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Mozambico flash di viaggio

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Mozambico flash di viaggio (F. Pecori, Cartman 2006)

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COLLANA

MEDIA&MEDINA

Non dicere ille secrita abboce

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Fabrizio Pecori

MozambicoFlash di viaggio

Illustrazioni diEnrico Guerrini

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Copyright © 2006 Cartman Edizioni, TorinoCopyright © 2006 per le foto Fabrizio Pecori

Copyright © 2006 per le illustrazioni Enrico GuerriniTutti i diritti riservati.

E’ vietata la riproduzione anche parziale non autorizzata effettuata con qualsiasi mezzo.

Cartman EdizioniStr. Cartman, 150 – 10132 Torino

Tel./Fax [email protected]

www.cartmanedizioni.it

ISBN-10: 88-89671-03-3ISBN-13: 978-88-89671-03-0

Questo e-book è abbinato al Calendario 2007IL MOZAMBICO PER LA TESTA

(www.cartmanedizioni.it/calendario.htm)

I diritti d’autore e parte del ricavato dalla vendita di ciascuna copia di questo calendario saranno devoluti da Cartman Edizioni all’associa-zione umanitaria internazionale Medici Senza Frontiere. Cartman Edizioni partecipa al progetto Impatto Zero® di LifeGate. Le emissio-ni di anidride carbonica prodotte per la realizzazione di questo calen-dario sono state compensate con la riforestazione e tutela di un’area boschiva in crescita in Costa Rica.

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Le mie modelle

La foto è spesso un’occasione di reciproca conoscenza. Avvicinarsi ai soggetti, stringere loro la mano e chiedere loro l’autorizzazione a

ritrarli è un modo per ritrovarsi a parlare, per evocare quel genius loci che è la vera meta di ogni viaggio.

La controindicazione più frequente non è quella di ricevere un secco rifiuto, ma il fatto che - non abituate a farsi ritrarre - le persone

assumono quasi invariabilmente pose rigide ed innaturali, rendendo di fatto impossibile la realizzazione di foto efficaci.

A Ilha de Moçambique, l’ho già detto, si respirava un’atmosfera carica di una serenità quasi innaturale - tanto nella città di pietra

che nel villaggio makuti.

Ripercorrendo gli scatti di quei giorni, mi pare di ravvisarne un riflesso anche nella inusuale disinvoltura dei soggetti ritratti.

Vi riscontro l’evidente plasticità di talune pose, dalle quali filtra tuttavia un trovarsi a proprio agio davanti all’obiettivo, che sembra

non violare la schiettezza espressiva.

Mi affidare l’introduzione di questo e-book ad alcune delle mie modelle: non c’è una ragione precisa, salvo la gratitudine ed il

buonumore per un dolce ricordo.

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Musiro

Hanno un fascino arcano, con segni e suggestioni che si perdono nella notte dei tempi e non scevro da un pizzico di civetteria,

le donne che soprattutto nelle zone costiere del Mozambico settentrionale e della Tanzania meridionale tracciano arabeschi e

disegni sul proprio volto con il musiro.

L’impasto biancastro, ottenuto sfregando i rami dello ximbuti (olax distiflora) con l’aggiunta di acqua, viene utilizzato con la duplice

funzione di crema facciale e maschera di bellezza. Le donne che ne fanno uso solo solite pensare che sia anche un ottimo repellente per gli insetti e, talvolta, ne consigliano l’impiego anche nella cura della febbre, del mal di gola ed altri mali minori. Sovente in questi casi il

musiro viene mescolato con altre sostanze suggerite dalla “medicina tradizionale” e tende ad assumere un colore giallastro.

E’ divertente trovarne in vendita nei mercati improvvisati i rami di forma e dimensioni che spesso ricordano i formati tipici delle

confezioni giganti delle nostre creme di bellezza.

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La manioca

In Mozambico si chiama xima, in Tanzania invece ugali: è una specie di purè di manioca servito di solito come pietanza base ed accompagnato da salse di legumi e altro companatico.

