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MET HODO 2 METHODO Anno 1 Numero 2 luglio-agosto 2014 - Prezzo di copertina 10 €

METHODO #2

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Rivista tecnico scientifica riguardante metodi, approcci, strumenti ed esperienze sullo sviluppo di nuovi prodotti e sulla loro produzione.

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Sommariolugl io/agosto 2014

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Proprietà OTTOLOBI editoria e comunicazioneVia A.Caretta, 320131 - Milanot/f 02.36798297www.ottolobi.itP.IVA 03559000983N.REA: MI-2021527

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Editoriale Le nostre Rubriche:Design Industriale a cura di G.Alito

Metodi di sviluppo prodotto a cura di N.Lippi

Metodi di produzione a cura di A.Viola

L’intervista a cura di C.Ravaioli

Project management a cura diA.Fischetti

Software a cura di S.Di Pietro

Creatività a cura di D.Donati

Ecodesign e sostenibilità a cura di Collettivo NUUP®, sustainable creativity

LCA a cura di M.Granchi eR.Bozzo

Un libro in 10 minuti (management) a cura di P.Pirone

Qualità del servizio a cura diM.Galgano

Gli autori di METHODO

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COSE E OGGETTI. LA LORO ANIMA, LA NUOVA GENESI

Qualche giorno fa sono stato catapultato nel nuovo mondo della creazione. Non so ancora bene quando, come e da dove si inizierà, ma sono sicuro che stia per cambiare il modo di sviluppare nuove idee: sto parlando dei FabLab. Da sempre sostengo che vi sia poca “creatività” nelle aziende, che i percorsi scolastici tendano a creare dei paraocchi e che vi sia poca propensione ad accettare di sbagliare e a investire sugli errori. Purtroppo la cultura delle nostre aziende è impostata sull’evitare di sbagliare e sul colpevolizzare chi sbaglia. Questo porta a non rischiare e quindi a produrre sostanzialmente poche idee a carattere innovativo. Ed Catmull, Presidente e co-fondatore di Pixar, sostiene che «innovare significa creare qualcosa che in realtà non è mai stato fatto in precedenza. Per innovare dovete aprire le vostre idee agli altri, sottoponendole al giudizio di chi dovrà favorirne lo sviluppo. Purtroppo esiste questa idea per la quale si tende a fare cose sicure per non sbagliare. La maggior parte delle persone non vuole sbagliare e in pochi saranno disposti a concederti questa possibilità. Noi siamo molto scrupolosi nel fare in modo che gli errori non vengano considerati come un male, ma come una occasione per imparare. L’unica ragione per cui si commettono errori è perché non si conosce a fondo ciò che si sta facendo, ma se si sta facendo qualcosa di nuovo, per definizione, si sta facendo qualcosa che non si conosce. Quindi se tentate di dire “beh, è molto importante non commettere errori” state dicendo “è molto importante non fare qualcosa di nuovo”. E’ molto importante che a ogni livello si lasci che le cose vadano male, con l’idea che è meglio correggere gli errori che cercare di prevenirli tutti».Nei FabLab ho trovato questa componente primordiale, la capacità di far nascere idee, gruppi di lavoro, oggetti che hanno la durata dell’idea stessa - pochi minuti - se è buona si va avanti, se non lo è la si cambia. Gli strumenti, le attrezzature non sono più un vincolo. Creo un oggetto tridimensionale, lo animo con dell’automazione open source ed ecco che il miracolo si avvera. A pochi minuti dalla generazione dell’idea nasce il prototipo. Sicuramente la rapida evoluzione delle tecnologie di stampa tridimensionale cambierà radicalmente il modo di concepire i prodotti. Diventerà più conveniente provare e sbagliare

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Oche progettare, calcolare e ottimizzare. La simulazione “vera”, il test fisico tornerà a vincere su molti calcoli (ovviamente non su tutti).Un palese effetto collaterale della matematica è indurre le persone a iper-ottimizzare e a fare il minimo indispensabile, causando fragilità. Basta osservare quanto il nuovo sia sempre più deteriorabile dell’antico.Non è condivisibile? Non forse è vero che la capacità di calcolo ci porta a estremizzare il dimensionamento? Se pensiamo ai romani, o comunque all’architettura in generale, almeno fino al rinascimento le conoscenze si tramandavano, era l’esperienza a dettare le linee guida, perché più robusta, accresciuta nei secoli da eventi estremi rendendola tanto efficace da farne arrivare fino a noi i frutti. Una visione estrema ma sintomatica della necessità di affiancare alle competenze tecnologiche l’esperienza positiva, quella che deriva dagli errori e dalla sperimentazione. I Fablab apriranno anche - e soprattutto - a non ingegneri le porte dello sviluppo di nuovi prodotti, si tornerà al passato quando molti degli inventori delle macchine più strabilianti erano tutt’altro che ingegneri, al limite filosofi.Questo vuol forse dire che non vi sarà più “metodo”? Certo che si, metodo è anche incoraggiare la sperimentazione, creare le condizioni per accrescere il numero di idee. Cambieranno i metodi, tutto sarà più fluido, le organizzazioni prima di tutto e il modo con il quale queste svilupperanno i loro nuovi prodotti.Prima di concludere volevo evidenziare come METHODO si stia rapidamente evolvendo. Il primo numero ha riscosso un notevole successo e colgo l’occasione per ringraziare coloro che ne hanno elogiato i contenuti o suggerito di nuovi. In questo numeo trovere tre nuove rubriche: la prima sullo sviluppo del Software, con contenuti pungenti e chiari anche per i non addetti ai lavori; la seconda prende il nome di Ecodesign e sostenibilità, dove si parlerà di materiali ma anche di “materioteche”; la terza riguarda la Qualità del servizio, dove si analizzerà la “Tecnica dei 5 perché” per scoprire le cause di un servizio scadente.Vi lascio quindi in balia di cose e oggetti, della loro anima e della loro genesi.Buona lettura. Nicola Lippi

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Muovendoci verso l’obiettivo - il centro della spirale del nostro ideale percorso - continuiamo nella definizione del “che cosa”. Si tratta ancora di ragionamenti teorici che assumeranno funzione pratica solo quando il quadro - per ora apparentemente governato dal caos - prenderà forma.Mi scuso in anticipo con i lettori delusi che speravano di trovare, in una rubrica dedicata al design industriale, “inchiostro” speso per l’adulazione del dato (solito) oggetto di design della data (solita) azienda che forse non esiste neanche più, esposto nel dato (solito) museo del design. Purtroppo è stato detto tutto e forse anche di più.

In precedenza abbiamo circoscr i t to nell’eccellenza la macro area di pertinenza più adatta alle imprese del nostro Paese. Tale scelta risulta obbligata causa le caratteristiche delle nostre aziende. Piccole - anche quelle che chiamiamo medie - per competere nei mercati di massa e sovradimensionate sul lato del know-how ideativo oltre che produttivo per concepire e creare prodotti competitivi (là dove la competizione fa leva esclusivamente sui prezzi di cessione). Questi i due aspetti fondamentali che le mettono ai margini nella sfida competitiva nella zona entry-level dei mercati.Ma nella pratica, cosa significa fare prodotti di eccellenza? Nell’immaginario collettivo il termine eccellenza rimanda quasi sempre al lusso, relegando prodotti e consumatori in una nicchia tanto più piccola quanto più alto è il valore percepito del bene e del brand. Niente di più sbagliato! Il prodotto

di eccellenza può essere presente in tutte le fasce di mercato e addirittura in quasi tutte le fasce di prezzo, eccezion fatta per l’entry-level. Sfuggiamo, quindi, dall’effetto “pendolo” che obbliga i più a pensare che è destinato all’eccellenza solo chi fa Ferrari o abiti di alta moda mentre il resto delle imprese è condannato al “vile” proletariato produttivo.

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a cura di Giuseppe Alito

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Tuttavia, per correttezza, andrebbe detto che molti di questi luoghi comuni sono stati gli stessi piccoli e poco visionari imprenditori ad alimentarli con un atteggiamento di ossequiosa riverenza, spesso figlio di un giudizio sovradimensionato. Per semplificare si potrebbe dire che il prodotto di eccellenza rappresenta la parte alta della forbice di ogni singola categoria-fascia di prezzo. In marketing viene chiamato prodotto premium-price. Resta inteso che tale posizionamento non deve essere frutto di semplice speculazione economica utilizzando la discriminazione di marca - o di non marca - al fine di giustificarne il maggior o minor prezzo (argomento di cui parleremo in seguito), bensì deve essere fondato su oggettivi elementi di valore aggiunto reale e chiaramente percepibili dal consumatore.A tal proposito mi sembra interessante il tema affrontato da Remo Bodei - filosofo italiano docente di filosofia alla California University of Los Angeles - in un suo recente testo “La vita delle cose”. Remo Bodei stabilisce una sostanziale differenza tra cose e oggetti. Bodei definisce cose gli oggetti “santificati” dallo stratificarsi dell’esperienza

comune ai loro possessori. In poche parole ciò che nasce oggetto diventa cosa grazie al tempo, alle attenzioni, ai ricordi e - infine - alla memoria che, chi lo possiede, gli riserva. Tanto vale per oggetti di scarso valore commerciale quanto per quelli costosi. Questa sofisticazione è la sintesi, il risultato

di un consumismo che è stato. E’ ovvio che per possedere una cosa prima ho dovuto acquistare un oggetto. Tutti noi possediamo oggetti particolarmente cari, a prescindere dal loro valore iniziale e/o commerciale, ebbene non si tratta di oggetti ma di cose.

L’analisi di Bodei è molto interessante, in quanto polarizza, secondo schemi tutto sommato semplici, i comportamenti del consumare delle popolazioni del mondo.

Tutta l’area “civilizzata” del pianeta (quindi quella che si trova nella parte nord-ovest) tende a “consumare” cose, con un non poco velato disprezzo verso il consumo di oggetti che altro non sono che oggetti che non hanno avuto modo di diventare cose! E lo stream del “save the earth” è un tassello in più nella direzione del non consumare. Si potrebbe parlare anche del fenomeno del vintage che altro non è che un oggetto

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diventato cosa per merito di qualcun altro, dove chi acquista non paga per il valore della merce ma per il tempo che il possessore (originario) ha dedicato a quell’oggetto affinchè diventasse cosa! (Follia pura). Il resto del mondo, che è in grado di consumare, invece tende - spesso non per scelta ma per necessità - a consumare oggetti. Maestri in questo sono i sudamericani (specialmente Perù e Cile), con punte di sofisticazione vicini ai comportamenti nord occidentali dei brasiliani e degli argentini. Lo stesso si può dire per i russi e presto anche per indiani e cinesi. La domanda è: meglio fare oggetti o meglio fare oggetti che diventeranno cose?

Al di là delle considerazioni filosofiche è chiaro che il prodotto diventa un mezzo che attraversa il tempo trasportando “il messaggio” a prescindere dalla pura funzione d’uso per cui è stato concepito. Inconsciamente è questa la valutazione che il consumatore interessato fa nell’atto della scelta quando si chiede quanto durerà? E qui torniamo alla tanto pragmatica quanto poco romantica considerazione della qualità reale e della qualità percepita.La qualità, dunque, è una delle caratteristiche che deve avere un prodotto di eccellenza. Trovo particolarmente calzante l’articolo di Philippe Daverio sul Corriere Della Sera di qualche tempo fa in occasione della chiusura della settimana del design di Milano:

- Durare nel tempo, la nuova sfida di materiali e idee.

Se si dovesse tentare un sunto delle tendenze attuali, forse il tema più intrigante è quello relativo alla mutazione del concetto dei materiali. E se si potesse tentare inoltre una spiegazione del fenomeno lo si potrebbe attribuire alla voglia di offrire al consumatore una garanzia di durevolezza degli oggetti

che sempre di più sembrano chiudere la lunga stagione del consumismo puro che ha contraddistinto il secolo passato. Questa radicale mutazione del gusto è innegabilmente conseguenza dell’incertezza economica che pervade il mondo attuale. Questa incertezza porta a due conseguenze evidenti, di stampo prettamente psico-economico: che i prezzi siano abbordabili o comunque giustificati dalla qualità dei prodotti e del loro design, e che il manufatto dia una sensazione quasi immediata di possibile durevolezza. La conseguenza è

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elementare, avrebbe detto Sherlock Holmes: comperare oggi è un investimento. Il che ovviamente, essendo questo un messaggio con un sottofondo quasi etico, porta sia sulla concezione del prodotto che sulla visione degli allestimenti.

Sin da quando l’uomo ha cominciato a rendersi conto della sua forza è in atto un processo continuo e sempre più sofisticato che ha come fine ultimo la memoria. I resti della millenaria cultura cinese e di quella greca, le piramidi dei faraoni, i romani,

Napoleone, e via via tutti - proprio tutti - trascorriamo il tempo che ci è concesso con l’unico obiettivo di lasciare un segno che ci sopravviva. Il dualismo cosa e oggetto non è altro che questo.

L’oggetto rappresenta l’incon-sistenza, ciò che non dura e quindi che non potrà racconta-re di noi ai posteri, rappresen-ta l’ambiguità, la pochezza di spirito, la mancanza di etica, rappresenta tutte quelle espe-rienze negative che in ordine di tempo vengono rimosse per prime.

La cosa - invece - è lo stesso oggetto che è riuscito a evolversi ma non per caso o per fortuna, bensì perché è nato predisposto dall’intelligenza, dall’etica, etc. di chi lo ha concepito. E’ cosa tutto ciò che conserva il ricordo, quindi la memoria del passato ma anche quella del presente e del futuro che altro non sarà che il passato di un altro futuro e così via.

In poche parole è cosa la piramide eretta da ognuno di noi perché i posteri sappiano. █

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Nel primo numero avevamo ampiamente descritto le modalità per giungere a una esaustiva e corretta definizione delle specifiche di prodotto. Ricordo che, in questa pubblicazione, parlare di prodotto o di servizio è indifferente in fatto di contenuti, le modalità e gli obiettivi sono sostanzialmente gli stessi. Abbiamo sottolineato la necessità di separare bene la fase di definizione dei requisiti da quella delle scelte tecnologiche, questo per non vincolare la soddisfazione dei bisogni che il mercato esprime alle tecnologie oggi conosciute. La scelta delle soluzioni operative va fatta, infatti, solo dopo aver fissato l’asticella numerica.

Se immaginiamo di essere i progettisti di un forno, non ci preoccuperemo di rispondere al bisogno di aumentare la temperatura individuando fin da subito una risposta tecnologica che preveda, ad esempio, l’utilizzo di resistenze elettriche, piuttosto che le microonde; sappiamo infatti che esistono diversi principi fisici che possono portarci allo stesso obiettivo. Ci si dovrà piuttosto concentrare su chiarire, oltre alle temperature massime di esercizio, le velocità con le quali riscaldare un corpo di una data massa, oltre che porsi un obiettivo di efficienza, o ancora chiedersi quali siano le esigenze manutentive e quindi di OEE (Overall Equipment Effectiveness – Efficienza globale delle apparecchiature). Solo a questo punto si potrà scegliere quale soluzione possa meglio soddisfare il mix di requisiti e di costo, non prima. Quando si sono decise quali funzioni e con

quali obiettivi numerici sviluppare il prodotto, il secondo passo logico sarebbe quello di iniziare attraverso pre-studi - indagini preliminari - a definire quali saranno i componenti del sistema che si prenderanno cura di realizzare tali funzioni. Anche se non esiste una regola ferrea, infatti molti ignorano questo passaggio, il suggerimento logico - di metodo appunto - è quello di curare, prima di ogni altro aspetto “concreto”, l’architettura del sistema che andremo a progettare (vedi figura 1). La scelta dell’architettura è infatti strategica e può segnare la vita stessa di un prodotto dal punto di vista delle prestazioni, dei costi, dello sviluppo futuro sul piano innovativo e su molti altri aspetti che si chiariranno in seguito.

Figura 1 - Concept di Architettura

IL RUOLO DELL’ARCHITETTURA DI PRODOTTOa cura di Nicola Lippi

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ARCHITETTURA - DEFINIZIONE

L’architettura non è altro che lo schema che lega le funzioni che il sistema deve svolgere ai componenti che le realizzano. Per descrivere un’architettura si devono inoltre specificare i legami, le interfacce tra i componenti stessi. Funzioni-Componenti-Interfacce, questa è la triade che descrive un’architettura. Se prendiamo ad esempio una motocicletta, la sua architettura - semplificata - sarà come quella descritta in figura 2.

Figura 2 – Architettura di una motocicletta

In base a questo schema è possibile ragionare cercando di attribuire diversamente le funzioni. Prima ancora, quindi, di aver deciso come realizzare la motocicletta, ne descriviamo l’architettura, modificandola fino a trovare la soluzione teorica ottimale.

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Sarà più facile a questo livello trovare soluzioni alternative, magari immaginando di poter fare a meno di una ruota (vedi figura 3) oppure di far svolgere la funzione di serbatoio al telaio, o di dare la funzione di motore direttamente alle ruote. Tutte queste ipotesi sono strutture, architetture differenti, su cui sviluppare un nuovo concept o più concept diversi, su cui compiere delle scelte tecnologiche. Una parte del TRIZ (teoria per la risoluzione dei problemi inventivi) si appoggia a questi concetti per consentire la produzione di idee innovative (del TRIZ parleremo a parte nei prossimi numeri).

Descrivendo l’architettura siamo in grado di spostare e attribuire le funzioni tra il sistema in esame e il supersistema, cioè verso il mondo circostante composto dagli altri sistemi con cui interagisce. Ovviamente sarà preferibile prelevare da altri sistemi delle funzionalità per portarle verso il nostro, cosa che i google glasses hanno imparato bene a fare (vedi esempio figura 4, gli occhiali che prendono parte delle funzionalità del quadro strumenti).

Figura 3 – Architettura di una motocicletta monoruota

Figura 4

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Un servizio è descrivibile con gli stessi strumenti. Se volessimo descrivere un servizio di trasporto pubblico, in figura 5 è riportato un esempio. Anche in questo caso, una volta descritte le funzioni principali e i componenti responsabi l i de l la loro esecuzione, possiamo “giocare” ricombinando le funzioni fino a trovarne l’assetto ottimale. Descritta l’architettura si può passare a scegliere la tecnologia per svolgere la funzione. In quest’ultimo esempio si possono pensare alternative alla funzione del biglietto, trovare alternative alla conduzione dei mezzi o alla funzione di “guida” da parte della rete viaria per mezzo di segnali visivi piuttosto che sonori, elettronici. Ancora, sarà possibile identificare le modalità di vendita dei biglietti o razionalizzarla.

Quest’ultimo passaggio - ovvero la scelta della architettura - è strategico e deve basarsi su valutazioni approfondite da parte dell’azienda, che andremo a descrivere nei prossimi paragrafi.

Spesso ci troviamo di fronte alla necessità di semplificare l’architettura di un prodotto, magari riducendo il numero di parti con ovvi benefici sul piano dei costi di componenti e di assemblaggio, oltre agli scontati effetti sull’affidabilità. La soluzione efficace non è quasi mai immediata, semplice, prevede lavoro, dedizione ma soprattutto fiuto, o meglio la capacità di cambiare prospettiva.È importante quindi modellare problemi diversi, chiedersi sempre il perché di qualche fenomeno, fino a trovare il giusto quesito, quello su cui posso trovare soluzione.La modellazione funzionale dell’architettura (abbiamo appena visto alcuni semplici esempi) è la tecnica giusta. Con questa tecnica si può formalizzare un nuovo modello di soluzione, un problema diverso, appunto: quella funzione lì spostala là, togli questo e metti quello. Non ci si deve certo aspettare che le soluzioni fuoriescano magicamente da un cilindro, ma dobbiamo porci di fronte a diverse opportunità derivanti da una buona modellazione funzionale. Innovare vuol dire risolvere un problema nuovo, per cui è strategico - prima di tutto - formularlo.

Figura 5 – Architettura di un servizio di trasporto pubblico

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Oggi più che mai è strategico progettare attentamente l’architettura di un prodotto, letteralmente giocare con funzioni e componenti - aggregare e scomporre - dimenticandosi per un momento del “come fare”, concentrandosi sul “cosa fare”. Io la chiamo “architettura delle soluzioni”, ovvero imparare a vedere - e creare - le famose opportunità mascherate da problemi.

IL RUOLO DELL’ARCHITETTURA

Si è abituati a trattare l’architettura di sistema e i temi a essa connessi (modularità) come un tema tecnico-progettuale mentre, in realtà, ha notevoli impatti sulla gestione della impresa.

Abbiamo già compreso l’importanza dell’architettura sulle scelte di tipo tecnico e di concept. Ora è il momento di fare un ulteriore passo nella direzione della comprensione degli impatti che questa scelta ha sull’intera azienda. E’ facile, prima di tutto, immaginare quanto incida sulle varietà dell’offerta (quanto e come posso modificare facilmente un prodotto). Con un’architettura modulare posso offrire con pochi componenti tra loro uguali - o modificandone una piccola parte - molte combinazioni diverse, sfruttando quindi la possibilità di produrre le singole parti in quantità superiore, beneficiando di costi inferiori a parità di varietà di offerta.Non solo, posso reagire velocemente avendo - ad esempio - moduli pronti e intercambiabili, potendo implementare un magazzino intelligente con il quale rispondere velocemente a esigenze diverse.Prima di proseguire in questa “esplorazione” sugli

impatti aziendali è bene chiarire alcuni concetti base, ad esempio le due grandi distinzioni: architetture modulari e integrali.

ARCHITETTURA MODULARE E INTEGRALE

Per comprendere la differenza tra architettura modulare o integrale possiamo fare riferimento alle figure 6 e 7, dove sono riportati i classici esempi dell’una e dell’altra condizione. L’architettura modulare pura è un’architettura che vede una relazione 1 a 1 tra funzione e componente del sistema.Nell’esempio di figura 6 volendo vendere il rimorchio senza la protezione dalle condizione atmosferiche (“protect cargo from weather”), sarà sufficiente rimuovere la parte superiore (BOX). In un’architettura integrale questa operazione non sarà possibile in quanto la funzione in esame è svolta da componenti diversi e la stessa cover superiore svolge più funzioni diverse. Quando siamo di fronte a componenti che svolgono più funzioni - e/o stesse funzioni svolte da più componenti - parliamo di architettura “integrale”. Nella realtà non si ha quasi mai una o l’altra condizione in assoluto ma un mix tra le due. Di come dosare la modularità, scegliere i candidati moduli, mappare la propria architettura ne parleremo nel prossimo numero, dove andremo a scegliere quindi il mix giusto per

Figura 6 - Architettura Modulare

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il proprio sistema.Non esiste una soluzione migliore dell’altra. La parola “modulare” è bella, affascinante, attrae la curiosità e appare come la pietra filosofale di molti problemi aziendali, ma la modularità va dosata e calata attentamente nel contesto in cui l’azienda opera e sul prodotto o servizio specifico. Con un approccio modulare spinto, o comunque non ponderato, ci si può fare veramente male perché comporta, tra gli altri effetti collaterali, l’aumento del numero di connessioni e quindi di alcuni costi specifici. Un’architettura integrale ha il vantaggio di consentire l’ottenimento del costo standard ottimale, ci consente di ottimizzare la struttura del prodotto, riducendone al minimo i componenti e le connessioni con ovvi vantaggi sui costi di assemblaggio, sui costi dei materiali e sull’affidabilità.Ho da poco letto la notizia che il gruppo Volkswagen potrebbe non raggiungere gli obiettivi di utile nel biennio 2014 - 2015 proprio a causa dell’aumento dei costi dovuto alla introduzione della nuova piattaforma modulare trasversale (MQB) che interesserà tutti i marchi del gruppo, da Skoda ad Audi. In questo caso la comunicazione del gruppo ha pure peccato nel pubblicizzare il fatto che le prossime Audi condivideranno oltre il 50% della componentistica con auto VW, Seat e Skoda. Un aspetto fondamentale è che al cliente - spesso - non interessa la modularità,

a meno che non gli consenta di utilizzare al meglio il prodotto. Anzi venire a conoscenza di questa politica di estrema condivisione può far pensare a una riduzione di prestigio e di contenuti del prodotto. Quindi questa operazione va studiata profondamente, prevede ingenti investimenti in ricerca e sviluppo e obbliga a seguire per diversi anni dei “binari” di progettazione che potrebbero addirittura ridurre

la flessibilità e le possibilità di seguire improvvise nuove tendenze del mercato. Ogni modulo dovrà essere “guidato” da una precisa strategia aziendale. La modularità non è una semplice opzione, ma una scelta che comporta notevoli impatti sulle strategie e sugli equilibri dell’azienda, investe l’impresa nella sua globalità e quindi va ponderata. A me piace più parlare di architettura in senso generale e fare in modo che ogni prodotto possa trovare la sua.

