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1 PRESENTAZIONE “Il lavoro cambia, il welfare quando?”: il convegno intendeva affrontare la problematica dello Stato sociale stretto tra le trasformazioni che hanno profondamente modificato il mondo del lavoro e un quadro normativo emerso dalla realtà degli anni Sessanta e di questa direttamente espressione. L’importanza della riflessione si lega soprattutto all’evidenza che, mentre alla ribalta sono saliti prepotentemente temi rilevanti sul piano simbolico - ma non altrettanto sul piano dello sviluppo economico e sociale complessivo –, è rimasto e rimane sostanzialmente in ombra il tema a nostro giudizio prioritario. Quello della necessità di una riforma strutturale di tutto l’impianto del welfare, iniziando dalla individuazione di nuove tutele per chi opera nell’area del lavoro frammentato: gli atipici, i parasubordinati i co.co.co.. Per un confronto di merito abbiamo invitato autorevoli esponenti del Sindacato e della Confindustria: Guglielmo Epifani e Guidalberto Guidi. L’incontro pubblico è stato preceduto dai contributi, pubblicati sul sito della Fondazione, di Giuliano Cazzola, Pietro Ichino, Andrea Moltrasio, Laura Pennacchi, don Francesco Poli, Roberto Prometti. Nonostante questa forte aspettativa, il convegno non ha completamente centrato l’obiettivo, sia per ragioni indipendenti dalla volontà dei relatori (blocco dell’autostrada – tant’è che la prima parte del convegno si è sviluppata in collegamento telefonico con Guidi), sia soprattutto perché la contingenza della crisi della Fiat, in quel momento al suo apice, ha finito inevitabilmente per sovrapporsi al tema programmato. I contenuti emersi dal confronto ci sono parsi comunque rilevanti e riteniamo utile quindi pubblicare gli atti del convegno, accompagnati dai contributi dei commentatori già presenti sul nostro sito web. Augusto Benvenuto

PRESENTAZIONE - fondazionezaninoni.org · ricercatrici: Annalisa Rosselli, ... la Confindustria con il dott. ... La tela è una sorta di ordito e trama, anche rada se

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PRESENTAZIONE

“Il lavoro cambia, il welfare quando?”: il convegno intendeva affrontare la

problematica dello Stato sociale stretto tra le trasformazioni che hanno profondamente

modificato il mondo del lavoro e un quadro normativo emerso dalla realtà degli anni

Sessanta e di questa direttamente espressione.

L’importanza della riflessione si lega soprattutto all’evidenza che, mentre alla

ribalta sono saliti prepotentemente temi rilevanti sul piano simbolico - ma non

altrettanto sul piano dello sviluppo economico e sociale complessivo –, è rimasto e

rimane sostanzialmente in ombra il tema a nostro giudizio prioritario. Quello della

necessità di una riforma strutturale di tutto l’impianto del welfare, iniziando dalla

individuazione di nuove tutele per chi opera nell’area del lavoro frammentato: gli atipici,

i parasubordinati i co.co.co..

Per un confronto di merito abbiamo invitato autorevoli esponenti del Sindacato e

della Confindustria: Guglielmo Epifani e Guidalberto Guidi. L’incontro pubblico è stato

preceduto dai contributi, pubblicati sul sito della Fondazione, di Giuliano Cazzola, Pietro

Ichino, Andrea Moltrasio, Laura Pennacchi, don Francesco Poli, Roberto Prometti.

Nonostante questa forte aspettativa, il convegno non ha completamente centrato

l’obiettivo, sia per ragioni indipendenti dalla volontà dei relatori (blocco dell’autostrada –

tant’è che la prima parte del convegno si è sviluppata in collegamento telefonico con

Guidi), sia soprattutto perché la contingenza della crisi della Fiat, in quel momento al

suo apice, ha finito inevitabilmente per sovrapporsi al tema programmato.

I contenuti emersi dal confronto ci sono parsi comunque rilevanti e riteniamo

utile quindi pubblicare gli atti del convegno, accompagnati dai contributi dei

commentatori già presenti sul nostro sito web.

Augusto Benvenuto

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GianCarlo Santalmassi: La semplicità, come diceva Marco Lodoli in un bellissimo articolo su Repubblica, non è la facilità, la semplicità è la risoluzione di una complessità. Semplicemente, allora, dirò che circostanze fortuite e fortunate (ma la fortuna occorre meritarsela) vogliono che su un tema così dibattuto e contrastato da anni, su un wellfare nuovo che si fa attendere, a fronte di un lavoro che cambia, avvenga qui, stasera, a Bergamo, grazie alla Fondazione Zaninoni, un confronto fra Confindustria e sindacato Cgil a livelli così alti come non è mai avvenuto dopo la rottura dell’unità sindacale. Per cui adesso procediamo all’apertura del dibattito, qui al palazzo dei Congressi ‘Giovanni XXIII’ con l’atteso saluto - molto simpatico, se ben ricordo quello dell’anno scorso – della presidente della Fondazione, Pia Locatelli. Pia Locatelli: Benvenuti a questo secondo incontro della Fondazione A.J.Zaninoni, e grazie per la vostra presenza, sempre così grande, sempre così affettuosa. Credo che la maggior parte di voi già conosca la Fondazione e i suoi scopi. Permettetemi però di riassumerli brevemente per coloro che non hanno ancora avuto modo di conoscerla. La Fondazione nasce per ricordare Jack Zaninoni e per dare continuità alla sua attività e al suo pensiero. Jack era un imprenditore convinto che il lavoro dovesse essere un continuo processo di apprendimento e di sviluppo personale e che il successo delle aziende dipendesse molto da quanto queste investono nei loro collaboratori, nella loro formazione e coinvolgimento nel progetto aziendale. Da qui nasce l’impegno della Fondazione per la diffusione della cultura del lavoro nel suo significato più profondo di progetto di vita; ancora da qui il fatto che l’ambito principale della nostra attività è la formazione nella sua accezione più ampia, un concetto che ho voluto rafforzare con un riguardo particolare alla promozione di opportunità equivalenti che consentano a donne e uomini di realizzarsi nella vita privata, professionale e pubblica. Questi sono i nodi fondamentali della Fondazione, ma ci sono anche altre aree di attività che non vorrei ripetere per non annoiare chi ne è già a conoscenza. Le nostre finalità e le attività fino ad ora svolte sono tutte descritte nel nostro portale (www.fondazionezaninoni.org). Il portale è stato un impegno di questi mesi. Abbiamo fatto alcune riflessioni sul metodo, cioè su come sia possibile coinvolgere, o almeno aspirare a farlo, un’intera e variegata comunità fatta da persone, enti, associazioni, istituzioni. I nostri convegni infatti si propongono di stimolare un dibattito aperto non solo alla società bergamasca, ma ad una platea più ampia che partecipi in modo attivo, contribuendo a definire le questioni che sono messe in discussione e trovando nella Fondazione uno stimolo culturale e uno strumento di iniziativa e di promozione. Qualcuno di voi avrà visto sul nostro portale la presentazione dell’iniziativa di oggi con i commenti sull’argomento del professor Pietro Ichino, del politologo Giuliano Cazzola, dell’economista Laura Pennacchi oltre che di personalità della nostra città: Andrea Moltrasio, presidente dell’Unione Industriali (purtroppo influenzato oggi), don Francesco Poli, direttore dell’Ufficio pastorale sociale della Curia, Roberto Prometti, segretario provinciale della Uil. Questo per dare il senso di un coinvolgimento ampio del livello locale e del livello nazionale. Ed ora molto rapidamente un breve resoconto delle attività della Fondazione di questi ultimi mesi, perché ci siamo impegnati a fare un resoconto da un’iniziativa all’altra: prima di tutto voglio ricordare l’avvio del corso di laurea in ingegneria tessile, per l’istituzione del quale abbiamo lavorato in collaborazione con l’Università, l’Unione Industriali, il Comitato dei Tessili, la Pro Universitate: una settantina di studenti provenienti dalla nostra e da altre province hanno scelto di frequentarlo (alcuni di loro sono qui in sala) ed è un avvio

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promettente. Ne seguiamo i passi quasi con trepidazione perché sentiamo il successo di questo corso parte della mission della Fondazione. Abbiamo dato avvio ad una iniziativa editoriale, il periodico “Quaderni della Fondazione Zaninoni”, per aprire un rapporto costante di informazione sulle attività istituzionali della Fondazione. Il primo numero è già stato pubblicato e spero che lo abbiate ricevuto. Comunque alcune copie sono a disposizione nella hall. Stiamo preparando il secondo quaderno che conterrà i risultati di una ricerca -che abbiamo affidato a tre studiose, la professoressa Bettio dell’Università di Siena e due giovani ricercatrici: Annalisa Rosselli, dell’Università di Roma Tor Vergata, e Giovanna Vingelli, dell’Università della Calabria- sul tema del Gender Auditing dei bilanci pubblici. Il Gender Auditing, o Gender Budget Analysis, è l’analisi delle entrate e delle spese di un bilancio pubblico che evidenzia i diversi effetti che le entrate e le spese hanno rispettivamente per le donne e per gli uomini. Questa analisi non riguarda specifiche forme di bilancio separate e nemmeno l’aumento delle spese per programmi destinati alle donne, ma mostra come il flusso delle entrate e delle uscite ed i cambiamenti nella struttura della tassazione abbiano un impatto differente per uomini e donne. E’ uno studio che mettiamo in primis a disposizione delle Amministrazioni pubbliche perché nel loro mandato facciano riferimento alle questioni di genere cioè degli uomini e delle donne. Altre iniziative, portate a termine o in corso, sono riportate nel nostro portale. E veniamo all’iniziativa di oggi che si colloca in continuità con il tema dell’incontro di febbraio intitolato: “L’Europa e il lavoro. Flessibilità, diritti, tutele” e che si inserisce nel filone dell’analisi dei meccanismi del mercato del lavoro, che è un’altra delle finalità della Fondazione. A febbraio avevamo detto che sull’argomento nuovi orizzonti vanno cercati e questa ricerca è una necessità che le trasformazioni del lavoro, dei lavori impongono. Abbiamo invitato a parlarne due rappresentanti delle parti sociali protagoniste della scena attuale: la Confindustria con il dott. Guidi, Responsabile delle relazioni industriali e degli affari sociali, e la Cgil con il suo nuovo Segretario generale, Guglielmo Epifani. Sono le parti in questo momento più lontane e volutamente le abbiamo invitate, augurandoci che un incontro in più, slegato dalle contingenze che comunque premono, serva a fare progressi, serva a proporre soluzioni condivise, e soprattutto utili a far andare di pari passo i cambiamenti nelle tipologie di lavori, che si moltiplicano, e la trasformazione del welfare che invece stenta a realizzarsi. Così come stentano a diffondersi il concetto e la pratica della formazione per tutto l’arco della vita che è forse la sfida vera quando si ragiona di flessibilità. Vorrei che in questa riprogettazione del welfare ci fosse attenzione alla presenza o meglio all’assenza delle donne nel mercato del lavoro. Siamo con la Spagna il Paese con il minor numero di donne che lavorano –ed è un bello spreco di intelligenze. E siamo anche, come conseguenza della scarsa presenza di donne che lavorano, il Paese che fa meno figli in Europa e nel mondo. E’ un negarsi un futuro come Paese. Anche per questo vorremmo lavorare su questi temi. Un grazie a Epifani, un grazie al dottor Guidi –e speriamo di averlo qui presto- ed un grazie a Giancarlo Santalmassi che è venuto a darci una mano per far dialogare queste due parti sociali che ci auguriamo alla fine di questo incontro possano essere un po’ meno lontane. Grazie ancora. Santalmassi: Grazie a Pia Locatelli. Come tutti i giornalisti il massimo che posso dire è “so di non sapere”, e queste occasioni sono fondamentali per consentire a chi fa un mestiere come il mio, destinato oggi ad essere il terminale di un terminale, di prendere

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contatto con la realtà che è sempre più sorprendente, diversa, articolata e complessa di come uno se la immagina. Vedete, io non ho conosciuto Jack Zaninoni -mi piace chiamarlo Jack- ma quando ho chiesto qui a Bergamo, che non mi è una città sconosciuta naturalmente, tutt’altro, o altrove nel Paese chi fosse Jack, devo dire di averne sentito soltanto parlare unanimemente bene e proprio relativamente al tema di stasera. In un tempo in cui si discute del lavoro che cambia, ma di un welfare che non cambia ancora all’altezza dei mutamenti sociali e della complessità della situazione, debbo dire che mi piace far mio uno slogan alternativo a quello di quel celebre autore che diceva “essere o avere”, e che ho ritrovato nelle carte e negli atti di Jack Zaninoni e della sua Fondazione: “essere”, forse, è uguale a cosa fare e come fare. Quindi non è più “essere o avere” l’alternativa. Semmai lo sia stato qualche volta, quel tempo è finito. Una sola parola dirò, perché poi con nomi di questo spessore accanto, il compito di un giornalista è soltanto quello di farsi rapidamente da parte e tirar fuori il meglio da coloro che intervengono stasera, e che si incontrano per la prima volta dopo quasi un anno a questo livello fra Cgil e Confindustria, cioè tra due parti che hanno qualcosa di importante da dire su questo tema. Voglio soltanto ricordare che “complessità sociale’’ è un concetto che abbiamo tutti molto presente, ma che se dovessimo esemplificare non sapremmo da che parte cominciare. E allora piace ricordare il concetto, l’idea, l’immagine che io mi sono fatto della complessità sociale parlandone con Ilya Prigogine, che per l’elaborazione di questo concetto vinse il premio Nobel. Immaginate una grande cornice, enorme, che tiene insieme una tela diversa dalla solita tela tradizionale. La tela è una sorta di ordito e trama, anche rada se volete, fatta con dei fili elastici, con una loro tensione. Se voi andate a toccare il quadrato ultimo in fondo a destra, il più periferico che potete immaginare in questo tessuto fatto di fili elastici, e fate in modo che i quattro lati si tocchino tra loro, proprio pizzicandolo, voi vedrete modificarsi il territorio attorno, la trama e l’ordito immediatamente attorno, ma se prendeste la lente di ingrandimento scoprireste che una modifica è intervenuta anche nell’angolo opposto e più lontano. Questa è la complessità di oggi. E se la complessità la trasformiamo nella complessità mondiale, perché questo accade in tempi di globalizzazione, allora vi accorgereste che si riesce a capire perché incoronata l’anno scorso in Australia una nigeriana “miss mondo”, oggi in Nigeria accada quello che sta accadendo, una tragedia che sarebbe altrimenti incomprensibile. Ma questa è la complessità: toccare una cosa, anche la più distante, e vederne gli effetti a distanza di luogo e di tempo da quell’avvenimento. Un’ultima parola sulla globalizzazione. E’ un fenomeno che ha fatto molta letteratura e rende più difficile tutto in questo momento di cambiamenti straordinari: è caduto il mondo organizzato a Yalta ed è arrivata la globalizzazione che non ci ha dato neanche il tempo di capire. Bene, la globalizzazione avrà sicuramente gli effetti positivi che tutti dicono. Ma intanto ne ha alcuni negativi e ricordo io il più pesante, alla luce proprio di questo di cui stiamo per parlare: quando un’azienda ha un bilancio quattro volte più grande di quello degli Stati Uniti, rischia di potersi permettere quello che vuole e ovunque. La caduta del modello americano per colpa di Enron è pesantissima, se ne è accorto perfino Bush che ha portato a 25 anni la pena di falso in bilancio. Un atto dovuto, pena la caduta di credibilità del modello americano in cui credevamo… Quando un’azienda si può permettere quello che vuole con mezzi imponenti, allora svaniscono, si stingono di fronte alle singole persone, le sedi istituzionali a loro note in cui andare a comporre il conflitto. Epifani, io non vengo più da lei se ho un’azienda che dispone di delocalizzazioni perché lei non riesce a rappresentarmi come vorrei di fronte al globale, ma non perché si chiama

