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PASTA DI ROMAGNA Impronte di fabbrica. LORENZO AMADUZZI DANIELE LISI

Pasta di Romagna - Impronte di Fabbrica

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L'identità di uno spazio che guarda oltre l'architettura, si affascina di storie, oggetti, luoghi e interazioni tra di essi, muovendosi attraverso un tessuto culturale prodotto dall'analisi fotografica.

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PASTA DI ROMAGNAImpronte di fabbrica.

LORENZO AMADUZZIDANIELE LISI

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PASTA DI ROMAGNAImpronte di fabbrica.

LORENZO AMADUZZIDANIELE LISI

testo introduttivo di PIERO ORLANDI

Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia Romagna / Comune di Cattolica - Assessorato alla Cultura - Galleria Comunale S. Croce

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si ringraziano per la gentile collaborazione:Pier Giorgio Avanzolini, Marta Amadei, Claudio Battazza, Antonietta Agnoletti, Corrado Montanari, Filippo Ghigi, Corrado Bernardi, Maria Rosa Filippucci, Rosanna Grassi Ghigi, Michelangelo Monti, Massimo Tosello, Annamaria Piccari, Guerrino Pentucci, Marco Miscia, Piero Delucca,Daniele Casalboni, Diego Giusti.

L'immagine a pagina 4 è tratta dall’opuscoloPremiato pastificio Elettrico Nicola Ghigi fu Stefano,Cattolica di Romagna, Bologna, Tipografia La Rapida, 1933.

La ricerca fotografica di Amaduzzi e Lisi ha coinciso con la rilevazione del pastificio Nicola Ghigi nel centro storico di Cattolica il cui stabile nel 2009 è stato riconvertito ad uso di civile abitazione. Dopo la separazione nel 1923 dai fratelli, Emilio e Angelo e conseguente liquidazione, Nicola Ghigi, omonimo del fondatore del pastificio morcianese scomparso nel 1894, aprì un proprio pastificio in via Corridoni a Cattolica attivo sino ai primi anni ‘50. Rimangono superstiti documenti materiali una grande macchina molinatrice del primo Novecento preservata dal Museo della Regina del Comune di Cattolica e l’opuscolo pubblicitario dei prodotti in commercio (1933).

catalogo pubblicato in occasione delle mostra"Pasta di Romagna, impronte di fabbrica"di Lorenzo Amaduzzi e Daniele LisiCattolica (Galleria S. Croce)13 marzo - 2 maggio 2011Morciano (Biblioteca G. Mariotti)4 marzo - 30 aprile 2011

fotografie diLorenzo Amaduzzi e Daniele Lisicopyright 2011ogni riproduzione anche parziale è vietata

coordinamento e cura del catalogoAnnamaria Bernucci

testi diPiero Orlandi, Annamaria Bernucci,Lorenzo Amaduzzi, Ettore Tommasoli

grafica e impaginazioneGianni Donatiin collaborazione con Daniele Lisi

stampa e impiantiGrapho 5 - Fano

copyright © 2011Banca Popolare Valconca, Morciano di Romagna

Comune di CattoliCaassessorato alla CulturaGalleria Comunale s.CroCe

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Al viaggiatore che da San Clemente scende verso Morciano, dopo qualche curva della strada, si apre la

visione della valle e del paese: ben strano paese dominato da quello che, a prima vista, sembra un antico

maniero.

Lo sguardo, poi, avvicinandosi a Morciano, si affina e vede chiaramente di cosa si tratti: quello che appare

alla vista non è una Chiesa imponente, non è un Castello Malatestiano bensì uno stabilimento industriale,

un pastificio. Ecco: Morciano è dominata da questa presenza che ne determina lo spazio urbano e lo

caratterizza.

Non solo: non si tratta di un edificio industriale ai margini della città, in quelle periferie dimenticate ed

anonime. Il pastificio Ghigi si erge nel bel mezzo del paese nella centralissima via Roma.

Forse aveva ragione Egidio Belisardi a definire Morciano “un paese con le ali e le scarpe”, un miscuglio di

fantasia e concretezza, di slancio ideale ma con i piedi saldamente piantati per terra.

Queste caratteristiche meriterebbero, probabilmente, un approfondimento anche dal punto di vista

architettonico ed urbanistico.