Per comprendere con un semplice esempio le principali differenze tra le due opzioni estreme di architettura, possiamo fare riferimento alla figura 8 dove vediamo lo stesso modello di auto (Ferrari F1 di qualche anno fa) realizzato in metallo e plastica con forte ricorso allo stampaggio di grandi parti, rispetto alla versione fatta di mattoncini Lego.

Figura 7 - Architettura integrale

Figura 8 - Una Ferrari F1 in architettura modulare e integrale

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Nella tabella 1 sono riassunti pro e contro delle 2 soluzioni.

Sostanzialmente osserviamo che:

1. L’estetica della versione Lego (modulare) è peggiore, meno fedele alla realtà.

2. La robustezza - e quindi l’affidabilità della versione Lego (modulare) - è peggiore (provate a fare cadere le due auto da un’altezza di un metro, il risultato è sostanzialmente differente). Un’architettura integrale è generalmente più affidabile (anche se riparabile con costi superiori).

3. Il tempo di assemblaggio è notevolmente superiore nella versione modulare (Lego).

4. Il numero di componenti da reperire è superiore nella versione modulare (Lego).

5. La versione Lego (modulare) è facilmente modificabile anche in singole parti

Scopriremo poi, nel prossimo numero, che la modularità non è unicamente di prodotto o di sistema in generale ma può riguardare, ad esempio, anche il processo produttivo o come si distribuisce il prodotto.

IMPATTO DELL’ARCHITETTURA NELLA GESTIONE DI IMPRESA

In questo paragrafo approfondiremo i legami che esistono tra l’architettura e il funzionamento dell’azienda. Abbiamo già parlato di prestazioni, torniamo per un attimo ad analizzare gli aspetti legati all’affidabilità di un sistema. E’ ovvio immaginare che un sistema fatto di molte parti - e con molte interfacce - sia esposto a problemi di affidabilità. La natura, che da molti più anni di noi “studia” questi concetti e si evolve di conseguenza, ci fornisce alcuni importanti suggerimenti. Se prendiamo in considerazione il sistema più complesso conosciuto, il corpo umano, sono

Architettura MODULARE Architettura INTEGRALE

Opportunità di standardizzare e ridurre i costi con volumi più alti

Mancanza di standardizzazione, bassi volumi e costi più elevati

Grande flessibilità di progetto

Aumento delle connessioni e dei costi

Costi di service ridotti per diagnostica erimpiazzo di un modulo

Estetica frutto di compromessi

Prestazioni ed affidabilità non ottimali

Architettura ottimale per applicazioni particolari

Connessioni minimizzate e costi standard ridotti

Costi di diagnosi, di rimpiazzo o riparazione più alti

Estetica curabile fin nei piccoli dettagli

Massima ottimizzazione di prestazioni ed affidabilità

Tabella 1

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chiaramente identificabili degli organi, o più in generale delle parti che svolgono funzioni ben precise, basta pensare a polmoni, scheletro o cervello. Grazie a questo schema oggi è possibile fare i trapianti di organi, o ridurre fratture, senza compromettere di volta in volta altre funzioni. Nella realtà non è esattamente così, infatti mancano all’appello alcuni elementi importanti, le interfacce che sono senza dubbio la parte più complessa della medicina: queste ultime consentono ai vari organi, alle varie parti del nostro sistema, di interagire e scambiarsi informazioni. Quindi, descrivere l’architettura significa non solo esplicitare chi fa che cosa, ma anche evidenziare i legami esistenti tra le varie parti. Per cui procurandosi una ferita superficiale si danneggerà la cute (che è un organo) e di conseguenza il sistema circolatorio che è strettamente connesso alla pelle stessa. Le altre conseguenze saranno legate all’architettura del corpo umano, che vede il sistema cardiocircolatorio connesso praticamente con ogni altro organo e - guarda caso - è uno degli elementi più critici, proprio per la sua forte interazione con ogni altra parte. Quindi, se è vero che la complessità deriva dalla forte interazione tra diversi elementi che compongono un sistema, allora la scomposizione, la separazione, la riduzione del numero d’interazioni tra gli elementi, può essere una via per semplificare. Grazie a questo approccio il corpo umano è più robusto, affidabile, essendo in qualche modo modulare previene l’estendersi delle conseguenze di un danno localizzato e i medici sono favoriti nel fare diagnosi e curare. Inoltre, sempre il corpo umano, per proteggersi, ricorre a ridondanza su alcuni organi chiave come polmoni e reni. Non è certo un caso che la medicina sia suddivisa in aree specialistiche ben distinte. L’architettura di un sistema governa e impone molto spesso l’organizzazione di

chi quel sistema lo deve gestire. Mi piace evidenziare come l’approccio “modulare”, o comunque ricorrere a una separazione intelligente, sia di fatto uno dei pochi “rimedi” alla complessità di un sistema. Lo possiamo trovare anche in organizzazioni complesse come quelle militari dove, ad esempio, marina, esercito e aeronautica non sono una unica specialità ma corpi ben distinti (anche se su questo tema si potrebbe discutere a lungo) e svolgono funzioni differenti.

ARCHITETTURA DI PRODOTTO E CONFIGURABILITÀ

Le aree di ricerca e sviluppo sono ovviamente coinvolte nelle decisioni di architettura, ma ne subiscono anche gli effetti. Osservando la figura 9 si nota come la struttura del sistema possa portare a diventare “proattivi” nei

confronti delle richieste del mercato, accorciando tempi di risposta e limitando l’impiego di preziose ore di tecnici con elevate competenze. Si nota inoltre come vi siano sfumature diverse che dalla modularità

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pura conducono alla personalizzazione pura. Su questo tema sorrido pensando a quante aziende negli anni si siano dotate di sofisticati software parametrici in progettazione, utilizzandoli però come si utilizzavano i cad bidimensionali. Poche o nessuna personalizzazione o ricorso alla parametrizzazione dei componenti.Andando oltre su questo tema scopriamo come la distinta base del sistema, del prodotto, il come vengono messe insieme le singole parti nella documentazione, può avere effetti diversi (vedi figura 10). Mettere gli optional in “basso” comporta ogni volta configurare nuove distinte, con nuovi codici e con una complessità crescente. Inserire gli optional in “alto” in struttura consente invece di differenziare il minimo possibile riducendo anche il lavoro di gestione di codici, degli acquisti e delle parti e sottogruppi comuni. Con quest’operazione anche la struttura dei costi sarà favorevolmente influenzata, sarà più facile “costificare” una nuova versione, variante o progetto. Anche sul piano del controllo di gestione le scelte sul fronte dell’architettura quindi pesano, e non poco.

ARCHITETTURA DI PRODOTTO COME STRUMENTO DI PROJECT MANAGEMENT

Comincia a essere chiaro, quindi, che parlare di architettura significa anche parlare di come un sistema è progettato. Oggi molte aziende devono rispondere a una sempre maggiore velocità dei mercati e delle loro richieste con progetti ”facilmente” adattabili. In figura 9 risulta chiaro come si debba velocizzare la capacità di risposta al mercato (nella configurabilità del prodotto) lavorando sulla struttura del sistema. Oggi va di moda fare bene e in fretta. Lo vediamo nella vita di tutti giorni, sempre meno siamo disposti ad aspettare per ricevere un prodotto o un servizio. Ci piace prelevare da uno scaffale, anche virtuale, passare alla cassa e portare a casa il prodotto (o farcelo portare). Non siamo neppure più disposti a ordinare e attendere per mesi la consegna di un’automobile. Questa è la nostra visione di clienti, vestiamo ora i panni del produttore. Oggi, a parità di costi e contenuti, la rapidità con la quale riusciamo a confezionare il prodotto per il nostro cliente è il principale

fattore di competitività. Da qualche parte ho letto che “le economie di velocità stanno sostituendo le economie di scala”. Vero, verissimo! Oggi sul mercato fatichiamo a distinguere un prodotto da un altro. Dobbiamo vincere rendendo i nostri prodotti e servizi estremamente personalizzabili, senza compromettere la rapidità di consegna, da cui non dimentichiamolo, dipendono anche le nostre sorti finanziarie. Minore è il tempo che intercorre dall’ordine alla consegna minore sarà il capitale immobilizzato in Figura 10 - Architettura e documentazione tecnica

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lavoro e materiali nell’attesa di consegnare. Senza estremizzare e ricadere nella geniale, ma ancora lontana, risposta della stampa 3D (“ti vendo il progetto, tu lo produci”), o nella consolidata soluzione IKEA (“io ti fornisco i pezzi, tu li monti”), possiamo trovare altre soluzioni. In fondo stiamo assistendo a dei mercati che impongono alle aziende di strutturarsi come se operassero su commessa. Decide il cliente cosa vuole, il guaio è che lo vuole subito. Ecco che allora le soluzioni sono sempre le stesse, ricercare, o progettare all’interno del proprio range di prodotti - o di servizi - un punto comune, una serie di componenti, di grezzi, di processi o quant’altro possa essere frequente. Non vanno ricercati a caso però, devono far parte del percorso critico che dal momento dell’ordine porta alla consegna, cioè quell’insieme di attività il cui ritardo provoca il rinvio dell’intero processo di vendita. Ecco che l’architettura di prodotto diventa uno strumento di project management. Esempio: se sto costruendo un importante macchinario industriale dovrò lavorare per ricercare in tutto il mio range produttivo di accomunare i particolari a lungo approvvigionamento, come ad esempio basamenti o grandi strutture saldate, quest’ultime da lavorare poi all’occorrenza al momento di emissione di ordine; se ho razionalizzato i basamenti della mia gamma, con un magazzino grezzi molto contenuto, potrò ottenere una molteplicità di finiti e così via.

Se si concepisce il sistema in modo che sia scomposto opportunamente, definendo i confini di responsabilità, rendendo i singoli elementi validabili e testabili singolarmente, si potranno avviare più sotto-progetti in parallelo, riducendo drasticamente i tempi di sviluppo. Questo è un tema di project management ma anche - e soprattutto - di architettura. (vedi figura 11)

Figura 11 - Scomporre per parallelizzare e ridurre i lead time di sviluppo

Osserviamo ora cosa sta accadendo al mondo della televisione, si sta frammentando. Le TV generaliste stanno lasciando il posto a una moltitudine di canali tematici. Compongono il palinsesto su base tematica, così sarà più facile per lo spettatore, trovare un film, o un documentario o ancora le news senza aspettare l’orario prestabilito. Mi basterà cambiare canale. Velocità a parità di contenuti, cambia solo l’architettura con cui compongo la mia offerta. Il ragionamento di base è sempre lo stesso, devo lavorare su aspetti nei quali so che il cliente non metterà mai il naso e che incidono direttamente sul tempo di consegna. E’ un mix tra project management e modularità. Se siamo bravi nello scomporre il progetto in tanti piccoli pezzettini indipendenti tra loro - anche fisici - sarà più semplice poterli condurre in parallelo riducendo i tempi.

ARCHITETTURA DI PRODOTTO ED EFFICIENZA PRODUTTIVA

Lavorare sull’architettura impatta notevolmente sulle capacità produttive dell’azienda. Iniziamo dal concetto più semplice (vedi figura 12). Se il mio sistema è concepito per essere personalizzato all’inizio del processo produttivo, non

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avrò possibilità di fare sinergie su prodotti simili o che sfruttano componenti comuni.Se invece sposto la differenziazione verso la fine, mi sarà più facile aggregare famiglie di prodotti simili ottenendo maggiori efficienze, soprattutto limitando gli stock e aumentando la velocità di risposta. Nell’esempio in figura 12 è chiaro come una “poltrona” che acquisisce la caratteristica “colore” fin dai primi step produttivi comporterà un aggravio delle condizioni logistiche. E’ lo stesso concetto che adottò Benetton quando, anziché mettere a magazzino maglioncini già colorati, mise quelli di lana neutra per poi gestire la colorazione sulla base degli ordini di mercato.

Più sottile è il concetto che andrò ora ad esprimere. Seguendo l’esempio in figura 13 scopriamo che se il prodotto è stato scomposto non tenendo in considerazione del bilanciamento tra le varie postazioni di assemblaggio, si rischia di non riuscire ad andare “a flusso”, cioè di avere postazioni con tempi ciclo molto elevati e altre con tempi ciclo bassi, condizione per la costituzione di “WIP” (Work in progress), di code e quindi per l’allungamento del lead time e dei costi. L’architettura influenza l’efficienza aziendale, chi si occupa quotidianamente di bilanciare le attività di montaggio spesso si scontra con i limiti progettuali, sull’indivisibilità dei componenti.

Figura 12 – Il vantaggio derivante dal concepire una architettura che si possa differenziare alla fine dei processo

Figura 13 - Architettura ed efficienza di assemblaggio

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Questo è un ragionamento che va fatto già nella fase di concept. Dalla scelta di numero di componenti - e dal loro interfacciamento - dipende la distinta base, quindi costi dei materiali e tempi di assemblaggio. Il costo è una questione sostanzialmente di architettura. Se quest’ultima è congelata si potranno solo fare delle ottimizzazioni sulla catena di fornitura o sulla velocità di assemblaggio. Niente più. Siccome nel concept si cristallizza l’architettura, il concept cristallizza il costo; esplorare diverse architetture e diversi concept è un obbligo (vedi figura 1).Anche il lay out produttivo è influenzato da come il prodotto è scomposto (vedi figura 14). Se ho dei moduli comuni a più prodotti questi è molto probabile che vangano gestiti a Kanban, con un supermarket che lavora a stock, mentre la parte di personalizzazione può essere eseguita su ordine.

ARCHITETTURA DI PRODOTTO E SUPPLY CHAIN

L’intera supply chain è figlia dell’architettura di prodotto. Se un componente non è divisibile - o scomponibile tra grezzo e lavorato, ad esempio - difficilmente lo si potrà assegnare a due fornitori differenti. Se i componenti

non hanno una dimensione compatibile con i mezzi di trasporto, il rischio che si corre è di pagare costi eccessivi. Un esempio lampante (e volutamente provocatorio) è l’airbus A380 (vedi figura 15). In questo caso sembra che la dimensione delle ali sia stata dettata solo da ragioni politiche, dal dover attraversare la Francia lungo la normale rete viaria. O forse - mi piace pensare questo - che la scomposizione sia dettata dalle competenze, dalla capacità dei diversi fornitori di eccellere in diversi settori. Sarebbe stato forse più opportuno dal punto di vista delle prestazioni realizzare una unica grande ala, ma l’architettura è figlia di altre scelte. Nelle nostre aziende molta della componentistica è acquistata esternamente in ragione delle competenze specifiche necessarie, ad esempio, per fabbricare un motore elettrico, pistoni, componentistica elettronica o software. In questo caso molto spesso è l’architettura che segue la catena di fornitura.

Figura 14 - Il lay out produttivo dipende dall’architettura

Figura 15 - Chi ha deciso le dimensioni e la scomposizione delle ali? La politica? La dimensione delle strade? Le competenze?

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ARCHITETTURA DI PRODOTTO E ORGANIZZAZIONE

L’organizzazione aziendale è spesso frutto di come i nostri prodotti sono scomposti. Nella figura 16 è rappresentato un gioco per bambini. Chi progetta - o chi fabbrica e assembla - le parti blu dovrà interfacciarsi con chi fa la passerella rossa, le maniglie gialle, lo scivolo grigio e così via. Vedremo nel prossimo numero che dalla rappresentazione dell’architettura possono discendere i gruppi di lavoro in un progetto e le loro modalità di interazione. Le aziende - le funzioni aziendali - sono nella maggior parte dei casi, le immagini di come sono scomposti i loro prodotti.

ARCHITETTURA DI PRODOTTO E INNOVAZIONE

L’ultimo tema che voglio “toccare” è quello dell’innovazione. Nel concepire un sistema, un prodotto o un servizio, non si può non tenere conto di come lo si vuole fare evolvere. Se pensiamo che l’innovazione seguirà alcuni binari preferenziali e che riguardano funzioni specifiche, non possiamo non tenerne conto. L’architettura dovrà essere lasciata aperta all’innovazione, all’evoluzione futura della componentistica, del software, degli optional. Si può anche decidere di lasciare aperta l’architettura per fare in modo che siano gli altri a

sviluppare parti del nostro prodotto. Pochi giorni fa Tesla, produttrice di auto di lusso a trazione elettrica, ha annunciato che la sua tecnologia diverrà “open source”, chiunque potrà contribuirne allo sviluppo. Le App dei nostri smatphone sono sviluppate sulla base di architetture volutamente lasciate aperte per consentire a sviluppatori indipendenti di migliorare il prodotto e comunque di guadagnarci vendendo le stesse nell’unico store possibile (vedi iTunes).

CONCLUSIONI

Nell’articolo sono stati affrontati molti temi, l’obiettivo era quello di trasmettere la giusta sensibilità nei confronti di un tema che molti considerano unicamente “tecnico” e quindi di competenza di pochi addetti ai lavori in azienda. In realtà abbiamo scoperto che l’architettura può avere un forte impatto sul funzionamento aziendale. Verrebbe voglia di dire che se di un’azienda vuole migliorare l’organizzazione, la supply chain, il lay out produttivo, la sua capacità di innovare, la capacità di gestire progetti, la velocità di reazione alle richieste del mercato non deve fare altro che lavorare sul prodotto, o almeno farlo prima di tutto il resto. Nel prossimo numero parleremo di come descrivere al meglio la propria architettura di prodotto, saranno riportate le tecniche e gli approcci conosciuti.

Bibliografia consigliata: • Product platform and product family designT. Simpson, Z. Siddique, J. JiaoLingua: inglese• La modularità e il suo potenziale ruolo nelle impreseM. BordignonLingua: italiano• Progettazione e sviluppo di prodottoK.T. Ulrich, S. Eppinger, R.FilippiniLingua: italiano• Configurazione di prodottoC. Forza, F. SalvadorLingua: italiano

Figura 16 - Architettura che influenza l’organizzazione dei team di lavoro

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Pensare di poter essere efficaci e - proprio per questo - anche efficienti può sembrare un paradosso. In realtà non lo è. Anzi, è risaputo che aziende eccellenti nel servizio al cliente e nella qualità del prodotto (cioè efficaci) sono anche competitive in termini di costi (quindi efficienti).

Prendiamo, ad esempio, il tema della qualità: abbiamo già visto nello scorso numero che i costi della non qualità del prodotto rappresentano la punta di un iceberg dei reali costi della non qualità del processo produttivo. Prodotti difettosi sono l’effetto di processi produttivi difettosi e quindi inefficienti.

Se pensiamo poi al servizio al cliente, direttamente correlato ai tempi di consegna - e quindi alla velocità di attraversamento del processo produttivo - la domanda da porsi è la seguente: in contesti produttivi inefficienti è possibile avere tempi di attraversamento brevi? Può un processo difettoso essere veloce? Ovviamente no e ovviamente non possiamo pensare di essere veloci con le quotidiane attività di “expediting” che favoriscono la consegna di un prodotto a discapito di altri, generando inoltre costi non necessari.

Tre semplici principi operativi di riferimentoNello scorso numero abbiamo visto che, per il modello “lean production”, l’obiettivo di riferimento è quello di ridurre gli sprechi e la variabilità del processo produttivo.

In estrema sintesi, si può dire che la riduzione degli sprechi e della variabilità è il perché si deve implementare il modello.Definito l’obiettivo, nasce spontanea la domanda del cosa fare per poterlo raggiungere.Nel modello “lean” cosa fare è rappresentato da tre principi operativi di riferimento, dai nomi strani ma di semplice comprensione.Il primo di questi principi è il Takt Time. Il Takt Time è un numero e indica molto semplicemente la frequenza con la quale i

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ea cura di Alberto Viola

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clienti richiedono un’unità di prodotto: se, ad esempio, i clienti richiedono 40 unità di prodotto alla settimana e il processo produttivo è attivo per 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, il Takt Time è pari a 1 ora.Il Takt Time è quindi il rapporto tra il tempo disponibile in un certo intervallo temporale (le 40 ore dell’esempio precedente) e la domanda dei clienti in quello stesso intervallo temporale (le 40 unità di prodotto richieste):

Il significato - ed il messaggio - profondo di questo indicatore è il seguente: non è il sistema produttivo che decide quanto produrre ma è il mercato. Il compito del sistema produttivo è soddisfare le richieste del mercato e adeguarsi alle possibili (quanto ovvie) variazioni di queste richieste.La frequenza con la quale ricalcolare il Takt Time dipende da settore a settore; se

pensiamo, ad esempio, ad aziende che producono gelati o giocattoli è evidente che il Takt Time dovrà essere calcolato almeno 2 volte all’anno, con richieste più che raddoppiate nei periodi di punta (d’estate o sotto Natale).Occorre però ricordare che il Takt Time ha fortissime implicazioni sul sistema produttivo e - di riflesso - su tutta la supply chain. Il Takt Time, infatti, dimensiona la capacità produttiva installata nel sistema produttivo (in termini di uomini, macchine e materiali) e quindi non può essere cambiato di frequente. Cambiare il Takt Time con frequenza superiore al mese è un esercizio già molto difficile, che richiede un’altissima flessibilità del sistema produttivo. All’interno del periodo con Takt Time fissato occorre utilizzare altri strumenti messi a disposizione dal modello “lean” e che consentono comunque al sistema produttivo di “pulsare” come richiesto dal mercato: vedremo questi strumenti in seguito.

