: utilizzare una stan-za separata per le notizie, coinvolgere infermierie l’intera équipe di cura;

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d) essere disponibili a manifestare il propriostato emotivo, così che anche la famiglia riescaa comunicare ansie e sentimenti; in tal modocomprendiamo i bisogni del paziente e dei fami-liari;

e) facilitare le decisioni di fine vita: provare amettersi al posto di un familiare, non scaricare ledecisioni sul paziente e sui familiari, aiutare lafamiglia a prendere una decisione, presentarecosa vorresti fare, rievocare e rispettare lavolontà del paziente.

Ogni decisione di un limite diventa operativa quan-do viene comunicata, compresa e condivisa da tuttele figure coinvolte nella decisione (medici, infer-

mieri, familiari). La decisione finale va motivata eriportata in cartella clinica. Ogni qualvolta sia ne -cessario, devono essere fornite sedazione ed analge-sia adeguate: per nessun motivo un malato dovràmorire con dolore e sofferenza. Ogni paziente vaconsiderato in trattamento pieno finché non vengaufficialmente deciso il contrario. È opportuno chel’infermiere ed il medico siano presenti al momentodel decesso.In conclusione possiamo affermare che “Il successodelle cure intensive non deve essere valutato solo inbase alle statistiche di sopravvivenza, ma anche inbase alla qualità del processo del morire e allaqualità delle relazioni umane coinvolte in ciascunamorte”.

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