A noi (che non siamo né architetti e neppure urbanisti) rimane la bellezza di queste foto “rubate”

all’interno del “Castello” di Morciano prima della definitiva chiusura.

Avv. MASSIMO LAZZARINIPresidente Banca Popolare Valconca

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Passaggi in fabbrica.ANNAMARIA BERNUCCIGALLERIA S. CROCE

È stato poco prima dello sgombero dei macchinari della ex Ghigi di Morciano di Romagna nel 2010 che

Lorenzo Amaduzzi e Daniele Lisi, fotografi, hanno posato uno sguardo diffuso sugli interni della fabbrica.

La loro azione ha acceso il valore culturale della fotografia e la virtuosa attitudine ad uno sguardo ampio,

capace di traslare diversi piani di significato. Una dilatazione visiva che diviene ontologica.

La macchina fotografica ha ancora una volta contribuito a ridefinire la realtà, anzi è la stessa realtà ad esser-

ne ampliata o sostituita dalla ‘scrittura paradossale’ e accesa dell’immagine fotografica. Perché la fotografia

ha il dono di documentare e agire come story telling. La Ghigi che Amaduzzi e Lisi consegnano appartiene

ad un nuovo confine visivo, di insoluta indefinitezza, nel valore insospettabile della sospensione che prece-

de il riuso o l’abbattimento di un sito industriale. Prima di essere archeologia, dopo essere stato un luogo

dismesso. La loro ricerca pone al centro la libertà dello sguardo e una riflessione di ordine estetico, dove

il concetto di scarto, di relitto diviene seducente ‘perturbazione’ in grado di assorbire nuove valenze.

La coscienza dei luoghi apre spesso ad una molteplicità di passati, allude ad una funzionalità perduta e a un

presente che possiede tutte le tracce temporali: è il “tempo senza storia” cui allude Marc Augè.

Da quando l’invenzione estetica del paesaggio è divenuta fondante nella riflessione contemporanea,

il paesaggio è scoperto come ‘qualità’ generale del territorio, determinata dalla natura o dall’insedia-

mento e dalle attività umane. Ma soprattutto rappresenta una presenza continua nello scorrere del

tempo naturale.

Lo stabilimento Ghigi, con elefantiaca, incombente mole costruttiva, cresciuto nel cuore del paese, è di-

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ventato il suo monumento, a lungo è stato il suo baluardo economico, la sua cattedrale. E per quanto ogni

reliquato industriale determini complesse ipotesi tutelari o di preservazione o di reimpiego l’insieme della

struttura Ghigi si svela come un esempio ricco e complesso di stratificazioni morfologiche, fortemente

caratterizzate, dotate anche di un potenziale simbolico elevato.

La Ghigi è dunque un’area artificiale, frutto di un progetto cresciuto informalmente ma che ha definito

topograficamente lo spazio urbano. Come molta architettura destinata all’industria non si è concessa di-

vagazioni, ma ha corrisposto prestazioni codificate in base alle necessità produttive, quelle dell’uso e della

economia. La crescita dello stabilimento e le sue addizioni spesso spontanee, assemblative, quasi pittore-

sche, è avvenuta secondo un processo graduale, relazionale alla produzione e al mercato. Connessa con

quel lungimirante piano regolatore d’inizio secolo che Diomede Forlani formulò sui principi dell’ampiezza,

dotando la città di una coerente scacchiera infrastrutturale che guarda con anticipo una nuova ‘civiltà

delle macchine’.

La storia del Pastificio Ghigi si lega ad una lunga tradizione molitoria cresciuta sul fiume Conca e inizia a

Morciano di Romagna, paese dell’entroterra di Rimini al centro della Valconca, nel 1870 quando l’artigiano

Nicola Ghigi, pastaio e fornaio, diede il nome di famiglia al suo mulino. Nicola Ghigi ‘impasta la semola di

scelte farine di grano duro italiano all’acqua dei vicini Appennini’.

Nasce allora il pastificio. Per oltre un secolo il Pastificio Ghigi ha prodotto pasta secondo quell’antica ricet-

ta. Un marchio da sempre legato alla tradizione, alla cultura della cucina italiana, come recitavano gli slogan

commerciali. La pasta Ghigi è stata ai vertici della produzione negli anni ‘60. Poi sono venuti i tempi dello

scioglimento, della divisione degli opifici, della liquidazione coatta.

