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NANGA PARAT 1970

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Il dramma e le sue controversie. Il primo resoconto indipendente sul perché la tragedia dei fratelli Messner divenne uno dei casi più importanti nella storia dell'alpinismo.

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Titolo originale: Nanga Parbat. Das Drama 1970 und die Kontroverse.Pubblicato da: Tyrolia-Verlag Innsbruck-Wienwww.tyrolia-verlag.atCopyright © 2010 Verlagsanstalt Tyrolia, Innsbruck

2012 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 MilanoPer l’edizione italiana tutti i diritti riservati

Nota: per le citazioni tratte dai libri di Messner pubblicati in Italia, sono sta-ti utilizzati i brani della versione italiana.

1a edizione Novembre 2012

www.versantesud.itISBN 978-88-96634-61-5

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Jochen Hemmleb

NANGA PARBAT 1970

Il dramma e le sue controversie

Traduzione di Lucia Prosino

I R A M P I C A N T I

E D I Z I O N I V E R S A N T E S U D

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“Combattere e capire - l’uno legato indissolubilmente all’altro. Così è la legge.”George Mallory, alpinista 1886-1924*

“La cima sud è la chiave.”Gerhard Baur

“Solo un uomo sa se sta dicendo la verità oppure sta mentendo.”Reinhold Messner**

* - Mallory, G., "Mont Blanc from the Col du Géant by the Eastern Buttress of Mont Maudit", Alpine Journal, Vol. 32, Nr. 218, p. 162. ** - Messner, R., “Die Erinnerungen täuschen uns alle”, Profil, Nr. 16, 2002.

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IntroduzIone

Sullo schermo un filmato. In sala, un uomo dai capelli grigi sta presentando al pubblico, in tono decisamente autoritario, la storia della spedizione tedesca al Nanga Parbat, con i suoi 8125 metri la “montagna del destino dei Tedeschi”, situato nell’Himalaya occidentale. Ne era stato il capo spedizione. All’improvviso si vedono due piedi che si trascinano a fatica all’interno della sala. Un momento di agitazione tra il pubblico. Un ragazzo giovane entra zoppicando. Si regge sulle stampelle. L’uomo si interrompe improvvisamente. Poi la sua presentazione si trasforma in una sorta di accusa. “La veloce traversata era stata programmata fin dall’inizio? L’ambizione e l’interesse personale sono stati un danno per gli altri partecipanti? Forse uno dei fratelli era indebolito già prima di raggiungere la cima, mentre l’altro, più forte, pensava di scendere dall’altra parte...” Il giovane si rivolge al pubblico e urla, agitato: “Quello che sostiene il dr. Karl Maria Herrligkoffer è falso!”Scena tratta da Nanga Parbat di Joseph Vilsmaier, 2010

In ambito tedesco è la storia più conosciuta, discussa e dibattuta: quella di Reinhold Messner e della morte del fratello Günther nel 1970 al Nanga Parbat. Una storia con due risvolti. Il primo è costituito dagli eventi successi dal 27 giugno al 3 luglio 1970, quando i fratelli Messner, Peter Scholz e Felix Kuen raggiunsero la cima, e quando Günther Messner trovò la morte. Il secondo inizia la sera del 3 luglio 1970, quando la spedizione ritrovò Reinhold dall’altra parte della montagna. Questo ha dato inizio a tutte le controversie, alle accuse e alle attribuzioni di colpa. Molti giudici furono a lungo impegnati e molti libri vennero scritti. La traversata era stata premeditata da Reinhold Messner? Oppure era stata semplicemente l’unica via d’uscita con il fratello che soffriva di mal d’altitudine? Perché Messner non aveva detto chiaramente ai due alpinisti che stavano salendo che aveva bisogno di aiuto? Günther morì ai piedi della parete, o la sua morte era già avvenuta

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più in alto? Questioni che hanno generato accesi dibattiti, domande rimaste ancora oggi senza risposta. Una ricostruzione dei fatti dal 1970 e dei successivi quarant’anni non è semplice. I partecipanti alla spedizione erano stati obbligati, con un contratto, a consegnare i loro resoconti al capo spedizione, ma nonostante questo esistono due versioni dei fatti: una “ufficiale” e una “personale”, con notevoli divergenze tra esse. I due antagonisti furono il dr. Karl Maria Herrligkoffer e Reinhold Messner, entrambi presidenti del Deutsches Institut für Auslandsforschung (DIAF, oggi Deutsches Institut für Auslandsforschung - Fondazione Prof. Dr. Herrligkoffer), che conserva i documenti della spedizione del 1970. Nel corso degli anni, alcuni di questi documenti sono spariti e risultano quindi introvabili. Ciononostante, si è potuta ricostruire la storia grazie ai fatti salienti, trasmessi dalle parole e dalle testimonianze dell’unico testimone. Reinhold Messner è l’unico che sa cos’è successo a suo fratello durante la traversata del Nanga Parbat. Il suo primo libro, Die rote Rakete am Nanga Parbat1, aveva come sottotitolo Manoscritto per un film che non potrà mai essere girato. All’inizio degli anni settanta la sua vendita era stata proibita dalla legge. Quarant’anni più tardi, nel 2010, il libro fu ripubblicato in una nuova versione, accompagnato da un film, Nanga Parbat di Joseph Vilsmaier, prodotto in collaborazione con Reinhold Messner. Tra queste due edizioni Reihold pubblicò molti libri che parlavano o facevano riferimento agli eventi del 1970. Si notano, nel corso degli anni, sviluppi e cambiamenti nei vari resoconti, che fanno pensare a una storia nella storia. Per questo bisogna porre la massima attenzione alle dichiarazioni di Messner, ben illustrate in questo libro. Allo stesso tempo, una descrizione e valutazione dei