Il secondo principio del modello “lean production” è il One-Piece-Flow (produzione a un pezzo alla volta). Anche con questo principio si vuole puntare ad avere processi produttivi capaci di seguire puntualmente le richieste del mercato, idealmente in grado di soddisfare clienti che desiderano avere una singola unità di prodotto per tipo. Essere capaci di produrre “One-Piece-Flow” tuttavia significa non solo soddisfare il cliente in termini di quantità richiesta ma anche soddisfarlo pienamente in termini di servizio al cliente.

CONIUGARE EFFICACIA ED EFFICIENZA DEL PROCESSO PRODUTTIVOCON I PRINCIPI OPERATIVI DEL MODELLO “LEAN PRODUCTION”

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Per produrre “One-Piece-Flow” occorre infatti passare la singola unità produttiva direttamente da una fase di trasformazione a quella successiva, senza interruzioni e quindi senza accumuli di materiali semi-lavorati (“work in process”) all’interno del processo produttivo: in questo modo, il singolo pezzo attraversa il processo rapidamente e il cliente viene servito velocemente.

La produzione “One-Piece-Flow” si contrappone alla più tradizionale produzione “per lotti e code”, tipica della mass production e caratterizzata da alti livelli di work-in-process e quindi di sovrapproduzione.È da notare che per produrre “One-Piece-Flow” il processo deve essere molto affidabile e flessibile. È possibile passare

immediatamente un pezzo alla fase successiva se la qualità del semi-lavorato non è garantita? È possibile

produrre in sequenza due pezzi tra loro diversi se questo comporta alti costi di riconfigurazione (“setup”) del sistema produttivo? Ovviamente non è possibile.Come rappresentato nel precedente numero di METHODO, navigare senza sovrapproduzione può essere molto pericoloso se prima non sono stati eliminati gli scogli più alti.

Il terzo principio del modello “lean production” è il Pull System (sistema di produzione “tirato”). In un sistema produttivo tirato ciascuna fase può essere “fornitore” (se si trova a monte) o “cliente” (se si trova a valle) delle fasi vicine. Obiettivo della fase fornitrice è quello di produrre solo ciò che la fase cliente ha già consumato. Il compito della fase cliente è quello di consumare soltanto ciò che

realmente gli serve. La fase cliente preleva ciò che gli serve, solo nella quantità necessaria e solo quando ne ha bisogno da un magazzino inter-operazionale denominato Supermarket.

Il meccanismo di prelievo dal Supermarket, da parte del cliente e di ripristino della quantità consumata, da parte del fornitore, viene governato dai Kanbam (in Giapponese “segnale”). I kanban sono spesso dei “cartellini” che riportano una serie di informazioni sul prodotto che si vuole

utilizzare o che si deve produrre: di fatto, essi rappresentano l’autorizzazione a prelevare o produrre del materiale

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all’interno del processo produttivo.

Diversamente dalla produzione “One-Piece-Flow”, in un sistema produttivo “tirato”, tra le diverse fasi del processo è presente una sovrapproduzione, rappresentata dal Supermarket.

La differenza chiave tra un Supermarket

e un tradizionale magazzino inter-operazionale di componenti e/o semilavorati è che nel Supermarket la scorta massima e minima di ciascun materiale è standard, esattamente come succede negli scaffali di un comune supermercato. La quantità di ciascun codice presente nel Supermarket viene dimensionata, esattamente come succede a qualsiasi altra risorsa del sistema produttivo (spazi, macchine e attrezzature, uomini) e regolamentata dal meccanismo dei “cartellini” kanban. Il sistema produttivo “tirato” viene utilizzato

ogni qual volta non ci sono - e non si possono creare - le condizioni di affidabilità e flessibilità sufficienti per produrre “a flusso”, possibilmente “a un pezzo alla volta”.

Il messaggio di questo terzo principio del modello lean production è quindi il seguente: se non si può produrre a flusso, prova almeno a produrre facendoti tirare dal cliente.

Il livellamento della produzione in volume e mix

In aggiunta ai tre principi operativi di riferimento, il modello lean propone un concetto controintuitivo - e quindi più difficile da comprendere - da applicare nella programmazione della produzione e in generale nella gestione dei lotti da produrre.Il livellamento della produzione in volume e mix (“heijunka”, in giapponese) prevede infatti di polverizzare il più possibile i lotti di produzione anche se vi fosse la possibilità

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di aggregarli, per mantenere costante nel tempo - possibilmente ogni giorno - il volume e il mix produttivo.In pratica ciò significa suddividere le quantità da produrre di ciascun codice, ad esempio in una settimana, in piccoli lotti giornalieri.

Per quale motivo si devono polverizzare i lotti da produrre già sapendo che sono quantità richieste dai clienti? Perché dovrei richiedere al sistema produttivo di riconfigurarsi più volte di quelle necessarie per passare dalla produzione di un codice a quella di un altro?I vantaggi di una produzione livellata in volume e mix sono diversi e riguardano tutte le risorse utilizzate in produzione: macchine, materiali e uomini. Supponiamo,

ad esempio, di dover produrre tutti i giorni 100 prodotti finiti diversi - diversi per macchine e materiali utilizzati e tempi ciclo uomo e macchina necessari - di due possibili codici A e B. In un contesto non livellato, per produrre i 100 pezzi richiesti tutti i giorni, occorre avere disponibili

almeno 100 unità per ciascun componente/assieme di ciascuno dei due prodotti. In un contesto perfettamente livellato, cioè dove si prevede di produrre tutti i giorni 50 pezzi del codice A e 50 pezzi del codice B, la quantità di componenti/assiemi che occorre avere a magazzino deve essere esattamente la metà.

Allo stesso modo un sistema produttivo livellato consente di minimizzare e

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mantenere costante nel tempo il livello di risorse necessarie visto che:

• in uno stabilimento produttivo, non è la stessa cosa produrre oggi 100 unità del prodotto A e domani 100 unità del prodotto B, avendo queste tempi di ciclo diversi;

• in uno stabilimento dove la produzione non è livellata, occorre avere installata una capacità macchina superiore a quella mediamente necessaria, laddove i due codici utilizzano macchine diverse per essere prodotti.

In sintesi, i sistemi produttivi con produzione non livellata hanno una capacità produttiva installata superiore a quella mediamente necessaria. Parlando di “irragionevolezza” (muri), ciò significa

accettare una inefficienza strutturale nel sistema produttivo. La cosa ragionevole da fare è invece beneficiare dei numerosi vantaggi che il livellamento della produzione porta, investendo sulla flessibilità delle risorse produttive - in particolare uomini e macchine - cosicché sia facile e poco costoso produrre per piccoli lotti.

Da notare nuovamente che livellare la produzione - produrre a piccoli lotti - consente al sistema produttivo di riconfigurarsi più facilmente per seguire le richieste dei clienti, nonché di consegnare più rapidamente poiché è più breve il tempo che intercorre tra la produzione di 2 lotti dello stesso codice.

Ancora una volta, applicando i principi e le

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linee guida del modello “lean” è possibile coniugare efficacia ed efficienza del processo produttivo.Un’importante considerazione prima di concludere. Il sistema produttivo “lean” è un modello e i tre principi sopra esposti sono appunto dei principi. Non esiste nessuna azienda al mondo che opera esattamente in tutte le fasi del suo processo come previsto dal modello: la sfida è utilizzare questi principi come linee guida per implementare la “lean production”, contestualizzandola alla propria realtà produttiva.

Vedremo più avanti che per implementare con successo il modello lean in azienda abbiamo a disposizione una serie di semplici strumenti e metodologie consolidate da decenni.

Tre suggerimenti

Ricordati che il Takt Time non è una variabile del processo produttivo. Ѐ il cliente che lo stabilisce ed è compito di chi gestisce la produzione creare le condizioni per seguire nel miglior modo possibile il Takt Time richiesto.

Produrre secondo il principio del “One-Piece-Flow” è molto difficile e in alcuni casi impossibile. Inizia però a produrre a piccoli lotti per far emergere i problemi (sprechi) e migliorare il processo.

La programmazione della produzione basata sulla previsione di ciò che si dovrebbe produrre è sempre soggetta a forti perturbazioni. Meglio puntare su sistemi agili e flessibili come il Pull System che si configurano per produrre ciò che è stato realmente consumato.

Tre spunti di riflessione

Quante volte il Takt Time varia significativamente nella tua azienda? I reparti produttivi e le aree di assemblaggio della tua azienda sono dimensionate per produrre secondo il Takt Time?

In quali fasi del processo produttivo potresti produrre secondo il principio del “One-Piece-Flow” e in quali invece ciò non è possibile? Perché?

Esistono dei magazzini inter-operazionali tra le diverse fasi del processo produttivo? Esistono le condizioni per poterli gestire come un Supermarket? Se no, perchè?

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a cura di Corrado Ravaioli

Metodo, organizzazione e aggiornamento sono alcuni dei principi che guidano i suoi passi, quotidianamente. Claudio Zanelli, 43 anni, factory manager presso la Marini Bomag-Fayat group di Ravenna ci racconta la sua storia professionale, caratterizzata da una grande determinazione e dalla ricerca costante di nuove competenze.

Prima di tutto, chi è Claudio Zanelli?Nella vita ho tre passioni: i miei tre figli, la formazione professionale e culturale e lo sport. Sono perito meccanico, non ho potuto frequentare l’Università ma ho sempre avuto una grande curiosità e il desiderio di acquisire nuove professionalità: la mia crescita è anche merito dei tanti stakeholders con cui ho condiviso momenti importanti del mio percorso lavorativo. Nel tempo libero sono impegnato attivamente nelle scuole dei miei figli, dove seguo alcuni progetti in tema di cultura dell’infanzia.

Quali sono le tappe principali della sua carriera?Ho trascorso undici anni alla Cefla, una delle più importanti realtà Cooperative del territorio imolese, dove ho trovato persone disposte a scommettere su di me. Ho lavorato in molte delle funzioni dell’area operation, maturando una esperienza significativa nella Supply Chain, diventando Planning and Production Manager nella Divisione Arredamento, settore banchi cassa per supermercati con la responsabilità di oltre 70 persone.

Dal 2005 al 2008, motivato da un forte desiderio di crescita professionale, ho ricoperto il ruolo di Operation Manager presso Medal PMI Bolognese, società specializzata nella costruzione e vendita di componenti per serramenti e zanzariere con funzioni di direzione della produzione, acquisti e di stabilimento. Infine sei anni fa sono sbarcato alla Marini-Bomag-Fayat group di Ravenna, un’azienda che vanta oltre 100 anni di storia caratterizzati in buona parte dalla visione industriale della famiglia Marini, capace di evolversi dalla costruzione di biciclette e motori verso macchine per la realizzazione e manutenzione delle strade. Circa 25 anni fa è entrata a far parte della multinazionale Fayat, uno dei primi quattro gruppi industriali francesi nelle costruzioni e lavori pubblici. Un colosso da 18mila dipendenti e 100 filiali nel mondo. Marini è l’unico stabilimento italiano.

Di cosa vi occupate?La divisione macchine stradali ha come capogruppo la Bomag, leader mondiale nelle tecnologie di compattazione. Nello stabilimento di Alfonsine (Ra) vengono prodotte frese a freddo; macchine di grandi dimensioni che asportano il manto stradale grazie a un rullo fresatore e le finitrici; macchine che hanno una complessa tecnologia oleodinamica ed elettronica operanti nel comparto delle manutenzioni stradali. Il mercato di riferimento è quello europeo per qualità e tecnologia. Bomag hauna rete vendite e clienti in tutto il mondo.

LA RICERCA DEL MIGLIORAMENTO CONTINUO, METODI E MODELLI ORGANIZZATIVI.UNA FILOSOFIA DI VITA

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Quali sono le sue mansioni principali?Mi occupo dell’organizzazione della produzione, del suo miglioramento, della formazione continua del personale e del recruiting. Gestisco un team che varia da 100 a 150 persone secondo i carichi di lavoro, impiegate nella realizzazione del prodotto e nei servizi correlati. Il processo di costruzione delle macchine prodotte nel sito Marini è molto complesso per il numero di componenti e tecnologia. Le competenze tecniche sono fondamentali per un’attività in cui prevale l’assemblaggio manuale nella realizzazione del prodotto.

Quali sono gli aspetti più avvincenti e quelli più delicati del suo lavoro?L’aspetto più appassionante del mio ruolo è quello di poter motivare coloro che lavorano con me e contribuire anche alla loro crescita. Lavorare in una multinazionale è molto stimolante perché mi ha permesso di conoscere altri professionisti, altre culture, confrontandomi con stili e abitudini diverse. Per questo ho acquisito maggiori competenze e una mentalità più aperta. Tra i progetti più significativi in ambito produttivo ricordo la riconfigurazione delle linee di assemblaggio, che ha portato importanti risultati di performance, e il progetto pilota in corso d’opera sull’ergonomia, con l’obiettivo di migliorare l’approccio lavorativo degli addetti.

Quanto conta il metodo? Che cosa rappresenta per lei? Quali altri aspetti hanno un peso decisivo per il conseguimento dei vostri obiettivi?Un mercato altalenante e legato a una forte stagionalità contribuisce a rendere più complicato il nostro business. Solo lavorando con metodo possiamo garantire standard tecnologici e di qualità al nostro prodotto. La stagionalità appunto ci ha portato ad applicare metodi diversi nell’arco dell’anno. Introducendo differenti modelli organizzativi si può sopperire alle richieste del mercato internazionale. Lavorare sui flussi per creare sovrapposizioni di attività in maniera organizzata aiuta a ridurre i tempi di consegna. E’ fondamentale avere idee chiare per rendere le persone consapevoli del loro lavoro. L’impiego di personale esterno nei periodi di elevato carico di lavoro richiede l’applicazione di un progetto formativo sia outdoor che in azienda capace di coinvolgere tutti gli enti aziendali e prosegue con l’affiancamento di tutor per formare e aggiornare il personale meno esperto. ET 30

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La formazione continua sul prodotto è un altro metodo efficace e strategico per produrre qualità. E’ fondamentale per dare risposte concrete ai problemi del cliente, il metodo è funzionale alla realizzazione di prodotti di qualità, diventando la risposta alle esigenze del mercato. Nella mia professione i principi della lean production sono importanti per raggiungere obiettivi ambiziosi come la riduzione dei costi, tempi di produzione, delle aree di stoccaggio. Per questo motivo siamo passati negli anni a un flusso teso che garantisce il rispetto delle consegne e una qualità eccellente del nostro prodotto diminuendo gli sprechi. I risultati, però, non si ottengono solo applicando la lean production, il mio concetto di azienda vede nelle persone i principali attori del processo. La formazione e il coinvolgimento delle persone è il punto di partenza, la lean production dà le linee guida con i suoi pilastri, il risultato della fase applicativa diventa efficace in funzione della bravura e impegno delle persone coinvolte. Per questo uno dei capisaldi è improntato al miglioramento delle persone con la loro partecipazione diretta al progetto. Tra le attività messe in campo per raggiungere un maggiore coinvolgimento c’è anche il riconoscimento delle idee e delle proposte di miglioramento. Le persone devono essere al centro del progetto, sapendo che il prodotto porterà con sé la loro passione e competenza in giro per il mondo.Bomag è uno dei più importanti produttori presenti sul mercato di macchine stradali l’obiettivo futuro è quello di aumentare i volumi e diventare ancor più importante nel suo comparto. Per questo è fondamentale lavorare sulle nuove tecnologie e sul marketing, ascoltando i clienti che nel settore sono molto competenti.Quali sono gli elementi chiave nello

sviluppo di prodotti come quelli realizzati dal vostro Gruppo?Un contributo strategico e determinante nello sviluppo del prodotto Bomag è costituito dalle sinergie tra l’azienda e i suoi clienti. I momenti di confronto continui, le proposte ET 31

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e i feedback sono elementi di crescita di un prodotto che ha esigenze precise: prestazioni, costi di esercizio, versatilità dei modelli, optional funzionali e intercambiabili, affidabilità. Ottime idee di miglioramento del prodotto provengono dalla base, per questo è fondamentale dare voce a tutte le persone che concorrono alla realizzazione delle nostre macchine.

Quanto è importante il lavoro di squadra?E’ fondamentale per raggiungere l’obiettivo, per questo i team di lavoro sono interfunzionali e rappresentano tutti i soggetti e processi coinvolti, spesso anche persone di diverse nazioni. Il successo del nostro lavoro passa attraverso la condivisione e partecipazione di tutti, dallo studio alla realizzazione di un prodotto che parla molte lingue.

Anche se il suo lavoro è molto tecnico, quanto conta avere una mente aperta e creativa?La componente tecnica è prevalente ma non mi limita a una visione costante verso il mondo esterno. Mi costringe invece ad avere una mente aperta, proporre nuovi progetti organizzativi e format in linea con il business e il budget, tenendo sempre presente le opportunità di miglioramento per l’azienda e le persone coinvolte.

C’è un aspetto del mondo del lavoro che, secondo la sua esperienza, merita maggiore attenzione?Per migliorare il mondo del lavoro servono anche idee nuove, e molte di queste

provengono dalla ricerca. L’innovazione resta sicuramente un’ipotesi percorribile. Per questo motivo mi piacerebbe coinvolgere anche le Università come soggetto attivo aprendo le porte alla contaminazione delle idee. Ampliare la collaborazione tra mondo del lavoro e scuole/Università avrebbe effetti positivi per entrambi, un presupposto di crescita sul quale occorre avere il coraggio di scommettere.

Ne approfitto per lanciare un altro tema che meriterebbe un approfondimento. Tutti riconosciamo alla lean production un potenziale enorme e vincente, non sempre viene sviluppato il pilastro che riguarda le persone denominato “people development”. Il modo in cui integrare la filosofia con gli attori resta un tema interessante sul quale lavorare perché le migliori idee possano essere declinate nel prodotto.

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a cura di Alberto Fischetti

Il successo di un progetto si basa su tre fattori principali: una buona metodologia di tecniche di progettazione, l’uso di comprovate e conosciute tecnologie e soprattutto il cosiddetto “fattore umano”, ossia le capacità e l’impegno delle persone che devono eseguire il progetto.

Il fattore umano è citato molto spesso nella letteratura: si va dal genere “spy story”, nella quale eccelle il romanzo “The human factor” del grande scrittore Graham Greene, ai testi di management, dei quali possiamo citare il bellissimo classico di McGregor.Può sembrare quasi ovvio e banale che io citi il fattore umano come l’elemento d’importanza principale in un progetto: lo sanno tutti che il successo di un’impresa dipende in grande misura dalle capacità e dalla motivazione di chi deve realizzarla. Io però vorrei un po’ concretizzare questi indiscussi principi riportandoli ad alcune considerazioni di livello più pratico, indicando

in quest’articolo alcune cose sulle quali è bene fissare l’attenzione. Non sempre, infatti, riusciamo a trasformare la nostra visione e le nostre intuizioni in comportamenti concreti e - come si suol dire - pur animati dalle migliori intenzioni, a volte perdiamo di vista il modo con cui dovremmo procedere “day by day”.Parlando più specificatamente di progetti da svolgere, vorrei distinguerli in due grandi categorie, ognuna con le sue problematiche specifiche:• i progetti individuali;• i progetti in team.

La seconda categoria è certamente molto più complessa, anche perché in essa ricadono i progetti più grandi. Partiamo però dalle cose più semplici, e cioè dalla prima categoria, che comunque presenta anch’essa la necessità di attenzione.

IL FATTORE UMANO DEI PROGETTI INDIVIDUALI

L’esecuzione dei progetti individuali, ossia progetti che non richiedono un lavoro di squadra con altre persone ma sono affidati esclusivamente a noi stessi, ha bisogno di alcune attenzioni che a volte sono trascurate. In particolare, vorrei elencare brevemente le secche nelle quali rischiamo di incagliare la nostra imbarcazione nella navigazione di cui solo noi siamo i responsabili.La prima - e forse la più pericolosa tendenza - è quella di dare più peso all’urgenza che non all’importanza, retaggio atavico delle situazioni di pericolo in cui viene attivato il “circuito breve” del sistema nervoso.

IL FATTORE UMANO NEL PROJECT MANAGEMENT

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Ricordiamo a tale proposito i famosi quattro quadranti di Covey, nei quali vengono suddivise le attività in funzione del loro grado di urgenza e importanza:

D’istinto tendiamo a reagire più prontamente e con più determinazione all’urgenza, quindi dedichiamo sempre la massima priorità alle attività che ricadono nei quadranti Q1 e Q3. Poiché il tempo a nostra disposizione non è infinito, dedichiamo una grande quantità di esso alle cose urgenti, riducendo inevitabilmente quello da dedicare alle attività nei quadranti Q2 e Q4. Ora, mentre è sacrosanto tralasciare e possibilmente cancellare del tutto le attività del quadrante Q4 - ossia quelle non urgenti né importanti - è quasi sempre fatale per la buona esecuzione di un progetto sacrificare sotto la pressione dell’urgenza tutto ciò che ricade nel quadrante Q2.

Diventa quindi fondamentale disciplinarsi in modo da dedicare sempre una parte del proprio tempo alle attività di progetto, anche se la sensazione che ci sarà comunque

tempo domani (“Domani è un altro giorno”, così si concludeva il famoso romanzo e film “Via col vento”) ci dà un’illusoria sensazione che tutto rimanga sotto controllo e che ci verrà data comunque una seconda possibilità. Questa tendenza a sacrificare le attività di progetto perché non ci sembrano urgenti e ci appaiono tutto sommato procrastinabili ricade in quella che viene definita “soglia di attivazione”, fenomenologia ben nota a tutti noi fin dai tempi degli esami scolastici, definita con le semplici parole a noi quasi sicuramente detteci da altri “ridursi all’ultimo momento”.

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Inevitabilmente, quando una scadenza ci appare - ingannevolmente - piuttosto lontana, tendiamo a non affrontare l’impegno richiesto dalla scadenza e quando iniziamo ad attivarci è spesso troppo tardi, per cui alla calma iniziale subentra lo stress e addirittura il panico. Attenzione dunque a non mantenere troppo in alto la nostra soglia di reattività e cerchiamo di fare in modo di iniziare ad attivarci sul progetto in tempo utile, senza cadere nella sgradevole e spesso improduttiva fase del panico.

Un altro modo di vedere le cose è quello di qualcuno che si è posto il problema: “Come faccio a mangiare un elefante?” Divorare un elefante intero, ammesso che debba nascere questa esigenza, è sicuramente molto difficile anche per i più ingordi di noi.

La strategia da adottare è quella di suddividere l’animale in tanti hamburger da 100 grammi e in seguito di mangiarne uno ogni giorno: solo così riusciremo a mangiarci tutto l’elefante entro la data di scadenza. Ma se non cominciamo subito questo programma, o se saltiamo per diversi giorni quanto abbiamo stabilito, ci ritroveremo a dover ingozzarci dopo, con

gravi rischi per la nostra salute e per la buona riuscita del progetto.Tutti bei discorsi ma anche abbastanza ovvi. Come possiamo però, in pratica, dedicare del tempo alle attività di progetto (attività Q2) quando siamo costantemente inondati da urgenze, imprevisti, interruzioni e non ci basta mai il tempo neppure per le cose urgenti e importanti? La ricetta più semplice è quella di stendere un elenco delle cose da fare e suddividerle secondo una classifica ABCDE, dove:• A, B, C sono le attività da fare, ordinate

in ordine di priorità, dove A è la priorità più alta;

• D comprende l’elenco delle attività da delegare ad altri;

• E comprende l’elenco delle attività da eliminare.

