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INDICE DEL FASCICOLO 4 o (luglio-agosto 2006) PARTE PRIMA DOTTRINA Giorgio Oppo, Patto di famiglia e « diritti della famiglia » ........... Pag. 439 Paolo Vitucci, Ipotesi sul patto di famiglia ................... » 447 Giovanni Giacobbe, Il modello costituzionale della famiglia nell’ordinamento italiano ..................................... » 481 RECENSIONI E SEGNALAZIONI Alessandro Palmieri, I contratti di accesso (Francesco Macario: p. 503); Lo- renza Bullo, Nomina et debita ereditaria ipso iure non dividuntur. Per una teoria della comunione ereditaria come comunione a mani riunite (Francesco Macario: p. 506); Matteo della Casa, Sulle definizioni legi- slative nel diritto privato. Fra codice e nuove leggi civili (Francesco Ma- cario: p. 510); Marco Galli, Attività contrattuale della P.A. e difetto di potere rappresentativo (Francesco Macario: p. 513); Francesco Gambi- no, Poteri del rinegoziare (Francesco Macario: p. 516); Gianfrancesco Vecchio, La cessione del credito nella contrattazione d’impresa (Fran- cesco Macario: p. 519); Tommaso Maria Ubertazzi, Il diritto alla pri- vacy. Natura e funzione giuridiche (Francesco Macario: p. 520). OSSERVATORIO Remo Caponi, Note in tema di poteri probatori delle parti e del giudice nel processo civile tedesco dopo la riforma del 2001 .............. » 523 Andrea Serafino, In tema di diritto di proprietà in Cina (i progetti della leg- ge sui diritti reali) ............................... » 549 PARTE SECONDA COMMENTI Giuseppe Cricenti, Intenzione del legislatore e cultura dell’interprete. In mar- gine ad una recente decisione in materia di procreazione assistita .... Pag. 403 Pietro Sirena, La categoria dei contratti d’impresa e il principio della buona fede » 415 Giuseppe Carraro, Trasformazioni eterogenee: note introduttive ........ » 429 Corrado Chessa, Il potere giudiziale di ristabilire l’equità contrattuale nelle transazioni commerciali ........................... » 439 MASSIME COMMENTATE Enrico Camilleri, Garanzia per vizi ed impregno del venditore alla ripara- zione del bene: note critiche in margine di Cass. Sez. un. n. 13294/05 .. » 469 Matteo Verdi, Patto commissorio e collegamento ................ » 509 TRIBUNA Domenico Maltese, Il « testamento biologico » .................. » 525

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I N D I C E D E L F A S C I C O L O 4o

(luglio-agosto 2006)

PARTE PRIMA

DOTTRINAGiorgio Oppo, Patto di famiglia e « diritti della famiglia » . . . . . . . . . . . Pag. 439Paolo Vitucci, Ipotesi sul patto di famiglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 447Giovanni Giacobbe, Il modello costituzionale della famiglia nell’ordinamento

italiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 481

RECENSIONI E SEGNALAZIONI

Alessandro Palmieri, I contratti di accesso (Francesco Macario: p. 503); Lo-renza Bullo, Nomina et debita ereditaria ipso iure non dividuntur. Peruna teoria della comunione ereditaria come comunione a mani riunite(Francesco Macario: p. 506); Matteo della Casa, Sulle definizioni legi-slative nel diritto privato. Fra codice e nuove leggi civili (Francesco Ma-cario: p. 510); Marco Galli, Attività contrattuale della P.A. e difetto dipotere rappresentativo (Francesco Macario: p. 513); Francesco Gambi-

no, Poteri del rinegoziare (Francesco Macario: p. 516); GianfrancescoVecchio, La cessione del credito nella contrattazione d’impresa (Fran-cesco Macario: p. 519); Tommaso Maria Ubertazzi, Il diritto alla pri-vacy. Natura e funzione giuridiche (Francesco Macario: p. 520).

OSSERVATORIO

Remo Caponi, Note in tema di poteri probatori delle parti e del giudice nelprocesso civile tedesco dopo la riforma del 2001 . . . . . . . . . . . . . . » 523

Andrea Serafino, In tema di diritto di proprietà in Cina (i progetti della leg-ge sui diritti reali) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 549

PARTE SECONDA

COMMENTI

Giuseppe Cricenti, Intenzione del legislatore e cultura dell’interprete. In mar-gine ad una recente decisione in materia di procreazione assistita . . . . Pag. 403

PietroSirena,Lacategoria dei contratti d’impresa e il principio della buona fede » 415Giuseppe Carraro, Trasformazioni eterogenee: note introduttive . . . . . . . . » 429Corrado Chessa, Il potere giudiziale di ristabilire l’equità contrattuale nelle

transazioni commerciali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 439

MASSIME COMMENTATE

Enrico Camilleri, Garanzia per vizi ed impregno del venditore alla ripara-zione del bene: note critiche in margine di Cass. Sez. un. n. 13294/05 . . » 469

Matteo Verdi, Patto commissorio e collegamento . . . . . . . . . . . . . . . . » 509

TRIBUNADomenico Maltese, Il « testamento biologico » . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 525

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D O T T R I N A

Giorgio Oppo

Prof. emerito dell’Università di Roma «La Sapienza»

PATTO DI FAMIGLIA E « DIRITTI DELLA FAMIGLIA » (*)

Sommario: 1. Premessa. — 2. Un profilo costituzionale? — 3. Partecipanti e legittimari. —4. Mutamento dei legittimari e sorte del patto. — 5. I beni oggetto del patto e la loro at-tribuzione. — 6. Recesso del partecipante e scioglimento del patto. — 7. Qualche osser-vazione finale.

1. — L’essenza del « patto », introdotto dalla legge 14 febbraio 2006 n.55, ora previsto dal comma aggiunto all’art. 458 c.c. e disciplinato dagli artt.768 bis ss., è nella attribuzione contrattuale di certi beni dell’« imprendito-re » o « titolare » — azienda e partecipazioni sociali — a uno o più discen-denti (senza vincolo di precedenza, ad esempio di maggiorasco o tra figli e ni-poti), equilibrando altrimenti la posizione del coniuge e degli altri legittimari:ciò rende manifesto il carattere di anticipazione della successione non solo trail disponente e i beneficiari ma anche tra costoro inter se. Patto dunque « isti-tutivo », secondo la terminologia usata in materia di patti successori, dei qua-li è sostanzialmente sostitutivo (e derogatorio del relativo divieto almeno perla soppressione dello ius poenitendi) e patto attualmente traslativo che evita ilpassaggio dell’attribuzione attraverso la comunione ereditaria.

Il legislatore ha così accolto — sia pure limitatamente ai soggetti e ai benianzidetti — auspici formulati anche nella nostra dottrina e anche in sede co-munitaria per un superamento della c.d. « unità della successione », del divie-to dei patti successori e del « monopolio del testamento » (esaurienti riferi-menti, da ultimo, in Giacomo Porcelli, Successioni e trust, ESI, 2005 e inPaola Manes, Prime considerazioni sul patto di famiglia ecc., in Contratto eimpresa, 2006, p. 539 ss.; tutta la problematica in Antonio Palazzo, Istitutialternativi al testamento, ESI, 2003), affrontando il problema del rapportotra interessi dell’impresa (specie della c.d. « impresa di famiglia », media epiccola) e interessi della famiglia nella prospettiva del passaggio generaziona-le. L’interesse dell’impresa sarebbe alla continuazione e alla miglior gestione;l’interesse della famiglia è al rispetto delle attese e delle regole successorie chela tutelano. La limitazione dell’assegnazione dell’azienda (e delle partecipa-zioni sociali) ai discendenti sembra dare la prevalenza a un interesse familia-

(*) Introduzione al « Convegno di studio – La disciplina del patto di famiglia » (Uni-versità di Roma « La Sapienza » — Scuola di Notariato « Anselmo Anselmi ») Roma, 15giugno 2006.

Il contributo è destinato agli « Studi in onore di Nicolò Lipari ».

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re, senza escludere che nel patto possano essere inclusi momenti che tutelinol’altro interesse, anche nella sua possibile evoluzione.

L’anticipata realizzazione di diritti potenzialmente successori è una novi-tà che investe più settori del diritto privato (famiglia, successioni, impresa,azienda, società) e forse non solo del diritto privato. Per semplificare il discor-so, lo riferirò in massima all’azienda, salve le precisazioni che riguarderannole partecipazioni sociali.

2. — Benché si sia autorevolmente escluso che la vicenda successoriasvolga una funzione sociale di ordine costituzionale (Rescigno), direi che unprimo dubbio è legittimo proprio su questo terreno e che comunque questaprospettiva è utile allo svolgimento del discorso.

Dunque sono rispettati di « diritti della famiglia », « riconosciuti » dal-l’art. 29 della Costituzione? I diritti della famiglia, ai quali si riferisce l’art.29, sono quelli tradizionali della nostra società e tra di essi è certamente il di-ritto successorio che tutela (non solo la funzione, anche sociale, della proprie-tà ma) continuità, solidarietà e futuro della famiglia. La legge, cui è delegatala disciplina dall’art. 42 Cost., dovrebbe rispettarlo, come diritto non solodell’ereditando ma dei soggetti che appartengono alla famiglia al momentodell’apertura della successione.

Un patto con e tra soggetti che realizzi, con forza contrattuale in un di-verso momento, sia pure con e tra soggetti in questo momento legittimatil’uno a disporre e gli altri a succedere come legittimari, rispetta i diritti di tut-ti i possibili legittimati a succedere all’apertura della successione e, in questosenso, « i diritti della famiglia »?

I dubbi di costituzionalità a suo tempo avanzati contro il regime succes-sorio del maso chiuso (anche per via della discriminazione tra maschi e fem-mine) furono respinti dalla Corte Costituzionale (sent. n. 5 del 1957) e nonsono qui riproducibili. Altre sono le ragioni di perplessità.

3. — Il patto identifica il disponente nell’imprenditore e i beneficiari an-zitutto nel discendente o nei discendenti (con libertà di scelta tra di essi) iquali soltanto possono essere assegnatari, in tutto o in parte, dell’azienda o dipartecipazioni sociali del primo; beneficiari di beni (diversi) o di somme a ca-rico degli assegnatari dell’azienda (« pari al valore delle quote previsto dagliartt.536 e ss. c.c. ») possono essere il coniuge e/o altri legittimari e ciò perequilibrare l’assegnazione dell’azienda. Lo scopo è quello di garantire unacontinuità affidante dell’esercizio imprenditoriale; ma la limitazione della as-segnazione ai « discendenti » toglie all’imprenditore che non abbia discenden-ti di destinare, con il meccanismo del patto, l’azienda ad altri parenti, anchesuoi collaboratori o addirittura già partecipi dell’azienda.

L’adesione al patto dei soggetti legittimati non è obbligatoria (meno chemai per i minori per i quali, se l’adesione è ammissibile, occorrerà l’autorizza-zione del giudice tutelare). Ma quale la conseguenza della mancata adesione

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di un legittimario? I dati normativi possono apparire contrastanti. Da un lato,l’art. 768 quater dice che « al contratto devono partecipare il coniuge e tutticoloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successio-ne »; dall’altro, l’art. 768 sexies regola, nella successione aperta, i diritti, ver-so i beneficiari del patto, del coniuge e degli altri legittimari « che non abbia-no partecipato al contratto ». Come conciliare le due previsioni?

Non sembra che la formula dell’art. 768 sexies sia per sé riferibile (solo)agli (eventuali) legittimari sopravvenuti. Il coordinamento con l’art. 768 qua-ter può indurre a una simile interpretazione? Quest’ultima disposizione nonindica la conseguenza della mancata partecipazione di qualche legittimario ein particolare non dice che la partecipazione di tutti sia richiesta a pena dinullità (come a pena di nullità è richiesto l’atto pubblico secondo l’art. 768ter). D’altra parte condizionare il patto all’adesione di tutti significherebbefrustrare l’intento della legge, incentrato sulla volontà dispositiva dell’im-prenditore e dovrebbe importare che anche il dissenso di un partecipante dal-le condizioni del patto ne impedirebbe la conclusione. Si consideri altresì chela legge ammette il recesso del partecipante, il che significa che la partecipa-zione di tutti non è considerata essenziale. Appare quindi preferibile ritenereche la mancata partecipazione di alcuno dei presunti legittimari non impedi-sca la conclusione del patto ma lo renda inopponibile al non partecipante: laconseguenza sarebbe cioè non la nullità ma l’inefficacia (relativa).

Checché ne sia di ciò, sta di fatto che il diritto del legittimario, parteci-pante e non partecipante, può essere convertito (almeno per il valore dellaquota di beni non acquisita col patto) in diritto di credito verso gli assegnata-ri dell’azienda e/o verso gli altri beneficiari del patto: i quali sono, in corri-spondenza, esentati, per i beni così ricevuti, da collazione e riduzione (art.768 quater, ult. comma). I diritti di credito dei legittimari potrebbero esseredi non facile realizzazione: converrà che il patto li garantisca, evitando il ri-schio che i legittimari non soddisfatti agiscano sull’azienda mettendone inforse la sorte, contro l’intendimento del disponente e lo scopo stesso del patto.

Quanto ai beni diversi dall’azienda (e dalle partecipazioni sociali) asse-gnati ad altri partecipanti, essi sono imputati alle quote di legittima agli stessispettanti secondo il valore loro attribuito nel patto; il che dovrebbe esoneraregli assegnatari, nei limiti della disponibile, dall’indennizzo dovuto ai legitti-mari non partecipanti.

4. — In questo quadro possono dirsi rispettati i diritti dei legittimari e i« diritti della famiglia »?

Che disparità di trattamento vi sia tra titolari dello stesso diritto, nonsembra negabile. Va tuttavia considerato: che il patto è aperto a tutti i fami-liari aventi diritto successorio; che l’imprenditore ha attualmente potere di di-sposizione e che nella successione avrebbe il diritto di cui all’art. 734 nellaformazione delle quote; che partecipanti e non partecipanti — siano o nonsiano, in una o altra misura, beneficiari del patto — conserverebbero gli

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eventuali maggiori diritti loro spettanti come legittimari. Il punto dolentesembra essere quello della conversione del diritto ereditario dei legittimarinon soddisfatti in diritto di credito verso i partecipanti assegnatari, con esclu-sione della collazione e della eventuale riduzione di quanto costoro hanno ri-cevuto; collazione e riduzione espressamente escluse dall’art. 768 quater ult.comma. Ma vi sono altri motivi di perplessità, considerando i possibili atteg-giamenti e le possibili vicende del patto. Cosa avviene, in particolare, nel casodi variazione degli aventi diritto partecipanti al patto?

a) Se alcuno dei legittimari partecipanti viene meno (senza successibili),la sua quota si accrescerà agli altri? Non direi, perché non può ipotizzarsi cheil disponente abbia voluto attribuire tutti i beni oggetto del patto ai legittima-ri, quali che siano. Ciò e senz’altro escluso per i beni la cui attribuzione espri-me l’intento del patto; azienda e partecipazioni sociali non possono essere at-tribuite che a discendenti e se il designato è uno solo non possono essere attri-buite ad altri o anche ad altri. Ma in genere una attribuzione diversa da quel-la concordata col patto non sarebbe conforme alla volontà del disponente, al-lo scopo e alla natura contrattuale del patto.

Qui si avverte che il patto — benché attualmente traslativo — risentedella funzione di anticipazione successoria e che non è conforme a tale funzio-ne estraniarne in qualunque vicenda partecipativa la volontà del disponente.Il già detto vale quindi anche per il « mutamento » del coniuge (per divorzioseguito da nuove nozze) perché il primo coniuge perde e il secondo acquista ildiritto successorio. Si tratterà allora di studiare quale regola o principio deldiritto dei contratti possa far salvo, nel mutamento dei legittimari, l’intentodel disponente (presupposizione o altro).

Quanto al recesso di un partecipante, che può essere previsto dal contrat-to (art. 768 septies, n. 2), esso non può esercitarsi dal disponente senza ilquale non possono sussistere il patto e il relativo rapporto. Per il resto si ponel’alternativa tra la liquidazione della quota del recedente e il rientro della suaquota nel patrimonio del disponente.

Ne farò parola in seguito insieme alle conseguenze dell’inadempimento dialcuno dei beneficiari.

b) Altra ipotesi fonte di perplessità è quella della sopravvenienza di unnuovo legittimario. Cosa accade del patto quando egli sopravvenga primadella apertura della successione?

La sua esclusione non sarebbe ovviamente compatibile né con il suo di-ritto né con i diritti della famiglia. La persistenza dei (soli) legittimari benefi-ciari fino all’apertura della successione sembra allora una condicio iuris dellapersistenza del patto. Sopraggiunto un nuovo legittimario, non basta fargliposto con una riduzione delle quote altrui. Che il nucleo centrale del patto sial’assegnazione dell’azienda, non toglie che il patto abbia una portata attribu-tiva nel suo complesso, la quale non può non dipendere dalla volontà del di-sponente e dai diritti inderogabilmente attribuiti dalla legge. Il patto deve al-lora essere o abbandonato o riformulato con il concorso del disponente e non

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certo a prescindere da una sua nuova manifestazione di volontà; si avrà in so-stanza il « diverso contratto con le medesime caratteristiche » previsto dal-l’art. 768 septies, numero 1. Se ciò non avviene prima della apertura dellasuccessione, questa seguirà le regole ordinarie, legali e testamentarie.

c) Il patto può essere concluso tra disponente e discendente senza altripartecipanti? Non direi. Questa sarebbe una semplice donazione soggetta alleregole ordinarie e non un « patto di famiglia ».

d) Con successivo contratto può essere disposta l’assegnazione di beni ainon assegnatari dell’azienda con gli stessi effetti propri del patto (art. 768quater, comma 2o). Il nuovo contratto, collegato al primo, può essere stipula-to tra gli stessi partecipanti al patto o da « coloro che li abbiano sostituiti ».La sostituzione può essere ammessa solo a favore di soggetti che abbiano lastessa legittimazione a partecipare al « patto di famiglia ».

Se l’ereditando non ha consentito in vita alle modifiche rese necessariedalla nuova situazione dei legittimari, potrà tuttavia disporre nel testamentole attribuzioni compatibili con tale situazione.

e) Solo con i temperamenti fin qui proposti direi che il patto può consi-derarsi compatibile con i « diritti della famiglia ».

5. — I beni. Gli oggetti dell’attribuzione che esprimono lo scopo del pattosono l’azienda e le partecipazioni sociali, assegnate a uno o a più discendenti« in tutto o in parte ». Questa ultima precisazione crea problemi tra i parteci-panti e con i terzi.

a) L’attribuzione di partecipazioni sociali pro-diviso non crea problemiparticolari. L’attribuzione pro-indiviso creerà una comunione che seguirà leproprie regole, rapportate alla disciplina societaria.

b) Più complessa è l’attribuzione della azienda. L’assegnazione ad ununico discendente configura un trasferimento soggetto agli artt. 2555 ss. c.c.Il trasferimento « in parte » e il trasferimento a più assegnatari creano unasocietà o una comunione di azienda?

La risposta dipende da ciò che l’azienda sia esercitata ancora dal dispo-nente o in comune con lui o tra gli assegnatari. Se vi è esercizio comune d’im-presa non si pone l’alternativa con la comunione d’azienda, alternativa che èinvece discussa nel caso dell’azienda coniugale per la quale si controverte sela disciplina sia quella della società o quella della comunione legale. Nel casonostro vi sarà società e, in mancanza di altre pattuizioni, società personale; ese ne dovrà osservare la disciplina.

c) I compensi (o i beni) dovuti ai partecipanti non assegnatari dell’azien-da non potranno considerarsi debiti della eventuale società ma debiti degli as-segnatari dell’azienda, di ciascuno in proporzione della propria quota; la par-tecipazione sociale di ciascuno sarà determinata inizialmente in ragione dellaquota di azienda, fatti salvi i compensi dovuti ai partecipanti non assegnataridell’azienda. Ciò è conforme alla unitarietà dell’operazione attributiva realiz-zata con il patto: la società non è, come tale, gravata da debiti ma il suo pa-

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trimonio è costituito da ciò che gli assegnatari dell’azienda hanno ricevuto ef-fettivamente dal patto.

Le sorti successive della società, patrimonialmente incrementative o ri-duttive, sono indifferenti per il patto e per la successione.

d) Infine, alla apertura della successione i beni dell’ereditando non asse-gnati, e comunque esistenti nel patrimonio di lui, saranno attribuiti secondole regole successorie ordinarie, tenuto conto di quanto ricevuto e dovuto daipartecipanti al patto.

6. — Ulteriori problemi si prospettano considerando la previsione del re-cesso e dello scioglimento del patto (art. 768 septies).

a) La legge — come si è già visto — prevede che il patto possa consenti-re il recesso ma non ne stabilisce né i presupposti né le conseguenze. Se pre-supposti non fossero stabiliti dal contratto, il recesso dovrebbe considerarsi li-bero ma ciò non sembra prospettabile in pratica, meno che mai per il recessodel disponente. Ma, come che si determinino i presupposti, quali ne sarebberole conseguenze a prescindere da espresse previsioni contrattuali?

Se il recesso è di uno di più assegnatari dell’azienda, le conseguenze sa-ranno determinate dal regime della comunione o della società, secondo quan-to sopra osservato; se l’assegnatario è unico, l’azienda torna al disponente,salvi gli obblighi assunti verso terzi. Il recesso non dovrebbe ritenersi ammis-sibile se vi è stata già esecuzione di obblighi tra i paciscenti (cfr. art. 1373c.c.).

Se il recedente non è l’assegnatario dell’azienda ma ricevette a suo tempouna somma o beni estranei all’azienda, dovrà certo restituirli; ma quale ne sa-rà la sorte? Poiché i beni che il recedente ha ricevuto fanno parte del patrimo-nio trasferito come mezzo per equilibrare l’assegnazione dell’azienda, e sonoimputati alla quota di legittima, essi rientrano nel patrimonio del disponentesul quale il recedente riacquisterà i diritti di legittimario. Le somme ricevutedal recedente a titolo di « liquidazione » a carico degli assegnatari dell’azien-da (nella misura delle « quote previste dagli artt. 536 ss. », cioè delle quote dilegittima) dovranno pure essere restituite ma non agli assegnatari dell’azien-da. L’attribuzione a costoro « sconta » il debito verso gli altri partecipanti enon è giusto che essi lucrino più di quanto è stato loro assegnato: la restitu-zione avverrà quindi anch’essa nel patrimonio potenzialmente ereditario deldisponente.

b) Quali le conseguenze dell’inadempimento dell’assegnatario dell’azien-da agli obblighi che lo gravino verso gli altri partecipanti? Costoro potrannoagire per l’adempimento ma non — direi — per la risoluzione del patto. Il lo-ro diritto contro l’assegnatario dell’azienda si configura come un onere appo-sto alla donazione fatta a costui (non come un diritto corrispettivo) il cui ina-dempimento può dar luogo a risoluzione della stessa solo ad iniziativa del di-sponente.

c) Se il contratto è risolto (o modificato, art. 768 septies) dovrebbe se-

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guirne la restituzione di quanto ricevuto in base ad esso. Ma quod factum est;... con quel che segue.

Se beni esistono ancora, essi saranno restituiti al patrimonio dell’ereditan-do. Se sono stati alienati, sarà restituito l’equivalente. Ma come sarà valutato ilgodimento? Data la legittimità del godimento, da un lato, e, dall’altro, la fun-zione sostitutiva della successione, e considerato il disposto dell’art. 561, com-ma 2o (secondo cui « i frutti sono dovuti a decorrere dal giorno della domandagiudiziale »), riterrei legittimo il godimento fino allo scioglimento del patto.

7. — Ancora qualche osservazione per concludere.a) Disponente è « l’imprenditore » (artt. 768 bis e quater) ma la qualifi-

ca non è esaustiva perché all’imprenditore è equiparato « il titolare di parteci-pazioni sociali ». All’imprenditore potrebbe ancora equipararsi, ai fini dellalegge, il socio di controllo ma il riferimento alle « partecipazioni » non sembralimitabile a questa ipotesi anche se può ipotizzarsi che ad esse debba corri-spondere un qualche potere gestorio (si pensi ai patti parasociali). La qualifi-ca di imprenditore, talvolta la sola attribuita al disponente (art. 768 quater,comma 1o), può agevolare una simile lettura.

b) Il coniuge « deve » partecipare al patto come beneficiario a tutela deipropri diritti. È da escludere che il singolo coniuge possa intervenire come di-sponente se in regime di comunione legale con l’altro coniuge; non è da esclu-dere che entrambi i coniugi possano disporre insieme a favore di legittimaricomuni (i figli).

c) Una figura di imprenditore che interessa particolarmente il discorso (eper la quale l’art. 768 bis fa salve le disposizioni che la concernano) è quelladel titolare di una impresa familiare, sempre che si ritenga, come io ritengo,che si tratti di impresa individuale (o anche coniugale, non comunque « so-ciale » nel rapporto con i collaboratori familiari come tali). Impresa indivi-duale nella quale però i collaboratori familiari hanno particolari diritti con iquali il patto deve essere « compatibile »: diritto al mantenimento, agli utili eagli incrementi; potere di concorso nella gestione; diritto alla liquidazione incaso di cessazione del rapporto e, soprattutto, diritto di prelazione nel trasfe-rimento dell’azienda. Diritto di prelazione che il patto di famiglia dovrebberispettare (come in genere dovrà rispettare il diritto di prelazione di un terzo)ancorché i collaboratori non siano legittimari.

Ma come esercitare la prelazione in mancanza di un prezzo di vendita? Sipotrebbe argomentare da ciò che l’art. 230 bis, comma 4o, attribuisce il dirit-to di prelazione ai collaboratori familiari anche nel caso di divisione eredita-ria, il che suppone una valutazione al tempo e a fini dell’attribuzione; valuta-zione che naturalmente non può avvenire nel patto di famiglia né con i criteriin esso adottati per l’attribuzione di beni ai partecipanti non assegnatari del-l’azienda. Se la prelazione non è esercitata, credo che il rapporto di collabora-zione imprenditoriale possa consensualmente continuare con il nuovo titolaredell’azienda, trattandosi di discendente dell’imprenditore (come può conti-

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nuare in caso di trasferimento a familiari del « diritto di partecipazionee: art230 bis, comma 4o).

Il problema del rispetto della prelazione si presenterebbe a cavallo del di-ritto delle società per chi ritenga applicabile la discipline dell’art. 230 bis an-che alla collaborazione con un familiare socio, quanto meno di una società dipersone; applicabilità sulla quale è discorde anche la giurisprudenza dellaCassazione (in senso negativo, sentenza 6 agosto 2003, n. 11881; affermati-vo, sentenza 23 settembre 2004, n. 19116). Personalmente sarei per la nega-tiva ma il discorso non può essere ripreso in questa sede.

d) I partecipanti non assegnatari dell’azienda possono essere « liquida-ti » dagli assegnatari, in denaro o in (altri) beni, del valore della loro quota dilegittima. Per i partecipanti non assegnatari dell’azienda (ma è da sottointen-dere: o di partecipazioni sociali) è detto espressamente che quanto ricevono èimputato alla quota di legittima; il che non è detto per gli assegnatari del-l’azienda per i quali vale le regola, formulata in termini generali (art. 768quater, ult. comma), che « quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto acollazione o riduzione » mentre essi sono gravati dell’obbligo di cui all’art.768 sexies.

e) Il patto suppone l’accordo dei partecipanti non sulla assegnazione del-l’azienda, che il disponente è libero di trasferire ai discendenti, ma sulla attri-buzione e valutazione degli altri beni e delle quote di liquidazione. L’accordonon sarà facile; in difetto, il coniuge e i legittimari possono non partecipare alcontratto.

Ma c’è un numero minimo di partecipanti, sia pure in termini di quote enon di numero? Non pare, purché, come già detto, l’attribuzione non si esau-risca in una semplice donazione a discendenti. L’art. 768 sexies stabilisce chei non partecipanti possono ottenere il pagamento del valore delle quote masolo « all’apertura della successione dell’imprenditore ». Quindi, mentre ipartecipanti non assegnatari ottengono subito tale pagamento, i non parteci-panti dovranno attendere l’apertura della successione e lo riceveranno in con-to della legittima, diritto non toccato dal patto tra gli aderenti. In mancanzadi tale pagamento le regole successorie in genere — e quindi anche collazione,imputazione, riduzione — restano ferme per i non partecipanti che possono« impugnare » il patto con la possibile conseguenza di rimetterne in discussio-ne i rapporti e le valutazioni.

Restano anche salvi i diritti dei partecipanti non soddisfatti integralmen-te dal patto, l’adesione al quale non implica rinuncia a eventuali maggiori di-ritti sul patrimonio ereditario esistente all’apertura della successione.

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Paolo Vitucci

Prof. ord. dell’Università di Roma « La Sapienza »

IPOTESI SUL PATTO DI FAMIGLIA

Sommario 1. Due interventi legislativi sul diritto ereditario: confronto fra l’uno e l’altro,quanto al rapporto tra disposizione della legge e volontà del privato. — 2. Il diritto suc-cessorio speciale, introdotto con la legge sul patto di famiglia; l’ambito di applicazione.— 3. L’indivisibilità e l’assegnazione preferenziale dell’azienda quale fondamento dellaprecedente e della nuova successione anomala; il trattamento dei coeredi, prima dellanovella e a seguito di essa. — 4. Se il patto di famiglia abbia introdotto una vocazioneereditaria contrattuale; confronto con l’Erbvertrag e risposta di segno negativo: il pattoproduce effetti immediati, non differiti alla morte del disponente. — 5. Regole di coor-dinamento tra efficacia del patto e successione dell’imprenditore: definitività in sedeereditaria di taluna fra le attribuzioni disposte con il patto, per chi sia intervenuto nellastipulazione di esso. — 6. La rinuncia prevista nell’art. 768-quater, comma 2o: qualesia l’oggetto di essa; quale il rapporto con la negata azione di riduzione e con la derogaal divieto dei patti successori. — 7. Un’ipotesi di interpretazione riduttiva: che si siaconfigurata una rinuncia alla successione futura, di contenuto circoscritto ai beni acqui-stati dall’imprenditore dopo la stipulazione del patto; utilità e funzione della derogacontenuta nella disposizione iniziale della novella. — 8. Contenuto essenziale e contenu-ti eventuali del patto di famiglia; l’ipotesi che sia stata prevista una rinuncia al tratta-mento proporzionale, altrimenti dovuto nelle assegnazioni e liquidazioni pattizie. — 9.L’ulteriore contenuto eventuale rappresentato dall’assegnazione di beni diversi dal-l’azienda; la sorte di questi, nella successione dell’imprenditore. — 10. I legittimari so-pravvenuti alla stipulazione del patto; ipotesi circa il modo e la misura in cui si assotti-glia la loro tutela.

1. — Due interventi legislativi si sono succeduti in meno di un anno neldiritto ereditario del codice civile. Un solo dato li accomuna: l’aver inciso suidiritti del legittimario. Diversi sono infatti i settori nei quali ciascun interven-to ha operato; diversi e non connessi l’uno con l’altro (1). Diversa è anche lamisura dell’incidenza sui diritti del legittimario: misura piuttosto modesta(troppo modesta, secondo i più) (2), allorché troveranno applicazione gli artt.561 e 563 novellati nel 2005; misura che potrà invece essere rilevantissima,se la stipulazione dei patti di famiglia comporterà — e la legge del 2006 loconsente — rinuncia totale o parziale di taluna fra le parti all’equivalenza oalla proporzionalità delle attribuzioni ricevute con il negozio di divisione anti-cipata, nel quale si sostanzia il patto.

Deve infatti considerarsi che questo è disciplinato dalla novella con l’in-

(1) Un punto di contatto è ravvisato nel § 10 del presente scritto, cui si rinvia chi avràla pazienza di giungervi.

(2) Da ult. Gazzoni, Competitività e dannosità della successione necessaria, in Giust.civ. 2006, II, p. 6 ss.

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tento di conferire un elevato grado di stabilità agli effetti che ne discendono.Ed invero da un canto il patto è impugnabile, stando alla novella, soltantoentro limiti di tempi assai ristretti e soltanto in quanto viziato come contratto(nuovo contratto tipico, dotato di una disciplina speciale), mentre almeno ilcontenuto essenziale di esso è sottratto completamente all’ordinario regime direvisione (collazione e riduzione) cui gli atti del disponente sono soggetti al-lorché si apre la sua successione. Per questo accadrà che la rinuncia totale oparziale all’equilibrio della divisione anticipata, convenuta con il patto di fa-miglia, comporti altresì — in via mediata — rinuncia totale o parziale ai fu-turi diritti che sarebbero spettati al contraente, in quanto legittimario inpectore (3).

Diversa, oltre al settore del diritto successorio sul quale è intervenutaognuna delle due leggi, è anche — sotto il profilo che si dirà — la tecnica se-guìta dall’una e dall’altra, con riferimento al rapporto fra contenuto della di-sposizione e scelte rimesse alla volontà delle parti interessate. Fermo restandoche l’una apre e l’altra riapre larghi spazi di esplicazione a tale volontà.

La novella del 2005 si risolve in una diversa disciplina dell’azione di re-stituzione, spettante al legittimario leso nei confronti di chi ha acquistato daldonatario: disciplina diversa rispetto a quella originaria del codice, anche peril coinvolgimento del donatario nella perdita che il legittimario può aver su-bìto (4). La novella introduce però disposizioni che andrebbero qualificate co-me imperative soltanto se si trascurasse la componente più originale di essa:l’opposizione alla donazione, prevista dal nuovo art. 563, comma 4o, qualeonere da assolvere affinché siano conservati — ai potenziali legittimari deldonante — gli effetti che la futura azione a tutela dei loro diritti eserciteràverso i terzi, aventi causa dal donatario.

Nell’originale ritrovato dell’opposizione alla donazione si esprime il com-promesso, raggiunto nel 2005 fra la tutela del legittimario e le esigenze dellacircolazione dei beni. Ma il carattere compromissorio della soluzione introdot-ta, se lo si considera sotto il profilo della qualificazione delle norme che l’han-no introdotta, rivela che queste non possono ritenersi di carattere cogente. Es-se infatti non producono l’effetto perseguito (perseguito in favore della circo-lazione e dei terzi) e destinato a ridurre la tutela del futuro legittimario, ove

(3) Ritengo che la novella imponga di sviluppare nel senso ora esposto — la ricadutadella rinuncia sui diritti del legittimario — il rilievo svolto dalla dottrina circa il carattereeventuale della funzione divisoria espletata dal patto (Zoppini, Il patto di famiglia; linee perla riforma dei patti sulle successioni future, in D. priv. 1998, IV, p. 263 s.; Ieva, Il trasferi-mento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto di impresa. Pro-fili generali di revisione del divieto dei patti successori, in R. not. 1997, 1375; Manes, Primeconsiderazioni sul patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ric-chezza familiare, in Contratto e impr. 2006, p. 555).

(4) Rinvio al mio scritto Tutela dei legittimari e circolazione dei beni acquistati a titologratuito, in questa Rivista 2005, I, p. 568 s.; profitto dell’occasione per correggere l’erroreche non ho fatto in tempo a emendare nelle due ultime righe di p. 568: ove deve leggersi« azione di restituzione », anziché « di riduzione ».

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quest’ultimo assuma (e reiteri quando occorre) l’iniziativa che la legge gli im-pone a titolo di onere. La prevista opposizione alla donazione, pertanto, com-porta che le norme nuove debbano qualificarsi come dispositive.

Il carattere dispositivo si presenta inoltre come segnato da una nota spe-cifica, del tutto inconsueta nell’esperienza delle norme « derogabili »: la « de-roga » è provocata non attraverso una convenzione di contenuto divergenteda quello della disposizione di legge « derogata », ma attraverso l’atto unila-terale del controinteressato (5).

L’apertura verso l’autonomia dei privati, tuttavia, si deve ravvisare senzanecessità di chiose sistematiche e con evidenza incomparabilmente più nitidanel più recente dei due interventi legislativi. Non solo si introduce un nuovocontratto tipico, il « patto di famiglia », e si disciplinano alcuni aspetti di essoin modo che rappresenta una deroga parziale rispetto alle regole contenutenella parte generale dei contratti, nonché rispetto alle regole del diritto eredi-tario comune. La figura contrattuale nuova è inoltre introdotta in dichiarataderoga al divieto dei patti successori.

Il significato della deroga resta da approfondire (6). V’è anzitutto da por-re il quesito se la portata di essa sia tale da aver previsto, accanto alla legge ein alternativa al testamento — contemplati essi soltanto nella norma fonda-mentale dell’art. 457, comma 1o —, una diversa causa di delazione dell’eredi-tà, costituita appunto dal nuovo contratto tipico.

A quest’ultimo quesito deve sùbito anticiparsi una risposta di segno ne-

(5) È inutile far cenno all’improprietà della formula che si incentra sulla nozione di« deroga » alla legge. Basta rinviare alla pagina di Coviello, menzionata in Autonomia pri-vata, onere della « assistenza » delle associazioni, accordi « in deroga » a norme imperative,in questa Rivista 1993, I, p. 339. La singolarità della « deroga », che ritengo doversi ravvi-sare nel novellato art. 563, comma 4o, sta piuttosto in ciò che l’effetto (di rendere inappli-cabili le disposizioni contestualmente introdotte) discende da un atto unilaterale, non da unpatto. La ragione sostanziale della singolarità discende però, a sua volta, proprio dal com-promesso del legislatore: il quale ha voluto che si resti all’antico, alla sola condizione chesia assolto l’onere dell’iniziativa — « personale », come si esprime la legge: quindi indivi-duale e necessariamente unilaterale — consistente nell’opporsi all’applicazione della novità.

Si consideri ancora che l’opposizione proviene non da un contraente — diversamente daquanto accade, col consenso dell’altro contraente, in ogni ipotesi di patto « in deroga » —,ma da chi è terzo rispetto al contratto di donazione e intende gettare le basi per prevenirnei potenziali effetti pregiudizievoli. L’iniziativa unilaterale dell’opponente, del resto, è previ-sta esplicitamente dalla novella. Ed è prevista, per ripetere la formula di Coviello, qualecausa di « eliminazione di quelle condizioni di fatto che sono il necessario presupposto del-l’applicazione della norma ».

È innegabile pertanto la singolarità della norma dispositiva configurata dalla legge del2005: l’atto unilaterale dell’opponente quale causa di improduttività degli effetti voluti dal-la riforma. Ma questa non incide sul terreno dei patti, neppure di diritto successorio. Attri-buisce invece alla volontà del singolo, intesa a schivare la possibilità di un pregiudizio futu-ro, l’effetto di rendere inapplicabili le norme di nuovo conio. Le quali debbono quindi qua-lificarsi come dispositive, nonostante la struttura unilaterale dell’atto cui consegue l’effettodella c.d. deroga.

(6) La soluzione cui ritengo debba giungersi è esposta in chiusura del successivo § 7.

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gativo (7). È innegabile però che la portata e l’incidenza della legge nuova,non soltanto sui diritti del legittimario, siano assai più ampie di quelle deriva-te dal primo dei due interventi. Molti aspetti del diritto ereditario dovrannoessere rimeditati alla luce della novella del 2006. E non si tratta di aspettimarginali, come potrebbero giudicarsi — nonostante la rilevanza del proble-ma pratico affrontato e dei risvolti teorici che vi si connettono — gli aspettisui quali è intervenuta la minor riforma dell’anno precedente.

Basti accennare che la legge del 2006 esige dall’interprete il confronto frasuccessione a causa di morte e trasferimento operato con atto inter vivos; ri-chiede di collocare il nuovo patto di famiglia nel luogo che ad esso spetta, siaentro la parte generale dei contratti sia ai fini del trattamento in sede eredita-ria, e così di accostare diritto delle successioni e diritto dei contratti; postulapertanto qualche riferimento alle esperienze, diverse dalla nostra posteriore al1865 ma appartenenti a sistemi vicini al nostro e contemporanei, che nonhanno ripudiato la tradizione del patto successorio; pretende infine un cennoalle legislazioni preunitarie, nella parte in cui esse consentivano la rinunciaalla successione non aperta.

Nessuno si meraviglierà, pertanto, se il presente scritto deve giudicarsi —quanto meno — largamente incompleto. Anche perché il metodo dell’esegesi,al quale si farà tuttavia il doveroso ricorso, è del tutto insufficiente a coglierele novità introdotte dal patto di famiglia.

2. — Un ultimo cenno di confronto, fra le due leggi che si sono susseguitein breve spazio di tempo, giova a chiarire la portata della più recente: la qua-le ha introdotto — ma non è questa la novità di maggior rilievo — un vero eproprio diritto successorio speciale, applicabile al solo caso dell’imprenditore.

Quanto alla novella del 2005, mi è sembrato che — su due piani distinti— dovessero esprimersi circa l’introduzione di essa un giudizio favorevole eun giudizio critico. Il giudizio critico si fonda sull’eccessiva cautela della solu-zione adottata: soluzione da apprezzare, nel merito della scelta e per la dila-zione che ad esso consegue, come ancora troppo rispettosa delle ragioni pro-prie dei legittimari: e quindi inidonea a raggiungere il fine perseguito. Resta-no ferme le riserve sul piano appena accennato, anche se — al tentativo diuna lettura più approfondita — la riforma degli artt. 561 e 563 rivela il meri-to d’aver rimosso o attenuato qualche irragionevolezza contenuta nella previ-gente disciplina del codice.

Deve nondimeno riconoscersi al legislatore del 2005 il coraggio di essereintervenuto, attraverso un compromesso originale, su una materia che susci-tava inconvenienti pratici segnalati da tempo ad opera della dottrina più au-torevole ed avvertiti nella pratica, oltre che dal sistema bancario, da una fa-scia larga e indifferenziata di soggetti: da tutti i donatari, da tutti i loro aventicausa e, quali controinteressati, da tutti i legittimari del donante; inconve-

(7) Il tentativo di argomentare la risposta è svolto nel successivo § 4.

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nienti tali da rendere opportuno un intervento del legislatore, se si considera-no la diffusione, la durata e la gravità di essi.

La legge del 2006 interviene invece su una questione, emersa anch’essaall’attenzione della dottrina e in particolare dei notai (8), che riguarda tutta-via non la generalità dei soggetti ma soltanto un ceto di dimensioni relativa-mente ridotte (9). Riguarda l’« imprenditore », se ci si ferma alla lettera deinuovi artt. 768-bis, 768-quater, comma 1o, e 768-sexies, comma 1o. Riguar-da invece l’imprenditore medio-piccolo, se con un minimo di realismo si con-sidera che per la grande impresa non si pone — in quanto è risolto con altristrumenti (10) — il problema cui è stata data la risposta legislativa del pattodi famiglia.

Il problema è, notoriamente, quello del passaggio generazionale del-l’azienda. Esso si pone in ogni ipotesi in cui la successione dell’imprenditorenon si prospetti come rivolta in favore — alternativamente — o dell’unico suodiscendente, mancando altri legittimari, o di un estraneo alla famiglia, man-cando ogni potenziale legittimario. Si pone quindi nella grande maggioranzadei casi, non essendo comune l’ipotesi dell’ereditando, imprenditore o nonimprenditore, nel quale concorrano i tre requisiti dell’essere privo di ascen-denti, vedovo o celibe e — alternativamente — genitore di un solo figlio (oavo di un solo discendente) ovvero privo di ogni discendente.

Tolta questa ipotesi, in tutte le altre la pluralità dei legittimari e la tutelaattribuita a ciascuno di essi si frapponevano al raggiungimento di un obietti-vo da giudicare come degno di attenzione sotto profili diversi ma convergenti:come proficuo sul piano economico, e già per questa ragione meritevole di in-tervento ad opera di un legislatore attento alla competitività della produzione;come giustificabile dall’angolo visuale dell’imprenditore, che si accinge a pas-sare la mano e vuol realizzare e vedere realizzate le sue idee sul domani del-

(8) Fra le prime occasioni di riflessione collettiva deve ricordarsi quella del trentesimocongresso nazionale del notariato, dedicata a La sistemazione degli interessi familiari tracontratto e testamento; le relazioni di Lenzi, Ieva e Simò Santonja si leggono nei due volu-metti della Stamperia nazionale, Roma 1988. Gli atti dell’incontro veronese in cui fu esa-minata La trasmissione familiare della ricchezza, con numerose relazioni e con l’introdu-zione di Rescigno, Attualità e destino del divieto dei patti successori (anche in Vita not.1993, 1281, con il titolo Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori), sonostati pubblicati dalla Cedam, Padova 1995. In Jus 1997, pp. 269-311, si trovano gli attidella giornata di studi dedicata a Successioni mortis causa e mezzi alternativi di trasmissio-ne della ricchezza: l’introduzione di Liserre, le relazioni di De Nova, Lupoi, Palazzo e leconclusioni di Mengoni. Un’altra iniziativa ha lasciato traccia nell’editoriale di Roppo, Peruna riforma del divieto dei patti successori, in R. d. priv. 1997, pp. 5-10, e nel contributodi Caccavale e Tassinari, Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive diriforma, ibid., pp. 74-98.

(9) Si tratterebbe però di ottantamila imprenditori, secondo le rilevazioni riportate daItalia Oggi del 27 aprile 2006, p. 51.

(10) Gli strumenti pattizi che configurano un « diritto censuario di carattere elitario »,come lo ha designato Liserre nell’introduzione cit. alla nota 8 (Jus 1997, p. 270).

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l’azienda; come non privo di radicamento in un costume che, pur se stroncatodalla legge civile fin dal 1865, riaffiora in condizioni ben diverse da quelle diallora e — come sa ogni avvocato e non soltanto l’avvocato — induce talvoltail titolare di un patrimonio, tanto più se includente beni produttivi, a dispor-ne senza il rispetto dei « diritti che la legge riserva ai legittimari » (art. 457,comma 3o) (11).

L’obiettivo, come ovvio, è che titolarità e gestione dell’azienda passino —in sede successoria o preferibilmente, se possibile, per atto tra vivi — dall’im-prenditore a quello o quelli fra i suoi discendenti i quali siano da ritenere osiano ritenuti provvisti delle necessarie attitudini. Escludendosene gli altri,anche se al soddisfacimento dei loro diritti non sono di regola sufficienti i be-ni diversi dall’azienda. È per lo meno normale, infatti, che l’imprenditore me-dio-piccolo investa nell’azienda tutte le proprie risorse, o quasi tutte.

L’obiettivo è reso adesso raggiungibile, in quanto è stato introdotto ilnuovo contratto tipico e qualunque significato sia da ascrivere all’innovazionesistematica rappresentata dalla deroga espressa al divieto dei patti successori.La prima condizione sostanziale per il raggiungimento è rappresentata però— e qui emerge l’apertura verso l’autonomia dei privati, che riaffiora dopoun secolo e mezzo di compressione — dalla partecipazione al contratto, equindi dal consenso, di « tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quelmomento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore » (art.768-quater, comma 1o; la menzione del coniuge è sovrabbondante).

Nei rilievi che precedono risiede la prima caratteristica del diritto succes-sorio, speciale e contrattuale, ora entrato in vigore. Esso non riguarda la gene-ralità dei soggetti; deve perciò apprezzarsi come un diritto speciale, che inferi-sce un nuovo e più duro colpo al cosiddetto principio di unità della successione,già superato da un secolo ad opera di una congerie di leggi speciali (12). Riguar-da però, nella dizione della novella, la generalità degli imprenditori. Per questaragione la novella da un canto merita l’inserimento nel codice civile e dall’altrova oltre la congerie delle disposizioni che la hanno preceduta: essa non si appli-

(11) L’esperienza precedente e la legge appena entrata in vigore inducono a non con-sentire nell’autorevolissimo giudizio di Jemolo, Patto successorio, in questa Rivista 1964(Gli occhiali del giurista, Padova 1970, p. 349), che le norme sul divieto del patto succes-sorio, « a suo tempo dettate a contrastare un costume diffuso », si mostrino oggi pressochésuperflue, « essendo entrate nella coscienza generale le regole che quegli articoli esprimo-no ». Se la coscienza generale fosse orientata come riteneva l’insigne studioso, dovrebbe ri-tenersi che il legislatore del 2006 abbia navigato contro corrente. Conclusione, questa, dadisattendere: basti considerare, più ancora che non i tentativi della dottrina, l’acquisita ero-sione giurisprudenziale del divieto dei patti successori (sul punto mi limito a citare la riccanota di Gazzoni, Patti successori: conferma di una erosione, su Cass. 9 maggio 2000, n.5870, in R. not. 2001, p. 232 ss.).

(12) L’ampio saggio di De Nova, Il principio di unità della successione e la destinazionedei beni alla produzione agricola, in R. d. agr. 1979, I, p. 509, va menzionato sia per laconsapevolezza delle radici storiche del principio, sia per la ricchezza del materiale legisla-tivo passato in rassegna, sia per il rigore sistematico delle conclusioni tratte dalla rassegna.

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ca infatti a singole e frammentatissime ipotesi di successione anomala, comequelle note all’esperienza di molti decenni e concernenti anche l’eredità di sog-getti non imprenditori (a partire dall’assegnatario della casa popolare).

La novella si riferisce invece a tutti gli imprenditori: agli imprenditoriagricoli, considerati in numerosi interventi legislativi anteriori e negli studisuscitati da questi, e con pari efficacia agli altri imprenditori: commerciali oindustriali. Per questo il codice civile riacquista un ruolo comparabile conquello della tradizione. Esso racchiude oggi la disciplina di un diritto succes-sorio, speciale sì, ma applicabile a qualunque imprenditore (13). Resta con ciòconfermato il carattere « anomalo » delle altre successioni, specie del settoreagricolo; la novella non interferisce sulla disciplina di esse, tolta l’ipotesi incui la successione nell’azienda agricola si svolga — con il consenso degli inte-ressati — secondo i criteri legali del patto di famiglia.

3. — L’intuizione felice di uno storico verso il quale i civilisti sono debi-tori ha posto in luce un dato, risalente al primo Ottocento eppure ricco di maiinterrotta utilità per lo studio delle successioni familiari. La discriminazionetra i figli maschi, notava Paolo Ungari, restò vitale per varie ragioni anche aldi fuori del ceto nobiliare: fra le altre, « per ragioni di tutela dell’unità dellaazienda contadina, artigiana o commerciale » (14).

Nella presente sede non interessa il profilo soggettivo della discriminazio-ne: che questa operasse prevalentemente a carico delle « femmine già dotate emaritate » (secondo la formula dell’art. 22 disp. trans. c.c. 1865), ma anche acarico di altri coeredi: i professi religiosi e i figli legittimati. Interessa invece ilprofilo oggettivo della vocazione anomala, nota da tempo al diritto dell’agri-coltura; interessano ancora di più le ragioni che stanno a fondamento delladisordinata legislazione speciale ove la successione dell’imprenditore agricoloè disciplinata secondo criteri difformi da quelli del codice civile.

Non gioverebbe entrare nei particolari (15). Basta osservare che il dirittoereditario speciale, sia dello Stato sia della Provincia di Bolzano (il masochiuso), persegue l’obiettivo di assicurare in sede successoria l’indivisibilitàdell’azienda agricola. Lo persegue per l’ovvia ragione di impedire la fram-mentazione della terra, conseguenza nota ab antiquo della regola del partageégal. Al fine di perseguire quell’obiettivo, l’intervento sul diritto ereditario è

(13) A maggior ragione può quindi parlarsi di un « nuovo particolarismo giuridico »(Scalisi, Persona umana e successioni. Itinerari di un confronto ancora aperto, in R. trim.d. proc. civ. 1989, p. 414).

(14) Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia, rist. Bologna 2002, p. 132.Un efficace sguardo d’insieme sul diritto successorio delle legislazioni preunitarie e del

primo codice unitario si trova nel saggio di Astuti, Il « Code Napoléon » in Italia e la suainfluenza sui codici degli Stati italiani successori (1969), nella raccolta Tradizione romani-stica e civiltà giuridica europea, II, Napoli 1984, pp. 752-758 e pp. 784-786.

(15) Può farsi rinvio alla voce di Germanò, Successione in agricoltura, in Dig. disc. priv.— sez. civ., 19, Torino 1999, p. 78 ss.

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indispensabile in ogni caso, tolto quello del figlio unico. Ma l’intervento dellegislatore sulla successione nell’azienda agricola rappresenta soltanto unmezzo, rispetto al fine di configurare nel modo divisato la proprietà della ter-ra e le dimensioni dell’impresa che vi si esercita (16).

L’intervento comporta che il successore sia uno e uno soltanto, così daconsentire una gestione efficiente dell’azienda agricola. Restano per conse-guenza sacrificati, si vedrà in quale misura, gli interessi dei coeredi.

Inserendosi nel solco appena delineato, la legge del 2006 non può dirsi averintrodotto novità rilevanti, per aver previsto una successione anomala quantoall’oggetto. Gli studi sull’indivisibilità tendenziale dell’azienda agricola, a parti-re dall’intuizione dello storico, giovano anzi a preparare una parte del terrenoche dovrà essere dissodato, per la migliore comprensione dei patti di famiglia.

Le novità sono invece da ravvisare in due aspetti della legge: uno già ac-cennato e l’altro ancora da accennare.

Come già visto, la novella si riferisce alla successione di tutti gli impren-ditori. È stato così superato il limite dell’azienda agricola, cui erano circo-scritte le esperienze precedenti. Ed è stata messa da parte la frammentarietàingarbugliata di esse, con la realizzazione di un disegno legislativo unitario,applicabile ad ogni categoria di impresa.

È vero che la realizzazione del disegno è affidata all’autonomia contrat-tuale degli interessati e non ai disposti delle leggi speciali (17). Nonostante lasostanziale divergenza ora messa in luce, è tuttavia vero del pari che ha trova-to adesso nuovi spazi d’applicazione — ed è diventato anzi regola generaledel codice civile — il principio che mira ad assicurare in sede successoria l’in-divisibilità dell’azienda: nell’intento, che deve peraltro essere condiviso dal-l’imprenditore e dai componenti della famiglia entro la quale si stipula il pat-to, di assicurare la produttività dell’azienda anche dopo e nonostante il pas-saggio generazionale.

Il raggiungimento di quella mèta è adesso consentito dalla novella; perl’innanzi era impedito — salvi i casi considerati nelle leggi speciali e quellodell’erede unico (ove il problema non si pone) — dal divieto di designare unsolo successore nella titolarità dell’azienda. Il divieto, discendente dalla previairrinunciabilità dell’azione di riduzione, soleva essere aggirato attraverso con-tratti simulati (18). Per effetto della novella il divieto cade, una volta raggiun-to l’accordo di tutti i componenti della famiglia.

(16) Nel contesto del c.d. diritto privato regionale, e confrontando la disciplina del masochiuso con quella nazionale, queste osservazioni si trovano nel mio scritto Il diritto privatoe la competenza legislativa delle Regioni in alcune sentenze della Corte costituzionale, negliStudi in onore di Leopoldo Elia, II, Milano 1999, 1720 s.

(17) L’osservazione è già in del Prato, Sistemazioni contrattuali in funzione successo-ria: prospettive di riforma, in R. not. 2001, p. 633.

(18) Ungari, Storia del diritto di famiglia, cit., p. 142, riferisce la testimonianza dellavoce che si levò entro il Parlamento subalpino, allorché nel 1848 questo intese rimuovere ladifferenza del trattamento successorio tra maschi e femmine.

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All’accordo previsto dalla legge consegue l’altra e coerente novità, intro-dotta adesso rispetto alla normativa previgente, ed anzi tuttora vigente nelsettore agricolo.

Stando a questa, i coeredi esclusi dall’assegnazione preferenziale del-l’azienda non pèrdono i loro diritti sul patrimonio relitto. Resta bensì esclusoche la quota sia attribuita loro in natura. Ed è inoltre differito il soddisfaci-mento in denaro delle loro ragioni ereditarie: talvolta per un periodo non bre-ve (19) e spesso concorrendo nel soddisfacimento la previsione che l’assegna-tario ricorra al credito agevolato.

Il diritto dei legittimari esclusi dall’assegnazione riceve quindi una limi-tazione, prevalentemente qualitativa, nelle successioni anomale dell’agricoltu-ra. Lo stesso diritto può ricevere invece menomazioni assai più drastiche, aseguito della novella. Questa consente infatti che il legittimario potenziale virinunci, in tutto o in parte, all’atto della stipulazione dell’accordo « di fami-glia » e per effetto della rinuncia ad essere liquidato, espressa nella medesimasede.

È agevole considerare che la rinuncia può essere viziata: non occorreriandare agli esempi della storia (20). Ma la novella ne dimostra consapevolez-za. E infatti prevede che il patto di famiglia possa essere impugnato per viziodel consenso. Rivela però al tempo stesso — ricalcando anche qui le orme del-la storia (21) — l’intento di restringere il campo delle impugnazioni, per assi-curare stabilità al patto. Introduce infatti un termine di prescrizione breve, unanno, per l’azione di annullamento (art. 768-quinquies, comma 2o).

La disposizione pone qualche problema di coordinamento fra le regoledella parte generale dei contratti e la disciplina nuova (22). Su un piano diver-so, essa contribuisce inoltre a dimostrare quanto a fondo la novella possa in-

(19) V. le ipotesi legislative menzionate da Germanò, Successione in agricoltura, cit., p.81.

(20) Merita però di essere ricordata l’antica sentenza con cui la Corte d’Appello di Ro-ma (ud. 15 febbraio 1877, in F. it. 1877, I, p. 235) dichiarò invalida la rinuncia all’ereditàpaterna, espressa nel 1784 da Francesca Torlonia in sede di atto costitutivo della sua dote.Sulle vicende di un’analoga rinuncia (quella di Faustina Caetani, che risaliva al 1802) deb-bono menzionarsi le notazioni, gustose e consapevoli, di Coglitore, Lo schiaramazzo; cro-nache giudiziarie di Roma papalina, Padova 2004, pp. 247-250.

(21) Deve rinviarsi ancora alle splendide pagine dello storico sugli statuti, le consuetudi-ni e le prassi negoziali che imponevano alla figlia, nell’atto della costituzione di dote, la ri-nuncia ad ogni futura ragione successoria e rafforzavano la validità della rinuncia attraver-so il giuramento che questa non sarebbe stata mai impugnata (Ungari, Storia del diritto difamiglia, cit., pp. 65-67).

(22) Questa, deve notarsi, si limita ad abbreviare la misura del termine; le regole da ap-plicare circa la decorrenza della prescrizione, pertanto, restano quelle dell’art. 1442 capo-verso: regole che, in deroga al principio dell’art. 2935, differiscono il momento iniziale econ ciò soddisfano l’esigenza di rendere piena ed effettiva la tutela del contraente il cui con-senso sia stato viziato (cfr. La prescrizione, I, in Comm. Schlesinger, sub art. 2935, Milano1990, pp. 157-159).

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cidere, nel rinnovato sistema del diritto ereditario, per avere o consentito chesia negata del tutto la tutela precedentemente concessa ai legittimari o almenoridotto in misura notevole l’effettività di essa.

Al tempo stesso, la novella inizia a rivelare in quale parte e per quali ragionila disciplina adesso introdotta faccia pensare ad un ritorno al passato. La prefe-renza che può attribuirsi a uno fra gli eredi potenziali e la tendenziale stabilitàdella rinuncia espressa dagli altri rievocano il mondo che Napoleone aveva sov-vertito. Anche se l’interesse alla prosecuzione prospera dell’attività produttiva,nel settore agricolo così come in tutti gli altri, costituisce l’indubbia ratio nel no-me della quale è stata rimossa l’antica limitazione all’autonomia contrattuale.

4. — Oltre che speciale quanto ai soggetti destinatari della novità legisla-tiva — solo gli imprenditori, ma tutti gli imprenditori — ed oltre che coeren-temente anomala quanto all’oggetto (ogni tipo di azienda), la successioneconsiderata dal patto di famiglia si mostra contrattuale quanto al titolo. Sem-bra rivelarlo già la deroga esplicita alla disposizione del codice sul divieto deipatti successori, contenuta nell’art. 1 l. 14 febbraio 2006, n. 55. Lo pone inluce la necessaria partecipazione al contratto di tutti i legittimari potenziali,la quale si configura come presupposto di validità del negozio. Né occorre in-sistere sul contenuto sostanziale del patto: manifestazione univoca dell’auto-nomia contrattuale, destinata verisimilmente ad occupare una posizione rile-vante fra i negozi di diritto familiare, dotata di una disciplina speciale sia inquanto contratto, sia nella futura successione dell’imprenditore disponente, eprevista adesso nel secondo libro del codice civile: innovando, almeno in ap-parenza, una tradizione verso la quale i vecchi scrittori dimostravano fermis-sima fedeltà (23).

Ed infatti, prima che si acquistasse consapevolezza delle erosioni appor-tate al divieto dalla giurisprudenza e che si iniziasse a denunciare l’incoerenzadel divieto generalizzato (24), imbattersi nei patti successori — per il civilistaitaliano — era peggio che incontrare il diavolo in quel di Palestrina (come ac-cadde al personaggio di Thomas Mann). I nostri antecessori sapevano megliodi noi che i patti non erano stati vietati ovunque, nel diritto preunitario; e sa-

(23) Va ricordata la limpida professione di fede del de Ruggiero, Istituzioni di diritto ci-vile, 7a ed., III, Messina-Milano 1935, p. 510. « Due sono le cause della successione eredita-ria: la dichiarazione di volontà dello stesso ereditando, cioè il testamento, e la disposizionedella legge (art. 720). Niun’altra ne esiste nel nostro ordinamento, che riannodandosi allatradizione romana ha bandito in modo assoluto il contratto o il patto successorio come cau-sa d’acquisto sia a titolo universale sia a titolo particolare. Sebbene i patti successorî fosseroammessi in taluna delle legislazioni intermedie e lo siano ancora da qualche codice moder-no con più o meno limitazioni, il codice italiano li respinse tutti, fossero essi contratti tral’ereditando stesso e il successore ovvero accordi di due estranei sull’eredità non ancoraaperta di un terzo, mirassero all’acquisto di una eredità ovvero alla rinuncia ».

(24) Debbono segnalarsi per l’equilibrio e per l’attenzione al dato costituzionale le pagi-ne di Rescigno, Autonomia privata e limiti inderogabili nel diritto familiare e successorio,in Familia 2004, pp. 446-452.