1 - Die rote Rakete am Nanga Parbat nella sua prima edizione del 1971, non è mai stato pubblicato in Italia. La seconda edizione del 2010 è stata pubblicata da Corbaccio col titolo Razzo rosso sul Nanga Parbat.

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fatti equa e distaccata può aver luogo solo se si prendono in considerazione anche le opinioni di altri testimoni. Gerhard Baur ha un’esperienza di quarant’anni come regista e produttore di film di montagna e partecipò alla spedizione del 1970. Fu l’ultimo a parlare con Günther prima che decidesse di raggiungere il fratello. Le esperienze e i commenti di Gerhard sono quelle di un alpinista preparato e di un osservatore attento. Per la prima volta, in questo libro, vengono ampiamente illustrate. Altri partecipanti alla spedizione hanno raccontato il loro punto di vista tramite libri, di alcuni ci sono taccuini e diari, interviste e commentari. Tutte fonti ampiamente analizzate in questo lavoro. Un autore che non fu coinvolto in quella vicenda può analizzare i fatti con un distacco obiettivo, identificare le circostanze e gli sviluppi, metterli a confronto… e porre domande.

Jochen Hemmleb, febbraio 2010

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La Parete

Una parete che ti sconvolge. Dai prati pianeggianti dell’Alpe Tap dovevo alzare molto lo sguardo per poter distinguere la parte sommitale e le creste del Nanga Parbat. 4500 metri mi distanziavano dalla cima, la parete più alta del mondo. Gerhard Baur, qualche metro più avanti, era assorto nei suoi pensieri. Conosceva quella montagna in ogni sua porzione: trentaquattro anni prima, insieme a due compagni, aveva trascorso la notte in parete, a 800 metri dalla cima. Uno di quei due compagni l’avrebbe visto per l’ultima volta il mattino seguente...

La montagna deL destIno

La nostra esplorazione della zona a sud del Nanga Parbat non si rivelò molto difficile: oltre la Valle del Rupal, la montagna si innalzava per 14000, quasi 15000 piedi. Uno sperone si susseguiva all’altro. I ghiacciai sembravano invadere i luoghi più impensati, mentre dalla cartina si poteva capire l’inclinazione media della parete. [...] Si vedeva, inoltre, che a circa due miglia di distanza c’era una differenza di altitudine di 15000 piedi [circa 4600 metri]. Nelle Alpi si può trovare una tale differenza di pendenza solo sul versante di Charmoz e Grépon della Mer de Glace2. La prima impressione della parete Rupal era stata così disingannevole nel 1895 per gli inglesi Norman Collie, Albert F. Mummery e i loro compagni, da considerare inutile ogni tentativo di salita, dedicandosi alla parete opposta del Nanga Parbat. Insieme al nepalese Ragobir Thapa, Mummery riuscì a salire la parete Diamir (ovest) fino a un’altezza di circa 6500 metri3. Fu il primo, vero tentativo di salita di un Ottomila.

2 - From the Himalaya to Skye, p. 37.3 - Dopo un confronto tra uno schema in From the Himalaya to Skye, Ill. 4 (tra p. 96 e 97) e Alpenvereinskarte Nanga Parbat, 1:50.000, ristampa 1980.