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Epifani, perché il segretario di qualunque sindacato fa questa fine e anche una Confindustria italiana rischia di trovarsi a malpartito di fronte a un’azienda di questo tipo. (Inizia il collegamento telefonico tra la sala ed il dottor Guidi) Buonasera, dottor Guidalberto Guidi. Così, tanto per rompere il ghiaccio, lei che è un industriale, sarebbe contento di confrontarsi con la Confindustria americana con i mezzi che questa ha? Guidalberto Guidi: Mah, io parto dal presupposto che non mi scelgo l’ambiente in cui vivo, lo posso fare come cittadino ma non come imprenditore quindi, al di là delle scelte, credo che purtroppo questo sia il mondo con il quale dobbiamo convivere. Santalmassi:Guglielmo Epifani, non so se va bene per rompere il ghiaccio, ma l’ultima notizia sulla Fiat, qual è? Guglielmo Epifani: Non so da dove cominciare a rispondere. L’azienda è in una situazione molto pesante, probabilmente anche più difficile di quello che “fuori” normalmente non si ammetta. Il punto fondamentale è che si tratta di un’azienda che ha perso quote di mercato, cioè numero di macchine prodotte, quando il mercato saliva, quindi quando c’era un grande sviluppo della domanda di automobili. Adesso che c’è rallentamento della domanda e avremo qualche anno di domanda piatta, il rischio per l’azienda è che si riduca ancora di più. Questo è il problema che sta di fronte alla Fiat. Se questa è l’analisi, io credo ci siano due modi per affrontarlo: uno è quello che propone l’azienda, che è quello che noi non condividiamo, e che anche personalmente non comprendo. Quello che propone l’azienda è semplice: riduciamo quello che produciamo, chiudiamo gli stabilimenti, mettiamo fuori un po’ di lavoratori, in questo modo attenuiamo le perdite e aspettiamo di poter reinvestire quando smettiamo di perdere. Questa tesi, che poi si riassume nel Piano dell’azienda, avrebbe una sua plausibilità se non ci fosse la situazione di partenza, cioè un mercato che cala e un’azienda che sta perdendo quote di prodotto. Per questo noi diciamo che invece ci vuole qualcos’altro e cioè sostanzialmente diciamo che l’azienda, invece di aspettare, provi a investire di più e meglio, in tempi più rapidi. Se l’azienda, questa è la mia opinione personale, o l’azionista non fa questa scelta, noi ci troviamo non solo con diverse migliaia di lavoratori fuori dalle fabbriche -e questo è naturalmente un problema, per loro, per noi e per il Paese-, con centinaia di aziende dell’indotto che non hanno più commesse, con migliaia di lavoratori a loro volta coinvolti da questo processo di uscita dall’occupazione. Ma soprattutto avremmo da qui a due anni un’azienda più piccola, più povera, meno competitiva, perché i concorrenti della Fiat -basta guardarsi attorno e lo si capisce immediatamente- non stanno e non staranno fermi. Perché, Santalmassi, la globalizzazione è sicuramente la cosa che lei diceva, ma c’è un punto che la globalizzazione non perdona: se tu sbagli un prodotto o se tu fai un investimento che non si rivela positivo, tu non hai più tempo per recuperare; prima potevi recuperare, perché esistevano le barriere, i dazi, la svalutazione della moneta; adesso se tu sbagli un investimento, in sostanza, se fai macchine che il mercato, a ragione o a torto, non vuole, tu, per recuperare quelle macchine che non vendi più, per recuperare una quota di mercato, devi investire di più, devi fare due volte il salto, devi raggiungere quelli che ti fanno concorrenza oggi, e devi prevenirli per il futuro. Se la Fiat non è in condizione di fare questo, semplicemente finisce, e da qui a due anni avremo un’azienda che produrrà il sessanta per cento delle macchine che produce oggi, ne venderà forse ancora meno, chiuderà almeno dai due ai tre stabilimenti e, invece di essere

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un leader in Europa, una grande industria, diventerebbe una piccola industria di nicchia, probabilmente comprata da altri che opereranno scelte, che non sempre sono quelle che il Paese riterrebbe opportune. Santalmassi: Guglielmo Epifani, nell’attesa che Guidi salga sul palco, le chiedo: oggi il ministro Marzano ha detto che è ipotizzabile un intervento dello Stato e sono sobbalzato. Epifani: E’ successo a Roma. Credo che così abbia detto, anche se poi mi hanno segnalato che nella riunione non l’ha detto con la stessa forza con cui l’ha detto ai giornalisti -bisogna pure dirci, prima o poi, che non sempre si dice la stessa cosa quando si è dentro le stanze e quando si è fuori dalle stanze, e questo rappresenta naturalmente un problema di credibilità per l’interlocutore. Però probabilmente ha accennato a questa possibilità. Lo aveva fatto ieri il Ministro Maroni parlando in provincia di Milano o di Varese, quindi è un tema che ricorre. E’ un tema importante, ma viene un secondo dopo il tema fondamentale e cioè che cosa vuol fare la Fiat, quale piano industriale la Fiat vuole sviluppare. Perché se non si parte da quello che si vuole fare, non si va da nessuna parte. (E’ arrivato in sala il dottor Guidi) Posso salutare Guidi? sperando che abbia ritrovato la strada, che mi pare Confindustria aveva un po’ smarrito ultimamente. Santalmassi: Allora, Guidalberto Guidi, abbiamo sentito dire da Epifani che è vero che il ministro Marzano, come d’altra parte ieri aveva accennato Maroni, ha detto che è ipotizzabile un intervento dello Stato -stiamo parlando del caso Fiat. Lei è contento? Guidi: Sono riuscito ad ascoltare lo scenario che è stato dipinto da Epifani, uno scenario che debbo dire potrebbe essere uno scenario di quelli ipotizzabili. Io voglio pensare che Fiat, questo grande gruppo, forse il più grande gruppo che abbiamo nel Paese, abbia dentro di sé la possibilità di riuscire a superare questo momento di crisi. Devo dire che una delle cose che più mi hanno colpito sin dall’inizio di questa vicenda è che tutti coloro che si sono accostati a questo problema, lo hanno fatto come per gestire la fase di un malato terminale. Io non credo, non voglio pensare che sia questo. Lo scenario che ha delineato Guglielmo Epifani prima, ripeto, potrebbe essere, ma mi permetto di dire che è quello che può capitare a tutte le aziende, nel mondo, in Europa e in Italia. La legittimazione ad essere classe dirigente nel nostro Paese, ammesso che qualcuno ci riconosca questa possibilità, dipende proprio da questo: noi possiamo fallire, possiamo andar male, ogni mattina dobbiamo reinventare tutto il lavoro, migliorare la qualità, fare modelli nuovi, in qualunque settore, al di là del settore dell’auto. L’intervento del Governo: io debbo dire che… non voglio dare una risposta… mi limito ad osservare che un mio fornitore, che ho visto poche ore fa, ha 350 dipendenti e ha investito 60 miliardi di vecchie lire negli ultimi 5 anni e lunedì scorso ha portato i libri in tribunale. Non so come potrebbe reagire questo signore di fronte all’ingresso dello Stato nel capitale della Fiat. Penso che forse non darebbe una valutazione positiva, non riuscirebbe forse a capire perché in quel caso sì e in questo caso no. Poi mi rendo conto che i casi sono macroscopicamente diversi, sentivo Guglielmo Epifani: in effetti l’importanza per il nostro Paese e per il nostro sistema industriale di questa azienda e dell’indotto che ruota intorno è drammaticamente importante. Io però non ho sentito da parte del gruppo -io l’ho vissuta dall’esterno perché nello stile della “casa” é che non si entra nelle questioni delle aziende se non per dare tutto l’aiuto che possono chiedere-, non mi sembra siano stati chiesti interventi da parte di nessuno, mi pare che sia

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stato chiesto di poter sviluppare quel Piano, che, ripeto, valutato da molti è un Piano che si ritiene possa portare a risultati di ripresa. Ascoltavo sempre prima da Guglielmo Epifani questo scenario che, ripeto, aveva dei punti che posso condividere, perché è lo scenario di un’azienda in grosse difficoltà che non mi sento di condividere come via di uscita, come punto di caduta. Ma che cosa possiamo pensare, dove si investe? Investire in un’azienda, investire soprattutto in questo settore richiede tempi che sono di anni, non sono né di giorni, né di settimane, né di mesi. Significa risorse finanziarie, significa capacità progettuale. Non ci dimentichiamo che in tutto il mondo il settore dell’auto non mi risulta esca con risultati al di sopra di un 1-2 % di risultato alla fine prima delle tasse … quindi un settore che sta battendo colpi in molte parti del Paese, salvo alcune nicchie di mercato particolare. E’ come quando da parte della Chiesa si dice: ”dovete liberare coloro che sono in carcere, l’amnistia…”: io credo che Guglielmo Epifani non potrebbe dire qualcosa di diverso rispetto a quello che ha detto, come il papa non può dire cose diverse… Mi chiedo quali siano le terapie che possono essere messe in essere, al di là appunto dell’intervento dello Stato: lo Stato entra, non guarda al conto economico, interviene, ma che cosa creiamo? creiamo di nuovo un qualche cosa che abbiamo visto per anni e anni e che ha provocato danni in tutto il Paese, che ha provocato perdite di competitività di tutto il sistema, perché poi il sistema si é richiuso. Una scelta di questo tipo a mio giudizio dovrebbe portare in un secondo tempo alla chiusura delle frontiere, rimettere le barriere doganali, proteggere i prodotti nazionali. E’ questo il mondo che vogliamo? Io non do giudizi di merito, di certo non è quello che io credo sia il mondo che abbiamo di fronte. Potrebbe essere una parentesi, io non voglio dare giudizi, ma riterrei molto sbagliata, molto bizzarra l’ipotesi d’ingresso nel capitale dello Stato. Santalmassi: Grazie a Guidalberto Guidi. Ricordo che come dead line, limite massimo abbiamo le ore 20 e mancano soltanto 50 minuti, sono perciò utili risposte più brevi. Epifani, sei o sette anni fa News Week era uscito con una copertina con questa frase: ”Fiat: last stand”. L’analista italiano che era stato intervistato, e che era uno dei più autorevoli e stimati di questo Paese, raccontava come e perché fosse l’ultima fermata della Fiat. Nel mio lavoro ricevo molte lettere, telefonate, etc. Domanda di uno degli ascoltatori di Radio 24: dov’erano i sindacati quando qualcuno avvertiva che la Fiat aveva dei problemi? se ne rendevano conto o erano impegnati a impedire lo spostamento da un settore della fabbrica a un altro di Tizio piuttosto che di Caio? Epifani: Nel mese di giugno l’azienda ha proposto un piano di ristrutturazione ai sindacati, la Cgil (la Fiom Cgil) non l’ha firmato. L’azienda sosteneva a giugno che con quel piano tutti i problemi sarebbero finiti e che di fronte alla Fiat ci sarebbe stata una fase di tranquillità. La Fiom disse a giugno: ”Guardate, con quel piano non andate da nessuna parte e a settembre chiudete Termini Imerese”, questo a giugno. Sei mesi prima la stessa cosa e sei mesi prima ancora la stessa cosa. C’è un punto di fondo che non abbiamo mai condiviso con Fiat. Io capisco che adesso il dottor Guidi non possa entrare in una valutazione di merito, ma c’è un punto che non ci ha mai convinto, e che cioè la debolezza della Fiat, all’ultima fermata, sta nel fatto che la Fiat ha sempre agito su una qualità medio-bassa di prodotti, cioè si è mossa su un terreno nel quale creava poco valore ed era competitiva prevalentemente sui costi. Quando sono subentrati i grandi competitori mondiali, giapponesi ed europei, ed hanno cominciato a fare concorrenza alla Fiat sulle vetture medio basse, la Fiat è entrata in crisi. Quando la Fiat andava bene, non guadagnava più di 3.000 miliardi l’anno, e con 3.000 miliardi l’anno