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pevano che non lo erano affatto, così come non lo sono, in alcune legislazionicivili contemporanee. Il loro atteggiamento era però di ripudio totale, nontemperato nemmeno dalla considerazione dei dissensi che il rigore del divietoaveva suscitato, allorché esso fu introdotto nel vecchio codice (25). In questosenso i civilisti di fine Ottocento non si dimostravano legati al passato. Versola validità delle rinunce preventive il loro giudizio era assai severo: forse per-ché ne avevano fatta esperienza, o sentita l’eco come di esperienza cessata dapoco.

Non può negarsi che un aspetto del diritto intermedio sia stato richiama-to in vita dalla novella del 2006. Basta considerare la disciplina dettata per ilpatto di famiglia, indipendentemente da ogni approfondimento circa la dero-ga al divieto dei patti successori. La disciplina consente al partecipante nonassegnatario dell’azienda di rinunciare alla « liquidazione ». La rinuncia èconfigurata come di impugnabilità circoscritta. È inoltre posta del tutto al ri-paro dai controlli perequativi propri del diritto successorio ordinario. La ri-nuncia alla liquidazione può allora produrre effetti comparabili con quelli diuna rinuncia preventiva alla successione non ancora aperta.

Nel tentativo di comprendere la portata della deroga occorre però gettareuno sguardo sui patti successori degli ordinamenti contemporanei: senza al-cuna pretesa di completezza e nel solo intento di cogliere quale sia il tipo disuccessione che il patto di famiglia ha introdotto.

Conviene muovere dall’asciuttissima definizione dei patti istitutivi, che silegge in Coviello: essi « non sono altro che un testamento irrevocabile in for-ma di contratto » (26). Ed invero la differenza fra il testamento e il contrattosuccessorio istitutivo si manifesta esclusivamente sotto il profilo della revoca-bilità: irrevocabile l’istituzione contrattuale, in quanto causa pattizia di voca-zione ereditaria; revocabile il testamento, in quanto causa unilaterale di voca-zione (27). Con la conseguenza che patto istitutivo e testamento debbono dirsi,

(25) Alla testimonianza della nota 23 può aggiungersi quella di Fadda, Concetti fonda-mentali del diritto ereditario romano, Napoli 1900, p. 307 (sulla connessione delle ragioniereditarie, perciò irrinunciabili in via preventiva, con lo status familiae e sulla inaffidabilitàdella rinuncia, « effettuata per lo più in occasione di matrimonio, profittando forse dellecircostanze del momento ») e p. 310 s.: è « curioso che nella Camera dei Deputati vi fu chicensurò aspramente questo rigore del Codice e rimpianse persino la possibilità di rinunziarealla successione paterna nell’atto in cui la figlia, passando a nozze, riceve una dote congrua.Fu vittoriosamente confutata dal Pisanelli, relatore della Commissione, questa censura po-nendo in rilievo specialmente le gravi conseguenze di quelle rinunzie, che rappresentavanoun passato fortunatamente tramontato. E anche il Mancini consentiva in tali osservazioni ».

(26) Coviello, Delle successioni, parte generale, 3a ed., Napoli 1932, p. 75.(27) Osservo incidentalmente che le numerose pagine dedicate all’irrevocabilità, intesa

quale effetto preliminare, da Rubino, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Milano1939, pp. 242-281, avrebbero potuto trarre argomenti efficaci dal confronto fra patti suc-cessori e testamento. La totale mancanza del confronto fa considerare che l’elevata tradi-zione di pensiero cui Rubino apparteneva debba giudicarsi, oggi, come insensibile alla com-parazione storico-giuridica; al punto che lo stesso esponente di quella scuola il quale cono-

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con le parole del Windscheid, non già « due diverse cause di chiamata, madue forme fenomeniche d’una medesima causa di chiamata » (28).

Cade quindi, nella stessa ricostruzione sistematica del più illustre fra ipandettisti, l’ipotesi che un terzo genere di vocazione sia da affiancare allalegge e al testamento. Ed infatti il patto istitutivo non comporta che sia « ac-quisita una potestà giuridica attuale su cosa o persona » (29). Il consenso ren-de irrevocabile la volontà di istituire l’altro contraente quale erede. Non neanticipa però l’effetto, perché non lo produce quale conseguenza immediatadel contratto ma lo subordina all’accettazione e quindi lo differisce all’epocain cui si sarà aperta la successione.

Il patto istitutivo, pertanto, comporta una vocazione volontaria in tuttosimile a quella che discende dal testamento, tolto che l’una deriva da una ma-nifestazione di volontà scoperta (dichiarata, anzi, al destinatario che la accet-ta), l’altra da una manifestazione di volontà espressa in segreto e come talerevocabile. La struttura contrattuale del patto non ne consente la revoca; noncomporta però limiti diretti alla potestà di disporre con atto inter vivos, limi-tandosi a rendere inefficace la disposizione mortis causa la quale contrasti oinvada l’assetto regolato dal contratto ereditario.

Il contratto ereditario, dunque, resta per intero nel territorio del dirittodelle successioni. Tanto che l’acquisto compiuto dall’erede per contratto coin-cide nel tempo con quello dell’erede testamentario. Entrambi acquistano conl’apertura della successione e non prima di questa. Acquistano non dalla ma-no calda, ma dalla mano fredda del de cuius, per ricordare l’immagine dadanza macabra della tradizione tedesca (30).

Il confronto con la disciplina dell’Erbvertrag non richiede che questa siaesaminata più a fondo. La deroga apportata nel 2006 al divieto dei patti suc-cessori non investe il patto istitutivo. Occorrerebbe altrimenti che l’acquisto

sceva meglio di chiunque il diritto ereditario enunciò il tema del confronto — e senza dedi-care ad esso approfondimenti significativi — soltanto negli scritti dell’età matura: Nicolò,Attribuzioni patrimoniali post mortem e mortis causa (1971), nella Raccolta di scritti, III,Milano 1993, p. 200, e Disposizione di beni mortis causa in forma « indiretta » (1967), nel-la Raccolta, cit., I, Milano 1980, 311 s. Rilievi dello stesso genere potrebbero formularsiquanto alla comparazione fra testamento e « contratto testamentario », istituita da Giampic-colo, Il contenuto atipico del testamento, Milano 1954, p. 52: il secondo termine dellacomparazione è configurato come un’entità astratta, perché estraneo al nostro diritto positi-vo. Sotto questo profilo deve affermarsi, rispetto ai civilisti delle generazioni precedenti,una maggiore ricchezza dei recentiores, testimoniata sul punto da Zoppini, Le successioni indiritto comparato, nel Tratt. di diritto comparato dir. da Sacco, Torino 2002, pp. 155-187.

(28) Windscheid, Diritto delle pandette, trad. it. Fadda e Bensa, III, rist. Torino 1930,105 nt. 3.

(29) Windscheid, op. cit., III, 106 nt.(30) Attingo l’immagine da De Giorgi, I patti sulle successioni future, Napoli 1976,

115; dall’opera ho tratto inoltre i lineamenti essenziali della disciplina propria dell’Erbver-trag, con particolare riferimento alla « natura di disposizioni di ultime volontà da riservareal contenuto dell’atto » (p. 225).

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dell’istituito per contratto fosse non immediato, ma differito alla morte delcontraente che ha disposto circa la propria successione. Mentre l’acquisto dal-l’imprenditore, nella disciplina del patto di famiglia, è acquisto immediato enon differito.

Al patto potranno essere adietti elementi accessori. La novella contemplainoltre la possibilità che esso preveda espressamente il « recesso »: recessounilaterale dell’imprenditore, si è portati a credere nell’interpretazione razio-nale della norma; o, al più, recesso unilaterale di taluna fra le parti del patto.È vero che la facoltà di recesso in tanto sussiste in quanto (e nei limiti in cui)sia stata prevista dalle parti. Se però ciascuna di queste potesse recedere adnutum dal patto, dovrebbero esprimersi dubbi sulla validità di una conven-zione così configurata: la vincolatività del contratto sarebbe infatti affermatae negata al tempo stesso (31). Anche quella appena accennata si mostra unalacuna o una affermazione superficiale, nel testo della novella (32).

La disposizione dell’art. 768-septies, n. 2, è di contenuto derogatorio ri-spetto a quella generale dell’art. 1373 sul recesso unilaterale. In essa sembrascorgersi la riemersione, nella disciplina speciale del nuovo contratto tipico, diuna regola propria del testamento: la revocabilità. Quest’ultima regola, però,discende dalla norma cogente dell’art. 679. La facoltà di recesso, invece, deveessere prevista « espressamente » nel patto di famiglia. La possibilità di pre-

(31) Per l’impostazione del problema, Gabrielli, Vincolo contrattuale e recesso unilate-rale, Milano 1985, p. 65 ss.

(32) Sul piano della tecnica legislativa si mostra censurabile, in realtà, tutta l’imposta-zione dell’art. 768-septies. Un’identica premessa è infatti dettata per le due ipotesi, diversee anzi inconciliabili l’una con l’altra, disciplinate al n. 1 (patto modificativo e mutuo con-senso circa lo scioglimento del patto precedente) e al n. 2 (recesso). La premessa chiede chepartecipino al patto modificativo o estintivo le « medesime persone che hanno concluso ilpatto di famiglia » (originario). In quanto riferita all’ipotesi disciplinata nel n. 1, la pre-messa ha senso, sebbene debba ritenersi superflua quale enunciato normativo: le regole cir-ca la « partecipazione » necessaria di tutti gli aventi diritto valgono infatti per il pattoestintivo o modificativo a maggior ragione che per il patto originario.

Si pone semmai, ma l’art. 768-septies non lo affronta, il problema dei potenziali legitti-mari sopravvenuti. Si pone inoltre quello dei partecipanti al patto originario che siano mor-ti prima dell’atto modificativo. Neppure tale problema è affrontato dall’art. 768-septies,mentre un cenno a questi ultimi soggetti sembra contenuto nella formula (« coloro che liabbiano sostituiti ») che chiude l’art. 768-quater, comma 3o: disposizione che si riferisce aun patto integrativo di quello originario e richiede la partecipazione dei « medesimi soggettiche hanno partecipato al primo ».

Indipendentemente da quanto sin qui osservato, la premessa dell’art. 768-septies si rife-risce ad entrambe le ipotesi disciplinate nel successivo contesto della disposizione, standoalla lettera di questa; ma è priva di significato coerente ove si tenti di applicarla al caso delrecesso. Il recesso, se previsto nel contratto, può essere esercitato da chi ne ha ricevuto fa-coltà. Ma è esercitato da lui soltanto, « attraverso dichiarazione agli altri contraenti certifi-cata da un notaio » (art. 768-septies, n. 2): attraverso una dichiarazione unilaterale recetti-zia, che esige soltanto di essere comunicata agli altri contraenti, non anche di essere da lorocondivisa quale manifestazione di volontà; diversamente da quanto farebbero credere lapremessa della disposizione e la menzione delle « medesime persone », che sembra riferitaanche all’ipotesi del recesso.

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vederla contribuisce a rivelare l’ampiezza degli spazi affidati all’autonomiaprivata dal legislatore, il quale lascia aperta la porta all’incertezza dell’im-prenditore, concedendogli di inserire nel patto la riserva di ritornare unilate-ralmente sui propri passi: si è pensato — parrebbe — all’ipotesi in cui l’im-prenditore non sia soddisfatto del modo in cui l’assegnatario gestisca l’azien-da trasferitagli.

Il patto potrà contenere una riserva di usufrutto, a tempo o vitalizio, infavore dell’imprenditore che dispone dell’azienda. Potrà, in quanto contratto,essere sottoposto a condizione; forse anche a termine, per quanto l’assonanzacon la disciplina del testamento (rilevata più sopra) induca a dubitarne.

Al di là dei dubbi appena manifestati, è certo però che il patto di famigliacomporta la trasmissione contrattuale e immediata dei diritti dell’imprendito-re. La disciplina del nuovo contratto tipico è tutta da approfondire, anche al-la luce del confronto fra le disposizioni dettate nella sede della materia e quel-le contenute nella parte generale dei contratti. Ma l’effetto naturale di esso èquello di trasferire ai « partecipanti al contratto », per atto fra vivi, i dirittiche spettano all’imprenditore sull’azienda o sui beni diversi da questa, men-zionati nell’art. 768-quater, comma 3o.

Il patto di famiglia non disciplina, allora, un’ipotesi di successione percausa di morte. Prevede invece un trasferimento contrattuale e immediato. Ladisciplina del contratto, però, contiene regole sul coordinamento fra il trasferi-mento immediato e la posteriore apertura della successione dell’imprenditore.

5. — Le regole sul coordinamento si prefiggono di considerare congiun-tamente gli effetti del patto di famiglia, prodottisi in via di principio già conla stipulazione del patto, e le condizioni in cui si apre — in epoca posteriore,per definizione — la successione dell’imprenditore. Nel relictum potranno es-servi beni acquistati dopo la stipulazione del patto. Nella successione potran-no concorrere legittimari sopravvenuti a tale stipulazione. L’art. 768-sexies,comma 1o, infatti, si riferisce espressamente all’apertura della successione emenziona i legittimari, anche se la conclusione che questi siano soltanto i le-gittimari sopravvenuti deve ricavarsi dall’argomento che la rubrica si intitolaai rapporti con i terzi e che il patto sarebbe da ritenere nullo, se non fosse sta-to stipulato fra tutti i legittimari potenziali dell’epoca.

Quelle che ho denominato regole di coordinamento sono enunciate in sedidiverse, a seconda se nella successione dell’imprenditore concorra chi ha par-tecipato al patto di famiglia o chi non aveva titolo per parteciparvi, allorchéesso fu stipulato, ma dopo la stipulazione ha acquistato lo status di legittima-rio potenziale: il nuovo coniuge; il figlio nato o riconosciuto o dichiarato giu-dizialmente in epoca posteriore (33). Deve aggiungersi, quanto ai « parteci-panti al contratto », che essi ricevono un trattamento successorio di contenutoassai diverso, a seconda se siano stati « assegnatari » dell’azienda o di altri

(33) Ai legittimari sopravvenuti è dedicato il successivo § 10.

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beni. Dovrebbe premettersi, se non fosse superfluo, che la novella è di letturaoltremodo difficile e che sono mal sicure tutte le soluzioni interpretative.

Per chi è intervenuto nel patto, la regola di coordinamento da esaminareper prima è quella dell’art. 768-quater, comma 4o: « Quanto ricevuto daicontraenti non è soggetto a collazione o a riduzione ». La disposizione è abba-stanza trasparente nel significato, anche se sorgono dubbi circa la portata ap-plicativa di essa. Il trasferimento compiutosi per effetto dell’atto fra vivi, ilpatto di famiglia, è reso definitivo ai fini ereditari: con riferimento cioè al-l’epoca — posteriore — in cui occorre regolare la successione in morte del di-sponente (34).

In questo senso è vero che tale successione, oltre che anticipata negli ef-fetti economici (in quanto prodotta da un atto fra vivi), è preclusa del tutto, aseguito del patto di famiglia e sotto il profilo della tutela spettante — anzi,negata — a chi sia intervenuto nel patto. È prevista sì l’impugnazione dellaparte per vizi del consenso: impugnazione contrattuale, prevista pur se (comegià accennato) ristretta nei tempi, in favore della stabilità del patto. Ma conciò si esaurisce la tutela del partecipante. Resta infatti esclusa, nel momentoin cui si apre la successione, l’attribuzione a chi abbia stipulato il patto di fa-miglia delle ordinarie tutele proprie della sede ereditaria: l’esercizio, necessa-riamente postumo, dell’azione di riduzione; l’obbligo di conferire ai coerediquanto ricevuto a titolo gratuito dal de cuius (35).

Trova conferma l’affermazione che il patto di famiglia produca un effettotraslativo immediato. Esso è quindi estraneo all’ipotesi dell’istituzione con-trattuale di erede, propria dell’Erbvertrag. La disciplina del patto, tuttavia,guarda anche al momento posteriore in cui si aprirà la successione dell’im-prenditore.

In quel momento si saranno di regola esaurite le impugnative contrattualidi chi ha partecipato al patto. La stabilità degli effetti, che la novella intendeassicurare al patto stipulato, potrebbe allora essere messa in forse ove il par-tecipante facesse ricorso ai rimedi spettanti normalmente in sede ereditaria (espettanti soltanto dopo l’apertura della successione). Ma l’aver partecipato al-la stipulazione del patto comporta a suo carico la negazione di quei rimedi.Chi ha partecipato oggi al patto perde, per il domani in cui si aprirà la suc-cessione del disponente, non la qualità di legittimario ma la titolarità del-

(34) E con l’effetto che non trovano occasione di essere sperimentati, essendo inapplica-bili collazione e riduzione, i rilievi svolti con riferimento alla donazione di azienda, e al mo-do in cui vanno adattate a quest’ipotesi la disciplina della collazione e quella della reinte-grazione dei legittimari, da Genovese, Il « passaggio generazionale » dell’impresa: la dona-zione di azienda e di partecipazioni sociali, in R. d. comm. 2002, I, pp. 730-737.

(35) La differenza di presupposti fra collazione e riduzione (Amadio, Comunione e coe-redità; sul presupposto della collazione, in D. priv., 1998, IV, pp. 323-330) non toglie laconvergenza funzionale dei due istituti. Entrambi sono intesi ad assicurare una tutela in fa-vore del coerede, attraverso la rimozione di effetti conseguiti ad atti di disposizione inter vi-vos — la riduzione anche mortis causa —, posti in essere dal de cuius.

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l’azione posta a difesa della quota di legittima e del rimedio perequativo rap-presentato dalla collazione.

Questa sembra la nota di originalità più spiccata, da ravvisare nella di-sciplina introdotta con la novella. È previsto un atto di disposizione, posto inessere dall’imprenditore in favore di « uno o più discendenti » (art. 768-bis)ed avente quale oggetto l’azienda o parte di essa (trascurando le partecipazio-ni societarie, che non contribuiscono a semplificare l’impostazione del proble-ma). È previsto che gli « assegnatari » dell’azienda attribuiscano agli « altripartecipanti al contratto », salvo loro rinuncia, una somma corrispondente alvalore delle loro quote di legittima (anche se la successione non si è ancoraaperta). È previsto che, agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda,possano essere assegnati altri beni: beni di proprietà del disponente, tanto cheessi sono imputati alle quote di legittima di chi li riceve, « secondo il valoreattribuito in contratto » (art. 768-quater, comma 3o).

Non è previsto alcun corrispettivo in favore del disponente imprenditore(36). La previsione di un corrispettivo in suo favore, del resto, colliderebbecon la funzione di anticipata divisione — più che di anticipata successione —,da ritenere propria del patto. A questo, che si presenta come convenzione in-ter vivos attributiva di diritti in favore dei discendenti dell’imprenditore (ilconiuge e gli ascendenti pongono problemi diversi), dovrebbe allora applicar-si il regime degli atti a titolo gratuito, una volta che si apra la successione deldisponente: l’obbligo della collazione; la soggezione all’azione di riduzione.

E invece — ecco l’originalità della soluzione — l’essere state concordatenella sede del patto di famiglia pone alcune fra quelle attribuzioni (tutte, sepotesse starsi alla lettera della novella: « quanto ricevuto dai contraenti ») alriparo dagli ordinari strumenti di riequilibrio patrimoniale propri della suc-cessione per causa di morte. Non solo l’effetto traslativo è immediato, conse-guendo a un atto fra vivi. Esso è anche definitivo, nel senso che è negato il ri-corso ai rimedi attraverso i quali l’attribuzione potrebbe essere rimessa in di-scussione. Il trasferimento inter vivos, effetto del patto di famiglia, non con-sente che sull’azienda trasferita si apra la successione del disponente. E nonconsente nemmeno che, attraverso le prerogative altrimenti spettanti al coere-de (negate a chi sia intervenuto nel patto), siano rimosse in un secondo tempole eventuali sperequazioni o discriminazioni provocate dal contenuto del con-tratto.

L’ansia della stabilità di quanto concordato fra i partecipanti al pattoviene coerentemente a restringere i controlli sul contenuto di esso. Rimane —stando sempre alla novella — il solo controllo, blando e per di più soffocatonel tempo, che può esercitarsi nel giudizio sull’azione di annullamento per vi-zi del consenso; e si tratta di un controllo che non investe né l’oggetto né la

(36) Dal che trae spunto per argomentare circa il regime di soggezione del patto al-l’azione revocatoria, ordinaria e fallimentare, del Prato, Sistemazioni contrattuali in fun-zione successoria, cit., p. 636 s.

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proporzionalità delle assegnazioni, ma soltanto la genuinità delle manifesta-zioni di consenso. È discutibile se nei confronti del patto possa esercitarsil’azione di rescissione: ultra quartum, in ragione della funzione divisoria svol-ta dal patto stesso; e può discutersene a lungo, in ragione della lacuna presen-tata dalla novella sul punto (37). È acquisito invece, a seguito della novella,che nei confronti del patto non si applichino i controlli sulla congruità delleattribuzioni compiute per atto fra vivi, quali potrebbero essere sollecitati dalcoerede — una volta apertasi la successione — se le attribuzioni pattuite nonfossero state sottratte a quei controlli.

Resta ancora da considerare, però, se al trattamento appena descritto siastata sottoposta la sola assegnazione dell’azienda o, come farebbe credere lalettera dell’art. 768-quater, comma 4o, anche ogni altra attribuzione derivan-te dal patto di famiglia.

6. — Gli argomenti svolti e le conclusioni raggiunte finora valgono pertutti i partecipanti al patto; si vedrà più avanti se valgano per tutte o per al-cune soltanto fra le attribuzioni disposte in quella sede. Le regole di coordina-mento dettate per i partecipanti presentano però una variante, che suscitanell’interprete forti dubbi intorno al significato della disposizione e al conte-nuto stesso del patto di famiglia, nel rapporto fra gli assegnatari dell’aziendae gli altri partecipanti al contratto.

La variante sta nella prevista facoltà di rinuncia, espressa dagli altri par-tecipanti in sede di stipulazione del patto: « ove questi non vi rinunzino intutto o in parte » (art. 768-quater, comma 2o).

I dubbi incominciano con la ricerca di quale debba ritenersi l’oggetto del-la rinuncia (38). Possono prospettarsi almeno tre ipotesi.

La prima prende le mosse dalla disposizione introduttiva della novella:quella ove si enuncia una deroga al divieto dei patti successori e sembra conciò radicarsi l’affermazione che una qualche novità sul tema del divieto siastata immessa nel sistema del diritto ereditario, attraverso la disciplina del

(37) La lacuna è di particolare gravità se la si confronta con l’esplicita previsione che ilpatto di famiglia può essere impugnato per vizio del consenso (art. 768-quinquies); per tut-ti i vizi, incluso l’errore, se deve starsi alla formula della novella. Mentre la divisione è an-nullabile soltanto per violenza o per dolo (art. 761), essendo irrilevante l’errore di fronte al-l’esigenza che il negozio divisorio assicuri la proporzionalità obiettiva fra le parti (rubricadell’art. 726) o porzioni da assegnare (v. già Mirabelli, La rescissione del contratto, 2a ed.,Napoli 1962, p. 183 ss.).

Se ci si ferma alla constatazione della lacuna, si è portati a credere che la prevista an-nullabilità per errore abbia escluso la rescindibilità del patto. Nel che potrebbe ravvisarsiun’ulteriore manifestazione del favor verso la stabilità degli effetti, al quale sarebbe statosacrificato anche il rimedio ordinario concesso alle parti del negozio divisorio. Deve però ri-conoscersi che la ricerca di uno svolgimento coerente della mens legis, anche se può affidar-si a un argomento razionale, è priva di ogni base nell’impianto della novella.

(38) La ricca casistica finemente esposta e argomentata da Coppola, La rinunzia ai di-ritti futuri, Milano 2005, p. 173 ss., è anch’essa posta fuori gioco dalla novella.

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patto di famiglia. La nuova disciplina, però, non comporta che sia stata con-figurata un’ipotesi di patto istitutivo, come si è visto. E allora, per salvare lacoerenza fra il testo novellato dell’art. 458 — dal quale dovrebbe ricavarsiche una deroga al divieto sia stata contestualmente introdotta — e la discipli-na del nuovo Capo V-bis, potrebbe pensarsi che questa comporti la stipula-zione di un patto rinunciativo, per l’innanzi vietata.

Potrebbe conseguentemente argomentarsi che l’oggetto della rinuncia,contemplata nell’art. 768-quater, comma 2o, consista nella futura quota del-l’eredità che sarà lasciata dal disponente. Il riferimento alle « quote previstedagli articoli 536 e seguenti », contenuto sùbito dopo nella medesima disposi-zione, sembrerebbe corroborare l’ipotesi interpretativa appena enunciata: chela novella abbia reintrodotto, quale contenuto eventuale del patto di famiglia,proprio quella rinuncia alla futura successione dell’ascendente che il già cita-to art. 22 disp. trans. c.c. 1865 aveva dichiarato priva di effetto: e l’aveva di-chiarata retroattivamente tale, anche con riguardo alla rinuncia fatta « inconformità delle leggi anteriori ».

Se l’ipotesi fosse attendibile, l’intento di derogare al previgente divietopotrebbe dirsi coerentemente attuato, oltre che enunciato. Se nel patto di fa-miglia potesse poi ravvisarsi una donazione, dovrebbe dirsi derogata anche laregola dell’art. 557 capoverso (39).

Ma l’ipotesi non persuade. È vero che, disattendendola, l’enunciazioneintroduttiva della novella — la deroga al divieto di patti successori — potreb-be giudicarsi priva di contenuto (ma si vedrà che essa non è inutile). È veroche il riferimento alla rinuncia è immediatamente contiguo alla menzione del-le quote riservate ai legittimari. Deve però obiettarsi che, se fosse interpretatanel senso di consentire la rinuncia alla successione non ancora aperta, la di-sposizione nuova si sovrapporrebbe inutilmente a quella che — sebbene siamancata ogni loro rinuncia — nega ai contraenti l’azione di riduzione (art.768-quater, comma 4o).

Per superare l’argomento, occorrerebbe indicare quali effetti l’ipotizzatarinuncia alla successione futura aggiunga alla negata azione di riduzione. Mail compito potrebbe essere assolto soltanto se si immaginasse che siano stateintrodotte due disposizioni di contenuto tale da rafforzarsi l’una con l’altra: sesi configurasse cioè la seguente ipotesi interpretativa: allorché il partecipanteal patto di famiglia rinunci alla futura successione dell’ascendente, questa suarinuncia — in ipotesi adesso prevista, e non più invalida, sebbene anterioreall’aperta successione — raggiunge per altra strada, attraverso l’esercizio diuna facoltà negata dal diritto previgente, il medesimo risultato cui la sola cir-costanza d’aver partecipato al patto conduce, in forza della norma imperativasul diniego dell’azione di riduzione.

(39) Ho trovato il rilievo anche presso Zoppini, Il patto di famiglia, cit., p. 264, ove simenziona inoltre la deroga apportata alla disposizione (art. 803) sulla revocazione delladonazione per sopravvenienza di figli.

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L’insostenibilità dell’ipotesi balza all’occhio. Se il fine perseguito dallalegge, la non rivedibilità in sede successoria delle attribuzioni patrimonialicompiute attraverso un atto inter vivos, è un fine raggiunto per mezzo dellanorma imperativa sulla negata azione di riduzione, allora è irragionevole l’in-terpretazione che configuri il medesimo risultato come suscettibile di essereconseguito esercitando una facoltà conferita dalla legge ai contraenti. La for-mula « ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte » non può quindi inten-dersi come riferita ad una rinuncia avente quale oggetto i « diritti che posso-no spettare su una successione non ancora aperta ».

L’ipotesi deve pertanto scartarsi in ragione della contraddizione interna,o quanto meno dell’incertezza nella formulazione del precetto, che essa pre-suppone. E l’oggetto della rinuncia deve ricercarsi altrove.

7. — Potrebbe allora suggerirsi una soluzione diversa. L’azione di ridu-zione è negata ai contraenti, sia che abbiano rinunciato sia che non abbianorinunciato alla successione futura. È negata però limitatamente a quanto es-si abbiano ricevuto, in sede di stipulazione del patto: limitatamente al-l’azienda, assegnata e ricevuta da uno o più discendenti, e agli altri beni,contestualmente o successivamente assegnati e ricevuti dagli altri parteci-panti (ammesso che la disciplina dettata per l’azienda valga anche per glialtri beni; il che si vedrà doversi negare, nonostante la lettera della novella)(40). L’attribuzione dell’azienda è resa definitiva, nella futura successionedell’imprenditore, indipendentemente da ogni rinuncia. Ancora una volta: ilpatto anticipa ed anzi sostituisce in via preventiva la successione mortis cau-sa; il contenuto di esso è sottratto ai controlli che il coerede potrebbe provo-care, dopo l’apertura della successione, in quanto la novella persegue conoriginale fermezza il proposito di rendere stabili gli effetti del patto di fami-glia: nei confronti di chi vi abbia partecipato e, in modo diverso, nei con-fronti di chi non aveva titolo per parteciparvi ma ha acquistato successiva-mente la veste di legittimario.

Presto o tardi, tuttavia, si aprirà la successione dell’imprenditore. Non virientreranno l’azienda e — se la stessa regola dovesse valere anche per questi— gli altri beni assegnati e ricevuti con il patto di famiglia, ormai acquisiti invia definitiva dagli assegnatari. Vi rientreranno invece i beni acquistati dal-l’imprenditore dopo la stipulazione del patto: il relictum.

A questo punto i chiamati si distingueranno in due categorie: quelli chehanno rinunciato e quelli che non hanno rinunciato alla successione futura.Gli appartenenti alla seconda categoria potranno far valere i rimedi ordinari,in ordine alla successione che si è aperta: compresa l’azione di riduzione.Mentre questa, è superfluo ripeterlo, resta preclusa a carico di tutti (rinun-cianti e non) limitatamente ai beni, l’azienda in primo luogo (e anzi in viaesclusiva, come si dirà), assegnati con il patto di famiglia. E il patto conferma

(40) Per il tentativo della dimostrazione deve rinviarsi al successivo § 9.

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d’aver prodotto effetti irretrattabili in sede ereditaria, perché destinati a rima-nere estranei all’ambito della successione, nel rapporto fra i contraenti.

I chiamati che hanno rinunciato, fermi anche a loro carico (ma non pereffetto della rinuncia) gli effetti irretrattabili ora detti, dovranno invece rite-nersi aver espresso una volontà che prima della novella concretava un negozionullo, mentre adesso è produttiva di effetti: la volontà di rinunciare alla suc-cessione futura, limitatamente ai beni che l’imprenditore avrà acquistato do-po la stipulazione del patto di famiglia.

Questa seconda ipotesi ricostruttiva presenta il pregio di salvare la coe-renza fra la disposizione introduttiva della novella (la deroga al divieto deipatti successori) e quella nella quale la deroga prenderebbe corpo, configu-randosi quale rimozione del divieto in ordine al patto rinunciativo. Un altropregio è quello di non incorrere nella contraddizione interna rilevata più so-pra: il bis in idem costituito da ciò che il medesimo risultato — di non con-sentire la revisione in sede ereditaria delle attribuzioni realizzate con l’atto in-ter vivos — sia raggiunto attraverso la norma cogente, che nega l’azione di ri-duzione, e al tempo stesso attraverso l’esercizio (per definizione libero) del-l’atto di autonomia consistente nella rinuncia.

Tanto non sembra sufficiente, però, a convincere che sia stata acquisita,argomentando nei termini appena esposti, un’interpretazione appagante e so-prattutto esauriente della novità legislativa. Occorre pertanto tentare qualcheapprofondimento ulteriore, circa il contenuto di essa.

Può invece esporsi sùbito l’ipotesi meno inattendibile sul significato delladeroga al divieto dei patti successori, contenuta nella disposizione introdutti-va della novella. L’ipotesi, occorre dirlo, sminuisce il valore dell’innovazionesistematica. Ma proprio per questo potrebbe ritenersi la più ragionevole, agliocchi dell’interprete il quale consideri il divario fra l’enunciazione inizialedella deroga, spaziosa ed assai impegnativa (anche sotto il profilo storico-si-stematico), e la disciplina che segue, di contenuto sfuggente e ricco di antino-mie da superare in via ermeneutica.

Fin dall’inizio di queste pagine si è fatto cenno che la rinuncia alla suc-cessione futura può conseguire come effetto mediato della rinuncia espressa insede di patto di famiglia ai sensi dell’art. 768-quater, comma 2o, quale chedebba ritenersi l’oggetto di quest’ultima. E allora la nuova formulazione del-l’art. 458 deve apprezzarsi come non ingiustificata, anche se bisognosa di unchiarimento sistematico. Premettendo l’enunciazione della deroga, la novelladel 2006 lascia aperte tutte le interpretazioni circa i possibili effetti del pattodi famiglia: non escluse le interpretazioni che configurino effetti contrastanticon il divieto del previgente art. 458, derogato per questa ragione.

L’ipotesi ora configurata si risolve in un’interpretazione riduttiva dell’art.458 novellato. Ed attribuisce alla novella un atteggiamento di agnosticismo; ilquale appartiene a chi sta tentando di leggerla, non a chi la ha scritta. L’ipo-tesi deve tuttavia ritenersi utile proprio perché giova a tenere l’interprete alriparo dall’enfatizzazione di un enunciato, quello iniziale sulla deroga, che di

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per sé è vuoto di contenuto normativo. La deroga rappresenta soltanto unapremessa o un preannuncio: si limita a consentire che sia riempito uno spazio,prima inaccessibile all’autonomia contrattuale. Ma la mera enunciazione delladeroga non fornisce altre indicazioni; non specifica, in particolare, con qualicontenuti la novella consente che i contraenti occupino e riempiano lo spazio,reso loro accessibile.

Per questo l’interpretazione riduttiva dovrebbe ritenersi la più ragionevo-le: perché è rispettosa dell’antico insegnamento che vieta di ricavare ex regulaius: il contenuto del precetto da un’enunciazione di principio.

8. — Nel tentativo di scavare più a fondo, occorre considerare ancora cheil patto di famiglia è configurato dalla novella con notevole ricchezza di con-tenuti. La ricchezza è rivelata fra l’altro dalla facoltà di rinuncia, totale o par-ziale, contemplata nell’art. 768-quater, comma 2o. Ma è dimostrata in manie-ra più compiuta dalla duplice direzione che le attribuzioni disposte con il pat-to debbono (o possono) tenere, attesa la disciplina di esso.

Il contenuto del patto si caratterizza in primo luogo e in modo essenzialeper un trasferimento che ha quale oggetto l’azienda e che segue la linea verti-cale discendente: l’assegnazione dell’azienda può essere disposta soltanto infavore di « uno o più discendenti » (art. 768-bis). L’obiettivo della novella èstato di consentire la stipulazione del contratto cui consegue l’effetto di taleassegnazione; e la preoccupazione principale è stata di assicurare all’effettoun’elevata misura di stabilità: anche di fronte alla successione dell’imprendi-tore.

Al contenuto ora detto è previsto se ne affianchi uno diverso, che perònon è essenziale ma eventuale (ed infatti l’avente diritto può rinunciarvi) eche segue la linea orizzontale, propria del rapporto fra collaterali, dovendotuttavia considerare inoltre i rapporti con il coniuge e con gli ascendenti del-l’imprenditore. In questa seconda parte del contenuto del patto, manifesta-mente correlata alla prima, ritengo sia da ricercare il significato e l’oggettodella rinuncia. Mentre vi si scorge senza difficoltà il campo, largo e scarsa-mente controllato, che la novella ha aperto — riaperto, per chi non trascuri laprospettiva della longue durée — alle scelte negoziali dei « partecipanti alcontratto ».

Deve allora proporsi una terza soluzione interpretativa, forse meno inat-tendibile delle altre, al quesito consistente nell’individuare quale sia l’oggettodella rinuncia. L’art. 768-quater, comma 2o, prevede che colui il quale ha ri-cevuto l’azienda debba « liquidare gli altri partecipanti al contratto », con ilpagamento di una somma di denaro « corrispondente al valore delle quotepreviste negli articoli 536 e seguenti ». Il riferimento ai legittimari e alle quo-te spettanti loro è però assai improprio. Non solo la successione dell’impren-ditore non si è ancora aperta; ma i beni assegnati con il patto di famiglia nonconcorreranno nella formazione dell’asse ereditario, quanto meno limitata-mente all’azienda e per chi sia intervenuto nella stipulazione del patto (per i

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terzi, i legittimari sopravvenuti, la conclusione è ancora più difficile da argo-mentare).

E allora, se è così, il « valore delle quote » deve intendersi in modo indi-pendente dalla futura e irrilevante successione dell’imprenditore. La dizionedella legge potrebbe indicare che, se il fratello assegnatario dell’azienda pa-terna riceve con il patto un cespite del valore di 100, la sorella non assegnata-ria deve essere liquidata — a carico del fratello — con l’attribuzione di beni odi denaro in misura tale da raggiungere, considerata la consistenza dell’azien-da all’epoca del contratto, un valore pari a quello che avrebbe la sua quota dilegittima, se in quel momento si aprisse la successione del disponente.

L’indicazione della legge, pur nell’improprietà ed oscurità del richiamo alcodice civile (quello originario), parrebbe quindi rivolta nel senso che sia assi-curata una qualche proporzione, fra il trattamento ricevuto dal fratello equello ricevuto dalla sorella. Nel medesimo contesto andrebbe consideratal’azione di rescissione, connessa alla funzione divisoria del patto; ma su di es-sa la novella tace, ponendo con ciò il problema accennato più sopra (41).

La novella introduce viceversa il riferimento alla rinuncia, totale o par-ziale. Esso deve intendersi allora non nel senso della rinuncia alla futura suc-cessione dell’imprenditore, ma in quello della rinuncia al trattamento propor-zionale, in sede di patto di famiglia e quanto alle assegnazioni e liquidazioniche ne derivano.

Resta comunque ferma, a carico di ogni parte del patto (rinunciante onon), la negazione della futura azione di riduzione quanto alle attribuzioniprodotte dal patto medesimo, o almeno all’assegnazione dell’azienda. La ri-nuncia deve configurarsi invece come riferita al solo atto inter vivos: comeavente ad oggetto il trattamento proporzionale nelle attribuzioni e liquidazio-ni da ricevere con il patto; ovvero come rinuncia alla rescissione ultra quar-tum, ove spettante. Come acquiescenza, validamente espressa, alla disparitàdel trattamento ricevuto; acquiescenza rilevante, in quanto atto di autonomia,nella determinazione del contenuto attribuito al patto da chi vi partecipa enella conseguente esclusione dei rimedi posti a presidio dell’equa « formazio-ne delle porzioni » (per ritornare alla formula che si legge nella rubrica del-l’art. 727).

Non da una rinuncia espressa rispetto alla successione futura, ma dal di-niego dell’azione di riduzione discende allora la stabilità degli acquisti com-piuti con la stipulazione del patto di famiglia. Il risultato di renderne irretrat-tabili gli effetti in sede successoria si conseguirebbe nello stesso modo, se la ri-nuncia fosse da riferire alla successione non ancora aperta e da assumere co-me non più invalida. Ma lo strumento usato dalla legge deve ravvisarsi nelladichiarata inapplicabilità dei rimedi successori, disposta con norma cogente, enon nella rinuncia preventiva, rimessa alla buona volontà dei « partecipantial contratto ».

(41) Alla nt. 37.

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Fermo l’obiettivo, innovatore e al tempo stesso fortemente arcaico, di de-terminare — se i contraenti vi consentono — una distribuzione di cespiti sle-gata dal rispetto delle norme sulla legittima. Obiettivo non nuovo: era lo stes-so delle legislazioni preunitarie che non negavano efficacia alla rinuncia pre-ventiva; ed è sorretto dalle stesse ragioni che si invocavano allora: la tuteladell’unità dell’azienda nel passaggio generazionale, come fa fede lo storico.

9. — Il quadro così delineato, circa il rapporto fra assegnazioni dispostecol patto di famiglia e futura successione dell’imprenditore, potrebbe esserecoerente e rispettoso della male espressa mens legis. È però incompleto, fino aquando non si estende al tentativo di comprendere quali siano e quale tratta-mento ricevano i « beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipantinon assegnatari dell’azienda »: beni che « sono imputati alle quote di legitti-ma loro spettanti », « secondo il valore attribuito in contratto » (art. 768-quater, comma 3o).

Nella disposizione sta uno dei lati più oscuri della novella. Escluderei chequei beni siano da far coincidere con l’oggetto della liquidazione (i vocaboli« liquidare » e « liquidazione », che si leggono nel secondo comma, apparten-gono al gergo dei pratici e non al linguaggio rigoroso), dovuta dall’assegnata-rio dell’azienda agli altri partecipanti. Ed infatti i conguagli, per riprendere laterminologia dell’art. 728, possono essere pattuiti attraverso una liquidazionein natura e possono formare oggetto di rinuncia, giusta le previsioni contenu-te nel già considerato secondo comma. Il debitore dei conguagli, nella misurain cui gli aventi diritto non vi abbiano rinunciato, resta però esclusivamentel’assegnatario dell’azienda: il quale dovrà provvedere con mezzi propri al« pagamento » o alla « liquidazione » in natura (42).

Pagamento e liquidazione servono a chiudere il rapporto fra chi ha rice-vuto l’azienda e gli altri contraenti; a chiuderlo definitivamente, salva l’impu-gnazione del contratto (circoscritta alle ipotesi di consenso viziato, se ci si po-tesse fermare alle disposizioni della novella) ma in modo irretrattabile difronte alla futura successione dell’imprenditore. L’azienda resterà estranea atale successione, salvo quanto sia da riconoscere come spettante ai legittimarisopravvenuti, proprio perché l’assegnatario di essa ha definito con risorseproprie (i conguagli, se non rinunciati e comunque pattuiti) ogni rapporto le-gato all’assegnazione, ricevuta anticipatamente lungo la linea verticale di-scendente, e alle conseguenti attribuzioni, corrisposte lungo la linea orizzonta-le ai contraenti liquidati.

La disciplina del secondo comma e la possibilità della rinuncia totale oparziale, che spicca all’interno di essa, costituiscono il punto d’arrivo della

(42) Fra i problemi concreti si è posto infatti quello concernente il finanziamento di chiè debitore dei conguagli, avendo ricevuto l’assegnazione dell’azienda: v. Manes, Prime con-siderazioni sul patto di famiglia, cit., p. 542 e p. 569 s., e Ieva, Il profilo giuridico della tra-smissione dell’attività imprenditoriale in funzione successoria: i limiti all’autonomia privatae le prospettive di riforma, in R. not. 2000, 1347.

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novella quanto all’equilibrio delle assegnazioni e liquidazioni conseguenti alpatto. Ed è una disciplina che sostituisce integralmente sia quella codicisticadel contratto di divisione, sia quella degli ordinari rimedi perequativi propridella sede successoria: i quali infatti non sono invocabili da chi abbia parteci-pato al patto. Così che la successione per causa di morte deve dirsi prevenutadal patto medesimo: limitatamente all’azienda, se le considerazioni che se-guono possono ritenersi convincenti.

Escluso che i beni menzionati nel terzo comma coincidano con quelli chehanno costituito oggetto della « liquidazione », sembra restare la sola ipotesiche si tratti di beni provenienti dal patrimonio dell’imprenditore ed assegnatida questo — seguendo la linea verticale discendente, ovvero in favore del co-niuge — a componenti della famiglia diversi dagli assegnatari dell’azienda.

L’ipotesi ora configurata sembra far fronte alla seguente esigenza, non dif-ficile da prospettare come concreta ed anzi diffusa. La stipulazione del patto difamiglia richiede il consenso di tutti i legittimari potenziali. Il consenso devemanifestarsi anzitutto in ordine all’assegnazione preferenziale dell’azienda,compensata o non compensata dalla liquidazione prevista nel secondo comma(quanto ai rapporti che si svolgono lungo la linea orizzontale, per ritornare sul-l’imprecisa metafora utilizzata più sopra). È possibile però che il consenso ditaluna delle parti sia subordinato alla contestuale assegnazione, in favore pro-prio, di cespiti diversi dall’azienda ed attribuiti dall’imprenditore seguendo lalinea verticale. Per questi casi è stata introdotta la disciplina del terzo comma.

Può obiettarsi che l’ipotesi ora esposta perda credibilità, considerando laseconda parte della disposizione contenuta nell’art. 768-quater, comma 3o. Sel’assegnazione di beni diversi dall’azienda ai contraenti diversi dagli assegna-tari di questa può conseguire anche ad un patto integrativo di quello origina-rio, e perciò « successivo » ancorché « collegato al primo », allora — può ar-gomentarsi — viene a vacillare l’idea che i beni menzionati in apertura delterzo comma giovino a persuadere i riluttanti al consenso loro richiesto: chegiovino a persuaderli attraverso l’allettamento dell’assegnazione contestuale.

L’obiezione, sensata se potesse farsi affidamento sulla sicura coerenza in-terna fra le due parti della disposizione contenuta nel terzo comma, deve peròsuperarsi considerando che la seconda costituisce una sorta di appendice dellaprima. In termini di probabile ratio legis, la prima parte della disposizionepuò infatti ritenersi introdotta nell’intento di convincere il familiare menoproclive alla manifestazione del consenso, superando le sue diffidenze e resi-stenze per mezzo dell’allettamento sopra riferito: il lubrificante dell’accordo,se può farsi ricorso ad un’altra metafora. La seconda parte della disposizione,invece, potrebbe ritenersi introdotta nell’intento di sopire le recriminazioniposteriori alla stipulazione del patto, provvedendo (col negozio successivo ecollegato) all’assegnazione dei beni non disposta con l’atto originario. Il nego-zio integrativo si configurerebbe allora come l’estintore delle proteste e la-mentele provocate dal contenuto dell’atto originario; eventualmente, anche infunzione transattiva della lite insorta con l’impugnazione di questo.

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Fermo che ci si muove sul terreno delle ipotesi, occorre domandarsi qualesia il significato da attribuire alla disposizione del terzo comma. Vi si prevedeanzitutto che i beni assegnati, contestualmente o col patto integrativo, sianoimputati alle quote di legittima degli assegnatari.

Il riferimento alla legittima non sembra improprio, diversamente daquanto osservato più sopra circa il medesimo riferimento contenuto nel se-condo comma. Non sembra improprio perché l’imputazione alla legittima èdisposta in contemplazione di un evento posteriore al contratto: l’aperturadella successione e il trattamento che le attribuzioni pattuite riceveranno nelrapporto con i coeredi. Senza che l’evento futuro sia anticipato negli effetti, alfine di stabilire l’ammontare della liquidazione dovuta immediatamente (achi non vi rinunci), commisurando il conguaglio al « valore delle quote »menzionato nel secondo comma.

L’imputazione alla legittima, disposta dalla legge, induce però a ritenereche la disciplina del terzo comma diverga sostanzialmente da quella dei pre-cedenti. Rispetto alla futura successione, la disciplina del terzo comma gettaproprio quel ponte che la disciplina dell’assegnazione dell’azienda impediscesia costruito e progettato. Il progetto del patto di famiglia si realizza con lastipulazione di esso, che previene la futura successione. Ma la previene limita-tamente all’azienda e non anche con riferimento agli altri beni, « assegnati »giusta la previsione contenuta nel terzo comma.

Regga o non regga l’ipotesi prospettata più sopra quanto alla ratio delladisposizione (le assegnazioni del terzo comma quale lubrificante o qualeestintore), certo è che vi si prevede un ulteriore, possibile contenuto del pattodi famiglia: che non è ristretto all’assegnazione dell’azienda e alle contestualiliquidazioni, ma può includere beni dell’imprenditore diversi dall’azienda, senel patto (originario o « successivo ») sia convenuto di assegnarne a chi nonha ricevuto l’azienda.

Quanto all’assegnazione di quest’ultima, che rappresenta l’obiettivo pri-mario della novella, si è visto che i conti debbono ritenersi definitivamentechiusi a seguito del patto di famiglia: chiusi anche in vista della futura suc-cessione dell’imprenditore. Ed infatti l’azienda è stata trasferita sì con atto fravivi; ma la disciplina di questo ne comporta l’irretrattabilità in sede eredita-ria. L’azienda trasferita resterà estranea all’eredità (salvi i diritti dei legitti-mari sopravvenuti, che restano ancora da esaminare).

Non sembra potersi pervenire al medesimo risultato quanto all’assegna-zione degli altri beni, prevista quale contenuto eventuale del patto nella di-sposizione del terzo comma. Ed invero tali beni, proprio in quanto imputatiper legge alle quote di legittima spettanti agli assegnatari, cadranno nella fu-tura successione dell’imprenditore e vi cadranno come ricevuti a titolo gratui-to.

L’imputazione alla legittima, in quanto disposta direttamente dalla no-vella, non sembra neppure suscettibile dell’espressa dispensa, prevista invecenell’art. 552. Se è così, la sorte dei beni diversi dall’azienda, assegnati con il

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patto di famiglia, non seguirà in sede successoria la sorte dell’azienda. L’asse-gnazione del terzo comma non è irretrattabile e i beni assegnati soggiaccionoalla disciplina di quelli dei quali « sia stato disposto a titolo di donazione »(art. 556). Si applicano cioè gli ordinari rimedi riequilibratorii, propri dellasede successoria: collazione e riduzione.

La tesi appena esposta si fonda sull’imputazione, disposta dalla novella eda ritenere perciò non dispensabile, dei « beni assegnati » e dell’« assegnazio-ne » alle quote di legittima. Confligge con la tesi il precetto del quarto com-ma, dove si dichiara non soggetto a collazione o a riduzione « quanto ricevutodai contraenti »: senza escludere, stando alla formula della novella, i beni as-segnati giusta la previsione del terzo comma. L’antinomia è innegabile. La di-zione testuale della legge, proprio per il carattere generale di essa, sembra ri-ferita sia al contenuto essenziale sia al contenuto eventuale del patto di fami-glia: all’assegnazione dell’azienda così come all’assegnazione degli altri beni.

Ritengo però che sia da preferire l’interpretazione antiletterale e restritti-va del quarto comma. La fedeltà alla lettera lascerebbe insanata la contraddi-zione fra la norma sull’imputazione alla legittima e quella sull’esenzione dairimedi successorii. Se il bene ricevuto a titolo gratuito deve imputarsi alla le-gittima, e tanto prescrive la novella, non può ragionevolmente affermarsi chesia sottratto a collazione e a riduzione l’averlo « ricevuto » per atto fra vivi (lanovella designa l’oggetto del trasferimento; se si fosse riferita all’atto traslati-vo il linguaggio sarebbe stato più coerente con quello originario del codice).L’« assegnazione » del terzo comma dovrà ritenersi allora anticipo della suc-cessione, in quanto tale rivedibile nel contenuto dopo l’apertura di questa(43). Non già misura sostitutiva della successione — definitivamente sostituti-va, nel rapporto fra i contraenti —, come deve ritenersi invece l’assegnazionedell’azienda.

Il diverso trattamento è palese, così come lo sono l’antinomia e l’interpre-tazione antiletterale, suggerita nel tentativo di superarla e di salvare la coe-renza. Ma il diverso trattamento fatto all’assegnazione dell’azienda si giustifi-ca, sol che si consideri l’obiettivo fondamentale perseguito dalla novella.

V’è infine un’altra disposizione di contenuto derogatorio, introdotta dalterzo comma in aggiunta e a complemento di quella sull’imputazione alla legit-

(43) Proprio perché l’imputazione alla legittima non è suscettibile di dispensa, in quan-to è disposta per legge (e qui deve ravvisarsi un’altra deroga al diritto comune delle succes-sioni), non possono applicarsi all’« assegnazione » dell’art. 768-quater, comma 3o, le con-clusioni cui perviene per il caso di donazione con dispensa contestuale una felice pagina diMignoli, Se la dispensa dalla collazione debba essere espressa, in R. trim. d. proc. civ.1949, p. 84: il donante « vuole un precipuo, non un’anticipazione sulla successione futura:compie, cioè, un atto analogo a quello che farebbe se vendesse al discendente, o donasse aun non discendente; un modo, quindi, come un altro di consumazione del suo patrimonio,di cui non si dovrà tener conto — fatta eccezione per quanto concerne la legittima — quan-do si aprirà la sua successione ». Per il riferimento al precipuo (le coutumes de préciput)occorre far ricorso alla cultura storica di Mengoni, Successioni per causa di morte, Succes-sione necessaria, 4a ed., nel Tratt. Cicu Messineo Mengoni, Milano 2000, 140 nt. e 295.

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tima dei beni assegnati. Oltre alla non dispensabilità, l’imputazione presentaun’ulteriore caratteristica difforme dalla disciplina generale. Questa richiedeche l’imputazione si faccia con riferimento al valore conseguito dal bene nel« tempo dell’aperta successione » (artt. 747 e 750, comma 1o e 2o). La novellaimpone invece che si abbia riguardo al « valore attribuito in contratto ».

Col risultato di rendere almeno tale valore irretrattabile, salva l’impu-gnazione tempestiva, nella futura successione dell’imprenditore; e di rendereirrilevanti le oscillazioni verificatesi medio tempore.

In sintesi. Quanto ai beni diversi dall’azienda, assegnati con il patto difamiglia, l’anticipata attribuzione non è definitiva nel contenuto. Essa soggia-ce infatti ai rimedi ordinari, propri della sede ereditaria. L’attribuzione anti-cipata è definitiva soltanto in ordine al valore dei beni; dovrà essere conside-rato, nei conti fra i coeredi, il valore dell’epoca del patto e non quello del mo-mento in cui si apre la successione.

La disciplina è quindi assai diversa, rispetto a quella dettata per il trasfe-rimento dell’azienda. Ed è assai più ridotta la portata della deroga rispetto aldiritto successorio comune. L’effetto anticipatorio del patto è limitato, nei ter-mini esposti più sopra: termini che potrebbero essere — ma il condizionale siimpone — gli stessi, o almeno in qualche modo assonanti ai termini entro iquali il patto produce effetti verso una categoria qualificata di terzi, i legitti-mari sopravvenuti, secondo le disposizioni dell’art. 768-sexies.

10. — La composizione del nucleo familiare può non essere la stessa, incasa dell’imprenditore, nel momento del patto stipulato e in quello dell’apertasuccessione. Al patto possono sopravvenire circostanze (matrimonio, filiazio-ne) che modificano il numero di coloro i quali sarebbero legittimari ove inquel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore (perripetere le parole della fictio configurata dall’art. 768-quater, comma 1o, ovesi esprime in sintesi il motivo ispiratore della riforma: anticipare taluni effettidella successione; pur se — deve aggiungersi — introducendo regimi nonomogenei, ed anzi fortemente differenziati, circa il rapporto con la futura suc-cessione dell’imprenditore).

In quanto entrati nella famiglia, quale coniuge o quale figlio dell’impren-ditore, soltanto dopo la stipulazione del patto, i potenziali legittimari soprav-venuti non avevano titolo per partecipare alla stipulazione stessa. Stando alleregole ordinarie, però, il loro diritto si fonda in sede ereditaria sul rapportofamiliare (non importa quando costituitosi) operante all’apertura della suc-cessione e si estende al donatum, da computare nella riunione fittizia, oltreche al relictum.

Il diritto dei legittimari sopravvenuti è configurato invece dalla novellaquale pretesa meramente creditoria, spettante verso i soli « beneficiari delcontratto » ed avente ad oggetto « il pagamento della somma prevista nelcomma 2o dell’art. 768-quater, aumentata degli interessi legali » (art. 768-sexies, comma 1o).

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L’oscurità delle formule appena trascritte è superata soltanto da quelladelle parole che si leggono nel comma successivo: « L’inosservanza delle di-sposizioni del primo comma costituisce motivo di impugnazione ai sensi del-l’art. 768-quinquies »: quello sui vizi del consenso!

Di fronte a simili espressioni, risulta ardua anche la semplice enunciazio-ne di ipotesi. Pur brancolando nel buio, l’interprete può tuttavia tentare la viadi un ragionamento.

Se la disposizione dell’art. 768-sexies non fosse stata dettata, il legittima-rio superveniens non avrebbe subìto alcuna menomazione nelle proprie ragio-ni, a séguito dell’accordo negoziale raggiunto prima che egli fosse entrato inquella compagine familiare: ed infatti avrebbe avuto accesso agli ordinaristrumenti di tutela propri del diritto ereditario. Le attribuzioni disposte con ilpatto di famiglia, allora, sarebbero cadute con facilità, sotto il colpo dell’eser-citata azione di riduzione. Sarebbe così mancata la realizzazione dell’obiettivoprimario, perseguito dalla novella: consentire il trasferimento anticipato del-l’azienda, attraverso un atto inter vivos disciplinato all’insegna della più ele-vata stabilità di effetti: anche nella futura successione del disponente.

La disciplina dell’art. 768-sexies è quella che coordina gli effetti del pat-to di famiglia con le ragioni attribuite, nella successione dell’imprenditore, ailegittimari sopravvenuti. Designare come « terzi » quei soggetti, e così fa larubrica, non è improprio: essi non sono intervenuti nella stipulazione del pat-to; è però fuorviante: quei soggetti non vengono in rilievo quali estranei alpatto, ma quali titolari di « diritti » nella successione dell’imprenditore: qualilegittimari. L’ansia verso la stabilità degli effetti del patto, che si è visto costi-tuire il motivo conduttore della novella, comporterà allora che la consistenzadelle loro ragioni ereditarie sia ristretta nella previsione della legge, rispetto aquella che spetta a qualunque altro legittimario, sopravvenuto o non, nel di-ritto comune delle successioni.

Si identificano, così argomentando, la ratio e la conseguente linea di tenden-za, proprie della disposizione nuova (art. 768-sexies). Ma si esaurisce al tempostesso l’ambito delle conclusioni interpretative che possono enunciarsi con buonadose di tranquillità: la tutela del legittimario sopravvenuto si assottiglia, per effet-to della novella, in coerenza con il motivo conduttore di questa.

Sul modo e la misura in cui si assottiglia, può formularsi l’ipotesi che siastato introdotto un sistema di protezione del tutto nuovo, indipendente alme-no in parte nei presupposti da quelli propri dell’azione di riduzione e — forse— diverso nel contenuto anche rispetto alla « liquidazione » prevista nell’art.768-quater, comma 2o, pur se quest’ultima disposizione è richiamata espres-samente dall’art. 768-sexies, comma 1o.

Ed invero la liquidazione è convenuta, nell’an e nel modo, fra chi ha par-tecipato al patto. La misura di essa, salvo l’esercizio della facoltà di rinuncia,è pari al valore delle quote che spetterebbero agli aventi diritto nella fictiodell’apertura anticipata della successione: è quindi da determinare con riferi-mento alla consistenza dell’azienda, considerata all’epoca del patto.

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Nella stessa misura dovrebbe dirsi configurato il diritto dei legittimari so-pravvenuti, se il testuale rinvio alla « somma prevista dal secondo commadell’art. 768-quater » potesse intendersi quale riferimento all’epoca del pattoe al patrimonio di quell’epoca: assumendo cioè che tali elementi si siano defi-nitivamente cristallizzati, anche nei confronti dei legittimari sopravvenuti e alfine di commisurare le loro ragioni successorie.

Così inteso, però, il rinvio provocherebbe non soltanto la mutazione qua-litativa di tali ragioni successorie, ma anche una variazione quantitativa diesse. Gli incrementi e i decrementi patrimoniali dell’imprenditore, intervenutifra il patto e l’apertura della successione, diventerebbero irrilevanti ai fini diquesta.

Ora, la novella è indubbiamente rivolta, non occorre ripeterlo, ad assicu-rare stabilità agli effetti del patto. In coerenza con il perseguimento dell’obiet-tivo, essa riduce la tutela dei legittimari. Anche, e in primo luogo, quella deisoggetti che appartengono alla famiglia dell’imprenditore nel momento dellastipulazione del patto. E vi provvede riaprendo la strada alle sistemazionicontrattuali e alle manifestazioni di rinuncia: quella strada che il sistema tra-dizionale teneva sbarrata e che esigenze nuove (ma antiche) volevano invecefosse resa percorribile.

Questo, e nei modi esposti più sopra, quanto ai familiari presenti al pat-to. Quanto ai familiari sopravvenuti, non v’era ragione di disciplinare la lororinuncia. I loro diritti nascono soltanto con l’apertura della successione; quin-di la rinuncia poteva e può essere manifestata senza ostacoli. La ratio consi-stente nel tenere fermi gli effetti del patto di famiglia opera nei loro confronti,risolvendosi nella negazione di ogni rimedio inteso a ciò che l’azienda asse-gnata in vita dal disponente rientri in natura nella massa ereditaria. Il loro di-ritto è personale, essendo configurato quale credito nei confronti dei « benefi-ciari del contratto », ed ha per oggetto il pagamento di una somma. Tutto ilresto è oscuro: a partire dal criterio per la determinazione della somma.

Potrebbe pensarsi che il criterio sia quello contenuto nella disposizionerichiamata, l’art. 768-quater, comma 2o, e che quindi il patrimonio alla cuiconsistenza è da commisurare il valore delle quote sia il patrimonio dell’epocadel patto. L’ipotesi è avvalorata, più che dal richiamo testuale alla disposizio-ne sui diritti dei partecipanti al contratto, dalla previsione che la somma didenaro cui i legittimari sopravvenuti hanno diritto debba essere « aumentatadegli interessi legali ». Potrebbe argomentarsi infatti nel senso che si sia otti-misticamente postulato un incremento costante nella fortuna dell’imprendito-re e che la precedente e meno elevata consistenza del patrimonio, da conside-rare per la determinazione del credito sostitutivo della quota di legittima, tro-vi compenso nell’attribuzione degli interessi legali (maturati, occorrerebbe in-tegrare, fra l’epoca del patto e quella dell’aperta successione).

Debbono manifestarsi dubbi circa l’attendibilità dell’ipotesi. L’obiettivodella novella è di assicurare la stabilità dell’assegnazione che ha avuto ad og-getto l’azienda. Che il prezzo imposto ai familiari sopravvenuti consista nel

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negare loro l’efficacia c.d. reale dell’azione di riduzione, è coerente con la ra-tio legis; può inoltre aggiungersi, su altro piano, che il nuovo coniuge è inveri-simile ignorasse la precedente stipulazione del patto. Sarebbe viceversa incoe-rente configurare i loro diritti di legittimari, sotto il profilo quantitativo, rica-vandone la misura dalla consistenza che il patrimonio dell’imprenditore pre-sentava al momento del patto di famiglia. Consistenza che, oltretutto, potreb-be essere più ridotta al tempo dell’aperta successione che non al momento delpatto: le previsioni ottimistiche sono sempre suscettibili di essere smentite daifatti.