Più denso del nostro purè, sazia quasi immediatamente e non sempre si riesce a finire la portata.

A mio avviso il vero gusto sta nel ricordare, assaporandolo, il processo di produzione i cui

ritmi e le cui immagini, puoi trovare ovunque negli atri

prospicienti le capanne: le donne (e talvolta i bambini), da sole o in compagnia, pestano con

grandi pali la manioca nei mortai fino a ridurla ad una farina che,

allungata con acqua, viene posta a cuocere a fuoco lento sulla brace e rimestata per ore. Il

ritmo della frantumazione è dato da canzoni o filastrocche sovente cadenzate anche dall’inflessione

della voce e dal battito delle mani; così non è raro vederle

battere alcuni colpi, proiettare il bastone in aria quel tanto

che basta per percuotere una volta le mani e riprenderlo per

continuare il lavoro.

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La manioca e la leggenda

La manioca è una pianta arbustiva originaria dell’America Meridionale che viene coltivata praticamente in tutti i paesi tropicali.

I popoli originari dell’Amazzonia la consumano sia sotto forma di farina che sotto forma di bevanda alcolica fermentata cui danno il nome di chicha.

Non mi risulta che in altre parti del mondo si produca qualcosa di simile alla chicha, ma certo la farina della manioca rappresenta un’ottima base alimentare per tutti, come ben dimostra anche il bambino abbastanza in carne che ciondola dal kanga della madre in questa foto scattata in Mozambico.

E’ però all’America Latina che appartiene la leggenda più delicata relativa alla nascita di questo alimento; così la riporta Nivea Oliveira nel bel libro Il colore della brace: «C’era una volta la moglie di un capo indigeno che dette alla luce una bambina che chiamo Manì. L’arrivo della bambina fu motivo di grande contrarietà per l’autoritario capo della tribù, che era già convinto di preparare il figlio, naturalmente maschio, per sostituirlo nella posizione di Cacicco. Manì camminò e parlò precocemente riuscendo a conquistare l’amicizia e l’affetto di tutta la tribù. Un’unica persona non fu conquistata dall’incantevole creatura: il suo papà. Egli, deluso di aver avuto una figlia, maltrattava ed umiliava la bambina. Stanca di tanto soffrire, la piccola chiese alla madre di essere seppellita, nella propria oca, garantendo che non avrebbe sentito dolore e così avrebbe avuto la possibilità di offrire un regalo e alimentare la tribù. La madre fece la volontà della figlia. Molto tempo dopo, nello stesso posto, crebbe una pianta strana. Scavando la terra con molta attenzione, come faceva sempre, la madre di Manì verificò che, stranamente, le radici erano molto forti e grosse. Alcuni passeri che volavano vicino decisero di beccare le radici e si ubriacarono. Ricordando le parole di Manì, la madre raccolse con molta attenzione, le radici per offrirle ai membri della tribù. Si rese conto che queste erano coperte da una buccia molto aspra. Aspra come il modo con cui il Cacicco trattava la bambina. Tirando via la buccia, scorse un materiale bianchissimo con la pelle e la purezza di Manì. Quando gli indios la assaggiarono, si sentirono subito più forti e impararono immediatamente ad assaporare la manioca e ad utilizzarla. La fama della pianta passò di bocca in bocca raggiungendo le tribù vicine. Col trascorrere del tempo il nome si trasformò e nacque la Manioca».

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Addio e grazie per tutto il pesce

Mi si passi la citazione di uno dei titoli della irrefrenabile quadrilogia fantascientifica di Douglas Adams, ma ad Ibo in certi momenti si respira la stessa atmosfera surreale.

Sul far della sera, ad esempio, il piccolo molo si riempie di pescatori e si improvvisa un mercato ed un centro di pulizia del pesce.

Grandi e piccini si danno da fare per scegliere, preparare e contrattare: chi inserisce il frutto delle proprie cernite all’interno di recipienti, chi lo tesse per le branchie lungo un filo d’erba a formare una sorta di monile.