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L’elegante linea di ascensione lungo il crinale centrale, costellato di speroni di ghiaccio, costituiva una sfida per un genio alpinistico come Mummery. Per poter effettuare un ultimo tentativo, Mummery voleva salire la forcella Diama a nord della cima sulla terza parete della montagna, quella nord-ovest (detta anche parete Rakhiot) con Ragobir e Goman Singh. Da questo tentativo azzardato non fecero più ritorno. A tutt’oggi, i loro corpi non sono ancora stati ritrovati. Dopo questi fatti, tutto rimase tranquillo sul Nanga Parbat per circa quarant’anni. Il pioniere della scalata su ghiaccio Willo Welzenbach programmò un nuovo tentativo sulla parete Diamir all’inizio degli anni trenta; le spedizioni successive, però, preferirono la parete Rakhiot, tecnicamente più facile, ma estremamente lunga e pericolosa. Sui ghiacciai del Plateau Silber, la squadra di vetta della spedizione tedesca del 1934 rimase stupita nel vedere Peter Aschenbrenner ed Erwin Schneider raggiungere la parte appena sotto alla cima, a circa 7700 metri. Al ritorno, lungo l’eterna cresta nord-ovest, morirono sei sherpa e tre alpinisti, tra i quali Welzenbach e il capo spedizione Willy Merkl. Tre anni più tardi una slavina sul ghiacciaio Rakhiot investì un campo base intero, con sette alpinisti e nove sherpa. Il regime nazionalsocialista diede ampio spazio a questa tragedia e la definì un sacrificio per la patria: nacque così il mito del Nanga Parbat come “montagna del destino dei Tedeschi”.In seguito a un ulteriore tentativo fallito al versante Rakhiot nel 1938, l’anno seguente gli austriaci Peter Aufschnaiter, Lutz Chicken e Heinrich Harrer, insieme al tedesco Hans Lobenhoffer, puntarono nuovamente alla parete Diamir. Il loro viaggio di ritorno coincise con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale: gli alpinisti furono quindi presi prigionieri dagli Inglesi in India. La fuga di Harrer nel 1944 fu l’inizio dei suoi leggendari “sette anni in Tibet”. Fu un medico di Monaco, fino a quel momento sconosciuto, ad assumersi il ruolo di organizzatore della spedizione austro-tedesca al versante Rakhiot del Nanga Parbat dopo la

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Seconda Guerra Mondiale: Karl Maria Herrligkoffer (1916-1991). Fratellastro di Willy Merkl, morto in montagna nel 1934, volle onorare “l’eredità del fratello” e raggiungere la cima. O meglio: guidare la salita, poiché a lui mancavano le competenze alpinistiche e tecniche necessarie. Per contro, Herrligkoffer aveva un talento ineguagliabile nella raccolta fondi: un partecipante alla spedizione lo nominò ironicamente “il più grosso mendicante del dopoguerra”, il che lo rese il più importante organizzatore delle spedizioni tedesche in Himalaya tra gli anni cinquanta e settanta. Herrligkoffer era ben contento di mettere in risalto le imprese della sua squadra, e aveva scelto i partecipanti in base alle loro capacità alpinistiche. In questo modo, però, si venivano a creare facilmente scontri tra le varie personalità, conflitti istigati in parte anche dalla natura alquanto autoritaria di Herrligkoffer. Fu un solitario a portare a termine con successo la prima spedizione di Herrligkoffer: in un’avventura senza precedenti, l’austriaco Hermann Buhl riuscì a conquistare la vetta il 3 luglio 1953. Lungo la discesa, sopravvisse a un bivacco a 8000 metri su uno sperone di roccia e senza aiuti, un’impresa mai riuscita prima di allora. Nonostante soffrisse di allucinazioni per la mancanza di ossigeno, Buhl riuscì a tornare al campo base la sera successiva. L’impresa, però, finì con vari contrasti: dopo il ritorno, Buhl e Herrligkoffer ebbero divergenze su come era stata raccontata la spedizione e i due finirono in tribunale, cosa che si sarebbe ripetuta in modo più aspro diciassette anni più tardi. Non si deve comunque dimenticare che gran parte delle spedizioni di Herrligkoffer, in totale ventidue4, non ebbero problemi di rilievo. Il Nanga Parbat rimase per Herrligkoffer un’ossessione. All’inizio degli anni sessanta si interessò al versante Diamir, luogo del tentativo di Mummery nel 1895. Durante la prima spedizione nel 1961 il suo team individuò una linea di salita

4 - Karl Maria Herrligkoffer, p. 288 e segg.

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sulla parte sinistra della parete, quella che oggi è la via normale al Nanga Parbat. Nel 1962 Toni Kinshofer, Anderl Mannhardt e Siegi Löw riuscirono ad arrivare in vetta. Löw purtroppo morì durante la discesa, e i suoi compagni subirono pesanti congelamenti. Dopo aver scritto due pagine nella storia del Nanga Parbat, ad Herrligkoffer mancava solo la terza parete, la più difficile: il versante Rupal. Da una comunicazione del 1963 si capiva che questo era il suo scopo principale. “Le foto scattate da professionisti durante la spedizione al Nanga Parbat nel 1934 dalla Valle Rupal mostravano immagini impressionanti della parete sud di questo ottomila. La realtà era però ben diversa, e superava ogni aspettativa a causa della sua grandezza, della sua imponenza, del suo profilo aspro e selvaggio5.” La spedizione trovò due possibili linee di salita: una lungo il Colle Ovest a 6940 metri tra la cresta Mazeno e il crinale sud-ovest del Nanga Parbat, e l’altra lungo lo sperone sud/sud-ovest, direttamente sotto alla cima sud (8042 metri)6.Un primo tentativo di salita per la direttissima avvenne nel febbraio 1964: in quell’occasione Raphael Hang e Reinhold Obster si spinsero fino a metà parete, in condizioni invernali. In un caso precedente, quattro membri della spedizione erano riusciti a sopravvivere con poche ferite a una caduta di 500 metri in seguito a una valanga. In un secondo tentativo nel 1968, Peter e Wilhelm Scholz arrivarono sotto al Canalone Merkl, il tratto chiave circa 700 metri sotto alla cima. Un incidente, nel quale Günther Strobel riportò una frattura multipla alla gamba, mise termine alla spedizione. Ecco il resoconto di Herrligkoffer: “L’esperienza del 1968 mi aveva insegnato che, anche avendo a disposizione alpinisti preparati, bisogna comunque fare i conti con possibili incidenti. Per questo motivo la