Ricordiamoci che “D” implica sia la possibilità che la capacità di una delega efficace - argomento questo che meriterebbe almeno una trattazione a sé stante - e che “E” richiede il coraggio di cancellare senza paura definitivamente tutto quel cumulo di attività, anche piccole, che non aggiungono valore a quelle che sono le nostre aree chiave di risultato. Può sembrare strano, ma molti non hanno questo coraggio: sono quelle persone cui trema un poco il dito con esitazione quando devono premere il tasto “Canc” per eliminare un file o un’email dal proprio computer.

Quindi, cerchiamo di imporci una certa autodisciplina: spendiamo un po’ di tempo ad analizzare le nostre attività, a pianificarle, a stabilire delle priorità. Dedichiamo una parte delle nostre migliori energie mentali allo “sharpen the saw” come dicono i nostri amici anglosassoni, riferendosi a un apologo che narra il

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seguente fatto: incontrate in una foresta un boscaiolo che sta segando con grande fatica il tronco di un albero. «Mi sembri esausto: da quanto tempo stai lavorando?» gli chiedete. «Da cinque ore, è un lavoro veramente faticoso!» risponde lui. E voi: «Perché non interrompi per qualche minuto e non affili la tua sega?» E lui risponde: «Ma io devo lavorare, non ho mica tempo da perdere!”»

IL FATTORE UMANO NEI PROGETTI IN TEAM

Il fattore umano diventa ancora più importante e complesso quando si devono svolgere progetti che richiedono un lavoro in team. Nel fare insieme alcuni ragionamenti sulle problematiche dei progetti in gruppo adottiamo il punto di vista del Capo Progetto, cioè di chi si assume la responsabilità della sua buona riuscita. Sarebbe bello, come dice Collins, «prima far salire sull’autobus le persone giuste, fare scendere dall’autobus le persone sbagliate, sistemare le persone giuste nei posti giusti e poi decidere verso dove fare andare l’autobus». Nella realtà dei progetti il dove fare andare l’autobus è già determinato negli obiettivi di progetto e le persone assegnate al progetto, spesso, non sono scelte da noi. Anzi, in molte realtà aziendali i membri da assegnare a un team di progetto vengono richiesti ai reparti funzionali gestiti da manager che, se non coinvolti direttamente nel successo del progetto, protesi ai risultati del proprio reparto, avranno la deprecabile tendenza di affibbiarvi le loro risorse più scadenti, quelle di cui faranno volentieri a meno. Attenzione dunque ai “bidoni” rifilati da amorevoli colleghi! In una sana organizzazione i risultati di un progetto devono assumere la stessa importanza dei risultati ottenuti dalle singole funzioni e questo deve essere ben chiaro ai manager

funzionali.Al team di progetto deve essere riservata la stessa cura e attenzione che un genitore dedica al proprio figlio: il team deve essere seguito amorevolmente nel percorso che va dalla sua nascita fino al suo scioglimento. Come avviene nel corso della vita dei nostri figli, dobbiamo affrontare problematiche diverse nelle varie fasi evolutive del team, e adottare verso il team stili di leadership diversi.

Il team attraversa nella sua evoluzione tipicamente quattro fasi.

La fase della nascita (forming), quando il team viene costituito. È caratterizzata dall’adattamento dei membri del team alla nuova situazione. Essi devono fare propri gli obiettivi di progetto, capire il loro ruolo e le loro responsabilità, adattarsi agli altri, acquisire il senso di appartenenza, imparare a fare “gioco di squadra”. In questa fase il Project Manager deve adottare uno stile di leadership direttivo, ossia fornire chiaramente tutte le informazioni necessarie a iniziare il lavoro. In questa fase non è indispensabile lavorare

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sulla motivazione che è già alta, perché tutti i membri del team sono entusiasti all’idea di contribuire alla creazione di una cosa nuova, ma è fondamentale celebrare l’inizio dell’avventura con un appagante “kickoff meeting” per rendere l’inizio del progetto un evento memorabile ed esaltante.

La fase del disagio (storming) in cui, passato l’entusiasmo iniziale si comincia a prendere coscienza delle difficoltà e cominciano a insorgere attriti fra i membri del team. In questo caso dovremo adottare uno stile di leadership che continua a essere direttivo perché ancora devono essere acquisite conoscenze e capacità ma che deve anche lavorare sulla motivazione in modo da incoraggiare nel team la fiducia e l’impegno. In pratica, dunque, il Project Manager diverrà il “coach” del team.

La fase di crescita (norming) nella quale via via i membri del team lavorano sempre con più sicurezza e fiducia. Il Project Manager nei confronti del team potrà limitarsi a un’attività di supporto, controllando che non vi siano “ricadute” verso la demotivazione o, ancora, qualche necessità di rafforzamento delle capacità.

La fase di produzione (performing) quando il team lavora oramai come una macchina ben oliata, efficiente e produttiva. Il Project Manager potrà sempre di più adottare uno stile delegante, affidando con sicurezza attività e responsabilità ai membri del team.

Anche se nulla può sostituire la presenza costante del Project Manager e la comunicazione diretta con/e fra i membri del team, potrebbe essere utile fare dei sondaggi periodici sullo stato del team,

chiedendone ai membri una valutazione su alcuni parametri fondamentali del lavoro, quali - ad esempio - la relazione, la responsabilità, la produttività, il riconoscimento e lo scopo. La valutazione fatta a un certo momento (diagramma a “tela di ragno” con la linea in rosso nella figura) permette di fissare degli obiettivi di performance e la valutazione fatta dopo qualche tempo (diagramma con la linea in blu nella figura) permette di misurare il progresso nelle dimensioni scelte e di verificare se gli obiettivi che ci si è posti sono stati raggiunti.

Nei team di progetto esistono delle problematiche ricorrenti che vorrei elencare perché sono veramente frequentissime e sono tra le cause principali di insuccesso dei progetti. Sulla base dell’esperienza acquisita nel ruolo di Project Manager direi che i principali elementi sui quali focalizzare l’attenzione sono questi otto seguenti.

Ruoli e responsabilità non ben definiti Ritengo fondamentale che ogni membro del team sappia esattamente qual è il suo ruolo, quali sono le sue responsabilità e quali sono le aspettative nei suoi confronti.

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Ognuno deve sapere cosa deve fare, come la deve fare e come verrà valutata la sua prestazione. Non ci devono essere lacune di responsabilità (attività “orfane”) cioè attività - o compiti - di cui nessuno è responsabile, oppure sovrapposizioni di responsabilità fra i membri del team.

Le persone sbagliate nei posti sbagliati Nell’assegnazione dei ruoli e delle responsabilità è importante tenere conto delle caratteristiche dei membri del team, sia dal punto di vista delle competenze che dal punto di vista del profilo psicologico personale. Ognuno deve potenzialmente essere in grado di erogare la migliore performance possibile.

Lavoro per sotto-obiettivi o per obiettivi individualiE’ pur vero che ogni membro del team lavora su una ben specifica parte del progetto, ma deve essere assolutamente evitato l’anteporre i singoli obiettivi di performance degli individui agli obiettivi generali. Ogni successo personale deve essere celebrato

e premiato come successo del team e non della singola persona.

Perdita del focus sull’obiettivo finale Quando il progetto si articola in un tempo di esecuzione lungo è nella natura umana perdere di vista gradualmente l’obiettivo finale. E’ quindi fondamentale mantenere vivo, nel team, un forte senso di urgenza stabilendo tappe - “milestones” - ravvicinate nel tempo, da raggiungere una alla volta, in modo da mantenere costantemente viva la focalizzazione sull’esecuzione del progetto.

Paura dell’insuccesso e delle critiche Può capitare che alcuni membri del team, in preda alla paura di castighi o di critiche di colleghi, cerchino di tenere nascosti i problemi (il ben noto atteggiamento del “nascondere la polvere sotto il tappeto”).

Deve quindi essere diffusa nel team la “cultura dell’errore”, ossia la visione degli errori come opportunità di miglioramento e non come motivo per colpire chi ha sbagliato.

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Paura dei conflittiSi tratta dell’atteggiamento di chi vuole mantenere a tutti i costi buoni rapporti con i colleghi, anche quando non sarebbero d’accordo con comportamenti e modo di operare. La critica costruttiva - ossia leale, non personale - e formulata nell’interesse del team e delle buone performances di esso, deve sempre essere incoraggiata e divenire motivo di risoluzione dei problemi e di miglioramento.

Mancanza di fiducia negli altri Ognuno deve riporre la massima fiducia in quello che fanno gli altri. Se esistono problemi d’incapacità e di performance questi devono essere subito affrontati e risolti in modo che tutti si sentano protetti e in grado di svolgere i propri compiti in condizioni di massima sicurezza.

Mancanza di riconoscimentoIl lavoro svolto deve sempre avere un riconoscimento e una gratificazione. I successi devono essere sempre celebrati.

Chi ha praticato o segue attentamente uno sport di squadra (molti di noi si ritengono ottimi commissari tecnici della Nazionale di calcio italiana) possono riconoscere facilmente quanto siano determinanti questi otto elementi nel decretare il successo di una squadra in una partita.

Per concludere posso dire di aver cercato di affrontare quella che probabilmente è la parte più difficile della gestione dei progetti.La definizione e la pianificazione di un progetto è certamente fondamentale e alcuni Capi Progetto proveranno un grande senso di sicurezza nell’aver formulato piani accurati e completi. È l’esecuzione quella fase in cui non si lavora più solamente sulla carta ma ci si deve impegnare sul campo, nel “mondo reale”. Dovranno emergere le migliori caratteristiche umane - sia mentali sia emotive - e quindi è qui che gioca un ruolo fondamentale in tutta la sua completezza e complessità il “fattore umano”.

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La scrittura di programmi - lo sviluppo di codice per computer - oggi é un fatto che coinvolge letteralmente tutti gli ambiti della nostra giornata. Dietro questo importante aspetto della nostra vita quotidiana c’é l’oscuro lavoro dei progettisti, analisti, programmatori, “testers”, installatori, sistemisti. Creare un prodotto informatico era - ed é - un impegno che richiede molte ore di lavoro ma, almeno nella buona parte del codice prodotto in Italia, non é passato dalla fase artigianale a quella industriale. Senza voler essere generalista, il motivo che tutt’ora rende questo passaggio difficile, può essere tranquillamente individuato nella mancanza di cultura informatica di base e quindi dalla carenza di metodo nello sviluppo del “software”.

Una software house in Italia, escludendo poche eccellenze, sviluppa personalizzazioni per un parco ristretto di clienti che, inevitabilmente, ha un notevole potere contrattuale verso il fornitore di adattamenti. D’altra parte la politica di questa diffusissima schiera di “software houses” si basa principalmente sul mantenere alto il costo che pagherebbe il cliente in un eventuale cambio di fornitore. Questa politica si esplica nella ristretta, se non assente, produzione della documentazione.

Vediamo un caso alquanto comune: un validissimo e zelante sviluppatore della “artigiani del codice” riceve una chiamata dalla responsabile del magazzino della

società “cliente analista” che richiede una variazione di una procedura nella gestione del magazzino. Il valente programmatore studia il problema e intuisce una buona soluzione: si collega in remoto - molto probabilmente in “screen sharing” - con il server del cliente e applica con successo la soluzione che ha escogitato, quindi telefona alla responsabile della “cliente analista” comunicandogli che la questione é risolta e di verificare. Il cliente é soddisfatto e riceve quasi con piacere la nota del costo dell’intervento effettuato così efficacemente. In quanti si riconoscono in questo quadretto? Molti. In quanti invece capiscono quante sono le cose che in questo quadretto non vanno bene e perché? Sfortunatamente meno, molti meno. Per capire quanto sia importante il metodo nella produzione di codice é necessario analizzare gli scenari di un possibile futuro rapporto professionale tra “software house” e “cliente”. Il valente programmatore, proprio perché valente, accetta la proposta di lavoro della “industrie del codice” lasciando la “artigiani del codice”. Dopo qualche tempo c’é un problema relativo a una delle mille variazioni suggerite dal “cliente analista” al nostro fortunato e appena perso sviluppatore. Ovviamente la “artigiani del codice” ha sostituito l’elemento perso. Il neo assunto sviluppatore alla “artigiani del codice”, dopo qualche ora passata a recuperare le modalità di accesso tramite “remote desktop” al sistema del cliente, comincia a cercare di trovare cosa non

IL METODO VIENE PRIMA DEL CODICE

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Softw

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a cura di Silvestro Di Pietro

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IL METODO VIENE PRIMA DEL CODICE

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va, con le difficoltà che immaginereste si abbiano nel dover analizzare del codice scritto e pensato da altri. Infatti, il precedente sviluppatore, abituato a un rapporto troppo sbilanciato dal lato del cliente/padrone, non era avvezzo a spendere tempo nel descrivere il codice modificato. La necessità di dover investigare ancor prima di poter intervenire, costringe la “artigiani del codice” a mettere “offline” il sistema del cliente (tutto il sistema) per poter effettuare quella che descriveranno come manutenzione, ma che consisterà nell’ inserimento del codice aggiuntivo di “debug” per poter trovare la soluzione al problema, e lo dovranno fare nel sistema in produzione. Il neo sviluppatore quindi chiama il suo precedente collega chiedendo lumi, ma sono passati mesi e questi non ricorda quasi nulla dei mille aggiustamenti fatti in remoto. Facciamola breve: l’emergenza rientra dopo tre giorni di “down” del sistema, un mezzo esaurimento

nervoso condito da una pessima impressione da parte del giovane neo assunto, telefonate di scuse da parte del proprietario della “artigiani del codice” alla “cliente analista”; la cosa si risolverà verosimilmente in un frainteso vantaggio per il committente e in una maggiore pressione per il fornitore ad ancor più rapide implementazioni per il futuro. Cosa non funziona, cosa è successo nell’idilliaco quadretto iniziale di questo scenario? Partiamo dalle basi nello sviluppo di codice (vedi figura a).

Nella figura risulta evidente che anche la stesura dei programmi più semplici necessita di un metodo operativo che garantisca, a ogni passaggio, una serie di prove e collaudi oltre che una riproducibilità delle condizioni. Proviamo ad applicare lo schema all’ esempio descritto precedentemente. La responsabile del magazzino dell’azienda cliente ha bisogno di una modifica alla

Figura a

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procedura del magazzino. Telefona al responsabile sviluppo della “artigiani del software” e fissa un appuntamento per delineare le nuove esigenze. La riunione tra il responsabile dello sviluppo e il cliente condurrà alla stesura di un’offerta da parte del fornitore dove è necessario vengano indicate le esigenze richieste, il costo e la data di consegna della modifica. Secondo lo schema della figura, il responsabile dello sviluppo descrive con la metodologia scelta dalla “artigiani del software” l’implementazione delle esigenze del cliente. Si passa alla stesura del codice e alla realizzazione delle basi dati e quindi ne si descrivono le funzionalità e come si esplica l’interfaccia utente integrando il manuale della applicazione. Il codice sviluppato sulla base di queste specifiche e descritto in maniera documentale, passa dai computer dedicati allo sviluppo ai collaudatori che, leggendo riga per riga il manuale, provano che il sistema funzioni come descritto. La nuova procedura ora è pronta per essere consegnata ma, dato che va installata da terzi e su macchine terze, è necessario produrre la parte di codice e le istruzioni che si occuperanno d’installare la nuova implementazione nell’ambiente di produzione. Il fatto che ci siano codice e procedure nuove necessariamente determina il bisogno di doverle collaudare a loro volta. Non solo, il collaudo finale deve per forza di cose avvenire in un ambiente che sia il più possibile simile al sistema che l’azienda cliente usa: l’ambiente di prova o di “preflight”, se volete. Questo ambiente è in casa del cliente e - ove possibile - deve essere un duplicato del sistema in produzione (codice e dati) con la possibilità di essere rigenerato (duplicato) in maniera semplice. A questo punto avviene la consegna: il cliente rinfresca il sistema di prova e segue

le istruzioni di installazione. Se qualcosa va storto la procedura viene rivista ripartendo dal test della stessa da parte dei collaudatori del fornitore di “software”, in caso contrario il cliente la applica nei suoi sistemi di produzione. Anche volendo ridurre il quadro ci devono essere almeno tre persone coinvolte, una per ogni ambiente (sviluppo, collaudo, produzione). É altresì necessario che chi fa sviluppo non faccia i collaudi e chi fa i collaudi non faccia le installazioni finali. Rispettando queste necessarie separazioni di ruolo si ottiene di certo la documentazione. Solo un’adeguata documentazione consente il passaggio della procedura da un compartimento a un altro. Se dopo qualche mese accade un problema sul sistema del cliente - magari dopo che il fornitore del software ha cambiato il suo programmatore - cioè in pratica quello che abbiamo ipotizzato accadesse nel primo esempio, ci troveremmo di fronte a una ben diversa situazione. Il problema potrebbe essere riprodotto nell’ambiente di collaudo, sarebbe possibile verificare tutti i cambiamenti avvenuti precedentemente. Il nuovo programmatore avrebbe una bussola per orizzontarsi e sarebbe quindi in grado di risolvere in maniera efficace e rapida il problema, non sarebbe necessario creare un dannoso fermo macchine presso il cliente ma - soprattutto - sia il fornitore che il cliente dimostrano di aver solidificato gli investimenti di tempo e di danaro. Il primo può utilizzare quanto fatto per diversi clienti, il secondo non è costretto a un forzato matrimonio, in quanto le procedure e i manuali gli consentono di cambiare fornitore in maniera decisamente meno traumatica.Nella realtà un fornitore di software che agevoli il cliente ad adottare una metodologia di lavoro, è una “software house” che

Parte DominanteEconomie di scala/bassi costi

Utilizzo di soluzioni

proprietarie

Committente

GrandeFornitoreLicenze

costi

SoftwareHouse

Obiettivo Commerciale

Utilizzo di soluzioniOpen sources

CommittenteSoftwareHouse

Partner Commerciale

investimenti

Situazione attuale: SviluppoSoftware: sistemi operativi proprietari, linguaggi proprietari, database proprietari, Standard proprietari: Alti costi e bassa qualità, conflitti di interesse da parte delle software houses, sudditanza tecnologica

Situazione in evoluzione:Sistemi operativi Free,Databases Free,Standard condivisi non proprietari:Minori costi e sviluppo del software più' remunerativo, assenza di conflitti di interesse

Bassa preparazione informatica

Alta preparazione Informatica

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difficilmente perderà preziose risorse e - nel caso ciò avvenisse - sarebbe in grado di sostituirle con minore danno per sé e per la sua clientela. Il cliente, a sua volta, anche se apparentemente facilitato nel cambiare fornitore, tenderà a non farlo perché avere delle procedure documentate e funzionanti non rappresenta un costo ma un investimento che non perde valore nel tempo. Cambiando fornitore questo potrebbe essere non più possibile. Quanto costa invece non adottare validi metodi operativi nello sviluppo del software o - da parte del cliente - non richiedere esplicitamente che il proprio fornitore di procedure informatiche ne adotti di efficaci?

Siamo nell’epoca dell’informazione, della conoscenza condivisa, dove avere delle efficaci procedure informatiche e personale adeguatamente addestrato ad adottare delle efficaci metodologie a riguardo non é una questione di scelte, ma una vera e propria necessità. Nel nostro paese il vero problema non è il nanismo di una pletora di minuscole aziende che producono software per pochi clienti, software che molto spesso é poco più che una implementazione di codice scritto da altri e più grandi fornitori. Il problema vero è che queste piccole realtà, che raramente hanno un adeguato approccio metodologico non hanno creato nessun valore aggiunto, non hanno creato un patrimonio che possa essere adeguatamente sfruttato e quindi non potranno che soccombere. Ciò può accadere alle aziende che hanno bisogno di procedure informatiche che, credendo di spendere meno, non richiedono o adottano metodo nello sviluppo delle proprie procedure, bruciano risorse e non investono.

C’é un altro aspetto che deve essere considerato: la risorsa umana. Nell’esempio che é stato fatto ci sono diverse risorse coinvolte: lo zelante sviluppatore della software house, responsabile del magazzino del cliente. Ciò che va sottolineato e che fa sempre parte della mancanza di un approccio metodologico é rappresentato dalla mancanza di un ruolo preciso di queste due figure. Ambedue sono colonne portanti per le loro aziende, di sicura fiducia ed esperienza: é evidente che nel loro rapporto si é instaurata anche una relazione interpersonale, ben vista in quanto ritenuta da entrambe le strutture come produttiva.

Parte DominanteEconomie di scala/bassi costi

Utilizzo di soluzioni

proprietarie

Committente

GrandeFornitoreLicenze

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SoftwareHouse

Obiettivo Commerciale

Utilizzo di soluzioniOpen sources

CommittenteSoftwareHouse

Partner Commerciale

investimenti

Situazione attuale: SviluppoSoftware: sistemi operativi proprietari, linguaggi proprietari, database proprietari, Standard proprietari: Alti costi e bassa qualità, conflitti di interesse da parte delle software houses, sudditanza tecnologica

Situazione in evoluzione:Sistemi operativi Free,Databases Free,Standard condivisi non proprietari:Minori costi e sviluppo del software più' remunerativo, assenza di conflitti di interesse

Bassa preparazione informatica

Alta preparazione Informatica

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Questa invece é un problema, infatti instaura un rapporto che non ha aspetti positivi: la responsabile del magazzino non ha chiaro il funzionamento del sistema e vede solo la parte problematica del suo ambiente di lavoro, non sa come le richieste che fa allo sviluppatore direttamente influiranno nei processi aziendali. Lo sviluppatore d’altro canto e sulla base di questo rapporto interpersonale, opera direttamente sul cuore informatico dell’azienda del cliente. Le due figure agiscono in perfetta buona fede ma il loro operato solo apparentemente é vantaggioso. Non solo, ma dal loro punto di vista hanno risultati che difficilmente li convinceranno ad adottare diversi quanto necessari approcci. Stranamente questo pare accadere solo per ciò che riguarda la

parte informatica e molto meno per gli altri aspetti dell’organismo aziendale: ufficio acquisti, produzione e vendita hanno molta

più cura riguardo gli aspetti organizzativi.

La ragione di questo non é chiara, ma si può ipotizzare che dipenda dal fatto che il tumultuoso sviluppo dei “computers” abbia lasciato spiazzata la maggioranza dei piccoli e medi imprenditori che non hanno saputo adeguare alle nuove realtà gli organigrammi e non hanno potuto adottare i collaudati metodi che hanno perfezionato nella produzione, vendita e approvvigionamento spesso irretiti da quello che non si conosce. L’informatica viene quindi vissuta non come una risorsa ma come un costo necessario che deve impegnare il minimo di risorse umane possibile. A questa visione minimalista soccombe anche “l’artigianato” delle case di produzione software che si

adegua con personale spesso scarsamente preparato e che non creano ma si limitano a fare i rivenditori di licenze software altrui. Questo aspetto, il nanismo e la mancanza di software originale prodotto dalle nostre software houses, rappresenta, per chi fa questo lavoro con passione, fonte di grande sconforto.