Le voci e gli echi delle attività, dei turni di lavoro, delle tracce annidate tra le pareti o negli armadietti degli

operai, tutto partecipa al nuovo silenzio di spazi, divenuti labirinti vuoti ma capaci di conservare l’essenza

del tempo. Con la scorrevolezza di un racconto, le fotografie di Amaduzzi e di Lisi restituiscono al sito e

alle cose quei significati che sono stati erosi dall’allentamento della memoria.

La farina, ancestrale nutrimento, e poi la pasta, nel metaforico viaggio verso la sua trasformazione in un

alimento divenuto espressione di cultura, è, con le macchine, il filo conduttore di questa esplorazione nel

ANNAMARIA BERNUCCI

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luogo che fu della sua fabbricazione, oggi orfano delle sue funzioni.

Il transito è stato documentato nella percezione delle tracce antropiche, nel respiro sospeso, nelle ombre

dei vari corpi di fabbrica, disfatti, nella salita o nella discesa ai reparti di produzione e alle sezioni; nell’at-

traversamento di spazi inorganici, tra i segni dell’abbandono, tra le cicatrici della passata attività e il colore

residuo delle esistenze che qui hanno contribuito con il loro lavoro a dare identità all’economia del paese.

Contemplare l’architettura, che ha già il germe e il sapore di rovina, equivale a un viaggio non solo nella

storia, ma nel tempo.

Etiam capillus unus habet umbram suam.

Lo sguardo posato dai due fotografi sullo stabilimento Ghigi esprime una diversa temporalità, che non è più

l’attuale, né solo il passato, ma il sospeso.

Lorenzo Amaduzzi e Daniele Lisi con il loro obiettivo digitale sono entrati in questa porzione di paesaggio

urbano, in questa possente cellula un tempo produttiva, ne hanno letto il sistema, hanno osservato i suoi

ingranaggi, le sue arterie di grande corpo ora inerte.

Un corpo relazionale che si misura ancora con la vita di una comunità, con la stessa identità del paese.

I segni costruttivi della fabbrica, come palinsesti letti dai fotografi, disgiuntamente e autonomamente, at-

traverso una lingua attrezzata sulla fotografia contemporanea, acquistano la irresistibile evidenza formale di

tutte le necessità che furono funzionali.

Gli elementi della fabbrica scorrono nelle immagini, dagli scarichi delle granaglie con l’imboccatura per le

aspirazioni, ai nastri trasportatori, i silos, i camini.

Ritmati e chiaroscurati emergono per il potere che ha la fotografia di non ‘riprodurre’ il visibile ma di con-

templare territori inesplorati, il particolare e l’estensione, le fughe e le simmetrie, e le ombre. Come protesi

e estensioni della memoria cui un intero paese stenta a staccarsene.

ANNAMARIA BERNUCCI

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Morciano di Romagna è una piccola città. È proprio la percezione di questa sua dimensione ridotta e

familiare, amichevole, che rende poi arduo avvicinarsi alla gran mole dell’ex pastificio Ghigi senza esser

presi da un brivido di fantasticheria romantica, colpiti come siamo dai muri spogli e dalle finestre aperte

come occhi ciechi, i segni inequivocabili dell’abbandono, come ce lo ha descritto nei suoi celebri racconti

Edgar Allan Poe. Questo enorme edificio oggi è come le case morte, visionate (dal diavolo), di cui ha

scritto Victor Hugo, con l’ingresso barricato o murato; come quelle, è un’immagine sinistra, che causa

timore più che terrore, e corrisponde piuttosto bene a quel concetto di perturbante, uncanny, che il

critico e storico dell’architettura Anthony Vidler ci ha descritto, ricostruendone le lontane ascendenze

e arrivando fino a Freud, che di questo tipo di disagio ha analizzato la percezione profonda che ognuno

di noi ha, di fronte a qualcuno – o qualcosa, architettura compresa – che ci fa perdere l’orientamento,

un estraneo, un invasore.

