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POETI SICILIANI

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La Sicilia ha regalato alla cultura italiana grandi figure letterarie e ha al tempo stesso costituito un elemento di ispirazione profonda per gli scrittori di tutta la penisola. L’originalità e la ricchezza della sua tradizione ha generato così una “sicilianità” letteraria, che prende corpo in maniera evidente a partire dal XIX secolo con l’affermazione di una letteratura che, all’insegna dei canoni del Verismo, indaga e analizza le realtà sociali. E’ nelle pagine paradigmatiche dei Malvoglia di Verga (oltre che in quelle de I Vicerè di de Roberto) che la Sicilia acquista il diritto di residenza nel mondo letterario italiano.

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La Sicilia ha regalato alla cultura italiana grandi figure letterarie e ha al tempo stesso costituito un elemento di ispirazione profonda per gli scrittori di tutta la penisola. L’originalità e la ricchezza della sua tradizione ha generato così una

“sicilianità” letteraria, che prende corpo in maniera evidente a partire dal XIX secolo con l’affermazione di una letteratura che, all’insegna dei canoni del Verismo, indaga e analizza le realtà sociali. E’ nelle pagine paradigmatiche dei Malvoglia di Verga (oltre che in quelle de I Vicerè di de Roberto) che la Sicilia acquista il diritto di residenza nel mondo letterario italiano. Infatti, il teatro siciliano vanta di scrittori ed attori illustri che hanno contribuito a dare alla Sicilia una connotazione culturalmente forte.La grande avventura del teatro italiano ed europeo, moderno e contemporaneo, ebbe

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origine nell'Ottocento a Catania, dove il grande demiurgo di quest'arte, Angelo Musco, fondò nel 1903 la prima Compagnia Drammatica Dialettale Siciliana, diretta da Martoglio, riunendo intorno a sé un manipolo di bravissimi attori autodidatti, di cui facevano parte, oltre allo stesso Musco, Giovanni Grasso, Rosa Balistreri, Mimì Aguglia, Turi Pandolfini, Rocco Spadaro, Tommaso Marcellini ed altri ancora. I quali, per primi, misero in scena le opere di Verga, Martoglio, Pirandello, D'Annunzio, Rosso di San Secondo, Giusti Sinopoli, Domenico Macrì e di altri autori minori, riscuotendo ovunque un impareggiabile e inatteso successo. Se poi analizziamo il teatro siciliano nella tradizione mediterranea per conoscerne le varie tipologie ci rendiamo conto che lo stesso si caratterizza in varie espressioni: - le farse di carnevale mescolano la tradizione popolare e pagana, i cicli della vita e della morte, criticano una classe sociale usando la fantasia; - le sacre rappresentazioni dove c'è la lotta fra il bene e il male ed i suoi protagonisti sono uomini, demoni, angeli, Dio. A livello popolare in passato erano chiamate intrallazzate e consistevano nel rappresentare un dramma, composto da popolani, su un fatto religioso o un evento dell'Antico o Nuovo Testamento. L'intrallazzata comincia con il prologo per accennare ai fatti del poema e chiedere l'attenzione del pubblico e si conclude con qualche sentenza morale. - Le vastasate, invece, nascono a Palermo verso la fine del Settecento. Sono chiamate così perché i loro protagonisti erano i "vastasi", i facchini. Il teatrino in cui erano rappresentate era una baracca di legno detta "casotto". Il popolo ne era attore e spettatore. I temi erano semplici, a volte venivano inserite delle cantate. Il loro protagonista principale è "Nofriu" (Onofrio) che incarna le precedenti maschere siciliane di servi. - L'Opera dei pupi è il teatro d'ispirazione epico-cavalleresca. I Pupi sono le marionette armate del teatro epico popolare che operò a Napoli e a Roma. Fu don Giovanni Grasso ad introdurlo a Catania e in Sicilia nel 1861. Nell'isola si hanno due differenti scuole: quella palermitana usa i pupi alti 90 cm mentre le marionette catanesi, armate di spada e con elmo e scudo, sono alte 140 cm e con un peso di oltre 35 kg. Tra le famiglie di pupari più celebri della Sicilia si hanno quella di Francesco Puzzo (detto Don Ciccio) e dei fratelli Vaccaro. Tra i pupi più celebri si ricordano Orlando (cavaliere dall'abito rosso e l'elmo con un'aquila), Rinaldo di Montalbano (cavaliere generoso con abito verde e un leone nell'elmo), Angelica, Gano di Magonza (patrigno di Orlando e simbolo del tradimento), Carlo Magno (l'imperatore che dà il nome al ciclo carolingio), Ruggiero (il conte guerriero).