In questo clima festoso e gioviale. una bimba con estrema naturalezza tenta di adagiare la sua piccola pentola ricolma sulla testa - proprio come vede continuamente fare alle donne - e senza una parola se ne va, barcollando in un susseguirsi di posture che lasciano presagire la sorte del fardello.

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I dhow

Le splendide vele triangolari spiegate al vento di queste aggraziate imbarcazioni diffuse in Africa Orientale, in India e nella Penisola

Arabica, fanno sognare viaggi dal sapore quasi mitologico.

E’ splendido vederle aggirarsi tra le mangrovie con l’alta marea ed il vento in poppa al mattino presto o nel tardo pomeriggio

mentre si accingono alla pesca; lo è meno trovarsi in mezzo ad un mare rigurgitante delle risacche provocate dai fondali troppo

bassi, aspettando un filo di vento che possa porre conclusione ad una disagevole navigazione dell’arcipelago sotto un sole cocente ed implacabile; ed ancor meno se il mare comincia a farsi mosso

ed il dhow continua imperterrito ad imbarcare acqua dato il pressappochismo imperante delle rifiniture.

Ma l’esperienza in generale è magica, soprattutto quando riesci a partire: l’Africa, lo sappiamo è il regno dell’hakuna matata (nessun

problema); così può capitarti di fissare un appuntamento per lasciare l’isola di Ibo alle 6 del mattino, per approfittare finché

possibile dell’alta marea e del buon vento, e scoprire che forse hai cercato di tirare un po’ troppo sul prezzo ed i pescatori – “senza

problema” alcuno (e soprattutto senza avvertire) – hanno preferito dedicarsi ad attività giudicate più redditizie.

Certo, sono cose cha capiterebbero meno se si decidesse di avvalersi delle imbarcazioni un po’ più grosse offerte dagli hotel per

turisti (avvertono le guide), ma il fascino ne verrebbe certamente meno e, soprattutto, ad Ibo non esistono hotel (almeno non nel

senso tradizionale del termine)!

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Le mangrovie

Una specie vegetale assai diffusa in tutti i paesi tropicali, ma di cui mi trovo in difficoltà a definire un luogo d’origine storicamente certo, sono le mangrovie.

E’ stupefacente vederle, soprattutto nel ritmo strabiliante delle maree dell’Oceano Indiano, alternare momenti in cui paiono grandi alberi (quali realmente sono) ad altri in cui l’alta marea li rende molto più simili ad arbusti di una improbabile macchia mediterranea acquatica.

Privilegiano i punti in cui l’acqua dolce si mescola con quella di mare, ma riescono a riprodursi più o meno ovunque. L’intrico di radici, sia terrene che aeree, ne assicurano l’ancoraggio definitivo al suolo.

I numerosi stomi che emergono dal fango (ben visibili durante la bassa marea, ed altrettanto percepibili camminando in prossimità degli alberi anche quando sono completamente sommersi) ne regolano l’ossigenazione.

I semi germogliano direttamente sull’albero, poi si staccano. Quando un seme germinato cade in mare si muove spinto dalla corrente, galleggiando in posizione orizzontale, fino a quando arrivato ad un estuario ed incontrando acqua meno salata si porta in posizione verticale a causa di una sopraggiunta difficoltà di galleggiamento. Immancabilmente cadrà fino ad ancorarsi al substrato fangoso e...

Le foglie che cadono e gli stomi rappresentano un ambiente fertile per numerosi ospiti marini che ne traggono nutrimento ed altri vantaggi, dai pesci ai granchi. La bassa marea favorisce gli incontri (e qualche scontro) :-)

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In un acquerello

Nella città di pietra di Ilha de Moçambique i colori pastello degli edifici - non restaurati dalla partenza dei portoghesi - e l’azzurro intenso del mare, soprattutto con l’alta marea che inghiotte le mangrovie lasciandone emergere solo le verdi cime, si impadroniscono dell’anima.