L’ex pastificio, così verticale e possente, così anni cinquanta nel suo disinteresse pragmatico – forse anche

rozzo – nei confronti di ogni apparenza, è davvero un alieno, un fuori scala minaccioso rispetto al piccolo

paese, placido, orizzontale e indifeso. Dopo gli anni felici della produzione e del successo di mercato,

oggi per questo edificio sono arrivati quelli duri: sta diventando – è già diventato, da quando è rimasto

vuoto di persone e di attività – una rovina. E ci affascina anche per questo. La cultura contemporanea

sente con molta intensità queste presenze architettoniche private della funzione originaria e in attesa

di qualcosa di incerto, di un futuro appeso al filo di decisioni urbanistiche che cercano un equilibrio

precario con quelle economiche, imprenditoriali e immobiliari, ma da esse conseguono. La gente attende

Un relitto moderno.PIERO ORLANDI

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di sapere cosa avverrà di questi spazi, un tempo pieni di parole, rumori, ricchezza, tecnologia, saperi, oggi

polverosi e solitari, e soprattutto portatori di problemi, come il corpo di un anziano. La gente è divisa tra

timore e nostalgia, tra voglia di sbarazzarsene e senso di colpa, tra l’abbraccio dolce-amaro della nostalgia

e la necessità inevitabile di un futuro da immaginare prima e da disegnare poi.

La vera rovina è ciò che ci proviene dall’antichità classica, non è certo questo il caso. Anche se ormai

siamo pieni di rovine del moderno: resti di architetture incompiute, o finite e mai fruite, dismesse o in

via di demolizione, sono tante le fattispecie, e comprendono anche gli ecomostri di cui tanto spesso si

parla, con il rischio sempre in agguato di confonderli con certi capolavori della produzione architettonica

italiana, soprattutto degli anni tra i Sessanta e gli Ottanta, architetture-manifesto firmate da progettisti-

intellettuali, mai amate dalla gente comune. Ma il vecchio pastificio Ghigi non è un capolavoro

dell’architettura del Novecento, e non è nemmeno una rovina, non ne ha la dignità archeologica. Se lo

fosse, sapremmo già che è da preservare, per definizione.

E allora, se non è una rovina, cos’è? Scarto? Rifiuto? Qualcosa che buttiamo quando non serve più.

L’arte contemporanea apprezza i rifiuti, ne fa uso spesso, in funzione prevalentemente critica. La

spazzatura è il volto tragico della merce, dice Lea Vergine. Futurismo e Dada, Surrealismo e Pop Art

hanno usato le spoglie della società opulenta e consumistica creando favole cupe o racconti teneri, o

ironici, o sarcastici, con mille toni e sfumature diversi. Anche la città usa gli scarti, li ricicla, li riconverte:

gli antichi conventi dopo l’Unità d’Italia divennero scuole e caserme, i palazzi nobiliari diventarono

prefetture e uffici pubblici. Oggi ex colonie e vecchi complessi industriali dismessi si metamorfizzano in

musei, supermercati, auditorium.

Dunque, gli scarti possono diventare ricchezza. Accadrà anche per l’ex pastificio di Morciano? Ce lo

chiediamo, guardando le fotografie di Lorenzo Amaduzzi e Daniele Lisi. Quelle del primo sono colme

delle tracce degli uomini che qui sono stati. Ricordo in proposito quel che ha scritto Ugo Mulas, in un

suo celebre libro del 1973, La fotografia: “Credo ci sia un modo di fotografare la catapecchia dove una

donna vive con i suoi bambini senza metterci dentro né la donna né i bambini, e arrivare comunque a

un’immagine eloquente della loro condizione, un’immagine che è obiettiva e al tempo stesso è evocativa

di quella gente assente dalla fotografia”. La gente qui è assente, ma è più presente che se ci fosse.

PIERO ORLANDI

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Sembra impossibile che queste stanze possano diventare altro da quel che sono state. Lisi invece si

dedica con ordine e geometria a descrivere l’edificio, come in un disegno dal vero, in un’atmosfera

rarefatta e limpida, e ci fa retrocedere dal luogo allo spazio, con precisione matematica. Il luogo è lo

spazio che il corpo può occupare. Sottraendo i corpi, che sono così evidenti pur se assenti nelle foto di

Amaduzzi, otteniamo lo spazio misurabile, e misurato in effetti da Lisi, comprese le verifiche rispetto agli

oggetti che possono esservi contenuti, impilati, affiancati, sovrapposti.