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VITALIANO BRANCATI

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Lo scrittore Vitaliano Brancati (Pachino (Sr) 1907 - Torino 1954) viene ricordato perché nelle sue opere spesso analizza in modo satirico la borghesia siciliana, perché spesso il suo umorismo si concentra nella visione amara della realtà. La sua carriera letteraria annovera opere illustri per la narrativa, la saggistica, il cinema ed il teatro. Tra le sue opere teatrali si ricordano l'atto unico "Everest", il dramma "Piave" del 1932, la farsa del 1939 "Questo matrimonio si deve fare", "Le trombe di Eustachio", "Don Giovanni involontario". "La governante" forse è la sua opera più nota. Proibita inizialmente

dalla censura, si ricorda nella rappresentazione di Turi Ferro e della Proclemer, moglie dell'autore, realizzata negli anni '60. L'opera tratta la storia di una famiglia siciliana trasferita a Roma. Il capo famiglia vive nel ricordo della figlia morta suicida a causa di un rimprovero paterno immeritato e nello stupore per il comportamento licenzioso del figlio e della nuora. Il protagonista si avvicina alla conformista governante Caterina, una donna integerrima che col suo moralismo vuole mascherare la sua omosessualità. L'opera si conclude tragicamente con il suicidio della governante.

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FEDERICO DE

ROBERTO

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Federico De Roberto nasce a Napoli nel 1861 ed è siciliano per parte di madre. Insieme al Capuana ed al Verga, egli rappresenta la scuola verista siciliana. Si affaccia alla vita letteraria al crollo degli ideali risorgimentali e con una forte avversione per l'enfasi sentimentale. Muore a Catania nel 1927. Va ricordato principalmente come romanziere. Il volume di racconti "La sorte" del 1887, "Documenti umani" del 1888, il romanzo "L'illusione" del 1891 (opera nota per la sua narrazione verista e d'introspezione psicologica) e "I Viceré" del 1984, un affresco della vita aristocratica siciliana e del fallimento risorgimentale sono solo alcune delle sue opere più celebri. Egli va ricordato anche come autore di opere teatrali, come "Il rosario" del 1912.

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LUIGI CAPUANA

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Luigi Capuana (1839-1915), autore di poesie e saggi, critico e autore per il teatro dialettale, fu tra i primi a raccogliere l'eredità naturalista di Zola. Determinante per la sua produzione letteraria fu l'incontro con Nino Martoglio. Sostenitore e teorico del verismo, fu docente di letteratura italiana all'università di Roma e di Catania. Nei suoi romanzi appaiono anche studi di situazioni psicologiche profonde. Tra le sue opere teatrali, raccolte in "Teatro dialettale siciliano" (1911-1921), si ricordano "Lu paraninfu", specialmente nella magistrale interpretazione di Angelo Musco, "Lu vampiru" del 1912 e "Quacquarà" rappresentata nel 1916 dalla Compagnia

Angelo Musco.