Le sue tinte appaiono corroboranti dopo l’assuefazione alle tonalità castane dei villaggi con capanne di fango e tetti di fascine delimitati da strade e sentieri di polvere giallo rossiccia.

Con 3 km di larghezza e 500 metri di larghezza, la piccola isola nell’Oceano Indiano è così vicina alla costa che da tempo vi si può giungere attraverso un ponte.

La magia non chiassosa dei colori che vanno sbiadendo, l’atmosfera rarefatta di una cittadina d’altri tempi, la cui anima non si è fermata con il termine dei fiorenti commerci della tratta degli schiavi, la rendono un posto unico che parla direttamente al cuore.

Patrimonio dell’Umanità UNESCO dal 1991, la piccola isola è divisa in due parti ben distinte tra loro: la città di pietra - ex fiorente

stazione commerciale e navale che si vide preferire dagli stessi portoghesi l’attuale capitale del Mozambico (Maputo) al termine dei

vantaggi dell’ubicazione insulare per la tratta degli schiavi - e la città makuti - pittoresco e certamente più popolato insediamento

meridionale dell’isola.

Se Cristo si è fermato a Eboli, il Tempo - almeno per certi suoi aspetti - non è mai arrivato a Ilha: l’evidente stato di degrado degli

edifici segna in modo inevitabile lo scorrere cronologico, ma una passeggiata per i vicoli della città di pietra ne annulla totalmente la percezione. La gente ti scorre sotto gli occhi intenta a fare qualcosa

che altrove - ma non qui - sarebbe potuto sembrare importante e necessario, oppure abbandona le proprie attività per eleggersi

guida improvvisata - ma sapiente - per turisti dai quali si aspetta unicamente l’emozione di poter scambiare qualche parola.

E allora ci pensi. E’ inevitabile. Quegli edifici, ormai senza proprietario, aspettano solo di essere riscattati. Un gesto che potrebbe salvare un patrimonio minacciato e ricondurti in un

luogo che ricorda un po’ il destino del Maestro e di Margherita nel capolavoro visionario di Bulgakov: è come se anche per te valesse

la coscienza di non avere forse “meritato la luce”, ma di poter almeno “trovare la pace”.

Poi, come una bolla di sapone, l’attrazione piccolo borghese esplode (senza niente togliere alla fascinazione genuina del luogo) e ti

riporta all’essenza del viaggio: l’impagabile ed irrefrenabile forza del cammino e dell’esperire.

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La lentezza

Mi piace questa immagine: a Mtwara, cittadina di media grandezza del Mozambico, non so se dietro l’intuizione dell’Amministrazione

Comunale o per spontanea partogenesi le gigantesche ruote dismesse dai camion sono state adibite a vere e proprie panchine

pubbliche (le trovi un po’ ovunque).

Vi incontri chi parla con gli amici, chi divora un pasto frugale, chi (in minoranza) legge il giornale, chi semplicemente si riposa: così la

ruota, icona del movimento e della frenesia, diviene un elogio alla lentezza :-)

Le isole e la tratta

«Il ruolo delle isole – asserisce Kapuściński – diviene strategico all’epoca della tratta degli schiavi, poiché molte di loro vengono trasformate in campi di raccolta dei prigionieri in attesa delle navi che li trasporteranno in America, in Europa e in Asia.

La tratta degli schiavi: dura quattrocento anni. Inizia a metà del XV secolo e finisce?... Ufficialmente nella seconda metà del XIX secolo, ma in realtà anche più tardi: nella Nigeria del nord, per esempio, nel 1936. Questo commercio occupa un posto centrale nella storia dell’Africa. Milioni di persone (i dati variano trai i quindici e i trenta) vengono rapite e trasportate oltre Atlantico in condizioni bestiali. Si calcola che in uno di quei viaggi (che durava dai due ai tre mesi) morisse di fame, di asfissia e di sete quasi metà dei prigionieri: certe volte morivano tutti». (Ebano)

Quando ti addentri nelle piccole città fantasma delle isolette di Ibo, Ilha de Moçambique, Kiwa e Songo Mnara (queste ultime in Tanzania) è difficile capire lo spessore del problema. E’ come se l’aria rarefatta di oggi avesse portato via con sé molto dell’eco degli orrori che su queste roccaforti della cristianità, del commercio o dell’Islam si sono consumati senza tregua.