Una delle ragioni che mi hanno convinto a collaborare con METHODO riguardo l’aspetto metodologico della produzione di software nell’impresa é quella di provare a condividere le mie esperienze professionali nell’intento di far conoscere, approfondendo in maniera colloquiale, questi aspetti nella speranza che il lettore possa maturare consapevolmente un

proprio metodo, migliorando la propria capacità produttiva e sfruttando al meglio la propria creatività.

SviluppoAnalisi

Scrittura Codice

Collaudo/Stesura

Procedure

Creazione Pacchetto

Produzione

Codice

Documentazione

Produzione-test

ProceduraInstallazione

ProcedureCodice

Installazione

Documentazione

Comparti "stagni"

Sofware House Committente

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a cura di Daniela Donati

Immaginiamo di aver scoperto, leggendo il primo numero di questa rubrica o approfondendo altrove l’argomento, che siamo tutti potenzialmente creativi. Immaginiamo che facendo una rapida rassegna delle nostre attitudini e approcci alla risoluzione di un problema ci venga il dubbio che il nostro potenziale non si sia ancora del tutto espresso. Immaginiamo che sorga in noi il desiderio di scoprire fino a che punto potremmo utilizzare il nostro potenziale e a quali risultati potremmo infine giungere. Se la decisione è presa, non resta che trovare una strada. Eccone una: installare in noi un nuovo set mentale che si traduca in un vero e proprio “riflesso creativo”, un modo nuovo di reagire alle diverse situazioni che ci capita di affrontare e per le quali solitamente fatichiamo a trovare facilmente un’idea o una soluzione.

Possiamo pensare al “riflesso creativo” come a una classica situazione azione-reazione, causa-effetto; un po’ come dal pediatra che quando eravamo piccoli batteva il martelletto sul nostro ginocchio e questo schizzava in avanti all’improvviso senza che avessimo avuto il tempo di accorgerci che qualcuno, a nostra insaputa, ne aveva dato il comando. Un po’ quell’effetto lì: la situazione ci richiede di generare delle idee e immediatamente ci vengono in soccorso tutte le migliori risorse creative offerte dal nostro potenziale.

Agli appassionati di Lean Thinking, questo

discorso potrebbe far venire in mente la teoria degli sprechi e in particolare quello che molti testi indicano come l’ottavo spreco: il mancato sfruttamento del potenziale delle persone. Fra tutti, forse, il più grave. Spreco d’idee vincenti e risolutive, sottovalutazione dei talenti, sottoutilizzo di competenze e creatività: in sintesi, una formidabile occasione sostanzialmente sprecata.

Confortati dalle scoperte delle Neuroscienze, da tempo sappiamo che installare una nuova abitudine, apprendere e replicare un nuovo comportamento fino a una sua espressione automatica e persino inconsapevole, è una sfida non solo possibile ma anche raggiungibile senza particolari sforzi, purchè alla base vi sia una buona motivazione e un’efficace autodisciplina da parte di chi la desidera acquisire. Alcune ricerche sostengono che 21 giorni è il lasso di tempo necessario per creare una nuova abitudine; la chiave del successo risiede nella ripetizione, si tratta dunque di replicare assiduamente e volontariamente la nuova abitudine da acquisire per far sì che il nostro cervello la “installi” e la interiorizzi come processo costante della nostra giornata o come modus vivendi.

L’approccio che viene di seguito presentato, il Creaflex, è stato ideato da Hubert Jaoui, allo scopo di innescare quel riflesso creativo che ci consentirà di esplorare continuamente il contesto, di scoprirne

ARS CREANDI: TECNICHE DI CREATIVITÀ E SPUNTI PER IL CAMBIAMENTO

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tutte le implicazioni positive (soprattutto quando queste non sembrano essere così evidenti), di ascoltare costruttivamente (evitando di rifiutare d’impulso delle idee che a un esame più attento potrebbero invece rivelarsi nuove e utili) e - in sostanza - di ampliare il campo delle possibilità di risoluzione o di miglioramento dello stato di partenza.

Possiamo considerare il Creaflex come una riprogrammazione atta a sradicare il più comune riflesso distruttivo, inteso come critica sistematica e rifiuto delle nuove idee. La nuova riprogrammazione si fonda su tre comportamenti collegati ad altrettante tecniche di creatività.

Primo comportamento: divergere prima di convergereDi fronte a un problema, la prima idea di

soluzione è forse quella buona. Molto più spesso si verifica il fenomeno per cui ci sembra che questa soluzione a portata di mano (e a volte associata a un senso di insoddisfazione) sia anche l’unica possibile. Non ne avremo prova evidente fino a quando non avremo provato a generarne delle altre con le quali poterla confrontare. Ma come superare questo loop creativo? Ci viene in soccorso la base del metodo creativo che consiste nella dialettica della divergenza (produzione d’idee con sospensione del giudizio) e convergenza (analisi puntuale delle idee prodotte secondo parametri e criteri di valutazione precedentemente stabiliti), separate da due diverse fasi temporali (prima produrre e poi giudicare). E se ancora

questo non fosse sufficiente, ecco la nuova abitudine da installare: uno slogan vincente, una credenza potenziante che dice:

“per ogni problema ci sono almeno due soluzioni”

Secondo comportamento: ascoltare prima di giudicareLa storia delle grandi innovazioni che hanno rivoluzionato il loro contesto d’appartenenza o ne hanno introdotto uno nuovo, è costellata da numerosi esempi di grandi opposizioni iniziali e percorsi lunghi e tortuosi prima della loro affermazione. Spesso alla base di questo effetto si pone una consolidata abitudine a rigettare il nuovo, senza nemmeno avere ascoltato e valutato a fondo tutte le

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implicazioni della nuova idea. D’altra parte, nell’esperienza manageriale (e ovviamente anche nella vita extra-lavorativa) capita spesso di dover rifiutare delle idee a ragion veduta. In entrambi i casi si pone un doppio problema: rischiare di non comprendere la bontà e la portata innovativa di un’idea e rischiare di compromettere la relazione con l’interlocutore che ci pone l’idea che intendiamo rifiutare (e chi produce un’idea tende più facilmente a coglierne i lati positivi, sviluppando una parziale cecità rispetto a quelli negativi).

Nell’approccio del Creaflex, Jaoui suggerisce l’utilizzo della tecnica dell’Avvocato dell’Angelo, ideata da Sidney Shore, che si rivela straordinariamente efficace nel superare e risolvere i due rischi su citati. Come si può facilmente intuire dal nome che porta, questa tecnica è proprio l’opposto dell’Avvocato del Diavolo il cui ruolo le persone tendono a interpretare nelle situazioni innovative. È un metodo che abitua a cogliere l’aspetto positivo delle cose e quindi a porsi con un atteggiamento collaborativo, aperto nei confronti di chi propone un’idea. È utile applicarla sistematicamente alle nuove idee soprattutto se molto originali o apparentemente poco pertinenti al problema per cui sono state formulate.

Essa si compone di 5 tappe che Jaoui descrive come segue:

1 . A s c o l t a r e l ’ i n t e r l o c u t o r e c o m p l e t a m e n t e . Ciò vuole dire, certamente, di restare in silenzio, evitare la principale scorrettezza dell’interruzione; ma anche mostrare visibilmente al nostro interlocutore l’interesse che dimostriamo per le sue opinioni. Questo consenso non significa che siamo d’accordo con ciò che viene

detto, ma semplicemente che noi registriamo senza censure, né a priori, la totalità del messaggio.

2. Riformulare precisamente. Restituire all’altro il suo messaggio con le nostre parole, cosa che gli permetterà di verificare se è stato compreso ed eventualmente di completare, correggere, sfumare la nostra nuova formulazione. La formula da usare è: “se ho capito bene, mi proponi di.../ la tua idea è…”. La persona se si riconosce nella riformulazione è sicura di essere stata ascoltata e compresa e così è portata a esprimersi ulteriormente e a collaborare. In questa fase, quindi, l’utilità del procedimento è di verificare la reale comprensione del concetto trasmesso e nel frattempo di segnalare l’attenzione e l’interesse sulla proposta.

3. Complimentarsi con sincerità. Qui si mette all’opera la vostra creatività. In un’idea che vi soddisfa solo a metà, o per nulla, dovete riuscire a identificare almeno un punto positivo. Non occorre essere d’accordo con l’idea in toto. È sufficiente reperire un solo aspetto. È importante comunicare questo apprezzamento all’interlocutore utilizzando, alla lettera, la formula “quello che mi piace della tua idea è…” e completare con l’aspetto rilevato. Questo apprezzamento, che deve essere sincero, obbliga a un atteggiamento costruttivo nei confronti della proposta e lo segnala alla persona, attivando tra i due una corrente di collaborazione, piuttostoche di diffidenza. L’ironia, il bluff sono da escludere assolutamente.

4. Fare domande aperte. Per questo compito avete a vostra disposizione

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5.

Terzo comportamento: cambia punto di vista e cogli il lato positivo Tra gli elementi del pensiero creativo un aspetto fondamentale è rappresentato dalla flessibilità, cioè la capacità di cambiare punto di vista, cogliere gli aspetti insoliti di una situazione. Ciò è particolarmente difficile nelle circostanze negative o di disagio. Tuttavia, per sviluppare attivamente

la creatività, in questi frangenti, è importante saper cogliere non solo ciò che ci preoccupa, ma anche gli aspetti positivi su cui costruire possibili soluzioni.

La tecnica suggerita da Jaoui, per questa tappa del Creaflex, è il “What’s good about it? (“Cosa c’è di buono?”), ideata da Sidney Shore. Ecco come funziona:

1. Vi capita un infausto, o drammatico, avvenimento. Cominciate con l’esprimere le vostre emozioni (collera, tristezza, disperazione). Soprattutto non respingetele.

2. Fate l’elenco di tutte le conseguenze negative che ne deriveranno o che potrebbero derivarne. Numeratele.

3. Ora, utilizzate la vostra creatività per elencare almeno altrettante conseguenze potenzialmente positive. (Ciò vi sarà forse difficile la prima volta ma con un po’ di pratica vi sarà sempre più facile).

4. Confrontate i due elenchi e trovate come alcune conseguenze positive vi permetteranno di annullare o di compensare l’effetto di quelle più negative. E anche oltre.

Una versione più immediata di questa tecnica può limitarsi all’elencazione degli aspetti positivi della situazione negativa che si sta affrontando. Il vantaggio è di spostare l’attenzione dai lati negativi dell’idea che tenderebbero a richiamare tutta la nostra attenzione e a disperdere le energie di cui avremo bisogno per una risoluzione positiva della situazione stessa. Dalla focalizzazione sugli aspetti positivi possiamo invece trarre risorse e maggior confidenza nelle nostre

la check list CCCDQP: chi, cosa, come, dove, quando, perché?. Per esempio: “In che cosa consiste il beneficio dell’idea che tu proponi? Come superare gli ostacoli? Dove trovare le risorse?”. Domande aperte mirate ad aiutare l’interlocutore a scoprire i punti deboli dell’idea per i quali voi avreste deciso di rifiutarla. Il tono con il quale chiederete queste domande è importante: sereno, amichevole, non inquisitore, indurrà il vostro interlocutore a precisare i contorni della sua idea. Secondo il caso, prenderà coscienza della sua imperfezione e deciderà allora egli stesso di rinunciarvi o di rilavorarla. Oppure sarete voi a scorgere che l’idea che avete rischiato di demolire con un a priori negativo era in realtà molto più interessante di quanto non immaginavate. Una terza alternativa può presentarsi: dal dialogo può nascere una nuova idea, imprevista e probabilmente più ricca grazie al fenomeno della fecondazione incrociata.

Concludere. L’ascolto attivo presuppone un approccio alla comunicazione di tipo partecipativo, orientato alla valorizzazione dello scambio interattivo tra i soggetti coinvolti. Giunti a questa fase si è fissato il punto di partenza, il quadro di riferimento all’interno del quale poter poi collocare le informazioni e/o le proposte comportamentali concordate.

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capacità adattive o risolutive. Non si tratta di negare l’esistenza degli elementi negativi o di minimizzarli, si tratta piuttosto della nostra capacità di cogliere più realisticamente l’intera cornice del contesto problematico che, salvo forse poche eccezioni, ha sempre e comunque almeno un aspetto positivo significativo. A noi la scelta di puntare su ciò che ci toglie o ciò che ci restituisce energia, nella consapevolezza che ciò su cui la nostra mente si focalizza tende ad ampliarsi.

Nel suo libro “L’Avvocato dell’Angelo”, scritto in collaborazione con Isabella dell’Aquila e da cui è tratta la descrizione dell’approccio Creaflex, Jaoui, a proposito dei benefici di questa tecnica per i manager e la cultura d’impresa, scrive:

“La pratica sistematica dell’Avvocato dell’Angelo […] ha due conseguenze positive: il recupero di contributi creativi che altrimenti sarebbero buttati via e soprattutto la distribuzione di riconoscimenti positivi a tutti i collaboratori che si sono dati la pena di offrire all’azienda il frutto

delle loro riflessioni, senza timore, né remore. Idem per quanto riguarda i due altri comportamenti costitutivi del Creaflex: non fermarsi alla prima soluzione e riuscire a trovare dei vantaggi in tutte le rogne e le varie crisi che il business porta giorno dopo giorno. Questo orientamento delle energie verso la costruzione cooperativa di soluzioni utili permette l’emergenza del modello del “management contributivo”.

Il Creaflex in sintesi:

1. “Per ogni problema ci sono almeno due soluzioni”

2. “Avvocato Dell’Angelo”3. “What’s good about it?”

Un approccio con 3 tecniche da ripetere sistematicamente per almeno 21 giorni: ecco come installare il vostro nuovo riflesso creativo.

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MATERIALI E SOSTENIBILITÀ Ru

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a cura di collettivo NUUP®, Sustainable Creativity. Illustrazioni grafiche a cura di Gloria Escobar per il collettivo NUUP®, Sustainable Creativity.

I materiali hanno bisogno di buone idee

Il materiale è ciò che ci permette di percepire un oggetto attraverso i sensi dando fisicità e forma all’idea progettuale. Possiamo capire come le idee prendono forma attraverso i materiali pensando alle dinamiche dell’informatica: l’hardware (il materiale) è reso funzionante dal software (l’idea) e solo così può diventare un prodotto fruibile e utile. Senza hardware l’idea è solamente una possibilità che potrebbe concretizzarsi, mentre senza software, l’hardware è materiale inerte. Ogni materiale ha diverse proprietà intrinseche da valutare: fisiche (meccaniche, termiche, elettriche, etc.), economiche (costi monetari e ambientali), emozionali (cromie, finiture, etc.) e molto altro. Tali caratteristiche lo definiscono anche come più o meno adatto ai diversi campi d’impiego. A questo proposito è interessante considerare il pensiero del Bauhaus il cui scopo era quello di realizzare il miglior rapporto possibile tra forma e materia, forma e funzione dell’oggetto, nonché tra forma e produzione industriale.La storia evolutiva degli esseri umani è strettamente legata, sin nelle sue origini, allo sfruttamento delle risorse naturali. A tal punto che sono state classificate le varie fasi dell’evoluzione umana con i nomi dei materiali via via utilizzati (età della pietra, età del bronzo, etc.). Fu solo a partire dalla rivoluzione industriale - e soprattutto nel

periodo successivo alla seconda guerra mondiale - che la creazione di nuovi materiali tecnologici e sintetici subì un progressivo sviluppo. Ad oggi possiamo quindi definire i materiali in due macrocategorie: quelli appartenenti alla biosfera, derivati dalla natura e appartenenti alla tecnosfera, creati cioè attraverso tecnologie studiate dall’essere umano che utilizzano i materiali della biosfera, sottoponendoli a processi di sintesi, per creare materiali della tecnosfera, pensiamo per esempio ai polimeri derivati dal petrolio. Quasi tutti i materiali della tecnosfera (a eccezione dei biopolimeri) non sono reintegrabili nei cicli naturali, in quanto non più assimilabili dalla biosfera, per questo diventa molto importante riciclarli per reintrodurli nel ciclo produttivo che li ha generati.Biosfera e tecnosfera si distinguono anche per l’energia impiegata: ogni materiale rappresenta una forma di energia accumulata, sia essa derivata dalla natura (per es. quella solare) o quella impiegata nei processi produttivi. Se prendiamo, ad esempio, una tonnellata di alluminio, essa richiederà molta più energia di quella usata per produrre la stessa quantità di legno, ciò significa che l’energia incorporata nell’alluminio è molto più alta. I materiali con bassa energia incorporata sono in genere quelli naturali, mentre i materiali prodotti dall’uomo arrivano ad avere un’energia incorporata medio-alta. L’efficienza e la sostenibilità dell’hardware dipendono da un buon software, che deve necessariamente

DEL PROGETTO

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MATERIALI E SOSTENIBILITÀ a cura di collettivo NUUP®, Sustainable Creativity. Illustrazioni grafiche a cura di Gloria Escobar per il collettivo NUUP®, Sustainable Creativity.

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essere supportato dalla conoscenza delle caratteristiche dei materiali.

La formula del materiale sostenibile

Per definire sostenibile la scelta di un materiale possiamo seguire un semplice principio: minimo impatto ambientale + massima performance = materiale sostenibile.La sostenibilità di un materiale va di pari passo alla sua capacità di adempiere perfettamente alle caratteristiche necessarie al nostro oggetto durante tutto il suo ciclo di vita, avremmo altrimenti un prodotto sostenibile ma la cui produzione si è rivelata inutile. La scelta giusta dovrà quindi ricadere su un materiale che, a parità di prestazione, risulti essere il più sostenibile.I materiali possono essere intrinsecamente più o meno impattanti, questo dipende dagli input e output che si verificano nelle fasi di estrazione, lavorazione e smaltimento (dati che possiamo conoscere utilizzando software o banche dati per LCA); molti altri fattori concorrono a rendere un materiale più sostenibile e la tabella di fianco può aiutare a orientarsi nella complessità degli aspetti da considerare.

Come appreso nel paragrafo precedente, possiamo suddividere i materiali in appartenenti alla biosfera o alla tecnosfera e su questa prima distinzione possiamo valutarne alcuni attributi di sostenibilità. Dobbiamo innanzitutto sfatare il mito che i

materiali della biosfera siano sempre sostenibili, perché alla loro origine naturale deve essere associata la rinnovabilità: utilizzare una risorsa naturale limitata per una produzione su larga scala risulta essere, sin da subito, la soluzione meno logica e sostenibile. I materiali della tecnosfera devono poter essere riciclabili e, anche se il processo di riciclo post consumo incide in termini di dispendio energetico durante le fasi di raccolta, disassemblaggio

DEL PROGETTO

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e frantumazione, risulta comunque più sostenibile rispetto all’alternativa dell’inceneritore. Sia i materiali della biosfera che quelli della tecnosfera, una volta dismessi dovrebbero essere riassorbiti dall’ambiente che li ha generati, così facendo si avrebbero solo residui e scarti riutilizzabili, riciclabili o biodegradabili. Questo è il principio alla base della certificazione Cradle to Cradle applicabile a materiali e prodotti.L’alta riciclabilità di un materiale può renderlo più sostenibile ma non tutti i materiali hanno questo pregio: alcuni mantengono quasi del tutto le caratteristiche del materiale vergine, in relazione alla purezza dello scarto e al tipo di materiale (es. vetro o alluminio), altri invece si degradano (es. polimeri termoplastici) e necessitano di essere miscelati a una parte di materiale vergine per il riciclo. In questi casi si può anche pianificare un approccio a cascata: pensarne l’impiego per oggetti che richiedano performances digradanti. Questo metodo è stato adottato per il progetto F.A.RE, Fiat Auto Recycling, in cui la plastica impiegata in un primo Ciclo di Vita nei paraurti, viene riciclata in una seconda fase per i convogliatori d’aria e in una terza per i tappetini.Per facilitare il riciclo dei materiali, già in fase di progetto, è opportuno adoperarsi per una predisposizione al disassemblaggio, cercando di ridurre al minimo il numero degli elementi e dei materiali incompatibili. Altre strategie di ecodesign da adottare possono essere: • ridurre la quantità di materiale attraverso la forma o le nervature che servono da rinforzo (una tecnica ben utilizzata nella produzione di bottiglie in plastica) o minimizzando gli sfridi di lavorazione; • estendere la vita utile del materiale, cioè progettare per la durabilità e il riuso; • smaterializzare dove possibile. È importante non dimenticare la

comunicazione indicando - ad esempio - la filiera, le varie etichetatture che il materiale può avere, la sua vicinanza al luogo di produzione, le sue caratteristiche di smaltimento, riciclabilità, etc., perché anche di un materiale possiamo raccontare molte cose in termini di sostenibilità in modo tale d’accrescere la consapevolezza degli utenti e dare maggior pregio al nostro prodotto.

Materioteca, il suo significato e la sua importanza: un’esperienza dall’altro capo del mondo

Dopo aver constatato che i materiali si utilizzano per dare forma a qualsiasi oggetto, che attualmente esiste una innumerevole quantità di materiali e che ogni giorno l’industria ne sviluppa di nuovi per soddisfare le diverse esigenze del mercato, abbiamo appreso che solo una conoscenza approfondita dei molteplici materiali utilizzabili ci permette di effettuare la scelta più indicata. In questo abbondare di variabili e informazioni, la scelta del materiale più sostenibile può rivelarsi un compito molto difficile. Questo è il motivo per cui, a volte, i progettisti tendono a preferire materiali che conoscono già. Ma si può avere accesso a tutte queste informazioni senza perdersi? È proprio in risposta a questa problematica che nasce il concetto di materioteca.

Il termine “materioteca” è un neologismo, nato non più di 20 anni fa con la realizzazione della prima materioteca, costituita da una raccolta di diversi materiali esistenti, in cui vennero mostrate le informazione relative al materiale (es. proprietà fisiche, chimiche, sensoriali e meccaniche, lavorazioni e trasformazioni, impatto ambientale del Ciclo di Vita), un campione fisico, i contatti dell’azienda produttrice o commerciale e -

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alcune volte - delle fotografie delle diverse applicazioni possibili.Attualmente esistono diverse materioteche, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Di seguito l’elenco delle principali:

MATREC EcoMaterials Library, Italia: è la prima “EcoMaterials Library” dedicata ai soli materiali ambientalmente sostenibili e al loro impiego nel mondo della produzione industriale, dell’architettura e del design. Creata nel 2002 dall’arch. Marco Capellini, ad oggi conta più di 1.500 materiali sostenibili provenienti da tutto il mondo. MATREC collabora con aziende, Centri di Ricerca e Università a livello internazionale con progetti ed eventi sul tema dei materiali ambientalmente sostenibili. Diversi progetti sono stati svolti in Brasile; Argentina; Cile; Messico; Portogallo e USA. L’accesso alle informazioni prevede diverse tariffe. (www.matrec.it)

Material Connexion, Stati Uniti: è stata la prima, fondata da George M. Beylerian a New York ed è attualmente localizzata in Stati Uniti, Thailandia, Germania, Korea, Turchia, Italia, Svezia e Giappone. Conta una raccolta di più di 7.000 tra materiali e tecnologie. Diverse sono le tariffe per poter accedere alle informazioni presenti. Materia, Olanda: accesso gratuito, al momento sono disponibili più di 2.000 materiali.