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NINO MARTOGLIO

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Nino Martoglio (1870-1921) fu un abile scrittore teatrale che descrisse una Sicilia colorita e che rappresentò personaggi popolani. Fu direttore di compagnie siciliane ed animatore teatrale ma anche regista cinematografico, poeta dialettale e giornalista. Nel giornalismo esordì pubblicando, dal 1889 al 1904, il settimanale "D'Artagnan" con lo scopo di discutere arte, letteratura, teatro, politica, ecc. L'iniziativa ebbe successo, anche perché Martoglio vi presentò le sue prove poetiche, dialettali e piene di comicità immediata. Ebbe un ruolo predominante nell'affermazione nazionale del teatro in vernacolo siciliano grazie alla sua attività di scopritore

di nuovi talenti come Giovanni Grasso ed Angelo Musco, per aver fatto rappresentare come direttore di compagnie teatrali opere del nisseno Pier Maria Rosso di San Secondo e dell'agrigentino Luigi Pirandello e come scopritore di nuovi testi teatrali. Nel 1903 fondò la "Compagnia drammatica siciliana". Dal 1913 al 1915 intraprese la carriera di regista cinematografico. Tra i suoi film si ricordano "Teresa Raquin" e "Sperduti nel buio". Nel 1919 fondò la "Compagnia Drammatica del Teatro Mediterraneo" che vantava nell'organico Pirandello e Rosso di San Secondo e che rappresentò testi importanti come il "Ciclope" d'Euripide e quelli scritti da Pirandello. Tra le sue opere teatrali maggiori si ricordano "Nica" del 1903 rappresentata in teatro da Giovanni Grasso, "L'aria del Continente" del 1915 e "San Giuvanni Decollato" del 1908 rappresentate in teatro da Angelo Musco.

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GIUSEPPE FAVA

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Giuseppe Fava (Palazzolo Acreide (Sr) 1925 - Catania 1984), scrittore e autore drammatico, si trasferisce a Catania da giovane e qui intraprende l'attività di giornalista per il quotidiano "Espresso sera". "Cronaca di un uomo" del 1966, premio Vallecorsi, e "La violenza" del 1970 e premio Idi, segnano l'inizio della sua carriera di scrittore teatrale. Nei suoi testi si trova la formula del "teatro documento" e quella della dimensione onirica. Tra gli altri suoi testi si ricordano "Il proboviro" del 1972, "Bello, bellissimo" del 1974, "Opera buffa" del 1979, "Sinfonia d'amore" del 1980, "Foemina ridens" del 1982 e

"L'ultima violenza" del 1983. Quest'ultima va ricordata come suo testamento spirituale visto che l'anno dopo, davanti al Teatro Verga di Catania, fu ucciso in un agguato mafioso. L'opera può esser intesa come un documento di ciò che può accadere in una società dominata dalla violenza mafiosa.

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LUIGI PIRANDELLO

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Luigi Pirandello (1867-1936) si distingue per la sua concezione pessimistica dell'esistenza, come un novellista-romanziere e drammaturgo dalle notevoli capacità e per le sue abili descrizioni di personaggi popolani siciliani. Inizialmente diffidava del teatro considerandolo addirittura, per citare le sue stesse parole, "un'arte minore". Grazie anche alle sollecitazioni ricevute dagli amici, allo stretto legame con Nino Martoglio e dal felice connubio con attori del calibro di Giovanni Grasso ed Angelo Musco, Pirandello ha scritto dei testi teatrali davvero unici. Nella sua attività teatrale si vede sia la rappresentazione della sua

Sicilia che quella del mondo borghese ed evidenzia una amara sfiducia ed una sarcastica denuncia nei confronti delle convenienze sociali e delle apparenze. Da creativo intelligente che fu, Pirandello non escludeva il possibile apporto che gli attori potevano dare alla stesura finale di un testo. Il suo repertorio è sempre una grossa fonte d'ispirazione per il Teatro Stabile di Catania, soprattutto ad opera dell'attore Turi Ferro. Il sodalizio Pirandello-Musco nasce con l'opera "Pensaci, Giacomino!". L'opera parla del matrimonio tra l'anziano prof. Toti con una giovinetta innamorata di Giacomino. Il matrimonio ha l'unico scopo di costringere il governo a pagare a lungo una

pensione. Lo scandalo provocato da tale unione fa intervenire i parenti, il parroco ed il direttore della scuola, ma alla fine le idee e l'umanità del professore avranno la meglio sulla sterile convivenza. Tra le altre sue opere teatrali maggiori si ricordano: "Il berretto a sonagli" (1917) la cui prima rappresentazione romana fu attuata da Angelo Musco, "Il giuoco delle parti" del 1918 e "Sei personaggi in cerca d'autore" (i sei personaggi sono il padre, la madre, la figliastra, il figlio, il giovinetto e la bambina; questo è un dramma che dimostra come il teatro può rappresentare solo una delle interpretazioni possibili della realtà).