Prestando fede ad alcune delle informazioni che siamo stati in grado di recuperare, sembra che il delizioso hotel O Escondidinho (probabilmente il più lussuoso pernottamento del nostro viaggio) sia nato dalla ristrutturazione dell’antico mercato degli schiavi di Ilha de Moçambique.

Al suo interno le ampie stanze ed il cortile con piscina niente lasciano intuire del suo funesto passato.

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I chapas

«Sono macchine da dodici posti – scrive Kapusciński in Ebano (e possono anche essere semplici pickup riempiti fino all’inverosimile, aggiungo io) –, ma da queste parti ci fanno salire più di trenta passeggeri. E’ difficile descrivere il numero e le combinazioni di tutti gli strapuntini, panche e panchetti stipati all’interno. Una volta che l’autobus è stato riempito, perché una persona possa scendere o salire devono farlo tutti i passeggeri: l’ermeticità e la perfezione con cui è incastrata la gente somiglia alla precisione di un orologio svizzero e l’occupante di un posto deve tener conto del fatto che per varie ore non potrà muovere neanche un dito del piede, Le ore peggiori sono quelle dell’attesa, quando si sta seduti nell’autobus afoso e surriscaldato aspettando che il guidatore abbia fatto il pieno di passeggeri».

Non posso che sottoscrivere appieno ogni singola parola! Appena sbarcato in Mozambico, dopo uno stressante viaggio su un ferry proveniente dal Malawi mi siedo sul piccolo bus che partirà da Chipoka in direzione di Metangula ma solo dopo 2 ore, nel corso delle quali il conducente ed il suo assistente continuavano ad inventarsi strategie di marketing per superare la concorrenza e raggiungere il numero minimo di (disperati) clienti. La strada del tutto inesistente e la totale assenza di sospensioni mi induranno dopo oltre due ore - prima ancora di aver raggiunto un terzo del percorso - ad alzare un piede intorpidito: la sorpresa di non riuscire più ad appoggiarlo per terra - perché nel frattempo il piccolo spazio era stato occupato da un altro piede, da un cartoccio di pesce fresco e da un pollo vivo - è stata praticamente nulla, ma non è mancato il disappunto.

Gli odori e la memoria

«La facoltà che hanno gli odori di eccitare la memoria è nota fin dall’antichità. Ermippo di Smirne riferisce nella sua Ricerca Botanica, che il re Ferecide di Tessalonica pagò duecento talenti d’argento un frammento grande quanto un’unghia di Anycerys Arabica, sostanza

che, composta di mirra, incenso e corno di orice polverizzato, il tutto mescolato a idromele arcano, evocava, in colui che ne aspirava

l’odore, la visione di un enorme e tetro castello di marmo situato su un’alta montagna del Caucaso. A Babilonia, prima degli ittiti, abili taumaturghi curavano le piaghe e la schistosomiasi con un

composto di sostanze odorose. In Cina, un olio ricavato dai narcisi che fioriscono nottetempo, trattato con argento, polvere di ebano e radice di loto, avvolto in foglie di salice rosso e lasciato a macerare

per dieci anni in un calice di granito, conferiva, secondo la leggenda, la capacità di ricordare la propria faccia prima della nascita.»

(Robert Sheckley – Il matrimonio alchimistico di Alistair Crompton)

Ignoro se nell’Africa centrale esistano effluvi di tale efficacia, ma è certo che viaggiando sui mezzi pubblici iperaffollati e carichi di

pesce, polli vivi ed altri generi alimentari e non, respiri un coacervo di odori che difficilmente potrai dimenticare; anche perché tende

sovente ad impregnare di sé gli abiti ed il sacco coprizaino.