5 - Sieben Jahrzehnte Gipfelkampf, p. 166.6 - La cima sud del Nanga Parbat è spesso riferita come “Spalla a sud”. In questo libro, a parte le citazioni, viene chiamata con il suo toponimo geografico, ossia Cima sud.

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squadra del 1970 sarebbe dovuta essere incredibilmente forte7.”

InIzIa L’avventura

Gerhard Baur aveva allora ventidue anni e si era già distinto per le sue imprese in montagna. A diciannove anni era salito sulla parete nord del Cervino sopravvivendo a una caduta di settanta metri. Nello stesso anno, il 1966, aveva aperto una via sul Drusenturm nel Voralberg (Rätikon) e aveva partecipato a un salvataggio spettacolare di due alpinisti sul Monte Bianco. Nel 1968 aveva aperto una via di arrampicata artificiale sull’ampio tetto posto al centro della parete nord della Cima Ovest di Lavaredo nelle Dolomiti, oggi percorso da una famosa via di Alexander Huber. In questo tour fu girato anche il primo video di Gerhard Baur. “Fin dall’inizio era chiaro che la mia passione erano i film di montagna. Nell’estate del 1969 lavorai in Svizzera8. A Natale partii con amici per le montagne dell’Hoggar nel Sahara e vi rimasi tre mesi: lì filmai una prima ascensione. In questo periodo ricevetti una lettera da Herrligkoffer. Aveva visto uno dei miei film e i miei amici di Stoccarda, che aveva conosciuto durante una spedizione, gli avevano parlato di me. Quindi mi chiese se ero interessato ad andare sul Nanga Parbat, sarebbe stato importante avere qualcuno che potesse anche riprendere gli alpinisti. Così, dopo il mio ritorno dall’Hoggar tutto andò molto in fretta... Durante gli ultimi incontri di preparazione a Monaco conobbi anche Reinhold e Günther Messner. Come me, anche Günther si era aggiunto alla spedizione all’ultimo momento.”

Conoscevi già Reinhold? “Sì, soprattutto grazie alle sue prime salite e vie in solitaria nelle Dolomiti. Sapevo anche che era una persona

7 - Kampf und Sieg am Nanga Parbat, p. 55.8 - Tra le altre cose, a un film sulla ripetizione della Via dei Giapponesi-Direttissi-ma sulla parete nord dell’Eiger, N.d.A.

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con una straordinaria forza di volontà e motivazione, che gli avrebbero permesso di realizzare prestazioni eccezionali. Ci eravamo incontrati un paio di volte prima della spedizione, ma non eravamo mai andati in montagna assieme.”

Dopo che alla fine degli anni sessanta tutti gli Ottomila erano stati conquistati, l’attenzione degli alpinisti si rivolse ai versanti inesplorati di queste montagne. Iniziarono i Cinesi, la cui prima salita della parete nord dell’Everest nel 1960 non è stata completamente provata. Nel 1962 la spedizione di Herrligkoffer riuscì a conquistare la parete Diamir del Nanga Parbat. Nel 1963 gli Americani raggiunsero il versante ovest dell’Everest (saltando la parte superiore del versante nord). Gli apritori di quest’ultima via, Willy Unsoeld e Tom Hornbein, salirono dal crinale sud-ovest, di fatto effettuando la prima traversata di un Ottomila. Fino agli anni settanta ci furono alcuni tentativi sulla parete Rupal del Nanga Parbat, tutti guidati da Herrligkoffer, mentre i Giapponesi si erano dedicati alla parete sud-ovest dell’Everest.

Che ruolo rivestì la spedizione del 1970 e in che circostanze venne messa in piedi? “A quell’epoca era molto difficile raggiungere le montagne dell’Himalaya, difficoltà dovuta in parte ai laboriosi permessi necessari, in parte ai costi da affrontare. Le grandi spedizioni di allora erano molto impegnative e dispendiose. Veri e propri eventi straordinari. L’immagine del Nanga Parbat era ben chiara a tutti noi e il versante Rupal, la più alta parete verticale al mondo, con le sue difficoltà, simboleggiava un mito. Per questo motivo eravamo orgogliosi di poter partecipare a questa spedizione. Non mi sarei potuto immaginare di pianificare una salita a una montagna del genere con poche persone. Non con una parete così grande.”