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PIER MARIA ROSSO di SAN

SECONDO

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Il nisseno Pier Maria Rosso di San Secondo (1887-1956) realizza un patrimonio letterario tendente al lirismo, alla pessimistica visione del rapporto tra uomo e società e che interpreta bene la solitudine, un certo contrasto tra passione e razionalità. Tra le sue opere si ricordano: "La sirena ricanta" del 1908, "La bella Addormentata" del 1919 e Tra vestiti che ballano. "Marionette che passione!" del 1918 è forse la sua opera teatrale più famosa. E' un dramma che prevede lo scontro tra tre personaggi che alla

fine dell'opera si rivelano come tre marionette in balia delle passioni. L'opera in questione va ricordata come un capolavoro del teatro grottesco. Essa fu segnalata da Pirandello, grande amico dell'autore, al capocomico Valli che la rappresentò.

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LEONARDO SCIASCIA

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Leonardo Sciascia (1921-1989) per sua stessa ammissione, scrive della storia siciliana e di come essa sia una continua sconfitta della ragione. Egli scrive opere dal forte impegno civile e dalla forte laicità. Le sue opere sono state spesso rappresentate in teatro, a partire da "Recitazione della controversia liparitana" nel 1970 dalla Compagnia del Teatro Stabile con attori del calibro di Giuseppe Pattavina, Umberto Spadaro, Michele Abruzzo, Leo Gullotta e per la regia di Franco Enriquez, "Il giorno della civetta" che fu rappresentato ad esempio nel 1973 dal Teatro Stabile fino ad arrivare alla

rappresentazione del 1980 di "A ciascuno il suo" grazie ad un adattamento teatrale di Ghigo De Chiara e con attori come Tuccio Musumeci, Giuseppe Pattavina e Turi Ferro.

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GIOVANNI VERGA

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Il catanese Giovanni Verga (1840-1922) si distinse inizialmente come scrittore vicino alla corrente letteraria della scapigliatura e poi come scrittore verista che descrisse abilmente la vita dei contadini e dei pescatori siciliani. Le sue opere sono spesso state utilizzate per il cinema. La sua vasta attività letteraria comprende anche una fase teatrale caratterizzata da una decina di opere tra le quali si distinguono "Vita dei Campi", "La Lupa" del 1896 e "Dal tuo al mio" del 1903.

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SALVATORE QUASIMODO

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Nella prima fase della sua evoluzione Salvatore Quasimodo (1901-1968) aveva mostrato predilezione per le immagini rarefatte e per l'ambientazione in una Sicilia dal sapore mitico. In seguito la sua opera cominciò a riflettere in modo più diretto l'opposizione al regime fascista e l'orrore della guerra, particolarmente in Giorno dopo giorno (1947). In seguito prevalse un andamento di carattere narrativo, non di rado legato a temi di cronaca. Quasimodo figura tra i maggiori interpreti della condizione dell'uomo moderno. Egli svolse una funzione significativa nella

letteratura del Novecento, come dimostrano i numerosi riconoscimenti a lui tributati dalla cultura internazionale, che culminarono nel 1959 con l'assegnazione del premio Nobel per la letteratura. Nella sua opera letteraria egli rivelò il suo carattere pensoso e profondamente umano e nello stesso tempo giunse, attraverso un itinerario ricco di svolte e di approfondimenti, a soluzioni originali e ricche sul piano intellettuale ed artistico. Nelle prime raccolte Acque e terre (1930) e Ed è subito sera (1942) Quasimodo sviluppò i temi connessi con la solitudine, con lo sradicamento dell'uomo, che egli individuava anche nella sua personale condizione di esule profondamente legato al mondo della sua infanzia, ossia ad una dimensione di bontà e di sanità non più raggiungibile. Egli aderì all'Ermetismo spontaneamente, per la sua naturale esigenza di concretezza e perchè vide nella nuova poesia un sussidio contro il Romanticismo, il sentimentalismo, l'autobiografismo e qualcosa di utile per il raggiungimento di una più acuta visione delle cose; il suo ermetismo risultò in ogni caso originale, poiché egli aderì ad un linguaggio scarno ma non privo di sfumature musicali e caratterizzato da un velo di tristezza. Il paesaggio della Sicilia è quindi al centro della sua ispirazione nella