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si fa fatica ad investire. Ci sono aziende in Europa che producono berline medio-alte, di valore alto, che guadagnano, pur avendo il fatturato della metà, il doppio di quello che guadagna la Fiat, quindi investono di più. Queste sono le scelte strategiche sbagliate dell’azienda. In più, aggiungo, la Fiat ha sempre puntato su mercati poveri perché produceva macchine povere, che concorrevano per il prezzo. Se oggi la sfida è sulla qualità, e se tu hai puntato tutto sui bassi costi, tu non ce la fai a vincere la sfida del mondo globalizzato. Questo è il problema della Fiat, questo rende difficile per la Fiat uscire dalla situazione in cui si trova. In più mi permetto di dire che la Fiat è rimasta una fabbrica dominata da un’idea molto piemontese e gerarchica dei rapporti sociali, in cui comanda l’azienda e gli altri subiscono o si adeguano. Ogni volta che c’è stata una crisi non ha mai ricorso, come altre aziende, alla cassa integrazione a rotazione, ha sempre messo fuori alcuni lavoratori e dentro altri; ha sempre diviso il lavoro, l’ha diviso per poter comandare meglio. Quel modello di comando e quell’idea puntata sui costi e non sulla qualità sono il segno distintivo di una crisi che sta arrivando al suo capolinea. Ci possono sempre essere responsabilità anche del sindacato, ma ciò non toglie che il punto di fondo è questa idea dell’azienda e quest’idea dello sviluppo dell’azienda. Veniamo al fondo di un problema che riguarda la Fiat ma riguarda purtroppo, lo dico con grande preoccupazione, una parte consistente del nostro apparato produttivo. Noi abbiamo un apparato produttivo purtroppo per metà fatto da imprese molto fragili, imprese che non hanno investito sul prodotto, che non hanno fatto ricerca, che non hanno fatto innovazione, che non hanno corso rischi imprenditoriali. E d’altra parte Guidi lo sa benissimo: quelle imprese che invece hanno operato in questo modo reggono il mercato abbastanza bene; quelle imprese che, invece, si sono dedicate ad acquisizioni finanziarie, a shopping finanziari, hanno pensato ad altro, non ce la fanno a reggere la competizione. La Fiat è il caso più grande ma non è l’unico caso. Accanto alla Fiat abbiamo tante piccole “Fiat” che risentono in queste settimane, e ancora di più nei prossimi giorni, di questa situazione. Pensate, noi veniamo da otto anni di sviluppo, le aziende hanno fatto profitti: un decimo dei profitti è andato a retribuzioni, nove decimi sono andati alle imprese, gli investimenti fatti dalle imprese non si sono trasformati, per molte vicende, in miglioramento della qualità di quello che si produceva. E tutto questo nel mondo di oggi si paga. Questa è la debolezza straordinaria del nostro Paese e del nostro sistema produttivo: un capitalismo troppo familiare, una logica basata solo su riduzione dei costi e riduzione dei diritti, poca ricerca, poca innovazione, poco trasferimento tecnologico, poca cultura di sistema, poca formazione. Le arretratezze storiche del Paese e questi limiti fanno la nostra debolezza. Se si vuole capire questo e ripartire, ci può essere futuro per il Paese. Se non si comprende questo ragionamento, non c’è niente da fare: diventeremo un Paese che lentamente declina, lentamente, senza drammi, lentamente e inesorabilmente. E il Paese che una volta era tra i Paesi più avanzati d’Europa, il Paese che con Stati Uniti, Inghilterra e Germania fu la culla dell’industria automobilistica, il Paese che non ha più telecomunicazioni, che ha poca informatica, che non ha più la chimica, che perde anche il settore dell’auto, è un Paese che fa fatica a costruire, per sé e per i giovani, un futuro degno di questo nome. Santalmassi: Epifani ha risposto parzialmente, se posso dire, alla mia domanda: lui mi ha detto dov’era la Fiom Cgil sei mesi fa, sei mesi prima e sei mesi prima ancora, io parlavo di 5, 6, forse 7 anni fa… “Io sono il capo della Cgil” mi può rispondere Epifani

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“posso rispondere a stento della Fiom, quindi degli altri non posso rispondere, chiedetelo agli altri”: sono sicuro che mi risponderebbe così. Dottor Guidi, poi veniamo al tema, perché parlare di Fiat oggi vuol dire entrare con i piedi direttamente nel welfare e nelle politiche sociali, però le chiedo: quando il News Week titolava “Fiat last stand” 5, 6, 7 anni fa, dov’erano i colleghi di Agnelli? Guidi: Mah, i colleghi di Agnelli, piccoli, molto più piccoli, perché indubbiamente erano tutti molto più piccoli, cercavano di battere i marciapiedi del mondo per vendere quello che producevano, quello che ideavano, quello che cercavano di rendere pieno di contenuto, di qualità. Io mi trovo in una situazione molto strana questa sera, perché su molte delle diagnosi fatte da Guglielmo Epifani mi trovo d’accordo, forse non sono d’accordo sulle cause, ecco, mi trovo un po’ in disaccordo sulle cause, perché, scusa Guglielmo, mi devi spiegare… C’è stata, credo, nel nostro Paese una presenza sindacale straordinariamenrte forte, perché altrimenti questo vorrebbe dire che voi avete buttato via tempo. Io sono pronto a fare autocritica, pensare a che cosa abbiamo sbagliato, che cosa non siamo riusciti a fare, però io giro il mondo e vi posso assicurare che aziende con il tasso di investimenti di processo che troviamo nel nostro Paese non si trovano in tutto il mondo. Potrebbe forse venirmi in mente che una delle ragioni sia che, tenuto conto della rigidità dei rapporti di lavoro, tenuto conto delle regole, tenuto conto che a me un dipendente costa 25.000 € e poi in tasca se ne mette neanche la metà, forse sono stato costretto a investire in macchine anziché da altre parti, perché sappiamo tutti che non si può fare tutto, bisogna fare delle scelte. Ecco, io credo, Guglielmo, che forse un minimo di autocritica da parte di tutti… Io sento profondamente il dramma di un rischio che era quello che dicevi prima, cioè che non sia un problema solo di quella grande azienda che è a Torino ma é un problema di tutto il nostro sistema, o di gran parte del nostro sistema industriale. Non l’hai detto stasera, ma ti ho sentito dire tante volte: “E’ un problema di qualità, giocare sui prodotti”: la qualità oggi è una precondizione, la qualità consente di entrare sul mercato, si resta sul mercato se si fa qualità, altrimenti se ne esce definitivamente, ma poi c’è prezzo, prezzo, prezzo, prezzo… Questo è il mondo che io conosco e questo è il mondo nel quale noi viviamo giorno per giorno, noi perdiamo gare internazionali di componentistica o grandi clienti perché ti trovi davanti della gente che ti dice: quest’anno meno 10, il prossimo anno meno 10, il prossimo anno meno 10… questa è la realtà. Non varrebbe forse la pena -mi rendo conto che è un invito che senza dubbio cadrà nel vuoto, ma varrebbe la pena- di cominciare a vedere quali sono i problemi e come tentare di dare delle risposte concrete? Fino a che si continua a dire: “bisogna lavorare sulla qualità, bisogna mettere un maggiore contenuto tecnologico…”, benissimo, ma poi ci vuole qualcuno che lo fa. Permettimi una cattiveria e anche una provocazione: io non conosco aziende nel mondo che sono andate bene o peggio per il clima sindacale, non ho mai conosciuto sindacati che abbiano fatto progredire un’azienda o che l’abbiano fatta andare male, neanche andar male, perché credo che la responsabilità sia sempre dell’imprenditore. Però non credo che tutti questi anni, dal ’68 in poi, siano passati invano, credo che forse errori ne abbiamo commessi tutti, ma ne ha commessi il Paese insieme agli imprenditori. Epifani: Dato che mi piace parlar chiaro, e Guidi lo sa, spero che capirà anche il senso della cosa che voglio dire. Il dottor Guidi ha un’azienda. L’azienda del dottor Guidi opera su un mercato mondiale molto difficile, è praticamente un competitore con tutti i Paesi dell’Est. L’azienda del dottor

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Guidi va molto bene, perché, mi chiedo? Il Presidente di Confindustria, che quando fa il Presidente di Confindustria dice cose strane, quando fa il presidente della sua azienda fa il contrario: investe in qualità, contratta con il sindacato, rispetta le ragioni del sindacato e la sua azienda è leader in Europa. Voglio dire cioè che se qualcuno provasse a fare per il Paese quello che fa per la propria azienda, e cioè investisse in qualità del prodotto e su questo lavorasse per creare le condizioni di riduzione dei prezzi e la celerità e l’affidabilità delle consegne, se si fa questo, il Paese ce la può fare. Se invece si prende l’articolo 18, se invece si prendono i temi del costo del lavoro, dei salari, che sono tra i più bassi in Europa, e si assume quello come il problema della competitività del Paese e delle imprese, si scambiano lucciole per lanterne. Non si fanno solo danni per i lavoratori, si prende un abbaglio colossale, perché il problema che sta di fronte alle nostre imprese è l’altro. So bene che siamo leader dell’innovazione di processo, ma il processo funziona quando lo innovi, se quello che produci lo vendi, e quello che produci e lo vendi, quando competi con i Paesi avanzati è sempre di più qualità. Ma vogliamo capirlo che se i cittadini italiani comprano una macchina tedesca e francese, e la pagano più di una macchina della Fiat, lo fanno perché pensano che quella sia una macchina più affidabile? Quello che vale per le macchine vale per il resto, sono l’affidabilità e la qualità che oggi, quando i Paesi sono a reddito alto, fanno la differenza. Se noi non entriamo in questa logica, noi commettiamo, qui davvero, parlo per tutti, un errore colossale. E poi, se posso dire, c’è da recuperare la cultura del fare; in Italia non c’è più una cultura della manifattura, della produzione, della produzione industriale, tutto è finanza e la finanza è importante, ma se non hai sotto quello che produci, i beni e i servizi da vendere, e se non provi a farli bene, diventiamo un Paese che consuma e che non produce. E inizia il declino per una persona, per una famiglia, per una generazione, per un Paese, quando invece di produrre ti limiti solo a consumare; perché consumare senza produrre vuol dire che non costruisci il futuro. Santalmassi: Vi chiedo scusa, ma l’inizio così avventuroso di questa nostra conversazione di stasera lo avrei voluto diverso. Non faremo un minuto di silenzio, ma vi chiedo un applauso. Ci sono case e aziende -mi piace mettere insieme queste due entità: le persone (uomini e donne) e le imprese- che, a causa del maltempo, in molte zone di questo Paese (ma anche per il terremoto in Molise e per l’eruzione dell’Etna nella Sicilia orientale), soprattutto in questi giorni qui al nord, mettono a rischio vite e aziende. Ecco, vi invito a fare un applauso a quanti stanno soffrendo questa circostanza in questi giorni. (Applausi) Vi ringrazio. Guidalberto Guidi, la domanda è questa: è d’accordo se definisco maliziosa la battuta sull’eventuale intervento del Governo in Fiat? Guidi: Ci avrei scommesso! Santalmassi: Lo so: ma il Governo così vi sta dando un’altra delusione? Perché ho notato una certa diversità quantomeno di sfumature tra quello che Confindustria diceva un anno fa e quello che dice da due o tre mesi a questa parte, del Governo. Guidi: No. Si é detto che Confindustria era schiacciata sul Governo, che Confindustria andava a braccetto con il Governo, credo che se ne siano dette di tutti i colori, anche perché, se si può dir male di Confindustria, questo è uno sport che ha un grande appeal nel nostro Paese. Il programma del Governo conteneva moltissime delle cose che noi ritenevamo e riteniamo debbano essere fatte per ridare competitività al Paese: riduzione

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della pressione fiscale, riduzione dei contributi. Giusto o sbagliato che sia, io non pretendo di aver ragione. Perché, vedete, una delle difficoltà più grosse che, io credo, abbiamo di fronte in questo periodo è che la situazione sia -come dicono a Roma- talmente intorcinata per cui molte volte risolvere un piccolo problema vuol dire aprire un altro fronte più grave da un’altra parte. Abbiamo detto, quindi, che eravamo d’accordo su quello che il Governo diceva di voler fare, poi abbiamo detto che eravamo meno d’accordo su altre cose, poi abbiamo ridetto che eravamo d’accordo quando il Governo ha cambiato idea. Noi valutiamo le cose, non valutiamo le parti politiche, noi valutiamo le cose che vengono dette e soprattutto le cose che vengono fatte. Se il Governo deciderà di entrare nel capitale di Fiat, noi diremo che a nostro giudizio è una scelta sbagliata. Tutto qua, non ci sono scelte di campo, non ci sono valutazioni o arrière pensée. Questa cosa riteniamo che sia giusta e diciamo che ci sembra giusta; questa è sbagliata, diciamo che è sbagliata. Santalmassi: Grazie per la franchezza, Guidi. Le chiedo: Lisbona ha deciso che nel 2010 l’Italia, quindi l’Europa, debba raggiungere un tasso di occupazione del 70 per cento. Oggi il nostro tasso di occupazione è salito molto rispetto a 5, 6, 7 anni fa, mi pare che la disoccupazione sia scesa più o meno a quella del 1991 -Epifani, mi aiuti… Epifani: Sì, grosso modo è così. Santalmassi: Ecco, che cosa ha consentito secondo lei, Guidi, questa risalita dell’occupazione? Guidi: Prima di tutto, l’economia nell’ultimo periodo ha cominciato a dare qualche sintomo di miglioramento, a seguito della crescita americana; tutti i sistemi economici, e quindi anche l’industria, fanno parte di un grande meccano. Dall’altra parte i primi cambiamenti, perché io sono tra coloro che pensano che questo Paese ha iniziato un percorso di cambiamento -e insito nel concetto di cambiamento c’è quello di miglioramento- che è iniziato ad esempio con i decreti Treu. Il “pacchetto” Treu è stato il primo segnale importante, non timido, importante, di flessibilizzazione del mercato del lavoro. Io ritengo che il Patto per l’Italia contenga in sé altri elementi che favoriranno una maggior occupazione. Questo è il mio parere personale, questo è il parere di Confindustria. Naturalmente questo togliere parte della creta che ci immobilizza è chiaro che dà gli effetti più importanti quando l’economia comincia a riprendere; in momenti come questi è chiaro che l’effetto è molto più limitato. Santalmassi: La ringrazio, lei è molto franco e questo aiuta sempre un giornalista. Lei mi ha detto che tutta la maggiore occupazione che si è avuta in questo Paese negli ultimi 5 anni è dovuta a ciò che gia c’era, mentre del Patto per l’Italia non se ne parla più. Mi spiega perché, dottor Guidi? Guidi: No, il Patto per l’Italia c’è e mi auguro che venga approvato in fretta dal Parlamento. Purtroppo mi sembra che ci siano state altre cose, non do giudizi di merito sulle priorità, ma mi pare che ci siano state altre cose di cui si sono occupati. Mi auguro che tutto questo naturalmente non porti ulteriore ritardo. Io credo che sia un passaggio importante, dato che mi auguro che così usciamo da questo periodo di stasi produttiva; credo che ne avremo la riconferma.