In totale i partecipanti alla spedizione di Herrligkoffer erano diciassette. Mich Anderl era il vice-capo spedizione,

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Alice von Hobe l’assistente medica di Herrligkoffer e Wolf-Dietrich Bitterling l’aiutante generico al campo base. Tra gli alpinisti, oltre a Gerhard Baur e ai fratelli Messner, c’erano Günther Kroh, Hermann Kühn, Gert Mändl, Elmar Raab, Hans Saler, Peter Scholz, Peter Vogler, Jürgen Winkler e i due austriaci Werner Haim e Feliz Kuen. A completare il gruppo c’era anche un ospite pagante, Max von Kienlin. Hans Saler, allora ventiduenne e tra i tre membri più giovani della spedizione, scrisse decenni dopo in merito alla preparazione della spedizione: “Herrligkoffer era un giocatore di scacchi, uno stratega, l’alta percentuale di partecipanti giovani non era di certo un caso. Avevamo bisogno di pochi caratteri timorosi e apprensivi, ma di abbondante ottimismo. Eravamo quindi pronti al rischio. Il rischio ha due risvolti: non comporta solo pericoli, ma anche opportunità. L’opportunità di questa spedizione era quella di scalare quella che fino a quel momento era la parete più alta e difficile sul tetto del mondo9.”

Gerhard Baur era tra i dodici partecipanti che si recarono in Pakistan via terra. Oggi descrive il viaggio, che durò alcune settimane e lo portò attraverso la Turchia e l’Afghanistan, come un’esperienza ancora più profonda rispetto al tempo passato sulla stessa montagna. Fu particolarmente colpito dall’ospitalità e dall’accoglienza delle persone che vivevano nelle condizioni più disagiate. Il gruppo si ritrovò a Rawalpindi in Pakistan, dopo che cinque partecipanti, tra i quali Herrligkoffer e Reinhold Messner, avevano viaggiato in aereo per fare più in fretta.

Quali furono le tue impressioni sul gruppo? “Come alpinista, Reinhold Messner era la star della spedizione. Nessuno si era distinto come lui nei due anni precedenti. Nonostante ciò, non si dava molte arie. A suo

9 - Zwischen Licht und Schatten, quarta edizione 2009, p. 21.

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modo era molto volubile: a volte partecipava alle nostre serate, altre volte se ne stava in disparte. Si poteva notare, però, che gli era ben chiaro cosa ci aspettava. Era molto preparato sulla storia dell’alpinismo, più di altri. Aveva capito perfettamente che un’ascensione al versante Rupal avrebbe costituito un’impresa di rilevanza mondiale, mentre altri ne parlavano appena. Nel corso della spedizione si affermava sempre più la convinzione che Reinhold sarebbe arrivato in cima. Anche per Felix Kuen era così. Per entrambi era molto importante raggiungere la cima, anche se non si avvertiva una vera e propria competizione tra i due. Gli altri non sembravano darci tanta importanza, almeno dall’esterno. Nemmeno Peter Scholz, che era già stato sulla parete Rupal due anni prima, di certo non meno ambizioso. Eravamo tutti ambiziosi, altrimenti non avremmo partecipato. Eppure c’erano esempi come quelli di Jürgen Winkler, Peter Vogler e Günther Kroh, che non salirono in cima, nonostante fossero buoni alpinisti, fatto che accettarono senza problemi. Questa era anche una caratteristica di questa spedizione, di quell’epoca, e della tattica di Herrligkoffer: ognuno avrebbe contribuito al successo della spedizione assumendo un ruolo preciso, e del quale ne sarebbe stato contento.”

Che tipo di uomo e capo spedizione era Herrligkoffer? “Il fatto che fosse ossessionato dall’essere alla guida di spedizioni era di certo un fattore positivo, non importa per quali motivi. C’era ovviamente anche una componente vanagloriosa, poiché si considerava un capo spedizione alpinista, cosa che in realtà non era. Per quel periodo, il 1970, aveva un modo di pensare piuttosto antiquato, che non sarebbe durato. Non si può condurre una spedizione di montagna come un esercito. I componenti devono scegliere di stare assieme, restare motivati ma anche trovare questa motivazione da soli. Non la si può imporre. D’altro canto bisogna ammettere che aveva sempre fatto del suo meglio,

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secondo i suoi parametri. La lentezza della grande spedizione con i molti materiali non era dovuta a incompetenza, poiché secondo la sua esperienza era la cosa migliore. Insieme ad altri, mi resi conto che alcune cose sarebbero potute funzionare più velocemente, facilmente e in maniera più flessibile, se le decisioni fossero state prese dagli alpinisti che erano sulla montagna, e non dal campo base. Personalmente sono sempre andato d’accordo con Herrligkoffer. Ogni tanto era persino una persona divertente e di spirito, ma poi ritornava a essere il capo spedizione, che se ne stava nella sua tenda e controllava tutto.”