Lo spazio – architettonico e urbano – è una realtà fisica cangiante, che può essere descritta in modi diversi,

e con diversi dettagli. L’uomo, animale simbolico, tende a costruire gerarchie dello spazio, attribuendogli

valori che poi la società utilizza. C’è una dimensione dell’immateriale che ha effetti sul mondo materiale,

e la rappresentazione sociale ha una funzione determinante nell’orientare i comportamenti collettivi.

Nel nostro tempo, e ormai da qualche decennio, il fotografo è tra gli intellettuali – visto il successo di

mercato, sarebbe meglio dire: tra gli artisti – il più capace di partecipare alla formazione del paesaggio

urbano come immagine simbolica della città, e di condensare nel suo sguardo la sensibilità collettiva

attuale. La fotografia costituisce oggi l’esempio più preciso di pensiero di immagini – il denkbild di cui

ha parlato Benjamin – e transita per i centri decisionali delle pubbliche amministrazioni, orienta la loro

produzione, sia normativa che regolativa dello spazio. Spesso, anzi, raggiunge i luoghi che sono al centro

delle domande di trasformazione fisica, prima di altri esperti: urbanisti, filosofi, sociologi, scrittori.

Il lavoro dei fotografi è tanto più importante quando ci si occupa di processi di trasformazione urbana

complessi, come quelli derivanti dalla dismissione delle attività industriali. La fotografia, se il fotografo è

disponibile a farlo, può assumere forti connotati progettuali, può indicare punti di vista, relazioni, priorità,

tutti elementi utili a orientare il progetto architettonico di recupero, di riqualificazione, e a facilitare

scelte spesso chirurgiche, di amputazione, resezione (in tempi di linguaggio più truce, o esplicito, o meno

ipocrita, si sarebbe parlato anche di sventramento).

La città mentale, che la fotografia può contribuire a elaborare, evolve insieme con la trasformazione della

città fisica, in modi difficilmente preventivabili, ma di cui è necessario tener conto, perché l’individuo,

dopo le trasformazioni urbanistiche, ha comunque bisogno di ritrovare un equilibrio, di riconoscere

una continuità di senso che gli permetta di percepire la nuova città senza esserne disorientato. Uno

PIERO ORLANDI

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dei caratteri del post-moderno in campo architettonico è la riscoperta del senso, che ha comportato

un complementare e progressivo allontanamento dal funzionalismo. Le foto di questo libro possiamo

leggerle anche come ricerca di un equilibrio tra funzionalità e sensibilità, si potrebbe anche dire tra esprit

de geometrie ed esprit de finesse.

PIERO ORLANDI

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Scrivere con la luce – fotografare – nell’era digitale comporta una profonda revisione dello statuto on-

tologico della fotografia, qui intesa nella sua complessità di fenomeno tecno-sociale. Possiamo, infatti,

affermare che il nostro rapporto con lo strumento, tra questo ed il proprio soggetto-mondo siano rimasti i

medesimi tra il prima analogico e il dopo digitale? Certamente no. La svolta, nel mutamento di paradigma,

risale a non molti anni fa e la trasformazione indotta nel sistema di produzione dell’immagine meccanica è

definitiva ed irreversibile, nonostante le resistenze dei puristi, dei nostalgici e dei neo-luddisti. Con ciò, non

si vuole misconoscere il valore culturale ed economico espresso dalla estinta filiera della fotografia analo-

gica che, peraltro, prosegue ancora le sue manifestazioni, ma confinata in una nicchia sempre più esigua di

aristocratici cultori, quasi sempre spalleggiati da una pervicace astuzia mercantile. Anzi, se ne vorrebbero

valorizzare ancor più le potenzialità espressive, le contaminazioni e le declinazioni che il linguaggio fotogra-

fico ha assunto e fatto propri nei tempi più recenti. Il come non ha nulla di arcano od esoterico, sempli-

cemente riconosce il portato innovativo e liquido della materia digitale, di cui sono composte ormai tutte

le cose che – dalle più semplici alle più complesse – abitano e fanno vivere il nostro Mondo. È indicativo,

a tal proposito, il fenomeno della virtualizzazione generalizzata o globale che, in un flusso ininterrotto di

bit, avvolge e stravolge l’assetto identitario di Sistemi, Organizzazioni, di relazioni e di azioni individuali. La

fotografia analogica e le regole che ne governarono la diffusione oltre la pratica ritrattistica, non è più atti-

vabile, se non in ambiti di conservazione degli archivi o nel ristretto ed elitario nucleo di attivisti della stampa

di Fine-Art ai sali d’argento. Un nuovo Mondo di immagini senza materia, senza tempo e senza memoria

occupa il presente di chiunque produca gesti di comunicazione. L’occhio che registra con un click si trova