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prima parte della sua produzione letteraria ma non viene meno nei

successivi momenti della sua storia spirituale. La sua stessa adesione alla sensibilità greca, che egli sentì come viva e importante, si collega in parte al legame affettivo che lo univa al mondo siciliano, che egli considerò particolarmente vicino a quello ellenico. Di tale adesione è frutto un libro di traduzioni di lirici greci (1940), importante come autentica opera di poesia, oltre che per l'aspetto culturale.

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GESUALDO BUFALINO

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Gesualdo Bufalino (1920 — 1996) è stato uno scrittore italiano. Gesualdo Bufalino, negli anni oscuri del suo anonimato, ha sempre vissuto sulla falsariga di una straordinaria tensione intellettuale. Affascinato sin da ragazzino dalla parola scritta e dai libri, trascorreva ore nella piccola biblioteca del padre, fabbro ferraio con l'hobby della lettura. Incappato fortunosamente in un vecchio vocabolario, ne reinventò la funzione come fantastico strumento di gioco e di apprendimento. Al liceo, che frequentava inizialmente a Ragusa e poi dal 1936 a Comiso, ebbe come insegnante d'italiano Paolo Nicosia, valoroso

dantista e allievo tra i prediletti del Cesareo. Ha tutte le carte in regola per essere annoverato “in cotanto senno” Gesualdo Bufalino, scrittore siciliano scomparso nel 1996, venuto alla ribalta, all’età di sessant’anni, dopo la pubblicazione del suo primo romanzo, Diceria dell’untore, che gli valse il Premio Campiello 1981. Nella sua poliedrica produzione letteraria, che conta opere di narrativa, saggistica, poesia, traduzioni specie dal francese, si possono riscontrare infatti tematiche, sentimenti, atmosfere, valori sociali, peculiarità tali da farlo entrare di diritto nella schiera degli autori conterranei caratterizzati da quella specificità del sentire definita da Leonardo Sciascia “sicilitudine”. Tutti i suoi scritti sono permeati da un forte senso di appartenenza alla realtà isolana e soprattutto a quel “triangolino di Sicilia”, la provincia di Ragusa, e ancor più a Comiso, il paese natale in cui lo scrittore è vissuto fino alla fine dei suoi giorni. Uomo che ha dedicato pressoché tutta l’esistenza alle lettere, al piacere per il sapere, che ha letto tous le livres nel chiuso del suo studio-biblioteca, Bufalino dimostra la sua “sicilianità” anche per quest’esigenza, che lo accomuna ai più grandi scrittori dell’isola, di

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allargare i propri orizzonti culturali e di confrontarsi con altre civiltà

letterarie, senza rinchiudersi in una compiaciuta contemplazione del proprio mondo isolano o in una sterile lamentazione dei propri mali. L’amore dell’autore per la sua terra d’origine è espresso soprattutto, ma non solo, negli scritti che corrono sul filo della memoria, per la quale Bufalino nutre un vero e proprio culto proustiano.

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ELIO VITTORINI

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Elio Vittorini (1908-1966) è stato uno scrittore italiano. Poiché il padre era ferroviere, egli trascorse la maggior parte della sua infanzia in piccoli paesi della Sicilia, che faranno da sfondo ai romanzi della maturità: sfondo di miseria e di solitudine, in una natura arida e malsana. In Vittorini agisce un forte radicalismo intellettuale, costantemente impiegato a verificare i valori della cultura e dell'arte con le istanze della società. In lui agiscono due impulsi: da una parte quello razionale, che lo spinge a un continuo ammodernamento delle forme e dei contenuti.