Design in Site, Danimarca: oltre alla descrizione dei materiali vengono illustrati anche i prodotti e processi di lavorazione. La ricerca è focalizzata sui materiali non convenzionali quali polimeri, biopolimeri, ceramiche, materiali compositi e “smart materials”. L’accesso è completamente gratuito.

Materialbiblioteket, Svezia: conta più di 2.000 campioni di materiali, si può accedere gratuitamente ma le informazioni sono prevalentemente disponibili fisicamente presso la sede.

Materfad, Spagna: questa materioteca, oltre che far vedere i materiali del Paese, dà consigli su temi quali la produzione di prodotti eco-compatibili, l’utilizzo di materiali attivi o l’applicazione delle nanotecnologie. È presente anche in Aguascalientes, Messico; Valparaiso, Cile; Medellin, Colombia. Con accesso libero l’informazione è limitata, mentre sono previste tariffe per la consultazione di ulteriori dati.

Materio, Francia: offre una libreria fisica che raggruppa migliaia di nuovi e innovativi campioni di materiali, un database online e un team di esperti presenti in tutto il mondo. Si può accedere gratuitamente per le informazioni limitate, per ulteriori approfondimenti sono disponibili diverse tariffe.

Caso studio: realizzazione di una materioteca a cura di Jared Jiménez

Pur avendo conseguito una laurea di Design in Messico e aver lavorato per più di 5 anni su diversi progetti di design, il bagaglio di informazioni sui materiali è sempre stato ridotto, così come quello sull’impatto ambientale causato dalla loro estrazione, trasformazione e fine vita. Nella quotidianità progettuale non ho mai avuto modo di interrogarmi sull’origine dei materiali, sull’indice di rinnovabilità delle risorse impiegate, sull’impatto sociale, sull’acqua e l’energia impiegate per la sua estrazione e lavorazione, etc. È stato tramite un tirocinio formativo, finalizzato alla ricerca di materiali naturali,

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svolto presso l’azienda MATREC, che ho compreso l’importanza della conoscenza dei materiali nel mondo del Design ed è proprio in quella circostanza che ho iniziato a pormi una domanda fondamentale: è possibile che solamente per una carenza di corrette informazioni, al momento della progettazione, si corra il rischio di effettuare scelte non ecocompatibili per il nostro pianeta? Da tutto ciò è nato un crescente interesse sui materiali esistenti e sul loro utilizzo, finalizzato a dare forma ai progetti e successivi approfondimenti mi hanno portato a conoscenza che ben “l’80% dell’impatto ambientale dei prodotti, dei servizi e delle infrastrutture che ci circonda viene determinato in fase di progettazione¹”.

Una volta rientrata in Messico, ho cominciato a tenere lezioni di Ecodesign all’Università ITESO (“Instituto Tecnológico y de Estudios Superiores de Occidente”) nella città di Guadalajara. Qui mi è stato chiesto di sviluppare un progetto per iniziare a implementare l’ecodesign attraverso il redesign e il design di nuovi prodotti più sostenibili, oltre che cercare di avviare un collegamento tra l’Università, il Governo e le aziende di Guadalajara. Dopo aver analizzato la situazione del mio Paese - e soprattutto della mia regione in materia di sostenibilità - ho riscontrato una notevole carenza di normative, certificazioni, incentivi e soprattutto informazioni sui materiali. È per tali motivi che ho deciso di proporre, come primo progetto, lo sviluppo della prima materioteca del Messico, focalizzando la ricerca soltanto sulle risorse naturali e sui materiali della regione di Jalisco. La delimitazione si è resa necessaria a causa della notevole superficie territoriale del Messico (pari a quasi 7 volte quella dell’Italia) come anche dalla molteplicità di flora presente nel nostro Paese. Solo per fare un

esempio, l’esistenza di specie vegetali è pari al 10% di quelle presenti sull’intero pianeta; sarebbe stato quindi molto difficile, per non dire impossibile, iniziare un progetto di tale portata volendo coprire tutto il territorio nazionale.Così insieme al Professore Luis Flores abbiamo avviato, nella primavera del 2013, lo sviluppo della Materioteca ITESO, presentando un convegno, in collaborazione con l’Architetto Marco Capellini - direttore di MATREC - finalizzato al trasferimento di informazioni e alla formazione necessaria per l’avvio di una nuova materioteca.In questo momento è stata definita la struttura e si sono stabilite le categorie, necessarie per l’organizzazione e per la ricerca da parte dei possibili fruitori secondo l’origine del materiale, rispettando la distinzione dei campioni in: animali, vegetali, legno e derivati, ceramiche, metalli e non metalli, polimeri, composti e sostenibili. La realizzazione di una materioteca in un Paese dove ancora è carente la visione sostenibile della progettazione è sicuramente

¹ Statistica citata in Design Council, Annual Review 2002 (London: Design Council, 2002).

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una grande sfida e rappresenta il primo passo per l’utilizzo delle risorse presenti in loco secondo un approccio responsabile.

Certificare la sostenibilità

I marchi ecologici, o etichette ambientali, possono essere applicati anche ai materiali e svolgono un duplice ruolo fondamentale nel mercato e nell’ottica della sostenibilità: da un lato orientano la domanda verso beni a ridotto impatto ambientale, dall’altro conferiscono un riconoscimento a quelle aziende che indirizzano la produzione verso scelte più “virtuose”, offrendo così garanzia sulle qualità ambientali dei propri prodotti e acquisendo vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti. I sistemi di etichettatura possono essere suddivisi in obbligatori o volontari. Le etichettature obbligatorie, diffuse nell’Unione Europea, si applicano principalmente in diversi settori e vincolano produttori, utilizzatori, distributori e altre parti in causa ad attenersi alle prescrizioni legislative, pensiamo alle sostanze tossiche e pericolose, agli imballaggi e ai prodotti alimentari. Nel caso delle etichettature volontarie, la richiesta di un marchio è del tutto intenzionale, per cui i fabbricanti, gli importatori o i distributori, possono decidere autonomamente se aderire al sistema di etichettatura una volta verificata la rispondenza ai criteri stabiliti dal sistema specifico. Queste vengono distinte in base alle definizioni individuate dalle norme internazionali della serie ISO14020 e si possono classificare in tre tipologie:- Etichette di Tipo I - ISO 14020- Etichette di Tipo II - ISO 14021: Autodichiarazioni ambientali- Etichette di Tipo III - ISO 14025: Dichiarazioni Ambientali di prodotto

Le etichette ambientali di TIPO I sono assegnate da organismi di parte terza, pubblici o privati, indipendenti dal produttore, si basano su criteri sviluppati tenendo conto di tutte le fasi del Ciclo di Vita del prodotto e fissano dei valori soglia come limiti prestazionali da rispettare, la cui conformità viene certificata dall’organismo preposto. Rientrano in questa categoria l’Ecolabel europeo, i marchi nazionali più diffusi quali Blauer Engel (Germania), White Swan (Danimarca, Svezia, Finlandia e Islanda), Green Seal (Stati Uniti), NF Environment (Francia), Milieukeur (Paesi Bassi), Umweltzeichen (Austria), i marchi che identificano prodotti derivanti da agricoltura biologica, il Forest Stewardship Council (FSC) che attesta la rintracciabilità dei prodotti da foreste gestite in maniera sostenibile.L’etichetta ecologica di TIPO II è autodichiarata dal produttore e, con riferimento al Ciclo di Vita dei materiali, si riferisce a un singolo aspetto con un unico criterio di giudizio (es. riuso, riciclaggio), tuttavia sarebbe necessario effettuare l’esame completo del Ciclo di Vita per verificare e attestare che un impatto ambientale non sia stato ridotto a discapito di un altro. Queste etichette sono del tipo B2C “Business to Consumer” ma possono anche essere B2B “Business to Business”, identificano prodotti che si basano su un’autodichiarazione del produttore non convalidata né certificata e includono tutte le dichiarazioni, etichette, simboli di valenza ambientale presenti sulle confezioni dei prodotti, sugli imballaggi o nelle pubblicità, queste ultime utilizzate dagli stessi produttori come strumento di informazione ambientale.La Dichiarazione Ambientale di Prodotto (DAP o EPD Environment Product Declaration) - etichetta di TIPO III - è un

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documento che permette di comunicare informazioni oggettive, confrontabili e credibili relative alla prestazione ambientale di prodotti e servizi. Tali dati hanno carattere esclusivamente informativo e la dichiarazione non contiene criteri di valutazione, preferibilità o livelli minimi che la prestazione ambientale debba rispettare. L’EPD deve essere sviluppata utilizzando la Valutazione del Ciclo di Vita (LCA) come metodologia per l’identificazione e la quantificazione degli impatti ambientali. La stessa viene verificata e convalidata da un organismo accreditato indipendente che garantisce la credibilità e la veridicità delle informazioni contenute nello studio LCA e nella dichiarazione.

Come realizzare una piccola materioteca

Dal punto di vista del progettista e dell’azienda, la scelta del materiale da utilizzare per qualsiasi progetto è fondamentale per molteplici ragioni e avrà delle conseguenze sulla durabilità del prodotto, sulla sua estetica, sulla soddisfazione che il consumatore avrà utilizzandolo oltre che su tutti i fattori economici e ambientali legati all’intero Ciclo di Vita del prodotto in questione. La globalizzazione e l’apertura dei mercati favoriscono lo scambio e la diffusione delle

materie prime e dei materiali semilavorati tra i vari paesi del mondo, incentivando spesso l’uso di taluni materiali rispetto ad altri secondo motivazioni tra le più disparate: i costi in primis, le tecnologie per la trasformazione e la lavorazione, la reperibilità e gli standard del mercato. Diviene quindi di primaria importanza la conoscenza dei materiali esistenti e la disponibilità di un archivio che semplifichi questo processo di selezione. La materioteca rappresenta quindi uno strumento ideale perché permette di unire le informazioni oggettive dei singoli materiali con un campione del materiale stesso, stimolando la percezione tattile e visiva del progettista e aiutandolo a scegliere il materiale più indicato al prodotto.

È consigliabile quindi che ogni designer realizzi una sua piccola raccolta di materiali sulla base delle catalogazioni utilizzate dalle materioteche strutturate. È possibile archiviare i materiali secondo diversi criteri. Un esempio di classificazione può essere il seguente, come suggerito dalla nascente Materioteca del Politecnico di Torino:• descrizione dell’azienda;• breve descrizione del materiale;• sostanze contenute nel materiale;• caratteristiche meccaniche;• reazione ad alte/basse temperature,

sostanze acide/basiche, umidità;• tecnologia di formatura;• trattamenti superficiali;• formati di presentazione;• accoppiamenti, colori/pattern;• costi;• caratteristiche organolettiche;• biocompatibilità;• eco compatibilità;• possibili utilizzi;• attuali utilizzi.

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È interessante conoscere l’esperienza proveniente dall’Università brasiliana UNISINOS Design School di Porto Alegre, dove l’intento è stato quello di costruire un sistema intelligente per l’organizzazione dei materiali attraverso l’associazione di concetti. Ogni materiale viene catalogato con un nome, un insieme di caratteristiche tecniche e una serie di informazioni legate alle problematiche progettuali che è in grado di risolvere. La ricerca del materiale può così essere effettuata sia in maniera tradizionale - secondo le caratteristiche dello stesso - che secondo la problematica che stiamo cercando di affrontare.

Quando al progettista è concessa la possibilità di conoscere e confrontare le proprietà di un materiale e averlo disponibile (intendiamo anche mediante l’olfatto, la vista e l’udito), lui per primo viene stimolato nell’interpretare le caratteristiche dello stesso e nell’immaginarsi possibili associazioni

indispensabili nello sviluppo del concept. Queste associazioni sono in grado di rompere i paradigmi legati all’utilizzo di materiali “standard” e incentivare l’innovazione in ambito produttivo, sia esso industriale o artigianale.

Bibliografia:- II Encuentro Latinoamericano de Diseño “Diseño en Palermo”. Comunicaciones Académicas. Julio y Agosto 2007, Buenos Aires, ArgentinaAño II, Vol. 3, Julio 2007, Buenos Aires, Argentina. | 255 páginas(scaricabile qui http://fido.palermo.edu/servicios_dyc/publicacionesdc/archivos/11_libro.pdf).- European Academy Of Design Conference - 1April 2009, The Robert Gordon University, Aberdeen, ScotlandMATERIALS DATABASE ORGANIZATION FOR THE DESIGN PROCESSCelso Carnos SCALETSKYAndré Canal MARQUES

Sitografiahttp://www.scienzaefilosofia.it/res/site70201/res611953_03-SANTULLI.pdf (pag.5)http://www.diim.unict.it/users/fgiudice/pdfs/SM_1.2.pdfhttp:/ /www.architet tura.unina2. i t /docent i /areaprivata/43/documenti/La%20scelta%20dei%20materiali.pdfhttp://ead09.rgu.ac.uk/Papers/027.pdfhttp://areeweb.polito.it/ricerca/MATto.it

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IntroduzioneProseguiamo l’analisi relativa agli strumenti predisposti a livello internazionale per quantificare e comunicare i propri impatti sull’ambiente.Già abbiamo accennato alla metodologia del Life Cycle Assessment (LCA), in italiano Analisi del Ciclo Vita; lo scopo principale della metodologia LCA è dunque quello di valutare gli impatti sull’ambiente e il consumo di energia e materia di un prodotto/servizio, considerando tutte le fasi della vita del prodotto/servizio stesso.Parallelamente allo sviluppo delle metodologie del Life Cycle Assessment, negli ultimi anni si sono affacciate sul mercato numerose etichette ambientali, relativamente alla fornitura di prodotti e servizi. La presenza di una specifica etichetta ambientale su un prodotto può essere garanzia per il consumatore di prestazioni maggiormente elevate in termini di rispetto dell’ambiente, ma ciò dipende dalla tipologia di etichetta.Nel presente articolo si vuole quindi proseguire la descrizione del processo di LCA e fornire indicazioni sulle varie tipologie di etichette ambientali di prodotto presenti in europa.

LA POLITICA INTEGRATA DI PRODOTTO DELLA COMUNITÀ EUROPEA (IPP)

La Politica Integrata di Prodotto è il punto di partenza, in Europa, per lo sviluppo degli studi di LCA e delle etichette ambientali; essa è parte integrante della strategia

comunitaria per incentivare una gestione sostenibile dei prodotti e per coordinare le varie attività in materia ambientale.La Politica Integrata di Prodotto è originata da alcuni assunti fondamentali che possono essere riepilogati con l’intento prioritario nello stimolare le singole parti interessate nel ciclo di vita del prodotto (vedi figura 1) verso l’integrazione della variabile ambientale nel loro quotidiano lavoro. Ciò garantisce che il miglioramento delle prestazioni dei prodotti vada di pari passo con il miglioramento ambientale degli stessi, favorendo e incentivando la competitività a lungo termine sulla base della crescente richiesta di prodotti e servizi eco-compatibili da parte dei consumatori.Gli strumenti messi a disposizione per perseguire la “propria” Politica Integrata di Prodotto sono molti e possono essere riassunti nelle categorie elencate di seguito. Questi strumenti, che sono basati su un’ottica di intero ciclo di vita di un prodotto/servizio, possono essere volontari, informativi, economici e normativi, in funzione del tipo di obiettivo perseguito.• Incoraggiare, tramite il ricorso a misure

fiscali, la realizzazione o l’acquisto di prodotti e di metodi di produzione più ecologici.

• Tenere conto degli aspetti ambientali nell’aggiudicazione dei contratti pubblici e favorire le strategie di acquisti verdi da parte delle Pubbliche Amministrazioni (Green Public Procurement).

a cura di Massimo Granchi e Riccardo Bozzo

ETICHETTE AMBIENTALI DI PRODOTTOLIFE CYCLE ASSESSMENT E

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• Incentivare l’adozione di Sistemi di Gestione Ambientale (ISO 14001, EMAS) che permettono non solo di migliorare le performance ambientali dei processi interni all’azienda, ma quantomeno di verificare e indirizzare anche quelli delle altre aziende che concorrono alla vita del prodotto.

• Fornire ai consumatori le informazioni necessarie per una scelta consapevole dei prodotti: sul loro acquisto, sul loro utilizzo e sul loro smaltimento.

• Integrare e promuovere l’applicazione degli strumenti volontari come le etichette ambientali di prodotto di Tipo I, II e III (Ecolabel, Dichiarazioni Ambientali di Prodotto, etc.). Questo punto è fortemente collegato al precedente.

• La formazione dei prezzi, considerando anche le cosiddette esternalità, ovvero stabilendo il prezzo di un prodotto anche sulla base degli impatti creati dallo stesso sull’ambiente, prendendo in considerazione così i costi indiretti sulla società che il prodotto crea in termini di “danno monetizzato”.

Per garantire l’attendibilità e la veridicità dei risultati ottenuti tramite uno studio LCA bisogna impiegare metodologie scientificamente basate e riconosciute a livello internazionale; solo in questo modo si assicura anche la ripercorribilità di tutto lo studio e un elevato grado di confrontabilità tra i risultati ottenuti e altri studi di LCA svolti.La metodologia riconosciuta è quella descritta nelle norme della serie ISO 14040.

ETICHETTE AMBIENTALI DI PRODOTTOLIFE CYCLE ASSESSMENT E

Figura 1

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Alla pari di un Sistema di Gestione la norma non fornisce indicazioni pratiche e non descrive in dettaglio la tecnica di valutazione del ciclo vita, ma definisce i principi e i punti cardine che devono essere presenti in un studio di LCA per renderlo appunto scientificamente basato e ripercorribile.In primo luogo la norma definisce le singole fasi dell’LCA:

• definizione dell’obiettivo e del campo di applicazione;

• fase di inventario (LCI);• fase di valutazione degli impatti (LCIA);• fase di interpretazione.

LE FASI DI UNO STUDIO DI LCA

La definizione dell’obiettivo e del campo di applicazione dello studio di Ciclo Vita dipende fortemente dallo scopo e dal tipo di LCA che si vuole svolgere. In questa prima fase infatti vengono definiti, tra gli elementi principali, i confini del sistema che si vuole considerare.I confini del sistema stabiliscono quali processi e procedimenti produttivi vengono inclusi nello studio LCA e quindi quali flussi di materie ed energie - e quali tipi di emissioni verso l’ambiente - devono essere quantificati nella successiva fase di inventario.Molteplici sono i tipi di studi LCA che si possono svolgere, con differenti scopi e obiettivi, per i quali è possibile considerare confini del sistema (vedi figura 2) e unità funzionali diverse:

• scientifico: lo scopo può essere il confronto tra due differenti tipologie di prodotto che svolgono la medesima funzione oppure il confronto tra diversi processi produttivi che portano al

medesimo risultato; in questo tipo di studio alcune fasi possono essere trascurate, come la fase di uso e smaltimento finale;

• interno all’azienda: lo scopo principale è in questo caso quello di sviluppare e migliorare il prodotto (Eco-design) oltre a metodi di produzione, andando a intervenire sul miglioramento delle performance ambientali e sui consumi di risorse ed energia, traendo così anche benefici economici; in questo caso i confini del sistema sono i confini dell’azienda (studio LCA “gate to gate”);

• certificazione ambientale: per ottenere determinati tipi di certificazione ambientale basati su dichiarazioni ambientali di prodotto, come ad esempio l’EPD, è necessario svolgere uno studio LCA che consideri tutte le fasi di vita del prodotto/servizio (studio LCA “cradle to grave”).

La fase di inventario è la parte maggiormente impegnativa e complicata poiché consiste nel recuperare i dati e le informazioni sia qualitative che quantitative che permettono di conteggiare tutti i vari flussi entranti e uscenti dal sistema.Prima di effettuare la raccolta dati è necessario suddividere le fasi di vita comprese nei confini del sistema in singole unità di processo, ovvero individuare le singole attività e processi base che concorrono alle varie fasi di vita di un prodotto/servizio. Ad esempio, le singole unità di processo che costituiscono una linea di montaggio automatica sono i singoli macchinari che compongono la linea stessa.Tramite la raccolta dati bisogna quindi quantificare, per ogni unità di processo, i flussi in ingresso e in uscita di energia, materie prime e altre risorse fisiche, prodotti, co-prodotti, scarti e rifiuti, emissioni in aria, scarichi in acqua e suolo oltre ad altri aspetti ambientali, il tutto in riferimento all’unità funzionale prescelta.

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La fase d’interpretazione associa i dati dell’inventario con specifiche categorie d’impatti ambientali e specifici indicatori che hanno lo scopo di comprendere meglio la portata degli impatti stessi tramite l’utilizzo di modelli di caratterizzazione. Il livello di dettaglio, la scelta degli impatti valutati e le metodologie da usare, dipendono dall’obiettivo e dal campo di applicazione dello studio. Lo scopo è quindi quello di accorpare le varie tipologie di materie ed energie entranti o uscenti dal sistema e trasformare queste quantità in indicatori ambientali come, ad esempio, la CO2 equivalente. Questo procedimento viene svolto con software specifici.

La fase di interpretazione segue tutto il percorso dello studio LCA; il percorso stesso è infatti iterativo, ovvero a ogni passaggio è necessario verificare la coerenza delle attività svolte. In questa fase ricorsiva è quindi necessario verificare quali sono gli aspetti maggiormente significativi, ovvero dati d’inventario e categorie d’impatto e verificare come questi aspetti e come le ipotesi fatte influiscano sui risultati

finali tramite test statistici di sensitività, completezza e coerenza.

I VARI TIPI DI ETICHETTE AMBIENTALI

Vi sono tre tipologie di Etichette Ambientali utilizzabili nella Comunità Europea; tutte e tre le tipologie sono di carattere volontario.Le Etichette di Tipo I vengono assegnate a quei prodotti che rispettano determinati criteri ambientali, definiti per ogni differente categoria di prodotto, il cui rispetto è verificato e garantito da un ente terzo notificato, che si occupa di assegnare l’etichetta stessa.

I criteri che permettono di ottenere le etichette di Tipo I sono “a soglia”, ovvero fissano un riferimento quantitativo - numerico - o qualitativo che deve essere rispettato dal prodotto/servizio per poter ottenere l’etichetta. I criteri sono inoltre basati su un’idea di ciclo vita, incentivando quindi i produttori a migliorare le performance ambientali del proprio prodotto/servizio nell’arco di tutte le fasi di vita dello stesso.

Figura 2

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Esistono differenti tipologie di etichette ambientali di Tipo I. Alcune hanno valore nazionale, altre hanno valore in tutti i paesi della comunità europea, come l’Ecolabel che è il marchio europeo di certificazione ambientale per i prodotti e i servizi, nato nel 1992. L’Ecolabel è molto conosciuto in Europa e soprattutto in Italia, nazione che a livello europeo vanta il maggior numero di prodotti/servizi che hanno richiesto e ottenuto il marchio europeo, risultato dovuto alla mancanza di un’etichetta ambientale nazionale, presente invece in molti altri paesi europei.