Sembra meno irragionevole, allora, intendere il richiamo della novella(art. 768-sexies, comma 1o) come concettualmente riferito non all’altra dispo-sizione della novella (art. 768-quater, comma 2o), ma in via diretta alla disci-plina del codice civile (art. 536 e seguenti), richiamata a propria volta nelladisposizione alla quale si fa testuale rinvio. Con la conseguenza che le quotedei legittimari sopravvenuti siano da determinare secondo le regole generalidella riunione fittizia.

Il rinvio interno, dall’una all’altra disposizione della novella, dovrebbeallora significare che il familiare sopravvenuto ha diritto alla sola correspon-sione di una somma di denaro: la legittima in natura, del resto, è un’antica-glia che sta sgretolandosi da tempo (44). La misura della somma va però de-terminata applicando le norme generali. L’aumento degli interessi legali, con-testualmente previsto come dovuto, continua a rappresentare un’incognita.Potrebbe tuttavia giustificarsi considerandolo come l’incremento nella misuradel credito, nel quale si esprime la sua quota di riserva, incremento attribuitoal creditore per essersi sostituita un’azione personale all’azione reale (di resti-tuzione) che — negli altri casi — la legge continua ad attribuire al legittima-rio, entro i modesti limiti eretti dalla novella del 2005.

Vi sarebbe da considerare per quale periodo siano dovuti gli interessi le-gali, in aggiunta al valore delle quote di legittima. E v’è ancora da domandar-si chi siano i « beneficiari del contratto », debitori della prestazione dovuta alfamiliare sopravvenuto: il solo assegnatario dell’azienda; o anche tutti gli altripartecipanti al contratto; in particolare, se occorra escludere dal numero deidebitori i partecipanti i quali abbiano rinunciato, in tutto o in parte, alla li-quidazione che altrimenti sarebbe stata dovuta loro; se occorra escludere gliassegnatari di beni diversi dall’azienda.

Ma l’elenco delle oscurità va chiuso menzionando la più difficile da illu-minare. « L’inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce mo-tivo di impugnazione ai sensi dell’art. 768-quinquies » (art. 768-sexies, com-ma 2o).

Anche qui vi è un rinvio interno, da una ad un’altra disposizione della

(44) Per la ricchezza dell’argomentazione deve rinviarsi ad Amadio, Anticipata succes-sione e tutela dei legittimari, in Scienza e insegnamento del diritto civile in Italia, Milano2004, p. 660 ss.

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novella. Ma la disposizione richiamata è quella che dichiara il patto impugna-bile, per vizio del consenso, dai « partecipanti ». La norma di rinvio si riferi-sce invece a una categoria qualificata di « terzi », i familiari sopravvenuti.Sembra quindi attribuita a costoro la stessa legittimazione all’azione di an-nullamento, che sarebbe spettata alle parti.

Si trascuri pure che l’ipotizzata legittimazione è attribuita per il caso di« inosservanza » di quanto disposto nel primo comma. Per il caso di insolven-za dei « beneficiari » debitori, dovrebbe intendersi volendo dare un significatoalla non raffinata formula della legge. Resta però da domandarsi quale sensoabbia l’aver attribuito a un terzo, pur se qualificato in quanto legittimario, lafacoltà di chiedere l’annullamento postumo — per vizio del consenso — di uncontratto a titolo gratuito stipulato in vita dal suo dante causa.

Il familiare vittima dell’« inosservanza », e cioè dell’insolvenza dei « be-neficiari », si presenta quale creditore di questi ultimi. In quanto creditore,l’art. 768-sexies, comma 2o, potrebbe avergli conferito, configurandola come« motivo di impugnazione » del patto (motivo derivante a sua volta dall’« i-nosservanza »), una sorta di legittimazione surrogatoria all’esercizio dell’azio-ne di annullamento (45).

Quello così ipotizzato potrebbe costituire l’ultimo rifugio offerto ai dirittidel familiare sopravvenuto, o l’ultima reincarnazione di essi. Dopo il diniegodella tutela reale, e nel caso in cui non dia esito utile l’esercizio della pretesacreditoria (alla quale si è ristretta la sua protezione), a quel familiare — perquanto egli sia legittimario — si aprirebbe soltanto il novissimo, estremo ri-medio rappresentato dall’impugnazione del patto di famiglia. L’azione par-rebbe intesa, attraverso l’annullamento del patto, a consentire che le ragioniereditarie dell’attore trovino realizzazione sui beni che avevano formato og-getto del patto medesimo.

Se è così (46), deve dubitarsi fortemente circa la coerenza e la proficuità

(45) Sulla configurabilità di tale legittimazione, Nicolò, Azione surrogatoria, in Comm.Scialoja-Branca, sub art. 2900, Bologna-Roma 1953, p. 147 s. (Raccolta di scritti, I, cit.,p. 809 s.).

(46) L’ipotesi è contrastata nel penetrante saggio di Gazzoni, Appunti e spunti in temadi patto di famiglia, in Giust. civ. 2006, che ho letto in dattiloscritto grazie alla amichevolecortesia dell’A. La sua tesi è che i legittimari sopravvenuti possano non già impugnare ilpatto per vizi della volontà, ma soltanto esigere la liquidazione e, in caso di inadempimentodei debitori, agire per l’annullamento del contratto. L’evidente anomalia — annullabilitàdel contratto per vizio funzionale e non genetico — sarebbe però giustificata: è ingiusto cheil patto non cada, ove i familiari sopravvenuti restino insoddisfatti, dal momento che i par-tecipanti al contratto sono legittimati all’azione di risoluzione, se resta inadempiuto l’obbli-go di liquidarli. La decorrenza della prescrizione annuale sarebbe inoltre da collocare nonnel momento dell’aperta successione, ma in quello nel quale si prescrive il diritto di accetta-re l’eredità, spettante al legittimario sopravvenuto: diritto dal cui esercizio dipende l’acqui-sto del credito alla liquidazione.

La scarsa raffinatezza dei termini nei quali è espresso il rinvio interno (dall’art. 768-sexies all’art. 768-quinquies) contribuisce a dimostrare la ragionevolezza della tesi ora rias-sunta. E a dimostrare, nel medesimo tempo, un qualche eccesso di fiducia che la diversa

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della soluzione che il rinvio interno (dall’art. 768-sexies, comma 2o, all’art.768-quinquies) si prefigge di raggiungere. La disposizione cui è fatto rinviodisciplina l’azione di annullamento, ponendo ad essa un termine di prescri-zione breve: un anno. È vero che la decorrenza della prescrizione, sulla qualela novella non interviene, resta ancorata alle regole generali; e queste compor-tano il differimento del dies a quo fino al momento in cui la causa nella qualeconsiste l’addotto vizio del consenso sia cessata (la violenza esercitata contro

ipotesi svolta nel testo ripone nella rubrica e nella qualificazione dell’azione (impugnativaper vizi del consenso), risultanti dalle formule dell’art. 768-quinquies.

Quelle formule non meritano la fiducia dell’interprete. Il quale adempie al proprio do-vere quando esercita su di esse il suo impegno, rivolto alla ricerca di soluzioni razionali.

Le formule esprimono però una nozione univoca: l’impugnazione negoziale per vizi delconsenso. Attribuire ad esse un senso diverso — un’azione di annullamento del contratto,per inadempimento dell’obbligo di una fra le parti, avente ad oggetto la « liquidazione » diun terzo (il legittimario sopravvenuto) — comporta un sovraccarico interpretativo, impostoalla dizione generica (« motivo di impugnazione ») che si legge nell’art. 768-sexies, comma2o. La tesi finisce per collocare su quest’ultima disposizione la base dell’azione di annulla-mento attribuita al terzo; mentre la lettera della novella esprime soltanto un rinvio alla di-sposizione sui vizi del consenso.

L’azione di risoluzione per inadempimento può ritenersi spettare ai « partecipanti », sela liquidazione promessa loro con il patto resta priva del séguito promesso. L’azione, ovespetti, si fonda però sul rimedio previsto nella parte generale dei contratti; non sulla novel-la, che ne tace. Occorrerebbe allora trovare pari fondamento all’azione, di annullamentodel patto per inadempimento dell’obbligo di liquidare il legittimario sopravvenuto, azioneche si ritiene spettare a quest’ultimo. Mentre il fondamento mi sembra difficile da reperire,al di fuori della inaffidabile lettera dell’art. 768-sexies, comma 2o.

Il rinvio all’articolo precedente, contenuto in quest’ultima disposizione, finisce per re-stringersi al secondo comma dell’art. 768-quinquies: quello che introduce il termine breveper l’esercizio dell’azione di annullamento. Resta così fomentato il dubbio circa l’accettabi-lità della proposta interpretativa.

Quanto alla decorrenza della prescrizione (dell’azione di annullamento), la tesi del Gaz-zoni si risolve in un differimento di essa a tempo indeterminato e con ciò in una tutela raf-forzata delle ragioni creditorie spettanti al legittimario sopravvenuto. Deve allora obiettarsiche la tesi collide con l’obiettivo primario della novella: la stabilità del patto di famiglia.Questo potrebbe essere impugnato utilmente, ove il creditore insoddisfatto proponga la do-manda di annullamento, anni e anni dopo essere stato concluso. Si aggiunga, su altro pia-no, che la spada di Damocle rappresentata da un credito altrui, in ipotesi esigibile a tantadistanza di tempo dalla stipulazione del patto, non gioverebbe né alla tranquillità dell’im-prenditore né alla prosperità dell’azienda.

Potrebbe allora ragionarsi su una soluzione diversa: che il diritto alla liquidazione, nelquale trova espressione la quota di riserva spettante al legittimario sopravvenuto, sia da ri-tenere sorto già per effetto dell’aperta successione e indipendentemente dall’accettazione.Resterebbe fuori un caso soltanto: quello del figlio il quale abbia acquistato il proprio sta-tus dopo la morte del padre (la dichiarazione giudiziale postuma). In questo caso, però,manca la stessa vocazione ereditaria, fino al momento in cui il giudicato sullo status ne ab-bia attribuito il titolo al figlio. E la dilazione, in questo caso, è conforme sia ai principi deldiritto ereditario, sia alle esigenze di tutela dei figli nati fuori dal matrimonio (v. La pre-scrizione, cit., p. 165 s.).

Le difficoltà interpretative, come si vede, non decrescono ma si moltiplicano: come ènormale allorché un’ipotesi sia posta a confronto con un’altra, argomentata con la profon-dità di pensiero e con l’ingegno acuminato di Francesco Gazzoni.

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la parte contraente) o sia stata scoperta (la violenza diretta contro terzi, l’er-rore, il dolo) (47). Ma è (a dir poco) improbabile che il termine breve non siadecorso per intero, allorché l’impugnativa negoziale è proposta dal familiaresopravvenuto, il quale deduca in giudizio i vizi del consenso espresso — interalios— chissà quanti anni prima.

L’ultima Thule del legittimario deluso si rivela allora un luogo inaccessi-bile. E la tutela del legittimario sempre più ridotta. Ma non, come sarebbepossibile ed auspicabile, per effetto di un disegno razionale nutrito di buonacultura storica, economica e civilistica. La tutela si riduce a seguito dell’impe-rizia dimostrata nella compilazione della novella.

(47) Rinvio sul punto al luogo menzionato nella nt. 22.

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Giovanni Giacobbe

Prof. Ord. dell’Università LUMSA di Roma

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELLA FAMIGLIANELL’ORDINAMENTO ITALIANO (*)

Sommario: 1. Premessa. — 2. La famiglia fra passato e presente. — 3. La famiglia nella Co-stituzione. — 4. La famiglia fra ordinamento interno ed ordinamento comunitario. — 5.Le nuove frontiere del diritto di famiglia: i contratti tipici di convivenza.

1. — La dottrina più recente si è posta il problema se nel sistema ordina-mentale vigente sia configurabile un modello unitario di famiglia, ovvero se,considerando le molteplici articolazioni sociali e aggregazioni non fondate sulmatrimonio, debba pervenirsi alla conclusione della esistenza di una pluralitàdi modelli familiari (1).

Per dare soluzione, ancorché problematica, alla prospettata alternativa,che si pone in relazione a quelle che vengono definite nuove frontiere del

(*) Testo rielaborato del contributo al Convegno Internazionale di studio sul tema Ilruolo della civilistica italiana nel processo di costruzione della nuova Europa, svoltosi aMessina il 28-30 settembre 2005.

(1) Si pongono l’interrogativo, fra gli altri, P. Zatti, Introduzione, in Trattato di di-ritto di famiglia, diretto da Zatti, I, 1, Milano 2002, p. 3 ss.; F. Ruscello, Dal patriar-cato al rapporto omosessuale: dove va la famiglia?, in Rass. d. civ., 2002, p. 517 ss.; G.Ferrando, Il matrimonio, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, V, 1, Milano 2002; G. Frez-za, Premessa, in Trenta anni dalla riforma del diritto di famiglia, Milano 2005.

In generale, sulla rilevanza delle convivenze non fondate sul matrimonio vedi, tra itanti, F. Prosperi, La famiglia non « fondata sul matrimonio », Camerino-Napoli 1980, p.93; F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano 1983, p. 146 ss.; F. D’An-geli, La famiglia di fatto, Milano 1989, p. 323 ss.; E. Roppo, voce Famiglia di Fatto inEnc. giur., XIV, Roma 1989, p. 2; A. Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio eautonomia privata, Milano 2002, p. 9 ss.; P. Perlingieri, La famiglia senza matrimoniotra l’irrilevanza giuridica e l’equiparazione alla famiglia legittima, in Una legislazioneper la famiglia di fatto?, Napoli 1988, p. 136 ss., Id., Il diritto civile nella legalità costitu-zionale, Napoli, 2001, p. 474; Id., Sui rapporti personali della famiglia, in Aa.Vv., Rap-porti personali nella famiglia, a cura di P. Perlingieri, Napoli 1982, p. 18, F.D. Busnelli,Sui criteri di determinazione della disciplina normativa della famiglia di fatto, in La fa-miglia di fatto, Atti del Convegno nazionale di Pontremoli, Montereggio-Parma 1977, p.133 ss.; Id., La famiglia e l’Arcipelago familiare, in questa Rivista, 2002, p. 510; M. Bes-sone, Art. 29, Rapporti etico sociali, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Bran-ca, Bologna-Roma 1976, p. 31 ss.; G. Furgiuele, Libertà e famiglia, Milano 1979, p. 282ss.; P. Rescigno, La comunità familiare come formazione sociale, Rapporti personali dellafamiglia, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, Roma 1980, p. 12 ss.;M. Dogliotti, Spunti sulla qualificazione giuridica della famiglia di fatto. Spunti, que-stioni, prospettive, in G. it., 1980, I, 1, p. 350.

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diritto di famiglia (2), sembra, in linea di primo approccio, necessario pre-mettere talune linee metodologiche, essenziali per la ricostruzione del siste-ma ordinamentale, nell’ambito del quale è necessario procedere alla quali-ficazione giuridica degli aggregati sociali in ordine ai quali si pone il pro-blema della configurabilità di un modello familiare che trovi tutela nell’or-dinamento.

Innanzitutto la presente indagine, che ha ad oggetto, in buona sostanza,la rilevanza giuridica di convivenze fondate sulla sola affectio, si prefiggerà loscopo di attuare una qualificazione tecnico-giuridica del fenomeno in analisi,attraverso la (esclusiva) individuazione delle fonti normative di riferimento. Èvero che, essendo il fenomeno oggetto dell’analisi espressione di una dimen-sione relativa ai rapporti umani, i presupposti ideologici e culturali non pos-sono non avere una loro specifica influenza sulle riflessioni che si propongono(3); ma è altrettanto ovvio che, pur nel quadro di questa dimensione logicoculturale, il giurista debba sforzarsi di condurre la propria analisi sul piano diuna rigorosa interpretazione delle fonti normative.

Una seconda premessa merita di essere indicata.La Costituzione repubblicana del 1948, elemento nodale per risolvere le

problematiche afferenti al diritto di famiglia — la quale, a ben vedere, rap-presenta un « felice compromesso » fra le culture dominanti nel periodo dellasua emanazione: la cultura cattolica, quella liberale e, infine, quella marxista— sia nella parte relativa ai Principi fondamentali, sia in quella afferente aiRapporti etico sociali e, in qualche misura, nel Titolo III relativo ai Rapportieconomici, sembra orientata prevalentemente, se non esclusivamente, verso lacultura e i principi di ispirazione cristiana (di cui sono stati validi esponentiMoro, Dossetti, La Pira, Fanfani) (4).

Una esemplificazione si rinviene nell’art. 2 della Costituzione, in base alquale « la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, siacome singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e ri-chiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economi-ca e sociale ».

(2) Vengono così definiti i nuovi confini che tecnologia, scienza, modificazioni socio-an-tropologiche determinano all’interno della società familiare e richiedono ora l’adattamentodel sistema ordinamentale ora l’emanazione di specifiche regolamentazioni. Utilizza questaterminologia Cassano, Le nuove frontiere del diritto di famiglia, Milano 1999. V. ancheAa.Vv., La famiglia nel nuovo diritto, 5a ed., Bologna 2002.

(3) Sul rapporto fra legge ed ideologia, seppure nell’ambito di un contesto concettualediverso rispetto a quello oggetto della presente indagine e nel senso che tutte le leggi rap-presentano il frutto di una scelta ideologica cfr., recentemente, F. Gazzoni, Osservazioninon solo giuridiche sulla tutela del concepito e sulla fecondazione artificiale, in D. fam.,2005, p. 169-170.

(4) Cfr. Colonnetti-Moro-Codignola, Atti dell’Assemblea costituente, II, Camera deideputati, Roma 1956, p. 1045 ss.

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Il valore della persona umana, contenuto nella clausola generale di tute-la di cui all’art. 2 Cost. (5), rappresenta, peraltro, il presupposto su cui il di-ritto di famiglia, in generale, e l’analisi delle nuove frontiere del diritto difamiglia, in particolare, devono essere informati (6). Da questo punto di vi-sta occorre precisare che l’incidenza della Costituzione nei rapporti inter pri-vatas — quali sono i rapporti di famiglia, nonostante autorevole dottrinaabbia in passato tentato di costituire le relazioni familiari nell’ambito del di-ritto pubblico, per la loro incidenza di carattere generale, e, dunque, di ordi-ne pubblico (7) — rappresenta una conquista recente: mentre, invero, la Co-stituzione del 1848 segna il confine fra i poteri del sovrano e i diritti del cit-tadino, rappresentando il complesso di norme dirette a delimitare l’interven-to pubblico rispetto alle libertà del privato, nel quadro della disciplina deirapporti fra pubblico e privato — cioè nell’ambito della disciplina dei dirittidi libertà del cittadino rispetto al potere costituito — la Costituzione attualeprevede una serie di norme che attengono direttamente ai rapporti fra priva-ti; norme che, conseguentemente, risultano vincolanti per l’interprete anchea prescindere dall’analisi degli orientamenti sulla natura programmatica ov-vero precettiva delle norme costituzionali, sicuramente ininfluente rispettoagli scopi della presente analisi (8).

Un primo elemento che caratterizza l’analisi del quadro normativo del

(5) La bibliografia sull’argomento è molto ampia: con specifico riferimento alle temati-che familiari si veda Perlingieri, a cura di, Rapporti personali nella famiglia, Napoli 1982,passim.

(6) Sul punto cfr. Autorino Stanzione, a cura di, Il diritto di famiglia, il matrimonio, I,XX, Torino 2005, la quale, pur riconoscendo la rilevanza fondamentale dell’art. 29, com-ma 1o, Cost., tuttavia dal coordinamento fra l’art. 29 e l’art. 2 Cost., deduce che l’ordina-mento costituzionale determina una tutela che « non è espressione di uno specifico interessedello Stato nei confronti del matrimonio e della famiglia, ma è dettata in funzione degli in-dividui che ne sono membri »: codesta impostazione, che certamente ha un fondamentocondivisibile per il fatto che ricollega la tutela costituzionale della famiglia ai diritti inviola-bili della persona umana, non può essere accettata nella parte in cui esclude lo specifico in-teresse dello Stato nei confronti del matrimonio, per la semplice considerazione che l’art. 29— che peraltro va posto in relazione con i successivi artt. 30 e 31 — opera, come si chiariràmeglio nel testo, la definizione di un modello di famiglia assunto come esclusivo oggettodella tutela costituzionale.

(7) A. Cicu, Il diritto di famiglia, Roma 1914, p. 9 ss.; Id., Principi generali del dirittodi famiglia, in R. trim. d. proc. civ., 1955, p. 1 ss.; Id., Scritti minori di Antonio Cicu, I, p.1, Milano 1965, con riguardo ai saggi relativi al diritto di famiglia.

(8) La letteratura sul tema è ampissima. Si vedano a titolo meramente esemplificativo:U. Natoli, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, I, Introdu-zione, Milano 1954, p. 46 ss.; M. Giorgianni, Il diritto privato e i suoi attuali confini, in R.trim. d. proc. civ., 1961, p. 399 ss.; R. Nicolò, voce Diritto civile, in Enc. dir., XII, Milano1964, p. 907 ss.; U. Majello, Profili costituzionali della filiazione legittima e naturale, Na-poli 1965, p. 10 ss.; L. Campagna, Famiglia legittima e famiglia adottiva, Milano 1966,passim; P. Perlingieri, Per una rilettura del Codice civile, in G. it., 1968, IV, p. 224; Id.,Norme costituzionali e rapporti di diritto civile, in Tendenze e metodi della civilistica italia-na, Napoli 1979, p. 95 ss.; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., passim.

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diritto di famiglia è rappresentato, allora, dalla valorizzazione della tuteladella persona umana e del principio di solidarietà costituzionale (9) i qualipermeano di per sé i rapporti familiari e quelli parafamiliari.

Tale premessa metodologica non deve apparire, come dire, « divagante »rispetto allo scopo della presente indagine: serve piuttosto a puntualizzarel’importanza del riferimento ai valori caratterizzanti il nostro ordinamentogiuridico, in particolare il valore della persona, che a volte, nell’attuale dibat-tito giuridico, viene considerato in senso critico, come espressione di un fon-damentalismo cattolico ovvero di una visione confessionale del diritto di fa-miglia. Si tratta, in realtà, anche per quanto si chiarirà nel prosieguo, di valu-tazioni che trovano fondamento nella analisi tecnico-giuridica delle disposi-zioni e dei principi ordinamentali cha caratterizzano il nostro sistema giuridi-co, fondato sui valori costituzionali.

2. — L’aggregazione tipica della « famiglia », se nel nostro ordinamentogiuridico è ricondotta ad una « società naturale fondata sul matrimonio »(art. 29 Cost.), sotto il profilo storico presenta una molteplicità di modelli: lafamilia romana (10) aveva, invero, connotati e caratteristiche fondanti diversedalla famiglia del diritto germanico medievale (11) o da quella della societàsovietica precedente alla rivoluzione.

È, dunque, un dato oggettivo incontrovertibile l’esistenza, sul piano fat-tuale, di una pluralità di aggregazioni che si fondano sulla convivenza carat-terizzata dalla affectio di natura sessuale.

(9) Per un’ampia trattazione del valore della persona umana nell’ordinamento giuridi-co, si rimanda a G. Giacobbe-A. Giuffrida, Le persone, III, Diritti della personalità, Il dirit-to privato nella giurisprudenza, a cura di P. Cendon, Torino 2000, spec. Cap. I, II, III, oveampi riferimenti bibliografici. Cfr., altresì, G. Giacobbe, Il fondamento giuridico della soli-darietà sociale, in Justitia, 1999, p. 523 ss.; P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità co-stituzionale, cit., p. 167 ss.; Id. La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Cameri-no-Napoli 1982.

(10) Per una trattazione relativa alla definizione della famiglia nel diritto romano e al suorapporto con la gens vedi: C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari, I, Ro-ma 1994 passim, ed ivi la distinzione fra familia proprio iure, la familia communi iure e lagens. Vedi, inoltre, G. Franciosi, Clan Gentilizio e strutture monogamiche, Contributo allastoria della famiglia romana, Napoli 1999, passim; Id., Famiglia e persone in Roma antica.Dall’età arcaica al principato, Torino 1995, passim; M.J. Garcia Garrido, Diritto privato ro-mano, Edizione italiana a cura di M. Balzarini, traduzione di L. Biondo, Padova 1996. Peruna analisi della familia ed il ruolo della donna nel diritto romano vedi: L. Peppe, Posizionegiuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana, Milano 1984, passim; E.Cantarella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Milano 1996, passim.

(11) Su cui vedi P.S. Leicht, Storia del diritto italiano. Il diritto privato, I, Diritto dellepersone e della famiglia, Milano 1960, p. 152. Per una sintesi del diritto matrimoniale nelMedioevo, cfr., per tutti, R.C. Van Aenegen, Introduzione storica al diritto privato, Bologna195, p. 231 ss. Vedi inoltre: J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente, Torino 1989, passim;E. Vaccari, Matrimonio, in Enc. giur., X, I, Milano 1901, p. 7; G. Manfredini, voce Fami-glia, in Dig. it., XI, I, 1915, p. 372 ss.; C. Lessona, voce Famiglia, Enc. giur. Treccani, VI,I, Milano 1900, p. 646 ss.

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Nell’indicato contesto, all’interprete che si proponga di ricostruire la ti-pologia famiglia tipica di un determinato sistema normativo, si pone il pro-blema di individuare quale sia il tipo di convivenza, fondata sulla affectio, dinatura sessuale, che sia stato acquisito nell’Ordinamento giuridico e che, inragione della qualificazione che l’Ordinamento medesimo abbia dato, possaessere definita famiglia.

Nel tentativo di identificare la categoria giuridica della famiglia occorrefare riferimento, in questa sede, alla evoluzione storica degli ultimi ses-sant’anni, secondo una indagine riconducibile a qualificazioni tecnico-giuridi-che.

Il codice civile del 1942 — il quale riprende, in tema di rapporti familia-ri, la codificazione del 1865, ancorché aggiornata sulla base delle evoluzioniche si sono realizzate dopo la prima guerra mondiale — ha acquisito e, percerti aspetti, delineato un modello di famiglia « gerarchicamente » organizza-ta, caratterizzata, cioè, dalla preminenza autoritativa del capo famiglia, ilmarito, e dalla posizione subordinata della moglie, che ne seguiva le determi-nazioni (12).

La struttura gerarchica tendeva a salvaguardare l’unità integrale dellafamiglia, sotto il profilo esistenziale, e a conservare, con riguardo ai profilipatrimoniali, il patrimonio familiare con riflessi rilevanti in materia successo-ria. È questo l’assetto fondamentale dei rapporti familiari delineato dal codicecivile del 1942, secondo l’influenza di autorevoli giuristi liberali.

In questa cornice si inserisce la Costituzione repubblicana del 1948 cheha recepito le istanze di rinnovamento dei rapporti intersoggettivi tra i qualisi colloca la disciplina del diritto di famiglia.

La Costituzione, come ogni altra legge, è stata (ed è) idonea ad esercitareuna duplice finalità.

Da un lato, ha recepito le istanze che promanavano dalla società civile, leha giuridificate e ha identificato i rapporti che da tale giuridificazione conse-guono; dall’altro, ha precorso l’evoluzione futura delle istanze della società.

Da questo punto di vista, la intitolazione nel Titolo II ai Rapporti etico-sociali rappresenta la giuridificazione di valori della morale e dell’etica domi-nanti nel periodo storico di emanazione della Costituzione; valori, sotto il pro-filo tecnico giuridico, fondanti ancora oggi l’ordinamento giuridico, tanto daessere considerati come principi fondamentali ed inviolabili.

Si tratta, in particolare, del valore della persona umana, centro dell’in-tero sistema ordinamentale e, per quanto più da vicino riguarda la presente

(12) Per un ampio excursus sulle modificazioni della famiglia, da organizzazione pira-midale organizzata gerarchicamente a struttura fondata sull’eguaglianza v. Sesta, Diritto difamiglia, Padova 2005, p. 15 ss. V. anche Aa.Vv., La famiglia nel nuovo diritto, 5a ed., Bo-logna 2002; Zatti, Introduzione al Trattato di diritto di famiglia, I, 1, Milano 2002, p. 1ss. Per una prospettiva storico-giuridica del rapporto matrimoniale v. M.E. La Torre, Lacondizione giuridica della donna nel matrimonio: fra disuguaglianza e parità, in Legalità egiustizia, 1987, p. 6 ss.

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analisi, degli artt. 29, 30, 31 Cost., riguardanti segnatamente i rapporti fa-miliari.

3.—Con riguardo alla molteplicità di modelli di convivenza fondati sull’af-fectio, l’ordinamento può assumere diversi atteggiamenti: non prendere posizio-ne alcuna (13), nel senso di non operare specifiche opzioni, lasciando ai soggettiinteressati lo spazio per la disciplina di regole frutto di autonomia privata (14);dettare regole diversificate per ciascuno dei modelli che la società civile presenta;operare, infine, la scelta di unmodello privilegiato rispetto ad altri.

L’art. 29 Cost. si pone lungo l’ultima posizione delineata: nella moltepli-cità dei modelli di convivenza ha attribuito rilevanza costituzionale ad unosolo, dettando per esso una disciplina che il legislatore ordinario non può nédirettamente né indirettamente intaccare.

Il modello è quello della società naturale fondata sul matrimonio.Sembra, allora, rilevante sottolineare come l’attuale dibattito giuridico —

e non solo giuridico — frequentemente ometta il richiamo e la considerazionedell’art. 29 Cost.

Secondo una proposta interpretativa, che, come si dirà più avanti, nonsembra possa essere condivisa, il contenuto precettivo dell’art. 29 Cost. an-drebbe inserito nel quadro delle istanze etico sociali tipiche del momento sto-rico nel quale la Costituzione è stata emanata: la formulazione verbale delladisposizione di cui all’art. 29 Cost. rappresenterebbe la cristallizzazione degliinteressi allora emergenti, con la conseguenza che, mutato il contesto sociale,ed emergendo interessi di natura diversa, il dato testuale dovrebbe essere ri-letto alla luce dell’emergere di nuove tipologie di rapporti sociali, in funzionedelle quali dovrebbe essere definito il nuovo modello giuridico di famiglia.

Secondo l’indicata prospettazione, invero, poiché dal 1948, anno di en-trata in vigore della Costituzione, ai nostri giorni vi è stata una radicale evo-luzione dei rapporti intersoggettivi in tema di convivenza, l’art. 29 Cost. nonpotrebbe più essere invocato per precludere qualificazioni della categoria fa-miglia, diverse da quelle indicate dalla norma. In altre parole, in questa otticaoggi la realtà fenomenica è tutta spostata sul versante del rapporto e quindila disciplina va ricercata in funzione della posizione dei soggetti all’internodel medesimo; si rende così necessario il superamento del « riferimento ad unatto costitutivo come criterio rilevante per la determinazione di una disciplinadel vincolo familiare » (15).

(13) Trabucchi, Pas par cette voie s’il vous plait!, in questa Rivista, 1981, I, p. 350 ss.(14) V. da ultimo M.Messina, S. Sica, Famiglia non fondata sul matrimonio e autonomia

negoziale, in Autorino Stanzione, a cura di, Il diritto di famiglia, Il matrimonio, I, XX, Tori-no 2005, p. 331 ss.; V. Zambrano, La famiglia non fondata sul matrimonio, ivi, p. 224 ss.

(15) In tal senso, N. Lipari, Riflessioni sul matrimonio a trent’anni dalla riforma del di-ritto di famiglia, in Trenta anni dalla riforma del diritto di famiglia, a cura di G. Frezza,Milano 2005 e in R. trim. d. proc. civ., 2005, p. 717.

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Secondo l’A., cui va riferito il pensiero appena riportato, il testo costitu-zionale dell’art. 29 ha subito, nell’ultimo mezzo secolo, una tale evoluzioneinterpretativa da determinare un radicale rovesciamento di signifìcati rispettoa quella che ragionevolmente era stata l’intenzione dei costituenti in una sta-gione in cui (non è appunto senza significato il fatto che lo stesso codice civilenon definisca mai il matrimonio) non erano pensabili significative alternativesociali alla coessenzialità del rapporto matrimonio famiglia. In tale contestosi pone, per legittimare la riportata affermazione, il collegamento tra l’art. 29Cost. e l’art. 2 Cost.

La tesi — ancorché riconducibile ad autorevole dottrina — non sembrapossa essere condivisa per il fatto che da essa deriva la conseguenza di limita-re la vincolatività del precetto costituzionale, e quindi di consentirne la man-cata attuazione da parte del legislatore ordinario, laddove la rigidità che ca-ratterizza la vigente Costituzione non sembra consentire tale metodologia in-terpretativa.

Lungo la stessa linea sembra collocarsi altra autorevole dottrina (16) laquale osserva che con la legge di riforma e per effetto anche di una interpre-tazione sistematica dei principi costituzionali in materia, la famiglia legittimaha cessato di porsi come modello modale da preservare e tutelare ad ogni co-sto: anche in relazione a questa impostazione sembra legittimo riproporre leperplessità già enunciate, dovendosi ritenere che il Legislatore costituente,con l’art. 29 comma 1o Cost., anche avuto riguardo all’art. 2 e tenuto contodel successivo art. 31, ha adottato un modello tipico di famiglia — societànaturale fondata sul matrimonio — che costituisce il punto nodale della di-sciplina costituzionale della famiglia rispetto alla quale, ove dovessero essereacquisite su un piano legislativo ordinario diverse modalità di aggregazionifamiliari, dovrebbe previamente incidersi sulla scelta costituzionale.

La prospettiva di interpretazione, per così dire, storico evolutiva, dell’art.29 della Costituzione, sostanzialmente si colloca in una metodologia per laquale, anche rispetto ai principi costituzionali, pur in un sistema di costitu-zione rigida, l’emergere di interessi sociali rilevanti dovrebbe comportarel’adattamento dei principi costituzionali attraverso la interpretazione giuri-sprudenziale, la quale acquisirebbe un ruolo prevalente anche rispetto alla le-gislazione ordinaria: questa ultima, peraltro, ove dovesse determinare l’intro-duzione di istituti o categorie incompatibili col dato costituzionale, nella suatipica formulazione, non sarebbe sottoponibile al giudizio di legittimità costi-tuzionale, che risulterebbe precluso dalla esigenza di garantire i nuovi interes-si emergenti.

Si tratta di una prospettiva che, oltre che per le ragioni già esposte, nonsembra condivisibile anche per valutazioni di diversa natura.

Innanzitutto, le qualificazioni giuridiche operate dall’ordinamento, se è

(16) Scalisi, La famiglia e le famiglie, in Categorie e istituti del diritto civile, Milano.2005, p. 217.

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vero che recepiscono le istanze esistenti in un determinato momento storico, siproiettano anche — e direi soprattutto — per il futuro (17). Altrimenti ragio-nando, nessuna legge avrebbe la capacità di sopravvivere all’evolversi deltempo e dei rapporti sociali. Il modello categoriale recepito dalla Costituzionenon può non proiettarsi per il futuro, delineando un binario lungo il quale de-ve muoversi il legislatore ordinario.

In secondo luogo, se si accettasse l’orientamento metodologico accennato,volto a far prevalere, nella interpretazione della norma, la situazione fattualerispetto alla categoria enucleata dal legislatore, si finirebbe per svuotare di si-gnificato la norma stessa, il che non è consentito soprattutto per quanto ri-guarda le norme costituzionali.

Discorso diverso vale, chiaramente, per le ipotesi di categorie di ordinegenerale o clausole generali contenute nelle articolazioni della legge ordinaria,le quali rappresentano tecniche legislative utilizzate dall’ordinamento proprioallo scopo di evitare l’invecchiamento della norma, tanto da permettere all’in-terprete di relativizzarle al dato storico in cui si trova ad operare.

Nel caso dell’art. 29 Cost. il valore società naturale fondata sul matrimo-nio non è però venuto meno. Le altre convivenze parafamialiari si affiancanoa quel valore, ma non lo pongono nel nulla. Non si tratta di stabilire, allora,se l’art. 29 Cost., e la scelta ivi operata dal legislatore costituzionale, sianoancora oggi validi, ma occorre verificare come il legislatore ordinario debbacomportarsi nell’ambito di una scelta categoriale di valori operata a livellocostituzionale.

Sembra opportuno, peraltro, precisare che il riferimento alla società na-turale contenuto nell’art. 29 Cost. non deve essere colto come richiamo aiprincipi di diritto naturale o a valori di ordine religioso, ma deve essere inte-so, nel quadro dei rapporti intersoggettivi, come richiamo alla tradizione eti-ca, sociale e culturale del mondo occidentale: secondo tale tradizione, si poneun vincolo inscindibile tra atto e rapporto, nel senso che il rapporto — com-plesso di diritti e doveri che unitariamente considerati costituiscono la fami-glia — trova nel matrimonio — e soltanto nel matrimonio — il titolo di legit-timazione. Peraltro, utilizzandosi gli elementi che derivano dalla tradizionealla quale si richiama implicitamente l’art. 29 Cost., definendosi la famigliasocietà naturale, deriva che l’aggregazione deve essere necessariamente relati-va a persone di sesso diverso.

Autorevole dottrina ha però criticato, come si è in parte anticipato prece-dentemente, simili conclusioni, le quali conferirebbero prevalenza all’atto

(17) Si può ricordare, a tal proposito, una bella immagine di Calamandrei, che, al di làdell’espressione poetica, assume un significato importante come critica all’orientamento chepropugna il superamento del dato testuale della Costituzione. Secondo Calamandrei, la Co-stituzione si può paragonare ad una cattedrale con la cupola aperta, non già perché la co-struzione non è ancora terminata, ma perché è proiettata verso il futuro. La Costituzione haallora una funzione propulsiva verso il futuro e anticipatoria degli sviluppi successivi deirapporti intersoggettivi.

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piuttosto che al rapporto, che da quell’atto promana. Si tratta — come si ègià rilevato — di una proposta tendente a svalutare il titolo legittimante laconvivenza per affermare la prevalenza (del contenuto) del rapporto, attri-buendosi preminenza alla efficacia rispetto alla fattispecie. Se il rapporto pre-vale sull’atto, nell’ottica dell’orientamento in esame, nell’art. 29 Cost. si do-vrebbe, paradossalmente, rinvenire una diretta tutela delle convivenze nonfondate sul matrimonio (18).

Come si è già avuto modo di precisare, facendosi riferimento alla pecu-liarità propria del precetto costituzionale, l’interprestazione, di cui si sono ri-feriti i tratti essenziali, non è condivisibile: infatti, il Legislatore costituzio-nale ha operato una ben precisa scelta, identificando la famiglia in sensotecnico-giuridico nella società naturale fondata sulla esistenza dell’atto —matrimonio — individuato, come pure si è già precisato, come unico titololegittimante l’acquisizione all’interno dell’Ordinamento costituzionale del va-lore famiglia.

Secondo la prospettiva ermeneutica del sistema costituzioanale che qui siintende proporre, se, da un lato, non è consentito individuare modelli di fami-glia alternativi a quello definito dall’art. 29 comma 1o Cost., da altro lato,non sembra che debba trarsi la conclusione secondo cui al legislatore ordina-rio, ovvero all’interprete in sede di ricostruzione del sistema, sia precluso indi-viduare e definire modalità di disciplina giuridica diretta a dare tutela a spe-cifici interessi di soggetti che, in ragione di determinati rapporti interpersona-li, appaiano meritevoli di considerazione.

Invero, le convivenze di tipo parafamiliare, secondo la indicata prospetti-va, possono trovare disciplina nell’ambito dell’art. 2 Cost. (19): a questa di-sposizione può, in ipotesi, riferirsi il legislatore ordinario per emanare, even-

(18) Cfr. Lipari, op. cit., p. 778, il quale osserva che vi sarebbe una difficoltà che di so-lito i giuristi incontrano, allorché debba individuarsi il rapporto tra fatto e diritto e pervie-ne ala conclusione secondo cui « quando i soggetti strutturano il loro rapporto con qualcheelemento in meno rispetto alla fattispecie legale tipica, ovvero, pur concorrendo tutti gli ele-menti idonei a produrre un determinato effetto, convengono di sottrarre il loro rapporto al-la dimensione propria dell’ordinamento, ciò non è sufficiente ad escludere l’efficacia giuri-dica ogni qual volta si manifesta l’esigenza di garantire posizioni che risulterebbero altri-menti scoperte o di sanzionare abusi nella corrente gestione del rapporto ». L’obiezione, chesembra possa essere ribadita a codesta impostazione metodologica, è nel senso che attraver-so di essa, come già si è rilevato, si ipotizza la modificazione delle scelte costituzionali attra-verso comportamenti di fatto che dovrebbero determinare la individuazione di contenuti di-versi di quelle scelte: situazione questa che non pare condivisibile anche in considerazionedel già rilevato carattere rigido della vigente costituzione.

(19) Fra gli altri v. Barile, La famiglia di fatto: osservazioni di un costituzionalista, inAtti del Convegno di Pontremoli-Montereggio, 1976, p. 45 ss.; Bessone-Ferrando, Regimidalla filiazione, parentela naturale e famiglia di fatto, in D. fam., 1979, p. 1318 ss.; Fur-giuele, Libertà e famiglia, 1979, p. 282 ss.; Rescigno, La comunità familiare come forma-zione sociale, in Quaderni del CSM, Roma 1980, p. 23 ss. In generale sul tema cfr. Perlin-gieri, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli 1972, p. 150 ss. V. ancheinfra, par. 5.

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tualmente, una normativa che, avuto riguardo a determinati rapporti di con-vivenza, identifichi interessi meritevoli di tutela.

Il sistema delineato nella Costituzione repubblicana — peraltro — sicompleta e si integra con l’art. 30, comma l, secondo il quale è dovere e dirit-to dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dalmatrimonio.

Non si tratta, in questa sede, di analizzare la pressoché totale equipara-zione fra filiazione legittima e filiazione naturale che la norma ha introdotto(20), quanto di evidenziare che dall’art. 30 Cost. emerge una prova ulterioreed una conferma che il sistema costituzionale configura la famiglia come ag-gregazione di persone di sesso diverso il cui fine, anche se non esclusivo, è laprocreazione. Peraltro, l’art. 31, comma 1o, Cost., inserito anch’esso nelleproblematiche specifiche della famiglia, stabilisce che la Repubblica agevolacon misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia el’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie nu-merose.

Da ciò deriva una ulteriore conferma alla considerazione della unicità delmodello familiare (21), inteso come società naturale fondata sul matrimoniofra persone di sesso diverso: avendo l’art. 31 Cost. identificato nella famigliala formazione sociale destinataria degli interventi dello Stato per consentire

(20) Per una recente sintesi vedi: C.M. Bianca, La filiazione: bilanci e prospettive atrent’anni dalla riforma del diritto di famiglia, in Trenta anni dalla riforma del diritto difamiglia, a cura di C. Frezza, Milano 2005, p. 91 ss., il quale evidenzia che « la Riformanon ha però equiparato i due stati, e i figli naturali versano ancora in una deteriore condi-zione giuridica, resa manifesta principalmente dalla negazione della parentela, dal divietodi riconoscimento sancito a carico dei figli incestuosi e dalla stessa assegnazione ad una ca-tegoria diversa rispetto a quella della filiazione legittima ».

(21) Sull’unicità del modello familiare fondato sul matrimonio sia permesso il richiamoa G. Giacobbe, Vecchie e nuove problematiche in tema di famiglia di fatto, in Iustitia, 1997,p. 257; Id., La famiglia dal codice civile alla legge di riforma, in Iustitia, 1999, p. 242 ss.;non divemente da A.C. Jemolo, La c.d. famiglia di fatto, in Raccolta di scritti di colleghidella facoltà giuridica di Roma e di allievi in onore di Rosario Nicoló, Milano 1982, p. 47.Vedi, ancora, in tale direzione, fra gli altri, L. Mengoni, La famiglia in una società com-plessa, in Iustitia, 1990, p. 4; Grassetti, Famiglia, in Dig. disc. priv. — sez. civ., Torino1990, p. 192 ss.; S. Puleo, voce Famiglia (disciplina privatistica: in genere), in Enc. giur.Treccani, Roma 1989, p. 1 ss.; Id., Concetto di famiglia e rilevanza della famiglia naturale,in questa Rivista, 1979, I, p. 381. Distinguono i modelli familiari sociali da quelli legali, fragli altri,A. Zoppini, Tentativo di inventario per il nuovo diritto di famiglia: il contratto diconvizenza, in I contratti di convivenza, a cura di E. Moscati-A. Zoppini, Torino 2002, p.26; P. Rescigno, Unicità o pluralità del concetto di famiglia. Tipi e modelli. Le comunionidi vita fuori dal matrimonio, in Matrimonio e famiglia, Cinquant’anni del diritto italiano,Torino 2000, p. 9 ss.; Cuocolo, voce Famiglia, Profili costituzionali, in Enc. giur. Treccani,Roma 1989, p. 2 ss.; F. Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapportifamiliare, Padova 1997, p. 494; P. Zatti, Familia, Familiae — Declinazione di un’idea. Laprivatizzazione del diritto di famiglia, in Familia, 2002, p. 9 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile,2, La famiglia, Le successioni, Milano 2001, p. 25 ss.; A. Spadafora, Rapporto di conviven-za more uxorio e autonomia privata, Milano 2001, p. 9 ss.

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l’adempimento dei doveri familiari — fondamentalmente l’educazione dellaprole — in un’organica visione dei rapporti familiari, la prole si pone comeelemento determinate, quanto meno in linea di tendenza, dell’aggregazionefamiliare riconosciuta e garantita dalla Costituzione.

Lungo le indicate linee si muove la giurisprudenza costituzionale e di le-gittimità.

La Corte costituzionale, infatti, sin dal 1980, ha posto in rilievo la nonriconducibilità nel quadro della disciplina costituzionale di rapporti di convi-venza non fondati sul matrimonio, anche nelle ipotesi in cui essa ha ricono-sciuto la titolarità di situazioni giuridiche soggettive, che tuttavia ha ricondot-to, in ordine al titolo, non alla convivenza bensì alla esigenza di garantire di-ritti fondamentali della personalità (22). Non contraddice, pertanto, con il ri-ferito indirizzo, la recente presa di posizione della stessa Corte costituzionalela quale, in funzione della attuazione dell’interesse del figlio minore, natofuori dal matrimonio, ha individuato un aspetto di tutela con riferimento al-l’assegnazione della casa nella quale la convivenza si attuava: anche in taleipotesi, infatti, la Corte non ha individuato il titolo di legittimazione nellaconvivenza, bensì nella diversa situazione riconducibile alla procreazione, se-condo il dettato dell’art. 30 comma 1o, Cost., nonché alla esigenza di tuteladel diritto inviolabile della persona umana alla abitazione, nel quadro delprincipio dettato dall’art. 2 Cost. (23)

(22) Cfr. C. Cost. 14 aprile 1980, n. 45, secondo cui « la denunciata violazione del prin-cipio di eguaglianza non sussiste perché la situazione del convivente more uxorio è netta-mente diversa da quella degli altri soggetti contemplati dalla legge, essendo la convivenzaun mero rapporto di fatto, priva del carattere della stabilità, suscettibile di venir meno inqualsiasi momento, e non discendendone i diritti e doveri reciproci nascenti dal matrimonioe che sono propri della famiglia legittima ». Più recentemente, la C. Cost. ha ribadito l’indi-cato indirizzo rilevando « la inapprezzabilità del rapporto di fatto poiché privo delle carat-teristiche di certezza e di stabilità, proprie della famiglia legittima » (C. Cost. 18 novembre1986, n. 237) e sottolineando la differenza « tra famiglia legittima e famiglia di fatto », da-ti i « precisi elementi formali e temporali presenti nel coniugio ed assenti nella libera convi-venza » (C. Cost. 29 gennaio 1998, n. 2); e ancora C. Cost. 13 maggio 1998, n. 166, cheafferma la « Impossibilità di disciplinare la convivenza di fatto con le stesse regole previsteper la famiglia legittima ».

(23) C. Cost. 25 maggio 2005, n. 394, la quale ha sottolineato la impossibilità di distin-guere, in relazione alla assegnazione della casa in funzione della tutela del figlio minore, traprole nata in costanza di matrimonio e prole nata fuori dal matrimonio. Infatti, secondo laCorte Costituzinale, vige il principio per il quale la condizione dei figli deve essere conside-rata come unica, a prescindere dalla qualificazione del loro status, e non può incontraredifferenziazioni legate alla circostanza della nascita: ciò perché il principio di responsabili-tà genitoriale di cui all’art. 30 Cost., rappresenta il fondamento di quell’insieme di regoleche costituiscono l’essenza del rapporto di filiazione e si sostanziano negli obblighi di man-tenimento, di istruzione e di educazione della prole, regole che debbono trovare uniformeapplicazione indipendentemente dalla natura giuridica o di fatto, del vincolo che lega i ge-nitori. Dall’affermazione del riportato principio, la Corte trae la conclusione, già affermatacon la sentenza n. 166 del 1998, secondo cui il matrimonio non costituisce più il punto didiscrimine nel rapporto fra genitori e figli — legittimi naturali riconosciuti — identico es-

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Per quanto riguarda la giurisprudenza della Corte di Cassazione, sembre-rebbe che si profilino degli orientamenti più aperti verso la attribuzione allaconvivenza non fondata sul matrimonio di effetti giuridici a vantaggio deiconviventi (24). Si tratta, tuttavia, di orientamenti che non sembra incidanosul principio fissato dall’art. 29 comma 1o Cost., ove si consideri, da un lato,che vengono posti rigorosi limiti di fatto, da altro lato, che si tratta di specifi-che situazioni aventi contenuto prettamente patrimoniale che non coinvolgo-no la qualificazione giuridica del modello di famiglia (25).

sendo il contenuto dei doveri, oltre che dei diritti, degli uni nei confronti degli altri. Dun-que, secondo la Corte Costituzionale, la tutela del figlio minore, ancorché nato fuori delmatrimonio, assume autonoma rilevanza in virtù del principio di responsabilità per la pro-creazione, di cui all’art. 30, comma 1o, Cost., ponendosi tale tutela su un piano diverso ri-spetto alla garanzia costituzionale della famiglia, intesa come società nettale che abbia ne-cessario inderogabile fondamento nell’atto di matrimonio.

(24) La considerazione della convivenza come situazione meritevole di tutela giuridicain relazione a determinati interessi di cui essa è portatrice ha determinato la Cassazione(Cass. pen., sez. IV, 5 gennaio 2006, n. 109) ad emettere una decisione in materia di con-dizioni per usufruire del gratuito patrocinio, statuendo che, in presenza di stabile e provataconvivenza, il reddito debba essere quantificato sommando i redditi dei conviventi, analo-gamente a quanto previsto per i coniugi.

(25) Cfr. Cass. 10 ottobre 2003, n. 15148 la quale, in tema di divorzio, ai fini della in-dividuazione dei criteri di ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite econiuge divorziato, ai sensi dell’art. 9, comma 3o della legge 1 dicembre 1970, n. 898, comesostituito dall’art. 13 della legge 6 marzo 1987, n. 74, ha precisato che alla convivenza mo-re uxorio tra coniuge superstite e coniuge deceduto deve essere riconosciuta, nell’ambito delcriterio legale della durata del rapporto (inteso come durata legale del rapporto matrimo-niale), anche alla luce dell’art. 2 Cost. e della giurisprudenza costituzionale, non soltanto,al pari di altri possibili e diversi criteri, una valenza correttiva dei risultati derivanti dal-l’applicazione del criterio temporale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, a con-dizione che la detta convivenza sia caratterizzata da un grado di stabilità, nonché da com-portamenti dei conviventi corrispondenti, in una effettiva comunione di vita, all’esercizio didiritti e doveri connotato da reciprocità e corrispettività (caratteristiche che devono essererigorosamente dimostrate dal coniuge superstite; Cass. 26 maggio 2004, n. 10102 secondocui in tema di c.d. famiglia di fatto, e nella ipotesi di cessazione della convivenza « moreuxorio », l’attribuzione giudiziale del diritto di (continuare ad) abitare nella casa familiareal convivente cui sono affidati i figli minorenni o che conviva con figli maggiorenni non an-cora economicamente autosufficienti per motivi indipendenti dalla loro volontà, è da rite-nersi possibile, per effetto della sentenza n. 166 del 1998 della Corte Costituzionale, che faleva sul principio di responsabilità genitoriale, immanente nell’ordinamento e ricavabiledall’interpretazione sistematica degli articoli 261 c.c. — che parifica doveri e diritti del ge-nitore nei confronti dei figli legittimi e di quelli naturali riconosciuti —; 147 e 148 — com-prendenti il dovere di apprestare un’idonea abitazione per la prole, secondo le proprie so-stanze e capacità — c.c. in correlazione all’art. 30 della Costituzione. Tale diritto è attribui-to dal giudice al coniuge (o al convivente), qualora ne sussistano i presupposti di legge, congiudizio di carattere discrezionale, non suscettibile di sindacato in sede di legittimità, se lo-gicamente ed adeguatamente motivato, tale da comprimere temporaneamente, fino al rag-giungimento della maggiore età o dell’indipendenza economica dei figli, il diritto di pro-prietà o di godimento di cui sia titolare o contitolare l’altro genitore, in vista dell’esclusivointeresse della prole alla conservazione, per quanto possibile, dell’habitat domestico anchedopo la separazione dei gentori. Ne consegue che è legittimo, se congruamente motivato, il

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Dalla analisi dei riferiti orientamenti giurisprudenziali, costituzionali edordinari, questi ultimi, forse, con una più accentuata apertura, emerge che sitratta di un indirizzo che sembra sottolineare come nel sistema costituzionalela scelta di un modello di convivenza familiare che abbia il suo fondamentonell’atto di matrimonio sia intangibile e non consenta quindi di far prevalerediversi modelli di aggregazione cosiddetta familiare che trovino fondamentonella specificità di rapporti posti in essere dalle parti.

4. — Una ulteriore evoluzione del sistema dei rapporti giuridico-socialicaratterizza l’attuale sistema del diritto privato, in generale, ed in parte, al-meno secondo taluni orientamenti, il diritto di famiglia.

Si tratta del processo di integrazione dell’Unione europea, il quale — na-to con riguardo alla uniforme regolazione delle situazioni giuridiche soggetti-ve patrimoniali — tende oggi, attraverso le fonti di produzione normativa co-munitarie, ad ampliare la propria sfera di azione verso la disciplina di situa-zioni esistenziali (26).

Da questo punto di vista occorre ribadire, come pure si è sostenuto indottrina, che sotto il profilo spaziale e territoriale, l’applicabilità del diritto difamiglia attiene ad una competenza esclusivamente intera (27). Peraltro, la

provvedimento del giudice di merito che, in relazione ad una ipotesi di cessazione dellaconvivenza « more uxorio », escluda — ritenendola incongrua rispetto al fine di garantire aifigli la continuità dell’habitat domestico — l’eventualità di ridurre l’abitazione ad una me-tà di quella sino ad allora goduta; e da ultimo Cass. 29 aprile 2005 n. 8976, in R. pers.fam., 2006 con nota di Cocuccio), secondo cui « Colui che chiede il risarcimento dei danniderivatigli quale vittima secondaria, della lesione materiale cagionata alla persona con cuiconvive, dalla condotta illecita del terzo deve dimostrare l’esistenza e la portata dell’equili-brio affettivo e patrimoniale con questa instaurato e dimostrare l’esistenza di una comunio-ne di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale tale da poter essere as-similata alla convivenza stabilita dal legislatore per i coniugi, presupposto per la sussisten-za del vulnus ingiusto ». V. anche Cass. pen. 5 gennaio 2006, n. 109, che ha equiparato laconvivenza coniugale alla convivenza more uxorio in relazione alla normativa sul gratuitopatrocinio nei procedimenti penali affermando che non vi è ragione per discostarsi da dettoorientamento, pur nella vigenza del testo unico n. 115/2002, sebbene non sia stata previstaalcuna differenza per i procedimenti penali rispetto a quelli civili ed amministrativi e puressendo stata testualmente indicata, ai fini che in questa sede rilevano la convivenza con ilconiuge.

(26) Sul progressivo ampliamento dell’azione comunitaria verso una regolamentazionedella famiglia cfr. Ruscello, La famiglia tra diritto interno e normativa comunitaria, in Fa-milia, 2001, p. 697 ss.

(27) Dottrina non uniforme. Per una posizione favorevole ad una apertura: M. Fortino,Verso una nuova « privatizzazione » della famiglia nella società globale?, in questa Rivista,2003, p. 167 ss.; G. Alpa-E. Bargelli, Premessa: i rimedi, in Trattato di diritto di famiglia,diretto da P. Zatti, I, 1, Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando-M. Fortino-F. Ru-scello, II, Separazione, divorzio, Milano 2002, p. 893 ss.; P. Zatti, Introduzione, in Trat-tato di diritto di famiglia, cit., p. 1; F. Ruscello, Dal patriarcato al rapporto omosessuale:dove va la famiglia?, cit., p. 516 ss., Id., La famiglia tra diritto interno e normativa comu-nitaria, in Familia, 2001, p. 697 ss.; Id., Rilevanza dei diritti della persona e « ordinamentocomunitario », Napoli 1993; P. Perlingieri, Diritto comunitario e legalità costituzionale.

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maggior parte delle legislazioni in materia di diritto di famiglia che promana-no dagli Stati membri, operano secondo criteri e direttive che non sono com-patibili con il sistema costituzionale precedentemente delineato, e ciò deponecontro i tentativi diretti alla armonizzazione delle legislazioni interne (28).

Peraltro, le indicazioni che provengono dagli organi comunitari, in temadi diritto di famiglia, non sono sempre unidirezionali. La Risoluzione del Par-lamento Europeo dell’8 febbraio 1994 (29), ad esempio, ha invitato gli Statimembri ad abolire le disposizioni di legge che criminalizzano o discriminano irapporti sessuali tra persone dello stesso sesso; ma una recente sentenza dellaCorte di Giustizia dell’Unione europea ha affermato che il temine « matrimo-nio », secondo la definizione comunemente accolta dagli Stati membri, desi-gna una unione tra due persone di sesso diverso (30).

La questione dei limiti di competenza della normazione dell’Unione euro-pea rispetto al diritto di famiglia è ben più problematica rispetto a quella, purprospettata in dottrina, delle competenze comunitarie riguardanti i dirittifondamentali. Invero, il collegamento che intercorre tra i diritti fondamentalidella persona e la proiezione economica sui rapporti mercantili — su cui ècompetente la Unione europea — è maggiore di quanto non sia il collegamen-to fra questi ultimi e le relazioni familiari.

Tuttavia non è senza significato che, proprio con riferimento al matrimo-nio come estrinsecazione di libertà della persona, l’Unione europea abbia am-pliato il novero dei diritti fondamentali affermando che « uomini e donne, inetà matrimoniale, hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secon-

Per un sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli 1992, passim; G. Ferrando, Il matri-monio, cit., p. 5 ss.

Una posizione critica si rinviene, invece, in S. Masucci, La famiglia, la successione ere-ditaria, in Trattato di diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, I, Il diritto privato euro-peo nel sistema delle fonti, I soggetti (prima parte), Padova 2003, p. 413 ss.; G. Frezza, Iluoghi della famiglia, Torino 2004, p. 3, nt. 4.

(28) I tentativi di armonizzazione del diritto di famiglia in ambito comunitario sono fi-nalizzati principalmente a rendere effettivo il principio di libera circolazione dei cittadini,principio che potrebbe trovare ostacoli nel mancato riconoscimento dei provvedimenti rela-tivi a divorzio, separazione, affidamento e diritto di visita. In questa ottica è stato emanatoil Reg. (CE) n. 2201/2003 (del 27 novembre 2003) relativo alla competenza, riconosci-mento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale;e il Reg. (CE) n. 261/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 febbraio 2004contenente i principi della Commission on European Family Law sul divorzio e il manteni-mento tra ex coniugi.

(29) In G.U.C.E., 28 febbraio 1994, n. 61, 40. Vedi i commenti di: P. Schlesinger, Unarisoluzione del Parlamento europeo sugli omosessuali, in Corr. giur., 1994, p. 393; M. Co-stanza, Adottare è un diritto di tutti?, in D. fam., 1994, p. 1078; S. Balletti, Le coppieomosessuali, le istituzioni comunitarie e la Costituzione italiana, in Rass. d. civ., 1996, p.241 ss.).

(30) Corte di Giustizia 31 maggio 2001 — cause riunite C-122/99 P e C-125/99 P —in R. not., 2002, p. 1263 ss., con ampia nota di E. Calò, La Corte di giustizia accerchiatadalle convivenze.

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do le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto » (31) e prospettan-do così un modello di famiglia fondata sul matrimonio e regolata dalle legginazionali dei Paesi membri (32). E non v’è dubbio che il diritto della personaa costituire una famiglia debba essere interpretato « nel nostro sistema allaluce ed entro il modello delineato dalla Costituzione, piuttosto che avanzarela contrapposta tesi di una rilettura “eversiva” dell’art. 29 Cost. alla luce del-l’art. 9 della Carta di Nizza » (33), non potendo prospettarsi una interpreta-zione diversa intesa ad alterare il significato tradizionale del matrimonio, cheè e rimane « l’istituzione » per eccellenza.

Se può, in ipotesi, accettarsi una estensione delle competenze dell’Unioneeuropea in materia di diritti della persona, più problematico — e meriterebbeulteriori approfondimenti — è il tema dei diritti attinenti alla famiglia e dellasua armonizzazione comunitaria (34).

(31) Art. 12, Diritto al matrimonio, della l. 15 dicembre 2005, n. 280, di ratifica ed ese-cuzione del Protocollo n. 14 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo edelle libertà fondamentali emendanti il sistema di controllo della Convenzione, fatto a Stra-sburgo il 13 maggio 2004; analoga formulazione ha l’art. 9 della Carta di Nizza.

(32) Per riferimenti alla regolamentazione della famiglia di fatto in altri Paesi europeicfr.: Asprea, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, Milano 2003, p. 143 ss.; Calò, Leconvivenze registrate in Europa, Milano 2000, passim; Balestra, Un recente convegno fran-cese sulle convivenze fuori dal matrimonio, in Familia, 2002, p. 439 ss.; Caricato, La leggetedesca sulle convivenze registrate, in Familia, 2002, p. 501 ss.; Ieva, I contratti di convi-venza. Dalle legge francese alle proposte italiane, cit., p. 37 ss.; Vitucci, Dal dì che nozze...Contratto e diritto della famiglia nel pacte civil de solidarité, in Familia, p. 713 ss.