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Io penso che anche Guglielmo Epifani sia d’accordo sulla mia valutazione che i decreti Treu hanno portato maggior occupazione. Santalmassi: Dottor Guidi, lei è convinto che il Patto per l’Italia così come è stato sottoscritto produca più di 18 posti di lavoro? Voglio ricordarle che piano piano questa proposta di modifica temporanea dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è stata ridotta da quattro ipotesi a una, praticamente a quella dell’azienda che vuole superare la soglia dei 15 dipendenti. Ecco: secondo lei, questa modifica dell’articolo 18, così ridotta ai minimi termini, quanti posti può produrre in questo Paese? Guidi: Questa piccola, timida modifica produrrà effetti. Questa piccola timida modifica naturalmente è una piccola timida modifica e quindi produrrà gli effetti che producono le piccole timide modifiche. Credo però che sia un punto determinante perché la capacità o la volontà di crescere… Potrei farvi l’elenco a memoria di 10 miei fornitori o clienti -anche qui vicino, quindi forse qualcuno di voi ci lavora- che hanno 80-90 dipendenti, a volte 100-120, frazionati in aziende che hanno 10-12-13 dipendenti e si guardano molto bene dal superare quella soglia. Poi se c’è una crescita la si fa in un’altra azienda, poi in un’altra ancora. Questa è una cosa che conosciamo tutti, come quando si parla dell’economia sommersa. Dice: quello viene da Marte. No. Lo sappiamo tutti come si crea e che danni provoca l’economia sommersa. Io credo che produrrà dei risultati, naturalmente non è quello che noi ci aspettavamo, noi avremmo preferito che ci fosse qualcosa di più coraggioso. Ecco, penso però che sarebbe un grosso errore da parte di tutti pensare che questo processo inevitabile di cambiamento possa essere fatto senza tener conto dell’ambiente, di che cosa abbiamo dietro e qual è il momento in cui stiamo vivendo. Santalmassi: Epifani, riconosciuto da Guidalberto Guidi, dal Vicepresidente di Confindustria, che il progresso che c’è stato nella discesa del tasso di disoccupazione nel nostro Paese è dovuto al “pacchetto” Treu, perché non avete aderito al successivo passo di pallida -come sostengo io e lo ha detto anche Guidalberto Guidi- modifica di questo articolo 18? Guidi: Importante però… Santalmassi: …però importante? Epifani: Posso però fare una piccola premessa? poi arrivo alla risposta. Tra noi e Confindustria c’è uno stranissimo slittamento del tempo. Cioè: quando noi dicevamo che il Paese cresceva e l’occupazione andava bene, Confindustria diceva che non era sufficiente; quando poi, a un certo punto, noi vedevamo che il Paese cominciava a rallentare, Confindustria diceva che eravamo vicini al miracolo economico. Ma sto parlando di qualche mese fa. Adesso vedo con piacere che i due tempi si sono allineati, oggi riconosciamo che le cose non vanno bene e probabilmente diamo un giudizio un pochino più sereno anche su quello che è avvenuto nel passato. Quando noi dicevamo che l’occupazione cresceva, sapevamo perché cresceva: perché la flessibilità del “pacchetto” Treu produceva un rapporto importante, cresceva la ricchezza prodotta dell’1 per cento e cresceva l’occupazione di più dell’1 per cento, cosa che prima non avveniva mai. Quindi noi lo usavamo per dire che la flessibilità gia c’era, Confindustria lo usava per dire che la flessibilità non bastava.

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Oggi siamo in una situazione in cui il discorso si è azzerato, in cui se io oggi provassi a dire: di fronte alla crisi della Fiat usiamo l’articolo 18 e un po’ più di flessibilità, la gente mi guarderebbe come se fossi un po’ matto. Perché i problemi della Fiat non sono l’articolo 18 e non sono la flessibilità. Di fronte a un’azienda che ha problemi di mercato, oggi si capisce che il vero problema non è la flessibilità dell’offerta di lavoro, è la qualità dell’offerta di quello che si produce. Questo è il cambiamento che bisogna fare. Alla domanda rispondo: io non ho capito che cosa succede dell’articolo 18, ho capito solo che il Governo voleva intervenire e che noi avevamo detto di no, ho capito che alla fine c’è stato un accordo che noi non abbiamo sottoscritto, e non ho capito bene che cosa dice questo accordo, perché secondo me non é così piccolo come si vuol far credere. E in ogni caso, devo dire anche che penso che sarebbe un atto di saggezza e di buon senso da parte del Governo e da parte di Confindustria, tenuto conto del clima sociale, se quel provvedimento non fosse presentato in Parlamento. Perché io voglio vedere, quando partiranno le lettere, che sono lettere di licenziamento dei lavoratori della Fiat, sotto Natale, voglio vedere quando scoppieranno le altre questioni occupazionali che purtroppo sono all’orizzonte, un Governo e una Confindustria che dicono: sì, rendiamo i licenziamenti più facili. Vedete, io penso che oggi si possa dire -perché abbiamo dall’inizio detto che non era questo il vero problema- che rispettare la dignità di chi lavora è una risorsa per l’impresa ed è una risorsa per il Paese. Santalmassi: Epifani, la Fiat viene da lei e dice: questo è il pacchetto di investimenti, di miglioramento della qualità del prodotto, questa è la strategia; possiamo farlo a patto di un’applicazione del Patto per l’Italia. Che risponde la Cgil?… che non l’ha firmato? Epifani: La Fiat non dirà questo. Il problema non è lo strumento, il problema sono le cose che si fanno. Voglio dire, in tutta onestà: la cosa che a noi interessa è che l’occupazione cresca e che sia un’occupazione con dignità e con diritti di chi lavora, e che l’impresa possa competere bene. Noi non siamo contro l’impresa che compete, noi siamo contro un’idea sbagliata della competizione. Questa è la vera differenza tra noi e Confindustria. Santalmassi: Non ha risposto, Epifani, alla mia domanda… Epifani: Ma è una risposta per assurdo, perché l’azienda manterrà il suo Piano, non cambierà il suo Piano, metterà i lavoratori in cassa integrazione. Santalmassi: Ma io ho fatto una domanda ipotetica, le ho chiesto: mettiamo, per assurdo, che domani l’azienda viene e le presenta un programma che a lei piace, nel senso che ci ha detto, c’è strategia, c’è qualità, etc., ma chiede in cambio, per esempio, l’applicazione del Patto per l’Italia. Lei lo conosce questo libro: ”Non basta dire no”? Epifani: Se l’azienda mi dicesse: io cambio il Piano e faccio gli investimenti, tu su che cosa dici sì? Io dirò i miei sì; ma in questo caso non c’entra il Patto per l’Italia perché il Patto per l’Italia è stato opera del Governo, stiamo parlando di un rapporto tra il sindacato e l’azienda, di un rapporto naturale. Se l’azienda cambia il Piano, io so i sì che devo dire, perché sono sì che so essere fatti nell’interesse del futuro dell’azienda e del futuro dei lavoratori, diretti o indiretti, che lavorano attorno alla Fiat. Io non dico sì a una presa in giro, io non dico sì a una soluzione che condanna l’azienda a morire. Questa responsabilità

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non la voglio assumere, non per la Cgil, ma nell’interesse di quei lavoratori e nell’interesse generale del Paese. Santalmassi: Voglio ricordare che quando Epifani ha detto: “non so ancora che cos’è il Patto per l’Italia” non ha tutti i torti. Voglio ricordare che all’indomani della firma del Patto, quando un Ministro disse: allora, per tutte le aziende che superano i 15 dipendenti, la nuova disciplina provvisoria, sperimentale dell’articolo 18 si applica a tutti i suoi dipendenti, è stato subito zittito da altri componenti del Governo. Questo come premessa. Guidalberto Guidi, la rottura dell’unità sindacale è un risultato per voi o è stato un risultato per il Governo? Guidi: Noi non abbiamo mai cercato di dividere il sindacato, mai. Potrei anche dire -Guglielmo Epifani lo sa perfettamente- che io, personalmente, ho fatto telefonate fino all’ultimo momento per tentare di trovare accordi, credo che per la correttezza che gli ho sempre riconosciuto, Guglielmo Epifani potrebbe riconfermarlo. Credo che sia stato un atteggiamento di una grande organizzazione sindacale che a un certo punto ha deciso che con questo Governo non si dovevano fare accordi. Continuando poi a fare accordi, perché noi abbiamo continuato a fare accordi anche con la presenza della Cgil. Non direi che Guglielmo Epifani non conosce il Patto per l’Italia, perché Guglielmo Epifani era presente quel giorno in cui firmammo e correttamente espresse il suo parere dicendo che non riteneva per la sua organizzazione che fosse qualche cosa di sottoscrivibile. Dividere non è mai un vantaggio, dividere poi il sindacato in due parti lasciando da una parte la più importante organizzazione sindacale, credo che sia chiaro a tutti che non è produttivo da nessun punto di vista. Io ho assunto la responsabilità delle relazioni sindacali di Confindustria tre anni fa. Mi ricordo che mi trovai alcune cose, prima con il Governo vecchio, l’ultimo Governo di centro-sinistra, e poi con il Governo nuovo. Ho notato una forte differenza nella capacità e nella volontà di trovare accordi dove fosse coinvolto il Governo. Questa è una cosa che io dico con molta chiarezza. Non do giudizi di merito, non dico hanno fatto bene, hanno fatto male, non mi permetto di dare valutazioni sui comportamenti di una grande organizzazione sindacale che ha milioni di iscritti. Valuto però quello che io ho vissuto, quello di cui io posso essere testimone. Santalmassi: Qualcuno di voi ricorderà che qualche giorno fa sul Corriere della Sera è uscito un delizioso pezzo di Pietro Ichino, intitolato “L’operaio e il taxi”. Vorrei rileggere, se a qualcuno fosse sfuggito, l’inizio di quel pezzo. “Montecitorio, 1980. Siedo in uno dei divanetti rossi del Transatlantico con Emilio Pugno, capo storico degli operai della Fiat, divenuto capogruppo del Pci alla Commissione Industria della Camera. Si parla delle numerose situazioni di crisi occupazionale in giro per l'Italia. Ingenuo peone, cerco di convincerlo della bontà di un mio progetto di legge tendente a realizzare qui da noi qualche cosa di simile a quello che hanno fatto gli inglesi per ricollocare migliaia di dockers licenziati dal porto di Londra, per attutire l' impatto sociale di quella colossale ristrutturazione del tessuto produttivo: li hanno presi uno per uno, studiate le aspirazioni e le possibilità di ciascuno, organizzati i corsi di riqualificazione mirati ai posti possibili, erogati contributi temporanei alle imprese disposte ad assumere i più anziani. E ancora: hanno incentivato economicamente gli spostamenti geografici necessari, con la promessa -mantenuta- che nessuno sarebbe stato abbandonato a se stesso, se avesse collaborato attivamente, fino a che una nuova occupazione non fosse stata trovata; il tutto in larga parte a spese del datore di lavoro che licenziava”.1

1 Dall’articolo di Pietro Ichino “L’operaio e il taxi” – Corriere della Sera, domenica 1 dicembre 2002

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Guidalberto Guidi, oggi il datore di lavoro è disponibile a finanziare un programma di questo tipo? Guidi: Ogni Paese vive con le proprie regole, con i propri costi, con le proprie abitudini. Naturalmente, di fronte a cambiamenti, bisogna cambiare non solo un pezzo del meccanismo ma tutto, perché cambiare solo un pezzo non serve. Per quanto riguarda il sostegno all’occupazione, i processi di riqualificazione, io credo che abbiamo fatto due cose molto importanti: la prima è stata la creazione di Fondo Impresa. Fondo Impresa è una struttura paritetica, un organismo bilaterale -l’abbiamo varato poche settimane fa potremmo dire, abbiamo avuto il riconoscimento del Governo- con la presenza di Confindustria e delle tre organizzazioni sindacali, Cgil, Cisl e Uil, che io credo darà un fortissimo contributo nella formazione di coloro che oggi stanno lavorando, per preparare poi il fronte emergenze. Se ci fosse stato questo organismo, di fronte ad emergenze quali quelle di cui si parlava un attimo fa, forse le cose non sarebbero così gravi. Credo, Guglielmo, che tu sia d’accordo sulla validità dell’iniziativa di Fondo Impresa. Seconda: nel Patto per l’Italia, mi dispiace dirlo, c’è una parte molto importante che riguarda il sostegno di coloro che perdono per varie ragioni il lavoro e un modo per ridare dignità a coloro che perdono il lavoro, collegandoli anche naturalmente a processi formativi. E una volta, per mille ragioni, perso il lavoro, come fare per ricostruirsi una professionalità che consenta di ritrovare un lavoro vero: questi credo che siano i problemi fondamentali. Santalmassi: Epifani, sempre nello stesso pezzo, Ichino diceva che nei giorni precedenti aveva sentito “respingere sdegnosamente dal fronte unito e compatto dei sindacati dei metalmeccanici l'offerta del sindaco di Milano agli operai della Fiat di Arese di qualche centinaio di licenze di taxi -in una città che soffre perennemente dell'insufficienza di questo servizio-, oppure l'offerta di posti di infermiere o barelliere nei tanti ospedali che pure soffrono di grave mancanza di manodopera di questo genere. Non se ne deve neppure parlare.” E’ ancora così? Epifani: Rispondo subito, però vorrei segnalare la differenza del problema perché, se smarriamo la differenza, poi corriamo il rischio di scambiare anche le diverse situazioni. Ichino parla dei dockers del porto di Londra e cioè di una lavorazione che prima veniva fatta prevalentemente in modo manuale o artigianale e poi è stata sostituita dalle gru e dalle tecnologie computerizzate. Quindi la trasformazione non ha portato a cancellare il porto, ma a fare un porto più moderno e più efficiente, che funziona bene e che dà valore e ricchezza. Nel caso della crisi di cui si parlava, non è il problema di avere una Fiat, o ancora le altre imprese che non abbiamo più -e le potrei ricordare tutte: l’Olivetti per l’informatica, la Montedison per la chimica, la Fiat per l’auto-, non di fare delle aziende che creano più valore in modo nuovo, ma di non produrre più niente. Allora il problema della flessibilità ha un segno o un altro segno, se serve a costruire un’azienda più moderna oppure se viene usata dopo che quell’azienda è morta. Perché noi ci stiamo battendo intanto perché quelle aziende non muoiano, perché si tratta di aziende importanti dal punto di vista della presenza e del futuro industriale del Paese. Chiarito questo, anche noi abbiamo i nostri dockers, penso –ad esempio- alla riorganizzazione di tutti i porti italiani. Se io devo dire del Paese di oggi qual è il vanto, di cui nessuno parla, è proprio il nostro sistema portuale, che sta vincendo una sfida secolare per cui stanno tornando traffici, cabotaggio e merci nel Mediterraneo e non passano più a Marsiglia, in Spagna o ad Atene, ma passano nei porti italiani, grazie a questo sindacato, che ha superato le vecchie corporazioni, le vecchie modalità, che ha fatto i conti con