L’Ecolabel può essere richiesto per differenti tipologie di prodotto, tranne che per i prodotti alimentari, le bevande e i prodotti farmaceutici. Al momento i criteri elaborati e approvati dalla Commissione Europea riguardano le categorie elencate in Figura 3

Le etichette ambientali di Tipo II consistono in informazioni di prestazione ambientale auto-dichiarate dal fabbricante per attribuire un valore aggiunto al proprio prodotto e da ciò trarne un beneficio economico. In pratica questo tipo di etichette consistono in simboli e frasi specifiche che possono essere applicate sul prodotto o sull’imballaggio dello stesso.

La norma che regolamenta a livello internazionale la definizione e l’applicazione delle etichette di Tipo II contiene un elenco appunto di asserzioni ambientali, stabilendo per ognuna di esse il significato e la metodologia necessaria per garantire la veridicità dell’asserzione dichiarata. Vediamo - ad esempio - che cosa specifica la Norma per l’asserzione ambientale “Riciclabile” che è una delle maggiormente conosciute, alla quale è possibile assegnare il simbolo indicato in

Figura 3

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Figura 4 (ciclo di Mobius): “caratteristica di un prodotto, imballaggio o componente associato che può essere sottratto dal flusso di rifiuti attraverso processi e programmi disponibili e che può essere raccolto, trattato e restituito all’utilizzo nella forma di materie prime o risorse”.

Le etichette di Tipo III sono etichette ecologiche con dichiarazione ambientale di prodotto sottoposte a un controllo indipendente. Come le etichette di Tipo I, sarà un ente terzo notificato ad attribuire il marchio ambientale.

Le differenze principali con le etichette di Tipo I sono due, entrambe riguardanti i criteri da rispettare per ottenere l’etichettatura.La prima differenza riguarda la considerazione del ciclo vita: mentre le etichette ambientali di Tipo I si fondano su criteri “basati” su un concetto di ciclo vita del prodotto, le etichette di Tipo III richiedono invece che il fabbricante esegua realmente uno studio del ciclo vita (LCA) del proprio prodotto.

La seconda differenza risiede invece nelle modalità di rispetto dei criteri. Come già visto in precedenza, le etichette di Tipo I si basano sul rispetto di criteri “a soglia”. In questo caso invece i criteri non fissano alcuna soglia o parametro qualitativo o quantitativo da rispettare. Al contrario vengono fissati i criteri, differenti per ogni

categoria di prodotto, sulla base dei quali bisogna effettuare lo studio del ciclo vita del proprio prodotto. In questo modo i risultati dello studio del ciclo vita, ovvero gli impatti ambientali generati, risultano confrontabili con i risultati di altri studi del ciclo vita, poiché effettuati tutti con gli stessi criteri. Lo scopo è appunto quello di ottenere Dichiarazioni delle Prestazioni Ambientali di prodotto confrontabili tra loro.

Con le etichette di Tipo III si vuole quindi instaurare un processo più raffinato: mentre tutti i prodotti che ottengono l’etichettatura di Tipo I sono considerati “ambientalmente equivalenti”, per i prodotti che ottengono l’etichettatura di Tipo III è possibile realizzare una graduatoria sulla base degli impatti ambientali dichiarati. Questo tipo di approccio incentiva maggiormente le aziende verso un miglioramento continuo delle prestazioni.

Conclusioni

Molte sono quindi le opportunità fornite dalle etichette ambientali. Queste riguardano sia il livello di innovazione di nuovi prodotti da immettere sul mercato circa le prestazioni tecniche e soprattutto ambientali, sia il grado di informazione data al fruitore del prodotto/servizio, spingendo verso un modello di consumo

maggiormente consapevole e informato. Numerose sono anche le opportunità date alle aziende, che possono sfruttare commercialmente i propri comportamenti virtuosi, dimostrando come la variabile ambiente sia sempre più considerata nella progettazione e produzione di beni di consumo.

Figura 4

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DISORDINE

Disordine armonico. Leadership e jazz è basato sulla musica jazz come contesto capace di offrire lezioni sorprendenti di leadership e dinamica di gruppo. E d’altra parte come potrebbe essere diversamente? Nell’odierno incessante cambiamento si sprecano le invocazioni alla flessibilità e all’improvvisazione creativa. Evitare schemi rigidi! Superare programmi troppo analitici e paralizzanti! Eliminare ruoli eccessivamente prescrittivi e decisioni altamente procedurizzate! E il jazz risulta proprio uno dei comportamenti più virtuosi per la sua grande disponibilità all’aggiustamento continuo. È un ambiente dove si riscontra sempre un atteggiamento favorevole a mettere in discussione le proprie convinzioni ascoltando il parere altrui, la voglia di conoscere empaticamente, l’interscambio di schemi cognitivi e sensoriali, la disponibilità a combinare gli input in modo nuovo e utile. È un luogo dove ci si specchia in un mirroring foriero di novità e apprezzamenti e non invece di sentimenti individualistici e invidiosi.

L’autore del libro, Frank J. Barrett, ha il privilegio di conoscere i due ambienti, essendo sia un reputato accademico di management sia un provetto pianista di jazz.

È quindi il ponte ideale per farci scoprire,

come egli sostiene, alcune sorprendenti lezioni provenienti dalle performance musicali e applicabili in azienda. Sono tali infatti i sette principi attraverso i quali Barrett ci spiega come sostenere l’improvvisazione e l’innovazione. Tutti consigli provenienti dal mondo della musica e trasferiti secondo modalità analogiche in un’azienda, come quella attuale, che ha sì bisogno di efficienza

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a cura di Pasqualina Pirone

ARMONICO

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(l’eccellenza nell’eseguire un brano così com’è stato scritto e come è presentato in una partitura) ma sempre più di miglioramento e di creatività incrementale (l’improvvisazione, il team building, l’orientamento favorevole al cambiamento, il costruire insieme).Si tocca così nel saggio la necessità di rifuggire dal potere seduttivo della routine e di assumersi i giusti rischi per poter sfidare lo status quo. O il bisogno di ritrovare nella leadership una competenza assertiva che porti gli individui e il gruppo a rompere gli schemi e a osare e dare valore alla devianza. Ovviamente ciò deve avere come condizione di partenza una cultura sociale che non demonizzi l’errore e che consenta alle persone di commettere anche qualche sbaglio nella continua ricerca di nuove strade inesplorate. La sperimentazione infatti ha come ingrediente cruciale l’apprendimento e non si può apprendere quando gli atteggiamenti e i valori dominanti sono solo path-depending.Barrett ci invita poi, come nella musica jazz, a disegnare una struttura minima perché solo questa aiuta a non ingessarsi nelle incrostazioni e a stimolare gli individui alla massima autonomia e alla massima discrezionalità (per improvvisare bisogna avere poche regole e praticare con tenacia la massima del doing more with less). Struttura

che è sostenuta da una dinamica di gruppo dove, dietro al leader e alle individualità svettanti, si staglia un collettivo di grande sostegno che dà forza e coesione all’intera organizzazione.

IL PARADOSSO DELL’IMPROVVISAZIONE

Il modello sviluppato da Karl Weick nel suo autorevole articolo «Improvisation as a Mindset for Organizational Analysis» [«L’improvvisazione come approccio mentale all’analisi organizzativa»] sostiene che le organizzazioni sono costituite da un gruppo di specialisti diversi che, in un clima estremamente vincolante, adottano decisioni rapide e irreversibili; essi sono altamente interdipendenti e dediti a creatività e innovazione e agiscono nell’incertezza dell’esito finale.

Quali sono i modelli per sopravvivere e prosperare in questo clima?

«C’è un campo dell’improvvisazione che conosco profondamente e mi viene da pensare che sia in assoluto il migliore modello di business del ventunesimo secolo: quella grande e originale forma d’arte americana conosciuta come jazz.

Inoltre sono giunto a capire quanto il jazz possa aiutarci a essere leader e innovatori migliori. Le vecchie organizzazioni basate su modelli di comando e controllo sono ormai obsolete. Abbiamo bisogno di un modello di gruppo composto da esperti diversi che vivono in un ambiente caotico e turbolento; essi devono saper prendere decisioni rapide e irreversibili; essere fortemente interdipendenti gli uni dagli altri, per interpretare informazioni imperfette e

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incomplete; e infine devono essere innovativi e, in questo, creativi. Questo è ciò che fanno i grandi jazzisti: imparano buttandosi a capofitto e agiscono ancor prima di aver predisposto un progetto strutturato».Secondo un equivoco molto diffuso, i musicisti jazz sono geni ignoranti che suonano i loro strumenti attingendo le note dal nulla. Ma gli studi sul jazz hanno dimostrato che si tratta di un’arte molto complessa, il risultato di un’incessante ricerca finalizzata all’apprendimento e di una fantasia disciplinata. È proprio questo e non la semplice genialità, a permettere ai jazzisti di improvvisare (dal latino improvisus, che significa «imprevisto, che arriva all’improvviso»), ed è l’improvvisazione a definire in modo precipuo questa forma d’arte.

Ciò che accade ai solisti jazz, vale anche per i leader nelle organizzazioni. Quelli competenti suonano le note giuste, ma i grandi si distinguono per quanto sono avanti in termini di creatività ed elaborazione

strategica, capacità di plasmare idee, adattare e modificare in piena azione, risolvendo al contempo le tensioni organizzative. Entrambi devono anche affrontare lo stesso paradosso critico: fare eccessivo affidamento su modelli acquisiti (pensiero abituale o automatico) tende a limitare la capacità di assumere i rischi necessari a una crescita creativa, proprio come regolamentazioni e controllo eccessivi limitano l’interazione delle idee. Per riuscire nell’intento, musicisti e leader devono imparare ad abbandonare un certo grado di controllo e arrendersi al flusso.

Per decenni si è pensato che il management fosse l’arte della pianificazione, dell’organizzazione, del processo decisionale e del controllo. Ma pianificare per necessità diventa incerto quando le cose intorno si sviluppano in modo imprevedibile e instabile, quando organizzare sembra impossibile alla luce dell’innovazione open source, quando decidere non è tanto una conclusione razionale, deduttiva, bensì il prodotto di scambi relazionali continui e il controllo sembra impossibile in un mondo fatto di reti. Ciò che non possiamo fare a meno di aggiungere al nostro elenco di competenze manageriali è l’improvvisazione – l’arte della taratura, dell’adattamento flessibile, dell’apprendimento per tentativi ed errori, inventando risposte ad hoc e facendo scoperte lungo il percorso.

È convinzione diffusa e spesso associata al concetto di leadership che i leader padroneggino competenze e strumenti strategici (per esempio analisi finanziarie e di mercato) come i comuni mortali imparano a suonare destreggiandosi con scale, arpeggi e altri esercizi.

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Le business school fanno leva su questo modello e a volte trattano l’apprendimento come se la conoscenza fosse un oggetto trasferibile da un cervello all’altro – quello che Paulo Freire definisce il «concetto bancario» dell’istruzione. In quest’ottica, la conoscenza è una valuta che viene prima depositata nella testa, poi aggregata e infine suddivisa in blocchi che possono essere a loro volta trasferiti, accumulati e consumati.Tuttavia, nelle dinamiche della realtà contemporanea, disimparare in breve tempo vecchie abitudini, consuetudini e strategie può essere importante quanto apprenderle in prima battuta.

A volte è proprio nelle difficoltà e in caso di crisi che imparare diventa un processo più intenso e vivace. Quando ci si trova in un vicolo cieco, i dirigenti devono fare ciò che i musicisti jazz desiderano di più al mondo: sbarazzarsi della routine e reagire in modo estemporaneo. Di fronte a una crisi, i leader rispondono spesso con grinta viscerale, scoprendo di possedere competenze che non sapevano di avere e adottando soluzioni che non immaginavano di poter concepire.

S V I L U P PA R E C O M P E T E N Z E P O S I T I V E

Tutti sappiamo che cos’è il disordine. Le situazioni di disordine significano grossi problemi. Creano confusione, rallentano i progressi e sconvolgono i dati, aziendali e personali. Niente stupore dunque se i manager istintivamente sono molto vigili nei confronti dei pasticci, cercando di eliminarli ove possibile, in modo rapido, anche sbarazzandosi dei responsabili.

Dire largo al disordine, imparare strada

facendo, rifiutare comportamenti consolidati e prevedibili a favore della sperimentazione e del progresso. Non stiamo parlando di crescita diretta o esterna tramite acquisizioni ma di azioni, iniziative, rielaborazione critica di ipotesi, valore aggiunto dell’apprendimento a fronte di sconfitte ed errori, nuovi tentativi e scoperte da compiere durante il percorso, con una fiducia di fondo nelle competenze del gruppo.

Se ci misuriamo solo in campi in cui siamo competenti, la nostra competenza è destinata a diventare obsoleta. Sia i jazzisti sia i manager hanno costantemente bisogno di sfidare le consuetudini e sperimentare nuove strategie. Solo assumendo dei rischi possono allargare i propri orizzonti, integrare le conoscenze e rinnovare le vecchie competenze.

IL JAZZ COME NEGOZIAZIONE CONTINUA: LARGO AL GROOVE

I modelli organizzativi tradizionali e la progettazione collettiva presentano principi statici in cui ogni variazione è considerata un elemento di disturbo da controllare ed evitare. Le jazz band sono sistemi flessibili e progettati in modo autonomo per ricercare uno stato di sincronizzazione dinamica, un equilibrio tra ordine e disordine: una «instabilità integrata». Nel jazz il continuo processo di negoziazione assume un’importanza fondamentale quando qualcosa interrompe la coerenza interattiva. Considerato il rischio di perdere l’orientamento e sbagliare i calcoli, i musicisti devono contare l’uno sull’altro per poter aggiustare il tiro.

Immaginate uno stormo di uccelli auto-

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organizzato che vola qui e là. Non c’è nessun elemento di controllo, eppure ne emerge una configurazione identificabile, destinata a traslarsi in un effetto comune, come una sorta di arte naturale. Così è il jazz nella sua essenza migliore, un modello che tutte le organizzazioni dovrebbero emulare. Non sarebbe fantastico se i leader fossero in grado di creare culture aziendali che consentano alle persone di impegnarsi in attività qualificate in contesti reattivi e sensibili.

G U I D A R E I N C O R A G G I A N D O Q U E L L O C H E G I À C ’ È

I leader migliori non sono distaccati o eccessivamente analitici, anche se queste sono competenze importanti per la crescita. I leader davvero migliori sanno quando è il momento di impegnarsi con passione per risolvere problemi e situazioni e per incoraggiare la creatività e l’innovazione, sanno che il primo passo cruciale è un’azione positiva.

Perché spesso è così difficile fare largo all’ignoto? Gli psicologi sociali e gli economisti comportamentali hanno dimostrato che gli esseri umani sono profondamente avversi al concetto di perdita: la maggior parte delle persone preferisce evitare una perdita che ottenere un guadagno, soprattutto nei periodi di stress. Lo stress ci imprigiona in una visione limitata e ci porta ad adottare una mentalità da assedio. Ci mettiamo sulle difensive per evitare il più possibile di esporci al rischio ma una mentalità di questo genere, seppur comprensibile, è autolimitante. Invece di dare largo al disordine, si abbrevia il processo di scoperta, si smette di imparare e non si riescono a individuare le opportunità.

Questo è il tipo di dinamismo tipico della mentalità jazz, oltre che uno dei temi centrali di questo libro. Chi improvvisa nel jazz si concentra sul concetto di scoperta nei momenti di stress. Sa come riuscire ad affrancarsi dalle vecchie abitudini anche quando l’affidabilità della routine potrebbe sembrare il modo più rapido per alleviare l’ansia. È capace di interpretare le situazioni difficili facendo in modo che la paura non limiti le scelte e stimoli la creazione di idee positive. Pur non avendo alcuna garanzia dei risultati, si rende conto del grande vantaggio intrinseco a una mentalità che ottimizza le opportunità, comprende l’importanza di assumere rischi intelligenti e, elemento ancor più importante, impara consapevolmente dedicandosi con passione.

GLI ERRORI COME FONTE DI APPRENDIMENTO

Che cosa significa vivere in una cultura di squadra dove si possono mostrare i propri errori per discuterne pubblicamente? Il risultato è chiaro: i gruppi che hanno integrato queste prassi e i dirigenti che le promuovono accelerano l’apprendimento. L’insuccesso, dopo tutto, fa inevitabilmente

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parte del rischio e della sperimentazione. A onor del vero, è spesso la via che conduce alla scoperta, soprattutto nell’ambito di culture altamente sperimentali e innovative.Ma il valore della tolleranza verso gli errori deve estendersi anche alle dinamiche quotidiane dei sistemi complessi e perfino ai processi routinari. In entrambi i casi, la paura di segnalare gli errori può portare al fallimento e, talvolta, alla tragedia nascondendovi dietro gli errori. Usateli come un’occasione di apprendimento e di miglioramento.

IMPERFEZIONE E PERDONO

Miles Davis, il grande trombettista, band leader e compositore, aveva un aforisma prediletto sui musicisti jazz: «È sbagliato che non facciano errori». Sono parole piene di saggezza. Davis allude all’importanza di continuare a correre rischi, giocare d’azzardo e cercare nuove possibilità, perché quando lo si fa è probabile che accada qualcosa di nuovo: una scoperta, in questo caso musicale, è lì ad aspettarci proprio dietro l’angolo.L’improvvisazione nel jazz presuppone che vi siano delle potenzialità positive in attesa di essere scoperte in qualsiasi espressione, accordo o nota.Anziché determinare il grado di successo o insuccesso delle creazioni individuali in base a uno standard esterno di perfezione, come

per le performance di musica classica, Gioia sostiene che nel jazz è necessario valutare il coraggio degli sforzi. Un’estetica di questo genere comporta dunque la valutazione di tutto il repertorio sperimentato dal musicista, dalle frasi musicali d’effetto a quelle scadenti che derivano dall’aver rischiato, quegli stessi sforzi espansivi che indubbiamente producono bellissimi passaggi.

L’«estetica dell’imperfezione» è possibile anche all’interno delle organizzazioni?

Direi che non solo è possibile, ma necessaria. Troppo spesso i manager innalzano monumenti ai disastri organizzativi ricercandone le cause in modo capillare e considerando gli errori inaccettabili. Invece di incoraggiare sperimentazioni audaci oltre i limiti, finiscono per bloccare proprio le risorse sulle quali contano per fare progredire l’impresa. Immaginate, invece, che un’azienda adotti un criterio di valutazione delle prestazioni che non si basi unicamente sugli standard tradizionali di successo, ma che tenga anche conto dell’intensità dello sforzo, del livello di impegno propositivo dedicato all’attività, della perseveranza dimostrata dopo aver commesso un errore e dei tentativi appassionati di allargare l’orizzonte di ciò che si considera possibile.

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Questo criterio permetterebbe quanto meno di operare delle distinzioni tra errori causati da negligenza o mancanza di interesse, errori riconducibili a modelli sistemici (come nella metodologia Sei Sigma) e quelli causati da una profonda dedizione a un progetto, che potremmo definire «nobili insuccessi».

Invece di limitarsi a premiare i manager per «risolvere» i problemi, le organizzazioni potrebbero applicare una propria «estetica dell’imperfezione», considerando non solo il risultato finale, ma anche il modo in cui i dirigenti perseverano e sfruttano gli errori come un punto di partenza creativo, esattamente come quando i jazzisti si inoltrano in direzioni imprevedibili dopo aver suonato qualche nota sbagliata. In virtù di questa estetica, gli errori dovrebbero essere presentati non come difetti caratteriali, bensì come inevitabili contrattempi da reintegrare in modo creativo nelle procedure negoziali.

Secondo la filosofa Hannah Arendt, l’unico antidoto al disagio dell’imprevedibilità è il perdono. Provate a immaginare degli executive che sviluppino una duplice estetica dell’imperfezione e del perdono; una realtà in cui sia lecito adottare iniziative ad hoc e un processo di apprendimento basato su scoperte inattese e al tempo stesso assolvere chi si mette in gioco attraverso nobili sforzi, anche in assenza dei risultati desiderati.

TRARRE PROFITTO DAGLI ERRORI

Ma che cos’hanno di particolare questi «errori» per portare a nuove scoperte?Forse la risposta è che gli errori violano le aspettative. Sostanzialmente turbano la routine e il comportamento irriflessivo.

Risvegliano la nostra attenzione invitandoci a cogliere elementi che in precedenza erano solo in secondo piano. Ci costringono in quel momento a guardare nuovamente, a incuriosirci, a interrogarci sul tipo di approccio che abbiamo adottato. A sbarazzarci dei modelli e a prestare attenzione in modo nuovo.

Un errore può stimolarci a indagare su risultati che ci appaiono strani e portarci alla scoperta. Dopo aver commesso un errore diventa impossibile crogiolarsi nelle proprie supposizioni e comode convinzioni. Si è costretti a confrontarsi con i pregiudizi, a esplorare possibili alternative. Coloro che improvvisano nel jazz e i grandi scienziati e gli innovatori conoscono bene il valore che deriva dal fare ipotesi, sperimentare (a volte anche ripetutamente), procedere per aggiustamenti incrementali, con uno spirito aperto alla curiosità e al senso di meraviglia.

Ricercatori come Amy Edmondson della Harvard Business School hanno suggerito che è anche fondamentale costruire culture organizzative che permettano di imparare dagli errori. Edmondson e altri sostengono che, a fronte degli inevitabili errori che si verificano nei sistemi complessi, lo sviluppo di capacità organizzative che consentano di apprendere da tali errori è una strategia fondamentale.

PROVARE E IMPARARE CON TRANQUILLITÀ

Per Edmondson, ciò che ostacola maggiormente l’apprendimento esplorativo è la pressione a fingere che gli errori non esistano. Per parlare dei propri errori è necessario sentirsi al sicuro.

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Occorre avere la sensazione che la squadra consenta ai propri componenti di assumere rischi interpersonali. I membri del team si rispettano l’un l’altro e si tengono reciprocamente in considerazione? Nutrono la certezza di non essere rimproverati, emarginati o penalizzati se faranno sentire la propria voce, o sfideranno prassi comuni o opinioni predominanti? Se ci si sente psicologicamente sicuri, si è più inclini a confrontarsi e discutere apertamente degli errori.

“Tanto quanto è importante considerare gli errori come opportunità di apprendimento, altrettanto è fondamentale costruire una cultura in cui le persone si sentano a proprio agio quando ammettono e analizzano i propri errori, ma perché ciò avvenga è necessario eliminare le differenze gerarchiche.”

Approfondite ricerche evidenziano che il maggiore ostacolo alla formazione di quella sicurezza psicologica che permette alle persone di imparare dai propri errori è la gerarchia. Se chi riveste una posizione superiore ha un atteggiamento distante o intimidatorio, è più probabile che i suoi sottoposti tendano a salvare “la faccia nascondendo o ignorando gli errori commessi.