(33) F.D. Busnelli, La famiglia e l’arcipelago familiare, in questa Rivista, 2002, p. 509 ss.(34) Si è assistito ad una progressiva espansione della competenza dell’Unione europea

in materia di tutela dei diritti fondamentali della persona dalla disciplina contenuta nella« Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamenta-li » (sottoscritta a Roma nel 1950 ed entrata in vigore nel 1953, recentemente modificatadal Protocollo n. 14, ratificato in Italia con la l. 15 dicembre 2005, n. 180), alla interpreta-zione della giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee e, infine, alTrattato di Maastricht ed al Trattato di Amsterdam. A partire dal 1969 (Cfr. Stauder, cau-sa 29/69, sentenza 12 novembre 1969) la Corte ha affermato che i diritti fondamentali,quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla Convenzionesulla salvaguardia dei diritti dell’uomo, fanno parte dei principi giuridici generali di cui es-sa garantisce l’osservanza. Più precisamente, la Corte si è riservata il compito di verificareil rispetto dei diritti fondamentali, nelle situazioni in cui rileva una disciplina comunitaria enon esclusivamente quella interna. La Giurisprudenza della Corte ha portato alla codifica-zione di questi principi nel Trattato di Maastricht: all’art. 6, paragrafo 1, si afferma chel’UE « si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle li-bertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli stati membri ».Successivamente, il Trattato di Amsterdam, attribuendo maggior rilievo ai profili lato sensusociali, ha accentuato il rilievo dei principi generali, segnatamente la tutela dei diritti fon-damentali e in genere le tematiche attinenti al trattamento e ai rapporti con i cittadini, con-ferendo formalmente alla Corte di Giustizia europea il potere di vigilare sul rispetto dei di-ritti e delle libertà fondamentali da parte delle Istituzioni europee nell’ambito delle politi-che comunitarie. La recente legge 15 dicembre 2005 n. 280, di ratifica ed esecuzione delProtocollo n. 14 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà

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Occorre poi considerare che autorevole dottrina ritiene necessaria una di-stinzione, nell’ambito della normativa costituzionale interna, tra principi cherappresentano il fondamento del sistema ordinamentale e principi che, puressendo di rango costituzionale, non attengono alle basi dell’ordinamento co-stituzionale italiano (35). Da questa distinzione deriverebbe la conseguenza se-condo cui, con riferimento ai primi, la normativa dell’Unione europea nonpotrebbe incidere, diversamente dai secondi, in ordine ai quali, non attenendola disciplina in essi contenuta a valori essenziali e fondamentali tipici dell’or-dinamento, sarebbe configurabile l’incidenza delle determinazioni normativeespresse in sede comunitaria.

Resta, in realtà, il problema di identificare il discrimen fra le due catego-rie di principi costituzionali che solo in prima approssimazione può essere in-dividuato in base alla distinzione fra principi costituzionali e principi di ordi-ne pubblico, distinzione che non appare del tutto persuasiva, dato il ristrettoambito di incidenza cui sarebbero circoscritte le fonti comunitarie. Una solu-zione più convincente è quella che riconosce all’UE un potere di interventoper la realizzazione delle finalità comunitarie — secondo i principi di sussi-diarietà e proporzionalità — nel rispetto del patrimonio culturale del Paesemembro: entro questi limiti può essere consentita, ed è anzi auspicata., l’ar-monizzazione delle legislazioni (36).

I principi costituzionali a tutela della famiglia dovrebbero, secondo la let-tura proposta, considerarsi parte essenziale di quel patrimonio socio-culturalesu cui è esclusa l’ingerenza comunitaria.

5. — Alla luce delle considerazioni sino ad ora addotte, ed in un contestonormativo variegato di fonti eterogenee, si inserisce la problematica relativa

fondamentali, già citata, ha rafforzato la posizione della Corte europea dei diritti dell’uomoimpegnando le parti contraenti a conformarsi alle sentenze definitive della Corte per le con-troversie di cui sono parte (art. 46).

(35) Sulle problematiche relative al valore delle norme costituzionali nel contesto euro-peo si vedano i saggi contenuti in A. Barbera, a cura di, Le basi filosofiche del costituziona-lismo, Roma-Bari 2005; P. Biavati, Il riconoscimento e il controllo delle decisioni europee inmateria familiare, in R. trim. d. proc. civ., p. 1241 ss.

(36) Il Protocollo sull’applicazione del principio di sussidiarietà e proporzionalità alle-gato al nuovo trattato di Amsterdam recita: Essa (la sussidiarietà) censente che l’azionedella Comunità, entro i limiti delle sue competenze, sia ampliata laddove le circostanze lorichiedono, e inversamente ristretta, e sospesa laddove essa non sia più giustificata (Proto-collo sull’applicazione del principio di sussidiarietà e proporzionalità, allegato al Trattatodi Amsterdam, par. 3). Il principio di sussidiarietà rappresenta, nel momento attuale del-l’integrazione europea, una questione centrale nel dibattito giuridico-istituzionale sul fun-zionamento della Comunità e sul suo avvenire. Consacrata per la prima volta come princi-pio generale di diritto comunitario nell’articolo 3, del Trattato di Maasricht, la sussidiarie-tà si configura, nell’architettura dell’Unione, quale criterio di allocuzione dei poteri tra idiversi livelli decisionali operanti nella Comunità europea: le istituzioni comunitarie, i pote-ri statali e, seppure in via marginale, i poteri locali: v. Delors J., Riconciliare l’ideale e lanecessità, in Il nuovo concerto europeo, Milano 1993, p. 297.

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alla opportunità di una disciplina giuridica delle convivenze e delle aggrega-zioni intersoggettive, qualificate da taluno come para-familiari. (37) Al ri-guardo, come già si è avuto modo di osservare, la rigidità del modello costitu-zionale, dalla quale deriva la non configurabilità nell’ordinamento di forma-zioni sociali alle quali attribuire la qualificazione di famiglia, non precludeche il legislatore ordinario possa prendere in considerazione situazioni di fattoe, in relazione ad esse, predisporre strumenti di tutela diretti a realizzare inte-ressi soggettivi e personali considerati meritevoli di qualificazione giuridica.

Ma ancor prima di analizzare il tema, occorre, innanzitutto, porsi il pro-blema della rilevanza dell’interesse sotteso e, risolto in senso positivo il quesi-to sulla base del principio di solidarietà costituzionale, della estensibilità ditale disciplina alle coppie omosessuali (38) e ad altre tipologie di convivenze asfondo non sessuale.

La soluzione al prospettato problema varia secondo la tipologia di inter-vento normativo ipotizzato. Infatti, deve ritenersi preclusa, tenuto conto diquanto già chiarito a proposito della interpretazione degli artt. 29, 30, 31Cost., — che presuppongono la eterosessualità (39) — la legittimità costuizio-nale di un intervento legislativo che sia diretto, per le coppie omosessuali, adindividuare un modello di famiglia che presenti analogie con quello fondatosul matrimonio, non consentendo l’attuale quadro normativo costituzionalealterazioni radicali introdotte da una legge ordinaria. Il legislatore ordinarionon potrebbe, ai sensi dell’art. 29 Cost., realizzare una categoria giuridicache, anche se non denominata famiglia, riprendesse tutti gli elementi propri

(37) In generale, sul tema: Andrini, La famiglia nella costituzione europea, in Familia,2004, p. 562 ss.; Balestra, La famiglia di fatto, Padova 2004; Bonini Baraldi, Le nuoveconvivenze tra discipline straniere e diritto interno, Milano 2005; Freni-Paturno, Dinami-che sociali ed esperienza giuridica nell’evoluzione del diritto di famiglia in Europa, in Fa-milia, 2004, p. 585; Palmeri, Il principio di non discriminazione, in Familia, 2004, p. 218;Petitti, I diritti nelle famiglie di fatto: attualità e futuro, in « Famiglia », 2003, p. 1021 ss.;Sesta, Diritto di famiglia, 2a ed., Padova 2005; Id., Verso nuove trasformazioni del dirittodi famiglia italiano?, in Familia, 2003, p. 137 ss.; Valvo, Sull’art. 141 Tratt. CE, in R.coop. g. int., 2004, p. 173 ss.; Zanetti-Sesta, La coppia di fatto tra morale e diritto. Opi-nioni a confronto, in Familia, 2004, p. 701 ss.

(38) La stabilità di queste relazioni, almeno con riferimento al nostro ordinamento giu-ridico, sembra discutibile; si argomenta che il legame omosessuale non è ancora oggi so-cialmente stabilizzato, anche con riferimento all’art. 2 Cost., F. Gazzoni, Manuale di dirittoprivato, Napoli 2003, p. 311. Aperture si rinvengo, invece, in F. Ruscello, Dal patriarcatoal rapporto omosessuale: dove va la famiglia?, in Rass. d. civ., 2002, p. 516 ss. Vedi, anco-ra, F. D’Agostino, Una filosofia della famiglia, Milano 2003, p. 149, secondo il quale leanalogie tra matrimonio e convivenze omosessuali sono fallaci, attenendo, il problema del-l’omosessualità, a questioni di fatto e non di diritto.

(39) La legalizzazione delle convivenza tra omosessuali attiene, peraltro, anche al profi-lo dell’ammissibilità della filiazione adottiva che deve essere negata perché creerebbe, indi-rettamente, un vincolo il quale, nei suoi contenuti, è identico a quello della famiglia fondatasul matrimonio, soprattutto quando tale vincolo sia prodromico alla legittimazione dell’isti-tuto dell’adozione.

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della famiglia in senso tecnico giuridico. Si realizzerebbe, in tale guisa, quellaipotesi che è stata definita in dottrina come legge in frode alla legge (costitu-zionale).

Nella diversa ipotesi in cui il legislatore ordinario dovesse individuare, ri-spetto ad aggregazioni intersoggettive tra omossessuali, l’emergere di interessidi natura patrimoniale suscettibili di essere regolati, nessuna preclusione sem-bra possa operare, sempre che le soluzioni legislative adottate si mantenganoentro i limiti del riconoscimento della esclusività del modello di famiglia defi-nito dall’art. 29 della Costituzione.

Problemi delicati involge anche la convivenza tra persone di sesso diver-so, le quali stabilmente realizzino un rapporto che potrebbe impropriamentedefinirsi parafamiliare: realtà comunitarie che si reputano simili a quella fon-data sul matrimonio, ma nelle quali l’assenza dell’atto costitutivo, in base al-l’art. 29 Cost., non consente la riconducibilità di una disciplina giuridica chedetermini la sussunzione del relativo rapporto nella categoria costituzionaledella famiglia legittima, assunta e qualificata dalla Costituzione esclusiva-mente nell’ambito di un diretto ed insostituibile collegamento fra l’atto ed ilrapporto. Mancando uno dei due termini del binomio, viene meno anche lapossibilità di una qualificazione giuridica.

La Corte Costituzionale (40), peraltro, pur riconoscendo ai conviventi latutela di determinati interessi — coincidenti con quelli, analoghi tutelati nellafamiglia legittima — ha ricondotto il principio nell’ambito della esistenza didoveri inderogabili di solidarietà sociale, con la conseguenza che, pur ricono-scendosi l’esigenza di tutela di determinati interessi, tuttavia, ha negato l’au-tomatica estensione delle norme sulla famiglia legittima alle relazioni parafa-miliari, ed ha ribadito, la diversità intrinseca, sotto il profilo della qualifica-zione giuridica di rilievo costituzionale, tra famiglia legittima e famiglia difatto dato che solo la prima possiede quei caratteri di stabilità, certezza, reci-procità e corrispettività dei diritti e dei doveri che fondano una serie di aspet-tative (41).

(40) La Corte costituzionale — come già rilevato — ha più volte affermato che la convi-venza more uxorio non rientra nella previsione di cui all’art. 29 Cost.: v. C. Cost. 14 aprile1980, n. 45, in F. it., 1980, I, c. 1565; C. Cost. 18 gennaio 1996 n. 8 in Fam. e d., 1996, p.108; C. Cost. 16 maggio 1998 n. 166, ivi, 1998, p. 205. Nel senso della esclusione della ri-levanza di altri modelli familiari diversi dalla famiglia legittima in dottrina v. G. Stella Ri-chter, Aspetti civilistici del concubinato, in R. trim. d. proc. civ., 1965, p. 1123; De Cupis,Il concubinato nel diritto privato, in F. pad., 1961, c. 75. Sulla stessa linea si pone anchel’interpretazione che consente il riconoscimento e la tutela di interessi dei singoli all’internodi una convivenza: v. Carbone, Casa in comodato vita natural durante, in Corr. giur.,1993, p. 947; F. Gigliotti, Rottura della convivenza more uxorio e affidamento del figliominore, in D. fam., 1995, p. 613. Per la giurisprudenza costituzionale v. C. Cost. 3 novem-bre 2000, n. 491, in G. cost., 2000, p. 6, che ha escluso l’assimilabilita della convivenzacon carattere di stabilità al vincolo matrimoniale, pur riconoscendo rilievo a singole posi-zioni soggettive.

(41) C. cost. 14 novembre 2000 n. 491 in G. cost., 2000, p. 6, cit. Per un inquadramen-

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Ciò — sebbene possa ritenersi che la libertà nel rapporto di convivenzamore uxorio rappresenti la sua essenza ontologica per cui l’intervento del legi-slatore in un simile materia trasformerebbe una realtà che si fonda sulla li-bertà in un vincolo giuridico (42) — non vuole affatto significare il diniego al-la rilevanza delle formazioni sociali parafamiliari, le quali trovano il loro am-bito di tutela nell’art. 2 Cost. (43).

Una prospettiva diversa, nel senso di una maggiore apertura in relazione alquesito iniziale circa la regolamentazione delle convivenze o di societates basa-te sulla solidarietà — anche non fondate su interessi di tipo sessuale — potreb-be pertanto profilarsi in relazione ai rapporti di natura patrimoniale (44).

Sulla scorta anche di esperienze d’oltreoceano (45) e di altri Paesi del-l’Unione europea (46), il ricorso all’autonomia privata in campo contrattuale(47) potrebbe consentire la tutela delle posizioni deboli — dal punto di vista

to sistematico delle pronunce della Corte costituzionale sul tema di cui si tratta, cfr. V.Zambrano, La famiglia non fondata sul matrimonio, in Autorino Stanzione, diretto da, Ildiritto di famiglia nella dottrina e giurisprudenza, cit., p. 223 ss.

(42) In tal senso E. Quadri, Problemi giuridici attuali della famiglia di fatto, in Fam. ed., 1999, p. 507, che valorizza l’autoregolamentazione come « esaltazione di quella libertà(li autoregolamentazione in cui finisce col riassumersi l’opzione per la convivenza fuori delmatrimonio ». Esclude il ricorso all’analogia con la disciplina del matrimonio F. D’Angeli,La tutala delle convivenze senza matrimonio, Torino 2001, p. 44 ss.

(43) Sull’inquadramento della famiglia di fatto fra le formazioni sociali ex art. 2 Cost.:Barile, La famiglia di fatto, in Scritti in onore di A. Falzea, II, 1, Milano 1991, p. 82;D’Angeli, La Famiglia di fatto, Milano 1998, p. 320 ss.; Falzea, Problemi attuali della fa-miglia di fatto, in Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli 1988, p. 163; Galloni,Dal concubinato alla famiglia di fatto, in Giust. civ., II, 1983, p. 143 ss.

(44) M. Messina-S. Sica, Famiglia non fondata sul matrimonio e autonomia negoziale,in Autorino Stanzione, a cura di, Il diritto di famiglia, Il matrimonio, I, XX, Torino 2005,p. 329 ss., avvertono che « un riconoscimento indiscusso dell’autonomia privata al fine diritenere giuridicamente ammissibili gli accordi stipulati all’interno della coppia di fatto, inquanto espressio le di una formazione sociale riconosciuta con favore dall’ordinamento, sa-rebbe errato almeno quanto procedere nella direzione opposta, ossia negando in radice ognipossibilità di patti giuridicamente vincolanti »: ivi, p. 334.

(45) La maggiore attenzione al fenomeno dei contratti di convivenza è stata dedicatadagli studiosi di common law. Per la dottrina nordamericana v. Weitzman, Legal Regula-tion of Marriage: Tradition and Change, in California Law Rev., 62, 1974, p. 1249 ss.;Glendon, State, Law and Family — Family Law in transition in the United States and We-stern Europa, Amsterdam 1977; Weitzmian-Lenou, The Marriage contract, spouses, loversand the law, New York 1981; Weyrauch-Katz, American Family Law in Transition,Washington 1983, p. 171 ss.; Bruch, Nonmarital Cohabitation in the Common Law Coun-tries: A Study in Judicial-Legislative Interaction, in Am. jour. comp. law, 1981, p. 221;Smith, Property Rights arising from Relationship of Couple Cohabiting without Marriage,in Am. law Rev., 3, 4th 13, p. 20.

(46) Cfr. per una panoramica sull’autonomia privata in campo familiare D. Henrich,La famiglia e il diritto di famiglia in trasformazione, in Fam. pers. succ., 2005, p. 536 ss.,il quale peraltro, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, che ha tra-sformato il concetto di famiglia, ritiene sia necessaria una modifica dell’art. 29 Cost.

(47) Nella dottrina italiana la posizione favorevole alla soluzione negoziale dei problemi

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economico sociale — che non altererebbe la struttura libera del rapporto dalpunto di vista personale, consentendo anzi di estenderne la portata oltre laconvivenza more uxorio in senso stretto (48).

Sulla base di tale impostazione il legislatore ordinario potrebbe interveni-re regolamentando taluni aspetti della convivenza (49), di natura patrimonia-le: una via da seguire, che non altera il sistema ordinamentale basato suiprincipi costituzionali, potrebbe essere la creazione di una categoria di con-tratti tipici di convivenza (50), via peraltro già tracciata da una parte della

legati alla famiglia di fatto è abbastanza condivisa e risalente, già dagli anni ’80: v. Galloni,Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano 1983, pp. 150 ss., 156 ss. Contra Trabucchi,Pas par cette voie s’il vous plait!, in questa Rivista, 1981, I, p. 349 ss.; Prosperi, A propositodi una recente monografia in tema di « famiglia di fatto », in Rass. d. civ., 1984, p. 203 ss.

Più recentemente cfr. ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rap-porti familiari, Padova 1997, p. 509 ss.; Aa.Vv., Matrimonio, Matrimonii, a cura di F. Bru-netta D’Usseaux-A. D’Angelo, Milano 2000; Aa.Vv., Famiglia e circolazione giuridica, acura di G. Fuccillo, Milano, 1997, pp. 68 ss., 79 ss.; M. Bernardini, La convivenza fuori delmatrimonio tra contratto e relazione sentimentale, Padova 1992, p. 204 ss.; Busnelli-San-tilli, La famiglia di fatto, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian-Oppo-Trabucchi, VI, Padova, p. 779 ss.; Dogliotti, voce Famiglia di fratto, in Dig. disc.priv. — sez. civ., VIII, Torino 1992, p. 195 s.; Ferrando, Convivere senza matrimonio: rap-porti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in Fam. e d., 1998, p. 183 ss.; Fran-ceschelli, voce Rapporto di fatto, in Dig. disc. priv. — sez. civ., XVI, Torino 1997, p. 283;Quadri, Rilevanza attuale della famiglia di fatto ed esigenze di autoregolamentazione, in D.fam., 1994, p. 301 ss.; Tommasini, La famiglia di fatto, in Bessone, (diretto da), Il diritto difamiglia, IV, Torino 1999, p. 499 ss.; Zatti, Familia, familiae — Declinazione di un’idea,in Familia, 2001, p. 9 s.

(48) Ci si riferisce a quelle formazioni sociali, anche non fondate su un rapporto di tipoconiugale, che potrebbero trovare una tutela giuridica su base contrattuale. Si veda Busnel-li, La famiglia e l’arcipelago familiare, in questa Rivista, 2002, cit., p. 510 ss.

(49) Il legislatore ordinario è più volte intervenuto per la tutela di specifici interessi ri:onducibili alla famiglia di fatto: si vedano, con riferimento al Codice civile, gli art.: 317-bis:se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, l’esercizio della potestà sul figlio natura-le riconosciuto spetta congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi; 342-ter: ilgiudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessa-zione della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge odei convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove accor-ra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante; 417: l’interdizione el’inabilitazione possono essere promosse dalle persone indicate negli artt. 414 e 415, dalconiuge, dalla persona stabilmente convivente. Con riferimento al Codice di procedura pe-nale l’art. 199, in relazione alla facoltà di astensione dalla testimonianza dei prossimi con-giunti che ha aggiunte alla lett. A), secondo cui chi, pur non essendo coniuge dell’imputato,come tale conviva o abbia convissuto con esso; con riferimento alla legge sulla Adozione,l’art. 6, l. 184/1983, che dopo aver affermato che l’adozione è consentita a coniugi uniti inmatrimonio da almeno tre anni, ha previsto che il requisito della stabilità del rapporto dicui al comma 1o può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in mo-da stabile e continuativo priva, del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui iltribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguar-do a tutte le circostanze del caso concreto.

(50) Sulla regolamentazione negoziale della convivenza: Bernardini, La convivenza fuoridal matrimonio tra contratto e relazione sentimentale, cit., p. 207; Franzoni, I contratti tra

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dottrina (51) che ha indicato il percorso dell’art. 1322 c.c., pur con il tempe-ramento della indagine sulla meritevolezza degli interessi, indagine che lacreazione di una categoria tipica di contratti escluderebbe, garantendo al con-tempo certezza del diritto e rispetto del principio di eguaglianza.

Più problematico appare l’intervento del legislatore su situazioni di natu-ra successoria, in relazione alle quali potrebbe essere introdotta una deroga aldivieto dei patti successori, a condizione che non venga lesa, tuttavia, la posi-zione dei legittimari. Tale limite non costituirebbe, invero, un intervento aprotezione della filiazione naturale, come pure taluno ha argomentato, perchéin virtù dell’art. 30 Cost. il rapporto procreativo prescinde dal vincolo matri-moniale (52).

Con riferimento al rapporto procreativo ed alla responsabilità genitorialeche ne deriva, il Legislatore costituzionale ha definito un sistema di tutelache, in funzione della esigenza prevalente di garantire i diritti fondamentalidella persona umana, prescinde dall’ambito del quale il rapporto procreativosi è realizzato, e quindi, dalla considerazione se la filiazione operi all’internodella famiglia legittima ovvero all’infuori di essa.

Si tratta di una scelta costituzionale che non costituisce deroga alla rigi-dità del modello di famiglia definito dall’art. 29 Cost., ma che al contrario,conferma quella scelta, nella misura in cui laddove il Costituente ha intesodefinire ambiti di tutela prescindendo dal titolo di legittimazione e valutando

conviventi « more uxorio », in R. trim. d. proc. civ., 1994., p. 749 ss.; Oberto, Contratti diconvivenza. Tra autonomia privata e modelli legislativi, in R. trim. d. proc. civ., 2004; Spa-dafora, Rapporti di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano 2001, p. 111 ss.;Del Prato, Patti di convivenza, in Familia, 2002, p. 979 ss.; Piccaluga, Famiglia di fatto econtratto: il pacte civil de solidarité, in Contratto e impr./Europ., 2002, p. 115; Tassinari,Funzioni e limiti dello strumento negoziale nella disciplina dei rapporti tra familiari di fat-to, in Aa.Vv., La famiglia di fatto ed i rapporti patrimoniali tra conviventi, Atti del XXXIIIConvegno nazionale del notariato (Napoli, 29 settembre-2 ottobre 1993), Stamperia nazio-nale, 1993.

(51) V. la nota che precede cui adde: Moscati, Zoppini, I contratti di convivenza, Torino2002; M. Messina-S. Sica, Famiglia non fondata sul matrimonio e autonomia negoziale,cit., p. 329 ss.

(52) Dall’art. 30, comma 1o, Cost., deriva in realtà il principio della responsabilità perla procreazione, il quale attribuisce qualificazione giuridica al fatto della generazione in séconsiderata, anche se non realizzatasi nell’ambito della famiglia intesa quale società natu-rale fondata sul maaimorio, secondo il modello esclusivo indicato nell’art. 29, comma 1o,Cost. Rispetto a tale modello familiare, l’art. 30, comma 1o, Cost. impone un vincolo giuri-dico inderogabile che si oggettivizza nella indicazione secondo cui dal fatto della procrea-zione consegue la fattispecie caratterizzata dal rapporto diritto-dovere che lega, in modo in-scindibile, colui che procrea a colui che è stato procreato: da ciò deriva, come conseguenzaimmediata, per il legislatore ordinario, l’impossibilità di recidere il vincolo giuridico che ilprecetto costituzionale in analisi ha determinato come effetto della procreazione. Su taleprincipio vedi, Pret. Roma, 9 maggio 1977, giudice Giacobbe, in F. it., 1977, I, p. 2567; inG. it., 1978, I, 2, p. 184, con nota di Dogliotti. Per una recente sintesi vedi G. Giacobbe,Responsabilità per la procreazione ed effetti del riconoscimento del figlio naturale, in Giust.civ., 2005, I, p. 730.

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il rapporto ha espressamente operato tale scelta, con ciò significandosi chenelle situazioni nelle quali, invece, il titolo di legittimazione è stato qualificatocome essenziale, tale qualificazione non può essere superata con valutazionidi ordine etico sociale.

Qualche perplessità deve manifestarsi, invece, per quanto riguarda l’ema-nazione di una specifica normativa sulla pensione di reversibilità e sugli asse-gni familiari, che rappresentano entrambi oneri, di natura economica, che loStato — e la collettività nel suo complesso — assume per la realizzazione diquelle finalità che, secondo l’art. 31 Cost., tendono a garantire, anche sul pianopatrimoniale, la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (53).

Se si volesse tracciare una sintesi delle considerazioni esposte in questepagine potrebbe conclusivamente affermarsi che le nuove frontiere del dirittodi famiglia non possono andare al di là del valore costituzionalmente garanti-to della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, mentre è pos-sibile realizzare, attraverso l’intervento del legislatore, aspetti di disciplinagiuridica che abbiano il loro fondamento in rapporti patrimoniali tipizzati dallegislatore utilizzandosi le categorie contrattuali, nell’ambito della disciplinadettata nel quarto libro del codice civile.

(53) Argomenti a favore della tesi qui sostenuta sembra possano trarsi dalla sentenzadella C. cost. 3 novembre 2000, n. 461 la quale ha puntualizzato che indipendentementeda ogni altra e diversa considerazione, gli attuali caratteri della convivenza more uxoriorendano non irragionevole la scelta operata dal legislatore in ambito previdenziale diescludere il convivente dal novero dei soggetti destinatari della pensione di reversibilità. Acodesta considerazione la Corte perviene osservando che diversamente dal rapporto coniu-gale, la convivenza more uxorio è fondata esclusivamente sulla affectio quotidiane libera-mente e in ogni istante revocabile di ciascuna delle parti e si caratterizza per l’inesistenzadi quei diritti e doveri reciproci, sia personali che patrimoniali, che nascono dal matrimo-nio.

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R E C E N S I O N I E S E G N A L A Z I O N I

Alessandro Palmieri, I contratti di accesso, Giuffrè, Milano, 2003, pp. 366.

Il lavoro si segnala per l’originalità del tema in ambito civilistico, proponendosi di esa-minare i contratti di accesso alle informazioni computerizzate, una delle figure che appar-tengono, a tutti gli effetti, a quello che viene definito « diritto dell’età digitale », le cui radi-ci affondano nella vera e propria rivoluzione informatica che caratterizza l’odierno contestosociale ed economico, investendo in pieno il dato giuridico. In questo rinnovato modo diconcepire il diritto, regole al pari di concetti ed istituti si coagulano attorno a parole-chiave,ormai acquisite anche al gergo dei giuristi quali « destatualizzazione », « deterritorializza-zione » e « dematerializzazione ». Proprio quest’ultimo aspetto, che evoca il mutamentoepocale in virtù del quale referenti della disciplina giuridica diventano sequenze di bit, as-sunte come risorse idonee a circolare secondo meccanismi di mercato, si pone alla base delrilievo acquisito dall’accesso, quale modalità di relazione tra i soggetti e le entità informati-ve digitalizzate, sicuramente alternativa a modelli tradizionali ancorati a (o comunque ri-flettenti) logiche proprietarie.

La ricerca si pone su questo crinale, fin qui solo parzialmente esplorato, con l’obiet-tivo di far luce su un fenomeno contrattuale la cui impronta distintiva risiede nella nego-ziazione di facoltà di accesso per via telematica ad entità intangibili, anche in vista del lo-ro possibile prelievo e reimpiego da parte di chi abbia avuto l’opportunità di accostarsene.L’indagine su tale figura muove dall’osservazione di alcuni tratti distintivi che si scorgonocon sempre maggior frequenza in un gruppo di operazioni invalse nella prassi del com-mercio elettronico, le quali peraltro vantano già un tentativo di tipizzazione normativanell’ambito del sistema di diritto uniforme statunitense, laddove figurano nello UniformComputer Information Transactions Act (in formula breve, UCITA), redatto ed approvatodopo una travagliata gestazione, quale costola dello statunitense Uniform Commercial Co-de, al precipuo fine di edificare una solida base normativa per gli scambi contrattualipropri della società dell’informazione. L’approccio al cennato modello e la disamina dellesue implicazioni rivelano l’intendimento dell’a. di valersi dell’ausilio di metodologie e pa-radigmi elaborati dalla comparazione giuridica, il cui apporto appare indispensabile perrisolvere problematiche connesse ad operazioni che presentano un’innata vocazione a vali-care i confini nazionali e si prestano, dunque, ad essere lette e comprese in un’ottica piùampia di quella puramente municipale. Per altro verso, non vengono trascurate le poten-zialità euristiche dell’analisi economica del diritto, che appaiono vieppiù preziose in uncampo nel quale gli operatori del diritto sono chiamati a non perdere di vista le valutazio-ni in termini di costi e benefici legati a ciascuna strategia. Monito che vale sia per quantiforgiano e saggiano dal punto di vista operativo gli strumenti contrattuali di nuova emer-sione, sia per i law-makers, cui compete la risposta istituzionale agli interrogativi che nontardano a profilarsi.

Il volume si apre con un capitolo volto a fissare le coordinate di fondo dell’indagine,grazie a una ricostruzione capillare dei singoli elementi che si combinano tra loro per darvita allo schema-base del contatto di accesso. La fotografia delle caratteristiche ‘somatiche’dell’accesso è funzionale a far risaltare, nel variegato mondo delle tecniche contrattuali ido-nee alla movimentazione di risorse informative computerizzate e delle prerogative su di esseconcepibili, un gruppo dotato di una precisa individualità. Il suo momento qualificante vie-ne individuato nella messa a disposizione della chance di ingerirsi, sfruttando la rapidità ela facilità di ‘navigazione’ nei canali telematici, in un sistema computerizzato altrui, nelquale sono custodite informazioni in veste digitale sotto il controllo del gestore di tale siste-

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ma. Attorno a questo nucleo stabile, si vanno ramificando, grazie all’aggiunta di specificielementi, diverse forme di accesso, che richiedono di organizzare la materia attraverso variesuddivisioni (su cui si sofferma l’a. nei paragrafi conclusivi).

L’esordio del successivo capitolo è occupato dalla discussione degli argomenti che in-ducono a riconoscere un ruolo autonomo, e non meramente descrittivo, alla nozione di ac-cesso. Dopo aver verificato l’intrinseca coerenza della categoria tracciata, l’a. assume cheessa rinvii ad un certo numero di problematiche con peculiarità riscontrabili in tutti rap-porti che vi afferiscono (rinviando per una verifica puntuale ai brani in cui sono analizzatela struttura e la funzione di ciascun elemento portante della relazione di accesso).

Segue un passaggio essenziale della ricerca, con l’esame delle traiettorie in cui può ar-ticolarsi la reazione degli ordinamenti alla diffusione e al possibile radicamento dei contrat-ti di accesso. La premessa è che il diritto dei contratti non può eludere un confronto con ilnuovo fenomeno, non foss’altro per venire incontro ad esigenze che provengono, e potreb-bero provenire, dalla prassi commerciale incline ad utilizzare scambi così congegnati anchea supporto di interessi di notevole consistenza economica e, dunque, promotrice una nor-mazione ‘spontanea’, suscettibile di essere perfezionata con il progressivo superamento del-la fase pionieristica.

Che poi tale compito sia di esclusiva pertinenza di ciascun legislatore all’interno del ri-spettivo sistema è, secondo l’a., cosa tutt’altro che scontata, dovendosi pur riconoscere l’uti-lità di un siffatto intervento, nella misura in cui esso contribuisca a diradare il pericolo in-combente di rivolgersi a modelli preesistenti, già rodati ma inappropriati a sciogliere i nodipiù intricati e ad assecondare un efficiente sviluppo della contrattazione imperniata sull’ac-cesso. Ciò presuppone, tuttavia, una regolamentazione equilibrata, che lasci congrui margi-ni all’autonomia delle parti, offrendo loro un modello fruibile, o per lo meno abbozzandonei lineamenti, senza però rinunciare a dettare disposizioni inderogabili, onde ovviare ai falli-menti del mercato, sempre in agguato allorquando si vada ad incidere sui delicati meccani-smi allocativi delle risorse informative. Punto di riferimento obbligato è, allo stato, il mo-dello delineato dagli artefici dello UCITA, del quale il lavoro illustra i risvolti applicativi,senza perdere di vista il dato che si tratta solo di uno dei possibili modelli orientati nell’in-dicata direzione. Il modesto appeal, per così dire, dell’esito di questo rilevante e soffertoprogetto costituisce una battuta d’arresto sul cammino verso il riconoscimento legislativo,ma non vale a segnare il tramonto definitivo delle istanze manifestate dagli esponenti del-l’industria dell’informazione e dalla platea dei teorici destinatari, professionali e non, deiservizi offerti.

Il secondo capitolo si chiude con una rassegna dei principali adattamenti richiesti alladisciplina, di matrice legale o negoziale, dei contratti di accesso, in ragione del loro allenta-mento da postulati inerenti alle tradizionali estrinsecazioni delle licenze concesse su mate-riali informativi, coperti o no da prerogative proprietarie. In particolare, quanto al contenu-to della prestazione, il venir meno di un supporto fisico su cui convogliare le informazionivanifica ogni velleità di ragionare in termini di consegna di una copia dell’informazione ecostringere a ripensare le stesse modalità descrittive delle operazioni necessarie ad assolveregli obblighi assunti. In quest’ottica l’impegno profuso nel rendere le informazioni disponibi-li al fruitore del servizio si arricchisce di una serie di sfumature, che vanno ad investire lafase propedeutica alla realizzazione dell’interesse all’accesso.

Nel terzo capitolo l’a. approfondisce alcuni aspetti inerenti a quella che appare l’epifa-nia dell’accesso dotata di maggior capacità di penetrazione commerciale, ossia quella va-riante che mira a garantire al fruitore del servizio le utilità rivenienti dall’aver a disposizio-ne un sistema in cui accedere senza soluzione di continuità, scegliendo tempi dell’attivazio-

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ne e durata del collegamento in funzione delle proprie esigenze. La tipologia in esame èquella dell’accesso continuo, i cui pregi possono sintetizzarsi nella maggiore flessibilità delrapporto e nell’esaltazione del valore creato dalla ricerca e dalla consultazione in temporeale di informazioni computerizzate della più varia natura. Per converso, l’incremento nelgrado di complessità del rapporto sfocia in una serie di potenziali conflitti, bisognosi di li-nee-guida per la loro risoluzione. Tra le varie criticità, vengono focalizzate quelle attinential mantenimento dell’accessibilità al sistema ed alla specificazione relativo livello di acces-sibilità. Particolare attenzione dedica l’a. ai momenti patologici del rapporto, imputabili alfornitore (quali le interruzioni non programmate nel flusso dell’accesso) ovvero al cliente(accesso improprio o uso indebito delle informazioni acquisite dal sistema), nonché ai rime-di attuabili. Sotto il profilo rimediale, rileva soprattutto la possibilità che il troncamentodell’accesso continuo, in chiave di reazione all’altrui violazione dei patti contrattuali, sia di-sposto dallo stesso fornitore, con un’efficacia esecutiva accresciuta per via dell’utilizzo dimezzi tecnici che a ciò ben si attagliano. Le ripercussioni di tale condotta vanno debita-mente soppesate, in quanto si tratta di coniugare l’esigenza del fornitore di mitigare le con-seguenze pregiudizievoli legate ad un’incontrollata diffusione di materiale informativo pro-tetto, nelle reti telematiche e altrove, con l’interesse del destinatario a non vedersi privatoex abrupto delle facoltà per cui aveva contrattato, situazione suscettibile di arrecargli unnocumento altrettanto grave. Sicché si segnala l’opportunità di delimitare con cura i pre-supposti che abilitano a provocare una discontinuità del servizio, assegnando alla contro-parte idonei mezzi di tutela contro l’abuso di tale facoltà.

Trattati i principali profili problematici dell’accesso, nell’ultimo capitolo l’indagine al-larga gli orizzonti, utilizzando la categoria come cartina di tornasole delle interazioni tramoduli contrattuali di commercializzazione delle informazioni computerizzate e gli assettiprecostituiti dal sistema dei diritti di proprietà intellettuale, che è chiamato dal canto pro-prio a rinnovarsi al cospetto dei cambiamenti indotti dalle tecnologie digitali. Gli scenariche si prefigurano e che, come testimonia la casistica d’oltreoceano, si sono già in parte ma-terializzati, non sono alieni da preoccupazioni per l’interprete avveduto. Muovendo dallaconstatazione che l’affermarsi di nuove tecniche di manipolazione dell’informazione liberaenergie finora inespresse nella contrattazione inerente ed entità immateriali, l’analisi dell’a.si snoda abilmente tra i possibili scompensi che un aumento del peso specifico attribuito alfattore contrattuale potrebbe creare negli equilibri faticosamente ricercati con il conferi-mento di diritti di natura proprietaria aventi ad oggetto facoltà operative, di controllo e diveto sull’uso di tali risorse.

L’allarme è reso manifesto dalla progettazione ed implementazione di dispositivi tec-nici in grado di monitorare i flussi informativi residenti nei sistemi resi accessibili, ancheove ne siano legittimamente fuoriusciti, e dalla possibilità che il regolamento negozialeestenda l’impiego di siffatte misure di protezione in settori non presidiati dalla proprietà in-tellettuale. Altro elemento di perturbazione viene individuato nel diffondersi di tecniche diformazione del contratto, con modalità idonee ad incrinare la genuinità del consenso in or-dine alla congruità dello scambio. Il messaggio, esplicitato senza mezzi termini dall’a., evi-denzia come in gioco siano non solo gli interessi dei contraenti (e nemmeno soltanto di al-cune classi di contraenti c.d. deboli nel gergo giuridico invalso), ma il destino stesso deicorretti incentivi alla produzione ed alla diffusione di un livello ottimale e qualitativamenteaccettabile di prodotti informativi. [Francesco Macario]

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Lorenza Bullo, Nomina et debita ereditaria ipso iure non dividuntur. Per una teoria dellacomunione ereditaria come comunione a mani riunite, Padova, Cedam, 2005, pp. 526.

Il capovolgimento del noto broccardo nomina et debita hereditaria ipso iure dividun-tur esprime la novità del lavoro, rappresentandone, in un certo qual modo, altresì lo « slo-gan ». La novità di prospettiva non si limita, però, solo all’enunciazione, come a prima vi-sta potrebbe apparire, poiché il capovolgimento costituisce, in realtà, l’angolo visuale privi-legiato per una ampia rilettura della natura giuridica della comunione ereditaria, alla lucedell’affermazione della non automatica divisione dei rapporti obbligatori, anche se divisibi-li, tra i coeredi: dal problema dell’individuazione dell’oggetto della comunione (e cioè del-l’inclusione o meno nella stessa dei rapporti obbligatori) il lavoro si apre verso la questionedell’individuazione del tipo di appartenenza al soggetto e quindi, in definitiva, si volge alproblema della natura giuridica da riconoscere alla comunione ereditaria.

Le tematiche con le quali l’a. si confronta sono quelle legate al problema del rapportotra oggetto e soggetto del diritto dall’un lato e delle forme di soggettività c.d. intermedie trapersona fisica e giuridica dall’altro, approdando all’idea della comunione ereditaria come co-munione sull’intero patrimonio, comprensivo in quanto tale di beni e diritti anche di tipo ob-bligatorio, e in formazione, e più precisamente come comunione a mani riunite di tipo ger-manico, caratterizzata da una imputazione collettiva (e dunque non individuale) dei diritti.

Il ripensamento circa la natura giuridica della comunione ereditaria, peraltro, vieneattentamente vagliato dall’a. anche alla luce della disciplina codicistica, tanto delle obbliga-zioni plurisoggettive quanto di istituti quali quello della separazione dei beni ereditari e delbeneficio di inventario, con i quali l’affermata autonomia patrimoniale della massa indivisapresenta interrelazioni, esaminate nel corso di una ricerca che si segnala oltre che per l’inu-suale rigore metodologico anche per l’ampia e documentatta analisi storico-comparatisticache, non tralasciando le antiche origini del problema, si focalizza sul confronto tra i dueprincipali e, in un certo senso, antitetici modelli continentali della comunione ereditaria: ilmodello germanico e quello francese.

Con riguardo al punto di partenza dell’indagine — la validità e attualità del broccar-do nomina et debita hereditaria ipso iure dividuntur — l’a. mette in rilievo come gli indicinormativi italiani siano sul punto scarsi e spesso ambigui, tant’è che nell’ambito sia delladottrina che si è occupata in modo specifico di successioni sia di quella che si è occupata ingenerale e in particolare di obbligazioni plurisoggettive già da tempo è rinvenibile la tesiche nega l’esistenza del sopra citato principio (si tratta, però, di posizioni al momento mi-noritarie, per lo meno a livello di assunto, come la dottrina ha dimostrato (Iudica, Impu-gnative contrattuali e pluralità di interessati, Padova 1973, p. 193 ss. il quale parla di« crisi irreversibile del principio »; Busnelli, L’obbligazione soggettivamente complessa.Profili sistematici, Milano 1974, p. 470 ss. e Id., voce Comunione ereditaria (diritto civile),p. 277 ss.; già Schlesinger, voce Successioni (diritto civile): parte generale, in Novissimo di-gesto, XVIII, Torino 1971, p. 762 ss., alla tradizionale obiezione per cui la non divisionedel debito risulterebbe troppo gravosa per il coerede, replica che allo stesso modo « non sicapisce perché debba accollarsi al creditore il rischio dell’insolvenza (specie se sopravvenu-ta) di un coerede quando si tratti eredità lucrosa »; negano valore al tradizionale principiodell’ipso iure dividuntur, seppure con riferimento ai soli crediti ereditari, anche Cariota-Ferrara, Le successioni per causa di morte. Parte generale, Napoli 1977, p. 603 ss.; P. Ca-rusi, Le divisioni, Torino 1978, p. 215 ss.; de Cesare-Gaeta, La comunione e la divisioneereditaria, in Successioni e donazioni, II, a cura di Rescigno, Padova 1994, 3 ss.; Barassi,Le successioni per causa di morte, Milano 1941, pp. 309 ss. e 314 ss.).

L’ambiguità trae origine dalle numerose antinomie che la ricerca dell’a. ben eviden-

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zia, in particolare nella prima parte, dedicata (nella prospettiva storico-comparativa), al-l’analisi delle vicende (più o meno fortunate) del summenzionato principio: vi emergonoantinomie storiche, antinomie di dati normativi ed anche di trattazione dottrinale e di in-terpretazione giurisprudenziale.

Nell’opera viene messo in rilievo come la dottrina di derivazione romanistica, fedele alprincipio dell’ipso iure dividuntur, si ponesse il problema della successione dei coeredi daun angolo visuale atomistico, e cioè essenzialmente come un problema di successione in unapluralità di singoli beni o rapporti ciascuno considerato isolatamente ed individualmente,quasi come una sorta di monade. Per i giuristi romani, infatti, perlomeno dopo la scompar-sa dell’arcaico istituto del consortium ercto non cito, la contitolarità degli eredi si risolvevain una contitolarità quotaria dei singoli elementi del patrimonio ereditario e non anche inuna contitolarità dello stesso nella sua interezza. In altri termini, la spettanza dell’intero ecomposito patrimonio ereditario ai coeredi veniva ricondotta a una contitolarità su ciascunelemento, con la conseguenza che in ordine ai diritti reali si riteneva sorgesse una comunio-ne per quote di appartenenza individuali su ogni singolo bene, mentre in ordine ai diversirapporti obbligatori, per i quali non era concepibile una comunione quale quella esistentesui diritti reali, si sarebbe dovuto distinguere tra obbligazioni divisibili e obbligazioni indi-visibili al fine dell’applicazione, rispettivamente, della disciplina della parziarietà o dellasolidarietà.

Si trattava di un modo di concepire la coeredità molto diverso — per non dire pratica-mente opposto — a quello che si sviluppò successivamente in Germania e che venne poi re-cepito dall’attuale codice civile tedesco. Nel sistema tedesco la contitolarità del patrimonioereditario si forma, invero, sul tutto (non sui singoli elementi di questo). L’oggetto del dirit-to di ciascun coerede, uti singulus, è la sola quota ideale del patrimonio, non anche unaquota sui singoli diritti già spettanti al de cuius: il BGB è infatti chiaro nel prevedere chementre della sua quota di eredità il coerede può, da solo, legittimamente disporre, salvo ildiritto di prelazione a favore dei coeredi (§ 2034 BGB), al medesimo non è invece consenti-to alcun atto di disposizione individuale né per l’intero né pro quota sui singoli beni o rap-porti che fanno parte dell’asse ereditario (§ 2033 BGB).

Tali diritti, fino al momento della divisione ereditaria, non sono dunque singolarmen-te oggetto di una facoltà di disposizione attuale ed individuale del coerede: il diritto di que-st’ultimo esiste perciò solo in potenza. Pertanto nel patrimonio personale del coerede fino almomento della divisione ereditaria — mentre non vi sono quote di spettanza individuale suisingoli beni e diritti di provenienza successoria, poiché tali diritti fanno parte nella lorounità del patrimonio ereditario indiviso — figura, invece, la quota di spettanza individualesull’eredità, intesa però come sola quota astratta del tutto e questo diritto (pro quota) sultutto, in quanto diritto sul patrimonio ereditario, non può logicamente far parte del patri-monio ereditario: esso appartiene, infatti, al patrimonio personale del coerede.

L’affermazione negativa secondo cui nomina et debita hereditaria « ipso iure » non di-viduntur, anche con riferimento ai crediti e ai debiti inseriti in un rapporto contrattuale si-nallagmatico che regge in una cornice unica le diverse prestazioni, se da una parte pone ilproblema della individuazione della disciplina applicabile ai crediti e debiti ereditari indivi-si — benché divisibili — fino al momento della divisione ereditaria contrattuale o giudizialeche sia, d’altra parte ed in via pregiudiziale apre la delicata questione di chi sia da conside-rare soggetto dei rapporti obbligatori ereditari indivisi.

Dopo aver negato soggettività giuridica alla comunione ereditaria in quanto tale, l’al-ternativa proposta dall’a. è tra il concepire i debiti e i crediti ereditari indivisi (a) come cre-diti e debiti imputabili agli eredi individualmente considerati ovvero (b) come crediti e de-

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biti imputabili agli eredi collettivamente considerati. Nel primo caso, è evidente, che i coe-redi sarebbero reputati titolari dei debiti e crediti in oggetto per quote di appartenenza in-dividuali; nel secondo caso, invece, tutti gli eredi sarebbero da considerare contitolari del-l’intero debito e credito indiviso già spettante al defunto, secondo un nuovo modo di esseretitolari che potremmo definire « collettivo ».

È proprio questa la tesi accolta e sviluppata dall’a.: crediti e debiti ereditari indivisivengono concepiti come crediti e debiti spettanti agli eredi in mano comune, secondo quellaparticolare forma di contitolarità di derivazione germanica che è la c.d. comunione a maniriunite comprensiva non solo di diritti reali ed altri diritti a questi assimilati, ma anche dicrediti e debiti, di rapporti obbligatori di scambio, di diritti potestativi quali ad esempioquelli collegati alle c.d. impugnative contrattuali, di situazioni giuridiche prodromiche —quali, per ricordarne solo alcune, la posizione di proponente, quella di oblato, quella di op-zionario ovvero di concedente l’opzione.

L’aver riconosciuto alla comunione ereditaria la natura di comunione a mani riuniteconsente all’a. a rendere conto anche di quelle particolarità — avvertite pure dalla dottrinatradizionale — che la situazione di comunione ereditaria presenta in punto di efficacia tra-slativa degli atti dispositivi compiuti pro quota dai singoli eredi ed aventi ad oggetto i sin-goli beni o meglio il diritto di proprietà su tali beni appartenenti all’asse ereditario indiviso,particolarità trattate nel capitolo terzo del lavoro.

La ricerca procede poi oltre. La forma di contitolarità a mani riunite riconosciuta esi-stente sul patrimonio ereditario indiviso, considerate anche le peculiari regole di ammini-strazione e disposizione ad essa collegate, conduce, in modo si direbbe speculare, al ricono-scimento di una netta distinzione tra il patrimonio ereditario indiviso in quanto tale, da unlato, e i rispettivi patrimoni personali e individuali degli eredi, dall’altro: l’uno di spettanzacollettiva di tutti gli eredi, gli altri invece di appartenenza individuale di ciascuno.

Una tale autonomia viene affermata dopo aver considerato distintamente le rispettiveposizioni dei creditori ereditari e di quelli personali degli eredi rispetto ai beni ereditari co-muni. Nel condurre tale indagine, proficuo si rivela il confronto con l’ordinamento francesein tema di responsabilità per i debiti ereditari e pluralità di eredi dopo la riforma del 1976in ordine al regime dell’indivisione. La caratteristica di questo sistema, invero, consiste pro-prio nel fatto che i creditori personali degli eredi, a differenza di quelli ereditari, fintantoche dura lo stato di comunione, non possono agire esecutivamente sui singoli beni ereditariindivisi, e ciò — si badi bene — nemmeno per la parte corrispondente alla quota ereditariadi spettanza del loro debitore (art. 815-17, al. 2 c. civil).

Riconosciuta alla comunione ereditaria la natura di un patrimonio distinto ed autono-mo rispetto ai patrimoni personali degli eredi — e ciò indipendentemente sia da ogni ipotesidi accettazione beneficiata dell’eredità, sia da ogni esercizio del diritto di separazione suibeni ereditari da parte dei creditori del defunto, come è ben sottolineato nel testo — l’a.,conseguentemente, propone di distinguere il significato normativo dell’articolo 754 c.c. aseconda che ci si trovi nella fase anteriore o successiva alla divisione ereditaria.

Più precisamente, fino al momento della divisione ereditaria, l’art. 754 c.c. avrebbe ilvalore di prevedere — in aggiunta alla responsabilità collettiva degli eredi con i beni eredi-tari comuni e riguardante l’intero debito ereditario — una responsabilità individuale deisingoli eredi con i loro beni personali. Quest’ultima forma di responsabilità sorgerebbe pereffetto di un vero e proprio obbligo di fonte legale, imposto appunto dall’art. 754 c.c., ob-bligo che si potrebbe definire di tipo quasi fideiussorio, data la sua funzione di garanzia. Laresponsabilità dell’erede con i propri beni personali è, tuttavia, da ritenere per legge (exart. 754 c.c.) limitata alla corrispondente quota ereditaria e non estesa all’intero debito, di

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modo che significativamente, in dottrina, si è, infatti, adoperata, a questo proposito,l’espressione di responsabilità personale e quotale dell’erede (in tal senso, Busnelli, L’ob-bligazione soggettivamente complessa, cit.).

Si prospetta, inoltre, come queste due forme di responsabilità debbano essere conside-rate sul medesimo piano, non essendo rinvenibile alcun beneficio d’ordine o di escussione afavore dei singoli eredi. Il creditore ereditario proprio grazie alla coesistenza — fino al mo-mento della divisione ereditaria — di una duplice responsabilità, quella cioè principale ditutti gli eredi, nel loro insieme, con i beni ereditari comuni e quella aggiuntiva, benché quo-tale, di ogni erede con i propri beni personali, verrebbe correlativamente ad avere a disposi-zione due tipi di azioni contro detti eredi: precisamente una diretta contro gli eredi in co-mune e l’altra contro i singoli eredi.

È stato, invero, osservato dalla dottrina che per prima ha proposto questa « rilettura »dell’art. 754 c.c. — rileva l’autrice — che, in una ricostruzione siffatta, nell’ipotesi di eredi-tà capiente, il creditore ereditario non dovrebbe più sopportare il rischio dell’insolvenzapersonale del coerede come accadrebbe, invece, se fosse vero che il debito ereditario si fra-ziona automaticamente ed immediatamente tra i coeredi. Aderendo, infatti, al nuovo mododi interpretare l’art. 754 c.c., nell’eventualità di insolvenza di uno dei coeredi, il creditoreereditario, al fine di conseguire quanto ancora dovutogli, potrebbe sempre agire contro tuttigli eredi in comune e quindi soddisfarsi eventualmente sui beni del patrimonio ereditarioindiviso, beni che continuerebbero pertanto a garantire in modo unitario ed integrale l’inte-ro debito del defunto e ciò — si osserva — quand’anche gli altri eredi solventi avessero giàadempiuto per la parte di debito di loro spettanza.

Per i debiti ereditari divisibili che sopravvivano allo scioglimento della comunione ere-ditari, invece, l’art. 754 c.c. appare chiaro nel senso di rendere applicabile il regime dellaparziarietà ai debiti ereditari divisibili che non vengano estinti, al più tardi, in sede di divi-sione ereditaria.

Ne consegue, dunque, — è la tesi conclusiva sviluppata dall’a. — che in un tale siste-ma, solo per effetto della divisione ereditaria i debiti divisibili del defunto cessano di appar-tenere ai coeredi in mano comune e mutano la loro natura in debiti parziari ai sensi dell’art.1314 c.c. Il valore dell’art. 754 c.c. appare così ancora più pregnante: la disposizione inquestione, infatti, viene vista come fonte del il principio per cui i debiti ereditari divisibiliche sopravvivano alla divisione ereditaria, rispetto al creditore ereditario, si dividono neces-sariamente in proporzione alle rispettive quote ereditarie (e ciò a prescindere da ogni diver-so accordo intercorso tra gli eredi in sede di divisione; un tale accordo non presenterebbe,cioè, efficacia rispetto al terzo creditore ereditario, salvo beninteso che quest’ultimo non viacconsentisse). Dall’indivisione della responsabilità l’a. trae argomento per la tesi che assu-me l’indivisione del debito: fino al momento della divisione ereditaria, non solo i crediti, co-me afferma la Cassazione, ma anche i debiti ereditari non si dividerebbero ipso iure tra glieredi.

Un’ulteriore conseguenza tratta dall’a. merita, infine, di essere qui ricordata, relativa-mente all’identità di disciplina applicabile ai crediti e ai debiti ereditari nella fase anterioreallo scioglimento della comunione ereditaria indipendentemente dalla natura divisibile omeno della prestazione che ne è oggetto. Una volta sostenuto, infatti, che i crediti ed i debitiereditari divisibili sono da ritenere sottratti al regime della parziarietà, almeno fino al mo-mento della divisione ereditaria, analogamente e parallelamente, l’opzione è per l’inappli-cabilità anche ai crediti e debiti indivisibili del de cuius, — sempre nella fase anteriore alladivisione ereditaria — del regime della solidarietà previsto in via generale dall’art. 1317c.c. per le obbligazioni plurisoggettive aventi ad oggetto prestazioni indivisibili, con una

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conseguente proposta di rilettura degli artt. 1318 e 1319 c.c. I debiti e i crediti ereditari,divisibili o indivisibili che siano, costituiscono dunque, un esempio di obbligazioni unichecon pluralità di soggetti. Ove poi il credito o il debito abbia ad oggetto una prestazione in-divisibile si sarebbe in presenza di un’obbligazione indivisibile con pluralità di soggetti adattuazione non solidale, poiché la disciplina di un tale rapporto obbligatorio sarebbe lastessa che vale anche per le obbligazioni ereditarie divisibili, ma indivise (disciplina di cuiviene dato specifico conto nei capitoli quinto e settimo). [Francesco Macario]

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Matteo Dellacasa, Sulle definizioni legislative nel diritto privato. Fra codice e nuove leggicivili, Torino, Giappichelli, 2004, p. 463.

Dopo circa un trentennio dalla monografia di Andrea Belvedere, Il problema delle de-finizioni nel codice civile, Milano, 1977, il dibattito sulle definizioni contenute nella leggecivile si arricchisce di un nuovo contributo. Come è noto, per gran parte del secolo scorso lacivilistica italiana ha guardato con scarso favore a questa categoria di disposizioni. Si rite-neva che, redigendo una definizione, il legislatore civile non si limitasse a determinare il si-gnificato dei vocaboli ricorrenti in un testo normativo, ma, più ambiziosamente, aspirasse asintetizzare in un solo enunciato il contenuto di un intero istituto. Secondo questa prospet-tiva, la definizione costituisce il prodotto di un’attività non già prescrittiva, bensì teorica especulativa, ancorché svolta — con un peccato di presunzione, si direbbe — dallo stesso le-gislatore. Nel formulare una definizione, che condensa in poche parole un istituto comples-so, non è pertanto né difficile, né inconsueto che il legislatore commetta errori, elidendo oviceversa enfatizzando alcuni aspetti della disciplina. Le definizioni contenute nella leggecivile sono, dunque, secondo l’a. strumenti scarsamente utili e potenzialmente fallaci; inogni caso, non vincolano l’interprete, in quanto non esprimono un precetto, ma un giudiziorelativo ad un dato istituto.

Come è noto, il dogma secondo cui le definizioni legislative non hanno carattere pre-cettivo è stato però assoggettato ad una serrata analisi critica a partire dalla seconda metàdegli anni Settanta (oltre al già citato contributo di Belvedere, può ricordarsi Tarello,L’interpretazione della legge, nel Trattato Cicu-Messineo, Milano 1980, spec. 157 ss.). Atale sorta di dogma, studiosi di indirizzo analitico hanno contrapposto una ricostruzioneassai più semplice e lineare della funzione svolta dalle definizioni legislative nel discorsonormativo. Per il tramite di una definizione, il legislatore civile non sintetizza il contenutodi un istituto, ma prescrive il significato di un termine ricorrente nel contesto di altrienunciati normativi. Le definizioni legislative esprimono, dunque, vere e proprie norme,che vincolano l’interpretazione delle disposizioni contenenti i termini definiti. Una voltaaccettato il postulato secondo cui l’interprete deve essere fedele alla legge, l’operazioneche consiste nel « ritagliare » all’interno del tessuto normativo enunciati non precettivi(nella specie, quelli definitori) risulta inevitabilmente arbitraria e, come tale, non può es-sere condivisa.

Sulla base di queste coordinate si sviluppa l’indagine condotta nel volume segnalato.Lo studio, tuttavia, non si limita a considerare il problema del valore precettivo delle defi-nizioni — e a risolverlo in senso positivo — ma si estende sino a valutare il ruolo attual-mente svolto da questa categoria di disposizioni alla luce dell’evoluzione del regime dellefonti determinata dalla normativa comunitaria. Se il dibattito, se non proprio la « polemi-ca », sulle definizioni legislative ha in passato assunto ad essenziale riferimento il codice ci-

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vile, uno dei meriti dell’a. è quello di dedicare particolare attenzione alla legislazione spe-ciale di derivazione europea.

Lo studio si articola così in tre fasi. In primo luogo, viene effettuata una ricognizionedei problemi di carattere teorico posti dalle definizioni legislative e dalle loro interazionicon le altre norme civili (capitoli I, II). L’a. rivisita in modo originale un itinerario già trac-ciato dalla giurisprudenza analitica, alla luce della quale viene offerta una panoramica sulledefinizioni contenute nella legislazione speciale più recente. L’approfondimento degli aspet-ti teorico-generali è contrappuntato dall’esame di specifiche questioni esegetiche aventi adoggetto le definizioni legislative e i loro rapporti con le altre norme civili.

Si osserva, fin dalle prime battute, che quello del carattere (non) vincolante delle defi-nizioni costituisce, ormai, un falso problema, sdrammatizzato dall’impatto della normativacomunitaria sul sistema del diritto privato e dal potenziamento dell’azione della Corte digiustizia. Nella giurisprudenza comunitaria, le definizioni assumono un valore in tutto e pertutto analogo a quello delle altre norme di legge: esse sono così numerose e rilevanti che lanegazione del loro carattere precettivo rischierebbe di travolgere gli equilibri su cui si reggel’ordinamento dell’Unione, rendendo assai problematica la sua coesistenza con i sistemi na-zionali. In sintesi, dalla funzione nomofilattica unanimemente riconosciuta alla Corte digiustizia deriverebbe, quale sorta di corollario, l’equiparazione delle sue « definizioni » allealtre norme di legge.

Le ipotesi formulate in questa prima fase dello studio vengono poi verificate analiz-zando le definizioni contenute in due atti normativi di rilevanza centrale nell’ambito del di-ritto privato armonizzato: la novella sui contratti del consumatore (artt. 1469 bis ss. c.c.,ormai assorbiti nel Codice del consumo) ed il d. legisl. 224/1988 concernente la responsa-bilità del produttore (capitoli III, IV). L’intento dell’a. è quello di coniugare la prospettivasintetica della prima fase con un approccio maggiormente analitico, che consenta di con-frontare gli spunti emersi in sede teorica con gli orientamenti interpretativi delineatisi indottrina e in giurisprudenza.

Terminate le due indagini di settore, lo studio torna a considerare temi di carattere ge-nerale. Chiude il volume, infatti, un capitolo in cui, grazie agli spunti emersi nelle pagineprecedenti, vengono formulate alcune ipotesi ricostruttive sul ruolo svolto dalle definizioninella legge civile e considerati i problemi esegetici che l’applicazione di tali disposizionicomporta (capitolo V). Le definizioni legislative vengono tradizionalmente considerate co-me un fattore di irrigidimento del dettato normativo; si teme, infatti, che per mezzo di esseil legislatore possa comprimere in misura eccessiva la discrezionalità dell’interprete.