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l’innovazione tecnologica. Se ricordate la lotta dei camalli di Genova e degli altri porti d’Italia: è un vanto di questo sindacato. Quindi la flessibilità va bene, ma se viene dopo, ad accompagnare un processo che crea valore e crea ricchezza, perché se serve solo a trovare dei posti di lavoro quali che siano, si converrà che è cosa un po’ diversa. E vorrei dire che quando noi abbiamo detto no, sia a chi proponeva di trasformare i metalmeccanici in infermieri, sia anche alla proposta di Albertini di dare un po’ di licenze di taxi, non è perché disdegniamo una possibilità occupazionale, onestamente, ma perché noi vorremmo prima fare una battaglia per salvare l’azienda, per salvare la sua prospettiva occupazionale; e poi se non ce la facciamo, se vediamo che non ce la facciamo –ma è una battaglia persa per il Paese-, allora bisognerà trovare degli ammortizzatori e delle politiche di accompagnamento. Però, mi si permetta, che idea ha l’esponente di questo Governo se pensa che in un giorno un metalmeccanico diventa un infermiere specializzato? L’infermiere specializzato è qualcosa che richiede attitudine, preparazione, anni di fatica, anni di lavoro. Perché dobbiamo mettere un problema così delicato su un terreno così sciatto? Se nel nostro Paese mancano infermieri, formiamo e lavoriamo per avere infermieri. Potremmo anche trovare un metalmeccanico che può diventare un bravo infermiere, ma intanto facciamo sì che il metalmeccanico possa fare bene il mestiere che sa fare. Santalmassi: Epifani, lei continua a dirmi, in modo molto elegante, molto motivato, molto argomentato, quel no che non basta dire, come sostengono i saggisti autori del libro che ho già citato. Lei non può ignorare che all’interno stesso di un partito della sinistra come i Ds c’è un ampio dibattito sulla necessità, quella che una volta si chiamava la Open University, l’università permanente, la formazione permanente, beati gli inglesi che ce l’hanno, etc. Io ho capito, so che i dockers di Londra sono diversi dai metalmeccanici di Fiat, ci mancherebbe altro... Epifani: Come Londra è diversa da Termini Imerese. Santalmassi: Naturalmente. Ma quando c’è la lettera di licenziamento alla vigilia di Natale, a quello lì che gli andate a dire: intanto salviamo la Fiat, tu aspetta…? Anche la riconversione della Fiat alla qualità non è un’impresa semplice, non sto dicendo: la Fiat deve chiudere, e quindi fate i taxisti o gli infermieri, che detto così può essere anche un insulto per l’alto know how personale del lavoratore… Epifani: Sa cosa chiede la Fiat allo Stato? 4.000 prepensionamenti. E se io dico che non sono convinto, questo no che io le dico lei lo giudica come un sì o come un no? Santalmassi: Non lo so, me lo dica lei! Epifani: Come un sì a smetterla di usare sempre pratiche di assistenza e di provare invece a fare investimenti di riqualificazione seria per le persone che lavorano, perché io per un prepensionamento che devo fare, ho mille persone per le quali non posso neanche avere una cassa integrazione. Allora proviamo a costruire una rete di ammortizzatori sociali che tutela chi oggi non ha nulla, proviamo a fare politiche attive del lavoro, che favoriscono anche la mobilità, ma per cortesia, creiamo le condizioni per avere investimenti, perché se noi non abbiamo investimenti, non abbiamo, soprattutto in metà del Paese, dei luoghi dove si produce, dove si trasforma la ricchezza, dove si fanno servizi

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di qualità. Il nostro problema è questo, il resto viene dopo, non è con la flessibilità dell’offerta, insisto, che risolviamo i problemi dell’Italia. Santalmassi: Epifani, taglio la testa al toro: quello che lei ha detto mi sta anche bene. Però ribadisco la domanda: da dove cominciamo a ristrutturare per migliorarla, per raffinarla, quella rete di politiche sociali che sola consentirà di fare anche in questo Paese ciò che è da tanto tempo dimenticato? Guardi che quello che lei ha detto prima veniva in mente a me dieci anni fa di fronte a certe ingegnerie finanziarie che consentivano passaggi di mano, della chimica come di altre aziende, in cui tutti guadagnavano pur essendo la produzione sempre quella, sempre più, in certe aree, declinante. E allora ci si domandava: ma il prodotto poi chi lo fa? Quindi non mi è ignota questa posizione, però le dico: vogliamo provare a trovare un metodo condiviso che consenta di rafforzarsi? Perché, con i tempi di cambiamento che ho spiegato prima, è fondamentale irrobustire una rete di sicurezze che consenta poi di cambiare lavoro, di avere la formazione per cambiarlo, che poi è anche possibilità di dare accesso a chi è fuori dal lavoro -e sono tanti– di andare a occupare posti che si liberano perché qualcuno ha detto: provo a fare qualcos’altro. Epifani: Sono due i punti. Uno l’ha detto Pia Locatelli, introducendo i lavori: la formazione, la formazione continua, la formazione permanente, e su questo credo che siamo d’accordo con Confindustria e con una parte anche dell’opinione pubblica del Paese. Su questo si è investito male fino ad ora, finalmente adesso abbiamo un po’ di risorse, il problema è di spenderle con intelligenza. Perché, se posso dire, non dobbiamo solo dire dei sì, dobbiamo provare a costruire delle politiche di sistema, cosa che in Italia non siamo capaci a fare. Quindi, primo: formazione, formazione continua, permanente, lungo l’arco di tutta la vita, dalla formazione prima che si entri nel luogo di lavoro, a una formazione che accompagna il lavoratore durante il lavoro e nei cambiamenti di lavoro. In secondo luogo una rete di ammortizzatori sociali intelligente. Noi abbiamo ancora qui davvero troppe disparità, abbiamo figli e figliastri: se un lavoratore della Fiat va in cassa integrazione, per un po’ ha uno strumento di difesa del reddito, se un lavoratore dell’indotto (cioè di un’azienda che lavora per la Fiat, chiude quell’aziendina perché la Fiat chiude una fabbrica) probabilmente più che una piccola indennità per qualche mese, non potrà ottenere. Quindi, si creano situazioni diverse, situazioni di figli e di figliastri, di diritti diseguali. Questo é un problema. Perché non si è fatto, perché ci si fa adesso i conti, perché non ci sono le risorse finanziarie disponibili a questo, è questo il problema che ha frenato questo processo. Però, tanto più in una fase quale quella che stiamo attraversando, di rallentamento dell’economia, di problemi occupazionali, io credo che costruire una rete di ammortizzatori più universale e più intelligente sia il modo per risolvere il problema. Santalmassi: Mi fa una proposta concreta? Epifani: Per fare una proposta concreta bisogna misurarsi con un piccolo problema e cioè avere a disposizione qualche migliaia di miliardi. Santalmassi: Non ci sono in giro… Epifani: Bisogna trovarli, perché questo é il problema.

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Santalmassi: Ma, guardi Epifani, l’emergenza è questa: non ci sono i pacchi di miliardi per fare alcunché. Nemmeno il ponte sullo stretto, io ne sono convinto. Epifani: Lasciamo perdere il ponte sullo stretto che si può fare dopo, adesso pensiamo a questa cosa. Ma lei lo sa che sono rientrati in Italia 120.000 miliardi di soldi portati illegalmente all’estero? Sa quanto hanno pagato le famiglie che hanno goduto di questa possibilità per farli rientrare? Il 2,5 per cento. Lo sa quanto paga lei se sbaglia formalmente una dichiarazione dei redditi? Di più di quanto hanno pagato quelle famiglie che hanno riportato in Italia 120.000 miliardi. Se invece di pagare il 2,5 per cento avessero fatto pagare il 7,5 per cento, ci sarebbero stati 6.000 miliardi disponibili per… Santalmassi: Questo argomento vale per quando si voterà nel 2006, anche se non vuol dire che lei ha torto. Ma faccia una proposta concreta e sentiamo cosa ne pensa Guidalberto Guidi. Epifani: L’ho gia fatta. Allora, la proposta concreta è questa: le famiglie che hanno portato quei soldi pagando il 2,5 pagano un’addizionale pari al 5% e i 6.000 miliardi li mettiamo a disposizione dei lavoratori che non hanno gli ammortizzatori sociali. Questa è una proposta. Santalmassi: Ed è anche molto chiara. Guidalberto Guidi. Guidi: Io non sono interessato, quindi potrebbe anche andarmi bene. Però mi pare che ci sia - uso un eufemismo, Guglielmo - forse un pizzico di demagogia in questa proposta; mi sembra un pizzico, e dico solamente un pizzico. Forse è stato il provvedimento dal punto di vista, diciamo, degli incam fiscali o parafiscali che ha avuto il maggior risultato nell’ultimo periodo. E’ un po’ come dire: mah, se facevamo pagare il 7,5… Ho letto un bellissimo libro, una volta, che parlava “Se Hitler avesse vinto la guerra”, uno dice: “Mah, non lo so cosa succedeva”. Magari se facevi il 7,5 per cento non li riportava nessuno, non possiamo escludere neanche questo aspetto. Epifani: Guidalberto, posso farti un’obiezione? Perché c’è un tema che a me appassiona, ma non capisco perché non appassioni te. Scusami, il Governo ha portato via alle imprese 3.000 miliardi da un giorno all’altro. Possibile che non ti rendi conto che il Governo porta via a chi ha attività imprenditoriali, a chi rischia, e invece se uno legalizza quello che illegalmente aveva portato all’estero, non gli fa pagare nulla. Cioè, non ti pare possibile che bisognerebbe aiutare chi investe e non chi esporta o importa? Santalmassi: Io però, scusate, vorrei riportare i piedi a terra, perché l’ipotesi di Epifani è facile da applaudire, ma non sta né in cielo né in terra. Ma cosa si chiede, che chi ha rimesso dentro a quelle condizioni si autodenunci per una legge che non c’è, per pagare il 5% in più? Epifani: Mette un’addizionale. Santalmassi: Si autoimpone un’addizionale? Epifani: La mette il Governo.

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Guidi: Cioè, il Governo ho detto: venite dentro; poi dice: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Ma allora io farei un’altra proposta: perché non incamerare il 50% di queste somme! Se dobbiamo fare la brutta figura... Epifani: Adesso non esagerare… Guidi: E’ la stessa cosa, è la stessa cosa, un Governo dice: queste sono le regole, poi dice: ci siamo sbagliati, non è il 2,5, è il 7,5… Epifani: Ma scusa, io pago 12,5 per cento se ho un deposito bancario o postale, una famiglia, una persona, un pensionato, se invece io legalizzo soldi portati all’estero, vuoi farmi pagare almeno quanto paga un povero pensionato, un povero lavoratore che ha qualche lira in banca? Santalmassi: Chiedo scusa, vorrei riportare la discussione sul tema di stasera: come avere un nuovo wellfare. Guidalberto Guidi, qual è la proposta che lei si sente di fare? Guidi: Ma non erano fuori luogo però quello che diceva lei e quello che diceva Guglielmo Epifani, noi abbiamo una valanga di problemi e abbiamo dimenticato di toccarne un altro, ad esempio. Il prodotto interno lordo di questo Paese è fatto per il 27% -secondo me stiamo arrivando vicino al 30%- con lavoro sommerso, lavoratori, aziende che non hanno diritti, che cadono dalle impalcature, che non esistono giuridicamente, che possono essere buttati fuori, non dico con preavviso o senza preavviso, ma da un giorno all’altro. Qual è la soluzione? Ci possono essere diecimila soluzioni, non so: si sequestrano, si mandano i Carabinieri, la Polizia, però tutto quello che è stato fatto fino ad ora non è servito. Forse, a mio giudizio, bisogna creare le condizioni per cui questa gente che commette questo gravissimo reato venga incentivata a non farlo. Io credo che governare significhi trovare delle soluzioni che portano a dei risultati, non fare dei proclami, credo che la semplificazione, quello che abbiamo toccato prima a proposito ad esempio di quel famoso articolo tra il 17 e il 19 -io quel numero lì non voglio neanche più pronunciarlo perché ormai mi esce dalla testa e dagli occhi-, quella roba lì è un pezzettino di cambiamento che potrebbe forse portare chi ha 13 dipendenti ad andare a 15, forse chi ha 10 dipendenti in nero… non dico che risolva i problemi, non esiste la soluzione che risolva i problemi così. E’ come il cambiamento di un mosaico fatto di tante tessere, alcune tessere vanno cambiate ma vanno cambiate tutte, poco per volta. Toccavamo prima il problema della disoccupazione, di quello che sta succedendo, cioè, quel famoso articolo di cui si parlava prima, e la riduzione del personale con mobilità, etc. Sono due cose che non c’entrano assolutamente nulla: il primo regolamenta la risoluzione del rapporto di lavoro individuale in mancanza di giusta causa e giustificato motivo, punto e basta; l’altra purtroppo crea dei problemi drammatici. Io ho la sensazione che di fronte a problemi di questa gravità, quando un’azienda dice: ho 100, 1.000, 10.000 persone in più, non ci sia nulla da fare. Sono trentacinque anni che faccio ‘sto mestiere e so, perché l’ho visto, cosa vuol dire per un lavoratore di 40-50 anni, magari a bassa scolarità e bassa professionalità, trovarsi da un giorno all’altro senza il lavoro. E’ una cosa lacerante, che tocca i rapporti familiari, che tocca la vita di relazione, vuol dire sentirsi nudo perché si perde la dignità. Credo che si debba cominciare a preparare mentalmente i giovani al fatto che queste cose possono succedere, che si comincino a preparare. Perché questo è il mercato, ragazzi, voi potete applaudire o ridere, poi Epifani vi dirà quello che riterrà opportuno, con il garbo e il gusto