Dall'altra l'interesse per le costruzioni narrative mitico-simboliche, più evidente nella produzione degli anni immediatamente precedenti la guerra. Il vitalismo dannunziano viene incanalato nel realismo e rivisto alla luce di una particolare, mitica, lettura dei 'classici' statunitensi. Lo svecchiamento apportato da Vittorini nel panorama culturale italiano fu importantissimo e decisivo, al di là dei risultati delle sue specifiche produzioni di fiction.

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RAFFAELE POIDOMANI

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Raffaele Poidomani (1912-1979) nasce a Modica, da famiglia di nobile lignaggio. Dopo la maturità classica, conseguita da esterno presso il Liceo "Campailla" di Modica e una lunga frequenza alla Facoltà di Medicina e Chirurgia di Bologna, si laurea in legge a Catania nel 1939. In quell'anno pubblica anche la sua prima raccolta di versi, "Io, pellegrino di sogni". Si occupa intanto anche di gionalismo, impegnandosi nella denuncia di problemi sociali e politici. Alla fine della guerra, che lo ha visto soldato sul fronte greco e quello Jugoslavo, è fra i partigiani, nelle brigate operative delle

Marche. Nel dopoguerra sviluppa e affina (tra Milano, Roma, Napoli e Firenze) la sua passione per il giornalismo, collaborando a diverse testate (Paese sera, L'Umanità, Epoca e altre). Proprio la collaborazione con L'Umanità segna il suo esordio nella narrativa. Sul quotidiano milanese esce infatti a puntate, nel 1949, il lungo racconto "Fossili". Intanto negli anni '50 conosce Federica Dolcetti affermata pianista, la quale diventerà sua compagna di vita e moglie. Ma la sua consacrazione come scrittore Poidomani la deve a "Carrube E cavalieri" (Roma,1954), una vera e propria saga familiare che è il suo capolavoro: un romanzo che lo colloca fra i "pochissimi narratori autentici che abbiamo in Italia", come afferma Brunello Vandano nella prefazione della seconda edizione(Ragusa,1970). Nel 1960 dà alle stampe "Catania giorno e notte", specchio della società etnea del tempo. Nel 1964 pubblica altre due raccolte di versi, "Filopoetica" e "Novembrina litterarura" e nel 1966 un prezioso volumetto di indagine storica su "La peste a Modica nel 1626". Negli anni '70 si preoccupa di riordinare i libri della futura biblioteca comunale di Modica. Un altro successo letterario è "Tempo di scirocco"(1971), una serie di racconti in cui i protagonisti, carichi di

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umanità varia e "altra", si propongono come campioni di un mondo

regolato da leggi improbabili ed insieme affascinanti, dettate dall'assurdo, dal grottesco e dall'inverosimile: un mondo "ai margini del silenzio e del tempo".

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Alessio Di Giovanni

Alessio Di Giovanni è uno dei più grandi poeti dialettali di Sicilia.

Luigi Russo lo definì il più grande cantore degli umili d’Italia dopo il

Manzoni; Federico Mistral, premio Nobel francese per la letteratura

nel 1904, apprese il dialetto siciliano per leggerlo in versione

originale, mentre Giovanni Verga ebbe a definire l’arte digiovannea

“viva e sincera riproduzione della vita”. Il poeta ciancianese, che

s’era assunto il compito di rinnovare la lingua e la poesia siciliana

liberandole dalle svenevolezze dell’Arcadia, cantò le voci del feudo,

cui volle aggiungere un altro tema, quello della zolfara, che avrebbe

riscosso un notevole interesse da parte di autori del calibro di L.