Com’era il rapporto tra Reinhold Messner e suo fratello Günther? “Si poteva notare chiaramente che Reinhold era la figura dominante tra i due, e Günther era il fratello più piccolo. Non lo vedevo però come un fattore negativo, semplicemente una normale divisione di ruoli. Reinhold aveva verso di lui un atteggiamento più di guida che di protezione. Durante la spedizione ero stato affascinato dall’entusiasmo e dalla forza di volontà di Günther. Soprattutto per quanto riguardava i lavori quotidiani, fossero essi smontare le tende, cucinare o fare la traccia. Era sempre disposto a fare qualcosa. Non che suo fratello maggiore se ne stesse a oziare, tutt’altro, semplicemente Reinhold era la guida.”

saLto verso L’Ignoto

Tra i partecipanti alla spedizione, solo Peter Scholz era stato sulla parete Rupal. Il percorso e i luoghi dei campi base erano comunque noti ai più; a causa dell’altitudine, però, questa parete rappresentava per molti un salto verso l’ignoto. Herrligkoffer aveva dato un nome ai luoghi più importanti della salita, in memoria dei caduti nella spedizione del 1934, tra i quali c’era stato anche il suo fratellastro. Dal campo base, posto a circa 4700 metri, bisognava fare una traversata obliqua verso sinistra sul Ghiacciaio Wieland, luogo del secondo campo (circa 5500 metri), sovrastato dalla Parete Wieland. Sulla sua parte terminale venne montato un argano,

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sulla cui interruzione si sarebbero potuti montare dei carichi (Campo dell’Argano, circa 5800 metri). Una piazzola riparata cento metri più in su sarebbe stato il luogo del terzo campo. Più oltre, il Pendio Welzenbach e il corrispondente canale su terreno misto, che ricordava la parete nord del Cervino. Il quarto campo si trovava su un terrazzino posto sopra un piccolo sperone di ghiaccio verticale, a circa 6700 metri, e sarebbe servito come punto di partenza per l’attacco alla cima. Il punto di ritorno del 1968 si trovava sul ripido Pendio Merkl più sopra, sul quale si apriva una spaccatura tetra e innevata che portava alla cima: il Canalone Merkl. Terminava con una forcella sul crinale sud-ovest, la Forcella Merkl (circa 7800 m.)10, ed era il punto chiave di tutta la salita.

“Avevo un tremendo rispetto per la parete Rupal, soprattutto per la parte sommitale”, ricorda Gerhard Baur. “Prima di tutto è verticale, e quando imperversa il brutto tempo il rischio di valanghe è altissimo. Nel 1970 non sapevamo granché sulla sua altezza, solamente che era molto pericolosa. Se volevamo farcela, però, avremmo dovuto sopportare la fatica e spingerci fino al limite delle nostre forze. Questo era chiaro a tutti. Pensavo costantemente ai fatti del 1962, quando Siegi Löw cadde dal Nanga Parbat durante la salita. Löw era un ottimo alpinista, ma proveniva dalle schiere degli scalatori estremi, e poteva capitare che si cacciasse in situazioni rischiose per via della sua forza di volontà. Mi fece capire che in alta montagna bisogna mantenere un equilibrio tra quello che potrebbe diventare un’altissima prestazione e quello che invece suggerisce il buon senso. Nessuno sapeva però esattamente dove risiedesse questo equilibrio. Per esempio, ci fermavamo sempre a lungo nei campi più alti. Forse perché le condizioni erano favorevoli, infatti

10 - 7800 metri è l’altitudine ufficiale della Forcella Merkl in tutti i resoconti della spedizione del 1970. Da una misurazione aerea però la sua altitudine effettiva è risultata di circa 7850 metri. In questo libro viene considerata l’altitudine ufficiale.

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durante la spedizione stavo bene, riuscivo a sopportare quote sempre maggiori, e questo mi faceva credere sempre più che avremmo raggiunto la cima. Dei piani mentali sapevamo allora ben poco. Oggi affronterei la situazione in maniera diversa.”

In che modo? “Forse guarderei alla cima in maniera più razionale, e non come allora, quando avevamo davanti agli occhi l’esempio di Hermann Buhl. Come persona, e quello che era riuscito a compiere, erano esempi per tutti noi – soprattutto per Reinhold, a cui fece riferimento anche nei suoi progetti successivi.”

Perché Hermann Buhl non è più un modello per te oggi? “Chiunque lasci indietro il suo zaino a quell’ora e continui ad andare avanti nonostante le grosse difficoltà che lo aspettano, non è un modello. Il rischio che si corre è semplicemente troppo alto.” (Durante la sua ascensione in solitaria alla cima del Nanga Parbat nel 1953, nel tardo pomeriggio Buhl aveva lasciato indietro il suo zaino con vestiti di ricambio e provviste, ancora prima del crinale sotto alla cima, la parte più difficile della salita.) “Bisogna sopravvivere per poter comprendere fino in fondo le molte sfaccettature dell’andare in montagna, questo vuole anche dire saper rinunciare al momento giusto. Hermann Buhl non lo fece. Un peggioramento delle condizioni atmosferiche avrebbe potuto ucciderlo. Non voglio mettere in dubbio Buhl e la sua prestazione, ma questa situazione: lasciare indietro lo zaino con le cose più necessarie e andare avanti, nonostante si conoscano le difficoltà che comporta la salita. Ovviamente non si può sapere prima come si reagirà quando si è in alto. Ma quando si sa di andare incontro a un percorso difficile, ci si può prima porre delle questioni sulle possibili alternative. O perlomeno gli altri non dovrebbero esaltare tali decisioni ancora sei mesi dopo.”