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che usa in queste cose, però questo è il mondo nel quale dobbiamo vivere, e non lo cambierà nessuno, non c’è niente da fare, questo è quello che abbiamo di fronte. Anzi, non io, chi ha 25 anni ora: dovrà parlare le lingue, dovrà potersi spostare da una parte all’altra, dovrà essere pronto a cambiare lavoro, forse a cambiare casa… E’ giusto o sbagliato? Io non do valutazioni di merito, però vi dico che questo è il mondo con il quale dovranno confrontarsi. Forse, come classe dirigente, conviene che li aiutiamo a prepararsi, non dire “è impossibile che succeda”, perché quando capitano quei problemi di cui si parlava all’inizio, non ci ha mai messo una pezza nessuno. Il mondo che è stato costruito per quello aveva il sistema bancario che era pressoché pubblico, le aziende pubbliche, la Gepi, l’Iri, c’era un percorso consolidato, si andava prima alla Cassa di Risparmio, poi si andava al Ministero, poi si andava… Non c’è più nessuno, non ci sono più i salvagente oggi, non c’è più niente da fare, non lo possiamo fare, l’Europa non ce lo lascia fare. Abbiamo dimenticato prima quando abbiamo parlato di Fiat: non lo so, può darsi che l’Europa consenta allo Stato di entrare nel capitale, è gia successo, ci sono i lender tedeschi che l’hanno fatto, ma non dura, perché è il mondo che é cambiato. Allora, credo che dobbiamo rendercene conto noi, credo che l’unico servizio che possiamo fare per i giovani oggi -per evitare di trovarsi magari: donna, quarantacinquenne, a bassa scolarità e bassa professionalità…-, forse conviene che li aiutiamo a trovare strumenti per non sentirsi morire quando capitano queste cose. Santalmassi: Purtroppo siamo cinque minuti oltre il tempo concesso, a me dispiace moltissimo , perché quarantacinque minuti persi… Guidi: Per colpa di Confindustria. Santalmassi: Troppo facile dirlo così. Concludendo, credo si capisca che quella concentrazione di saperi, che qualcuno nell’incontro precedente organizzato dalla Fondazione Zaninoni ha invocato, serve anche nel welfare; serve, perché aiuta a cambiare, per il fatto che un singolo lavoratore matura una esperienza diversa e può andare a farla altrove. Mi è venuto in mente guardando quella definizione scritta lassù, una citazione da Isaia, che ci aiuta in un certo senso:“ricchezze vere sono la saggezza e la conoscenza” . Epifani, le lascio l’ultima battuta. Lei conta sul fatto che la crisi della Fiat possa ricostituire l’unità sindacale? Epifani: Ho motivo di credere che su questa vertenza -anche perché così è stato detto- Cgil, Cisl, Uil e le tre categorie dei meccanici si comporteranno allo stesso modo, e questo sarebbe un segno che, di fronte a difficoltà occupazionali, il sindacato, almeno su questo fronte, ritrova l’unità. Ma se posso aggiungere una battuta: io capisco quando Guidi dice che il mondo sta cambiando, però vorrei non rassegnarmi a un mondo in cui per i giovani c’è solo nomadismo, c’è solo precarietà, c’è solo il dover fare, l’essere costretti a fare. Vorrei un mondo in cui il giovane di domani possa anche essere libero di scegliere, perché una società in cui non si è liberi di scegliere, non è una società veramente democratica. Santalmassi: Guidi, lei è italiano, è cittadino europeo… Il mondo sta cambiando. Le chiedo: le sta bene questa aria dell’usa e getta che noi importiamo dal modello americano - che poi produce il caso Enron, il caso Worldcom, etc., tutte situazioni che coinvolgono non solo le aziende, ma anche i lavoratori? Glielo chiedo considerandola datore di lavoro più che Confindustria, e questo perché suona pure aspro il modo in cui lei dice come prima

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–ma era una battuta– ‘é colpa di Confindustria’. Guardi che aziende, famiglie, datori di lavoro e lavoratori sono facce dello stesso sistema, non credo che stiate bene voi se sta male qualcun altro… Guidi: Io non sto dicendo che… e ripeto, l’ho detto due o tre volte, io non do giudizi di valore. Potrei anche dirvi che forse non saprei lavorare o vivere in un mondo diverso rispetto a quello che conosco, però so perfettamente che il mondo che io conosco non è più il mondo con il quale ci dobbiamo confrontare, questo lo so perfettamente. Io ho lavorato negli Stati Uniti, ammiro moltissimo quel Paese, e per un po’ di tempo, rientrando in Europa, rientrando in Italia dicevo: forse noi abbiamo trovato il modo per… ma no, non era così. La via europea, la via etica al capitalismo non esiste, non c’è. O è quella o è quella. Tertium non datur, dicevano i latini. Abbiamo scelto di fare un gioco, dobbiamo giocare quel gioco con le carte che sono previste da quel gioco, non possiamo pensare di giocare a bridge con le carte da briscola o da scopa e pensando che le regole siano diverse, perché non ce lo lasciano fare, il mondo non ce lo lascia fare. Quali sono le alternative? Chi é che ha detto che la democrazia è il male meno peggio per governare che esista? Credo che forse questo è il modo meno peggiore per creare ricchezza. Non dico il migliore, forse il meno peggiore. Io altri modi non ne conosco e quindi dobbiamo prepararci per saper essere competitivi in quel modo se vogliamo sopravvivere, altrimenti possiamo benissimo coltivare ravanelli, ci sono tante attività, suoniamo l’arpa. Io purtroppo so fare solo l’imprenditore, sapessi suonare il piano, forse farei altre cose… Santalmassi: Io vi ringrazio per la vostra attenzione e la vostra cortesia. E’ con un certo dispiacere che chiudo questa conversazione questa sera, direi che ci si alza da tavola quando arrivano le pietanze più saporite. Avete ascoltato la voce di chi sogna un mondo diverso e di chi dice “dimentichiamoci la via etica al capitalismo che è cara all’Europa: ci confrontiamo con altri mondi”. Grazie.

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Opinioni pubblicate sul sito della Fondazione in preparazione del convegno Giuliano Cazzola economista, politologo, esperto sindacale Welfare to work, politiche sociali a promozione del lavoro. Magia delle parole, soprattutto se pronunciate in inglese, l’idioma del mondo. Per capire il senso dell’operazione enunciata dal Governo occorre partire da alcuni dati di fatto: il tasso di occupazione in Italia è tanto lontano dagli obiettivi posti dall’Unione europea in una prospettiva a breve (entro il 2010) da farli sembrare irraggiungibili e propagandistici. Varcato il traguardo dell’euro, sotto la spinta dei Governi a direzione socialista (allora in grande maggioranza nei Paesi del Continente) l’Unione – pur nei suoi limiti istituzionali – assunse, tra i suoi programmi, l’incremento della occupazione, suggerendo adeguate politiche rivolte a un obiettivo tanto nobile e ambizioso. Così, nel vertice di Lisbona del 2000, i Paesi della Comunità, ribadendo l’impegno del risanamento finanziario (che resta il cardine della costituzione materiale e il presupposto della moneta unica), si sono prefissi di raggiungere un tasso di occupazione del 70% (riferito alle persone in età compresa tra i 15 e i 64 anni), con particolare riguardo al saggio del 60% per la componente femminile e del 50% per la popolazione compresa tra 55 e 64 anni. L’Italia si prepara a questa sfida epocale partendo da performance – ufficiali - molto depresse anche se migliorate rispetto agli andamenti del 1995: con tassi rispettivamente del 54,6% per quanto riguarda l’occupazione globale, del 41% relativamente al lavoro delle donne e (la percentuale è quasi ridicola) del 28% nelle coorti degli ultra55enni (si pensi che dal 1996 ad oggi è andato in pensione anticipata di anzianità un milione e mezzo di italiani). Va da sé che non si tratta di una gara a premi, alla quale dobbiamo partecipare per non fare brutta figura. Sono in gioco il benessere dei nostri figli e il futuro dell’Unione (una realtà che si avvia ad aprirsi ad altri Paesi) in un contesto planetario dominato dalla competizione e dalla globalizzazione; eventi ai quali – con buona pace dei no global – guardano con favore ed interesse proprio quelle nazioni in via di sviluppo che meglio possono far valere le loro convenienze sui grandi mercati internazionali. Oggi la Vecchia Europa è un Continente malato, abituato a vivere al di sopra delle sue possibilità. Di noi ha scritto il Washington Post che somigliamo a un museo condannato ad impiegare tutte le risorse disponibili per custodire le vestigia del passato. Ed è vero. Se l’Europa non sarà in grado di attraversare, soprattutto in termini culturali, la soglia del nuovo secolo, se continuerà a coltivare modelli di vita e di solidarietà sempre più insostenibili, finirà per disperdere le grandi potenzialità che le sono rimaste e per trasformarsi in una “Disneyland della memoria”, incaricata di vegliare sulle radici del resto del mondo. Diventeremo una grande Venezia, per visitare la quale dalle altre nazioni verranno pagando il biglietto di entrata (per rendere omaggio alla terra da cui partirono gli avi); ma i grandi flussi dello sviluppo passeranno altrove, lontano da noi. Per fortuna, ci verrà ancora una volta in aiuto il “vincolo esterno”: sarà l’allargamento ad Est, con l’apertura a Paesi che hanno voglia di crescere per liberarsi di un passato terribile, che lancerà all’Europa ricca e protetta la sfida della competitività. Se non saremo in grado di mettere in regola i fondamentali dell’economia e a bandire le nostre rigidità, gli investimenti se ne andranno alla ricerca di occasioni migliori. E non dovranno neppure compiere tanta strada. Ecco perché la partita decisiva del lavoro chiama in causa un intreccio di riforme non più eludibili, a cui si sottrassero, negli ultimi anni della passata legislatura, i Governi di centro-sinistra e con le quali il nuovo Esecutivo non ha ancora dato prova di sapersi misurare. Al vertice di Barcellona della primavera scorsa l’obiettivo di una maggiore occupazione (da realizzare attraverso incisive riforme del mercato del lavoro all’insegna della flessibilità) si è saldato all’esigenza di riordinare i sistemi pensionistici, in primo luogo adeguando l’età di pensionamento effettivo (che è ovunque inferiore ai limiti legali) non solo alle necessità di allargamento della base occupazionale, ma anche alle conseguenze dell’allungamento delle aspettative di vita. In sostanza, lotta al lavoro sommerso, riduzione del “cuneo fiscale e contributivo” che taglieggia le buste paga e mortifica il lavoro, riforma dei sistemi pensionistici, diversificazione delle politiche sociali a tutela dei nuovi bisogni sono componenti inscindibili della medesima strategia. Certo, i cambiamenti sono difficili e si scontrano, ovunque, con potenti interessi precostituiti. L’Italia, però, non può più permettersi gli attuali squilibri: i due terzi di una spesa sociale - che assorbe un quarto del Pil -

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sono destinati al finanziamento di un sistema pensionistico non ancora reso efficiente ed equo, nonostante gli importanti passi avanti compiuti con le misure del decennio ’90. Se il modello di solidarietà sociale deve servire all’espansione del lavoro, occorre investire di più in politiche di sostegno e difesa del reddito, in interventi di formazione e riconversione professionale, in strutture, pubbliche e private, capaci di assicurare la mobilità da posto a posto. Da tempo si parla di riforma degli “ammortizzatori sociali”; fino ad ora, però, non si sono trovate le risorse per attuarla. Le cifre circolanti dei relativi costi sono tali da scoraggiare ogni buon proposito. Pochi sanno, tuttavia, che già adesso il prelievo contributivo e i trasferimenti statali, destinati alla cassa integrazione e alla disoccupazione, determinano importanti surplus positivi che sono dirottati, nell’ambito del bilancio Inps, al finanziamento delle gestioni pensionistiche. Si torna sempre daccapo. Pietro Ichino professore Diritto del Lavoro Università degli Studi Milano

Il modello turco e quello danese Nelle prese di posizione polemiche di tanti esponenti di sinistra e sindacato contro ogni

proposta di rimodulazione del sistema di protezione del lavoro e in particolare contro ogni proposta di modifica della legge sui licenziamenti spicca il richiamo ai valori della solidarietà con i più deboli, della libertà e della dignità del lavoratore. Sennonché gli stessi valori possono essere invocati proprio a sostegno della riforma del nostro diritto del lavoro.

Dignità – Secondo la graduatoria della rigidità dei sistemi di protezione del lavoro elaborata dai ricercatori dell’Ocse e pubblicata nel 1999, l’Italia si colloca al quarto posto nel quintetto di testa, preceduta da Portogallo, Turchia e Grecia, seguita dalla Spagna: qualcuno parla in proposito di un «modello euro-mediterraneo». In fondo alla graduatoria stanno invece (insieme a Canada, Usa e Nuova Zelanda) la Danimarca, la Svizzera e la Gran Bretagna. I fautori della conservazione a oltranza del nostro vecchio diritto del lavoro vogliono farci credere che i lavoratori turchi e i greci operano in condizioni di «dignità» nettamente migliori rispetto ai lavoratori britannici, svizzeri o danesi?