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Il popolo makonde, originario del Mozambico settentrionale, costituisce anche uno dei principali gruppi etnici della Tanzania. La loro migrazione è cominciata nei secoli XVIII e XIX ed è proseguita tra il 1970 ed il 1990 a causa della guerra che ha afflitto il Mozambico.

Come gran parte delle popolazioni matrilineari, assumono che figli e patrimonio siano di possesso della donna. Per questo di solito è il marito a trasferirsi, a seguito del matrimonio, nel villaggio della sposa.

Ogni villaggio è governato da un capo, che acquisisce il titolo per diritto ereditario, e da un consiglio degli anziani.

Considerati oggi come uno dei gruppi più ancorati alle tradizioni nel perimetro della zona di confine tra Mozambico e Tanzania, è proprio un piacere vederli lavorare con perizia e passione mentre intagliano le loro sculture, gran parte delle quali, ormai, destinate al mercato.

E’ curioso il fatto che le sculture che rappresentano l’albero della vita hanno assunto il nome di ujamaa facendo chiaro riferimento

al progetto di socialismo comunitario portato avanti nel XX secolo dal presidente tanzaniano Nyerere. Del resto le loro sculture, pur richiamandosi allo spirito archetipico, sono il frutto di una

fertile fusione tra cultura indigena ed influenze occidentali, dovute soprattutto all’operato dei missionari.

Si è trattato certo di una fusione molto feconda, visto che gli scultori makonde sono oggi conosciuti in tutto il mondo ed una loro opera è

addirittura esposta al Museo d’Arte Moderna di New York.

Gli scultori makonde

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Lo sradicamento

Una delle conseguenze più nefaste della tratta degli schiavi è stata lo “sradicamento” che molte popolazioni sono state costrette a subire per trovare protezione dai razziatori, di qualsiasi etnia essi fossero.

Oltre all’orrore del fatto in sé, infatti, il mercato degli schiavi causò decisivi sconvolgimenti sociali e politici, generando di fatto vere e proprie guerre, emigrazioni di massa, carestie…

In effetti le tribù che non furono in grado di costruire città e villaggi fortificati o escogitare altre forme di protezione furono spesso costrette ad allontanarsi dalla terra natia.

Se l’operazione non è mai indolore neppure per un occidentale, in Africa può assumere toni particolarmente drammatici, perché quasi sempre si deve confrontare con il culto degli antenati.

Scrive Kapuściński al proposito: «Certe popolazioni boschive espongono i morti nella boscaglia, dandoli in pasto agli animali selvatici. Altre sotterrano i corpi in luoghi isolati, in semplici, spogli cimiteri. Ce ne sono di quelle che li seppelliscono sotto il pavimento delle case dove abitano. Di solito però i morti vengono sotterrati in prossimità della casa, in cortile o in giardino, per averli vicini e sentirne la presenza rassicurante. La fede negli spiriti degli antenati, nella loro capacità di proteggere, di vigilare e di incoraggiare

si mantiene viva e rappresenta una fonte di

fiducia e conforto. Con loro vicini ci sentiamo al sicuro: ci consigliano nei momenti di incertezza e

soprattutto ci trattengono in tempo dal compiere

un passo falso o dall’imboccare una cattiva strada. Per cui ogni casa,

ogni fattoria ha due dimensioni: una visibile

e tangibile, e un’altra nascosta, segreta, sacra. Potendo, si cerca sempre di tornare con regolarità

nella propria casa natale, la dimora ancestrale che ci dà forza e riconferma

la nostra identità». (Ebano)

Limitando il mio terreno di esempio al

confine tra Mozambico settentrionale e Tanzania

meridionale, trovo esemplificativa di questo atteggiamento culturale, la concezione profonda che guida gli scultori makonde nella

realizzazione delle proprie opere.