Pasta di Romagna, impronte di fabbrica.Pre-testo per una breve riflessione sull’atto fotografico.LORENZO AMADUZZI

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nelle tasche di tutti. Una protesi necessaria per stare nel mondo: il telefono cellulare; è proprio dalle sue più

evolute performances che si srotolano volumi di incommensurabile materia digitale, per lo più di consistenza

fotografica. L’alto grado di connettività reticolare tra le applicazioni software – è evidente che ci troviamo

nel dominio dell’Information Technology – e di interconnessione tra ricetrasmettitori hardware, produce

quell’illusione di ubiquità cui spesso siamo incapaci di sottrarci, subendone il fascino subliminale. Fatto sta,

comunque, che lo scenario entro cui agisce la socialità contemporanea è quello della comunicazione diffusa

e permanente rappresentata, con sempre maggiore influenza regolatrice, dai cosiddetti Social Networks.

Lo si voglia o meno, la condizione antropologica dell’umanità “globale” – financo o, forse, soprattutto ai

margini più estremi del mondo – avrà un carattere ibrido e neutro, derivato dalla simbiosi con lo strumen-

tario tecnologico. In questo quadro, la nuova fotografia, quella che ha cambiato pelle e sostanza, passando

dal trattamento chimico delle emulsioni sensibili in camera oscura, al trattamento computerizzato delle

informazioni raccolte dal sensore della fotocamera, sperimenterà potenzialità linguistiche inimmaginabili

in epoca antecedente. La materia dell’immagine è ora composta da entità immateriali, segnate da codici

illeggibili alla mente comune, ma eseguibili da un processore. Trasformate in apparenze, cioè rese visibili sulla

superficie retroilluminata di un monitor, accendono infinite possibilità d’uso o, quantomeno, tante quante

corrispondano alla volontà poietica di chi si cimentasse nella elaborazione digitale di un’immagine sintetica,

attraverso la sofisticata dotazione software oggi disponibile. Tutto ciò rafforzerebbe, non soltanto la teoriz-

zazione di un “prima analogico” ed un “dopo digitale”, ma escluderebbe per l’universo fotografico – sistema

di tecnologie, linguaggi, relazioni sociali e culture – ogni possibilità di ritorno al passato pre-numerico. E se,

per la funzione pubblica della fotografia tradizionale, si parlava già di falsi e menzogne in rapporto ad una o

molteplici idee di verità, l’atto fotografico – sempre più comune, diffuso e frequente perché relativamente

costoso – acquista, con l’opzione post-produttiva, un marcato valore manipolatorio. Dalla rappresentazione

alla simulazione, il passo è stato breve.

LORENZO AMADUZZI

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Il pastificio Ghigi è uno dei più antichi d’Italia, fondato nel 1870 dal fornaio e commerciante Nicola Ghigi. In quel-l’anno si realizzò il ponte sul fiume Conca, che significò per Morciano un potenziamento della sua vocazione commer-ciale e di mercato e centro di collegamento tra Rimini, il Montefeltro e l’alta val Conca.Nicola Ghigi decide di ampliare la propria attività inizian-do a produrre pasta secca per minestre. Il suo forno in via Ronci diviene un piccolo laboratorio artigianale: con macchinari rudimentali si produce pasta per Morciano e per i paesi limitrofi. Nicola muore nel 1894 e l’attività eco-nomica è ereditata dal figlio Stefano. Nel 1911 la Fabbrica di pane e pasta-salsamenteria è gestita dalla moglie di Ni-cola, Margherita, con l’aiuto del figlio maggiore di Stefano che si chiama come il nonno, Nicola.Nel 1922 gli altri fratelli, Angelo e Emilio, decidono di estromettere dall’azienda il fratello maggiore Nicola, co-mincia così la loro avventura nel mondo della pasta se-guendo le orme paterne.I due fratelli acquistano nuove macchine e incrementano la produzione: dai cinque quintali di pasta al giorno si passa ai venti e poi quaranta. Il mercato della pasta aumenta in tutta la Romagna: la bottega artigianale diventa una pic-cola industria. L’attività si sposta in via Roma, dove nel 1950 è costruito il nuovo Molino a cilindri e successiva-mente il Mangimificio per la fabbricazione degli alimenti zootecnici. Ancora oggi a Morciano non c’è famiglia che non abbia qualche parente che abbia lavorato in ‘Ghigi’. In questo periodo l’azienda raggiunge il massimo splendore: è un pastificio al pari della Barilla e della Buitoni. Ricordiamo tutti la squadra ciclistica che in quel periodo rappresenta il pastificio Ghigi e il rapporto di collaborazione con Fausto Coppi, la presenza di campioni come Aldo Moser, fratello maggiore di Francesco, Bariviera, Trapè, Baffi, lo spagnolo Suarez e il direttore sportivo Luciano Pezzi che divenne direttore sportivo della Squadra Nazionale di Ciclismo. La