Solidarietà – È provato che quanto più gli occupati regolari sono stabili nel loro posto di lavoro, tanto più i disoccupati e gli irregolari sono stabili nella loro assai più scomoda posizione. Sono, secondo le stime più attendibili, circa cinque milioni di persone nel nostro Paese: non meritano forse solidarietà anche queste? Ai disoccupati e agli irregolari si aggiungono poi tutti coloro che non compaiono neppure nelle statistiche, perché non cercano un lavoro, non avendo alcuna speranza di trovarlo. La stessa ricerca dell’Ocse conferma che il numero di questi «scoraggiati» – prevalentemente donne, anziani e giovani – aumenta con l’aumentare della rigidità delle tutele del lavoro. In Danimarca il 56 per cento della popolazione totale è attiva nel mercato del lavoro, in Svizzera il 55 per cento, in Gran Bretagna il 50 per cento, in Italia soltanto il 41 per cento: è ragionevole pensare che, con un mercato del lavoro più fluido e meglio organizzato l’Italia potrebbe aspirare ad avere attivo nel mercato del lavoro almeno il 10 per cento in più della propria popolazione; e l’Unione europea ci indica proprio questo come obiettivo principale da perseguire. Il 10 per cento significa aprire il nostro mercato del lavoro a quasi sei milioni di persone che oggi sono totalmente escluse dal mercato del lavoro e dalle sue statistiche. Alla solidarietà con questi (ma anche alla ricchezza aggiuntiva che questi potrebbero produrre) non pensa nessuno?

Libertà – Nella migliore delle ipotesi, un sistema di protezione rigida della stabilità, come il nostro, garantisce al lavoratore di restare dov’è, in un tessuto produttivo in cui spostarsi è tipicamente difficile. In un sistema più fluido, nel quale cioè la stabilità è meno protetta, ma domanda e offerta si cercano e si incontrano fra loro più agevolmente, è anche più facile per il lavoratore cambiare, spostarsi, scegliere l’azienda che più gli si confà e gli riserva un trattamento

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migliore. È anche questa una libertà importante; ed essa è tutelata, in linea di principio, dall’art. 4 della nostra Costituzione; ma il lavoratore italiano ne gode meno di quanto ne goda il lavoratore inglese, svizzero o danese, proprio in conseguenza della nostra tutela più rigida della stabilità.

Detto questo, anche coloro che al modello turco o greco preferiscono quello nord-europeo, cioè coloro che alla sicurezza data dall’inamovibilità preferiscono la sicurezza data dalla possibilità di scelta effettiva nel mercato del lavoro, sbaglierebbero se pensassero che una trasformazione di questa portata, nel nostro Paese, possa essere realizzata col mutamento di un solo elemento del sistema. È quello che pretendevano di fare i radicali due anni fa con la scure referendaria: cambiare il sistema-Paese con la sola abrogazione dell’art. 18. Il passaggio da un equilibrio complessivo a un altro richiede invece che si agisca contemporaneamente su molte leve; occorre, certo, una modifica sapiente, e soprattutto ben dosata nel tempo, della disciplina dei licenziamenti, ma anche l’attivazione nel mercato del lavoro di servizi efficienti di informazione, formazione, assistenza alla mobilità geografica dei lavoratori; inoltre l’eliminazione degli ostacoli di vario genere che oggi, in Italia, penalizzano la mobilità in generale e il lavoro femminile in particolare. Misure senza le quali l’abrogazione dell’art. 18 può produrre anche effetti contraddittori rispetto a quelli perseguiti dai suoi fautori.

È giusto, dunque, approfondire il discorso sul perché e come modificare la disciplina dei licenziamenti; ma questo discorso deve essere strettamente coniugato con quello sul perché e come modificare l’intero funzionamento dei servizi nel nostro mercato del lavoro. Andrea Moltrasio presidente Unione Industriali Bergamo Un sistema produttivo orientato al cambiamento

Parlare di welfare e di mercato del lavoro in riferimento alla provincia di Bergamo significa assumere un punto di osservazione molto particolare. E’ infatti opinione diffusa che Bergamo esprime uno dei sistemi economici industriali più rilevanti a livello nazionale, e costituisce pertanto un riferimento estremamente significativo per analisi orientate a verificare l’impatto delle nuove disposizioni di legge in materia di lavoro su un tessuto produttivo solido, diffuso ed a forte vocazione manifatturiera. Lo conferma la presenza a livello locale di alcune delle più significative realtà produttive nazionali, oltre a situazioni di “eccellenza” che, in alcune ipotesi, travalicano i confini dell’Unione Europea assumendo rilevanza internazionale.

Le prospettive che ne derivano sono quindi difficilmente applicabili al contesto economico generale dell’Industria nazionale. Si tratta tuttavia di riflessioni importanti, influenzate dalla prevalenza e dalla vitalità del tessuto industriale in questa ed in altre province del “profondo Nord”. Le considerazioni riferite all’imprenditoria industriale locale consentono infatti di identificare un quadro complessivo estensibile anche alle altre aree più produttive del Nord-Italia, assimilabili per caratteristiche di sistema e per dinamiche di sviluppo.

Occorre quindi sottolineare che da queste rilevazioni, indipendentemente dalle difficoltà congiunturali recentemente emerse come inevitabile riflesso di problematiche economiche nazionali, deriva un quadro generale sostanzialmente positivo.

Qualche dato a conferma. L’industria occupa, in provincia di Bergamo, più di 160.000 addetti, tra cui oltre 75.000

metalmeccanici - il comparto manifatturiero più diffuso - dipendenti da circa 7.000 aziende registrate presso la locale Camera di Commercio. Si registra uno dei più bassi tassi di disoccupazione italiani ed europei. Nel 2001 il tasso di disoccupazione complessivo è stato pari al 1,8%, circa la metà del tasso di disoccupazione lombardo, mentre quello maschile è sceso addirittura al 1% e costituisce uno dei più contenuti a livello europeo. Il problema “occupazione” non sembra riguardare nemmeno la manodopera femminile, in quanto il relativo tasso di disoccupazione si attesta intorno al 3,1%. Si può quindi sostenere che il territorio provinciale

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bergamasco è complessivamente esente da problemi di disoccupazione e caratterizzato invece da tassi vicini alla piena occupazione, con problemi –- in alcuni comparti – di eccesso di domanda di lavoro.

Tuttavia la prevalenza della Piccola e Media Impresa, tradizionalmente caratterizzata da ritmi produttivi particolarmente intensi e da forti esigenze di rapida adattabilità alle continue variazioni del mercato, unitamente ad un dinamismo commerciale intersettoriale sempre più intenso - che comporta una costante riduzione dei tempi di produzione ed inevitabili difficoltà di programmazione, dovute alla contrazione della visibilità a lungo e medio termine – rendono spesso difficile conciliare gli orientamenti espressi dal legislatore in materia di rapporti di lavoro e di sostegno all’occupazione con le effettive necessità del sistema produttivo locale, in un contesto che affronta fasi evolutive sempre più rapide.

La diffusione della contrattazione di secondo livello nelle aziende industriali della provincia, la consueta sottoscrizione di accordi sindacali per la gestione degli esuberi collettivi, la propensione alla conciliazione in sede sindacale in occasione dei licenziamenti individuali per riduzione di personale, il ricorso – saltuario ma significativo – a contratti di solidarietà od a richieste congiunte e condivise di integrazioni salariali straordinarie testimoniano la capacità delle parti sociali – industrie e sindacati – di operare tempestivamente e concordemente in occasione di processi di riorganizzazione o riprogrammazione produttiva, per risolvere problematiche aziendali anche strutturali e, conseguentemente, soddisfare le aspettative di tutti gli addetti interessati, garantendo il mantenimento di un sufficiente grado di benessere sociale. Si avverte tuttavia l’esigenza di una analoga disponibilità e tempestività anche da parte dell’interlocutore pubblico, a cui compete la predisposizione degli strumenti operativi idonei ad agevolare gli sforzi operati dal sistema. Le oltre 250.000 ore di cassa integrazione autorizzate a settembre dalla commissione provinciale INPS, oltre a costituire un segnale del perdurare di una situazione di parziale difficoltà del sistema industriale (congiunturale per i settori metalmeccanico e chimico, ma forse strutturale per il settore tessile) esemplificano, evidenziandola, la necessità per il sistema produttivo bergamasco di appoggiarsi a un sistema di ammortizzatori sociali efficace e tempestivo, in grado di supportare l’evoluzione delle imprese verso soluzioni operative idonee ad affrontare nuovi scenari e garantirne lo sviluppo. Il lavoro a Bergamo è già cambiato e continuerà a farlo con ritmi sempre più sostenuti: le maggiori perplessità sino ad ora percepite dal sistema produttivo locale – nel monitoraggio del lento processo di riforma del welfare – sono piuttosto dovute al costante rischio che le evoluzioni degli istituti normativi intervengano tardivamente rispetto agli adattamenti già promossi dal sistema imprenditoriale locale. Ne possono derivare, come già in passato, momenti frizionali e diseconomie dovute alla necessità di rivedere programmi di intervento, strategie, valutazioni previsionali sia economico-finanziarie che produttive, che comporterebbero aggravi di costi a carico di un sistema già afflitto da una tale moltitudine di vincoli e restrizioni che, soprattutto per strutture di dimensioni ridotte e quindi meno “visibili”, rischiano di indurre evasioni od aggiramenti delle disposizioni di legge.

La solidità, la diffusione e la vitalità del sistema produttivo della provincia di Bergamo danno concreta testimonianza della possibilità di mantenere quel grado di sviluppo e di tasso di occupazione che ha caratterizzato sino ad ora la realtà economica locale, a patto che le istituzioni pubbliche offrano il proprio indispensabile supporto.

I recenti D.D.L. 848 e 848bis prevedono interventi che interessano direttamente il tema della flessibilità in ingresso e in uscita dal posto di lavoro: si tratta di disposizioni di grande interesse per le aziende della provincia di Bergamo, non tanto in riferimento alla dibattuta riforma, parziale e temporanea, dell’art. 18 L.300/1970, quanto piuttosto per la possibilità di operare interventi sostanziali sui temi della somministrazione di lavoro esterno, del riordino dei contratti a contenuto formativo, degli ammortizzatori sociali, dell’orario di lavoro, della formulazione o riformulazione di recenti o del tutto nuove tipologie di lavoro (a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite) che, unitamente a nuovi strumenti come la procedura di certificazione volontaria dei contratti, si auspica possano facilitare - non frenare ed appesantire burocraticamente - la corsa contro il tempo del sistema produttivo locale. L’aspettativa delle imprese di Bergamo è quindi rivolta a un welfare in grado di sostenere lo

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sviluppo imprenditoriale, attraverso un dialogo sociale idoneo ad operare, a livello locale, nell’interesse di tutti i soggetti coinvolti, senza prevaricazioni di parte ma anche senza eccessivi ritardi o rallentamenti, per favorire una dinamica produttiva in grado di continuare a trainare i propri comparti tradizionali, garantendo redditi ed occupazione.

Laura Pennacchi economista, parlamentare

Lavoro e welfare

L’azione del governo Berlusconi in materia di lavoro e welfare configura l’idea di un inevitabile trade off tra sviluppo economico e sviluppo sociale secondo il quale, per avere più crescita economica, occorrono più diseguaglianza e meno tutele e diritti. Questa visione, che contrappone le garanzie alle opportunità, gli occupati ai disoccupati, gli inclusi agli esclusi, i giovani agli anziani, si fonda sull’idea che sia l’egoismo dei garantiti a creare le difficoltà di coloro che si trovano ai margini del mercato del lavoro, che siano gli stessi salariati a portare la responsabilità più grande della disoccupazione, quei salariati italiani che, in realtà, hanno ancora retribuzioni più basse rispetto agli altri paesi europei. Infatti, oggi assume nuova rilevanza la questione salariale e redistributiva, soprattutto alla luce della scelta del governo e della Confindustria di abbandonare il metodo della concertazione.Questa maggioranza sembra volere meno mercato nei settori produttivi e più mercato nei “beni sociali”. Al contrario, per “beni sociali” fondamentali come istruzione, sanità, previdenza, l’universalismo non può essere garantito senza un primato dell’offerta pubblica di servizi, a cui il privato può affiancarsi in funzione solo complementare. Per questi beni l’attribuzione prioritaria al mercato significherebbe la fine dell’universalismo e, dunque, prestazioni pubbliche residuali solo per i poveri, meccanismi assicurativi generalizzati per i più ricchi, scaricando sulle famiglie e dunque sulle donne tutto il peso dell’organizzazione sociale.È necessario, invece, rilanciare il welfare in modo da aprirlo verso i giovani e le donne, estenderlo agli esclusi, riscoprirne l’ispirazione egualitaria. Bisogna rifiutare l’idea di un modello competitivo fondato sui costi e sulla precarizzazione del lavoro e dei suoi diritti e scegliere, invece, un modello fondato sulla qualità dei prodotti e del lavoro, nel quale i diritti stessi siano fattore di competitività. Prioritari, in tal senso, sono l’incentivazione dell’investimento nel capitale umano (anche attraverso la proposta di una dotazione di capitale per i giovani da investire in formazione) e, parallelamente, una vera e profonda riforma del sistema degli ammortizzatori sociali per estendere le tutele e i diritti alle forme di lavoro atipico e a tutto il lavoro “economicamente dipendente”.

Don Francesco Poli direttore Ufficio Pastorale Sociale Curia di Bergamo

Consegno questo contributo, riprendendo la riflessione maturata in questi ultimi mesi soprattutto grazie al lavoro promosso dalla Caritas. Insieme al tema del “lavoro che cambia”, come Centro di Pastorale Sociale diocesano vorrei porre l’attenzione sul welfare, tema di estrema attualità.

- L’itinerario italiano al welfare non è separato da quel movimento di liberazione umana che ha seguito l’estendersi di industrializzazione, la nascita del proletariato, il conflitto di classe. Il termine ”welfare” si è formato tardi e con connotazioni improprie, così come la definizione di

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“Stato sociale”. In Italia si è parlato di “sicurezza sociale “. Volendo trovare le tracce di un contributo cattolico nel cammino percorso, la sicurezza sociale costituisce un capitolo del più vasto ambito della giustizia sociale. Tra le caratteristiche dell’approccio cattolico alla sicurezza sociale, la diffusione della giustizia per tutti la convinzione che non sia mai praticabile una rinuncia di libertà in cambio di una ricerca di benessere.