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PIanIfIcazIone? IntenzIone? ProgrammazIone?L’esempio di Hermann Buhl pone questioni sullo stato mentale degli alpinisti in situazioni estreme in alta quota. Le decisioni che vengono prese lassù sono dettate dalle situazioni contingenti? Oppure sono scelte consapevoli che rispecchiano il carattere e la mentalità degli alpinisti? L’inglese Frank Smythe aveva espresso alcune considerazioni già nel 1933, dopo che era arrivato quasi fino a trecento metri sotto all’Everest durante una fuga in solitaria: “Scalando ad altitudini elevate, il corpo e lo spirito sono avvolti da una letargia sempre più marcata, e per poterla combattere bisogna fare ricorso a una coscienza che risiede nel subconscio. Per questo motivo, la volontà di raggiungere la cima si deve instaurare ben prima di affrontare la salita stessa. Forse in Inghilterra non si è creduto abbastanza che l’Everest potesse essere salito11.”

Poiché il cervello funziona più lentamente a quelle altitudini, le decisioni che vengono prese sono il risultato di una riflessione, iniziata molto prima del raggiungimento della cima. L’alpinista fa quindi ricorso a un programma che si potrebbe definire “interiorizzato”, elaborato in tutt’altra parte della sua mente. Con queste premesse, alcuni fatti accaduti sul Nanga Parbat nel 1970, di cui parla Gerhard Baur, appaiono sotto tutt’altra luce: “Mentre ci stavamo ancora avvicinando alla parete, Reinhold Messner mi disse più volte che sarebbe voluto scendere dall’altra parte, una volta raggiunta la cima. Ci aveva ragionato su, e sarebbe sceso dalla cresta Mazeno oppure dalla fiancata Diamir seguendo la via Mummery, alternativa di cui era più convinto. Portò inoltre come esempio Buhl, che era andato avanti con poche cose e aveva dimostrato che quello era il modo di procedere. Inoltre, siccome Mummery era riuscito ad arrivare fin oltre la metà della parete già nel 1895, probabilmente la si sarebbe

11 - Camp Six, p. 261.

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potuta percorrere settantacinque anni dopo. Fin dalla prima volta che me ne parlò, gli chiesi dove pensava di trovare una via di discesa, poiché questa è molto più difficile di quella di salita. Reinhold mi rispose che aveva una foto dove si poteva individuare precisamente questa via. E mi mostrò questa foto in tenda, al campo base. Era in bianco e nero, molto nitida: quando si scende dalla Forcella Merkl e ci si mantiene leggermente sulla destra lungo un costone, si raggiunge la via di Mummery. Mi ricordo di avergli anche chiesto: “Reinhold, come pensi di tornare al campo base?” E lui rispose a senso: “Di questo non mi preoccupo. A quel punto tutte le più grandi difficoltà saranno superate, si troverà di certo un modo.” Ho un ricordo molto preciso di questa affermazione. Aveva pensato a lungo a come valicare la montagna, in circostanze favorevoli. Ne parlammo almeno due o tre volte. Mi ricordo che una volta era presente anche Günther e disse: “Certo, ma prima dobbiamo arrivare in cima!” La testimonianza di Günther, riferita da Gerhard Baur, fa supporre che l’idea di Reinhold di andare oltre la cima del Nanga Parbat durante quella spedizione sia fondata.Continua Gerhard Baur: “Ero convinto che Reinhold avesse le capacità e la volontà necessarie per una tale impresa. I miei primi pensieri furono però di inquietudine. Cosa avremmo fatto se fosse successo qualcosa? E siccome la cima era ancora lontana, non ci pensavo continuamente. Lo avvertivo come una specie di segreto. In quel periodo ammiravo e stimavo Reinhold per via delle sue prodezze alpinistiche. Dopo i nostri discorsi, l’attraversamento mi sembrava una reale possibilità – così come mi sembrava fattibile che tutti noi potessimo arrivare in cima, seppur sputando sangue. Se c’era una persona che mi sembrava capace di farlo, però, era Reinhold.”

Anche Max von Kienlin si ricorda della foto del versante Diamir, di come Reinhold Messner gliel’avesse mostrata, affascinato dalla possibilità di compiere una traversata12.