pasta Ghigi è pubblicizzata sui giornali e in televisione con uno spot in cui un omino di nome Gigi lancia uno slogan abbastanza noto in quesi tempi, “Da Gigi un consiglio no-strano, Pasta Ghigi di Morciano”.Nel 1961 i due fratelli Angelo ed Emilio si separano. Nel 1964 Angelo inaugura il nuovo stabilimento a Rimini che si chiama Angelo Ghigi. Nello stesso anno muore il fratello Emilio che ha continuato a gestire la casa madre. A Emilio subentra il figlio Giorgio. La fabbrica ben presto si trova di fronte a grandi difficoltà che portano l’azienda alla fine degli anni ‘60 sull’orlo del fallimento. Sono anni di grave crisi in tutto il settore pastario: nel ventennio tra il 1960 e il 1980 il numero dei pastifici in Italia scende dai 730 a poco più di 200.Nel 1972 interviene GEPI, la finanziaria pubblica di salva-taggio delle aziende in crisi, che attraverso la controllata GEAL consente la ripresa della produzione e la salvaguar-dia dell’occupazione. Nel 1979 la Geal Ghigi è acquisita dal CON.SV.AGRI, un consorzio di nove cooperative agricole di Marche e Romagna che rileva l’intero pacchetto (Moli-no, Pastificio e Mangimificio) e dà avvio a un processo di ristrutturazione e adeguamento degli impianti. Le vendite e il fatturato aumentano e il marchio Ghigi riconquista un proprio prestigio a livello nazionale e internazionale. Agli inizi del 2000 il CON.SV.AGRI entra in una irreversibile e profonda crisi. Gli interventi di sostegno della Pubblica Amministrazione e il tentativo di costruzione di un nuovo stabilimento pro-duttivo a San Clemente non sono efficaci a impedire la Liquidazione coatta Amministrativa della Cooperativa che avviene nel dicembre del 2007.Oggi grazie alle azioni combinate delle due amministrazio-ni di San Clemente e di Morciano la produzione di pasta riprende con la nuova società, Ghigi Industria Agroali-mentare srl.

La pasta Ghigi dal 1870. ETTORE TOMMASOLI

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Un soggetto, due visioni.

Una coppia autoriale fuori dal comune, quella tra me e Daniele Lisi. Ci incontrammo nell’aula di Proget-

tazione Multimediale dell’Accademia di Belle Arti di Urbino, qualche anno fa. Dalle rispettive sponde ana-

grafiche – assai lontane tra loro, tanto che potrebbero alludere ad una relazione genitoriale – abbiamo da

subito condiviso, ciascuno nel proprio ambito poietico, un metodo di ispirazione antropologica nella indagine

visiva delle forme architettoniche in disuso. Lo strumento più flessibile utilizzato per questo genere di ricer-

ca è stato quello fotografico poiché consente di fissare, con totale fedeltà meccanica, le impronte prodotte

dall’azione del tempo sul mondo delle cose. Le prime aree che esplorammo insieme furono quelle occupate

da alcune Colonie a mare della Riviera, per poi passare sulle tracce lasciate dal lavoro di escavazione lungo

il corso del fiume Valmarecchia. Lo Stabilimento ex Ghigi di Morciano rappresenta la più recente opera di

mappatura fotografica compiuta in comune, secondo criteri tanto documentaristici che estetici. Sì, estetici,

poiché assai spesso l’esito cui può condurre un occhio sensibile e colto nell’attraversare i luoghi in abban-

dono è proprio quello di porne in risalto aspetti formali e visioni altrimenti non percepite.