L’attenta analisi svolta dall’a. induce a rivedere questo assunto. Nella legislazione spe-ciale più recente, si riscontrano definizioni dotate di caratteristiche eterogenee a secondadella funzione svolta. Sovente, le definizioni individuano le fattispecie cui si applicano le di-sposizioni di un atto normativo (si pensi all’esempio paradigmatico della definizione di« consumatore »): si tratta di disposizioni che, effettivamente, vengono formulate con unatecnica legislativa piuttosto analitica. Le definizioni che, invece, presuppongono stabilital’applicabilità del provvedimento che le contiene valorizzano la discrezionalità dell’inter-prete, in quanto contengono spesso concetti elastici o clausole generali; si ricorda, a titoloesemplificativo, la definizione di « clausola vessatoria » nella disciplina dei contratti delconsumatore e quella di « difetto » nel d. legisl. 224/1988 (art. 5). Il pregiudizio secondocui le definizioni comprometterebbero necessariamente l’elasticità del dato normativo ecomprimerebbero la discrezionalità interpretativa risulta dunque smentito dalla ricognizio-ne della legislazione speciale.

Del resto, la distinzione tra le definizioni che determinano la sfera applicativa di un

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atto normativo e quelle che invece la presuppongono sembra trovare un riscontro empiriconella giurisprudenza comunitaria. Si osserva che i giudici nazionali, avvalendosi della pro-cedura di rinvio pregiudiziale, sollecitano spesso la Corte di giustizia a determinare la por-tata applicativa di una disciplina di settore, interpretando le definizioni che identificano lefattispecie su cui essa è destinata ad incidere. Si fa notare che gli stessi giudici nazionali,peraltro, si astengono dal sollecitare la Corte di giustizia ad interpretare in via pregiudizialele definizioni che, stabilita l’applicabilità di un atto normativo di derivazione comunitariaad una data fattispecie, la disciplinano recando al loro interno concetti elastici o clausolegenerali. Esemplificando, mentre in più occasioni la Corte di giustizia è stata sollecitata adinterpretare la definizione di « consumatore » (e altre ad essa funzionalmente omogenee),invece le ordinanze di rinvio pregiudiziale emesse dai giudici nazionali non hanno ancoraavuto ad oggetto la definizione di « clausola vessatoria », che comprende al suo interno ledue clausole generali della « buona fede » e del « significativo squilibrio dei diritti e degliobblighi ». Allo stato attuale, dunque, l’egemonia della Corte di giustizia sulle definizionicontenute negli atti normativi comunitari appare all’a. piuttosto limitata: essa non tocca ledefinizioni che — stabilita la sfera degli interessi su cui un atto normativo è destinato adincidere — contribuiscono a regolamentarli recando al loro interno clausole generali.

Lo studio segnala una nitida corrispondenza tra la linea di tendenza empiricamenteosservata nella giurisprudenza comunitaria e un orientamento dottrinale delineatosi nelcontesto tedesco, secondo cui la procedura di rinvio pregiudiziale non potrebbe avere adoggetto l’interpretazione delle (disposizioni includenti) clausole generali. Si propone, inol-tre, una possibile chiave di lettura del self restraint dei giudici nazionali nel sollecitare l’in-terpretazione pregiudiziale della Corte di giustizia. In primo luogo, è possibile che tale at-teggiamento, spesso sommariamente stigmatizzato dalla dottrina, sia dovuto alla necessitàdi rispettare gli equilibri tra le istanze nazionali e quella comunitaria: il giudice statale do-manda alla Corte di Lussemburgo chiarimenti circa l’applicabilità di un atto normativo co-munitario, ma non accetta di buon grado il rischio di perdere il potere decisorio sulla con-troversia. Secondariamente, la tendenza a non coinvolgere il giudice comunitario è espres-sione dei limiti dell’integrazione giuridica europea. Come è noto, secondo una ricostruzioneaccreditata in dottrina, le clausole generali rinviano a valori che l’interprete è chiamato adindividuare per elaborare la regola di giudizio applicabile alla fattispecie concreta: la valu-tazione compiuta dal giudice in ottemperanza alla norma includente la clausola generale sitraduce, sul piano applicativo, nella formulazione della ratio decidendi. La ritrosia dei giu-dici nazionali nel sollevare questioni pregiudiziali aventi ad oggetto (definizioni che espri-mono) clausole generali è dunque sintomatica di una integrazione insufficiente sul pianoassiologico. L’integrazione tra organi giurisdizionali è forte quando si tratta di individuaregli « interessi » su cui un atto normativo comunitario è destinato ad incidere; debole o co-munque insufficiente sul piano dei « valori », i quali, ancorché richiamati dalla normativacomunitaria per il tramite delle clausole generali, vengono gestiti — se si passa l’espressione— esclusivamente dai giudici nazionali. È un dato quest’ultimo su cui converrebbe riflette-re ulteriormente, nell’inesausto dibattito sul ruolo applicativo delle clausole generali nel no-stro ordinamento.

Non sempre, inoltre, l’applicazione di una definizione contenuta nella legge civile è diesclusiva competenza degli organi giurisdizionali. Lo studio si diffonde ad analizzare il ruo-lo svolto dalle autorità amministrative indipendenti nell’interpretazione e nell’applicazionedelle definizioni legislative, con particolare riferimento al diritto bancario e a quello delmercato finanziario. In tali ambiti disciplinari, gli orientamenti interpretativi delle autoritàamministrative indipendenti assumono rilevanza decisiva, in quanto le stesse sono dotate di

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poteri sanzionatori e di competenze paragiurisdizionali. L’operatore economico che igno-rasse l’interpretazione di una definizione legislativa accreditata da un’autorità amministra-tiva indipendente rischierebbe di incorrere nelle sanzioni che essa è competente ad applica-re per la violazione delle disposizioni di cui la definizione determina la sfera applicativa. Unesempio particolarmente significativo per illustrare questa dinamica è offerto dalla defini-zione di « strumento finanziario » rinvenibile nel testo unico dell’intermediazione finanzia-ria (art. 1, comma 2o, d. legisl. 58/1998): tanto la dottrina di settore, quanto gli stessi ope-ratori economici fanno riferimento ai provvedimenti della Banca d’Italia e della Consob perindividuare quali fattispecie rientrano nella definizione e quali attività sono di conseguenzariservate alle imprese di investimento e alle banche (art. 18, d. legisl. 58/1998).

Il volume si conclude con una ricognizione dei problemi applicativi che le definizionilegislative pongono all’interprete. Coerentemente con la premessa, secondo cui le definizio-ni legislative non differiscono dalle altre norme di legge, l’a. considera esclusivamente lequestioni provocate dalla funzione svolta dalle definizioni nel discorso normativo ossiaquella di determinare il significato di termini e sintagmi. Vengono così affrontati due pro-blemi: la soluzione delle antinomie tra le definizioni e le disposizioni con esse eventualmen-te confliggenti e l’applicabilità delle definizioni ai fini dell’interpretazione di norme rinveni-bili in un diverso contesto disciplinare. Anche a questo proposito, lo studio si segnala perl’integrazione tra gli aspetti teorici e quelli applicativi, con un esame attento degli orienta-menti interpretativi più accreditati in giurisprudenza. [Francesco Macario]

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Marco Galli, Attività contrattuale della Pubblica Amministrazione e difetto di potere rap-presentativo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2003, p. 287.

Da tempo la disciplina dei contratti della p.a. è in evoluzione. All’estensione della di-sciplina di diritto comune attuata per via giurisprudenziale, non è rimasto estraneo il legi-slatore, ad esempio con la privatizzazione del pubblico impiego e la privatizzazione deglienti pubblici economici. Questo movimento, continuo e inarrestabile, risente secondo l’a.del superamento del concetto di autonomia privata e dell’accoglimento dell’autonomia ne-goziale, nel senso che mentre l’autonomia privata è intesa quale autonomia dei privati con-trapposta alla potestà pubblica, l’autonomia negoziale non distingue tra i soggetti che nefanno uso. Verrebbe data, in questo modo, attuazione al principio di uguaglianza delineatoall’art. 3 Cost. Il mero richiamo all’interesse pubblico non vale a giustificare una diversitàdi disciplina e quindi di trattamento del contraente. Il superamento della dicotomia tra in-teresse pubblico e interesse privato, da tempo segnalato dalla più attenta dottrina, si riscon-tra nei fatti cos’ come nell’operato dello stesso legislatore, sicché non costituisce più unacontraddizione discorrere di enti pubblici che utilizzano strumenti privati o di enti privatiche perseguono interessi pubblici.

Di questa linea di tendenza, tuttavia, non terrebbero adeguatamente conto, secondol’a., la dottrina e la giurisprudenza con riferimento alla disciplina della rappresentanza ne-gli enti, con la conseguenza che ai problemi nascenti dal difetto del potere rappresentativodel funzionario pubblico non sono state trovate soluzioni convincenti. Evidente è la rilevan-za pratica delle questioni, anche soltanto in considerazione della varietà di ipotesi connessealla mancanza di legittimazione: dall’assenza o dall’invalidità della nomina dell’agentepubblico, all’assenza o al vizio del procedimento amministrativo relativo alla deliberazionea contrattare, fino all’esercizio del potere di annullamento di un atto amministrativo in au-

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totutela spettante alla p.a. Le questioni possono diventare anche più spinose allorché il di-fetto attenga ad una procedura ad evidenza pubblica, la quale coinvolge una pluralità diinteressi e situazioni giuridiche soggettive.

La maggiore difficoltà si coglie nell’intrecciarsi del procedimento amministrativo, vol-to a formare la volontà dell’ente pubblico e a stanziare gli eventuali fondi occorrenti, con ilprocedimento di conclusione del contratto. Il dubbio di fondo riguarda, nella prospettivadell’a., la trasmissibilità dell’invalidità del procedimento amministrativo al contratto.Un’incertezza che peraltro è stata risolta fondamentalmente in senso positivo da giurispru-denza e dottrina dominanti. A fronte dell’uniformità del risultato, si segnalano le diverseargomentazioni, che l’a. ha cura di esaminare. Vi è chi afferma che il contratto è nullo, senon inesistente, perché mancherebbe l’accordo delle parti, non essendo riconducibile quellamanifestazione di volontà alla p.a.; oppure perché vi sarebbe una contrarietà alle norme(reputate imperative) che disciplinano l’azione degli enti pubblici. Entrambe le spiegazioninon convincono tuttavia l’a. in quanto un accordo comunque è rinvenibile; mentre più diun dubbio potrebbe sollevarsi sul carattere imperativo delle disposizioni, se si considera chetale qualificazione ha un senso quanto essa costituisca l’unica via perseguibile per raggiun-gere un determinato risultato, che nello specifico è però costituito dal buon andamento del-la p.a. ex art. 97 Cost., non è raggiungibile soltanto in via autoritativa, come confermanol’espropriazione per pubblico interesse realizzabile anche tramite cessione volontaria

Neanche appare all’a. condivisibile è la tesi che considera annullabile il contratto perincapacità dell’ente pubblico, posto che l’eventuale incapacità non potrebbe avere originein un vizio del procedimento amministrativo. Né ancora a risultati più soddisfacenti appro-derebbe la tesi secondo la quale il negozio sarebbe inefficace per carenza di legittimazionedel rappresentante ex art. 1398 c.c. o in virtù della presupposizione (volta a garantire larealizzazione dell’interesse pubblico). In tal senso, si osserva, da un lato che, in presenza dispecifiche disposizioni, la rappresentanza degli enti non si può considerare disciplinata dal-la normativa di carattere generale; dall’altro, che l’interesse pubblico non è un evento, mauna valutazione.

Nel tentativo di individuare soluzioni più convincenti, è allora opportuno, secondol’a., muovere dalle norme costituzionali, in particolare dagli artt. 2, 3, 28, 41 e 97, che de-lineano una pubblica amministrazione tesa non soltanto al raggiungimento di risultati utili,ma anche rispettosa nel modo di agire delle altrui posizioni giuridiche, come induce la re-cente giurisprudenza della Corte dei Conti sul c.d. danno all’immagine della p.a.

In questa prospettiva sembra trovare giustificazione la c.d. « managerializzazione »dell’impiego pubblico, intesa a separare l’attività politica da quella gestionale e ad aumen-tare l’autonomia e la responsabilità dei dirigenti pubblici (quali soggetti abilitati a stipularecontratti in nome e per conto dell’ente). In particolare, considerata la teoria dell’immedesi-mazione organica, quale elaborata dagli studiosi amministrativisti, e valutatone il fonda-mento (tutela dei terzi contro gli eventuali disconoscimenti da parte dell’ente dell’attivitàsvolta dai rappresentanti in suo nome) si può constatare l’identità di funzione rispetto al-l’istituto della rappresentanza negli enti. Posto che il rapporto organico si interrompe nelleipotesi di invalidità del procedimento amministrativo (ossia proprio nel momento nel qualedovrebbe porsi l’esigenza di garantire il terzo) e la recente normativa in tema di responsa-bilità amministrativa degli enti, che non ammette l’applicazione delle sanzioni penali allepersone giuridiche, conferma secondo l’a. la tesi della inutilità della teoria della immedesi-mazione organica.

Distinguendosi fra la disciplina della rappresentanza generale, delineata agli artt.1387 ss. c.c., e quella disposta per gli atti degli enti, siano esse associazioni o società (in

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particolare, con riferimento agli artt. 19, 23, comma 2o, 25, comma 2o, 2298, 2377, comma3o, 2383, comma 7o, 2384, comma 2o, 2384 bis e 2391, comma 3o c.c.) si ricava, da partedi dottrina e giurisprudenza, una normativa applicabile in via analogica ad ogni tipo di en-te. Troverebbe massima tutela l’affidamento riposto dal terzo di buona fede sulla validitàdella nomina, sulla regolarità della deliberazione e sul potere del rappresentante a vincolarel’ente per l’oggetto dedotto in contratto.

Una conferma della operatività del principio dell’affidamento negli enti pubblici siavrebbe, secondo l’a., anche dal diritto comunitario, con la responsabilità degli apparatigovernativi per il mancato recepimento di una direttiva comunitaria, e un ulteriore argo-mento sarebbe desumibile dall’istituto del funzionario di fatto (considerando validi gli attidi imperio compiuti dal funzionario pubblico, qualora la sua nomina sia risultata invalida).

Applicando le regole sulla rappresentanza negli enti privati può trovare attuazionel’istituto della rappresentanza apparente anche nei rapporti con la p.a. (mentre la giuris-prudenza la ammette soltanto per la negotiorum gestio) e discorrersi di validità del contrat-to concluso con abuso di potere da parte del funzionario pubblico. L’a. richiama poi l’at-tenzione sul futuro molto prossimo, costituito dalla stipulazione di contratti della p.a. tra-mite gli strumenti informatici, prendendo spunto dalla stessa disciplina legislativa, nellaquale è previsto che uno o più persone fisiche identificate e « registrate » concludano negoziper conto degli enti pubblici, senza che sia possibile far valere alcuna delle cause che dannoluogo all’assenza o al difetto del potere rappresentativo.

Infine, lo studio esamina i problemi dell’invalidità del procedimento amministrativonel contratto ad evidenza pubblica, in presenza cioè di più contraenti concorrenti. In questaipotesi, il mantenimento del contratto lederebbe non soltanto la posizione dell’ente pubbli-co, ma anche quella dei terzi concorrenti. Lungi dal poter essere risolto, in maniera somma-ria, con un’affermazione di principio che riconosce la superiorità del « principio di concor-renza », secondo l’a il problema impone un’analisi specifica del singolo caso ma, prima an-cora, un bilanciamento dei valori in gioco: il buon andamento della p.a., l’imparzialità nel-l’agire della medesima e la tutela dell’affidamento, tanto del concorrente pretermesso ingiu-stamente, quanto di quello risultato vincitore (bilanciamento che non può pertanto indurread affermare, in via assiomatica, la prevalenza della posizione del vincitore o dell’estromes-so, ma che richiede una valutazione caso per caso).

Per un’adeguata composizione degli interessi in conflitto, l’a. ritiene opportuno il ri-corso — con l’avvertenza che è necessario superare i limiti di oggetto ivi indicati — dell’art.14, d.l. 20 agosto 2002, n. 190, che prevede il decorso di un termine di trenta giorni entro iquali è possibile promuovere ricorso al giudice. Oltre questo periodo di tempo, non sonomodificabili i risultati della gara, ma il concorrente ingiustificatamente pretermesso può ot-tenere il risarcimento del danno. In questo senso sembra essersi orientata anche la giuris-prudenza comunitaria che, richiamando il principio della tutela dell’affidamento e il buonandamento della p.a., ha optato talvolta per la validità al contratto stipulato dalla p.a. inviolazione delle norme che tutelano la concorrenza. All’iter di conclusione del contratto didiritto privato sembra, infine, secondo l’a. che possa essere ricorrersi nei procedimenti delperiodo di tempo intercorrente tra l’aggiudicazione e la stipulazione per determinare (comenel caso dell’art. 14, d. legisl. 190/2002), il termine entro il quale è consentito ricorrere av-verso l’aggiudicazione e nello stesso intervallo di tempo l’ufficiale rogante avrebbe la possi-bilità di verificare la regolarità del procedimento amministrativo. [Francesco Macario]

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Francesco Gambino, Problemi del rinegoziare, Milano, Giuffrè, 2004, pp. 186.

Constatata l’affermazione di un recente indirizzo dottrinale, incline a sottrarre la ge-stione del rischio contrattuale alla (sola) disciplina generale delle sopravvenienze per radi-carla sul fondamento normativo forte dell’integrazione del contratto, l’a. analizza i proble-mi della rinegoziazione, quale effetto di un obbligo legale desumibile dal sistema, sullascorta del duplice sostegno offerto dal principio di equità integrativa e del canone dellabuona fede. Si tratta, com’è a tutti noto per la molteplicità degli studi ormai pubblicati inargomento, di un tentativo di ricostruzione teorica intesa ad enucleare un obbligo legale dirinegoziare nell’esecuzione di contratti a prestazioni corrispettive nei quali assume rilievo,in diversa forma, il fattore « tempo » (nel gergo dottrinale, ma anche legislativo: contrattidi durata ovvero a esecuzione periodica o differita).

L’esigenza di procedere ad un’analisi di questo tipo, alla quale sono stati dedicati con-tributi da diversi punti di vista e che l’a. richiama in modo puntuale e completo nel primocapitolo, è suscitata dal carattere inadeguato della risoluzione del contratto per eccessivaonerosità sopravvenuta che, per un verso, conduce prioritariamente alla caducazione deglieffetti contrattuali (art. 1467, comma 1o, c.c.) per l’altro, attribuisce alla sola parte nononerata, convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione, di ridurre equamente le condizio-ni contrattuali (art. 1467, comma 3o, c.c.). Peraltro, se si transita dalla disciplina generalea quella dei singoli contratti, si nota che in quei casi in cui i contraenti intendano servirsi dischemi che, per propria struttura, sono funzionali alla realizzazione di operazioni destinatea protrarsi nel tempo (più o meno lungo) e caratterizzate da investimenti difficilmente re-versibili, esigenze di ragionevolezza e di efficienza economica suggeriscono l’adozione, inluogo dello strumento « ablativo », di un mezzo « manutentivo », volto cioè alla conserva-zione degli effetti contrattuali (come già accade, soltanto a titolo esemplificativo, in materiadi appalto ex art. 1664 c.c. o in materia di affitto ex art. 1623 c.c.). Tale sarebbe l’obbligorinegoziativo di fonte legale, idoneo a schiudere la via ad una forma di revisione giudizialedel contratto, assistita, nel caso di inadempimento dal diritto di ottenere dal giudice unasentenza costitutivo-determinativa secondo la tutela offerta in via generale per i casi di ob-bligo di contrarre dall’art. 2932 c.c. (su cui l’a. si sofferma, esaminando le condizioni dicompatibilità fra obbligo e potere negoziale, nel terzo capitolo).

In assenza di clausole di adeguamento del contratto (tipicamente, in ordine al prezzoma anche agli aspetti quantitativi o qualitativi della merce o dei servizi in oggetto) ovverodi rinegoziazione (che troverebbe, come spesso accade nella prassi delle contrattazioni piùcomplesse, nell’espressa volontà delle parti la sua fonte), si darebbe così risposta al proble-ma del rischio contrattuale, neutralizzandone gli effetti nell’ottica di un principio di conser-vazione ricavato dalla disciplina delle fonti di integrazione del contratto.

Se però si tenta di costruire l’obbligo di rinegoziare di fonte legale indipendentementedalla disciplina dell’eccessiva onerosità ossia sulla base di fatti distinti da quelli configuratidall’art. 1467 c.c. ossia in considerazione di « sopravvenienze atipiche » — l’espressione siritrova in Sacco [e De Nova], Il contratto, Torino 2003, e tende a verificare se sia possibileoffrire anche alla parte onerata una tutela funzionale alla manutenzione del contratto,sganciandola dalla mera speranza che la controparte chieda la reductio ad aequitaem exart. 1467, comma 3o c.c. —, le questioni vengono che l’a. pone sin dall’inizio sul tappetoattengono alla « misura dell’integrazione » e implicano una riconsiderazione dei rapportifra autonomia e fonti di integrazione eteronoma: in quali limiti il giudice può concorrere al-la costruzione del programma negoziale? Sin dove si estende la « energia integrativa » dellanorma che chiama in causa l’equità (con il delicato problema dei rapporti e degli elementidi congiunzione con i doveri di buona fede esecutiva)? E in termini ancora più netti, sul

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punto che sembra cruciale nel lavoro: può, e sino a che punto, il potere di autonomia priva-ta (formalmente estraneo e dunque esterno al rapporto giuridico, la cui unica implicazionerisiede nell’essere il primo la fonte del secondo) essere oggetto di condizionamento eterono-mo, in forza delle norme sull’equità integrativa o sull’obbligo di correttezza e buona fede?L’interrogativo, posto in altri termini, è se l’obbligo legale rinegoziativo — per riprenderetestualmente uno dei quesiti posti dall’a. — « rappresenta una dilatazione del potere origi-nario di autonomia, che ha dato forma all’atto, ovvero una limitazione dell’autonomia pri-vata riguardata durante l’attuazione del rapporto ». È il problema della compatibilità travincolo e potere di autonomia, quale conseguenza della capacità estensiva — sempre nel-l’espressione dell’a. — delle norme sulla buona fede e correttezza.

La soluzione è raggiunta attraverso due percorsi interpretativi, riconducibili, l’uno, alprincipio di equità integrativa (art. 1374 c.c.), l’altro, al canone della buona fede, venendoquest’ultimo in rilievo sia nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) che in sede interpre-tativa (1366 c.c.).

Dominata in via generale dagli istituti della risoluzione e della riduzione ad equità, lamateria delle sopravvenienze si accrescerebbe, dunque, in tale prospettiva, dell’applicazio-ne, tramite soprattutto l’art. 1374 c.c., di strumenti equitativi ulteriori. Si tratti del soprav-venire di nuove esigenze e criteri di opportunità ovvero di un sostanziale sacrificio economi-co (tale comunque da non integrare i presupposti della risoluzione per eccessiva onerosità)o, ancora, di un problema di gestione del rapporto contrattuale, le parti sarebbero dunqueobbligate a svolgere nuove trattative nella prospettiva di rinegoziare i termini contrattualied adeguare il convenuto assetto di interessi al mutarsi dello stato di fatto (per circostanze,fatti, presupposti diversi da quelli previsti dall’art. 1467 c.c.). Anzi, sostiene l’a., l’obbligolegale rinegoziativo sarebbe dotato di un’efficacia preclusiva, volta a scongiurare l’emergeredi fatti rilevanti per la risoluzione per eccessiva onerosità.

Così impostata l’indagine, se, da un lato, il tema e, in particolare, l’ammissibilità del-l’obbligo di rinegoziare di fonte legale sembra fornire risposta adeguata al disagio diffusonella pratica degli affari per il rimedio risolutorio, dall’altro, esso suscita, sul piano dogma-tico, non pochi interrogativi, sommariamente già enunciati. Tra questi emerge in particola-re, nell’attenta analisi dell’a., quello cui sé fatto cenno delle condizioni e delle forme dicompatibilità, nel nostro ordinamento giuridico, tra esercizio del potere di autonomia e fe-nomeno dell’integrazione del contratto.

La ricostruzione, presentata al lettore con non comuni scrupolo argomentativo e rigoreteorico, fa capo così a un’alternativa che finisce per lambire, in un certo senso, i massimi si-stemi: o il potere (di darsi regole) è nozione astratta e, dunque, non si consuma, né tantomeno si esaurisce, quante volte viene esercitato, restando integro ed efficace anche nell’ese-cuzione del contratto o, in alternativa, il vincolo derivante dall’ integrazione rappresenta illuogo in cui la libertà delle parti — che si esprime nell’atto originario di autonomia — vie-ne a svolgersi ed inverarsi.

Nello sviluppo del discorso, che l’a. — va detto, si condividano o non gli esiti della ri-flessione — conduce sempre all’insegna del rispetto e dell’uso coerente dell’apparato con-cettuale generale del diritto civile (senza trascurare, peraltro, opportune esemplificazioniconcrete offerte dalla giurisprudenza, specialmente nel terzo capitolo che si apre con i « cri-teri di metodo » seguiti, in modo da scongiurare il rischio di eccessivo astrattismo), l’opzio-ne è sciolta in favore della prima soluzione, giacché il potere, costituendo la fonte e il titolodel rapporto giuridico, assume una posizione a questo esterna, così da porsi in una condi-zione, per così dire, di intangibilità. Ne consegue che le parti sono (e rimangono) libere dirinegoziare i termini contrattuali (traducendosi il rinegoziare in una forma originaria di au-

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tonomia, « come potrebbe determinarsi — riportando le parole dell’a. — in assenza di unprevio accordo tra le parti, un obbligo il cui contenuto consista nel “ripetere una liber-tà”? »). Soltanto nel caso in cui i contraenti decidessero di aprire nuove trattative, entre-rebbe in scena la regola di buona fede a presidio della corretta formazione del contratto. Illimite dell’affermazione del libero esercizio del potere di autonomia, ove questo sia svinco-lato da una funzione solutoria, sarebbe costituito così dalla necessità di impedire una formadi abuso del diritto, nel qual caso riprenderebbe vigore l’obbligo ossia l’esercizio dovuto delpotere (riducibile in virtù della funzione correttiva assolta dal principio di buona fede e av-vicinabile, in tal modo, alla figura giuridica della potestà).

La critica all’obbligo legale rinegoziativo si sviluppa così nel presupposto che tale ob-bligo — secondo l’a. — finirebbe per determinare una sorta di ritrattabilità unilaterale, mi-nando certezza e prevedibilità dei comportamenti delle parti, in favore di un’oggettivazionedell’interesse alla conservazione degli effetti del contratto, assistita da « una sorta di pater-nalismo giudiziale » (espressione dell’a.). In tale ottica, la formula linguistica della « forzadi legge » del contratto, di cui all’art. 1372 c.c., sarebbe destinata a perdere ogni sapore re-torico, per favorire soluzioni che realizzino l’autonomia privata attraverso « il principio di-spositivo », piuttosto che l’intervento giudiziale in chiave correttiva. Buona fede ed equitàintegrativa non potrebbero esigere dal contraente — in presenza di un evento perturbatoreo di fatti che ne anticipino l’accadere — l’obbligo di svolgere nuove trattative per ritornaresul contenuto del contratto; non avrebbero, in altri termini, la forza normativa per condi-zionare il potere di autonomia sino ad esigerne l’esercizio dovuto. Nel rinegoziare, peraltro,l’oggetto dell’iterazione si identifica in un facere dall’esito ignoto, un fenomeno in potenza,e, dunque, in una figura che, secondo l’a., è di incerta determinazione sul piano logico-giu-ridico.

I problemi del rinegoziare andrebbero perciò inquadrati in altra prospettiva, volgendol’attenzione propriamente allo specifico « atto » in cui l’esercizio di tale potere si risolve.Dall’esame di taluni casi giurisprudenziali, oltre che delle opinioni espresse in dottrina, l’a.ritiene così desumibili, in virtù del principio di buona fede, obblighi di porre in essere « at-ti » quali, ad esempio, la modifica del prezzo demandato alla libera scelta di una parte, lamodifica della prestazione, la sottoscrizione dell’atto di vendita con soggetto diverso dalpromittente acquirente per favorire il reperimento del prezzo, l’istanza di licenza edilizia inun termine congruo. Si tratterebbe di un’attività discrezionale, strumentale all’attuazionedel rapporto obbligatorio, che concorre, in diverso modo, a determinare il comportamentodovuto.

In tali ipotesi, tuttavia, la ragione dell’integrazione non si rinviene nello stato di fatto(o nel suo probabile mutarsi); questo esprime, insieme ad altri elementi, soltanto un indiceper la valutazione del comportamento della parte. Tra stato di fatto ed obblighi derivabilidalla struttura complessa del rapporto obbligatorio può esservi implicazione soltanto su unpiano empirico ed in via, per così dire, riflessa. E ciò varrebbe anche per quegli obblighi dibuona fede che assolvono, secondo la dottrina, alla c.d. funzione di limite-controllo.L’evento perturbatore non sarebbe riguardato qui, secondo l’a., quale sopravvenienza insenso tecnico, ma come elemento (non isolato) per apprezzare il comportamento del con-traente. Alle condizioni e nei limiti così enunciati, che nel lavoro trovano un articolato svi-luppo argomentativo, potrebbe essere coltivata una linea interpretativa intesa a conseguire(almeno in una certa misura) i risultati cui aspirerebbe la teoria dell’obbligo legale di rine-goziare. [Francesco Macario]

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Gianfrancesco Vecchio, La cessione del credito nella contrattazione d’impresa, Cassino,Edizioni dell’Università degli Studi di Cassino, 2003, pp. 206.

Il lavoro esamina l’istituto della cessione del credito in considerazione tanto della legi-slazione speciale (con specifico riferimento: alla disciplina sulla cessione dei crediti d’im-presa di cui alla l. 52/1991; agli artt. 58 e 90 T.U.B. l. 385/1993; nonché alla recente di-sciplina sulla cartolarizzazione dei crediti l. 130/1999), quanto di quella contrattazione ati-pica (con riferimento alla vicenda del factoring), che in modi diversi hanno contribuito adampliare l’ambito di operatività dell’istituto della parte generale delle obbligazioni, me-diante una serie di disposizioni, non di rado prima facie difficilmente conciliabili con la di-sciplina codicistica.

La ricerca, svolta attraverso una lettura concentrata in particolar modo sulle implica-zioni che la ricordata legislazione speciale potrebbe determinare sul tessuto normativo codi-cistico, si pone l’obiettivo di verificare se si possa ritenere avvenuta sia, comunque, in corsodi realizzazione, una reale moltiplicazione giuridica delle fattispecie dalle quali discende unmutamento soggettivo del titolare di una posizione creditoria, sino al punto che esse risulti-no solo descrittivamente riassumibili sotto l’espressione « cessione del credito ».

Per raggiungere questo obiettivo l’a. sviluppa dapprima una ricostruzione dello statu-to della cessione del credito, così come regolata dal codice civile, al fine di evidenziare comefosse già presente all’epoca della codificazione la consapevolezza dell’adattabilità dell’isti-tuto a costituire tanto una singola e completa vicenda giuridica quanto ad inserirsi all’inter-no di fattispecie negoziali più complesse, rispetto alle quali la cessione avrebbe potuto an-che perdere il carattere centrale, in ragione del perseguimento, da parte dei contraenti, difinalità economiche trascendenti il mero mutamento della titolarità della posizione credito-ria.

L’a. svolge poi un confronto tra le regole del codice civile e le principali novità intro-dotte dalla legislazione speciale, così come dalle tecniche di contrattazione, sottolineandocome la forza della realtà economica finisca per utilizzare lo schema della cessione del cre-dito, che rimane sempre un istituto fondamentale nell’operazione, senza però che in essotrovino piena risposta le ragioni che giustificano l’operazione posta in essere dai privati. Intal modo, l’a. ritiene di giungere alla conclusione secondo la quale le vicende concretamenteesaminate presentano, in alcuni casi (come nella vicenda di cui all’art. 58 T.U.B.) evidentilegami con la sostanza dell’istituto quale regolato nel codice civile, mentre in altri (adesempio nel factoring o nelle cartolarizzazioni) esprimono fenomenologie che rendono piùdifficoltoso il loro inquadramento quali forme di cessione del credito, ancorché arricchiteda altri elementi giuridici, evidenziando piuttosto strutture giuridiche di figure che si sgan-ciano dal modello codicistico.

Non è un caso che la ricerca dedichi particolare attenzione alla delicata fattispecie del-la cessione di crediti futuri, rispetto alla quale vengono esaminate criticamente le più recen-ti acquisizioni interpretative raggiunte da dottrina e giurisprudenza nel tentativo di eviden-ziare come, un approccio giurisprudenziale inopportunamente rigoristico e severo, possaaver contribuito a limitare l’effettiva applicabilità delle previsioni esistenti nonché, in certamisura, indotto il legislatore ad emanare normative, dichiaratamente più moderne e per-missive nel senso della circolazione dei diritti e dei crediti in particolare, di non sempre fa-cile coordinamento con il dato legislativo generale espresso dal codice civile e di cui, proba-bilmente, non vi sarebbe stata l’urgenza in presenza di letture interpretative maggiormenteconsapevoli delle evoluzioni della realtà economica e disposte a valutare l’incidenza dellenuove esigenze sul dato giuridico generale, indubbiamente rispondente a rapporti socio-economici diversi da quelli attuali. In tale contesto, va segnalato che l’esame della cessione

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dei crediti futuri è stata condotta anche nella prospettiva di un confronto con la differenteipotesi rappresentata dalla cessione dei flussi di cassa che, in effetti, sembra caratterizzarespesso le operazioni di cartolarizzazione. [Francesco Macario]

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Tommaso Maria Ubertazzi, Il diritto alla privacy. Natura e funzione giuridiche, Padova,Cedam, 2004, pp. 210.

Il punto di partenza del lavoro è in una ricostruzione storico-comparativa della disci-plina a tutela della privacy. Nell’analizzarne l’evoluzione della disciplina della privacy negliStati Uniti ed in Italia si constata che, mentre l’esperienza nord-americana ha visto esten-dere progressivamente il contenuto del diritto alla privacy come « control over personal in-formation », il nostro ordinamento ha dato invece rilievo a due figure (i diritti all’identitàpersonale ed all’oblio) prive di autonomia nell’esperienza statunitense. La ragione va anzi-tutto individuata nel diverso contesto socio-culturale italiano, che inizialmente non ha per-messo di metabolizzare la formula del controllo sui dati, proposta sul finire degli anni ses-santa per la prima volta da Westin e ripresa in Italia da Stefano Rodotà. In quest’ottica, l’a.evidenzia che negli Stati Uniti la ricordata formula del controllo sulle informazioni perso-nali veniva messa a punto al termine di un lungo periodo di profonde trasformazioni socia-li, mentre in Italia essa maturava in una realtà caratterizzata da un contesto sociale ben piùarretrato e da un bisogno di protezione profondamente diverso.

Un’ulteriore ragione della mancata ricezione della teoria del controllo va inoltre ricer-cata nella formazione del giurista continentale, che procedendo dallo schema ubi ius ibi re-medium tende (soprattutto in questa materia) ad effettuare una vera e propria « caccia aidiritti della personalità ». L’evoluzione per certi aspetti differente delle discipline italiana estatunitense non ha tuttavia minato la consapevolezza che oggigiorno occorre prendere attodella molteplice e crescente varietà di interessi che sempre più caratterizzano il mondo dellaprivacy. Si comprende allora, come si sia affermata sempre più la tendenza ad adottare, inquesta materia, una prospettiva multidimensionale.

Questa ricostruzione storico-comparativa induce l’a. ad analizzare la natura giuridicadel diritto alla riservatezza, che ormai da anni si trova al centro di un dibattito particolar-mente acceso. Procedendo dalla teoria generale dei diritti soggettivi, è noto che da più partiè stata ipotizzata l’assenza nella privacy di alcuni caratteri tipici dei diritti della personalitàteorizzati dalla dottrina tradizionale, quali la non patrimonialità, l’indisponibilità, l’intra-smissibilità. In questo quadro dottrina e giurisprudenza hanno elaborato diverse imposta-zioni, mediante le quali il diritto alla privacy è stato esaminato, di volta in volta, proceden-do da un’ottica monista, oppure dualista ovvero personal-patrimoniale. Non si è mancatodi analizzare i differenti atti di disposizione del ‘diritto alla privacy’ (e più in generale deidiritti della personalità) facendo ricorso alcune volte allo schema del consenso dell’aventediritto o dell’autorizzazione; altre volte allo schema del consenso contrattuale e dunque giu-ridicamente vincolante.

In materia di privacy (e più in generale di diritti della personalità) una certa dottrinaha inoltre rilevato che la figura del diritto soggettivo non sembra essere in grado di dareconto integralmente della natura della tutela complessa della persona, ma da questo angolodi osservazione altra impostazione ha condotto, in questa materia, al progressivo offusca-mento del diritto soggettivo. Le divergenze di opinione sulla natura giuridica del diritto allaprivacy hanno inciso sul problema della revocabilità del consenso che l’individuo abbia

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prestato al trattamento dei dati personali. In tal senso, l’a. evidenzia come in un panoramavariegato le numerosissime soluzioni proposte da dottrina e giurisprudenza possono essereper convenzione distinte in due differenti impostazioni. Una prima impostazione ha affron-tato il problema della revocabilità del consenso, ragionando secondo gli schemi tipici dei di-ritti della personalità e in questo senso ha osservato che il potere autodeterminativo del ti-tolare del diritto rimane estraneo agli specifici contesti dispositivi, sì che il consenso risultasempre revocabile. Una seconda impostazione ha invece stemperato il principio della revo-cabilità del consenso prestato facendo leva a questo fine su argomenti di volta in volta di-versi, e così in particolare sulla struttura dualista del diritto alla riservatezza, sulla valoriz-zazione del profilo patrimoniale, sul bilanciamento degli interessi, sulla reificazione dei datipersonali, sulla valorizzazione del consenso come atto di disposizione.

In questo quadro non univoco, rimane da comprendere, secondo l’a., se siano pratica-bili prospettive di analisi alternative a quella che procede dalla natura giuridica del dirittoalla privacy, in grado tra l’altro di affrontare il problema della revocabilità del consenso. Inquest’ottica, la ricerca muove da un inventario degli interessi in campo per individuare lafunzione assegnata dal legislatore alla disciplina della riservatezza, notando che la discipli-na italiana (e più in generale comunitaria) della privacy finisce per proteggere gli interessidel titolare dei dati personali, del titolare del database che li raccoglie e della collettività al-la loro circolazione. La tutela di questi tre diversi interessi conduce l’a. a utilizzare lo sche-ma già proposto da altra dottrina per lo studio della circolazione delle informazioni e delletecniche brevettate; e ad osservare come la disciplina della privacy adotti un modello di cir-colazione mercantile dei dati personali.

Seguendo la linea di questo ragionamento si scopre che la disciplina della privacyquale risultato del contemperamento di opposti interessi sembra incentivare la circolazionedei dati personali. Anzitutto la regola del consenso prevista dal codice della privacy ha in-fatti attribuito all’interessato il potere (non solo di vietare, ma anche) di autorizzare la cir-colazione delle informazioni relative alla propria persona e di ricavare qualsiasi utilità (an-che non economica) che il mercato sia disposto ad offrirgli. Il codice della privacy dovrebbeevitare all’interessato remore eccessive a consentire il trattamento dei propri dati, attri-buendogli un potere di accesso, di rettifica, di cancellazione e di opposizione dei dati circo-lanti per impedire che questi possano fornire una rappresentazione inesatta della sua perso-nalità. La disciplina della privacy tutela ancora i diritti di proprietà intellettuale sulle ban-che dati relative ad informazioni (anche) personali, coordinandosi così con una normativache tende a incentivare la circolazione dei dati (anche personali) presso la collettività. Il co-dice della privacy ha infine rimosso diversi tipi di ostacoli alla libertà di alcuni tipi di trat-tamento di dati personali a tutela degli interessi della collettività alla loro circolazione. Inquesto modo, rimangono spazi liberi, zone franche che non si prestano ad essere regolatesecondo il modello della circolazione negoziale e che consentirebbero di adottare la notatecnica delle libere utilizzazioni.

Individuata la funzione giuridica della disciplina della privacy nell’incentivo alla cir-colazione negoziale dei dati personali, l’a. ne evidenzia il contrasto con la tesi che sostienela revocabilità del consenso in caso di negoziazione del trattamento dei dati personali. Aben vedere infatti, il titolare della banca dati difficilmente spenderebbe risorse ed attività incaso di un consenso sempre revocabile, dato che lo scambio risulterebbe non stabile. Lapersona titolare dei dati non riuscirebbe agevolmente a ricavare dalla circolazione delleproprie informazioni qualche utilità (anche non economica), dato che difficilmente troveràun soggetto disposto ad investire sui suoi dati.

A sostegno della tesi dell’irrevocabilità del consenso militano, secondo l’a., ulteriori

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argomenti interpretativi. Ad esempio l’a. evidenzia che la tesi della revocabilità del consen-so è contraria ad un’interpretazione costituzionalmente conforme delle norme del codicedella privacy. Preso atto che la disciplina della privacy protegge gli interessi del titolare deidati, del titolare della banca dati e della collettività, lo studio evidenzia infatti come tali in-teressi ricevano pure protezione costituzionale: l’interesse della persona titolare dei dati dal-l’art. 2 Cost.; l’interesse del titolare della banca dati dall’art. 42 Cost.; l’interesse della col-lettività alla circolazione dei dati dagli artt. 21, 32, 33, 41 Cost. L’interpretazione secondola quale sarebbe permessa la revocabilità del consenso terrebbe tuttavia conto del solo inte-resse del titolare dei dati personali; non consentirebbe, secondo l’a., così un bilanciamentorispettoso di tutti gli interessi costituzionalmente protetti; con la conseguenza che potrebberivelarsi costituzionalmente illegittima e indurre l’interprete a preferire l’interpretazioneche propone l’irrevocabilità del consenso.

La tesi della revocabilità del consenso non riuscirebbe a coniugarsi con da un’inter-pretazione sistematica delle norme del codice della privacy. In considerazione della difficol-tà di applicare al diritto alla riservatezza i caratteri tipici dei diritti della personalità, l’a.osserva poi che, nel nostro ordinamento, vige il principio generale dell’autonomia privatache, pur subendo deroghe, dovrebbe determinare l’inammissibilità di applicazioni analogi-ca delle limitazioni del suddetto principio. In mancanza di una norma espressa che ne di-chiari l’indisponibilità, le situazioni giuridiche soggettive dovrebbero così essere consideratedisponibili. In quest’ottica, l’a. osserva che il codice della privacy non sembra prevederel’indisponibilità dei diritti dell’interessato sui propri dati personali (ed anzi in più luoghisembra presupporre implicitamente il contrario) in tal modo non legittimerebbe la revoca-bilità del consenso.

L’irrevocabilità non deve tuttavia, secondo l’a., essere considerata un’inaccettabile li-mitazione del potere autodeterminativo della persona, in primo luogo perché il titolare deidati personali è libero di commercializzarli grazie a una normativa attenta, tra l’altro, an-che a riequilibrare le asimmetrie nei rapporti di forza tra i contraenti. Inoltre, una voltaprestato il consenso, il titolare dei dati personali disporrebbe di numerosi e differenti rimedi(quali, l’accesso, l’opposizione, la cancellazione e la rettifica) intesi a garantire l’interesse anon vedere alterata la corretta rappresentazione della propria personalità (senza dire che,nel caso in cui non abbia già pattuito un recesso convenzionale, il titolare dei dati ha co-munque diritto di recedere nei casi previsti dalla legge) . [Francesco Macario]

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OSSERVATORIO SULLE RIFORME LEGISLATIVE ALL’ESTERO

Remo Caponi

Prof. Ord. dell’Università di Firenze

NOTE IN TEMA DI POTERI PROBATORIDELLE PARTI E DEL GIUDICE NEL PROCESSO

CIVILE TEDESCO DOPO LA RIFORMA DEL 2001 (*)

Sommario: 1. Premessa. — 2. Utilità dello studio del processo civile tedesco. — 3. Ragionidi efficienza della giustizia civile tedesca: amministrazione della giustizia, giudici ed av-vocati. — 4. Ragioni di efficienza che dipendono dalla disciplina processuale. — 5. Ele-menti di garanzia: formazione unitaria del giurista e ricorso diretto di costituzionalitàcontro i provvedimenti giurisdizionali. — 6. Ruolo attivo del giudice e modello del-l’udienza principale. — 7. Letteratura tedesca sul diritto delle prove: profili generali. —8. Crisi delle Maximen? (con un’osservazione sulla catastrofe dell’epoca nazionalsociali-sta). — 9. Onere della prova e libero convincimento del giudice. — 10. Disagio del nonliquet. — 11. Informazioni della parte non gravata dell’onere della prova. — 12. Valu-tazione della trattazione processuale. — 13. Onere di sostanziazione. — 14. Segue:aspetti meritevoli di ulteriori approfondimenti. — 15. Poteri probatori e modelli proces-suali. — 16. Esibizione dei documenti. — 17. Segue: potere discrezionale del giudice. —18. Segue: nuova disciplina. — 19. Segue: onere di sostanziazione v. discovery. — 20.Segue: notice pleading-fact pleading. — 21. Segue: onere di indicazione precisa del do-cumento e prime prassi giurisprudenziali. — 22. Segue: ordine di esibizione a caricodella parte non gravata dell’onere della prova.

1. — La riforma del processo civile tedesco del 2001 ha introdotto alcunenovità dirette a rafforzare la cognizione della causa nel giudizio di primo grado.Esse si coordinano alla contemporanea trasformazione del giudizio di appello inistanza di controllo della sentenza di primo grado. Mentre la riforma dei mezzi diimpugnazione è ispirata da un disegno organico del legislatore, gli interventi sul-la disciplina del processo di primo grado hanno carattere episodico.

Fra le modifiche del giudizio di primo grado, ho scelto di concentrarel’attenzione sulla maggiore novità riguardante il diritto delle prove: l’amplia-mento del campo di applicazione del potere d’ufficio del giudice di disporrel’esibizione dei documenti (§ 142 ZPO) (1).

Come sempre accade, lo studio di un certo istituto processuale non puòessere condotto senza la costante e vigile considerazione delle sue interrelazio-ni con l’ordinamento in cui esso si colloca.

(*) Comunicazione al XXV Convegno nazionale dell’Associazione italiana fra gli stu-diosi del processo civile su « Le prove nel processo civile » (Cagliari, 7-8 ottobre 2005). Ilpresente saggio è destinato, con sentimenti di riconoscenza e di ammirazione, alla raccoltadi studi in onore del prof. Carmine Punzi.

(1) Un corrispondente ampliamento è disposto dal nuovo testo del § 144 ZPO riguardoall’esibizione di oggetti di ispezione e di consulenza tecnica.

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Trattandosi di un ordinamento processuale straniero, è opportuno ancheesplicitare l’analisi dei profili rilevanti di questo contesto.

A ciò è rivolta la prima parte di questo contributo.

2. — La scelta di trattare un aspetto del processo civile tedesco intenderendere omaggio alla tradizione di influenza della scienza giuridica tedescasugli studi dei processualisti italiani (2) ed esprime il desiderio di rinvigorirequesto rapporto, rivolgendo ai giovani ricercatori l’invito a non trascurare lacomparazione con il processo civile tedesco.

Tale studio si rivela affascinante non solo per i classici tesori di culturagiuridica che hanno contribuito in modo significativo a costruire il sistemaconcettuale del diritto processuale civile nell’Europa continentale.

Lo studio del processo civile tedesco riveste anche un notevole interessepragmatico. Questo risvolto può apparire a prima vista sorprendente se riferi-to alla scienza giuridica tedesca, che rinviene tradizionalmente i propri puntidi forza nella capacità di astrazione concettuale congiunta ad acribia analiti-ca, nella solidità dell’impianto dogmatico e sistematico.

Con interesse pragmatico intendo riferirmi al fatto che lo studio del pro-cesso civile tedesco ha per oggetto uno degli ordinamenti più efficienti fraquelli che sono maggiormente oggetto di comparazione a livello internaziona-le (3). Le statistiche giudiziarie attestano che la durata media di un processoordinario di cognizione dinanzi ai tribunali tedeschi è da anni stabilmente in-feriore ad un anno. Per confermare l’impressione di efficienza che si ricavadalla lettura dei dati statistici è sufficiente frequentare due, tre o più tribuna-li, casualmente, nel sud, nel centro o nel nord della Germania, parlare congiudici ed avvocati delle loro esperienze professionali, constatare come si svol-gono le udienze e come lavorano le cancellerie, ecc.

L’interesse verso la comparazione con il processo civile tedesco derivadall’opportunità di studiare un ordinamento nel quale la divaricazione trateoria e prassi è molto minore che nell’ordinamento italiano.

Indirettamente, questa constatazione rinforza anche la fiducia nello stu-dio teorico del diritto processuale.

3. — Quali sono le ragioni dell’efficienza della giustizia civile tedesca (4)?Seguendo un primo approccio semplificato si può operare una valutazio-

ne comparativa con il sistema giudiziario italiano. Come l’inefficienza della

(2) Cfr. Trocker, L’influenza della scienza giuridica tedesca sugli studi dei processuali-sti italiani, in Studi senesi, 1990, p. 474 ss.

(3) Cfr. Gottwald, Civil Justice Reform: Access, Cost and Expedition. The German Per-spective, in Civil justice in Crisis, a cura di Zuckerman, Oxford 1999, p. 207 ss.

(4) La seguente breve analisi delle ragioni di efficienza della giustizia civile tedesca (fi-no al paragrafo 6 compreso) è destinata alla pubblicazione anche in Caponi, Modelli euro-pei del processo di cognizione: l’esempio tedesco, in Questione giustizia, 2006.

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giustizia civile italiana, in fondo, non è che un caso particolarmente gravedella più generale inefficienza media della nostra pubblica amministrazione,l’efficienza della giustizia civile tedesca non è che un caso particolarmenteemblematico della più generale efficienza media della pubblica amministra-zione tedesca.

Vi sono poi ragioni di efficienza che attengono più specificamente al mo-do ed alle condizioni di lavoro dei giudici.

I processi civili hanno una minore durata media in Germania, perché ilgiudice tedesco (di tribunale) in via di principio studia bene la causa fin dal-l’inizio, cioè fin dal deposito degli atti introduttivi.

I giudici tedeschi sono quindi professionalmente più capaci dei giudiciitaliani? Certamente è invidiabile la cura e l’attenzione che in Germania si ri-pone da molto tempo nella formazione del giurista (5). Tuttavia la ragionedell’efficienza non risiede in una ipotetica eccellenza professionale dei giudicitedeschi, bensì in un motivo più prosaico: il giudice tedesco studia la causatempestivamente, poiché egli ha sul ruolo della propria sezione un numero dicause molto minore rispetto al suo collega italiano.

Per esempio, in una città di media grandezza come Bielefeld, i giudici civilihanno sul ruolo circa duecento cause a testa (dalle informazioni che ho potutoraccogliere, si tratta di un dato comune amolti tribunali in Germania).

I fattori in virtù dei quali il sistema giudiziario tedesco si trova in un si-mile stato di grazia rispetto a quello italiano non sono difficili da individuare.In un calcolo che avevo fatto qualche anno fa comparando i dati ricavati dallepubblicazioni dei rispettivi istituti di statistica (6), ero giunto al risultato che,in rapporto alla popolazione residente, i giudici tedeschi (ordinari, del lavoro,delle assicurazioni sociali) erano circa il cinquanta per cento di più dei giudiciordinari italiani (giudici professionali e giudici di pace). Il rapporto può es-sersi modificato attraverso l’aumento del numero dei giudici di pace in servi-zio, alla fine degli anni novanta in Italia.

Il divario numerico tra i giudici italiani ed i giudici tedeschi rimane tutta-via considerevole (7).

A ciò si deve aggiungere l’esistenza nella Repubblica Federale Tedescadella figura del Rechtspfleger, un funzionario dell’amministrazione della giu-stizia che, nel settore della giurisdizione contenziosa, è competente al rilasciodei decreti ingiuntivi, oltre ad avere ampi compiti in materia di liquidazionedelle spese giudiziali, di esecuzione forzata e di volontaria giurisdizione.

(5) Come è stato incisivamente notato a suo tempo da Cappelletti, Studio del diritto etirocinio professionale in Italia e in Germania, Milano 1957.

(6) Cfr. Caponi, Le riforme della giustizia civile italiana degli anni novanta sullo sfondodella giustizia civile tedesca, in R. trim. d. proc. civ., 1998, p. 563 ss.

(7) Secondo i dati offerti da Murray-Stürner, German Civil Justice, Durham 2004, p.38, la Repubblica federale tedesca detiene il primato mondiale del numero dei giudici pro-fessionali, sia in senso assoluto, che in rapporto alla popolazione.

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Tale divario incide certamente sulla minore durata media dei processi ci-vili di cognizione in Germania, rispetto a quella dei processi civili in Italia,anche se la sua concreta incidenza dovrebbe essere valutata alla luce di tuttauna serie di altri fattori da considerare comparativamente tra i due Paesi (8).

Quanto agli avvocati, il brocardo dum pendet rendet è conosciuto in Ger-mania solo nei libri di storia del diritto, poiché il compenso dell’avvocato nonè commisurato ai singoli atti compiuti, ma retribuisce in via di principio l’in-tera attività svolta, dall’incarico fino alla risoluzione dell’affare (9). Secondoquesto sistema l’avvocato percepisce tendenzialmente lo stesso onorario, indi-pendentemente dal fatto che la controversia venga conciliata immediatamenteo venga definita attraverso una sentenza emanata al termine di un processo(10). Inoltre la composizione negoziale della controversia nel corso del proces-so è incentivata da una sensibile riduzione del carico di spese giudiziali (11).

4. — Vi sono infine ragioni di efficienza che dipendono dalla disciplinaprocessuale.

Se dovessi essere costretto ad identificare in un solo paragrafo della Zivilpro-zessordnung quello che altri ha qualificato, in una prospettiva più ampia, ilGer-man Advantage in Civil Procedure (12), non avrei esitazioni ad indicare il § 273ZPO. Secondo questa disposizione il giudice può imporre di svolgere tutta una se-rie di attività preparatorie della « udienza principale », nel quale la controversiadeve trovare (e trova di regola effettivamente) la propria risoluzione.

Tra queste attività si possono segnalare: l’integrazione o il chiarimentodelle allegazioni contenute negli atti introduttivi (con l’assegnazione se del ca-so di un termine a tal fine), l’esibizione di documenti e il deposito di oggettidi ispezione, la comparizione personale delle parti, nonché la comparizione ditestimoni, cui le parti si sono riferiti, e di consulenti tecnici, la produzione didocumenti e di informazioni ufficiali da parte della Pubblica Amministrazio-ne. Il § 273 ZPO non detta un elenco tassativo di misure: il giudice può assu-mere misure preparatorie non menzionate dalla legge, purché funzionali adun’effettiva preparazione della causa.

(8) Tra questi fattori: il numero delle cause civili pendenti; il rapporto numerico tragiudici addetti al civile e giudici addetti al penale; il personale di cancelleria; le infrastrut-ture dell’amministrazione della giustizia.

(9) Cfr. § 15 del Gesetz über die Vergütung der Rechtsanwältinnen und Rechtsanwälte,RVG.

(10) Per una valutazione negativa dell’impatto dell’attuale formula per la determinazio-ne dell’onorario degli avvocati sull’efficienza della giustizia civile italiana, v. Marchesi, Liti-ganti, avvocati e magistrati, Bologna 2003, p. 100 ss.

(11) Cfr. Murray, Stürner, German Civil Justice, cit., p. 492 s.(12) Cfr. Langbein, The German Advantage in Civil Procedure, in University of Chicago

law rev., 52 (1985), p. 823 ss. Questo saggio ha suscitato una vivace polemica negli StatiUniti. Per una replica dell’A. ai critici, v. Langbein, Trashing The German Advantage, inNorthwestern University law rev., 1988, p. 763 ss.

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Vi è poi un altro aspetto della disciplina del § 273ZPOda sottolineare, per lanotevole incidenza pratica ai fini della concentrazione della fase preparatoria edel successo dell’udienza principale. Nel quadro della serie di provvedimenti pre-paratori, quelli probatori non sono adottati di regola attraverso il formale provve-dimento istruttorio previsto dal § 358 ZPO, che deve contenere la menzione det-tagliata dei temi e dei capitoli di prova, la precisazione della parte che deduce laprova, l’indicazione dei mezzi di prova, bensì attraverso un agile provvedimentoche contiene solo una breve e generica indicazione del tema di prova.

In questo contesto l’assunzione della prova testimoniale, per esempio,può essere paragonata ad una sorta di interrogatorio libero del testimone, cherende più difficile una qualche forma di preparazione del teste ad opera dellaparte interessata alla sua testimonianza favorevole. Nel corso dell’udienzaprincipale il giudice sente prima la parte, di cui è disposta quasi sempre lacomparizione personale, ancorché non sia formalmente obbligatoria. Subitodopo il giudice introduce ed interroga i testimoni. Talvolta accade che il testevenga sentito una seconda volta, per appurare eventuali contraddizioni ri-spetto alle dichiarazioni di un altro teste.

Il proficuo svolgimento di queste attività, nonché di quelle antecedentidirette alla composizione negoziale della controversia (13), è agevolato prati-camente dal fatto che il giudice di tribunale di regola non tratta più di unpaio di cause nella stessa mattinata (14).

In sintesi, si possono riepilogare la serie di fattori per i quali la controver-sia trova di norma la propria definizione nell’udienza principale, mentre me-no frequentemente essa è costretta a proseguire in una fase istruttoria forma-lizzata: il relativamente basso numero delle cause sul ruolo pro capite iudicis(rispetto all’Italia), la conseguente possibilità pratica per il giudice di studiarela causa e di arrivare preparato all’udienza (e disposto anche, se del caso, adesternare il suo convincimento provvisorio), l’impiego del vasto arsenale dipoteri preparatori ed istruttori previsti dal § 273 ZPO.

Questi fattori si inseriscono in un modello processuale flessibile con note-voli possibilità di adattamento alle caratteristiche delle singole controversie(15). Le fasi di questo modello sono scandite da termini previsti dalla legge, la

(13) Il tentativo di conciliazione è stato pure rinforzato attraverso la riforma del 2001.Il § 278, comma 2o ZPO prevede che l’udienza di trattazione sia preceduta da trattative di-rette ad una composizione amichevole della controversia, a meno che si sia già svolto untentativo di conciliazione in sede stragiudiziale o che le trattative siano visibilmente prive diprospettive di successo. In sede di trattative il giudice deve discutere con le parti la situazio-ne di fatto ed i punti controversi, valutando liberamente tutte le circostanze e, ove necessa-rio, ponendo domande. Le parti devono essere sentite personalmente.

(14) Più numerose sono le cause dinanzi agli Amtsgerichte, che assorbono il contenziosodi piccola entità.

(15) Lo scorcio finale di questo paragrafo riprende alcune considerazioni già svolte inCaponi, Le riforme della giustizia civile italiana degli anni novanta sullo sfondo della giu-stizia civile tedesca, in R. trim. d. proc. civ., 1998, p. 563 ss.

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cui durata è però fissata in concreto dal giudice, oppure da determinazionitemporali del tutto elastiche, come: « L’udienza deve aver luogo il più prestopossibile » (§ 272 III ZPO); oppure: la parte deve far valere « tempestiva-mente » i suoi mezzi di attacco e di difesa all’udienza (§ 282 I ZPO), nonchécomunicare « tempestivamente » alla controparte, prima dell’udienza, i mezzidi attacco e di difesa sui quali è prevedibile che quest’ultima non possa pren-dere posizione senza previa informazione (§ 282 II ZPO).

In secondo luogo, il giudice può calibrare fin dall’inizio lo svolgimentodel processo sulla complessità della singola controversia (§ 272 ZPO), sce-gliendo di far precedere l’udienza principale dalla fissazione della « primaudienza immediata » (§ 275 ZPO) oppure dal procedimento preliminarescritto (§ 276 ZPO).

Nella prassi i giudici preferiscono la seconda strada, poiché presenta unvantaggio spesso decisivo: al convenuto viene assegnato un primo termine didue settimane, semplicemente per manifestare la sua volontà di difendersi, edun ulteriore termine (minimo di due settimane), per depositare la sua com-parsa di risposta. Se il convenuto non manifesta la volontà di difendersi entroil primo termine, può subire immediatamente, su istanza dell’attore (§ 331 IIIZPO), una sentenza contumaciale.

Vi è poi la disciplina delle deduzioni tardive, quale emerge dal § 296ZPO, che è caratterizzata da un significativo margine di apprezzamento giu-diziale. Questa disposizione, che costituisce un altro dei cardini con i quali laVereinfachungsnovelle si è riproposta l’obiettivo di accelerare lo svolgimentodel processo di cognizione, ha ad oggetto la deduzione tardiva di mezzi di at-tacco e di difesa.

Entro il concetto di « mezzi di attacco e di difesa » sono compresi le alle-gazioni, le contestazioni delle allegazioni della controparte, le eccezioni di me-rito, le deduzioni istruttorie. Non vi rientrano invece la domanda principale,la domanda riconvenzionale, la modificazione e l’ampliamento della doman-da, la richiesta di rigetto della domanda della controparte: poiché esse nonsono mezzi di attacco e di difesa, ma costituiscono l’attacco e la difesa stesse,non possono essere ricondotte alla previsione del § 296 ZPO (16).

Il primo comma del § 296 ZPO prevede che i mezzi di attacco e di difesadedotti tardivamente, cioè dopo la scadenza dei termini a ciò fissati dal giudi-ce, possono essere ammessi solo se ciò non ritarda la soluzione della contro-versia o se la parte giustifica sufficientemente la tardività. Il secondo commadel § 296 ZPO si riferisce ai mezzi di attacco e di difesa non fatti valere tem-pestivamente all’udienza (ai sensi del § 282 I ZPO), nonché ai mezzi di attac-co e di difesa non comunicati tempestivamente alla controparte prima del-l’udienza (ai sensi del § 282 II ZPO). Essi possono essere respinti, se la loroammissione ritarderebbe la soluzione della controversia e la tardività della

(16) Cfr. Leipold, in Stein-Jonas, Kommentar zur Zivilprozessordnung, 21a ed., 2, Tü-bingen 1994, § 296, p. 801.

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deduzione è dovuta a colpa grave. Il terzo comma riguarda infine il rigettodelle eccezioni d’inammissibilità dell’azione, rilevabili solo ad istanza di par-te, tardivamente proposte.