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Il fotografo Jürgen Winkler racconta di un altro discorso avvenuto al campo base: “Voglio raccontare della traversata della cresta Peuterey sul Monte Bianco. [...] Reinhold osservò che quella via non era ancora stata percorsa in inverno e disse “Sarebbe un’impresa eccezionale. Bisognerebbe farlo e, una volta in cima, seppellirsi nella neve e rimanere lì due giorni – si agiterebbero tutti in valle.” Ma dopo queste fantasticherie tornammo alla realtà della nostra parete Rupal. E quindi disse: “Sarebbe una storia fantastica, non solo riuscire a superare la parete più alta al mondo, ma allo stesso tempo attraversare la montagna13.”

Secondo Herrligkoffer, questo episodio venne raccontato anche da Elmar Raab14. Perlomeno quanto segue è certo: Reinhold Messner attraversò effettivamente il Nanga Parbat. E la conseguente “agitazione in valle” contagiò tutti. Quasi quarant’anni più tardi, Reinhold Messner dovette negare di aver posseduto una foto del versante Diamir: “Se io avessi avuto una foto del versante Diamir, l’avrei portata con me e sarei sceso da tutt’altra parte15.” In merito alla possibilità di valicare la montagna, Messner aveva sostenuto quanto segue: “Ero stato entusiasta all’idea di attraversare il Nanga Parbat solo come opzione futura, senza che ci fossero stati programmi precisi16.” Neanche per il giudice le dichiarazioni di Gerhard Baur, Max von Kienlin e Jürgen Winkler, perlomeno quelle facenti riferimento al giorno in cui Reinhold Messner iniziò la sua

12 - Die Űberschreitung, terza edizione 2003, p. 124.13 - Citazione da Die Űberschreitung, terza edizione 2003, p. 237, Starnberger SZ, 31.07.2003.14 - Annotazione alla denuncia in Procura di Reinhold Messner contro Herrligkof-fer e Anderl, non datata, p. 10f. Copia nell’archivio del DIAF.15 - Trasmissione televisiva “Morte sul Nanga Parbat”, WDR “die story”, 18.01.2010.16 - Assicurazione giurata di Reinhold Messner del 27.06.2003 (per quanto riguar-da le richieste di ordinanza provvisioria di Reinhold Messner/Hans Saler e A1 Ver-lag; R. Messner/Max von Kienlin e F.A.Herbig Verlagsbuchhandlung).

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ascensione in solitaria, erano state sufficientemente valide e avevano dimostrato che sussisteva un piano concreto di attraversamento. Nonostante questo, neanche Hermann Buhl aveva programmato la sua salita in solitaria nel 1953. La sua forza di volontà aveva avuto la meglio e aveva deciso di seguirla, fino a che le condizioni glielo avevano permesso.

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IndIce

IntroduzIone 6La Parete 1026 gIugno 1970. un accordo fataLe 2526 gIugno 1970. saLIta In due 2528 gIugno 1970. La traversata 4029 gIugno 1970. dIscesa verso L’Ignoto 5030 gIugno-4 LugLIo 1970. odIssea soLItarIa 58L’una e L’aLtra verItà 78accuse 99QuestIonI rImaste aPerte 110I ProcessI e La rIcerca deL frateLLo 119nuova messInscena 127La montagna nuda e una soLItudIne BIanca: La verItà In BIanco e nero? 143La Prova defInItIva? 164La storIa InfInIta 176daLL’InIzIo aLLa fIne 182PoscrItto 190aPPendIce 1 - I mortI deL dIamIr 198aPPendIce 2 - cItazIonI e contraddIzIonI 200rIngrazIamentI 207BIBLIografIa 208

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978-88-96634-61-5

e 19,00

Se trattata in maniera obiettiva, la prima parte della storia del Nanga Parbat del 1970 parla di un dramma di montagna, niente più e niente meno. Due giovani alpinisti si sono ritrovati a dover prendere decisioni, le cui conseguenze furono la morte di uno e la mera sopravvivenza dell’altro. Si potrebbe discutere e valutare tale decisione da un punto di vista alpinistico. Ma non la si deve giudicare. Il mondo dell’alpinismo è pieno di simili esempi. La particolarità di questa storia è che i due alpinisti erano fratelli e quello sopravvissuto ha acquisito fama mondiale. La seconda parte della storia potrebbe svilupparsi in questo modo: si tratta di uno spettacolo mediatico che ruota attorno al destino di Messner ed è stato messo in piedi da lui stesso.

“Si poteva notare chiaramente che Reinhold era la figura dominante tra i due, e Günther era il fratello più piccolo. Non lo vedevo però come un fattore negativo, semplicemente una normale divisione di ruoli. Reinhold aveva verso di lui un atteggiamento più di guida che di protezione. Durante la spedizione ero stato affascinato dall’entusiasmo e dalla forza di volontà di Günther. Soprattutto per quanto riguardava i lavori quotidiani, fossero essi smontare le tende, cucinare o fare la traccia. Era sempre disposto a fare qualcosa. Non che suo fratello maggiore se ne stesse a oziare, tutt’altro, semplicemente Reinhold era la guida.” G. Bauer