Dichiarazione di intenti

In un’epoca di profonde mutazioni – economiche, sociali, culturali, etiche e tecnologiche –, pure accom-

pagnate da crescenti complessità di struttura l’idea di rappresentare, all’interno di una cornice rettangolare,

la forma immobile del degrado – o, comunque, i mutamenti morfologici del paesaggio contemporaneo

– restituendone una testimonianza diretta e partecipata, costituisce il cuore poietico di questo lavoro,

Postfazione degli autori.a cura di LORENZO AMADUZZI

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per il quale ci si è avvalsi quasi esclusivamente dello strumento fotografico. I luoghi e le cose che fungono

da protagonisti della scena – mai messa in scena, seppure in molti casi l’apparenza potrebbe richiamare il

progetto installativo – escludono la presenza dell’umano, inequivocabilmente evocato, però, dalle tracce

prodotte da passaggi consumati.

Pasta di Romagna

Quando viene interrotta un’attività di produzione per essere trasferita in altro sito e ne viene chiuso lo

stabilimento, l’area in cui sorge viene resa disponibile a sviluppi urbanistici alternativi. È come se morisse

una porzione di territorio e si alterasse l’equilibrio sociale di una Comunità. Non sappiamo in che modo la

dismissione del Pastificio Ghigi di Morciano, cresciuto in simbiosi con il centro cittadino, avrà influito sulla

coscienza identitaria dei suoi abitanti. È certo, tuttavia, che il lavoro di ricognizione fotografica durante la

fase di rimozione dei macchinari dall’edificio, abbia portato sulle tracce di una memoria recente e passata,

a cui si sono delicatamente prese le impronte. Oltre averne preservata la testimonianza, se ne è colta

l’espressione antropologica, il senso materiale e la portata estetica.

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LORENZO AMADUZZI Nato a Fano nel 1946, si è laureato in Storia dell’Arte all’Università di Urbino nel 1972, in Sociologia nel 1983 e nel 2008 in Fotografia al Corso di Progettazione Multimediale dell’ AABB di Urbino.Sino al 2000 si è occupato di Comunicazione d’Impresa, prima nel Veneto (Padova) poi in Romagna (Rimini). Lasciata l’attività professionale, ha ripreso l’utilizzo del mezzo fotografico che, già negli anni ‘70, gli valse riconoscimenti in ambito amatoriale (Padova, 1974, 1975, 1976).Oggi, dopo un’utile quanto matura esperienza formativa, si dedica a tempo pieno allo studio, alla ricerca ed alla sperimen-tazione narrativa in campo fotografico.Tra le mostre recenti: Silos. Materiali per un’Estetica delle Rovine, Fano (Pu), Saletta Nolfi, 2008e Ruggine, l’anima delle cose, Cesena, Centro Culturale S. Biagio, 2010.

DANIELE LISIÈ nato a Rimini nel 1982 e vive a Riccione. Nel 2003 si iscrive al corso di Progettazione Multimediale presso l’Accade-mia di Belle Arti di Urbino dove si laurea nel 2007 presentando la tesi: Architettura-Informale Colonie a Mare Rimini. Appassionato di architettura e storia dell’arte moderna, si interessa principalmente di Fotografia e Visual Design.Nel 2003 partecipa al Festival del Cinema di Pesaro all’interno dell’evento: Contatto per personal computer, azione + contatto, l’anno seguente partecipa all’evento/mostra Dislocazioni, Accademia di Belle Arti di Urbino, presentando il redesign title del film Insider di Michael Mann.Nel 2008 partecipa ad una personale presso la Galleria dell’Immagine, Rimini, con il progetto: Architettura-Informale, identità e mappatura fotografica delle ex Colonie a Mare. Nell’estate del 2008 partecipa alla collettiva Turismi presso Villa Mussolini, Riccione.Dal 2008 lavora come fotografo freelance e Web Designer. Attualmente porta avanti progetti di carattere fotografico, volti a tracciare l’identità del paesaggio attraverso i suoi elementi costitutivi, utilizzando la fotografia e i media come supporto di analisi e documentazione.

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