Molti sono i problemi interpretativi a cui dà luogo l’applicazione del § 296ZPO: primo fra tutti la precisazione del concetto di ritardo nella soluzione dellacontroversia. Ciò non ha impedito però che si delineasse nella giurisprudenza te-desca in tema di rigetto delle deduzioni tardive un orientamento fondamentale,secondo il quale l’autoresponsabilità delle parti viene presa sul serio. Il rigettodelle deduzioni delle parti per tardività è di quotidiana applicazione. In tal caso ilgiudice decide sulla base di fatti che non corrispondono più allo stato attuale del-le deduzioni delle parti. La deduzione tardiva viene « schermata »: il giudice po-ne cioè a base della decisione una situazione di fatto che egli sa non corrisponderealla realtà. Il rigore di quest’applicazione è stato considerato in via di principiocostituzionalmente legittimo dalBundesverfassungsgericht (17).

5. — Da questo sintetico quadro scaturisce l’immagine di un giudicemolto attivo, molto forte. La forza del giudice tedesco non si trasforma peròin prepotenza, grazie a due importanti elementi che caratterizzano l’ordina-mento tedesco.

Il primo elemento risiede nella notevole attenzione che in Germania si ri-serva all’educazione del giurista. In particolare il modello ispirato alla forma-zione unitaria dei futuri magistrati ed avvocati è in grado effettivamente dievitare che l’inevitabile contrapposizione fra il ruolo processuale del giudice equello dell’avvocato trasmodi in un conflitto tra categorie professionali (18),come accade spesso in Italia (19).

Il secondo elemento attiene ad un tratto fondamentale del sistema tede-sco di giustizia costituzionale: il fatto che i provvedimenti giurisdizionali sia-no sottoposti al sindacato di costituzionalità dinanzi al Bundesverfassungsge-richt, attraverso la Verfassungsbeschwerde. In effetti, il ricorso diretto di co-stituzionalità con cui si impugna un provvedimento giurisdizionale per viola-zione di norme processuali rappresenta l’ipotesi più frequente di ricorso alBundesverfassungsgericht (20).

6. — Il ruolo attivo del giudice si colloca nella linea di sviluppo originatasimodernamente dall’opera legislativa di Franz Klein, cui si deve il codice di pro-

(17) Per un’aggiornata analisi di questa giurisprudenza, v. Rosenberg - Schwab - Got-

twald, Zivilprozessrecht, 16a ed., München, 2004, p. 433 ss.(18) Cfr. Caponi, Scuole di specializzazione per le professioni legali ed insegnamento del

diritto processuale civile, in R. trim. d. proc. civ., 2003, p. 127 ss.(19) L’esperienza degli « Osservatori sulla giustizia civile » rappresenta tuttavia un fat-

tore in controtendenza.(20) Sul tema in generale, v. R. Stürner, Die Kontrolle zivilprozessualer Verfahrensfeh-

ler durch das BVerfG, in JZ, 1986, p. 526 ss.

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cedura civile austriaco del 1895 (21). Tale opera ha trovato un grande prosecu-tore in Germania in Fritz Baur (22), attraverso i suoi impulsi dati prima allaprassi (il modello di Stoccarda, messo in funzione nel 1967 dal genio organiz-zativo di Rolf Bender, presidente della ventesima sezione civile del tribunale diquella città) (23) e poi alla legislazione (la Vereinfachungsnovelle del 1976).

Nasce e sviluppa così, in un arco di tempo molto breve, un terzo modellofondamentale di processo di cognizione, imperniato sull’udienza principale,che si affianca al modello a struttura trifasica (fase preparatoria, istruttoria edecisoria), tipico del rito ordinario di cognizione italiano, ed al modello a strut-tura bifasica (pre-trial, trial), tipico del classico processo anglo-americano (24).

Questo terzo modello processuale ha in comune con il secondo la struttu-ra bifasica e rispecchia una tendenza dei sistemi processuali contemporanei inquesta direzione (25), ma si distingue dal modello del trial, perché la fase pre-paratoria non serve solo ad informare le parti ed a consentir loro di preparar-si all’udienza, ma è utile anche ad informare il giudice ed a metterlo in gradodi esercitare i propri poteri direttivi, nonché ad anticipare parzialmentel’istruzione probatoria. Solo gli aspetti rilevanti della controversia non chiaritinella prima fase sono oggetto di trattazione nell’udienza principale.

Questo modello, che richiede case management da parte di un giudiceprofessionale fin dall’inizio del processo, ha avuto la grande forza di attrarreentro la propria orbita, oltre al nuovo processo civile spagnolo, lo stesso pro-cesso civile inglese (26). Ciò le conferisce un nuovo slancio, che renderà proba-bilmente molto feconda nei prossimi anni la comparazione tra i processi civilidell’Europa continentale ed il nuovo processo civile inglese (27), aiutata dalfatto che la disciplina di quest’ultimo ha assunto la forma di una codificazio-ne legislativa, con una propria parte generale di principi, nonché dall’uscitadei primi trattati di diritto processuale civile inglese (28).

(21) Cfr. Klein, Zeit — und Geistesströmungen im Prozesse (1901), 2a ed., Frankfurt1958. Su questo sviluppo, v. in senso critico in Italia Cipriani, Nel centenario del regola-mento di Klein, in R. d. proc., 1995, p. 969 ss.

(22) Fondamentale il suo discorso di Berlino del 1965: Baur, Wege zu einer Konzentra-tion der mündlichen Verhandlung im Prozeß, Berlin 1966; cfr. inoltre Baur, Zeit — undGeistesströmungen im Prozeß, in Juristische Blätter, 1970, p. 445 ss.

(23) Cfr. Bender, Die, Hauptverhandlung’ in Zivilsachen, in DriZ, 1968, p. 163 ss.(24) Cfr. R. Stürner, The Principles of Transnational Civil Procedure, in RabelsZ,

2005, p. 201 ss., p. 223.(25) Cfr. Trocker-Varano, The reforms of civil procedure in comparative perspective,

Torino 2005, p. 252.(26) Cfr. R. Stürner, The Principles of Transnational Civil Procedure, cit., p. 225.(27) Su questo versante comparatistico è già uscito qualche notevole lavoro, come quel-

lo di M. Stürner, Die Anfechtung von Zivilurteilen: eine funktionale Untersuchung der Re-chtsmittel im deutschen und englischen Recht, München 2002.

(28) Cfr. Andrews, English civil procedure: fundamentals of the new civil justice system,Oxford 2003; Zuckerman, Civil procedure, London 2003.

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7. — Il presente contributo rappresenta solo l’avvio di un percorso di ri-cerca, che non intende risolversi unicamente in un resoconto informativo del-l’evoluzione legislativa di un frammento della giustizia civile nella Repubblicafederale tedesca, ma aspira a cogliere l’effettivo funzionamento delle regoleprobatorie in quello ordinamento, le opzioni di politica del diritto che hannoorientato la loro formazione e la loro modificazione, i principi generali chefondano la loro validità e la dimensione della loro coerenza sistematica, gliorientamenti della prassi applicativa (29).

La ricerca promette di dare qualche frutto, poiché la fioritura dei contri-buti della letteratura tedesca sul diritto delle prove, a partire dagli anni ses-santa del secolo XX, trova un paragone, per quantità e qualità, solo con glistudi sull’oggetto del processo negli anni cinquanta.

La diversità di approccio nell’affrontare i due temi è peraltro radicale.Lo studio dell’oggetto del processo reca con sé la necessità di una raffinata

concettualizzazione, che però può chiudersi, quasi rinserrarsi, all’interno del si-stema del diritto processuale, in modo relativamente impermeabile rispetto al-l’ambiente esterno, cioè in primo luogo rispetto alla realtà sociale, poi rispetto aivalori costituzionali delGrundgesetz del 1949, ed infine rispetto allo stesso dirit-to sostanziale, attraverso la nozione del prozessualer Anspruch. Questa imposta-zione dà corpo ad un tentativo della scienza processuale tedesca di isolarsi, dichiudersi in se stessa e di rimuovere così la catastrofe dell’epoca nazionalsociali-sta, cedendo alla lusinga dell’heri dicebamus. Ricordiamo tra l’altro che la Zeit-schrift für Zivilprozeß riprende le proprie pubblicazioni nel 1950, dopo sette annidi sospensione, senza un cenno su quello che era successo.

Completamente diverso è il panorama che si dischiude nello studio dellanuova letteratura sul diritto delle prove, anche se la necessità di delineare unrapido quadro d’insieme sacrifica inevitabilmente molte distinzioni.

Al precedente ripiegarsi su stessa della scienza processuale, si contrappo-ne la sua apertura verso l’ambiente esterno. Non potrebbe essere diversamen-te, se si osserva con Denti (30), che le regole probatorie « vanno commisurate,oltre che alla valutazione, da parte della coscienza sociale, dell’idoneità al lo-ro impiego da parte dei singoli giudici, alle caratteristiche della stessa societàin cui i procedimenti probatori sono destinati ad avere attuazione ».

Inoltre, lo studio del diritto delle prove viene inserito nel quadro dei rap-porti tra poteri delle parti e poteri del giudice nello svolgimento del processo.Anche questa è una scelta difficilmente evitabile, che presuppone una rinno-vata disponibilità a confrontarsi schiettamente su concetti carichi (anche) dicontenuti ideologici, come la Parteifreiheit e la Richtermacht.

(29) Per l’illustrazione delle premesse metodologiche che così si pensa di accogliere, v.Taruffo, Il processo civile di « civil law » e di « common law »: aspetti fondamentali, in F.it., 2001, V, c. 345 ss.

(30) Così, Denti, L’evoluzione del diritto delle prove nei processi civili contemporanei, inProcesso civile e giustizia sociale, Milano 1971, p. 79 ss., p. 82.

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Infine, ma non certo ultimo in ordine di importanza, vi è il confronto trala disciplina del processo civile e le garanzie costituzionali del diritto di azionedi difesa (31), agevolato non solo dallo sviluppo di una giurisprudenza di au-torevole profondità, qual è quella del Bundesverfassungsgericht, ma anchedalla vivacità e dal coraggio intellettuale delle punte più avanzate della nuovadottrina, che riesce ad ambientare ed a sviluppare nel nuovo contesto cultura-le l’arsenale concettuale ereditato dalla letteratura classica.

Il fatto che siano trascorsi ormai più di quaranta anni dall’inizio di que-sta vicenda culturale consente di distinguere, senza la pretesa di svolgere uncensimento esaustivo, taluni aspetti di questo dibattito che appaiono ormaidatati, da altri che conservano ancora oggi una perdurante attualità e fecon-dità di ulteriori sviluppi.

8. — Non più fecondo appare oggi il dibattito di cui a suo tempo si èavuta in Italia un’eco sotto l’etichetta di « crisi delle Maximen » (32).

Già il riferimento ad una crisi delleMaximen nel loro insieme non era esenteda una qualche ambiguità. Se di crisi si poteva parlare, questa riguardava piutto-sto la Verhandlungsmaxime, il « principio della trattazione », in uno solo dei suoiaspetti, quello relativo alla disponibilità delle prove ad opera delle parti.

Non si poteva parlare di una crisi dell’applicazione della Dispositionsma-xime: l’ordinamento tedesco ha custodito anzi più gelosamente di altri il do-minio dell’autonomia privata delle parti sugli aspetti relativi all’inizio, alla fi-ne, ai soggetti ed all’oggetto del processo.

Certamente la catastrofe dell’epoca nazionalsocialista, la tragedia dell’odiorazziale contro gli ebrei rappresentano un fardello pesantissimoper la storia tede-sca, che ha toccato anche i principi fondamentali del processo civile. Se tuttavia ildiscorso raggiunge questo piano, allora campeggia questa eclisse della ragione, iltravolgimento della civiltà tedesca, non tanto i risvolti di essa che incisero sulla di-sciplinadel processo civile, edancorameno il cieco furore ideologico chenel suo im-patto pratico rimase confinato ad imprimered’inchiostro qualche colonnadelle ri-viste più allineate con il regime.Del 1938merita di essere ricordata tristemente la« notte dei cristalli »; moltomenomeritano di essere ricordate oggi le due paginecheBaumbach scrisse nellaZeitschrift derAkademie für deutschesRecht (33).Con-vienepiuttosto rivolgere l’attenzione agli studi con cui la letteratura tedesca, quan-to meno dopo la fine dell’« era Adenauer », ha puntato i riflettori senza pietà suquesta ed altre perversioni ideologiche dell’epoca nazionalsocialista (34).

(31) Cfr. Trocker, Processo civile e costituzione, Milano 1974.(32) Cfr. Cavallone, Crisi delle « maximen » e disciplina dell’istruzione probatoria, in

R. d. proc., 1976, p. 678 ss.(33) Cfr. Baumbach, Zivilprozeß und freiwillige Gerichtsbarkeit, in Zeitschrift der Aka-

demie für deutsches Recht, 1938, p. 583 ss.(34) Per una retrospettiva, v. Stolleis, Recht im Unrecht. Studien zur Rechtsgeschichte

des Nationalsozialismus, Frankfurt 1994.

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Quanto alla Verhandlungsmaxime, la spregiudicata critica di Bomsdorf (35)può avere buon gioco solo se il campo d’indagine rimane delimitato alla letturadel testo delle norme di legge. Il quadro legislativo della Civilprozessordnung-CPO del 1877 è indubbiamente caratterizzato da ampi poteri di iniziativa d’uffi-cio del giudice: quelli intesi al chiarimento ed all’integrazione delle allegazioni edelle domande delle parti, nonché quelli relativi all’istruzione probatoria.

Vi è innanzitutto il Fragerecht, cioè il potere di interrogare le parti alloscopo di chiarire le domande ed i fatti posti a fondamento delle domande (36),cui si collega il potere di disporre la comparizione personale delle parti (37).Ampi sono poi i margini che la CPO dischiude all’iniziativa del giudice nelcampo dell’istruzione probatoria (38). Con l’eccezione della prova testimonia-le, il giudice può disporre d’ufficio l’assunzione di tutti i mezzi di prova: l’esi-bizione di documenti (39), l’ispezione e la consulenza tecnica (40), il giuramen-to suppletorio in caso di semiplena probatio (41).

Se però dal piano delle norme di legge si passa all’analisi della realtà ef-fettuale, la concreta prassi processuale è tuttora ispirata al dominio delle par-ti, certamente nell’allegazione e nella sostanziazione dei fatti rilevanti, ma an-che nella disponibilità dei mezzi di prova, poiché i giudici impiegano in modoparsimonioso i loro poteri istruttori d’ufficio (quelli che si esercitano con ilformale provvedimento istruttorio previsto dal § 358 ZPO). Sotto questo pro-filo la Verhandlungsmaxime continua a vivere nella concreta esperienza delprocesso, anche se ciò accade più per motivi di opportunità tecnico-proces-suale, che in omaggio alla concezione liberale del processo come affare priva-to delle parti.

Per quanto riguarda il Fragerecht (42), esso trova applicazioni incisive giànella giurisprudenza del Reichsgericht degli anni immediatamente successivial 1877. La Corte suprema ritiene che il suo erroneo mancato esercizio siacensurabile attraverso la Revision (43). Ciò non sorprende, poiché del Fragere-

(35) Bomsdorf, Prozeßmaximen und Rechtswirklichkeit, Berlin 1971.(36) § 130 CPO, in riferimento al giudizio dinanzi al Landgericht; § 464 CPO, in riferi-

mento al giudizio dinanzi all’Amtsgericht.(37) § 132 CPO.(38) Per un quadro recente in lingua italiana, v. Piekenbrock, La ripartizione dei poteri

probatori tra il giudice e le parti nel processo civile tedesco, relazione al convegno delC.S.M., « Recenti riforme e prassi giudiziarie dei paesi aderenti all’U.E. » (Roma, 13-15giugno 2005), ora in Annuario di diritto tedesco (2004), Milano 2006.

(39) §§ 133, 134 CPO.(40) § 135 CPO.(41) § 437 CPO.(42) Sul quale si devono ricordare le pagine di Cappelletti, La testimonianza della par-

te nel sistema dell’oralità, Milano 1962.(43) Esemplare, tra le altre, la seguente pronuncia del 5 gennaio 1883, in RGZ 8, p.

371 s.: « diversamente [accade] però, quando, come nel presente caso, dalle argomentazio-

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cht si può argomentare in modo plausibile, già sul piano teorico, la compati-bilità con la Verhandlungsmaxime. Non è un caso se un giurista liberale dellatempra di Wach (44) lo considera come « lo strumento più efficace della dire-zione giudiziale del procedimento [..]. Esso deve servire principalmente ad in-formare il giudice sulla volontà delle parti in controversia e sul materiale con-troverso, deve servire ad informare le parti sulla qualificazione giuridicaadottata dal giudice. Non è solo un diritto, ma anche un obbligo del giudice.Tuttavia esso è obbligo di informazione, non obbligo di inquisizione ». Puroggetto di modifiche, ristrutturazioni e cambiamenti di denominazione nelcorso del tempo (da ultimo attraverso la riforma del 2001, che ha intitolato larelativa disposizione, il § 139 ZPO, alla materielle Prozessleitung), l’istitutocostituisce ancora oggi un’essenziale nota fisionomica del processo civile tede-sco e continua ad attirare l’interesse della dottrina e della giurisprudenza (45).

Se si passa rapidamente ad un’osservazione conclusiva sul punto, l’im-piego delle Maximen, dei principi generali del processo — oggi innervati cer-tamente anche dalle garanzie costituzionali — mantiene intatti i suoi servigi.Ciò si rivela utile proprio in un momento di rapidi mutamenti della temperiesociale e culturale, come quello attuale. Abbassare le Maximen al livello diastratte formulazioni dottrinarie, prive di un effettivo riscontro nella realtàgiuridica, significa evitare di cogliere la loro importanza « per la considera-zione teorica della legge, per la sua pratica applicazione e infine — ma nonda ultimo — per l’insegnamento dei fondamenti del diritto processuale nelleUniversità [...]. Questi principi costituiscono la colonna portante dell’edificiodel “diritto processuale” » (46).

9. — Di straordinaria rilevanza in una prospettiva comparatistica, è ladiscussione sui temi relativi all’onere della prova ed al libero convincimentodel giudice. Essi costituiscono il fulcro dell’intero dibattito sul diritto delleprove, avviatosi nella dottrina tedesca a partire dagli anni sessanta.

ni del giudice si desume che egli considera la pretesa controversa come fondata, ma crededi non poter emanare una decisione conforme a questo suo convincimento, solo perché certifatti, che potevano essere allegati, non lo sono stati a cagione di un errata qualificazionegiuridica o di un altro errore./Quando in casi come questi il giudice si accontenta di rigetta-re la domanda a causa dell’incompletezza delle allegazioni fattuali, invece di far sì, com’èsuo dovere sulla base del § 130 CPO, che vengano integrate le insufficienti allegazioni difatti, che vengano indicati i mezzi di prova, che siano dati in generale tutti i chiarimenti ri-levanti ai fini dell’accertamento della fattispecie, egli erra non solo nell’applicazione del §130, ma misconosce in via di principio gli obblighi che derivano da questa disposizione e sirende colpevole senza dubbio di una violazione di una norma di diritto ».

(44) Cfr. Wach, Vorträge über die Reichs-Civilprocessordnung (1879), 2a ed., Bonn1896, p. 72.

(45) Per un quadro aggiornato, v. Prütting, Die materielle Prozessleitung, in Festschriftfür Musielak, München 2004, p. 397 ss.

(46) Baur, Wert oder Unwert von Prozeßrechtsgrundsätze, in Studi in onore di TitoCarnacini, Milano 1984, II, 1, p. 27 ss.

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L’osservatore italiano può comprendere la correlazione che sussiste traquesti due temi, se ricorda che nell’ordinamento tedesco non è espressamenteformulata a livello legislativo una norma generale sull’onere della prova, co-me l’art. 2697 del codice civile italiano (47). Viceversa la disposizione che fis-sa il principio del libero convincimento del giudice, il § 286 ZPO, è moltoampia, e per certi aspetti molto diversa dal nostro art. 116 c.p.c. Conviene ri-produrne il testo per intero: « il giudice deve decidere secondo libero convin-cimento se l’affermazione di un fatto sia da considerare come vera o comenon vera, tenuto conto di tutto il contenuto della trattazione e del risultato diun’eventuale istruzione probatoria. Nella sentenza devono essere indicati imotivi che hanno guidato il convincimento giudiziale./Il giudice è vincolato aregole probatorie legislative solo nei casi indicati da questa legge ».

L’assenza di una disposizione generale espressa sull’onere della prova ela presenza di una profonda, impegnativa norma sul libero convincimento,che costituisce senza dubbio il principio centrale dell’intero diritto delle provetedesco (48), ha fatto sì che le interrelazioni tra le due problematiche sianostate particolarmente messe a fuoco nell’ordinamento tedesco.

10.—Punto di partenza del dibattito sull’onere della prova che si riapre ne-gli anni sessanta con la dissertazione monacense di Leipold (49) e che trova unprovvisorio epilogo nellamonografia di abilitazione di Prütting (50) è la soluzioneinsoddisfacente del problema del non liquet offerta dallaNormentheorie elabora-ta da Rosenberg nella sua fondamentale monografia sull’onere della prova (51).

La Normentheorie desume la ripartizione dell’onere della prova tra leparti dalle diverse relazioni (di complementarità e quindi di reciproca inte-grazione, ovvero di opposizione e quindi di reciproca esclusione) in cui le nor-me di diritto sostanziale si trovano tra di loro. Ad una norma fondamentale,che prevede il sorgere dell’effetto giuridico, possono contrapporsi delle « con-tronorme », che impediscono fin dall’inizio il sorgere dell’effetto ovvero lo so-spendono o lo estinguono. Ogni parte ha l’onere di provare il verificarsi dellafattispecie della norma, i cui effetti le sono favorevoli. Nella concezione di Ro-senberg, il giudice applica solo una di queste norme: la norma fondamentaleo una contronorma.

(47) Essa era contenuta nel § 193 del primo progetto di BGB, ma fu cancellata perchéla si ritenne scontata: cfr. Prütting, Münchener Kommentar zur Zivilprozeßordnung, 2a ed.,München 2000, § 286, p. 1778 ss.

(48) Cfr. Prütting, Münchener Kommentar zur Zivilprozeßordnung, cit., p. 1778 ss.(49) Cfr. Leipold, Beweislastregeln und gesetzliche Vermutungen, Berlin 1966.(50) Cfr. Prütting, Gegenwartsprobleme der Beweislast, München 1983.(51) Cfr. Rosenberg, Die Beweislast auf der Grundlage des Bürgerlichen Gesetzbuches

und der Zivilprozeßordnung, 5a ed. a cura di Schwab, Berlin 1965. Sulla Normentheorie, v.Patti, Prove. Disposizioni generali, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma 1987,p. 85 ss.

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Nel caso in cui al termine del processo residui l’incertezza sul se si sia ve-rificata la fattispecie della norma da applicare (non liquet), il giudice accertache il correlativo effetto giuridico non si è verificato. In altri termini, Rosen-berg equipara l’incertezza sull’esistenza del fatto rilevante al caso in cui ilgiudice è convinto che il fatto non esista.

In questa equiparazione risiede il punto debole della sua teoria, poichéessa è difficilmente conciliabile con il seguente assunto. Le norme giuridichericollegano effetti a fattispecie nella realtà sostanziale; l’unica alternativa èche la fattispecie si sia verificata o non si sia verificata; l’incertezza processua-le sull’esistenza dei fatti rilevanti non può essere appiattita né sulla prima, nésulla seconda ipotesi (52).

Leipold pone l’accento su questo aspetto ed argomenta che la decisionegiudiziale in caso di incertezza sulla situazione di fatto rilevante non può esse-re fatta discendere dalle norme di diritto sostanziale (53). Con ciò la Normen-theorie è attaccata al cuore. L’attacco è fatto sostanzialmente proprio dalladottrina successiva, la quale però si divide sulla natura giuridica ed il mododi operare della regola di giudizio con cui il giudice supera la situazione dinon liquet.

Non ci interessa seguire la dottrina tedesca su quest’ultimo profilo, quan-to porre l’accento sul disagio teorico e pratico che si registra in ipotesi di deci-sione giudiziale sulla base della regola di giudizio sull’onere della prova. Il di-sagio è acuito nell’ordinamento tedesco dal § 286 ZPO, il quale pretende dalgiudice il pieno convincimento circa la verità o non verità dell’affermazione diun fatto. Secondo l’orientamento maggioritario il § 286 ZPO esclude che ilcriterio del convincimento giudiziale circa l’affermazione dell’esistenza deifatti rilevanti nei processi a cognizione piena possa essere — almeno di rego-la, salvo cioè deviazioni legislative da questo criterio come quelle dei §§ 287 e294 ZPO — un qualcosa di diverso e di minore della verità (o comunque diun grado di probabilità molto alto, che confina con il convincimento della ve-rità). Si esclude in particolare che tale criterio possa essere quello della « pro-babilità prevalente », anche se proprio quest’aspetto ha dato vita ad uno deifiloni di dibattito più interessanti e controversi: quello che ha ad oggetto ilBeweismaß, il criterio o quantum della prova (54).

11. — Diverse sono le strade che nell’ordinamento tedesco si battono permitigare le difficoltà che l’astratta ripartizione dell’onere della prova provocaa chi agisce in giudizio e per confinare in casi eccezionali l’applicazione dellaregola di giudizio sull’onere della prova.

(52) Cfr. Musielak, Gegenwartsprobleme der Beweislast, in ZZP 100 (1987), p. 385 ss.,p. 387.

(53) Cfr. Leipold, Beweislastregeln und gesetzliche Vermutungen, cit., p. 32 ss.(54) Per riferimenti a questo dibattito in una prospettiva comparatistica, v. Taruffo,

Rethinking the Standards of Proof, in Am. J. comp. L., 51 (2003), p. 659 ss.

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Accanto alle tecniche di modificazione o inversione giurisprudenziale del-l’onere della prova, note anche nell’ordinamento italiano (55), si prospetta lapossibilità di mettere a frutto il sapere e le informazioni della parte non gra-vata dell’onere della prova.

Alla vigilia di questo sviluppo l’ordinamento tedesco si presenta comeuno dei più affezionati al brocardo nemo tenetur edere contra se e, corrispon-dentemente, uno dei più lontani dall’affermazione di quell’obbligo di infor-mazione reciproco tra le parti, caratteristico del processo civile inglese e, conparticolare intensità, del processo civile americano (56).

Sotto questo profilo l’ordinamento tedesco è più arretrato di quello fran-cese, di cui si può vedere il nuovo testo dell’art. 10 del Code civil: (« chacunest tenu d’apporter son concours à la justice en vue de la manifestation de laverité ») e l’art. 11 del nuovo codice di procedura civile, che prevede l’obbligodelle parti di concorrere alla formazione del materiale probatorio, sotto com-minatoria di astreinte (57).

Una prima possibilità di ricorrere alle informazioni della parte non gra-vata dell’onere della prova è quella di prevedere, a vantaggio della parte one-rata, una pretesa sostanziale alla consegna di cose, all’esibizione di documentied al rilascio di altre informazioni. Questa è la strada battuta dalla giurispru-denza tedesca che, basandosi su norme molto ampie, come il § 242 BGB, e,più specificamente, il § 810 BGB, ha sviluppato obblighi di informazione e dicomunicazione in una notevole serie di rapporti di diritto privato (58).

Una seconda possibilità è quella di costruire, in capo alla parte non gra-vata dell’onere della prova, un obbligo processuale di informazione. L’opera-zione, già tentata a suo tempo da Fritz von Hippel nel 1939 (59), è stata ri-proposta, con un approccio teorico ed ideologico radicalmente mutato, daRolf Stürner nel 1976 (60). Con una complessa argomentazione analogica chefa perno sui §§ 138, 423, 445, 448, 372a, 656 ZPO, Stürner perviene ad af-fermare l’esistenza di un obbligo generale di informazione a carico della partenon gravata dell’onere della prova. L’obbligo sarebbe di natura processuale,ma opererebbe anche fuori e prima del processo, e rinverrebbe la propria san-

(55) Cfr. Verde, L’onere della prova nel processo civile, Napoli 1974.(56) Cfr. R. Stürner, U.S.-amerikanisches und europäisches Verfahrensverständnis, in

Festschrift für Ernst C. Stiefel, München 1987, p. 763 ss., p. 771; Trocker, Il contenziosotransnazionale e il diritto delle prove, in R. trim. d. proc. civ., 1992, p. 475 ss.

(57) Cfr. Lang, Die Aufklärungspflicht der Parteien des Zivilprozesses vor dem Hinter-grund der europäischen Rechtsvereinheitlichung, Berlin 1999, p. 99 ss.; Schilling, Die« principes directeurs » des französischen Zivilprozesses, Berlin 2002, p. 199 ss.

(58) Cfr. Trocker, Il contenzioso transnazionale e il diritto delle prove, cit., p. 504 s.(59) Von Hippel, Wahrheitspflicht und Aufklärungspflicht der Parteien im Zivilprozess,

Frankfurt 1939.(60) R. Stürner, Die Aufklärungspflicht der Parteien des Zivilprozesses, Tübingen

1976. Per qualche anticipazione, v. Peters, Beweisvereitelung und Mitwirkungspflicht desBeweisgegners, in ZZP 82 (1969), p. 200 ss.

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zione, in caso di omissione colposa di informazione, nella finzione di esistenzadel fatto affermato dalla controparte. Viceversa, in caso di oggettiva impossi-bilità di fornire l’informazione, il rischio del mancato accertamento continue-rebbe a ricadere sulla parte gravata dell’onere della prova.

Fino alla metà degli anni novanta, l’ardita proposta di Stürner aveva su-scitato un ampio dibattito, ma raccolto pochi consensi, anche se molto auto-revoli (61). Il Bundesgerichtshof aveva espressamente preso in considerazionela sua tesi, ma l’aveva rigettata (62). Due le principali obiezioni: l’esiguità del-le disposizioni di diritto positivo sulla cui base si dovrebbe fondare un obbligocosì impegnativo; il fatto che essa, in caso di omissione colposa dell’informa-zione, aggirerebbe l’allocazione dei rischi discendente dalla disciplina del-l’onere della prova (63).

La temperie muta nel 1996: nel Gutachten rilasciato in vista del sessan-tunesimo Deutscher Juristentag, nel quadro di una proposta tesa al rafforza-mento della cognizione del giudizio di primo grado, funzionale alla riformadei mezzi di impugnazione, Peter Gottwald suggerisce l’introduzione de iurecondendo, attraverso una riformulazione del § 138, comma II ZPO, di un ob-bligo processuale generale di informazione a carico della parte non gravatadell’onere della prova (64). Sebbene questo suggerimento non venga accoltonelle tesi finali del congresso del 1996, né nella riforma del 2001, esso costi-tuisce un importante criterio di orientamento nella soluzione dei problemi po-sti dalla nuova disciplina del potere d’ufficio di disporre l’esibizione di docu-menti (§ 142 ZPO), nonché del potere d’ufficio di disporre l’esibizione di og-getti di ispezione o di consulenza tecnica (§ 144 ZPO).

12. — La stessa norma sul libero convincimento possiede infine una no-tevole risorsa per confinare nell’ordinamento tedesco in casi meno frequentiche in altri ordinamenti l’applicazione della regola di giudizio sull’onere dellaprova.

Nel decidere secondo il suo libero convincimento il giudice deve tenereconto non solo del risultato di un’eventuale istruzione probatoria, bensì anchedi tutto il contenuto della trattazione nel corso del processo. La differenza ri-spetto all’art. 116 del codice di procedura civile italiano si percepisce imme-diatamente. Mentre l’art. 116, comma 2o, c.p.c. consente di valutare il conte-

(61) Tra questi Henckel, ZZP 92 (1979), p. 100 ss., nella recensione della monografiadi Stürner-Schlosser, Die lange deutsche Reise in die prozessuale Moderne, in JZ, 1991, p.599 ss.

(62) BGH 11 giugno 1990, in JZ, 1991, p. 630 ss.(63) Cfr. Prütting, Gegenwartsprobleme der Beweislast, cit., p. 137; Prütting, Infor-

mationsbeschaffung durch neue Urkundenvorlagepflichten, in Festschrift für Janos Nemeth,Budapest 2003.

(64) Gottwald, Empfehlen sich im Interesse eines effektiven Rechtsschutzes Maßnahmenzur Vereinfachung, Vereinheitlichung und Beschränkung der Rechtsmittel und Rechtsbehel-fe des Zivilverfahrensrechts? München 1996, p. A15 ss.

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gno delle parti nel processo solo come argomento di prova, il § 286 ZPO met-te la valutazione del contenuto della trattazione processuale esattamente sullostesso piano del risultato dell’istruzione probatoria (65).

Ampio è il margine di libertà che si dischiude così al giudice nella valuta-zione di tutto ciò che accade nel processo. Egli può legittimamente convincer-si della verità (o della falsità) di un’affermazione di un fatto senza necessitàdi svolgere una correlativa istruzione probatoria, oppure può ritenere l’affer-mazione di una parte più credibile di quella di un teste (66).

13. — Gli ampi contorni che l’ordinamento tedesco assegna alla libertàdel convincimento del giudice sono all’origine di una serie di istituti tipici del-l’ordinamento tedesco (67) o che assumono in questo ordinamento dei trattipeculiari.

Fra questi ultimi, si deve accennare all’onere di sostanziazione. Il puntodi partenza è costituito da una osservazione nella quale il processualista ita-liano potrebbe riconoscersi: la parte deve esporre la situazione di fatto in mo-do così dettagliato da mettere il giudice in condizione di verificare l’applicabi-lità della norma giuridica dalla quale discende l’effetto giuridico richiesto.

Il tasso di effettività e di rigore con cui questa regola si articola nella di-sciplina legislativa e nella prassi giurisprudenziale tedesche conduce però adapprodi che trovano difficilmente un paragone nell’ordinamento italiano.L’onere dell’attore di allegare fatti concreti a fondamento della domanda giu-diziale, l’onere del convenuto di contestare in modo preciso e circostanziato ifatti allegati dalla controparte e di esporre i fatti che fondano eccezioni di me-rito è preso molto sul serio. Ciò appare come un riflesso della notevole ten-denza del processo civile tedesco a valorizzare, per quanto possibile, la cono-scenza delle parti nella ricostruzione della situazione di fatto controversa.

Un primo momento in cui rileva incisivamente l’onere di sostanziazione èil vaglio dei presupposti per l’emanazione di una sentenza contumaciale (§331 ZPO). Se l’attore non ha esposto una situazione di fatto concreta e detta-gliata, il convenuto non ha bisogno di manifestare l’intenzione di difendersi edi comparire all’udienza per evitare l’emissione di una sentenza contumacia-le: quest’ultima non viene emessa, perché l’attore non ha allegato nulla di

(65) Sulla valutazione del contenuto della trattazione, il punto di riferimento nella lette-ratura contemporanea è la monografia di Brehm, Bindung des Richters an den Parteivor-trag und Grenzen freier Verhandlungswürdigung, Tübingen 1982.

(66) Cfr. Prütting, Münchener Kommentar zur Zivilprozeßordnung, cit., p. 1781 s., ovesi ricorda che la libertà di valutazione del giudice incontra limiti fondamentalmente in treelementi: il rispetto delle leggi della logica, delle massime di esperienza e della leggi natura-li; l’obbligo di motivazione; le regole di prova legale.

(67) Come per esempio il discusso Anscheinsbeweis, che non costituisce un particolaremezzo di prova, bensì consiste nella « considerazione della generale esperienza della vita daparte del giudice nell’ambito del suo libero convincimento »: cfr. Prütting, MünchenerKommentar zur Zivilprozeßordnung, cit., p. 1789.

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concreto, ma ha basato la propria iniziativa processuale su affermazioni gene-riche o su vaghe supposizioni (68).

Un secondo aspetto in cui ciò si manifesta è la disciplina dell’obbligo didichiarazione delle parti sui fatti rilevanti (§ 138 ZPO). In questo contestonon porrei l’accento tanto sull’obbligo di verità, cioè sull’obbligo di non com-piere affermazioni consapevolmente contrarie al vero. Più incisivo sul pianopratico — e contemporaneamente meno soggetto ad attacchi ideologici — èl’obbligo logicamente anteriore di affermare dei fatti concreti e di contestarein modo preciso e circostanziato i fatti allegati dalla controparte.

Solo se le allegazioni della parte soddisfano questi requisiti, esse sonoprocessualmente rilevanti e possono essere poste a base della decisione senzabisogno di essere provate, qualora non vengano contestate dalla controparte.Ciò comporta che le affermazioni indeterminate e generiche vengono scartatefin dall’inizio e non sono idonee a mettere in moto l’accertamento probatorio.In altri termini, siffatte allegazioni non vengono verificate nella loro rilevanzagiuridica né vengono verificate, attraverso l’istruzione probatoria, nella lorocorrispondenza al vero.

La loro rilevanza non può essere recuperata nemmeno se la contropartenon le contesta: se la parte espone una situazione di fatto priva dei caratteridella concretezza e della determinatezza non si verifica la ficta confessio, an-che se la controparte non la contesta. Viceversa, se la parte sostanzia in modoadeguato le proprie allegazioni e la controparte le contesta genericamente, va-le a dire — di regola — non offre una propria ricostruzione alternativa dellavicenda, si verifica la ficta confessio, in quanto la contestazione è irrilevante(69).

Oltre che sul § 138 ZPO, questa prassi si fonda più in generale — lo siripete — sul § 286 ZPO. In questo senso: poiché il giudice deve fondare il

(68) R. Stürner, Die Aufklärungspflicht der Parteien des Zivilprozesses, cit., p. 7;Brehm, Bindung des Richters an den Parteivortrag und Grenzen freier Verhandlungswürdi-gung, cit., p. 47. Secondo una variante ricostruttiva, l’onere di sostanziazione dovrebbe es-sere mantenuto nettamente distinto dall’astratto onere dell’allegazione, che sussiste pacifi-camente nel processo civile tedesco sul fondamento della Verhandlungsmaxime e che si pro-fila come riflesso logicamente e praticamente anticipato dell’onere della prova (in sensoastratto). L’onere di sostanziazione consisterebbe invece nel dovere della parte, che si atteg-gia in modo diverso nel corso del processo in dipendenza delle allegazioni della controparte,di concretizzare in modo dettagliato, di sostanziare appunto, le proprie allegazioni. Essopotrebbe considerarsi un riflesso anticipato dell’onere della prova in senso concreto — con-cetto pure proprio dell’esperienza giuridica tedesca — cioè dell’onere che si sviluppa e simodifica in relazione al progredire dell’accertamento dei fatti rilevanti nel corso del proces-so (Prütting, Münchener Kommentar zur Zivilprozeßordnung, cit., p. 1806). È chiaro che,secondo questa variante, l’esempio riportato nel testo rientrerebbe nella tematica dell’alle-gazione, non della sostanziazione, poiché il contenuto dell’attore di porre a fondamento del-la propria domanda una situazione di fatto concludente non dipende dall’atteggiamento di-fensivo del convenuto.

(69) Brehm, Bindung des Richters an den Parteivortrag und Grenzen freier Verhand-lungswürdigung, cit., p. 48.

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proprio convincimento anche sul contenuto della trattazione, diventa decisivoche la parte riesca a compiere allegazioni tali — considerate in sé e per sé, in-dipendentemente da una successiva istruzione probatoria — da influenzare inmodo favorevole la formazione del convincimento del giudice (70).

14. — In una prospettiva di ulteriori approfondimenti, quanto si è soste-nuto nel paragrafo precedente dovrebbe essere corroborato dall’analisi dellagiurisprudenza.

Inoltre, sarebbero meritevoli di un’attenta considerazione i seguenti ulte-riori aspetti dell’onere di sostanziazione.

La necessità di tracciare una demarcazione tra questa problematica e ilrisalente contrasto tra teoria della sostanziazione e teoria della individuazionesull’interpretazione della norma sull’oggetto del processo (§ 253 ZPO) (71).

L’attenuazione legislativa dell’obbligo di sostanziazione in riferimento afatti che non sono stati compiuti dalla parte o che non sono stati oggetto dellesue percezioni (§ 138, comma 3o ZPO: la parte può dichiarare di non sapere)e l’erosione giurisprudenziale di questa disposizione, culminata nella statui-zione che essa non esclude l’esistenza di un obbligo della parte di ricercare leinformazioni (72).

La portata dell’obbligo di sostanziazione che incombe sulla parte nongravata dell’onere della prova, ma che può esporre più facilmente la situazio-ne di fatto, qualora la controparte non abbia accesso alle informazioni (73).

La variante « spinta » dell’obbligo di sostanziazione, accolta nella prassie in qualche settore della dottrina, secondo la quale la parte dovrebbe forniresufficienti appigli per indurre a ritenere che la situazione di fatto, così comeda essa descritta, possieda un certo grado di probabilità di essersi verificata,altrimenti l’allegazione non viene presa in considerazione (74).

La compatibilità tra obbligo di sostanziazione e la possibilità che la partecompia un’allegazione tacita di un nuovo fatto attestato dal documento, at-traverso la semplice produzione di quest’ultimo (75).

(70) Brehm, Bindung des Richters an den Parteivortrag und Grenzen freier Verhand-lungswürdigung, cit., p. 48.

(71) Brehm, Bindung des Richters an den Parteivortrag und Grenzen freier Verhand-lungswürdigung, cit., p. 57.

(72) BGH 15 novembre 1989, in NJW, 1990, p. 453; Morhard, Die Informationspflichtder Parteien bei der Erklärung mit Nichtwissen, Köln 1993.

(73) Cfr. Grunsky, Zivilprozessrecht, 11a ed., München 2003, p. 153.(74) In senso critico, Brehm, Bindung des Richters an den Parteivortrag und Grenzen

freier Verhandlungswürdigung, cit., p. 49 ss. A proposito di questa variante dell’onere disostanziazione, si rivelerebbe interessante un confronto con qualche istituto del processo ci-vile inglese che presenta ad una prima impressione qualche elemento di somiglianza, comeuna variante dello striking out o addirittura il summary judgment.

(75) Leipold, in Stein/Jonas, Kommentar zur Zivilprozessordnung, 21a ed., 2, Tübingen1994, p. 764.

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15. — Oltre all’approfondimento degli aspetti relativi all’onere della pro-va ed al libero convincimento del giudice, un altro spunto suscitato dallo stu-dio del processo civile tedesco è l’idea di collegare più strettamente la rifles-sione sui poteri probatori delle parti e del giudice alla distinzione fra i diversimodelli del processo di cognizione.

Nello stesso periodo di tempo in cui gli interessi di ricerca dei giovanistudiosi del processo civile si vanno polarizzando intorno al diritto delle pro-ve, si assiste in Germania ad una decisiva ripresa di attenzione verso il pro-blema della preparazione dell’udienza di trattazione. L’impulso determinanteproviene dal discorso di Berlino di Fritz Baur nel 1965. Gli esiti di questoprocesso si sono già presi in considerazione: il modello di Stoccarda e la Ve-reinfachungsnovelle, che danno origine ad un terzo modello di processo di co-gnizione, imperniato sull’udienza principale.

Lo studio dei poteri probatori dei soggetti processuali non può esserecondotto senza la costante considerazione del modello processuale in cui essisi collocano, nonché, più in generale, del modello organizzativo e deontologi-co delle professioni forensi.

Questa osservazione è scontata riguardo all’alternativa tra il modello deltrial ed il modello trifasico di origine romano-canonica, ma non è meno evi-dente riguardo all’alternativa tra questo secondo modello e quello che si im-pernia sull’udienza principale.

In sintesi, una cosa è l’esercizio di poteri probatori (delle parti, del giudi-ce) funzionale alla preparazione dell’udienza principale, nella quale la con-troversia tendenzialmente trova la propria risoluzione. Altra cosa è l’eserciziodi poteri probatori che s’inserisce in una fase istruttoria formalizzata, che se-gue ad una fase preparatoria, come accade sempre in Italia ed in Germaniasolo in quelle ipotesi eccezionali in cui la causa non riesce a trovare la propriadefinizione nell’udienza principale (76).

Se si approfondisce questa prospettiva, forse può stemperarsi un poco lacarica ideologica con cui talvolta si affronta il tema del rapporto tra poteriprobatori delle parti e poteri probatori del giudice. Se si condivide l’osserva-zione che l’aumento dei poteri probatori del giudice in Germania e nei paesidell’Europa continentale è occasionato storicamente dal difetto di un sistemache assicuri un sufficiente accertamento dei fatti attraverso obblighi di infor-mazione reciproci tra le parti (77) e si constata che il nuovo processo civile in-glese unisce oggi disclosure e poteri giudiziali formali e sostanziali di direzio-ne del processo (78), allora delle due, l’una:

(76) Per qualche riflesso di questa distinzione nella disciplina del processo civile tede-sco, v. indietro, paragrafo 4.

(77) R. Stürner, Parteipflichten bei der Sachverhaltsaufklärung im Zivilprozeß, in ZZP98 (1985), p. 237 ss., p. 255.

(78) Andrews, The Pursuit of Truth in Modern English Civil Proceedings, in ZZPInt 8(2003), p. 69 ss.

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a) ci si affida a obblighi di veridicità e completezza tra le parti, oppor-tunamente sanzionati attraverso misure coercitive, nonché a poteri di direzio-ne formale e sostanziale del processo da parte del giudice, sulla falsariga del-l’attuale processo civile inglese;

b) ci si affida all’integrazione effettiva tra poteri probatori delle parti epoteri d’ufficio del giudice (non solo poteri di direzione formale e sostanzialedel processo, ma anche poteri istruttori), sulla falsariga dell’attuale processocivile tedesco.

Non si possono rigettare contemporaneamente entrambi gli approcci, al-trimenti il processo civile diventa una farsa o, nella migliore delle ipotesi, unasciarada.

16. — Analizzato il contesto sistematico, si può passare a trattare dellanuova disciplina del potere d’ufficio del giudice di disporre l’esibizione deidocumenti. Per meglio comprendere la portata dell’ampliamento del campodi applicazione di questo istituto, conviene descrivere sommariamente la di-sciplina previgente relativa all’esibizione.

Nell’ordinamento processuale tedesco l’esibizione dei documenti può es-sere disposta su istanza di parte (§§ 421-431 ZPO) o d’ufficio (§ 142 ZPO).

L’istanza di parte può indirizzarsi all’esibizione di un documento posse-duto dalla controparte o da un terzo e presuppone per il proprio accoglimentoche il destinatario sia tenuto all’esibizione sulla base di disposizioni di dirittosostanziale (particolarmente importante è il § 810 BGB) oppure, se si trattadella controparte, che questa si sia riferita al documento nei propri scritti di-fensivi. In caso di rifiuto della controparte, le affermazioni della parte sullaqualità ed il contenuto del documento possono essere ritenute come provate.In caso di rifiuto del terzo, questi può essere costretto all’esibizione attraversola proposizione di un’apposita domanda giudiziale. Questa disciplina non èstata sostanzialmente modificata dalla riforma del 2001.

Per quanto attiene al potere d’ufficio del giudice di disporre l’esibizionedei documenti, nei suoi tratti essenziali la sua regolamentazione era rimastainalterata dall’emanazione della CPO nel 1877. Nel suo comma 1o l’allora §133 CPO, divenuto § 142 ZPO con la Novella del 1898, contemplava il pote-re d’ufficio del giudice di ordinare alla parte l’esibizione dei documenti che sitrovano nelle sue mani. Il potere prescinde dall’esistenza di un obbligo so-stanziale di esibizione in capo al destinatario dell’ordine.

Dopo alcune oscillazioni iniziali, giurisprudenza e dottrina si trovanoconcordi sul punto che l’ordine di esibizione di documenti è un vero e propriomezzo di prova di fatti controversi, pur potendo se del caso servire anche soloal chiarimento e alla integrazione di allegazioni vaghe o lacunose della parte(79).

(79) Peters, Richterliche Hinweispflichten und Beweisiniziativen im Zivilprozeß, Tübin-gen 1983, p. 145.

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17. — Si ritiene che l’emanazione dell’ordine di esibizione sia rimessa alpotere discrezionale del giudice e sia sottratta in via di principio al controllodel giudice della Revision. Questa la tesi sostenuta fin dall’inizio dalla giuris-prudenza, che ha trovato progressivamente il conforto della dottrina maggio-ritaria (80). Il giudice deve invitare la parte, ai sensi del § 139, comma 1o

ZPO, ad esercitare i propri poteri probatori. Se però la parte rimane inattiva,il giudice non è tenuto a supplire all’inerzia della parte attraverso la propriainiziativa d’ufficio, né è tenuto di regola a specificare in sentenza i motivi peri quali ha ritenuto di non esercitare i propri poteri probatori (81) (ma que-st’ultimo aspetto è controverso: alcuni ritengono che il giudice debba giustifi-care la propria inerzia) (82).

18. — La modifica più importante apportata dalla riforma del 2001 con-siste nella previsione che l’ordine di esibizione possa essere impartito anche alterzo, senza che ciò presupponga l’esistenza di un obbligo sostanziale in capoa quest’ultimo.

Il primo comma del § 142 ZPO prevede attualmente: « Il giudice può or-dinare che una parte o un terzo esibisca i documenti che si trovano in suopossesso o altra documentazione, cui una parte ha fatto riferimento. A tal fineil giudice può assegnare un termine e può disporre che la documentazione esi-bita rimanga depositata presso la cancelleria per un lasso di tempo da lui sta-bilito ».

Il secondo comma aggiunge che i terzi non sono obbligati all’esibizione,qualora questa non sia da loro esigibile (83) oppure qualora essi possano invo-care uno dei motivi di astensione dalla testimonianza previsti dai §§ da 383 a385 ZPO.

Inoltre si dichiarano applicabili i §§ da 386 a 390 ZPO. Un rilevante si-gnificato assume in particolare l’applicabilità del § 390 ZPO: in caso di rifiu-to ingiustificato di esibire il documento, è comminata una sanzione pecunia-ria; in caso di rifiuto ripetuto, è disposto l’arresto del terzo.

19. — Se si concentra l’attenzione sull’ipotesi in cui l’ordine d’ufficio diesibizione serva alla prova di fatti controversi, il primo presupposto in ordinelogico affinché il giudice possa emanarlo è che la allegazione dei fatti ad ope-ra della parte sia sufficientemente « sostanziata ».

L’indagine già svolta indietro sull’onere della sostanziazione consente di

(80) Leipold, in Stein/Jonas, Kommentar zur Zivilprozessordnung, cit., p. 764.(81) Cfr. Leipold, in Stein/Jonas, ibidem.(82) Così infatti, Peters, Münchener Kommentar zur Zivilprozeßordnung, 2a ed., Mün-

chen 2000, § 142, p. 1103 ss., p. 1106.(83) Per la discussione di questo limite, v. Schlosser, Französische Anregungen zur

Urkundenvorlagepflicht nach § 142 ZPO, in Festschrift für Sonnenberger, München 2004,p. 135 ss.

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fugare il dubbio che il potere del giudice di disporre d’ufficio l’esibizione deidocumenti, pur sganciato dalla sussistenza di un obbligo sostanziale di esibi-zione in capo al destinatario dell’ordine, possa trasformarsi in uno strumentoper compiere « spedizioni esplorative » nei confronti delle parti e dei terzi.

Nel corso dei lavori parlamentari della riforma del 2001 si era paventatoinfatti, da parte di autorevoli settori dell’avvocatura tedesca, il timore che at-traverso la nuova disciplina del § 142 ZPO si dischiudessero possibilità diesplorazione della controparte o di terzi, come accade nel processo civile ame-ricano attraverso la discovery, e si era criticata la mancanza di qualsiasi pre-visione di ipotesi in cui la parte destinataria dell’ordine potesse legittimamen-te rifiutarsi di ottemperare (84).

La relazione della commissione giuridica del Bundestag replica a questeosservazioni critiche nei termini seguenti: la nuova disciplina non libera laparte dal proprio onere di allegazione e di sostanziazione. Il giudice può ordi-nare l’esibizione del documento solo sulla base di un’allegazione sostanziatadella parte e può tenere conto dell’interesse della controparte al mantenimen-to dei segreti nell’ambito della discrezionalità che gli è concessa nell’eserciziodi questo potere. La commissione nega poi che la modifica del § 142 ZPOpossa mettere in discussione il rifiuto, contenuto nell’art. 14, comma 1o dellalegge di attuazione della Convenzione dell’Aja sull’assunzione delle prove al-l’estero, di accordare assistenza giudiziaria alle richieste di discovery of docu-ments provenienti dagli Stati Uniti (85).

20. — La replica della commissione del Bundestag appena riferita trovaconferma nella comune constatazione che la portata « esplorativa » della di-scovery statunitense trova il proprio fondamento nel fatto che, nel processo ci-vile americano, gli atti introduttivi del giudizio non contengono necessaria-mente la determinazione dell’oggetto della controversia e l’allegazione di fattidettagliati, ma servono essenzialmente a dare alla controparte notizia dell’av-vio della causa (c.d. notice pleading) (86).

Nella fase pre-trial la discovery — evidentemente svincolata da un giudi-zio di rilevanza della prova così come inteso nella cultura processuale dell’Eu-ropa continentale (87) — non serve solo allo accertamento della situazione difatto eventualmente allegata negli atti introduttivi, ma può servire a delineareo a precisare i contorni di tali allegazioni ed a determinare l’oggetto dellacontroversia. Comune è il riferimento alla Rule 26 delle Federal Rules of CivilProcedure, secondo cui la discovery può essere legittimamente impiegata per

(84) Dombek, Schreiben an den Vorsitzenden des Rechtsausschusses des Deutschen Bun-destages zur ZPO-Novelle, in BRAK-Mitt. 2001, p. 122 ss., p. 124.

(85) BT-Drucks. 14/6036, p. 120.(86) Cfr. R. Stürner, The Principles of Transnational Civil Procedure, cit., p. 232.(87) Sulla diversa portata del relevancy standard nel processo civile americano, v. Fic-

carelli, Esibizione di documenti e discovery, Torino 2004, p. 172 ss.

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conoscere tratti della controversia nuovi rispetto a quelli prospettati negli attiintroduttivi ed a scoprire le relative fonti di prova (88).

Da questo angolo visuale netta rimane la differenza del processo civileamericano rispetto ai sistemi processuali dell’Europa continentale, improntatiad un’iniziale individuazione dell’oggetto del processo, ad una conseguentetempestiva determinazione dei fatti rilevanti e ad un giudizio di rilevanza del-la prova tendenzialmente contestuale al giudizio sulla sua ammissibilità. An-che il processo civile inglese moderno si allontana sempre di più dalla prassiamericana del notice pleading e tende ad avvicinarsi all’impianto dei processicivili dei paesi di civil law (89).

A loro volta però, la teoria e la prassi dei processi civili dei paesi di civillaw, al di là di formulazioni legislative non lontane tra di loro, sono piuttostovariegate. Il processo civile tedesco, attraverso l’incisivo ruolo affidato all’one-re di sostanziazione, si presta ad esprimere in modo più rigoroso di altri latecnica del fact pleading. Non è un caso che le reazioni più energiche ed argo-mentate contro la discovery americana provengano dalla cultura processualetedesca.

Inoltre, i pur generosi obblighi sostanziali di esibizione previsti dal § 810BGB non mi sembrano collocabili sullo stesso piano funzionale della discove-ry, anche se il loro puntuale adempimento può agevolare quel lavoro prepara-torio dell’avvocato, diretto alla stesura degli atti introduttivi del giudizio, cheè tipico di una tecnica del fact pleading intesa sul serio.

Se allarghiamo la comparazione al processo civile inglese, un successomaggiore di quello conseguibile attraverso la previsione di obblighi sostanzialidi esibizione, nella prospettiva funzionale di un’accurata preparazione dellaintroduzione della causa, può derivare probabilmente dall’impiego dei pre-action protocols.

21. — Se si torna a riflettere sui presupposti dell’ordine d’ufficio di esibi-zione dei documenti, accanto ad un’allegazione di fatti concreta e dettagliata,la dottrina colloca la necessità che il documento sia indicato in modo precisoad opera della parte che può giovarsi della sua esibizione. A questa streguanon sarebbe sufficiente che la parte si limiti ad indicare un generico insiemedi documenti, poiché altrimenti non si potrebbe sfuggire al rischio di un ordi-ne di esibizione con scopo esplorativo (90). Per lo stesso motivo si dovrebbepretendere che la parte offra appigli concreti dell’esistenza del documento enon sarebbe sufficiente argomentare che l’esperienza della vita e le consuetu-dini negoziali rendono verosimile l’esistenza di determinati documenti.

Un’analisi della prassi giurisprudenziale formatasi nei primi due anni emez-

(88) Cfr. Trocker, Il contenzioso transnazionale e il diritto delle prove, cit.(89) Cfr. R. Stürner, The Principles of Transnational Civil Procedure, cit., p. 233.(90) Leipold, in Stein-Jonas, Kommentar zur Zivilprozessordnung, 22a ed., 3, Tübingen

2005, § 142, p. 303.

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zo di applicazione della riforma rivela tuttavia che i giudici, nell’impiegare il loropotere così rimodellato, frequentemente non si attengono a questi requisiti, e co-sì dispongono genericamente l’esibizione della documentazione sanitaria relativaad un paziente (91) oppure un’intera cartella d’archivio di documenti, individua-ta solo attraverso una determinata scritta riportata sull’etichetta (92). Queste ap-plicazioni hanno destato condivisibili reazioni critiche: in questo modo — si os-serva— il compito di selezionare la documentazione rilevante ricade sul giudice(o sul consulente tecnico), cosicché l’attività giudiziale si avvicinerebbe pericolo-samente alla ricerca d’ufficio dei fatti e delle fonti di prova (93).

22. — Si può accennare a questo punto all’aspetto più delicato: se ed inche limiti possa essere destinataria dell’ordine d’ufficio di esibizione anche laparte che non è gravata dell’onere della prova.

La formulazione letterale del § 133 CPO prevedeva che potesse esseredestinataria dell’ordine di esibizione unicamente la parte che si era riferita aldocumento. Questa correlazione era tuttavia venuta meno in via di interpre-tazione sistematica, dal momento che il § 273, comma 2o, n. 1 ZPO, nel testointrodotto dalla Vereinfachungsnovelle del 1976 (ed anteriore ai ritocchi ap-portati dalla riforma del 2001), concedeva al giudice, nel quadro della disci-plina della serie di provvedimenti preparatori dell’udienza di cui si è già par-lato indietro, il potere di ordinare alle parti l’esibizione di documenti, senzadelimitare l’ordine alla parte che si è riferita a questi ultimi. Si poneva così ilproblema se potesse essere destinataria dell’ordine di esibizione anche la parteche non è gravata dell’onere della prova.

La riforma del 2001 ha risolto il problema in senso positivo, poiché ri-collega il potere del giudice di ordinare l’esibizione al fatto che una parte sisia riferita al documento.

La tesi contraria appare animata dall’intento di appiattire i presuppostidel potere d’ufficio sui presupposti dell’istanza di parte (che sono previsti dai§§ 422, 423 ZPO) e riprende così una concezione proposta prima della modi-fica legislativa (94). In altri termini, quando la parte, che si è riferita ad undocumento nel possesso della controparte, è gravata dell’onere della prova deifatti da provare attraverso l’esibizione del documento, quest’ultima potrebbeessere disposta solo se la controparte è obbligata all’esibizione da norme didiritto sostanziale, oppure se essa stessa ha fatto riferimento al documento.Ciò renderebbe anche ragione del fatto che il legislatore non abbia previstodei limiti all’obbligo di esibizione (95).

(91) OLG Saarbrücken, in MDR, 2003, p. 1250.(92) LG Ingolstadt, in ZinsO, 2002, p. 990.(93) Leipold, Die gerichtliche Anordnung der Urkundenvorlage im reformierten deut-

schen Zivilprozess, in Festschrift für W. Gerhardt, Köln 2004, p. 563 ss., p. 573.(94) Schreiber, Die Urkunde im Zivilprozess, Berlin 1982, p. 73 ss.(95) Leipold, in Stein/Jonas, Kommentar zur Zivilprozessordnung, cit., p. 306.

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In realtà il potere d’ufficio di ordinare l’esibizione dei documenti si fondasu una base diversa da quella del corrispondente potere di parte. Il primo èstato ampliato proprio per superare i limiti del secondo. Ciò rappresenta unaspecifica concretizzazione dell’idea dell’obbligo processuale di informazione acarico della parte non gravata dell’onere della prova.

Se si accoglie la tesi che la parte non gravata dell’onere della prova possaessere destinataria dell’ordine di esibizione in generale (e non solo entro i li-miti in cui sarebbe ammissibile un’istanza di parte), ne scaturisce la conse-guenza che i fatti allegati dalla parte gravata dell’onere della prova — in ipo-tesi rappresentati dal documento detenuto dalla controparte — possono essereritenuti come provati se la controparte non ottempera all’ordine giudiziale diesibizione (arg. § 427, seconda proposizione ZPO), indipendentemente dalfatto che essa sia tenuta all’esibizione da norme di diritto sostanziale o si siariferita essa stessa al documento.

Inoltre, nelle ipotesi in cui l’acquisizione al processo del documento rile-vante dipenda esclusivamente dall’iniziativa del giudice, in quanto non esisto-no i presupposti per l’esercizio del potere di parte, la discrezionalità del giudi-ce sembra ridursi praticamente a zero (96). In tal caso il prezzo del mancatoesercizio del potere di ordinare l’esibizione sarebbe infatti frequentementetroppo alto: la decisione sulla base della regola di giudizio sull’onere dellaprova.

(96) In questo ordine di idee, v. Stadler, Inquisitionsmaxime und Sachverhaltsaufklä-rung: erweiterte Urkundenvorlagepflichten von Parteien und Dritten nach der Zivilprozeß-rechtsreform, in Festschrift für Beys, Athen 2003, p. 1625 ss., p. 1644; in tema, v. ancheSchlosser, Französische Anregungen zur Urkundenvorlagepflicht nach § 142 ZPO, cit., p.140 ss.

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Andrea Serafino

Ricercatore nell’Università del Pieonte Orientale

IN TEMA DI DIRITTO DI PROPRIETÀ IN CINA (*)(i progetti della legge sui diritti reali)

Sommario: 1. Cenni introduttivi. — 2. Cenni storici. — 3. Il sistema della proprietà neiPrincipi Generali del Diritto Civile. — 4. Proprietà ed autonomia delle imprese statalinella Costituzione del 1982 e nei Principi Generali del Diritto Civile. — 5. L’amplia-mento del diritto di proprietà privata in sede di riforma costituzionale. — 6. I progettidi legge sui diritti reali: a) principi generali; b) la proprietà; c) diritti reali di godimento;d) diritti reali di garanzia; e) possesso. — 7. Il diritto di proprietà e la corsa cinese versola legalità. — 8. Riflessioni conclusive.