- Sicurezza sociale: diventa un concetto di sintesi nel dopoguerra. La miseria per disoccupazione era stata inflitta a ingenti masse umane in tutto l’Occidente. Il capitalismo con la sua flessibilità accettò o patrocinò un insieme di protezioni sociali; la sicurezza sociale significò la volontà di contrastare la precarietà provocata dalla crisi. Purtroppo oggi il capitalismo viene bollato, né migliore sorte per coloro che denunciarono l’offesa alla dignità umana insita in ogni determinismo economico.

- Nell’immediato secondo dopoguerra, durante una Settimana sociale dei cattolici, impostata con un respiro costituente, il tema scelto fu proprio la sicurezza sociale. Si parlò di universalizzazione dei servizi; coprire tutti gli eventi di bisogni sociali; di unificazione cioè lavoro in rete nella previdenza. Si parlò anche dell’opera di advocacy e allo stesso tempo degli aiuti concreti, dell’azione soccorritrice che nessuna giustizia riesce a coprire. Ci fu un’espansione della tutela di cittadinanza. Si espresse la necessità di semplificare lo Stato, in particolare per quanto riguardava la riscossione dei tributi; di realizzare una universalizzazione dei servizi; di unificare, attraverso un lavoro di nero, i vari istituti e realtà che realizzavano la previdenza e l’assistenza. In quell’occasione si mise ancora in evidenza il tema della salute, dell’assistenza sanitaria, che deve essere garantita a tutti e quello della disoccupazione che va contenuta entro determinati limiti per evitare che si verifichi una disoccupazione di massa. Si parlò infine del ruolo delle Opere di carità (oggi parliamo di advocacy) per infondere un accento umano e cristiano alle forme stabilite di sicurezza sociale.

- Altro punto chiave è il rapporto tra Stato ed intermedi che deve valorizzare tutti gli attori sociali: dalla persona alla famiglia, dalle istituzioni sociali ai sindacati, dalle associazioni allo Stato. Mentre storicamente il capitalismo e il liberismo hanno cercato forme di compatibilità con le esigenze dei diritti dei cittadini, oggi lo Stato sociale è considerato come opzionale. Lo Stato è invitato a farsi da parte per consegnare agli “spiriti vitali” il timone della storia. Siamo di fronte a un grosso cambiamento etico-culturale. Precedentemente la concezione dello Stato era guidata da una dottrina dell’inclusione, delle tutele garantite tendenzialmente a tutti. Oggi la prassi visibile adottata dallo Stato sembrerebbe andare verso forme che favoriscano l’esclusione, ai poveri è assicurata un’assistenza residuale. Si delinea sul piano culturale un rovesciamento delle priorità. Ciò che conta è la produttività e la competitività. C’è l’idea che il mantenimento di un buon livello della sicurezza sociale possa quasi danneggiare lo sviluppo economico. Ci sono segnali che indicano il configurarsi di una società a più strati: esclusi, precari, garantiti, privilegiati.

- Un’azione politica che voglia avere una valenza sociale di giustizia dovrà mettere al primo posto la questione del lavoro: l’obiettivo della piena occupazione non può essere perseguito soltanto attraverso manovre di mercato come investimenti e fisco. Né è sostenibile il ricorso permanente a forme più o meno assistenziali di intervento. Non si può evitare un percorso che riattivi, in forme moderne, un ruolo propulsivo dello stato della promozione e dello sviluppo economico e sociale, anche mediante alcuni grandi interventi operativi che aiutino lo sviluppo e l’impiego. La prima questione da affrontare è sicuramente quella dell’occupazione e della programmazione necessaria per conseguirla; la seconda questione è quella della salute come diritto di ogni cittadino. Una terza questione è quella relativa al concetto di sistema integrato definito legislativamente nel campo dell’assistenza dalla 328/2000. Il principio di integrazione opera in diversi ambiti: sociale, sanitario, educativo-formativo. Si integrano i soggetti chiamati in causa e tutte le funzioni integrative. Le comunità cristiane possono avere un ruolo? Quale? Se guardiamo alle realtà locali, alle comunità, si apre un orizzonte ampio di impegno. In questo quadro di cambiamento epocale, da cittadini e come credenti, ci tocca la responsabilità di scegliere tra partecipazione e assenteismo, tra indifferenza e impegno, tra il prendersi cura degli altri e farsi i fatti propri.

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SINTESI DEL PROGETTO GENERALE Da parte sua l’Ufficio per la Pastorale Sociale della Diocesi cogliendo le istanze di cambiamento che ruotano anche attorno alle questioni sopra richiamate ha elaborato un progetto pastorale di cui qui offriamo una sintesi.

• Questo nostro tempo è contrassegnato da profondi cambiamenti istituzionali e giuridici, che sono stati sanciti anche nella recente modifica al titolo V della Costituzione, e che riguardano: il ruolo dei cittadini nella gestione della “cosa pubblica”, perché si sta andando sempre più verso una nuova cultura politica basata su progetti condivisi a livello territoriale, nell’ottica del bene comune e sulla centralità della persona;

• i comportamenti della pubblica amministrazione, perché sono cambiate sia le sue funzioni che il suo rapporto con i cittadini.

Decentramento amministrativo, semplificazione, trasparenza, federalismo, sussidiarietà, sono ormai concetti entrati con forza nel linguaggio comune, che sintetizzano i nuovi modi di relazionarsi da parte delle varie istituzioni tra loro e con i cittadini. Questo nuovo modo di fare politica è basato su progetti condivisi a livello territoriale, ove i poteri decisionali finali e le responsabilità relative sono di norma dei Comuni, ma non singolarmente: i progetti devono essere condivisi in un ambito territoriale specifico, mediante un “piano di zona” e opportuni “patti territoriali”. E nella messa a punto e gestione di questi progetti, oltre alle realtà istituzionali locali, tutte le componenti sociali significative sono chiamate ad assumersi ruoli e responsabilità precise: non solo gli operatori pubblici, privati, no profit e volontariato, ma anche le rappresentanze delle associazioni di cittadini. La strategia di fondo è evidentemente di costruire uno welfare sulla base di responsabilità condivise: un sistema reticolare che fa della sussidiarietà il principio fondamentale, superando l’impostazione per livelli gerarchici di competenza; un sistema nel quale tutti i soggetti concorrono a formulare, proporre e realizzare le politiche sociali, nell’ottica del bene comune, e con particolare riferimento alle persone che si trovano più nel bisogno. Lo scenario socio-culturale nel quale viviamo rischia però di far esprimere una certa “prepotenza” del sapere tecnico, scientifico, così come delle esigenze di economicità ed efficienza, lasciando in secondo piano nel progetto sociale aspetti fondamentali quali gli stili di vita, e togliendo di fatto alla persona il suo “volto”, riducendone lo spessore a quello di consumatore / utente. La predisposizione di risorse dotate di cultura e strumenti adeguati per una efficace valorizzazione di questi valori, che hanno caratterizzato da sempre il messaggio e la cultura cristiana, risulta quindi una necessità impellente e ineludibile, oltre che una opportunità irrinunciabile, anche in ottica di progetto pastorale diocesano. Vi è la necessità di costruire una comunità solidale, di ricreare rappresentanze, presenze sociali, capaci di relazionarsi e tutelare i diritti, soprattutto dei più deboli, e quindi in grado realmente di rapportarsi con altre categorie sociali più forti. E’ la capacità di continuare a voler costruire una solidarietà tra gruppi sociali diversi che hanno però un unico obiettivo: costruire una città a misura d’uomo, o molto più semplicemente, ricercare il “Bene Comune possibile”. I Forum attualmente in atto o in programma sono:

• CHIESA E SOCIETÀ (corrispondente all’ambito “socio-politico”, competenza classica dell’Ufficio). Il primo incontro (16 aprile 2002) sul tema “Amministrare la complessità in ottica sociale per il bene comune” ha trattato in dettaglio le modifiche al titolo V della Costituzione Italiana, e rimane come riferimento base per il progetto generale dei Forum.

• LAVORO ED ECONOMIA (corrispondente all’ambito “lavoro ed economia”, altra competenza classica dell’Ufficio: il primo della nuova serie di incontri si è tenuto in novembre a Dalmine)

• SERVIZI ALLA PERSONA (iniziativa nuova) Su questo tema è previsto a partire dall’autunno 2002 il progetto organico.

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• IMMIGRAZIONE E MULTICULTURALITÀ (iniziativa nuova). Il primo incontro si è tenuto il 7 maggio ’02 a Grumello del Monte; il secondo a Dalmine il 29 ottobre ’02.

• GIUSTIZIA E PACE (nuova competenza specifica dell’Ufficio). In occasione della festa di San Francesco si è tenuto un incontro il 4 ottobre ’02 presso l’Abbazia di San Paolo d’Argon dal titolo “Viaggiatori leggeri” su spunti e testimonianze per uno stile di vita responsabile.

• SALVAGUARDIA DEL CREATO (nuova competenza specifica dell’Ufficio) Il primo convegno si è tenuto il 5 ottobre ‘02 al Cornello dei Tasso, titolo ‘Il Tempo per il Creato’.

Roberto Prometti Segretario provinciale UIL Bergamo

IL LAVORO CAMBIA, IL WELFARE QUANDO ? Il tema è complesso e riguarda non solo il diritto ad avere un Lavoro, la cui mancanza ferisce

la dignità della Persona, ma anche le forme d’ occupazione da considerare socialmente accettabili. Non è trascurabile, infatti, il rischio di scivolare nei periodi bui dello sfruttamento, sia pur

camuffato da una maschera di modernità, anche alla luce della problematica legata all’immigrazione di forza lavoro.

Ne è recente esempio quella lavoratrice filippina che, avendo manifestato un timido dissenso, è stata rinfacciata di avere un’indole non abbastanza filippina.

Non cambia la sostanza quando pensiamo a tutta quella schiera di lavoratori nostrani, che rimane sempre a disposizione in “reperibilità h. 24” per tamponare l’emergenza di turno.

Ora, se è vero che lo scenario lavorativo è radicalmente mutato rispetto al recente passato, è altrettanto vero che, in contemporanea, non abbiamo salutato il regno della necessità per approdare in quello della libertà da un lavoro purchessia.

Tutt’altro! Piaccia o no, le disuguaglianze sociali sono in aumento, anche nella laboriosa bergamasca.

In famiglia siamo alla media di due stipendi ed un figlio, pervasi dalla sottile paura di perdere un reddito, che porta diritto alla soglia di povertà. D’altra parte il costo, in termini economici e personali, della crescita di un figlio è oggi di una portata tale da scoraggiare anche coloro che sono animati dalle migliori intenzioni.

Sono in crescita i lavoratori avvolti nell’incertezza del lavoro a tempo. I cosiddetti contratti atipici che, se da un lato possono consentire alla Persona una crescita professionale, grazie all’acquisizione di competenze nuove e diverse, dall’altro non forniscono alcun tipo di garanzia nel medio e lungo periodo.

Con il timore fondato, insieme all’avanzare dell’età, dell’esclusione definitiva dal mondo del lavoro e, quindi, da tutto il resto.

Di fronte a questi epocali cambiamenti, non possiamo chiuderci a riccio o ricorrere agli espedienti quotidiani di egoismo e di destrezza: perché quando Pinocchio non c’è più, il Gatto e la Volpe sono costretti malinconicamente ad imbrogliarsi a vicenda.

Quindi c’è bisogno di chiarezza, di lungimiranza. Di un Sindacato che non ristagna in un’idea difensiva del lavoro. Anzi, in una realtà che trasmette solo messaggi di ansia, deve essere risoluto a promuovere nuovi diritti e tutele, con regole certe, in grado di far valere gli interessi dei lavoratori ed accrescerne le opportunità.

Da qui il nuovo Stato sociale, quello delle opportunità che non sono soltanto formali ma consentono di aspirare a capacità effettive di essere, di avere, di fare e di sapere.

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Nel Patto sottoscritto il 5 luglio con il Governo ci sono tutti questi indirizzi. Si tratta ora di saperli tradurre in pratica quotidiana per respingere, soprattutto, qualsiasi ipotesi di una irrimediabile incompatibilità tra welfare e crescita economica.

Nei Paesi scandinavi, dove tutti pagano sacrosantamente le tasse, si riesce a far convivere un’elevata protezione sociale con una forte integrazione nell’economia mondiale.

Io credo fondamentale, insieme ai sostegni per l’occupazione e la formazione, un sistema di incentivi che portino a migliorare, per prima cosa, gli indici di fecondità. In quei Paesi ciò è stato ottenuto con un insieme di misure tese a favorire le donne che hanno figli mediante la remunerazione del lavoro domestico e l’offerta di servizi reali. D’altra parte una durevole ripresa economica non può essere assicurata da una popolazione che invecchia, mentre una ripresa demografica potrebbe da un lato ridurre i flussi migratori e dall’altro facilitare l’integrazione, a partire dalla scuola.

Non solo. In tutta Europa è fortemente favorito il part-time per aiutare l’occupazione, mentre da noi, in particolare, le donne e madri che lavorano sono costrette ogni giorno a numeri di alta scuola acrobatica per mandare avanti la famiglia. Io credo che di fronte ad una rinnovata fiducia, ad uno Statuto dei Lavoratori aggiornato al presente, la nostra gente saprà, come sempre, rispondere positivamente.

Anche di fronte all’esigenza di finanziare i costi crescenti del welfare centrale e locale attraverso la necessità di progettare ed amministrare fondi integrativi, forme assicurative, criteri selettivi rigorosi in termini di partecipazione alla spesa, compreso il ricorso a prelievi fiscali generali la cui accettabilità non può che dipendere dall’entità del tributo e dalla condivisione della sua finalità.

Penso ad esempio al problema delle persone non autosufficienti, che può diventare drammatico, se non affrontato in tempo.

Come per la tutela ambientale è basilare, quindi, che si crei un nuovo patto di cittadinanza, a partire da un armonico equilibrio fra generazioni in un sistema di relazioni economiche e sociali fortemente partecipativo e trasparente. La sfida è affascinante ed è già nel nostro presente.