Le sculture di questo straordinario popolo si dividono in due categorie principali: le sculture ujamaa rappresentano una sorta di

“albero della vita” con figure umane (e non di rado animali) unite le une alle altre intorno ad un comune progenitore in modo che

ciascuna generazione sia collegata alla precedente e offra sostegno alla successiva; e le sculture shetani (vere e proprie opere d’arte

contemporanea), astratte e grottesche, che evocano il mondo degli spiriti attraverso la sfida che pongono all’osservatore nel sollecitarlo

a nuove interpretazioni.

Il legame alla terra di queste tribù, peraltro matrilineari, non ha potuto che essere messo radicalmente a dura prova durante il

periodo della tratta.

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MammaStop

Il contrasto tra la pelle bruna ed i colori vivaci e decisi dei kanga è uno degli aspetti palesi della magia di questo lembo d’Africa. Ad

arricchire il fascino tenace del contrasto è la nota frequente del trasporto dei figli, anche loro avvolti nella stoffa colorata.

Da dove deriverà la deliziosa naturalezza di certe posture?

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Eraclito ed il fotofonino

Giunta quasi ad esaurimento l’ondata di penetrazione degli smart phones dotati di fotocamera digitale nei mercati occidentali, i produttori internazionali possono contare sul risveglio dei paesi in via di sviluppo.

Non recepisco con grande sorpresa il fatto che uno dei continenti più strategici quanto a possibilità di accesso sia l’Africa (fonte Affari e Finanza – 6 Novembre 2006). Ho avuto più volte modo di stupirmi di come la penetrazione dei telefonini fosse, sfidando ogni spiegazione razionale, di gran lunga più sviluppata di quella della stessa rete elettrica dalla quale gli apparecchi e le antenne sono obbligati a trarre la propria alimentazione.

La curiosa commistione con la quale si fondono continuità e tradizione assume aspetti particolari nel “continente nero” in cui la mediazione culturale tra la tradizione millenaria ed i riverberi delle istanze occidentali assumono forme inedite e talvolta perfino difficilmente percepibili.

Mi sento di riporre fondate speranze sul fatto che l’Africa riuscirà anche a far fronte alla perniciosa invasione dei fotofonini mantenendo immutato il proprio plurisecolare atteggiamento, ma non riesco a scacciare una insidiosa forma di preoccupazione perché se è vero che i tempi cambiano per tutti («non si può discendere due volte nello stesso fiume», diceva Eraclito) è altrettanto vero il prezioso aforisma che Sergio Ramazzotti (autore del documentatissimo Afrozapping) ha avuto modo di leggere pochi anni fa sul lunotto di un minibus nel Burkina Fasu: «La matita di Dio non ha la gomma».

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Se questo e-book ti è piaciuto vorremmo chiederti di pensare ad un piccolo sostegno per aiutare Medici Senza Frontiere, cui da parte nostra devolviamo parte dell’incasso derivato dalla vendita del Calendario 2007 “Il Mozambico per la testa”, parte integrante di questo progetto.

Cooperazione Italia - Mozambico 2006

Patrizia Sentinelli, Vice Ministro degli Esteri, ha siglato un ac-cordo di cooperazione tra Italia e Mozambico (denominato Paddel) per tutelare lo sviluppo economico e decentrato del paese africano con uno stanziamento di 6,9 milioni di Euro, di cui circa 5 milioni saranno erogati a favore del Governo mozambicano per la pubbli-ca amministrazione, lo sviluppo economico locale, l’agricoltura, la sanità di base e l’istruzione, mentre circa un milione di euro ver-rà gestito direttamente dall’Ambasciata Italiana a Maputo per l’integrazione e l’armonizzazione dei vari interventi italiani nel paese africano.

Un piccolo gesto di estrema importanza.

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Fabrizio Pecori

Giornalista e Direttore Responsabile di My MEDIA – Osservatorio di Cultura Digitale, fotografo e viaggiatore per passione, si interessa di new media education, media design e digital performing arts.

Per Cartman Edizioni ha pubblicato Groenlandia in slitta, per mare, per aria (2005).