1. — I recenti emendamenti costituzionali in tema di proprietà (1) e l’ap-provazione preliminare nel mese di giugno del corrente anno da parte del Co-mitato permanente del Congresso Nazionale del Popolo dell’ultima « bozza »della legge sui diritti reali, impongono una riflessione sulle attuali linee evolu-tive della regolamentazione del diritto di proprietà in Cina (2).

(*) Il presente lavoro è stato redatto nel quadro del progetto PRIN « Diritto, lingue,culture: l’influenza dei modelli giuridici europei nella Cina contemporanea », coordinatodal prof. Giammaria Ajani ».

(1) Ci si riferisce in particolare ai tre emendamenti (su tredici) del 14 marzo 2004 con-cernenti i nuovi principi in tema di diritto di proprietà (artt. 10, 11 e 13), riguardanti l’in-violabilità della proprietà privata, i principi sottesi alla legittimità (ed i limiti) dell’espro-priazione e quelli riferibili al nuovo ruolo del settore privato rispetto a quello statale. In ge-nerale sul procedimento di formazione delle leggi in Cina cfr. M.S. Tanner, The Politics ofLawmaking in China, Oxford, 1999.

(2) La letteratura in lingua italiana riguardante il diritto cinese ha manifestato una cer-ta continuità a partire dagli anni ’80. Alcuni autori italiani hanno, inoltre, pubblicato i loroscritti in lingua cinese. Si ritiene possa interessare al lettore un’indicazione bibliografica dimassima, senza presunzione di esaustività, sui principali lavori sul tema: M. Timoteo, Ilcontratti in Cina ed in Giappone nello specchio dei diritti occidentali, Padova, 2004; G.Ajani, Institutional Support (Intermediary Institutions) to SME in Italy and Suggestions forRegulations to Intermediary Institutions Promoting SME in Chinese Law, in I. Gebhardt eZhu Shaoping (eds.), The Law of the PR of China on the Promotion of the Small and Me-dium-Size Enterprises, I, CITIC Pub., Beijing (in lingua inglese e cinese), 2004, pp. 531-542; Id., Principles for a Model Law on SMES Model Law of the PR China Law on SME, inI. Gebhardt e Zhu Shaoping (eds.), in op. ult. cit., pp. 585-612; Id., Return to the Codifica-tion (in lingua cinese), in 16 Peking University Law Journal, n. 6, 2004, 692-791; Id., TheUniformed Contract Law of the P.R. of China within the Framework or Codification of CivilLaw in China (in lingua cinese), in Private Law Review, I, 2001, pp. 521-553; M. Mazza, Ildiritto dei Paesi dell’estremo oriente su internet (profili pubblicistici), in Diritto PubblicoComparato ed Europeo, 2000, III; R. Cavalieri, La legge ed il rito. Lineamenti di storia didiritto cinese, 1999: L. Moccia, Profili emergenti dei sistema giuridico cinese, Philos, 1999;

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Partendo da considerazioni di carattere « macro-giuridico », ci si può do-

G. Crespi Reghizzi, Verso il mercato e lo stato di diritto: recenti riforme costituzionali in Ci-na, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, 1992, II; P. Corradini, Riforme costituzio-nali, in Mondo cinese, n. 100, 1999; P. Paderini, Recenti studi sull’amministrazione dellagiustizia e sul diritto in Cina del XVIII e XIX secolo, in Mondo Cinese, n. 97, 1998; M. Timo-teo, Note sul processo di riforma del diritto contrattuale in Cina, in Mondo cinese, n. 98,1998; P. Corradini, Venti anni di riforme, in Mondo cinese, n. 99, 1998; M. Miranda, Le ri-forme del 1898 e del 1978 in Cina, in Mondo cinese, n. 99, 1998; G. Crespi Reghizzi, Lecontroversie commerciali internazionali e i modi della loro risoluzione, in Cina notizie, 5,1997; Jiuang Feng, Il diritto romano in Cina, in Index, n. 24, 1996; A. Gambaro -R. Sacco,Sistemi giuridici comparati, in Trattato di Diritto Comparato a cura di R. Sacco, Torino,1996, p. 515 ss.; V. Marino, Struttura e funzionamento del sistema bancario cinese, inMondo cinese, n. 91, 1996; R. Cavalieri, Legge sul lavoro della repubblica Popolare Cine-se, in Mondo cinese, n. 90, 1995; M. Timoteo, Riforma economica e diritto: la disciplinagiuridica dei contratti economici internazionali e domestici, in Mondo cinese, n. 90, 1995;Jiang Ping, Un progetto di legge contrattuale unitaria della Repubblica Popolare Cinese, inquesta Rivista, 1998; M. Timoteo, Il contratto di vendita internazionale di beni mobili nel-l’ordinamento cinese: profili generali, in Mondo cinese, n. 87, 1994; Id., Le successioni neldiritto cinese. Evoluzione storica ed assetto attuale, Milano, 1994; Crespi Reghizzi, Il dirit-to cinese fra tradizione e riforma, in Relazioni internazionali, settembre 1994; R. Cavalieri,Tendenze del diritto commerciale cinese dopo Tienanmen, in Mondo Cinese, n. 83/84,1993; M. Marinelli, L’applicazione della legge in Cina, in Mondo cinese, n. 82, 1993; G.Regis Riforme e sviluppo in Cina, in Mondo cinese, n. 81, 1993; R. Bertinelli, La riunionedel Parlamento cinese, in Mondo cinese, n. 81, 1993; M. Miranda, La legge sull’ambientedella Repubblica Popolare Cinese, in Mondo cinese, n. 78, 1992; Id., Il settore privato del-l’economia cinese dopo il giugno 1989, in Mondo cinese, n. 77, 1992; R. Cavalieri, I bre-vetti per invenzioni e modelli nel diritto cinese, in Mondo cinese, n. 76, 1992; Mi Jian, Dirit-to cinese e diritto romano, in Index, n. 19, 1991; H. Pazzaglini, La recezione del diritto ci-vile nella Cina del nostro secolo, in Mondo cinese, n. 76, 1991; G. Crespi Reghizzi-R. Cava-lieri, Diritto commerciale ed arbitrato in Cina fra continuità e riforma, Milano, 1991; M.Timoteo, Il sistema cinese di conciliazione popolare. La giustizia informale in Cina fra tra-dizione e modernità, in Mondo cinese, n. 71, 1990; R. Bertinelli, Verso lo stato di diritto inCina: l’elaborazione dei Principi generali del codice civile della Repubblica Popolare Cine-se dal 1949 al 1986, Milano, 1989; M. Timoteo, L’evoluzione del diritto di famiglia nellaRepubblica Popolare cinese, in Mondo cinese, n. 63, 1988; R. Sacco, Cina, voce del Dig.disc. priv., 1988, p. 360; B. Bertinelli, Democrazia, diritto ed economia nella RepubblicaPopolare Cinese, in Mondo cinese, n. 58, 1987; G. Crespi Reghizzi, L’evoluzione del dirittocinese degli scambi con l’estero e la nuova legge italiana sulla cooperazione con i paesi invia di sviluppo, in Mondo cinese, n., 58, 1987; G. Melis, L’economia socialista dettata nel-le Costituzioni cinesi, in Mondo cinese, n. 56, 1986; G. Crespi Reghizzi, Commercio inter-nazionale, investimenti e diritto nella Repubblica Popolare Cinese, in Mondo cinese, n. 53,1986; Id., Il sistema giuridico del governo del Guomindang, 1927-1949, in Mondo cinese,n. 52, 1985; G. Melis, Costituzioni cinesi comparate, in Mondo cinese, nn. 46 e 47, 1984,P. Corradini, I diritti umani nella Costituzione cinese, in Mondo cinese, n. 46, 1984; G.Melis, Costituzioni cinesi comparate, in Mondo cinese, nn. 44 e 45, 1983, Id., Costituzionedella Repubblica Popolare Cinese, in Mondo cinese, n. 43, 1983; P. Biscaretti di Ruffia,La Costituzione della Repubblica Popolare Cinese del 1982, in Mondo cinese, n. 43, 1983;E. Dell’Aquila, Il diritto cinese: introduzione e principi generali, Padova, 1981; G. CrespiReghizzi, Riforma giuridica e continuità nel diritto in Cina, in Mondo cinese, n. 29, 1980;Id., Il commercio estero cinese: aspetti giuridico-istituzionali, in Mondo cinese, n. 26, 1979;G. Gregari, L’ordinamento penale nella Cina classica e contemporanea, in Mondo cinese,n. 21, 1978; G. Crespi Reghizzi, Lo studio del sistema cinese contemporaneo, in L’est, 3,

550 ANDREA SERAFINO

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mandare quanti elementi di contatto e di similitudine si possano rinvenire tral’attuale fase di rielaborazione del contenuto della proprietà in Cina e la pre-gressa esperienza dei Paesi Post-Socialisti europei, intervenuta negli anni ’90,successivamente al venir meno dell’opzione socialista.

Se da un lato la presenza di una continuità tra il sistema pre-socialista equello attuale può esser considerato un elemento di contatto tra le diverseesperienze (3), è pur vero che la recezione di nuovi modelli, oltre che a richia-mare talvolta in vita istituti ormai « assopiti », può determinare un indeboli-mento dei tratti culturali del sistema (4) che avrebbero potuto costituire quelcollegamento culturale ed istituzionale tra passato e presente utile all’effettua-zione di una riforma dotata di un minimo di peso specifico.

Non si vuole ovviamente in questa sede proporre una sorta di assimila-zione tra l’attuale fase di riforma economico-giuridica cinese e la turbolentafase di revisione istituzionale intervenuta nell’ambito della soluzione post-so-cialista successivamente al 1989, ma solo evidenziare come alcune scelte dipolitica del diritto presentino dei tratti comuni, come ad esempio la scelta diaffidare a norme di rango costituzionale il riconoscimento astratto e di princi-pio dei diritti e di demandare al contempo a norme di dettaglio (ma non perquesto sempre chiare nella loro interpretazione) l’effettiva regolamentazionedei medesimi ed il riconoscimento più o meno limitato del concreto potere di-spositivo da parte dei consociati (5).

1967. Riguardo al tema del presente articolo si segnala la pubblicazione di R. Bertinelli,Considerazioni sul diritto di proprietà nella Repubblica Popolare Cinese, in Mondo cinese,n. 72, 1990. In generale sugli studi sinologici in Italia si evidenzia il lavoro di G. Bertuccio-li, Gli studi sinologici in Italia dal 1600 al 1950, in Mondo cinese, n. 81, 1993.

(3) Si pensi alla regolamentazione della proprietà privata così come disciplinata dal Co-dice Civile Cinese del 1929-1930, vedi infra nota 8. Al riguardo si vedano anche i lavori diJ.P. Powelson, Property in Chinese development: Some Historical Comparisons, in Econo-mic Reform in China: Problems and Prospects, a cura di A. Dorn e Wang Xi, Chicago-Lon-don, 1990, p. 165 ss.; Liu Chunmao, Chinese Civil Law Science — Property Succession,Beijing, 1990.

(4) G. Ajani-U. Mattei, Codifying Property Law in the Process of Transition: SomeSuggestions from Comparative Law and Economics, in Hastings Int’l & Comp. L. Review,19, 1995, p. 121.

(5) Ci si riferisce ad una rinnovata concezione della legalità socialista in Cina, che co-munque presenta delle assonanze con i precetti costituzionali che si rinvengono nell’EuropaCentro-Orientale e nell’ex U.R.S.S. a partire agli anni ’90. La rinnovata accentuazione dataai poteri politici ed economici, confluenti principalmente in una nuova regolamentazionedella proprietà e dell’impresa, caratterizza il nuovo aspetto del diritto costituzionale cinesecosì come caratterizzava i testi dei paesi che avevano in allora espressamente (a differenzadella scelta cinese) rifiutato il modello sovietico, richiamandosi alla concezione dello statodi diritto (nel suo modello teorico ed applicativo occidentale). Tra i numerosi esempi di te-sti costituzionali dell’epoca espressione di tale mutamento: Ungheria, revisione del 1989;Bulgaria, Romania, Slovenia e Lettonia (ripristino della Costituzione del 1922), nel 1991;Polonia, revisione del 1992 e del 1997; Montenegro, Repubblica federale di Jugoslavia, Li-tuania, Estonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Turkmenistan e Uzbekistan nel 1992; Russia,Kirghiztan e Kazakistan nel 1993; Bielorussia, Tagikistan nel 1994; Armenia, Georgia,

IN TEMA DI DIRITTO DI PROPRIETÀ IN CINA 551

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Parimenti, il mantenimento della differenziazione tra le forme di appar-tenenza (6) costituisce probabilmente espressione di una scelta politica noncosì distante, dettata da evidenti problemi di controllo sulla proprietà stataleo collettiva nell’ambito della fase di una democratizzazione post-socialista.

Il tema della proprietà viene affrontato con estrema prudenza da partedel legislatore cinese. La lentezza con cui procedono i lavori per la redazionedel codice civile e della legge sui diritti reali denota la consapevolezza che traun principio codificato ed una norma di rango inferiore possono innescarsimomenti di tensione in merito alle scelte politiche ed economiche contingenti.Laddove nell’ambito di una codificazione o di una legge quadro il diritto vie-ne presumibilmente cristallizzato per un certo lasso di tempo, nell’ambito del-le privatizzazioni o della disciplina degli investimenti stranieri i diritti ricono-sciuti possono con maggiori probabilità subire delle deviazioni (formali od in-terpretative) rispetto alla norma generale. Codificare o promulgare leggi qua-dro è conseguentemente un passo « impegnativo », che può evidenziare le in-coerenze del sistema, incoerenze alle quali il medesimo sistema non intendeancora rinunciare per privilegiare il perseguimento degli obiettivi del presenteprocesso di transizione.

Tenuta presente la possibile continuità tra la situazione cinese pre-socia-lista e quella odierna (in termini di rivalutazione del ruolo della proprietà pri-vata ed anche in termini di rilevanza dei tratti tradizionali del diritto) e la pa-rabola seguita dalla regolamentazione delle forme di appartenenza dal 1949ad oggi, con il presente saggio, che non ha ambizioni di completezza ma solodi stimolo alla riflessione su alcuni momenti dell’attuale discussione sulla pro-prietà in Cina, si offriranno inizialmente dei momenti descrittivi dell’evolu-zione del concetto e della regolamentazione del diritto di proprietà per poiproseguire con l’analisi del contesto costituzionale recente ed un prudentecommento al progetto della legge sui diritti reali. Un commento ai progetti didella legge sui diritti reali costituirà, infine, un primo momento di riflessione

Azerbajgian nel 1995 ed Ucraina nel 1996. Al riguardo cfr. G. De Vergottini, Diritto Co-stituzionale Comparato, Padova, 1999, 5a ed., p. 872 ss. Si vedano, tra i numerosi, ancheM. F. Goldman, Revolution and Change in Central and Eastern Europe: Political, Econo-mic, and Social Challenges, Armonk, 1997; G. Ajani, Il diritto dell’Europa Orientale, inTrattato di Diritto Comparato diretto da R. Sacco, Torino, 1996; Id., By Chance and Pre-stige: Legal Transplants in Russia and Eastern Europe, in Am. J. Comp. L., 1995, 93; Id.,Riforme economiche, proprietà e cooperative in Unione Sovietica. La legge del 1 luglio1988 « Sulla cooperazione in URSS », in questa Rivista, 1989, I, p. 145; A. Janos, Continui-ty and Change in Eastern Europe: Strategies of Post-Communist Politics, in East EuropeanJournal of Politics and Societies, 1994, 8, n. 1, 1.

(6) Riscontrabile anche nel Codice Civile della Federazione Russa, il quale, inoltre, a ri-prova della continuità con l’assetto normativo dell’epoca sovietica, ha conservato l’idea deldiritto di gestione operativa, di cui sono titolari le imprese statali, ridefinendolo quale « di-ritto di possesso economico » (artt. 294-295). Al riguardo cfr. G. Ajani, Il diritto dell’Euro-pa Orientale, cit.

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su di un documento che sotto alcuni aspetti, quando sarà promulgato (7), pre-sumibilmente inciderà profondamente sul sistema dell’allocazione delle risor-se e sulla titolarità delle posizioni soggettive, tanto da poter evidenziare deidubbi sulla possibilità di definire il sistema politico cinese come socialista, enon piuttosto un sistema a carattere misto in cui anche agli operatori privativengono ormai concessi ampi spazi di autonomia e di ricerca, legittima, delprofitto dall’utilizzo della proprietà.

2. — Sino alla introduzione dei modelli giuridici occidentali, intervenutaalla fine del secolo XIX, manca in Cina una sistematica previsione codicisticadei diritti di appartenenza. Peraltro, non si creda che nella Cina tradizionalenon si possano identificare numerose disposizioni di legge riferite alla regola-mentazione del diritto di proprietà e dei diritti reali in particolare (8).

Diversi appaiono, nel susseguirsi delle epoche storiche, i concetti e le re-gole operative sottese alla tutela di tali diritti. In epoca tradizionale il dirittodi proprietà non godeva di una tutela piena nei confronti dello stato. Perquanto riguarda la tutela del medesimo nei confronti dei soggetti estranei, laposizione del titolare, pur non essendo configurata come diritto soggettivo,era comunque riferibile ad un diritto che attribuiva al titolare determinateprerogative a tutela della sua posizione. Il diritto, come concessione da partedell’autorità dinastica, era suscettibile di subire delle interferenze tramiteconfische o trasferimenti coattivi, soprattutto laddove esso avesse ad oggetto imezzi di produzione utilizzati nell’ambito dell’economia agricola (9).

Nella codificazione del periodo Guomindang risulta evidente, sia dal puntodi vista del contenuto che da quello sistematico, l’influenza del modello tede-sco, filtrato dal modello Giapponese della codificazione civile del 1890 (10).

(7) L’approvazione definitiva del testo è oggi prevista per il mese di marzo 2006, in oc-casione della quarta sessione plenaria del decimo Congresso Nazionale del Popolo (ChinaDaily, 11 luglio 2005).

(8) Li Zhimi, Ancient Chinese Law (Zhongguo Gudai Minfa), Pechino, 1988.(9) J.P. Powelson, Property in Chinese Development: Some Historical Comparisons, in

Economic Reform in China: Problems and Prospects, a cura di J.A. Dorn e Wang Xi, Chica-go, 1990. I limiti riguardanti il trasferimento della proprietà si riscontravano anche nel-l’ambito del diritto delle successioni, laddove la legge regolamentava la materia al fine diconsentire la successione nella medesima secondo la struttura patriarcale della famiglia, li-mitando l’esercizio della successione testamentaria. Solo con la promulgazione del CodiceCivile del Kuomintang quest’ultima fu formalmente riconosciuta quale pieno diritto. Al ri-guardo si veda Liu Chunmao, Chinese Civil Law Science — Property Succession (ZhongguoMinfa Xue. Caichan Jicheng), Pechino, 1990.

(10) Il Libro III del codice del Guomindang, dedicato ai diritti reali (wuquan), richiamail contenuto ed il titolo del libro III del BGB, e detta disposizioni in materia di proprietà,possesso, superficie, servitù, garanzie reali, e riguardo agli istituti tradizionali del yung-tien(art. 842 c.c. Guomindang) e del dien (art. 911 c.c. Guomindang, il diritto di utilizzare unimmobile di proprietà altrui e di raccoglierne i frutti corrispondendo un prezzo ed eserci-tando il possesso sul bene medesimo).

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Sebbene le disposizioni del codice in materia non impedirono il protrarsi di una« protezione debole » dei diritti di appartenenza, soggetti ad una persistentepratica di espropriazioni (conformemente all’obiettivo di redistribuzione delbenessere sociale previsto dai Tre Principi di Sun Yat-sen), il fondamento teo-rico delle disposizioni dell’epoca hanno presumibilmente costituito il punto dipartenza per la moderna riflessione riguardante l’estensione della tutela del di-ritto di proprietà privata.

A seguito della rivoluzione comunista e dell’instaurarsi della RepubblicaPopolare di Cina, il sistema dei diritti di appartenenza mutò nuovamente, sog-getto ad un pressante movimento di collettivizzazione e nazionalizzazione. An-che nell’ambito della tassonomia giuridica nuovi termini vennero utilizzati perindicare le diverse nozioni del diritto di proprietà. Si evidenzia, in particolare,la distinzione tra suoyouzhi (11) corrispondente alla proprietà riferibile al siste-ma economico e politico dello stato (proprietà del popolo intero, proprietà col-lettiva del popolo lavoratore), e caichan suoyouquan (o semplicemente suo-youquan) (12) riferibile ai diritti di cui è titolare per legge il cittadino.

Particolare intensità nel lavoro di elaborazione teorica dei diritti di pro-prietà da parte dei giuristi cinesi si riscontra in sede di progettazione dei Prin-cipi Generali di Diritto Civile, emanati nel 1986. (13).Acclamati quale espres-sione di un « diritto cinese con caratteristiche cinesi » (14), in realtà essi nontestimoniarono un significativo allontanamento dalla dottrina sovietica e dal-l’influenza formale della scuola pandettistica, ma piuttosto stimolarono, in fa-se di progettazione, la riscoperta e l’esplorazione di istituzioni riferibili al di-ritto privato tradizionale (15).

Le principali difficoltà incontrate dai giuristi cinesi successivamente allafase rivoluzionaria si incentravano sui problemi interpretativi dei preesistenticoncetti giuridici, una volta generalmente riferiti a situazioni di proprietà pri-vata e successivamente applicati alla sfera statale. In particolare, costituivanoespressione di tale difficoltà i tentativi teorici di giustificare (e sostenere) l’au-tonomia delle imprese, pur mantenendo la proprietà dei mezzi di produzionein mano pubblica.

(11) Costituzione della Repubblica Popolare cinese (1982), art. 6.(12) Principi Generali del Diritto Civile (1978), art. 71.(13) Per un’introduzione storica alla progettazione del Principi Generali di Diritto Civile

e sulla loro relazione con il progetto di codificazione civile cfr. E.J. Epstein, The Evolutionof China’s General Principles of Law, 34, Am. J. Comp. L., 1986, p. 705. Il quarto progettodi codice, a cui facevano riferimento i redattori dei Principi Generali, fu reso pubblico nel1982. La traduzione in lingua inglese è reperibile in Rev. Socialist L., 10, 1984, p. 193.

(14) Si vedano Shang Ping, Chinese Characteristics of the « General Principles of CivilLaw », in Economic Daily, 19 aprile 1986 e Wang Jiafu, General Principles of Civil Lawwhich have Chinese Characteristics, in Studies in Law, 1983, p. 7.

(15) E.J. Epstein, The Theoretical System of property Rights in China’s General Princi-ples of Civil Law: Theoretical Controversy in the Drafting Process and Beyond, in Law andContemporary Problems, 52, 1989, 2, p. 180.

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Ma il sistema della proprietà così come introdotto dai Principi Generalipresenta, comunque, rilevanti tratti di originalità, che valgono a distinguereil sistema cinese dai contemporanei sistemi socialisti, sia per quanto riguar-da l’esposizione sistematica dei diritti, sia per i diversi e concorrenti presup-posti teorici del diritto di gestione operativa attribuito alle imprese stataliper ovviare alla situazione di necessaria appartenenza statale dei mezzi diproduzione.

3. — La prima esposizione sistematica del diritto di proprietà nell’ambitodel diritto socialista cinese prevedeva la suddivisione del diritto di proprietàin tre « poteri » e « funzioni » costituenti (quanneng): l’uso (shiyong), il pos-sesso (zhanyou) e il potere di disporre del diritto (chufen). A questi elementisuccessivamente fu aggiunto il diritto di « trarre utilità » dal diritto medesimo(shouyiquan) (16), discostandosi dalla precedente idea che i profitti « nonguadagnati » (da parte dei soggetti privati) non dovessero trovare tutela alcu-na in quanto rappresentazione di un sistema di diritti proprietari teso allosfruttamento della classe lavoratrice (17).

Questi elementi costitutivi, pur rappresentando singolarmente (o in com-binazione fra loro) espressione del diritto di proprietà, non necessariamenteacquisirono le prerogative di diritti indipendenti. Il possessore non era legitti-mato a radicare un’azione a tutela della sua posizione giuridica soggettiva, senon richiedendo l’intervento diretto del proprietario (18). Frammentando ildiritto di proprietà nei quattro costituenti, i teorici cinesi del diritto pensaronodi poter ideare nuovi diritti tramite un’inedita combinazione di tali fattori,così prendendo a prestito le basi dogmatiche del diritto occidentale al fine diprodurre dei nuovi concetti giuridici funzionali alla società ed all’economiasocialista (19).

Per quanto riguarda il sistema della proprietà, i Principi Generali previ-dero la sistemazione delle proprietà in tre categorie principali: la proprietà delpopolo intero, la proprietà delle organizzazioni collettive delle masse lavora-

(16) Si vedano le Explanatory Notes on the general Principles of Civil Law, a cura di Y.Zhou, Pechino, 1986. A titolo esemplificativo viene riportato di diritto di ottenere dei com-pensi a seguito dell’affitto di edifici privati.

(17) Tali considerazioni, antagoniste rispetto al sistema civilistico del Guomindang, siriscontrano nei testi degli anni ’50 dedicati al diritto civile. Tra i numerosi si segnala Fun-damental Problems of Civil Law of the Poeple’s Republic of China, redatto dalla Teachingand research Section of the Central School for Politico-Legal Cadres, Pechino, 1958, tra-dotto in inglese dal Joint Publication research Service, Washington, JPRS, n. 4879.

(18) Wang Liming, Problems Concerning Possession, the Right of Possession and Ow-nership, in Law Review (Faxue Pinglun), 1, 1986, p. 15 (Rivista del Dipartimento di Dirit-to dell’Universita di Wuhan).

(19) Al riguardo Muenzel, Chinese Thoughts on Heritability of Law: Translations, inRev. Socialist L., 6, 1980, p. 275, e Guo, Discussion of the Critical Inheritance of Old Law,in Faxue Jikan Law Q., 2, 1982, p. 6.

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trici e la proprietà dei cittadini (20). A differenza di altri sistemi socialisti del-l’epoca, il testo di legge non escluse in linea di principio la proprietà privatadei mezzi di produzione, consentendola nei limiti previsti dalla legge (21). Pa-rimenti la dottrina cinese si discostò formalmente da quella sovietica relativa-mente al concetto di proprietà statale, individuando la titolarità della medesi-ma nel popolo intero, e così facendo venir meno la concezione dello stato qua-le soggetto titolare di diritti civili (ad eccezione di casi particolari in cui, adesempio, lo stato eredita dei beni per mancanza di ogni altro legittimo erede)(22). Si osservò come tale soluzione avrebbe potuto costituire un’opportunitàper offrire un chiarimento concettuale sull’autonomia delle imprese statali, lacui proprietà veniva attribuita ad un soggetto diverso dallo stato, privandoquest’ultimo del potere di interferire nella loro gestione. In verità, la differen-za concettuale riguardante l’attribuzione della proprietà statale non si risolsein una sostanziale modifica del sistema, ed altri presupposti teorici furonoconseguentemente utilizzati dai giuristi a sostegno dell’autonomia delle im-prese statali (23).

Nel testo definitivo, i Principi Generali enunciarono cinque differenti si-tuazioni di appartenenza riferibili alla proprietà (24). Il diritto delle unità sta-tali o collettive di « usare e trarre utilità » (shiyong shouyi) dal suolo in pro-prietà di tutto il popolo o da beni situati sul medesimo (25); il diritto dei citta-dini o delle collettività, derivante da contratto, di gestire il suolo pubblico ed ibeni siti sul medesimo (chengbao jingying quan) (26); il diritto dello stato,delle unità collettive e dei cittadini di sfruttare le risorse naturali (caikuan-

(20) Tale suddivisione riprende quella già effettuata nella Costituzione del 1982.(21) Principi Generali di Diritto Civile, art. 75.(22) Nei primi progetti dei Principi Generali ci si riferì con insistenza al concetto di pro-

prietà statale, individuando sette categorie di beni che necessariamente dovevano farne ri-ferimento (tra le quali i diritti di proprietà in materia di imprese). Solo in occasione dellaredazione dell’ultimo progetto i redattori sostituirono al concetto di proprietà dello stato,l’idea di una proprietà statale con la titolarità del diritto medesimo attribuita all’intero po-polo; cfr. E.J. Epstein, The Theoretical System of property Rights in China’s General Prin-ciples of Civil Law: ..., op. cit., p. 186.

(23) E.J. Epstein, The Theoretical System of property Rights in China’s General Princi-ples of Civil Law: ..., ibidem.

(24) Il diritto delle unità statali o collettive di « usare e trarre utilità » (shiyong shouyi)dal suolo in proprietà dello stato o da beni situati sul medesimo (artt. 80 (1) e 81 (1)); ildiritto dei cittadini o delle collettività, derivante da contratto, di gestire il suolo pubblico edi beni siti sul medesimo (chengbao jingying quan) (artt. 80 (2) e 81 (3)); il diritto dellostato, delle unità collettive e dei cittadini di sfruttare le risorse naturali (caikuangquan)(art. 81(2)); il diritto dell’impresa in proprietà dell’intero popolo di gestire la proprietà da-tale dallo stato (jingying quan) (art. 82); la limitazione dei diritti di proprietà necessarieper il mantenimento di buone relazioni di vicinato (art. 83).

(25) Artt. 80 (1) e 81 (1).(26) Artt. 80 (2) e 81 (3).

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gquan) (27); il diritto dell’impresa in proprietà dell’intero popolo di gestire laproprietà datale dallo stato (jingying quan) (28); la limitazione dei diritti diproprietà necessarie per il mantenimento di buone relazioni di vicinato (29).

Nessuna menzione espressa venne fatta per i diritti reali, malgrado, si so-stenne, i giuristi cinesi tenessero in mente tale concetto in sede di interpreta-zione dei diritti previsti dal testo di legge (30).

Il diritto da parte degli enti statali o collettivi di usare e trarre utilità dal-la terra in proprietà di tutto il popolo o dai beni siti sulla medesima assunseuna rilevante funzione economica in quanto consentì di identificare un mec-canismo giustificativo del controllo dei mezzi di produzione, formalmente de-tenuti dallo stato e quindi in proprietà di enti non produttivi, ad opera di altrienti collettivi. In una situazione di marcata divisione tra le funzioni giuridicheed economiche della proprietà, la norma consentiva, tramite un meccanismoche richiama l’istituto dell’usufrutto (yongyiquan), di fornire una legittimagiustificazione allo « spossessamento » della facoltà di gestione del bene stata-le, indirizzando il concreto utilizzo economico del medesimo ad enti incaricatidirettamente delle attività produttive.

Il diritto dei cittadini e degli enti collettivi di gestire contrattualmente ilsuolo pubblico ed i beni siti sul medesimo ha costituito il perno su cui è stataimpostata la riforma agricola (31). Definito quale « usufrutto contrattuale »per distinguerlo dall’istituto precedente dotato di una fonte esclusivamentenormativa, esso prevedeva uno schema nel quale i diritti e le responsabilitàpotevano sensibilmente variare a seconda dell’accordo, fatti salvi in ogni casoi diritti dell’usufruttuario « per contratto » (chengbaoren) di occupare e digodere delle utilità ricavate dalla gestione della terra, libero dall’ingerenza al-trui ma sempre soggetto al rispetto della titolarità pubblica del bene, dellaprotezione dell’ambiente e delle relazioni intercorrenti tra il medesimo, gli en-ti agricoli collettivi e le terze parti.

La similitudine con l’istituto dell’usufrutto viene confermata dalla nontrasmissibilità per via ereditaria del contratto, i cui effetti cessano necessaria-mente alla morte dell’usufruttuario. Meno definibile è la natura delle corre-sponsioni che il medesimo effettua in favore del titolare del diritto principale:l’usufruttuario per contratto deve, infatti, rispettare predeterminati target sta-tali relativi alla produzione ed alla vendita dei beni, pagare le tasse agrarie e

(27) Art. 81 (2).(28) Art. 82.(29) Art. 83.(30) Li e Quian, Preliminary Discussion of Our Country’s Civil Law in Real Things, in

Beijing University Rev. (Beijing Daxue Xuebao), 1987, 117, sostengono che i Principi gene-rali di Diritto Civile hanno costituito la base per lo sviluppo di un sistema socialista di dirit-ti reali.

(31) Chang, Rural Responsibility Production Contracts, in Law & Contemp. Problems,52, Summer 1989, p. 101.

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corrispondere gli eventuali pagamenti pattuiti con l’ente collettivo. Solo dopoaver adempiuto a tali obblighi potrà recepire l’intera rimanenza delle utilità.

Per quanto riguarda il diritto di sfruttare le risorse naturali pubbliche(caikuang quan), l’inconciliabilità con lo schema dell’istituto dell’usufrutto(le risorse naturali costituiscono beni consumabili) e la non percorribilità del-la soluzione di qualificare tale diritto come quasi-usufrutto (inconciliabile conil precetto della necessaria appartenenza allo stato delle risorse naturali in Ci-na, che di conseguenza non possono esser trasferite in proprietà ad altri sog-getti), ha determinato una sorta di impasse concettuale simile a quello che siverificava in relazione alla proprietà ed alla gestione delle imprese statali. Seda un lato le risorse della terra (ad es. minerali) non costituiscono frutti, masono parte integrante della terra medesima, e di conseguenza sono inalienabilinel sistema cinese, dall’altro lato difficilmente si poteva sostenere che la ces-sione di tali risorse a terzi soggetti da parte del titolare del diritto di sfrutta-mento non costituisse un trasferimento della loro proprietà (32).

Un’ultima norma disciplina le relazioni nell’ambito del vicinato, inseritanel contesto dell’elencazione dei diritti ma concernente la limitazioni di essinel prevalente interesse di evitare l’insorgere di dispute tra vicini. Già presen-te in codici dell’area asiatica ed in codici socialisti (33), tale disposizione de-termina il sorgere di diritti e doveri in capo a dei soggetti al fine di tutelare ilreciproco legittimo uso e godimento dei beni. Discusso è stato il riferimento ditale norma alle servitù, in parte riscontrato sulla considerazione che mentre infase di progettazione dei Principi Generali la disposizione si riferiva specifica-mente ai diritti di vicinato (xianglin quan), in sede di redazione del testo de-finitivo si è scelto di adottare la definizione di relazioni di vicinato, con l’uti-lizzo di un termine più ampio, probabilmente idoneo ad includere qualsiasirapporto insorgente tra le diverse posizioni soggettive dei vicini.

Una considerazione conclusiva può far da sfondo al presente paragrafo.Da un punto di vista storico, la scansione degli eventi ha fatto sì che i cinesipotessero avere già un modello di riferimento, in quello sovietico, riguardantela frammentazione dell’istituto della proprietà. L’elaborazione della teoricadelle forme di appartenenza in Cina si sviluppò di conseguenza anche sul pre-supposto della circolazione dei modelli derivanti dell’esperienza dottrinale elegislativa già intervenuta negli altri paesi socialisti europei ed asiatici. Presoatto di ciò, appare presumibile che le ragioni che hanno indotto il legislatorecinese a superare la concezione unitaria del diritto di proprietà (derivantedall’influenza del modello tedesco nei primi decenni del XX secolo) siano da

(32) E.J. Epstein, The Theoretical System of property Rights in China’s General Princi-ples of Civil Law: ..., op. cit., p. 191.

(33) Il Codice civile del Guomindang (art. 833) disponeva alcune limitazioni in ordineall’esercizio dei diritti previsti negli artt. 774-794, Codice civile giapponese (artt. 209-38),e per l’area socialista il codice civile della Repubblica Democratica Tedesca (ZGB) al capi-tolo sesto del IV libro, per quanto riguarda le relazioni tra vicini che avevano in uso dei be-ni immobili.

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ricercarsi anche nelle elaborazioni delle scienze giuridiche dei paesi socialistiche già avevano in precedenza affrontato e discusso le principali problemati-che riguardanti la titolarità di alcuni beni ed il rapporto tra le diverse formedi signoria. A loro volta, i giuristi sovietici degli anni ’20 alla ricerca di appi-gli teorici a sostegno dell’idea della scomposizione del diritto, probabilmenteguardarono ad altri modelli, tra i quali, in particolare, quello della proprietàdivisa elaborato nei sistemi di common law (34). Il modello tedesco, ed in par-ticolare la definizione del diritto contenuta nel § 903 del BGB, può esser stataritenuta eccessivamente sbilanciato in favore delle prerogative della volontàdel proprietario. Ciò ha portato, sul presupposto della forza dell’ideologia edelle condizioni storiche in cui sono intervenute le collettivizzazioni, al supe-ramento dell’unitarietà del diritto ed alla conseguente scomposizione tra ilmedesimo e le differenti forme di appartenenza e signorie di volta in volta le-gittimate o limitate in base all’impostazione ideologica prevalente del mo-mento.

4. — Il dibattito dottrinale sul tema si focalizzò prevalentemente sulla ri-cerca di qualificazioni giuridiche tali da legittimare l’autonomia delle impresestatali nell’ambito dell’economia pianificata. Questa autonomia deve essereconsiderata nel suo duplice aspetto di resistenza nei confronti dell’interferen-za degli organi amministrativi nella gestione delle attività produttive e di pos-sibilità di utilizzo della proprietà statale. Discendono da tale autonomia le re-lazioni intercorrenti tra i diritti dello stato, effettivo proprietario chiamato al-l’effettivo esercizio della proprietà della quale è formalmente titolare il popolointero, e quelli dell’impresa, titolare di un godimento immediato sui beni og-getto di proprietà statale.

Il discredito patito dalla dottrina che individuava lo stato quale soggettodi diritto rappresentato dai suoi stessi organi ed imprese e titolare della pro-prietà statale (35) ha comportato il conseguente accoglimento della nozione di« gestione operativa » (jingying guanli quan), quale manifestazione della si-gnoria in capo alle imprese statali sui beni di produzione a loro assegnati.L’elaborazione teorica di tale situazione di appartenenza si è sviluppata in Ci-na con una stretta corrispondenza con la nozione delineatasi in precedenzanel modello sovietico (36).

(34) G. Ajani, Il diritto dell’Europa Orientale, cit.; Crespi Reghizzi, L’impresa nel dirittosovietico, cit., p. 259.

(35) Tale teoria nell’U.R.S.S. fu superata anche grazie all’idea che gli organi dello statoe le imprese potessero risultare indipendenti soggetti di diritto tramite una riallocazionedella proprietà statale basata sulla distribuzione delle risorse economiche. Al riguardo G.Eorsi, Fundamental Problems of Socialist Civil Law, Budapest, 1970.

(36) Nella letteratura giuridica italiana sul diritto di gestione operativa cfr. G. Ajani, vo-ce Gestione operativa (nel diritto dei Paesi socialisti), in Dig. disc. priv. - sez. civ., VIII, To-rino, 1998, 710; Id., Il modello post-socialista, 1o ed., Torino, 1996, 114. Per quanto ri-guarda l’elaborazione teorica del relativo concetto cfr. A.V. Venediktov, La proprietà so-

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Quasi contemporaneamente, i giuristi cinesi tentavano di porre una mag-giore enfasi sul concetto di autonomia dell’impresa, raccogliendo la nozionedi autonomia economica dell’impresa sviluppatasi in Ungheria negli anni ’60(37). Tale definizione, sulla carta rafforzativa del mero diritto di gestione ope-rativa, fu per la prima volta introdotta nella legislazione cinese nel 1979 (38).Di fatto, però, i teorici cinesi del diritto non ragionarono in termini di sostitu-zione della prima nozione con quest’ultima, ma piuttosto tesero a continuaread utilizzare entrambi i concetti, differenziandone i relativi ambiti di applica-zione (39).

Il dibattito dottrinale riguardante la proprietà e l’autonomia delle impre-se non si esaurì nella formulazione delle predette nozioni, ma determinò unfenomeno di frammentazione ideologica che, solo approssimativamente, alcu-ni autori hanno ridotto alle seguenti tre principali correnti di pensiero: il di-ritto di gestione operativa è da considerarsi un istituto del diritto amministra-tivo o del diritto dell’economia; l’autonomia delle imprese può soltanto esserrealizzata tramite la creazione di nuovi diritti di proprietà; sia lo stato chel’impresa sono titolari di un diritto correlato alla proprietà (40).

Le posizioni concettuali relative al fondamento del diritto di gestioneoperativa sono state largamente influenzate dalla tensione esistente fra i so-stenitori della teoria del diritto dell’economia e quelli della teoria del dirittocivile (41). Considerato come il risultato dell’integrazione dell’attività ammini-

cialista dello stato (1948), Torino, 1953, traduzione di R. Sacco e V. Driso. Si vedano inol-tre, gli atti del Convegno tenuto a Tramezzo nei giorni 4, 5, 6 aprile 1968 « Problemi giuri-dici dell’impresa di Stato nei paesi socialisti », in R. d. comm., 1969, 1-2, 3-4, 5-6 - ParteI. Oltre alla citata dottrina, fanno riferimento alla diritto di gestione operativa G. Ajani-V.Loi, La nuova legislazione sovietica sull’impresa, le società e i titoli di credito, in questa Ri-vista, 1990, I, p. 755; O.S. Ioffe, Development of Civil Law Thinking in the URSS, Milano1989; S. Pomorski, The Future of the State Enterprise and the « Restructuring » of the Na-tional Economy in the URSS, in Tulane Law Rev., 1987, 1383; Migale, L’impresa sociali-sta. Tendenze delle riforme in atto in URSS, Polonia, Ungheria, Padova, 1989; Crespi Re-ghizzi, L’impresa nel diritto sovietico, Padova 1969.

(37) Sul diritto di autonomia economica dell’impresa cfr. G. Eoersi, op. cit.(38) Nel documento Norme concernenti l’espansione dell’autonomia della gestione ope-

rativa dell’industria statale, pubblicato nella Collection of Laws and Regulations of thePRC, Pechino, 1979, p. 249. Si vedano, inoltre, le Disposizioni provvisorie del Consiglio diStato riguardanti l’ulteriore espansione dell’autonomia delle imprese industriali statali, inCollection of Laws and Regulations of the PRC, Pechino, 1984, p. 479.

(39) E.J. Epstein, The Theoretical System of property Rights in China’s General Princi-ples of Civil Law: ..., op. cit., p. 197.

(40) E.J. Epstein, The Theoretical System of property Rights in China’s General Princi-ples of Civil Law: ..., op. cit., p. 198.

(41) Mentre la prima teoria nega ogni rilevanza del diritto civile nell’esplicazione delleattività economiche in un contesto di economia pianificata, la seconda sostiene che le rela-zioni economiche, sia nelle economie capitaliste che in quelle socialiste, sono regolamentatedall’assetto dei diritti di proprietà definito nell’ambito del diritto civile. Fattore di rallenta-mento del processo di codificazione del diritto civile in Cina, la dialettica delle due scuole di

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strativa dello stato e delle funzioni della proprietà statale, il diritto di gestioneoperativa viene utilizzato dai teorici del diritto dell’economia per descrivere egiustificare la naturale creazione in capo all’impresa di diritti e doveri finaliz-zati al perseguimento del piano economico. Alla conseguente negazione diogni relazione tra il diritto di gestione operativa ed il campo applicativo deldiritto civile (42), si contrappone la visione di chi sostiene che tale diritto siada inquadrarsi nell’ambito del diritto civile e che derivi direttamente dallaproprietà statale (43). Tale ultima impostazione dottrinale non consentì, inve-ro, uno sviluppo concettuale uniforme, dal momento che alcune teorie sorteper giustificare la gestione operativa sulla base dell’assetto civilistico hannoincontrato delle obiezioni formali radicate nello stesso terreno, quali l’ideache i diritti spettanti all’impresa derivassero necessariamente da un espressomandato dello stato, che provvedeva a circoscrivere e delineare le attività ed ilimiti di esercizio dei diritti medesimi, strumentalmente finalizzati al solo rag-giungimento degli obiettivi prefissati dagli organi di piano (44).

Parallelamente al travaglio concettuale riguardante il diritto di gestioneoperativa, i diritti spettanti all’impresa cominciarono ad esser oggetto di unaltro esperimento di nozionismo giuridico, tramite il tentativo di superarel’idea di gestione operativa, in quanto non idonea a chiarire le relazioni trastato ed imprese, e di attribuire in capo a queste ultime dei nuovi diritti. Lerelazioni tra i diritti spettanti allo stato e quelli delle imprese assunsero, divolta in volta, i contorni del rapporto tra proprietario e possessore (45), tranudo proprietario ed usufruttuario, tra Stato e impresa titolare di un diritto

pensiero ha costituito oggetto di studio da parte di Kato, Civil and Economic law in thePRC, 30, Am. J. Comp. L., 1982, p. 429. Per quanto riguarda l’evoluzione della scuola deldiritto dell’economia nell’U.R.S.S. cfr. Hazard, The Abortive Codes of the PashunakisSchool, in F. Feldbrugge (ed.), Codification in the Communist World, Leida, 1975, p. 145-175.

(42) Al riguardo si veda Liu Xiahoai, A Discussion on the Legal Nature of the PropertyRights of Our Country’s State Enterprises, in S. Jin e Y. Bing, (ed.), Selection of Essays onEconomic Law, Pechino, 1986, p. 157.

(43) Wang Liming e Li Shinong, A Discussion of the Question of State Ownership andEnterprises Owned by the Whole People, in China’s Social Sciences, 1986, p. 3, i quali so-stengono che il diritto di gestione consista in una delle funzioni della proprietà.

(44) Cheng Shou, A Tentative Discussion of the Legal nature of Our Country’s State In-dustrial Enterprises’ Operative management Right in State Property, in Selection of Essayson Economic Law, cit., p. 65.

(45) Jiang Ping - Kang Deguan - Tian Jianhua, The Property relations Between the Stateand the State-run Enterprise Should be the Relationship Between Owner and Possessor, inStudies in Law, 4, 1980, p. 6, secondo i quali lo Stato è titolare del diritto di proprietà deimezzi di produzione mentre l’impresa risulterebbe titolare di un diritto di possesso sui me-desimi beni. Secondo un autorevole fonte il diritto di possesso non potrebbe garantirebbeall’impresa una sufficiente autonomia gestionale in quanto non potrebbe includere in sé undiritto di disposizione. Sul punto Wang Liming, Problems Concerning Possession, the Rightof Possession and Ownership, in Faxue Pingun (Rivista del Dipartimento di Diritto del-l’Università di Wuhan), 1986, p. 15.

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d’autonomia, tra Stato ed impresa dotata di un diritto di gestione, tra lo statotitolare di una proprietà assoluta e l’impresa titolare di una proprietà relativa.

5. — La recente riflessione riguardante i diritti di proprietà si è svoltaprevalentemente nell’arena del diritto costituzionale, tramite una serie diemendamenti alla Costituzione del 1982 che, con l’ultimo di essi promulgatoil 14 marzo 2004, hanno portato al riconoscimento del principio dell’egualeprotezione delle differenti forme di proprietà, proprietà privata inclusa (46).Parallelamente, l’esigenza di formalizzare una completa disciplina riguardan-te i diritti reali (wuquan fa) è stata declamata dal Presidente Jiang Zemin inoccasione del 15o Congresso Nazionale del Partito Comunista cinese del 1997(47). Da qui la costituzione nel 1998, da parte del Comitato per gli Affari Le-gislativi del Congresso Nazionale del Popolo, di due commissioni incaricate diredigere due progetti di legge in materia, successivamente unificati in un uni-co documento nel 2001, finalizzati a chiarire le relazioni tra i vari attori eco-nomici in relazione ai diritti di proprietà (48).

Quale componente essenziale di una strategia finalizzata alla costituzionedi un’efficiente economia di mercato « socialista », il perfezionamento del re-gime giuridico in materia di proprietà ha costituito in seguito oggetto di ri-flessione politica per quanto riguarda le relazioni tra la proprietà statale equella privata, la pluralizzazione della struttura proprietaria dei beni pubbliciletta in corrispondenza con l’esigenza di proteggere la proprietà privata indi-viduale ed il ruolo dei governi centrali e locali in relazione alla proprietà sta-tale (49).

Il processo evolutivo del regime giuridico della proprietà ha manifestato,negli ultimi decenni, un aspetto dualistico, con principali attori la proprietàpubblica e quella privata. Da un lato l’attribuzione pubblica di alcune formedi proprietà è stata preservata, mentre la titolarità di alcuni diritti ad esseconnessi (il possesso, il diritto d’uso, il diritto di parzialmente usufruire diprofitti) è stata decentralizzata dal governo centrale ai governi locali, dal go-verno a enti diversi (commerciali e non) e, più in generale, da enti a cittadiniprivati. Dall’altro una serie di interventi legislativi (50), unitamente agli emen-

(46) Emendamenti alla Costituzione (Xianfa Xiuzhengan), 14 marzo 2004, artt. 10, 11e 13.

(47) Jiang Zemin, Report to the 15th CPP National Congress, Pechino, 1997(48) I lavori delle due commissioni furono rispettivamente coordinati da Huixing Liang

(appartenente all’Accademia Cinese delle Scienze Sociali) e da Wang Liming (dell’Univer-sità Popolare Cinese).

(49) Tali riflessioni programmatiche si riscontrano in Jiang Zemin, Report to the 16thNational Congress of the Chinese Communist Party (Build a Well-off Society in an All-ruo-nd Way and Create a new Situations in Building Socialism with Chinese Characteristics), 8novembre 2002.

(50) Ci si riferisce,in particolare, al complesso di norme che regolamenta le società stra-niere di investimento, tra cui si evidenziano la Legge sulle Joint Venture tra società cinesi e

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damenti costituzionali, ha determinato lo sviluppo crescente del settore priva-to i cui confini giuridici non sempre si rapportano con trasparenza con il con-solidato settore pubblico, soprattutto laddove centralizzato (51).

Dal punto di vista della riflessione teorica, alcuni autori hanno ravvisatonella decentralizzazione della titolarità e della gestione della proprietà pubbli-ca una sorta di privatizzazione informale ed occulta, i cui confini applicativisono determinati dal complesso delle mutevoli relazioni sociali e politiche diriferimento, costituendo un sistema più efficiente per una situazione di transi-zione economica e giuridica non ancora compiuta (52). Altri hanno osservatoche il dogma di una effettiva corrispondenza tra la previsione di un chiaro si-stema di diritti proprietari e lo sviluppo economico è stato contraddetto dal-l’esperienza cinese di sviluppo dell’economia rurale grazie anche all’elementoculturale della solidarietà e della cooperazione tra i gruppi di persone (53). Al-tri ancora hanno ritenuto che le ambiguità delle norme giuridiche in tema diproprietà abbiano consentito all’attuale sistema fondiario di funzionare nel-l’ambito di una riforma giuridica ed economica in evoluzione (54).

Se la Costituzione del 1982 non specificava la valenza giuridica del-l’economia privata, gli emendamenti costituzionali del 1988 hanno in se-guito riconosciuto il ruolo complementare del settore privato all’economiapubblica socialista (55) e nel 1999 i vari settori dell’economia non rientran-ti nella sfera del « pubblico » (proprietà privata inclusa) sono stati definitiquali principali elementi dell’economia socialista di mercato (se esercitatinei limiti previsti dalla legge) (56). Gli ultimi emendamenti del 2004 supe-

straniere (Zhongway Hezi Jingying Qiye Fa, del 1979, modificata nel 1990 e nel 2001), laLegge sulle società ad intero capitale straniero (Waizi Qiye Fa, del 1986, modificata nel2000), e la Legge sulle società cooperative tra cinesi e stranieri (Zhongway Hezuo JingyingQiye Fa, del 1988, emendata nel 2000).

(51) Per una compiuta analisi delle problematiche ricondotte al processo di delocalizza-zione del settore pubblico e dei relativi diritti di appartenza cfr. Frank Xianfeng Huang,The Path to Clarity: Development of Property Rights in China, in Columbia Journal OfAsian Law (Colum. J. Asian L.), 17, 2004, p. 191.

(52) Xiaobo Hu, Problem’s in China Transitional Economy: Property Rights and Tran-sitional Models, Singapore, 1988, e NEE, V., e Sijin Su, Institutions, Social Ties and Com-mitment in China’s Corporatist Transformation, in Reforming Asian Socialism: The Growthof Market Institutions, a cura di J. Mc Millian e B. Naughton, Michigan, 1996.

(53) M. Weitzman, Economic Transition: Can Theory Help?, in Eur. econ. rev. 37,1993, p. 549.

(54) P. Ho, Who owns China’s Land? Policies, Property Rights and Deliberate Institu-tionasl Ambiguity?, in China Quarterly, June 2001, p. 394.

(55) Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, art. 11, emendato nel 1988. Taledisposizione costituirà la base concettuale per la teoria del presidente Jiamg Zemin, per ilquale ogni forma di proprietà che contribuisca al miglioramento della produttività sociale edelle condizioni di vita della gente, deve esser utilizzata ai fini del socialismo. Cfr. Jiang Ze-min, Report to the 15th CPP National Congress, Pechino, 1997.

(56) Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, art. 11, emendato nel 1999.

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rano il mero riconoscimento dell’esistenza di settori differenti da quellopubblico, sancendo che i settori privati sono incoraggiati e sostenuti (57); intal modo si cristallizza nella politica nazionale cinese il concetto di non-di-scriminazione della proprietà privata (58).

L’influenza di tale principio si sentì, a partire dal 2002, sopratutto in rela-zione alla proprietà delle imprese statali, oggetto di un processo di pluralizza-zione (duoyouanhua) tramite un sistema di distribuzione delle quote di pro-prietà. L’evoluzione dell’assetto societario ha comportato una modifica nellastruttura e definizione delle società, non più a gestione statale (quojia qije), maad investimento statale (guojia touzi qiye), dove la proprietà statale si estendesino ad incontrare le quote in proprietà assegnate ad altri soggetti (59).

6. — Il tentativo di commento qui proposto si concentra sull’analisi delprogetto di legge del 2001 (60) (risultante da un bilanciamento delle posizioniespresse da Liang Huixing e Wang Liming, incaricati ognuno della redazionedi una prima bozza) e sulla verifica delle modifiche riportate nel testo del2005 (61), approvato dal Comitato Permanente del Congresso Nazionale delPopolo nel mese di giugno 2005.

L’analisi comparativa dei due progetti può forse consentire di mettere afuoco i principali temi di discussione che hanno ostacolato sino ad oggi l’ap-provazione della legge. Peraltro il lungo percorso della redazione della pre-sente legge era stato in verità programmato dalle autorità parlamentari cinesi,le quali avevano disposto che fossero redatte cinque bozze ufficiali del docu-mento (anziché tre) prima di sottoporre l’ultima di esse alla discussione edapprovazione definitiva presso l’organo supremo (62).

Per comodità espositiva l’analisi verrà effettuata concentrandosi su ogni

(57) Si veda sempre Jiang Zemin, Report to the 16th National Congress of the ChineseCommunist Part, cit., nel quale viene enunciato che i settori economici, in tutte le loro for-me, possono acquisire i loro reciproci vantaggi nell’ambito della concorrenza di mercato,stimolandosi in vista dello sviluppo comune.

(58) Frank Xianfeng Huang, The Path to Clarity: Development of Property Rights inChina, cit., 17, 2004, p. 201.

(59) Frank Xianfeng Huang, The Path to Clarity: Development of Property Rights inChina, cit., 17, 2004, p. 202, dove l’Autore sottolinea che in tale sistema la proprietà pub-blica e quella privata non solo sono egualmente protette, ma in pratica unite (ronghe).

(60) Il progetto è quello fornito (anche in traduzione inglese dal cinese) dalle autoritàparlamentari cinesi al GTZ (Deutsche Gesellschaft fur Technische Zusammenarbeit), in oc-casione del workshop sulla Property Law of the People’s Republic of China, tenutosi a Pe-chino il 24-25 settembre 2001.

(61) Il testo del progetto è quello riguardante in particolare le disposizioni in materia« commerciale » del giugno 2005 sulla Legge fondamentale in tema di proprietà, curato daPatrick A. Randolph, Kr., della UMKC, e da Lou Jianbou, della Peking University LawSchool (Condirettori del Peking University Center for Real Estate Law).

(62) China Daily, 11 luglio 2005.

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singolo capitolo (2001) o parte (2005) del testo (63), pur con i necessari rife-rimenti e collegamenti con le altre sezioni.

a) Principi generali.Questa parte, in entrambi i testi, contiene delle disposizioni generali ri-

volte a delineare lo scopo della legge, a definire i diritti ed i soggetti merite-voli di protezione da parte dell’ordinamento e le azioni a tutela dei dirittireali.

Alcune differenze di forma sono rivelatrici delle diverse vedute dei redat-tori. L’art. 1 del progetto del 2001 contiene una clausola generale assimilabi-le a quella dell’abuso del diritto e delinea gli scopi della legge. Un’ulterioredisposizione riferibile al concetto dell’abuso del diritto si trova nell’ampia for-mula di cui all’art. 5, la quale fa espresso riferimento al principio di buonafede ed al dovere di correttezza nell’esercizio del diritti reali.

L’art. 1 della bozza del 2005, tra gli scopi della legge, abbandona la fi-nalità della stabilizzazione delle relazioni inerenti ai diritti reali, rimettendosialla tutela dei diritti legittimi delle persone fisiche, giuridiche e delle altre or-ganizzazioni, al fine del mantenimento dell’ordine sociale e per la promozionedello sviluppo della « modernizzazione socialista » così modificando il prece-dente concetto di sviluppo di un’economia di mercato sociale contenuto neltesto del 2001.

Uno dei maggiori problemi interpretativi della bozza del 2001 consistevanell’utilizzo nell’art. 1 e nell’art. 5 del termine « interesse » senza alcuna spe-cificazione del medesimo. Così nell’art. 1 la protezione accordata si riferiscesia ai diritti legittimi, sia, in generale, agli « interessi » di determinati sogget-ti. E nell’art. 5 si riscontra il principio per cui l’esercizio dei diritti reali nonpuò recare pregiudizio agli interessi dello stato, sociali e pubblici così come ad« altri interessi ». Tale indeterminatezza pare parzialmente superata dal det-tato dell’ultima bozza in cui all’art. 1 si fa riferimento ai soli diritti legittimi eall’art. 5 in cui l’espressione « altri interessi » viene sostituita dall’esigenzache l’esercizio dei diritti reali non rechi pregiudizio ai « diritti ed interessi le-gittimi di altri ». Dall’analisi sistematica la clausola generale sull’abuso deldiritto, già contenuta nel testo del 2001, avrebbe forse dovuto comportarel’assorbimento di altre manifestazioni del principio contenute nel medesimotesto (64). Inoltre difficoltà interpretative possono sorgere, facendo riferimentoad entrambi i testi, in merito alla convivenza dell’enunciazione degli scopi

(63) I titoli dei capitoli del progetto di legge del 2001 e delle parti del testo del 2005 so-no quasi del tutto corrispondenti, con una piccola differenza riguardo al capitolo quarto,dedicato alle garanzie reali: 1) Principi Generali; 2) Proprietà; 3) Diritti reali di godimento;4) Diritti Reali di Garanzia, 2001 — Garanzie sui beni immobili, 2005 (ma con la previsio-ne anche del pegno); 5) Possesso.

(64) Si fa riferimento in particolare all’art. 157 (2001) riguardante le facoltà di eserci-zio della proprietà privata, laddove viene previsto che, sebbene nessuna organizzazione odindividuo possono interferire nell’esercizio di tale diritto, questo non dovrà minare gli inte-ressi dello stato, gli interessi sociali e pubblici, e « altri interessi ».

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della legge con la clausola dell’abuso del diritto. Per una maggiore chiarezzaespositiva e di contenuto sarebbe forse stato opportuno inserire la disposizio-ne contenente le finalità della legge in un preambolo e disciplinare in sede diPrincipi Generali la sola clausola (magari specificando il contenuto del con-cetto di buona fede e di correttezza).

Dubbi pone, ancora, la definizione di diritto reale offerta nei progetti inesame, nei quali si fa riferimento ad una diretta disposizione e controllo sulbene, così ponendo problemi di inquadramento sistematico per quanto ri-guarda ad esempio le garanzie reali che non presuppongono necessariamenteun controllo del bene da parte del garantito. Il legislatore cinese ha scelto afavore di una definizione generale dei diritti reali. Ciò pare porre problemi dicoerenza della definizione stessa. Sarebbe allora forse più opportuno redigeredefinizioni di ogni singola fattispecie.

I progetti dedicano ampio spazio alla disciplina della registrazione degliatti di trasferimento di diritti riguardanti i beni immobili. La costituzione edil trasferimento di tali diritti vengono subordinati al perfezionamento dellaregistrazione. L’attenzione viene riposta più sulla procedura e sulle competen-ze inerenti alla registrazione che sui requisiti dell’atto di trasferimento del be-ne, in relazione al quale non si riscontra un’espressa previsione che richiedala forma scritta e certificata. Parimenti non si riscontrano delle disposizioniche regolamentino l’eventualità che le parti, una volta stipulato il contratto ditrasferimento del bene immobile, non provvedano, o non possano provvedere,alla registrazione dell’atto (si pensi all’ipotesi di un ritardo incolpevole delleparti o ad un rifiuto di provvedere da parte delle autorità competenti). Il pro-blema viene inoltre evidenziato quando si mettono a confronto le disposizionidi cui agli art. 23 e 24 del progetto di legge del 2001. Il primo di essi ci diceche l’efficacia costitutiva del diritto si ricollega all’intervenuta registrazione. Ilsecondo, invece, pare riferirsi alla necessità della registrazione, solo a fini pro-batori, nel caso di modificazioni. Ciò farebbe supporre che modifiche riguar-danti l’assetto giuridico (e quindi anche della titolarità?) del bene immobilepossano esser efficaci già dal momento dell’avvenuto accordo tra le parti eche la successiva registrazione ricopra il solo ruolo di pubblicità legale, al finedi opporre ai terzi le intervenute modifiche.