AVVENTURARSI TRA INSIDIE ED EMOZIONI

Non sarebbe bello se i sistemi complessi fossero semplici e privi di errori? Se gli esseri umani fallibili fossero infallibilmente perfetti? Se il mondo del lavoro e quello del business in generale non dovessero mai fare i conti con le conseguenze di disastri causati da violente eruzioni e mari in tempesta? Non proprio. Il fatto è che spesso le persone apprendono meglio quando intraprendono percorsi caratterizzati da un’alternanza di insidie ed emozioni e sono profondamente coinvolte nelle attività del momento. Le ricerche hanno evidenziato che quando in un’organizzazione si lavora a pieno ritmo e con impegno si è più portati a contribuire al suo successo. Per William Kahn l’impegno è «il legame del sé al proprio ruolo lavorativo; attraverso l’impegno le persone utilizzano ed esprimono se stesse a livello fisico, cognitivo ed emotivo mentre svolgono il loro ruolo».Troppe regole e un controllo eccessivo limitano l’emergere di nuove idee. Per fare del buon jazz, i musicisti devono rinunciare all’impegno cosciente, un traguardo che ottengono affrontando deliberatamente sfide sconosciute, sviluppando rapporti di apprendimento provocatorio e creando uno stato di progressiva anarchia che richiede sperimentazione e rischio.

“Quattro sassofonisti che suonano insieme non potrebbero mai comprendere gli uni gli errori degli altri come, poniamo, un unico sassofonista che suona con un batterista, un pianista e un trombettista è in grado di perdonare l’imperfezione trasformandola in un processo evolutivo. Sia che si tratti di jazz o di business, questa è innovazione, nella sua forma migliore e ai massimi livelli.”

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LA TECNICA DEI 5 PERCHÉ PER SCOPRIRE LE CAUSE DI UN SERVIZIO SCADENTELa nostra giornata è costellata di “momenti della verità” in cui usufruiamo di un servizio: dal momento in cui accendiamo la luce al mattino, al momento in cui saltiamo su un treno o su un autobus per andare al lavoro, oppure chiamiamo un call center per chiedere una informazione. Tuttavia non sempre questa è un’esperienza positiva. In molti casi ci troviamo “vittime” di un servizio scadente e questo crea una grande frustrazione.

Il mondo dei servizi è pervasivo e gioca un impatto fondamentale sulla qualità della nostra vita; pensiamo solo alla scuola o al mondo della sanità. Dal punto di vista occupazionale il settore dei servizi può fornire grandi opportunità di crescita e generare personale qualificato, pensiamo al settore del turismo. Migliorare la qualità del servizio - generando un’economia di servizi evoluta - è un aspetto importante per la crescita economica e sociale del nostro Paese. Esiste tuttavia un gap culturale importante che deve essere colmato. Diventa importante passare da un approccio “artigianale” all’organizzazione delle realtà di servizi a uno che potremmo definire industriale. Questo non significa rendere freddo e impersonale il processo di erogazione del servizio, quanto piuttosto saper combinare la cura e l’attenzione con processi snelli e ben organizzati. Solo attraverso un’organizzazione “robusta” - che parta dalle reali esigenze del cliente

- è possibile garantire con continuità di servizi di qualità elevata e in progressivo miglioramento.

Obiettivo di questa rubrica è fornire spunti metodologici, stimolare riflessioni costruttive e concrete per soddisfare sempre meglio i propri clienti attraverso qualità e innovazione. C’è grande bisogno di questo in Italia. Prima occorre colmare il gap culturale per poi passare all’analisi delle cause profonde che generano servizi di scarsa qualità. Per fare questo utilizzeremo una tecnica semplice ma potente, la Tecnica dei 5 Perché, molto utilizzata da aziende che perseguono elevati livelli di eccellenza attraverso l’applicazione del metodo Toyota.

UNA DEFINIZIONE SEMPLICE DI QUALITA’

Partiamo da una definizione di qualità semplice e ormai nota, sulla quale non ci soffermeremo, rimandando quest’approfondimento a un momento successivo. La qualità è la “piena soddisfazione del cliente”. Questa definizione, che anni fa cambiò profondamente la percezione del management circa l’importanza strategica della qualità, fa assumere al termine una dimensione calda, riportando al centro il cliente. La qualità diviene anche un termine onnicomprensivo che racchiude molteplici dimensioni, non ultima quella di efficienza e rapidità.

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a cura di Mariacristina Galgano

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LA TECNICA DEI 5 PERCHÉ PER SCOPRIRE LE CAUSE DI UN SERVIZIO SCADENTE

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SIGNIFICATO DI QUALITA’

QUALITA’ E’ SODDISFAZIONE DEL CLIENTELa soddisfazione di chi è giudice senza appello di quanto i prodotti/servizi raggiungono le aspettative.

QUALITA’ E’ PREVENZIONEDare soluzioni ai problemi prima che si verifichino e progettare l’eccellenza nel prodotto/servizio.

QUALITA’ E’ ATTENZIONE PER I CLIENTI INTERNI CHE SONO A VALLELe relazioni all’interno dell’azienda sono viste come un insieme di rapporti cliente-fornitore e ciascuna persona o ente deve ricercare la massima soddisfazione.

QUALITA’ E’ PRODUTTIVITA’Fornire al personale gli strumenti e le istruzioni di cui ha bisogno per svolgere il proprio lavoro.

QUALITA’ E’ FLESSIBILITA’La disponibilità a cambiare per fare fronte alle richieste.

QUALITA’ E’ EFFICIENZAFare le cose rapidamente e in modo corretto.

QUALITA’ E’ PROCESSOPer un continuo miglioramento che non deve avere mai fine.

QUALITA’ E’ INVESTIMENTOChe dà grandi ritorni in quanto, nel lungo periodo, fare le cose giuste la prima volta è meno costoso che correggerle successivamente.

QUALITA’ E’ IMMAGINE VERSO L’ESTERNOCurando la qualità in tutti i suoi aspetti, l’azienda potenzia la propria immagine e guadagna il suo più importante capitale: la fiducia dei suoi clienti.Tutti questi significati di qualità prendono consistenza soltanto se alla base vi è la “QUALITA’ DELLE RISORSE UMANE”.

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IL GAP CULTURALE DA COLMARE

Il primo passo per creare realtà di servizi eccellenti è creare una cultura manageriale consapevole sia del gap ancora da colmare sia dei principi organizzativi e manageriali di un’organizzazione eccellente. E’ dunque necessario superare alcuni modelli mentali un po’ obsoleti.Di seguito alcuni modelli mentali o stereotipi dal quale è necessario liberarsi.

IL DIRIGENTE PIU’ PERICOLOSO PER LA QUALITA’

Qual è il dirigente più pericoloso per la qualità? Ecco alcune delle frasi più pericolose: “Noi siamo diversi”, “Nel nostro settore non è possibile”, “Abbiamo già raggiunto elevati livelli di qualità”, “Abbiamo già fatto numerosi progetti sulla qualità nel….”, “In questo momento abbiamo cose più importanti”.

Nei luoghi comuni/miti da sfatare esiste un pizzico di verità. Tuttavia essi hanno l’effetto dannoso di non far cogliere le enormi opportunità derivanti da un approccio intelligente e rigoroso alla gestione del

servizio.

Nei prossimi numeri ci soffermeremo su aspetti specifici della qualità del servizio. In questa prima rubrica vorremmo utilizzare l’approccio potente dei “5 perché” che consente di andare alla reale causa di un fenomeno. Lo vorremmo utilizzare per dare un overview generale del perché oggi in Italia sia ancora molto facile imbattersi in servizi di qualità non eccellente. Partiamo!

1.Perché si genera la scarsa qualità?Perché spesso il management è convinto che la qualità del servizio dipenda prevalentemente dal front-line, cioè da chi interagisce con il cliente. In questo modo la qualità del servizio viene “scaricata” verso il basso. Niente di più sbagliato. “Il 90% dei difetti di qualità nasce nelle stanze del Consiglio di Amministrazione” sosteneva Deming. A sostegno di questa tesi bisogna ricordare il peso determinante che la fase di progettazione può avere nel determinare la qualità del servizio. In un servizio mal progettato, il front-line si trova spesso imbrigliato in situazioni che non gli consentono di soddisfare le esigenze del cliente, se non con grandissimo sforzo

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Alcuni “miti da sfatare”:

• la qualità del servizio è un fatto soggettivo, misurare oggettivamente è dunque quasi impossibile;• migliorare la qualità del servizio ha un costo oltre il quale non è conveniente andare;• nel mondo dei servizi non è possibile, dunque non ha senso neanche puntare a “zero difetti”;• nell’erogazionediunserviziovisononumerosielementiimprevedibili,nongestibili;• la qualità del servizio è migliorabile solo attraverso importanti investimenti tecnologici;• la qualità del servizio è responsabilità prevalentemente dal personale di front-line.

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e spesso contravvenendo alle procedure aziendali. Un paradosso!Molte sono le situazioni in cui tutti noi da clienti, ad esempio quando si interagisce con enti pubblici, ci rendiamo conto che alcune procedure sono state pensate senza minimamente tenere conto delle nostre esigenze né di quelle del personale che lo eroga. Ecco che si generano procedure farraginose o talmente avveniristiche che non tengono conto delle reali condizioni operative di chi eroga e di chi ne dovrà usufruire.

Primo punto: la scarsa qualità non dipende dal front-line ma, il più delle volte, da un servizio progettato male.

2. Perché il servizio viene progettato male?Perché i dirigenti non conoscono o non comprendono le reali esigenze del cliente. Una causa determinante di un servizio progettato male è data dalla scarsa conoscenza del cliente da parte del management. Il management pensa di conoscere le esigenze del cliente, mentre in realtà queste sono molto diverse. Da una percezione non corretta delle reali esigenze del cliente o di quelle che

per lui sono prioritarie, nascono decisioni di progettazione errate. Quali sono le conseguenze? Una progettazione errata porta a investimenti in aspetti del servizio che il cliente non considera importanti – così chiamata “qualità superflua” - e non focalizzati sugli aspetti, invece, importanti.

Secondo punto: spesso le azioni di miglioramento o di ridisegno del servizio non producono reali risultati, generano bensì qualità superflua o caratteristiche del servizio ininfluenti sulla soddisfazione del

cliente finale.

3. Perché si crea qualità superflua o si progettano caratteristiche del servizio che non generano soddisfazione del cliente ?

Spesso si pone un’eccessiva fiducia nella tecnologia come chiave unica per migliorare la qualità del servizio.

E’ vero che la tecnologia la può migliorare di molto. Tuttavia per scegliere le giuste soluzioni tecnologiche è fondamentale sapersi mettere nei panni del cliente e di chi dovrà erogare il servizio. La focalizzazione

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sulla ricerca di soluzioni tecnologiche in grado di migliorare la qualità, non deve sottrarre energie all’ascolto, da farsi con umiltà e senza idee precostituite, delle reali esigenze del cliente.

La grande attenzione posta all’aspetto tecnologico non è di per sé negativo, se non per il fatto che limita le reali capacità di ascolto da parte del management. E’ fondamentale, infatti, partire da ciò che il cliente “vuole” e non da “ciò che la tecnologia ci può dare”.

Questa inversione di prospettiva avviene quando ci si addentra nelle meraviglie che le nuove tecnologie possono fornire, ma la prospettiva del cliente non deve mai essere dimenticata o sottovalutata.

Terzo punto: la tecnologia è un mezzo potente per migliorare la qualità del servizio, ma il suo utilizzo deve sempre partire da una profonda conoscenza delle esigenze del cliente e nella consapevolezza che “la Qualità è fatta di dettagli”, come diceva Michelangelo.

4. Perché i dirigenti non conoscono o non comprendono le reali esigenze del cliente?Questo rappresenta un punto chiave. Quasi tutte le realtà di servizi hanno ormai strumenti di analisi di customer satisfaction e altri canali di ascolto del cliente. Tuttavia questo non è sufficiente a colmare il gap con le sue reali esigenze. Come mai?

Due sono i fattori chiave per comprendere a fondo le reali esigenze del cliente:• andare spesso a Gemba. “Gemba”

nel sistema Toyota, è il luogo - fisico o virtuale - in cui si genera il valore

e avviene l’interazione fra cliente e azienda. Andare a Gemba significa stare spesso nel punto vendita, nella filiale. Significa dedicare tempo ad ascoltare le telefonate del cliente, leggere di prima mano i reclami che arrivano, mettersi in coda a una cassa per aspettare il proprio turno. Non vi è report di customer satisfaction o di indagini sul cliente che possano dare la stessa ricchezza di informazioni. Svolgere in modo sistematico e rigoroso tale attività consente di scoprire cose grandiose, semplici soluzioni per ovviare a problemi che il cliente vive quotidianamente. Spesso le soluzioni necessarie a risolvere il problema del cliente sono molto semplici.

• ascoltare non solo la voce del cliente finale, utilizzando i numerosissimi canali d’ascolto oggi disponibili, ma dotarsi di strumenti per ascoltare in modo sistematico anche la voce del personale di front-line.

Quarto punto: per progettare servizi di elevata qualità è necessario avere l’umiltà di andare spesso a Gemba e ascoltare la voce del personale di front-line interno.

5. Perché le aziende di servizi non pongono la necessaria attenzione all’ascolto del personale interno?

Perché spesso non hanno compreso il ruolo chiave delle risorse umane, per raggiungere livelli sempre più elevati di eccellenza: “le risorse umane non hanno limiti, quando cominciano a pensare”.Una scarsa comprensione e valorizzazione del ruolo delle risorse umane - per generare elevata qualità - è spesso uno dei punti

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chiave alla radice di una scarsa qualità del servizio. Dal personale interno possono arrivare informazioni chiave riguardo a cambiamenti nelle esigenze del cliente - i cosiddetti segnali deboli - che precedono grandi cambiamenti di contesto. E’ solo il personale interno, a partire da quello operativo, che può trovare centinaia di opportunità di miglioramento, per evolvere continuamente e rendere la customer

experience un’esperienza indimenticabile.

Quinto punto: il lungo viaggio verso elevati livelli di qualità del servizio comincia proprio con il mettere al centro le persone, non la tecnologia.

Ed è proprio da questo aspetto che partiremo nelle prossime rubriche.

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L’APPROCCIO DEI “5 PERCHE’”

Il metodo dei “5 perché”, una tecnica fondamentale per studiare qualsiasi tipo di fenomeno o problema di qualità perché punta a individuare la “causa alla radice” di un problema affrontandolo nel modo più semplice possibile. E’ di grande utilità per risolvere problemi di qualità in qualsiasi settore di attività, ma deve essere applicata a tutti i livelli dell’organizzazione. Le azioni fondamentali per applicare questa tecnica risiedono nello studiare a fondo il fenomeno, andando a vedere di persona come esso si manifesta e domandandosi cinque volte “perché?”. Si risale, così, alla fase che sta a monte del processo.Qual è la vera lezione che si può trarre dall’utilizzo dell’approccio?Bisogna continuare a chiedersi “perché” fino a che la\e causa\e alla radice sono determinate. E’ così possibile prendere contromisure, al più profondo livello causale, per prevenire il ripresentarsi di un problema.

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gli autori di METHODO

NICOLA LIPPI

Ingegnere, consulente di direzione, dopo diversi anni trascorsi in aziende multinazionali di primaria importanza nelle aree di Ricerca e Sviluppo, collabora stabilmente con Galgano & Associati, storica società di consulenza italiana, occupandosi con passione e professionalità dei temi dello Sviluppo di Nuovi prodotti. Nell’ambito della professione ha contribuito con numerosi interventi in azienda a organizzare e migliorare la capacità di sviluppare prodotti, aumentandone i contenuti in termini di innovazione, di rapporto tra costi e prestazioni nel rigido rispetto dei tempi. Metodo, visione sistemica, spirito imprenditoriale e capacità di sintesi sono i suoi principali fattori distintivi.Esprime con ironia e leggerezza il suo libero pensiero sui temi dello sviluppo prodotto nel blog personale www.sviluppoprodotto.com

ALBERTO VIOLA

È partner della Galgano & Associati Consulting srl, società di consulenza italiana che nel 2012 ha consolidato la sua leadership con 50 anni di attività: da quasi 15 opera nel campo della Consulenza di Direzione. Direttore della Divisione Industria, ha maturato in questi ultimi 15 anni numerose esperienze in Italia e all’estero in aziende industriali di diversi settori e dimensioni. Esperto di “lean organization” e di miglioramento continuo (kaizen) ha utilizzato in queste aziende le tecniche, gli strumenti e gli approcci specifici del Lean Production System. Relatore di numerosi seminari aziendali e interaziendali sulla “lean organization” nel 2005 e 2006 è stato docente del MIP Politecnico di Milano su queste tematiche. Nel 2012 ha pubblicato il libro “A Gemba! Guida operativa per la produzione snella”.

CORRADO RAVAIOLI

36 anni da Forlì. Giornalista professionista, lavora per un’emittente televisiva privata e collabora con testate locali e magazine on line. Si occupa di politica, economia, costume e società. Saltuariamente sviluppa contenuti per il web o redazionali industriali. E’ appassionato di cinema, musica, letteratura e nuovi media.

GIUSEPPE ALITO

Dopo la laurea in Disegno Industriale e un Master in Design Management, nel 1998 entra in Baleri Italia, azienda di prodotti di arredamento alta gamma, come Direttore tecnico del centro ricerche e dello sviluppo prodotti. Un anno dopo è in Ferrari come “design techniter” dove si occupa dello sviluppo delle postazioni di rilevamento telemetrico (muretto) utilizzate poi per i campionati del mondo F1 dal 2002 al 2004. Nel 2001 entra in Grand Soleil, azienda di prodotti di arredamento per esterni e di giocattoli mass market come engineering manager e con la responsabilità dello sviluppo prodotti per diventarne, due anni dopo, Responsabile R&S. All’attività professionale affianca la docenza di Design Management ai Master di Car Design e Industrial Design della Scuola Politecnica di Design SPD di Milano. Nel 2005 entra in Gio’Style Lifestyle come Responsabile Ricerca & Sviluppo.

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ALBERTO FISCHETTI

Laureato in Ingegneria, nel corso di una carriera di oltre trent’anni in grandi industrie multinazionali dei settori della metalmeccanica, ingegneria, cosmesi e farmaceutica, ha maturato significative esperienze manageriali fino a far parte dell’alta direzione aziendale. Fra le varie responsabilità ricoperte è stato Project Manager in importanti progetti a livello di affiliata italiana e di gruppo europeo. Dal 2005 collabora nei settori della formazione, consulenza e coaching professionale con la Change Project. E’ autore di libri su project management, creatività e problem solving, coaching e gestione delle risorse umane.

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SILVESTRO DI PIETRO

Silvestro Di Pietro ha iniziato a lavorare, appena ventenne, per alcune realta’ regionali quali la TreEmmePi spa di Rimini e la Cedaf informatica di Forli’ scrivendo piccoli programmi, integrando i primi sistemi CAD ma soprattutto facendo reverse engineering e disassemblando codice macchina.Trasferitosi a Milano unisce lo studio in Economia e Commercio al lavoro, operando come analista finanziario dal 1987 al 1995. In questo periodo dirige un mensile di finanza - borsaTime - scrive un innovativo CTS (computerized trading system) in grado di operare autonomamente sul mercato dei derivati e realizza una rubrica di finanza televisiva. Nel 1997 diventa responsabile IT del dipartimento di Ricerca dello IEO di Milano, dove coniuga il lavoro informatico - che spazia dallo sviluppo di algoritmi per l’analisi DNA alla integrazione del sistema gestionale passando dal realizzare programmi per la gestione degli strumenti scientifici - alla sua innata curiosità scientifica.Attualmente coordina il team di sviluppo software all’IFOM (istituto Firc per l’Onocologia Molecolare).www.tntvillage.scambioetico.org (http://www.tntvillage.scambioetico.org/) e’ stato il suo contributo alla libera diffusione di opere e idee. Oggi tra i primi 8000 siti al mondo. Attivamente coinvolto con Pro-test Italia (http://www.pro-test.it/), associazione attiva contro la disinformazione sulla sperimentazione animale.

METHODO

DANIELA DONATI

Life & Corporate Coach, Trainer & Consultant, esperta nei Processi di innovazione attraverso l’applicazione delle tecniche di Creatività ai processi di miglioramento e allo sviluppo di nuovi prodotti e servizi; opera dal 1998 nell’ambito della consulenza aziendale per grandi e piccole-medie imprese, pubbliche e private. Tra le sue esperienze più significative, ha effettuato progetti di innovazione in Aprilia, Arena, Barilla, Fiat, Granarolo, Moto Guzzi, Natuzzi, Telecom Italia.

→continua

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PASQUALINA PIRONE

Laureata in economia aziendale, analista crediti presso una nota banca ma soprattutto appassionata di economia in particolare della gestione di impresa sotto il profilo finanziario e sotto il profilo umano con forte interesse per le moderne teorie e le “rivoluzionarie “ visioni in ottica motivazionale della più strategica delle risorse aziendali, le Persone.

COLLETTIVO NUUP

NUUP®, Sustainable Creativity è un collettivo di designer e professionisti creativi che ha lo scopo di divulgare e promuovere comportamenti e oggetti sostenibili, basando il metodo progettuale sull’Analisi del Ciclo di Vita.Fanno parte del Collettivo Nuup: Barbara Pollini, Luca Pastore, Francesca Maccagnan, Federico Freddi, Serena Vinciguerra, Camilo Martinez, Gloria Escobar e Jared Jiménez.www.nuup.it

MASSIMO GRANCHI

Massimo Granchi ha conseguito la laurea in Ingegneria presso il Politecnico di Milano nel 1993 e nel 2003 il titolo di Master in Business Administration presso la SDA Bocconi di Milano (Chartered Master in Direzione Aziendale ex lege 4/2013).Dopo una brillante esperienza presso una multinazionale nel settore metalmeccanico nell’anno 2000 ha fondato la società mtm consulting s.r.l. che offre servizi di consulenza organizzati su quattro linee di prodotto che coprono tutti gli aspetti di sicurezza e ambiente: dai servizi per la marcatura CE agli studi del ciclo di vita (LCA).Nell’anno 2013 ha ideata, creato e avviato GreenNess, divisione di mtm consulting s.r.l., che propone servizi per lo sviluppo sostenibile non più solamente al settore industriale/metalmeccanico, ma anche al settore del commercio attraverso lo sviluppo di una piattaforma proprietaria che, utilizzando le tecnologie di ultima generazione, consente a ogni tipologia di impresa commerciale di offrire ai propri clienti non più solo prodotti, servizi o sconti, ma una vera e propria esperienza di acquisto sostenibile come leva di fidelizzazione.

gli autori di METHODO

MARIACRISTINA GALGANO

Mariacristina Galgano è amministratore delegato e responsabile della Business Unit Servizi del Gruppo Galgano - una delle più affermate realtà italiane di consulenza di direzione al servizio dell’economia nazionale, con forte orientamento ai risultati - nonché della Scuola di Formazione.Profonda conoscitrice del Toyota Production System, ha sviluppato numerosi progetti Lean Six Sigma presso aziende di servizi italiane finalizzati a migliorare qualità ed efficienza. È anche autrice di numerosi libri. La sua ultima pubblicazione è “Il Movimento della Qualità in Italia. Racconti di aziende pioniere” e ha recentemente curato la traduzione italiana del libro “A3 Thinking, il segreto dell’approccio manageriale Toyota” di Durward K. Sobek II e Art Smalley, entrambi i volumi editi da Guerini e Associati.

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