Pirandello, T. Aniante, G. Giusti-Sinopoli, P. M. Rosso di San

Secondo, L. Sciascia, che affermò che senza l’avventura dello zolfo

in Sicilia non ci sarebbe stata l’avventura dello scrivere. Di Giovanni

lo fece con una potenza descrittiva che ha pochi eguali nella nostra

storia letteraria, anche nazionale. Si vedano, ad esempio, i sonetti

della zolfara, così asciutti, scultorei, drammatici nella loro

essenzialità da trasformarci in spettatori dai semplici lettori che

siamo. Tale facoltà pittorica è uno dei tratti salienti dell’autore

ciancianese, che aveva esordito proprio come critico d’arte, per cui

tutta la sua produzione poetica può essere considerata un grande

affresco della vita degli umili che popolavano il latifondo e

consumavano la loro esistenza alla luce di un’acetilene, in zolfara.

A. Di Giovanni, oltre che poeta e critico d’arte, fu saggista,

folklorista, drammaturgo e romanziere; anzi è l’unico romanziere ad

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avere scritto in siciliano. La prima del suo dramma in tre atti

Scunciuru avvenne nel 1908 al Broadway Theatre di N. York, ad

opera della compagnia di Mimì Aguglia e suscitò grande interesse

del pubblico e della critica. La sua produzione si muove lungo

alcune direttrici sulle quali, per motivi di spazio, non possiamo

soffermarci: Verismo, Decadentismo, Francescanesimo e

Felibrismo. Senza il movimento felibrista, secondo alcuni studiosi,

non ci sarebbe stato il DG che conosciamo. Nulla di più inesatto.

Dal movimento culturale occitanico Alessio Di Giovanni non ebbe

nulla, mentre gli diede davvero tanto. D’altra parte, quando il

maestro del felibrismo, F. Mistral, lo nominò socio del sodalizio, il

nostro giovane autore aveva composto la maggior parte delle sue

opere. Se felibrismo significa attaccamento alle radici, amore per il

luogo e la lingua natia, vivere con il popolo, alla cultura popolare

attingere per le proprie composizioni, pur restando poeta culto,

ADG fu felibrista e tale sarebbe stato anche senza il movimento

culturale transalpino. Il Francescanesimo discende dall’educazione

familiare, è connaturato al suo amore viscerale per tutte le cose del

creato, alla sua ingenuità di poeta e alla devozione verso San

Francesco, nel quale il vate ciancianese vede l’alter Christus, che

avrebbe portato ad una palingenesi dell’umanità, istaurando sulla

terra la città francescana dell’amore universale nella quale si

sarebbero stemperate tutte le contraddizioni del suo tempo. Di

Giovanni e il Decadentismo: ogni uomo è figlio del suo tempo. Il DG

ne era consapevole e non è innaturale che, anche a livello

inconscio, abbia subito l’influsso di quel movimento. Si leggano, a

riprova, alcune sue composizioni poetiche e il romanzo intitolato

L’uva di Sant’Antonio. Circa il Verismo non possiamo che

affermare che il di Giovanni fu essenzialmente un realista, che del

Verismo accetta il canone dell’osservazione diretta, l’oggettività

della riproduzione delle vicende narrate. Ciò non significa che egli,

come il Verga, resti impassibile dinanzi al dipanarsi delle vicende o

ai drammi delle sue creature, perché mentre nello scrittore

catanese i vinti sembrano condannati ab aeterno, nelle pagine del

Nostro per essi c’è sempre una possibilità di riscatto e in fondo al

tunnel s’intravede una luce foriera, seppure fioca, di un avvenire

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migliore, dove sia preservata la dignità di ogni uomo, nostro fratello

in Cristo e San Francesco. Tra le Opere: Voci del feudo, Palermo,

1938; A lu passu di Giurgenti, Catania, 1906; Cristu, ode siciliana,

1905; Lu puvureddu amurusu, Palermo, 1906; Scungiuru, Palermo,

1908, Gabrieli lu carusu, Palermo,1910; Mora! Mora! (pubblicato,

assieme ai due precedenti drammi, nel volume Teatro siciliano,

Catania,1938); LaImmagine racina di Sant’Antoni (L’uva di

Sant’Antonio), Catania, 1938; Lu saracinu, Palermo, 1980

(postumo).