Si evidenziano, inoltre, le disposizioni riguardanti il diritto di accesso aidati da parte dei titolari del diritto ed anche da parte delle « persone che nehanno interesse ». La pubblicità dei registri, strumentale al miglioramentodella trasparenza del sistema amministrativo, trova però un limite nella di-sposizione secondo la quale le autorità competenti per la registrazione hannol’obbligo di mantenere il segreto di stato, i segreti commerciali e proteggere laprivacy personale. L’introduzione nella bozza del 2005 dei nuovi concetti di« segreto commerciale » e « privacy personale », nozioni ambigue e non me-glio precisate nel contesto della legge, unitamente alla mancata precisazionedi chi può esser considerato « persona interessata », delineano il permanere diuna sensibile debolezza di un sistema nel quale rilevanti settori di informazio-

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ni continueranno a venire precluse all’accesso di un pubblico se non previa-mente selezionato dalle autorità amministrative.

Chi ha diritto alla registrazione dei beni immobili può chiedere, altresì, lacorrezione delle registrazioni errate ed il risarcimento degli eventuali conse-guenti danni. Non appare precisato se la liquidazione del risarcimento è ope-rata dalla stessa autorità amministrativa o se la misura di essa venga valutatadal giudice ordinario (unitamente alla valutazione della responsabilità deicompetenti organi amministrativi). Parimenti non viene precisato con esattez-za il periodo nel quale, una volta effettuata la contestazione riguardante l’er-roneità dei dati riguardanti la registrazione dell’immobile, viene interdetta alproprietario la possibilità di disporre del medesimo, così determinandosi unapossibile limitazione al pieno esercizio del diritto di proprietà (65).

Il trasferimento della proprietà dei beni mobili si perfeziona con la conse-gna del bene. Non si riscontra, nella relativa sezione ed in nessuno dei dueprogetti, una disposizione dedicata all’ipotesi di chi, in buona fede, acquistidal non proprietario. Nel progetto del 2005, inoltre, nuovamente si evidenziaun’indecisione normativa laddove, in tema di trasferimento dei beni mobiliregistrati, viene previsto che l’acquisto non può essere opposto ai terzi se nonregistrato. Dalla lettera della norma sembrerebbe validamente stipulato ilcontratto di compravendita di tali beni effettuato anche in forma non scritta enon registrato, con conseguenti incertezze riguardo ai titolari degli oneri assi-curativi di tali beni.

Nelle disposizioni dedicate alla protezione dei diritti reali, ripetutamente vie-ne asserito che in caso di violazione il titolare del diritto può ottenere un rimediotramite la conciliazione, lamediazione o la via giudiziale. Nel caso di contestazio-ni riguardanti la titolarità del diritto la « persona interessata », può proporre unapetizione tesa all’accertamento dei diritti. Non leggiamo più nel testo del 2005una riflessione sulla presunzione della titolarità del diritto reale. Il progetto del2001 (art. 46), prevedeva al riguardo l’attribuzione allo stato dei diritti di cui nonera chiara la titolarità. Questa norma aveva rilevanti effetti in relazione al dirittodi proprietà delle terre, dove la proprietà di gruppi familiari, collettiva e dello sta-to convivono nell’ambito di confini nonmeglio definiti.

b) La proprietà.I progetti attribuiscono al proprietario il diritto di possedere, di utilizza-

re, di disporre e di ricavare profitto dal bene (66). L’esplicita previsione diquest’ultima facoltà, evidenzia il superamento della preclusione dei profitti ditipo speculativo, già stigmatizzata e adesso considerata in modo neutrale, me-diante la cessazione della demonizzazione del profitto commerciale.

(65) Il progetto del 2005 prevede che l’istanza di correzione debba essere presentata al-l’autorità competente entro tre mesi dalla data di registrazione della contestazione riguar-dante l’erroneità dei dati. Non precisa il progetto se il limite di disposizione del bene si rife-risce alla presentazione della domanda di rettifica o se può estendersi oltre sino alla datadella pronuncia dell’autorità sulla contestazione, art. 20 bozza 2005

(66) Art. 57 (2001) ed art. 45 (2005).

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In un sistema in cui le differenti tipologie di forme di appartenenza simuovono in ambiti non molto definiti, creando talvolta delle sovrapposizionidi diritti di appartenenza sul medesimo bene, sarebbe stato consigliabile pre-vedere espressamente il diritto di escludere l’interferenza di altri soggetti dal-l’esercizio del diritto, specificando l’ambito della reazione del cittadino difronte all’interferenza effettuata da un altro cittadino, oppure da un organodella pubblica amministrazione.

La proprietà del suolo continua ad esser esclusivo oggetto di proprietàstatale o collettiva, con ciò ponendosi il legislatore cinese in una linea di con-tinuità con la dottrina marxiana che considera il suolo non un mezzo di pro-duzione, ma di precondizione della produzione. Il titolare di un diritto d’usosul suolo avrà il diritto di utilizzare e di disporre della superficie del medesi-mo, ed il diritto di utilizzo dello spazio sovrastante e sottostante il suolo, neilimiti di legge. Parimenti la proprietà delle risorse naturali è attribuita allostato e ai collettivi. Il richiamo generale ai limiti dettati da norme di legge la-scia permanere un senso di indeterminatezza, ma probabilmente il legislatorecinese non ha potuto fare a meno di regolamentare la materia tramite l’utiliz-zo di clausole generali richiamanti l’influenza del modello tedesco. In lineacon la tradizione socialista, il dettaglio delle regole operative viene lasciato al-la regolamentazione sub-legale e regolamentare (67).

Nessun accenno alla limitazione del diritto per finalità di protezionedell’ambiente è stato, ad esempio, introdotto nei progetti in esame, malgra-do le inevitabili restrizioni incidenti sull’esercizio del diritto di proprietà inmateria. Ciò potrebbe costituire un indizio rivelatore del fatto che il legisla-tore cinese ha avuto sott’occhio più i codici capitalistici liberali che non iprecetti delle costituzioni occidentali. Alcuni principi trattati in queste ulti-me non vengono di conseguenza traslati nel testo dei nuovi progetti di leggesulla proprietà.

Alcune modifiche in tema di definizione della proprietà intervenute nel2005 paiono non superare alcune difficoltà di natura classificatoria. Se nelprogetto del 2001 le manifestazioni del diritto di proprietà (possesso, uso,profitto e disposizione) venivano riferite ad una res, così apparentementeescludendo la previsione di un diritto di proprietà sui beni immateriali, nellabozza del 2005 il legislatore non fa più riferimento ad una res, ma riferisce ildiritto di proprietà ai soli beni immobili o mobili, non dissolvendo i dubbi dinatura sistematica.

Per quanto riguarda la protezione del proprietario in tema di illegittimainterferenza degli organi statali, entrambi i progetti regolano gli istituti dellaconfisca della proprietà e dell’espropriazione da parte dello stato. Le norme,

(67) Si veda al riguardo G. Ajani, Il modello post-socialista, Torino, 1996, p. 56 e ss., ilquale sottolinea come « a fronte del predominio teorico della legge formale il diritto sociali-sta ha convissuto con una realtà di frammentazione ed indeterminatezza della gerarchiadelle fonti alla quale né i discorsi dottrinali né i ciclici interventi di sistematizzazione han-no potuto porre rimedio ».

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di natura più pubblicistica che privatistica, fanno parte di quel più ampiocomplesso di disposizioni posto a garanzia del potenziamento dei diritti realiin Cina. Coniugando uno scopo di natura politica ed economica, pur necessa-riamente inserito in un contesto di regolamentazione giuridica, tali norme for-se potrebbero essere più opportunamente inserite nella parte dedicata ai Prin-cipi Generali.

Il dibattito al riguardo si è concentrato in particolare sui requisiti perl’esercizio dell’attività espropriativa dello stato. Secondo il progetto del 2001(68) lo stato poteva procedere all’espropriazione dei beni in proprietà dellepersone fisiche e giuridiche nei casi di emergenza; di qui i problemi nell’inter-pretazione di tale ultimo requisito in relazione all’uso comune del terminenell’ambito della pratica internazionale, soprattutto con riferimento all’even-tualità di disastri naturali od altre calamità. Nella bozza del 2005 il legislato-re cinese pare essersi orientato verso l’adozione del generale requisito dell’in-teresse pubblico, così parificando i presupposti per la confisca e l’espropria-zione, e facendo riferimento al concetto di equo indennizzo nel caso in cui icriteri di liquidazione non siano determinati dalla normativa di dettaglio. De-gna di rilievo appare anche la diversa collocazione delle norme riguardantil’espropriazione, le quali nel progetto del 2001 venivano collocate nell’ambitodei modi di acquisizione della proprietà (69), mentre nel nuovo documento fi-gurano tra le disposizioni generali.

Un posto di rilievo occupano, in entrambi i testi, le disposizioni riguar-danti la proprietà statale e collettiva (70). Per quanto riguarda la prima non siindividua ancora una netta distinzione tra lo stato che è titolare di situazionidi demanio pubblico (regolamentate principalmente dal diritto amministrati-vo) e lo stato che, titolare della proprietà pubblica, agisce come soggetto pri-vato. Parimenti poco chiara appare la definizione stessa di Stato, non essendoespressamente previsto se la titolarità del diritto possa esser direttamente at-tribuita ad organi statali locali, ai quali vengono normalmente delegate lefunzioni dispositive e d’uso derivanti dal possesso del diritto medesimo.

Nella definizione della proprietà statale e collettiva della bozza del 2005,lo Stato viene presentato quale protettore del sistema economico, del quale« la proprietà pubblica costituisce il principale tassello », così apparentemen-te relegando a posizioni giuridiche di second’ordine le altre forme di proprietà(71). La lettura di tale disposizione lascia intravedere dei dubbi di conformitàcon il principio di pari dignità delle forme di appartenenza espresso dai piùrecenti emendamenti costituzionali del marzo 2004. Il permanere di questeespressioni, probabilmente riferibili al linguaggio ed alla cultura politica tra-

(68) Art. 66.(69) Artt. 61-73.(70) Artt. 103-152 del progetto 2001.(71) Art. 50 della bozza 2005 relativa alle disposizioni di diritto commerciale della leg-

ge sulla proprietà.

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dizionale, lascia intravedere la tensione tuttora esistente tra le diverse correntidi pensiero politico, in conseguenza della quale i testi dei progetti di legge inesame rappresentano degli inevitabili compromessi.

La proprietà collettiva viene riferita a qualsiasi collettivo (e non ai soli « col-lettivi del popolo lavoratore »), e rileva soprattutto riguardo alla proprietà delleterre agricole situate nelle aree rurali. In particolare si evidenzia il profondo con-trasto tra la disciplina delle terre nelle aree rurali rispetto a quelle urbane (in rela-zione alle quali i collettivi non possono esser titolari di un diritto d’uso). La ten-sione si riscontra laddovemolte terre, in precedenza destinate ad un utilizzo agri-colo, vengono ora, nella fase di espansione delle città, inglobate nel tessuto urba-no. Le rivendicazioni sull’appartenenza di tale terre da parte dei collettivi si poneconseguentemente in contrasto con il nuovo utilizzo del suolo. Una soluzione pre-vista dal progetto del 2005 potrebbe consistere nella facoltà dei collettivi di darein locazione il diritto d’uso sul suolo a terzi soggetti, operazione possibile ancheper il perseguimento di scopi diversi dalla coltivazione. Così facendo si superereb-be il vincolo formale del divieto di cessione del diritto d’uso sul suolo a membrinon appartenenti al collettivo (72).

Per quanto riguarda la disciplina della signoria sui beni spettanti alle im-prese statali, i progetti non specificano se essi possono essere qualificati comediritti reali e se possono conseguentemente applicarsi anche a loro le disposizio-ni generali previste nella legge. Non sembrano, pertanto, ancora archiviate ledifficoltà di inquadramento sistematico di questa forma di appartenenza, tenu-to conto che elementi chiarificatori (quali una regolamentazione riguardante lacessazione di tali diritti o la legittimazione dell’impresa di agire in giudizio au-tonomamente per la tutela dei medesimi) non sono stati presi in considerazionedai progetti in esame. Ciò testimonia il fatto che ancor oggi in Cina la parolarappresenta un veicolo di forte valenza politica ed ideologica (73).

Coerentemente con l’evoluzione del dettato costituzionale il progetto del2005 riconosce formalmente il diritto di proprietà privata (74) (quale terzaforma di proprietà, unitamente a quella statale e collettiva), presentando unascarna disciplina focalizzata prevalentemente sulla tutela del diritto da ogniillegittima interferenza, rinnovazione od espropriazione illegittima. Alcune ri-flessioni sulle possibili implicazioni politiche e sociali di tale riconoscimentosaranno presentate nel paragrafo successivo.

Occorre qui inoltre ricordare la nuova disciplina del condominio offertadal progetto del 2005 (75), che tenta di individuare un autonomo diritto diproprietà differente dalle altre forme di comproprietà previste nel diritto cine-se (comproprietà indivisa e comproprietà per quote). La relazione tra le nor-

(72) Art. 59, bozza del 2005.(73) Il tema è stato ampiamente discusso negli Atti del Convegno di Tramezzo, 4-6

aprile 1968, Problemi giuridici dell’impresa di stato nei paesi socialisti, cit.(74) Art. 68 bozza del 2005.(75) Art. 72 bozza del 2005.

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me che disciplinano la comproprietà e quelle che regolano il condominio co-stituisce un momento delicato nella verifica del coordinamento tra principigenerale e norme di dettaglio della legge. Dovrebbero probabilmente ritenersiapplicabili al condominio le regole generali sulla comproprietà ad eccezionedi quanto previsto da disposizioni specifiche (come ad esempio non dovrebbeapplicarsi al condominio la norma relativa al diritto di prelazione del com-proprietario nel caso di vendita di una quota/parte del bene).

c) Diritti reali di godimento.Il progetto del 2001 prevede, tra i diversi diritti reali di godimento in es-

so disciplinati, una regolamentazione particolare riguardante i diritti d’usosul suolo, i contratti riguardanti il diritto di gestione sulla terra rurale e le ser-vitù.

In tema di regolamentazione delle servitù pare non esser previsto l’istitu-to dell’usucapione. Ciò rappresenta un segnale a favore del diritto di proprie-tà, rallentando la circolazione della terra al di fuori di quanto previsto dallalegge. Si vedrà in seguito, nella pratica, se si manifesteranno riconoscimentiacquisitivi diversi.

Ipotesi particolari di costituzione delle servitù non vengono contemplate,quali la costituzione a seguito della divisione del fondo da parte degli eredi diun singolo proprietario oppure la possibilità di costituire una servitù per vo-lontà testamentaria.

Per quanto riguarda il diritto d’uso del suolo, questo consiste nella possi-bilità di costruire degli edifici od installazioni sul suolo di proprietà dello sta-to e dei collettivi per una serie determinata di attività, con il conseguente di-ritto di esercitare il possesso, l’uso e di ricavare profitti da tali costruzioni.Non viene espressamente prevista la possibilità di utilizzare il diritto d’uso sulsuolo a scopo abitativo, ma in un’altra disposizione del progetto viene preci-sato che il diritto di proprietà del cittadino sulla propria abitazione non verràmeno a seguito dello scadere del termine finale previsto per il diritto d’uso sulsuolo (76). Il diritto si costituisce con la registrazione (77) e le modalità del tra-sferimento del medesimo variano a seconda del tipo di procedura di assegna-zione che è stata originariamente perseguita ed a seconda del soggetto titolaredell’uso.

In particolare, nel caso di assegnazione del diritto d’uso da parte dellostato ai sensi degli artt. 235-236 del progetto del 2001 (tramite una procedu-

(76) Art. 155, comma 2o, progetto del 2001. Anche in questo caso le norme non paionocoordinate. Un primo correttivo potrebbe esser rappresentato dall’introduzione nel testo dilegge dei rinvii nei vari articoli alle disposizioni che regolamentano materie connesse. Si no-ti, inoltre, che nell’art. 235, comma 2o, del progetto del 2001, disciplinante l’assegnazionedei diritti d’uso sul suolo, viene espressamente indicato che il titolare del diritto sarà legitti-mato ad usare la terra appartenente allo stato per lo sfruttamento del suolo e per attivitàproduttive, senza citare, in questo elenco dal carattere apparentemente imperativo, il dirittodi abitazione.

(77) Art. 240, progetto del 2001.

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ra d’asta e di pubbliche offerte), il titolare del diritto potrà trasferire il mede-simo tramite una vendita, una permuta od una donazione. Se il diritto d’usosulla terra viene, invece, assegnato direttamente, dietro l’approvazione del lo-cale governo del popolo, ad un utilizzatore della terra, questi non potrà utiliz-zare la medesima per ricavarne profitti personali, ma dovrà esercitarne unpossesso finalizzato al perseguimento del benessere sociale. Quest’ultima si-tuazione pone conseguentemente dei vincoli alla libera trasferibilità del dirittoin quanto si richiede il nuovo compimento delle procedure di assegnazione adun altro utilizzatore (78).

Laddove il diritto d’uso sul suolo sia riferito ad un collettivo, il trasferi-mento del diritto potrà avvenire solo dietro il consenso del proprietario delsuolo e successivamente all’esame ed all’approvazione da parte delle compe-tenti autorità amministrative (79).

Un ulteriore elemento di complessità della situazione consiste nell’obietti-va difficoltà di accesso alla consultazione dei registri nei quali dovrebbe risul-tare la prova della titolarità del diritto in capo al soggetto cedente. E ciò rile-va sia per quanto riguarda la tutela del cessionario del diritto d’uso del suolonel momento in cui si formalizza l’assegnazione, sia per quanto riguarda ilsoggetto garantito da ipoteca sul diritto d’uso sul suolo, il quale non ha inpratica quasi alcuna possibilità di verificare la reale titolarità del diritto d’usosul quale è stata iscritta la garanzia. Questo potrebbe consigliare di delinearein dettaglio una disciplina tesa a proteggere gli acquisti dei diritti d’uso sulsuolo effettuati in buona fede (descrivendo il contenuto di tale concetto in re-lazione alle diverse situazioni) e, parimenti, proteggere i soggetti titolari digaranzie reali sul diritto d’uso dalle difficoltà di accesso e dalle incertezze ri-guardanti le verifiche formali sulla titolarità dei diritti.

L’intero capitolo dedicato ai diritti reali di godimento, in entrambi i pro-getti in esame, presenta una marcata commistione di disposizioni riguardantila regolamentazione di tipologie contrattuali e di altre inerenti alla descrizio-ne dei diritti medesimi. Così trova una compiuta descrizione la vicenda con-trattuale della locazione del diritto d’uso sul suolo, probabilmente inserita nelcontesto della legge in esame in quanto gli effetti della locazione del dirittosono, nella sostanza, non molto dissimili da quelli del trasferimento del dirittomedesimo.

Riferiti alla realtà produttiva rurale, i contratti riguardanti i diritti di ge-stione della terra rurale, in realtà si presentano come istituto affine ai dirittid’uso sul suolo. Entrambi i diritti sono disciplinati da un contratto redatto informa scritta, con l’obbligo di registrazione, sono trasmissibili, possono esserdati in locazione, trasmettersi per via successoria, costituire oggetto di ipote-ca, sono limitati nel loro utilizzo dalle finalità espresse dalle relative disposi-zioni di legge e possono venire revocati per cause simili. In sostanza il concet-

(78) Si veda il disposto di cui agli artt. 237-244, comma 2o, progetto del 2001.(79) Art. 244, comma 4o, progetto del 2001.

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to di diritto di gestione della terra rurale potrebbe essere integrato nel piùampio concetto di diritto d’uso sul suolo, al fine di coordinare meglio le regoleconcernenti i due istituti che da un lato paiono ridondanti e ripetitive mentredall’altro mancano di chiarezza in quanto la linea di confine della concretaoperatività delle fattispecie non appare ben definita. Per quanto riguardal’espropriazione di tali diritti, il progetto del 2001 presenta delle disposizioniidentiche per ogni tipologia di diritto (80), nelle quali viene ripetuto il requisi-to della necessaria sussistenza di interessi sociali pubblici, quando nella partededicata ai principi generali della proprietà, l’art. 60 detta una norma gene-rale relativa all’espropriazione che avrebbe potuto costituire l’unico e suffi-ciente punto di riferimento per tutto il testo della legge.

d) Diritti reali di garanzia.I progetti non distinguono tra l’ipoteca su beni immobili da quella su be-

ni mobili. Poiché il diritto reale di garanzia diviene efficace con la registrazio-ne (art. 393 del progetto del 2001), l’effettivo ricorso a tale garanzia può es-ser limitato in un contesto, quale quello cinese, dove la registrazione dei benimobili appare ancora problematica. Parimenti non risulta disciplinata con ladovuta chiarezza l’ipotesi di divergenza tra il contenuto dell’atto di costituzio-ne dell’ipoteca e di quello dell’atto di registrazione costitutivo dei diritti ine-renti al bene immobile ipotecato, in relazione alla tutela del creditore e delleterze parti.

Viene prevista la possibilità di revoca dell’ipoteca nel caso in cui il debi-tore « cospiri » in mala fede con un creditore ai danni degli altri, iscrivendo infavore del primo un’ipoteca e saldando il debito con il medesimo ai danni deiterzi creditori. Il concetto di cospirazione in mala fede risulta ambiguo. Non èinfatti chiaro se sia sufficiente il fatto che un debitore conceda ipoteca su pro-pri beni ad uno solo dei propri creditori per legittimare gli altri a chiedere larevoca della garanzia reale o se debba concretizzarsi un pregiudizio effettivoai creditori. La prima soluzione potrebbe portare alla paralisi delle ipotechevolontarie, in quanto nessun debitore nel momento in cui concede un’ipotecaad un suo creditore può esser certo che tale evento non entri in collisione, an-che solo parzialmente, gli interessi degli altri creditori. Più coerentemente, do-vrà presumibilmente fornirsi l’effettiva prova della « cospirazione » ai dannidei creditori terzi, enunciando espressamente tale requisito nella relativa di-sposizione di legge (la quale, auspicabilmente, dovrà provvedere anche a deli-neare gli elementi costitutivi della fattispecie di cospirazione).

La strada scelta per la regolamentazione del pegno non contempla lapossibilità che il bene venga lasciato nel possesso del debitore, anzi il passag-gio del bene dalla sfera di controllo del creditore a quella del debitore è ogget-to di espresso divieto (81). Il bene viene di conseguenza estromesso dal proces-

(80) Art. 268 per quanto riguarda i diritti d’uso sul suolo e l’art. 293 in relazione ai di-ritti di gestione della terra rurale.

(81) Art. 460, progetto del 2001.

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so produttivo, con le conseguenti perdite di eventuali profitti derivanti dal suouso o disposizione, facoltà che vengono espressamente precluse anche al cre-ditore. Così impostato l’istituto, il pegno avente ad oggetto beni mobili avràuna sua rilevanza soprattutto a garanzia di crediti non rilevanti ed a brevetermine. Una maggiore fonte di garanzia viene probabilmente offerta dal pe-gno sui diritti (82), il quale consente l’utilizzazione di alcuni beni che perman-gono inseriti nel contesto produttivo ed economico (quali l’uso di ponti o digallerie concernente la possibilità di raccogliere i dazi per i relativi utilizzi).

Il creditore garantito dal pegno acquisisce un privilegio, che può costi-tuirsi anche tramite il possesso del bene in buona fede, indipendentementedalla titolarità del diritto principale sul bene da parte del debitore. Si richiedeal riguardo che il creditore sia semplicemente inconsapevole (83) del fatto cheil debitore che gli ha trasferito il possesso del bene non aveva in realtà alcundi diritto di disposizione sul medesimo. Un rilievo potrebbe esser mosso dalbasso grado di diligenza richiesto al creditore per la costituzione del privile-gio, che potrebbe in qualche misura confliggere con un grado di diligenzamaggiore richiesto in tema di acquisizione della proprietà.

e) Possesso.Degna di rilievo è la posizione attribuita all’istituto del possesso nel con-

testo dei due progetti di legge, in entrambi confinato, quasi residualmente, alquinto capitolo. La percezione del possesso quale istituto estraneo ai dirittireali in senso stretto può aver spinto il legislatore cinese a perseguire la pre-sente impostazione sistematica, anche se difficilmente il possesso, quale prere-quisito essenziale per la comprensione di molti degli istituti e delle regoleenunciate nel testo della legge, avrebbe potuto trovare una collocazione piùconsona nell’ambito dei principi generali, laddove la parte generale disciplinail trasferimento dei beni oggetto del diritto di proprietà senza previamente of-frire una definizione del possesso.

Nella definizione offerta dall’art. 566 del progetto del 2001 il possesso èembrionalmente collegato al potere del possessore di amministrare ed utiliz-zare il bene. Una simile definizione non tiene conto dell’eventualità che il pos-sesso possa essere riferito a dei diritti (possesso del diritto di servitù o di usu-frutto) o possa essere esercitato mediatamente.

Vengono inoltre definite le diverse tipologie di possesso con riguardo al-l’elemento soggettivo del titolare del diritto. L’art. 559 del progetto del 2001

(82) Si vedano in particolare le disposizioni di cui agli art. 494-511 del progetto del2001. Tra i diritti suscettibili di costituire oggetto di pegno sono indicati i certificati di de-posito, gli assegni bancari, i diritti del creditore che sono trasferibili per legge, le quote ed icertificati di titoli che sono trasferibili per legge, il diritto all’uso esclusivo del marchio, i di-ritti di proprietà relativi a brevetti ed a diritti d’autori che sono trasferibili per legge, i dirit-ti relativi alle riscossioni derivanti dall’attraversamento di ponti e gallerie o dall’utilizzo dialtri beni immobili (art. 494).

(83) Una delle traduzioni ufficiali del progetto di legge del 2001 traduce il concetto conil termine « unaware » (art. 515).

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offre una definizione del possesso in buona fede ed in mala fede. Secondoquesta disposizione la mera negligenza è sufficiente qualificare il possesso co-me in mala fede, quando in generale per tale attribuzione è necessario il ri-scontro di una grave negligenza. Problemi di coordinamento del contenutodel concetto di buona fede si rendono pertanto necessari nell’ambito dei pro-getti di legge, nei quali a più riprese si fa riferimento ai medesimi. Preferibilesarebbe la collocazione nei principi generali di un’unica norma di riferimentoin materia con conseguente eliminazione di tutte le ripetizioni ancora esistentinell’ultima bozza del 2005.

7. — Qual è la rilevanza dell’attuale fase di riforma dei diritti di apparte-nenza rispetto all’attuale cammino della Cina verso la legalità (84)? Il tema sipone in stretta connessione con l’analisi del considerevole sviluppo economicointervenuto in Cina a partire dal 1978, considerato un’eccezione alla più ge-nerale considerazione che la legalità, e quindi la relativa garanzia della previ-sione di un effettivo sistema di diritti proprietari, costituiscano il presuppostoindispensabile di tale sviluppo.

Se la corsa verso la legalità è sospinta anche, se non soprattutto, daobiettivi di carattere economico, l’anomalia cinese potrebbe presentarsi appa-rente, in quanto condizionata, in primo luogo, da un concetto tradizionale dilegalità differente da quello espresso dalla cultura giuridica occidentale (85).

Si potrebbe, ad esempio, supporre che nel sistema cinese degli ultimitrenta anni la situazione relativa alla legalità ed all’efficacia delle forme diappartenenza non sia stata così deficitaria come, invece, è apparso agli occhidel giurista occidentale. Oppure, la valutazione dello stato della legalità in Ci-na potrebbe forse tenere conto delle specificità ed unicità del sistema, tali daconsentirne uno sviluppo importante proprio perché caratterizzato dall’esi-stenza di zone « franche » interstiziali del sistema giuridico, funzionali a con-sentire il funzionamento di un’economia ancora condizionata dalle scelte poli-tiche (86).

Poiché la crescita economica della Cina dipende anche dall’attitudine de-gli investitori stranieri, potrebbe costituire oggetto di un’interessante indagineverificare se l’effettività dei diritti di appartenenza condizioni l’attività im-

(84) Sullo stato di diritto in Cina si vedano le opere di K. Turner (ed.), The Limits ofthe Rule of Law in China, Washington, 2000 e R. Peeremboom, China’s Long MarchToward Rule of Law, Oxford, 2002. Si segnala, tra gli altri, anche il meno recente B.

Schwartz, On Attitudes Toward Law in China, in Government under the Law and Indivi-dual, a cura dell’American Council of Learned Societes, Washington, 1957.

(85) Sull’evoluzione del concetto di legalità in China cfr. R. Peeremboom, op cit., p. 26ss. Per quanto riguarda la dottrina italiana, preziose indicazioni sono contenute in R. Sac-

co, voce Cina, cit., in M. Timoteo, Il contratto in Cina e Giappone nello specchio dei dirittioccidentali, cit., ed in R. Cavalieri, La legge ed il rito, op. cit.

(86) Il problema è evidenziato, in generale, da R. Teitel, Transitional Jurisprudence:the Role of Law in Political Transformation, in Yale law jour., 106, 1997, p. 2009.

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prenditoriale, o se, invece, quest’ultima non riesca comunque a rinvenire delleidonee garanzie alternative offerte in altro modo dal sistema (87).

L’aspetto culturale, inoltre, condiziona sensibilmente le istanze di legalitàdei cittadini cinesi (88). In tema di diritti di appartenenza e diritti d’uso delsuolo, gli agricoltori potrebbero preferire un sistema debole di protezione deidiritti reali, tale da consentire ai funzionari locali un esercizio dell’allocazionedelle terre più conforme alla tradizione locale o che tenga conto dell’incre-mento dei membri di ciascun nucleo familiare. Fidate relazioni sociali trafunzionari e cittadini, infatti, rappresentano un’alternativa alla garanzia chepotrebbe esser offerta da una rinnovata legalità (89).

D’altro canto, la spinta verso la legalità potrebbe esser frenata anchedai medesimi funzionari statali, i quali, nel momento in cui nelle campa-gne viene diffusa la conoscenza dei nuovi diritti, sono consapevoli del ri-schio che si verifichi un sensibile aumento del contenzioso. La previsionedi chiari e trasparenti diritti di appartenenza non metterebbe comunque alriparo dall’eventualità che per l’esercizio e la tutela dei medesimi i cittadi-ni resuscitino un modello di composizione delle liti affidato ad organi poli-tici, piuttosto che tecnici. Il raggiungimento della legalità in prima istanza,si troverebbe così frustrato dal successivo utilizzo di rimedi informali e di-screzionali.

8. — Dal punto di vista della politica economica, l’esperimento di svilup-po cinese riguardante in particolar modo la proprietà delle terre appare uni-co, anche per ambizione, rispetto agli altri paesi (ex socialisti), che ormai datempo hanno intrapreso il cammino della transizione economica. Un mercatodelle terre, in proprietà e sotto il controllo dello stato, che proibisce la pro-prietà privata sulle medesime ma al contempo incoraggia un mercato « me-diato » tramite la possibilità di locare o di trasferire i diritti d’uso sulle terremedesime. Questa particolare situazione (che presenta forti affinità con la re-golamentazione giuridica del suolo in Vietnam) appare ancor più complicatadal delicato rapporto tra la proprietà collettiva e quella statale, che ha dato epresumibilmente darà luogo al sorgere di rilevanti conflitti.

La Costituzione della Repubblica Popolare Cinese del 1982 agli articoli 9e 10 determinava la sfera di competenza, in quanto alla titolarità di diritti diappartenenza, tra stato e collettivi nel campo della proprietà delle risorse na-turali (attribuite allo stato a meno che non risultino per legge in determinaticasi attribuiti ad un collettivo, con conseguente onere della prova della titola-

(87) Sugli investimenti stranieri in Cina cfr. Yanrui Wu, Foreign Direct Investment andEconomic Growth in China, Northampton, 1999.

(88) Sul tema cfr. T. Stephens, Order and Discipline in China, Seattle, 1992.(89) A.E.S. Tay, Communist Visions, Communist Realities, and the Role of Law, in Jour-

nal of Law and Society, 17, 1990, 155. Della stessa autrice cfr. anche The Struggle for Lawin China, in University of British Columbia Law Review, 21, 1987, p. 562.

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rità del proprio diritto in capo al collettivo medesimo) e delle terre destinateall’uso agricolo (riferite alla proprietà collettiva tranne che nei casi in cui unanorma di legge non ne attribuisca espressamente la proprietà allo stato, conconseguente inversione dell’onere della prova rispetto alla situazione prece-dente). Le terre situate nelle aree urbane per definizione veniva attribuita allostato, nel senso che i collettivi non potevano essere titolari di un diritto di pro-prietà su tali beni.

La potenzialità di conflitti non pare esser stata risolta dal dettato dei pro-getti di legge in esame. Poco è cambiato rispetto alla situazione precedente(rispetto alla quale occorre fare riferimento non solo al dato costituzionale maanche alla Legge sull’amministrazione del suolo e relativi emendamenti) inmateria di regolamentazione dei diritti di appartenenza sulle terre destinateall’agricoltura (tranne forse un’incrementata possibilità di ricavare profittimediante l’utilizzo delle medesime, ma sempre nell’ambito dello schema delladisponibilità mediata da contratti di trasferimento o locazione).

Al riguardo si possono, a parer mio, evidenziare alcuni punti critici chepermarrebbero nel caso di approvazione di un testo con i medesimi requisitidei progetti del 2001 e 2005, così come possono esser evidenziati alcune nuo-ve (delicate) probabili conseguenze nell’ambito del sistema giuridico ed eco-nomico dal riconoscimento della proprietà privata, che potrà probabilmentetrovare un più ampio respiro di applicazione tramite una rinnovata interpre-tazione costituzionale degli emendamenti del marzo 2004.

Per quanto riguarda i punti critici, mi pare permanga l’indeterminatezzadella definizione della proprietà collettiva (90). Se tale vaghezza descrittiva

(90) La Costituzione della Repubblica Popolare cinese include nella categoria generaledella proprietà pubblica la proprietà statale e la proprietà collettiva, senza offrire alcunadefinizione in merito a quest’ultima forma, sebbene citata in numerose disposizioni (Costi-tuzione della Repubblica Popolare Cinese, artt. 6, 8, 10, 17, emendamento del 1999). Ilraccordo tra le norme costituzionali e la disposizione di cui all’art. 74 dei Principi Generalidel Diritto Civile pone ulteriori problemi di interpretazione, riferiti alla figura delle « masselavoratrici » quali titolari di tale diritto (Wang Liming, Research on Civil and CommercialLaw, Pechino, 2001, il quale osserva che la titolarità della proprietà collettiva può in teoriaesser riferita ai fondatori o investitori, al collettivo medesimo od a tutti i membri della col-lettività congiuntamente, propendendo per quest’ultima conclusione), figura che, come ab-biamo visto pare formalmente abbandonata nei progetti della legge sui diritti reali, i qualifanno riferimento ai soli collettivi senza ulteriori specificazioni.

La regolamentazione della proprietà collettiva ha costituito parte del dibattito riguar-dante la redazione del progetto di legge sui diritti reali, evidenziando le due principali posi-zioni concettuali in merito: lasciare che la materia venga interpretata e meglio delineata permezzo delle leggi che si riferiscono alla disciplina delle organizzazioni commerciali, oppureinsistere sulla distinzione e separazione della regolamentazione riguardante la proprietàstatale e la proprietà collettiva, sul presupposto dell’attribuzione della titolarità non al col-lettivo in sé ma a tutti i membri nell’ambito di un’organizzazione dal carattere di parteci-pazione democratica (Le diverse posizioni sono attribuibili a Wang Liming per quanto ri-guarda il mantenimento di una tradizionale diversificazione di disciplina tra proprietà sta-tale e collettiva (si veda al riguardo Wang Liming, Proposta di progetto di legge sulla pro-prietà e chiarimenti (Zhongguo Wuquanfa Cao’an Jianyigao ji Shuoming, Pechino, 1997)),

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può esser considerata funzionale ad evitare conflitti su larga scala (la consa-pevolezza della titolarità del diritto spinge gli interessati a reclamarlo), in ve-rità il problema ha le sue profonde radici nella ripartizione tradizionale dellaproprietà collettiva in diversi livelli. Qual è il livello a cui viene attribuito ildiritto sulla terra agricola? La confusione sulla titolarità dei diritti si spingesino alla scarsa percezione del diritto medesimo da parte dei collettivi, ele-mento che pare poter avvantaggiare le autorità statali locali ad intraprenderedelle procedura di spossessamento delle terre ai fini della pianificazione dellemedesime o per consentire l’ampliamento delle terre destinate alla costruzionedegli immobili urbani (in verità, anche questo secondo problema potrà essereforiero di future tensioni sociali).

È stato affermato (91) che l’indeterminatezza istituzionale in questo cam-po può esser considerata il « lubrificante » che consente al sistema economicocinese di correre. L’ambiguità delle regole consente di conseguenza al sistemadel regime giuridico relativo alle terre di funzionare efficacemente nei varistadi di sviluppo della riforma economica. Non pare, di conseguenza, fuoriluogo parlare di una sorta di deliberata ambiguità del dato legale e delle nor-me concernenti le relazioni istituzionali, le quali, in attesa di pagare un pro-babile tributo in termini di conflitti sociali futuri, per il momento consentonoal sistema economico e giuridico di plasmarsi secondo le contingenze politichedi medio termine.

I progetti di legge non paiono porre il sistema al riparo dai conflitti tradiversi organi di stato (chi rappresenta lo stato nel caso di disputa con un col-lettivo in materia di terre rurali? La transazione operata da un’autorità stata-le locale è vincolante per il potere centrale che in tema di proprietà delle terreha sempre perseguito una politica accentratrice (92)? Quali i titolari dei dirittisul suolo dei vari collettivi che sono derivati dal precedente sistema dei tre li-velli e, conseguentemente, quali sono i soggetti collettivi legittimati a recla-mare formalmente la terra nel caso di interferenza da parte delle autorità sta-tali?).

Buona parte di questa ambiguità potrebbe, pertanto, riscontrarsi anchesuccessivamente all’approvazione di una nuova legge sui diritti reali. Moltadell’incisività del diritto di proprietà privata dipenderà probabilmente dalla

a Liang Huixing per la tesi che poggia sulla necessità di utilizzare l’esistente legislazione inmateria di organizzazioni imprenditoriali. Tesi descritta in Frank Xianfeng Huang, The Pa-th to Clarity: Development of Property Rights in China, cit., 17, 2004, p. 201). La mancan-za di chiarezza in materia pone dei problemi in relazione al controllo della gestione e all’ef-ficiente disposizione dei beni collettivi. Temi quali la tutela dei singoli membri e la necessi-tà di identificare organi di rappresentanza del bene collettivo dotati della sufficiente snel-lezza decisionale evidenziano problematiche simili a quelle che si riscontrano nell’ambitodel diritto societario. Di qui la posizione di chi intenderebbe disciplinare l’istituto tramite leleggi preposte alla regolamentazione delle attività delle società commerciali.

(91) P. Ho, Who Own’s China Land?, op cit., 400.(92) Tale politica è stata espressamente perseguita dalla rivisitata legge sull’ammini-

strazione delle terre del 1986.

578 ANDREA SERAFINO

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presenza o meno di dettagliate norme e procedure sottese alla protezione deldiritto stesso in tutti i possibili frangenti e l’assenza di reuisiti ulteriori (di na-tura politica, sociale ed economica) tesi a dare una maggior legittimazione al-l’azione a tutela della proprietà.

Parimenti sembra non del tutto chiaro il concetto di proprietà privata chepotrà adottare il legislatore cinese. Un diritto espresso in un concetto unitariodella proprietà, che convive con le peculiarità della proprietà statale e colletti-va, od altro diritto di pari grado a queste ultime, anch’esso dai confini pocodefiniti, potenzialmente generatore di nuovi e diversi conflitti? Il riconosci-mento della proprietà privata forse risponde ad una duplice funzione: di sti-molatore del mercato nelle prossime fasi dello sviluppo economico, ma anchedi una sorta di emenda, considerate le pregresse situazioni di arricchimento edi sviluppo economico in Cina (i cosiddetti original sin), realizzatesi tramiteoperazioni interstiziali dal carattere speculativo che ricordano da vicino i cosìdenegati sistemi capitalistici occidentali.

Un’ultima riflessione potrebbe esser fatta in tema di qualificazione del si-stema politico ed economico cinese, una volta introdotto e riconosciuto for-malmente il diritto a suo tempo negato. O il sistema si spingerà verso una si-tuazione di ulteriore e sofisticata ambiguità (inserendo un nuovo diritto, manon eliminando le incertezze sull’effettiva operatività del medesimo), o ci sidovrà porre probabilmente un problema di definizione del sistema medesimo.Potrà risultare interessante verificare quanto la connotazione « socialista »,adoperata oggi sia a livello istituzionale che economico, si mantenga qualetassello identificativo irrinunciabile oppure si affievolisca per lasciare il passoa nuove definizioni maggiormente coerenti con una struttura economica indi-rizzata verso un sistema, seppur asiatico, di capitalismo.

IN TEMA DI DIRITTO DI PROPRIETÀ IN CINA 579

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P A R T E I I a

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C O M M E N T I

INTENZIONE DEL LEGISLATORE ECULTURA DELL’INTERPRETE.

IN MARGINE AD UNA RECENTE DECISIONEIN MATERIA DI PROCREAZIONE ASSISTITA

Sommario: 1. Il caso. — 2. Criteri e significati. — 3. L’intenzione del legislatore. — 4. Auto-re e interprete.

1. — Il problema della fedeltà dell’interprete alla legge (1) ha a che fare,per molti versi, con questioni legate agli ambiti di autonomia interpretativache viene consentita dai diversi sistemi ermeneutici; e questa affermazionepotrebbe sembrare ovvia. Ma, ad una successiva approssimazione al proble-ma si può scoprire che non è affatto scontato che una maggiore autonomiaconcessa all’interprete significa minore fedeltà di costui verso il testo scritto, eviceversa. Piuttosto, in generale, si può dire che « può esistere un’estetica del-l’infinita interpretabilità dei testi poetici che si concilia con una semiotica del-la dipendenza dell’interpretazione dalla intenzione dell’autore, e ci può essereuna semiotica dell’interpretazione univoca dei testi, che tuttavia nega la fedel-tà all’intenzione dell’autore e si rifà piuttosto ad un diritto alla intenzione del-l’opera » (2).

In che termini allora la fedeltà del civilista alla legge dipende dal suo ri-spetto della intenzione del legislatore? L’argomento della fedeltà alla legge sitrova combinato con quello del rispetto della intenzione del legislatore, comecanone esclusivo ed autonomo di interpretazione (3), in una recente decisione(4), resa nell’immediatezza dell’approvazione della legge sulla fecondazioneassistita che, tra le altre regole, contiene il divieto di crioconservare e di sop-primere gli embrioni.

In breve, si faceva questione del se una coppia di portatori talassemici,facendo ricorso alla fecondazione assistita, potesse o meno farsi impiantaresolo gli embrioni sani e non quelli malati.

La legge non prevede espressamente la sorte degli embrioni malati, macomunque vieta di sopprimere o conservare qualsiasi embrione. Il giudice ri-

(1) Sul tema v. Mathieu-Paoletti, Il problema della fedeltà ermeneutica, Roma, 1998.(2) Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano, 1990, p. 24.(3) In realtà, da un lato, il canone dell’intenzione del legislatore non è necessariamente

un canone autonomo, ossia un canone che consente di sorreggere da sé la soluzione, senzabisogno di combinarsi con altri argomenti; per altro verso, anche quando viene usato comecanone autonomo ed esclusivo di interpretazione, esso è suscettibile di usi alternativi. Vedisul punto Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, p. 150 ss.

(4) Trib. Catania, 3 maggio 2004, est. Lima.

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solve il problema dicendo che in quel generale divieto rientrano tutti i casi, eche dunque la legge impone di impiantare comunque l’embrione malato nelmomento stesso in cui ne impedisce ogni altro uso (soppressione o crioconser-vazione). Per arrivare a questa conclusione egli si affida ai lavori preparatoridella legge, in base ai quali deduce che il caso oggetto del suo esame era statodibattuto in parlamento, dove alcuni parlamentari avevano proposto di esclu-dere dal divieto proprio gli embrioni malati, così da poterne evitare l’impian-to e la conseguente nascita di un bambino affetto da malattie, ma osserva chel’emendamento era stato respinto, segno che il legislatore ha preso in conside-razione l’ipotesi e l’ha scartata.

Il ricorso ai lavori preparatori ha qui un duplice rilievo, perché da un latoserve a ricostruire la volontà del legislatore (5) in un senso affatto particolare,poiché non è usato per individuare ciò che il legislatore ha detto, bensì ciò cheha voluto dire ma non ha detto (6); in secondo luogo in quanto il richiamo,attraverso i lavori preparatori, alla intenzione del legislatore è espressamentefatto per sottolineare l’obbligo di fedeltà alla legge da parte dell’interprete,tanto che l’estensore afferma che: « l’“intenzione del legislatore” ha in questomomento in questa materia il suo più grande rilievo e la sua elusione, da par-te di ognuno che deve applicare la legge, costituirebbe grave violazione delfondamento stesso della democrazia, facendo sovrano l’interprete in luogo dellegislatore ».

La fiducia nell’intenzione del legislatore quale autonomo ed esclusivo cri-terio di interpretazione ha, nel caso della sentenza in questione, un argomentoin più nella circostanza di essere la legge di recente approvazione, e dunquedi non avere ancora subito quel processo di oggettivazione del suo significatoche segue alla successione e ripetizione degli atti interpretativi nel tempo (7).

In che termini, allora, l’interprete della legge civile che intenda rimanerefedele al suo dettato può avvalersi del canone della intenzione del legislatore?Ed inoltre, in che termini, avvalendosene, può dirsi che egli sia un interpretefedele alla legge? Infine, l’interprete che aspiri al rispetto della intenzione dellegislatore, è un interprete fondamentalista, ossia uno che intende imporre deltesto una sola ed escludente lettura, quella che, per l’appunto, è suggeritadalla intenzione del legislatore, oppure è un interprete che apre il teso a diver-se possibili letture?

(5) Ed il criterio è usato in tal senso dalla giurisprudenza, v. da ultimo Cass., sez. un.,26 gennaio 2004, n. 1338, in F. it., 2004, I, p. 693; Cass., 17 gennaio 2003, n. 654, inRep. F. it., 2003; Cass., 16 marzo 1996, n. 2238, in Rep. F. it., 1997.

(6) L’intenzione contrafattuale « è quella che si può congetturalmente attribuire al legi-slatore in relazione a fattispecie che si conviene la legge non abbia disciplinato...mentrel’intenzione fattuale è un argomento per selezionare un significato... l’intenzione contrafat-tuale è una tecnica per colmare lacune », così Guastini, op. ult. cit., p. 152.

(7) Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, p. 366 sostiene, del resto, chel’argomento che fa leva sull’intenzione del legislatore è tanto più efficace quanto più recen-te è l’approvazione della legge.

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A quest’ultima domanda si può in un certo senso rispondere subito, poi-ché essa introduce il senso del discorso ulteriore, e si può cioè dire che, inastratto, l’interprete che segue l’intenzione del legislatore non necessariamen-te deve essere portato ad attribuire al testo un significato univoco, potendocredere che l’autore stesso ha voluto affidare al testo infiniti significati. E tut-tavia nelle declamazioni sul tema, sembra affiorare un modello ideale di in-terprete della intenzione del legislatore, inteso come uno che ritiene che taleintenzione sia univoca. Questo modello è, a ben vedere, più ideologico cheteorico.

2. — Per quanto possa dirsi il contrario, è invece fondata l’idea di matri-ce ermeneutica della distinzione dei criteri interpretativi dai significati inter-pretati, o meglio, l’idea che l’interpretazione deve essere guidata da un crite-rio indipendente da ciò che si interpreta (8). In tal senso l’intenzione del legi-slatore costituisce il significato che della legge l’interprete mira a cogliere,piuttosto che il criterio tramite il quale arrivare a quel significato; è il risulta-to dell’interpretazione quando questa adotta determinati criteri (lavori prepa-ratori, lettera della legge, ecc.), e da tali criteri va dunque distinta.

Ma questa affermazione, l’essere cioè l’intenzione del legislatore l’ogget-to della conoscenza e non il mezzo con cui pervenirvi, comporta una primaaffermazione circa l’autonomia dell’interprete e l’inevitabile scelta valutativache lo muove. Infatti, se l’intenzione del legislatore non è un criterio di in-terpretazione, ma è direttamente ciò che si interpreta (facendo, si ripete, usodi determinati criteri, ed in primis, dei lavori preparatori), allora il ricorsoalla intenzione del legislatore non si giustifica in base a regole che indicanol’adeguatezza del criterio interpretativo rispetto al fine da perseguire (essen-do l’intenzione stessa il fine), bensì si giustifica in base a precise ragioni dipolitica del diritto, prima fra tutte l’idea della fedeltà dell’interprete al vole-re del legislatore. Un criterio interpretativo (letterale, storico, pragmatico)può essere preferito ad un altro se consente di meglio raggiungere il risultatointerpretativo cui si mira (9). La razionalità del criterio interpretativo consi-

(8) V. Moore, Interpreting Interpretation, in Marmor, Law and Interpretation, Oxford,1995, p. 9 il quale si riferisce alla tesi di Hart, che rinviene: « a set of rules that give thecriteria for tex-individuation independent of knowing the meaning of the test ». Ma v. Leperplessità di Viola, Intenzione e discorso giuridico: un confronto tra la pragmatica lingui-stica e l’ermeneutica, in Ars Interpretandi, 1998, p. 67 e p. 72 s.

(9) V. a tale proposito Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981,p. 66 ss., p. 77 ss. il quale distingue (nelle pratiche interpretative) una metodologia dei me-todi, consistente nello scegliere preventivamente un metodo di indagine, accettando poi ilrisultato al quale tale metodo conduce, ed una metodologia dei risultati, che invece consistenello scegliere un risultato desiderato, per poi giustificarlo in base al metodo che consentedi raggiungerlo. Che il metodo segua il risultato, anziché precederlo, è una delle tesi di Pa-reyson, Estetica, 3a ed., Firenze, 1974, p. 316: « le poetiche fissate in programmi che prece-dono l’arte sono solitamente sterili, mentre più feconde appaiono quelle che “seguono” l’ar-te già realizzata, di cui esse non fan altro in fondo, che proporre l’intrinseca e pregante

COMMENTI 405

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ste nella sua adeguatezza allo scopo; nessun pragmatista che si rispetti inter-preta una norma esclusivamente o prevalentemente secondo il suo significatoletterale. Così, se l’intenzione del legislatore è il risultato da perseguire(piuttosto che uno strumento per altri risultati), allora se ne può contestarela razionalità, sul piano della politica del diritto, in un senso diverso daquello che invece porta a giudicare della razionalità dei mezzi interpretativi.In altri termini, l’intenzione del legislatore può essere intesa come un mezzorispetto ad un fine che non è di conoscenza, ma è di politica del diritto, os-sia il fine di fedeltà alla volontà del legislatore; ed è di questa strumentalitàche semmai va valutata la razionalità. Da tale punto di vista occorrerebbeverificare se si tratta di un criterio che realmente consente il rispetto dellavolontà del legislatore, piuttosto che un criterio che viene soltanto presentatocome tale, e che invece dissimula scelte valutative dell’interprete non menoautonome di altre.

La risposta coinvolge questioni di carattere più generale che non si pos-sono affrontare nell’ambito di queste brevi osservazioni, e tuttavia almenodue aspetti del problema inducono alla conclusione che il ricorso alla inten-zione del legislatore è soltanto un espediente retorico per affermare la fedeltàalla legge, fedeltà invece apparente, mentre l’interprete resta libero di perse-guire un propria politica del diritto.

3. — Un primo argomento viene dalla necessità di stabilire che cosa si in-tenda per intenzione del legislatore, e dunque quale è l’oggetto che l’interpre-tazione mira a conoscere. Senza entrare nel merito del significato della espres-sione, basta solo osservare che le soluzioni proposte al riguardo sono tante ediverse tra loro.

L’interpretazione che privilegia l’intenzione dell’autore risulta assai diffu-sa in ambienti di common law (10), specialmente con riferimento alla interpre-tazione della legge costituzionale (11), ed in quegli ordinamenti proprio la va-

esemplarità ». Ma v. anche Bagolini, La scelta del metodo nella giurisprudenza (Dialogotra giurista e filosofo), in R. trim. d. proc. civ., XI, 1957, p. 1054 ss. Su questo scritto le os-servazioni di Tammelo, On the Lawyer’s search for contect with the philosopher (reflectionson Luigi Bagolini’s thoughts on the communication between the lawyer and the philo-sopher), in Journ. Leg. Ed., 1961, p. 441 ss. Il Bagolini, infatti, è sostenitore dell’idea che lascelta del metodo giuridico sia solidale con il risultato perseguito e ribadisce questa opinio-ne, discutendo più in particolare della struttura dell’argomentazione, in Cultura e scienzadel diritto, in R. trim. d. proc. civ., 1962, p. 9 ss.

(10) V. di recente, in Inghilterra, Pepper v. Hart, 2All. E.R. (1993).(11) V., in vario senso, Grey, Do We Have an Unwritten Constitution?, in Standford

Law Rev., 1974-1975, p. 703 ss.; Triebe-Dorf, On Reading the Constitution, Harvard-Cambdridge, 1991; Hart Hely, Democracy and Distrust, Harvard-Cambdridge, 1980, p.42 ss.; Berger, Governement by Judiciary, Harvard-Cambridge, 1977, p. 117 ss. e p. 407ss. Rakove (ed.), Interpreting the Constitution: The Debite Over Original Intent, Boston,1990. Ma vedi, al contrario, Dickerson, The Interpretation and Application of Statues, Bo-ston, 1975, p. 68 ss.

406 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE

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rietà delle opinioni dimostra che il criterio in questione più che avere un precisofondamento ermeneutico, è frutto di una chiara opzione ideologica (12). A vol-te, anzi, si tende a dire che la questione dell’intenzione del legislatore è eminen-temente politica, e che dunque è inutile cercare una soddisfacente spiegazionelinguistica o teorica di questo problema (13).

Gli « intenzionalisti » avvertono la difficoltà di dimostrare che l’inten-zione del legislatore è qualcosa di conoscibile e di univocamente accertabile,per la nota obiezione che si tratta della volontà di un ente collettivo fruttodella mediazione di volontà diverse all’interno della assemblea legislativa(14), e ricorrono ad eterogenee visioni dell’intenzione del legislatore. C’è chidice che i gruppi hanno una psiche propria, distinta da quella dei membriche la compongono e dunque hanno una propria volontà (15); c’è poi chi, ri-correndo ad una finzione, concepisce l’intenzione del legislatore come l’in-tenzione di un singolo autore (16); c’è chi propone di considerare come in-tenzione del legislatore o quella della maggioranza (17), oppure di quel ri-stretto gruppo di persone che ha effettivamente partecipato alla redazionedella legge (18), ed in entrambi i casi, il problema non è risolto, ma solo spo-stato, poiché si pongono per la maggioranza o per i redattori gli stessi pro-blemi che si pongono per la individuazione della volontà del legislatore lata-mente inteso. Ovviamente se si seguono questi tentativi, non può tacersi ilfatto che uno dei maggiori problemi che si frappongono alla ricostruzionedella intenzione del legislatore è costituito dal fatto che i membri del gruppolegislativo spesso condividono le stesse intenzioni semantiche, ma hanno di-verse intenzioni linguistiche, e viceversa (19). E che inoltre le intenzioni non

(12) Sul sottofondo ideologico di questo metodo interpretativo, v. Tarello, La semanti-ca del neustico.Osservazioni sulla parte descrittiva degli enunciati normativi, in Studi inmemoria di Widar Cesarini Sforza, Milano, 1968, p. 780. Una particolare opzione ideologi-ca sul ruolo della intenzione del legislatore è quella di Hurd, Interpreting Authorities, inMarmor (a cura di), Law and Interpretation, cit., in particolare p. 425 ss., la quale sostieneche l’intenzione del legislatore è solo un criterio guida per perseguire scopi morali. L’A. af-ferma espressamente che nel caso in cui le intenzioni del legislatore non forniscono ragionimorali per l’azione non vincolano l’interprete (426).

(13) Dworkin, Questioni di principio, (trad. it.), Milano, 1986, p. 45.(14) In argomento è spesso citato Paulson, Attribuire intenzioni ad entità collettive, in

Ars Interpretandi, 1998, p. 67. Ma v. pure Diciotti, Interpretazione della legge e discorsorazionale, Torino, 1999, p. 398 ss.

(15) Silvy, A Plea for a Law of Interpretation, in Univ. Penn. Law Rev., 1950, p. 499, p.510, che risale a Chipman Gray, The Nature and Sources of the Law, Boston, 1921, p. 170.

(16) Bice, Rationality Analisys in Constituional Law, in Minn. Law. Rev., 1980, p. 26ss.

(17) Un’idea simile sembra avere Raz, Autority, Law and Morality, in Monist, 1985, p.295.

(18) McCallun, Legislative Intent, in Yale Law Journ., 1966, p. 754.(19) Su questa serie di problemi Dworkin, Questioni di principio, cit., p. 40 ss.; Easter-

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sono, per loro natura, oggetto di interpretazione, in quanto sono stati men-tali, o meglio, fatti, che non si interpretano, mentre ciò che si interpreta èinvece il significato, e quindi il testo (20).

L’indeterminatezza di ciò che si intende per intenzione del legislatore ègià un primo indice per valutare la razionalità di tale concetto rispetto alloscopo, di politica del diritto, volto ad affermare la fedeltà dell’interprete allalegge. E non si può non condividere l’affermazione che « il concetto di inten-zione del legislatore è una costruzione interpretativa e non già una presa d’at-to di uno stato di fatto » (21), il che vuole dire anche che è necessaria « unatesi interpretativa di ciò che deve contare come intenzione del legislatore, ap-plicando la quale si perverrà a sua volta alla elaborazione di criteri interpre-tativi per identificare i significati veicolati dalla pratica giuridica » (22). Nelseguire dunque l’intenzione del legislatore, l’interprete compie inevitabilmen-te delle scelte volte a stabilire cosa si intenda per legislatore, quale sia il crite-rio per ricostruirne la intenzione, e quanto in questo criterio contino le que-stioni semantiche, quelle strettamente convenzionali e via dicendo. Con laconseguenza che le teorie sulla intenzione del legislatore, non solo nascondonoun metodo creativo, che si esprime nella ricerca di tale intenzione (23), ma so-no esse stesse l’esito di una scelta di valore, quella di ritenere, a torto o a ra-gione, come meramente dichiarativo il ruolo dell’interpretazione.

Evidentemente valutativo è in tal senso l’argomento di chi ritiene che èpreferibile seguire l’intenzione del legislatore, (qualunque essa sia, è il caso diaggiungere) per la ragione che si tratta della intenzione di un soggetto esper-to, in grado di fornire una direttiva migliore rispetto a quella che l’interpretepuò ricavare da sé (24). È una posizione che chiaramente non esprime un’este-tica, quanto piuttosto una politica della « intenzione del legislatore », e chemanifesta dunque tutto il suo sottofondo ideologico.

In realtà, le direttive del legislatore non possono concepirsi come direttivedi un soggetto esperto, almeno non nel senso stretto del termine. Una smenti-ta di questo assunto deriva pure dalla concezione sistemica di Luhmann, dacui si può ricavare che il legislatore, nel porre la norma, si pone egli stesso co-

brook, Statues Domains, in Univ. Chicago Law Rev., 1983, p. 547 ss.; Hurd, Sovereignty inSilence, in Yale Law Journ., 1990, p. 945 ss.; Viola, Intenzione e discorso giuridico, cit., p.67 s.

(20) Viola, op. ult. cit., p. 66 s.(21) Viola, op. ult. cit., p. 69.(22) Viola, op. loc. ultt. citt., p. 69; ma anche Dworkin, Questioni di principio, cit., p. 64.(23) Osserva giustamente Hurd, Interpreting Authorities, in Marmor (ed.) Law and In-

terpretation, cit., p. 423, che la ricostruzione della intenzione del legislatore altro non è cheun procedimento di creazione.

(24) Marmor, Interpretation and Legal Theory, Oxford, 1992, p. 172, che sfrutta chia-ramente un argomento di Raz, The Morality of Freedom, 1986, p. 53 il quale in sostanzaafferma che la autorità di un soggetto su un altro si giustifica per il migliore risultato che ladirettiva del primo consente di realizzare.

408 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE

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me interprete dei bisogni sociali, e che conseguentemente chiama l’interpretedella legge a verificare se e fino a che punto quella norma è in grado di risol-vere i problemi in vista dei quali è stata posta (25). È noto che, secondo Luh-mann, data la complessità della realtà, il legislatore non può assumere deci-sioni assolutamente vincolanti, ma deve tenere aperta la possibilità che vi siaun adattamento, suggerito da una diversa (o migliore) conoscenza del proble-ma nel momento applicativo: « in breve, il legislatore ragiona in base ad unadinamica adattativa a fronte delle emergenze mai del tutto prevedibili dellasocietà. Il legislatore contemporaneo nel produrre la norma non può ignorarela contingenza del reale » (26).

Un secondo aspetto dell’uso retorico dell’argomento della intenzione dellegislatore si manifesta proprio nei casi in cui l’interpretazione della norma èfatta per risolvere un caso concreto, piuttosto che per una astratta conoscenzadel suo significato. Nella soluzione del caso concreto possono conferire regolericavabili da norme diverse, alcune applicabili direttamente al caso, altre ri-chiamate come argomento di giustificazione o di verificazione. Chiaro esempiodi questa eventualità è proprio la decisione catanese citata in precedenza. Nelcaso sottoposto a quel giudice, infatti, veniva in considerazione una regola trat-ta da una norma direttamente applicabile al caso, ossia la norma sulla feconda-zione assistita, ma anche una regola tratta da una norma che non riguardava ilcaso sotto esame, ma che viene invocata dall’estensore per sorreggere la suaconclusione, e quindi a scopo argomentativo: vale a dire la norma sulla interru-zione di gravidanza. Se più regole sono utilizzate per risolvere un caso concreto,un interprete che volesse attenersi alla intenzione del legislatore dovrebbe in-tendere ciascuna di tali regole secondo, per l’appunto, l’intenzione del legisla-tore che le ha prodotte. Per fare ciò però egli deve fare i conti con la eventualitàdi più intenzioni e di intenzioni diverse, non tanto nel loro contenuto quantonel loro significato. Per essere più chiari, non fa opera di fedeltà alla legge uninterprete che si attenga alla intenzione soggettiva o storica del legislatore nel-l’intendere una delle regole applicabili al caso sottopostogli, ma che contempo-raneamente fa ricorso alla intenzione oggettivata, ossia allo scopo oggettivodella legge, quando richiama le altre regole, pure, in vario modo, applicabili alcaso concreto. Per non dire della eventualità che egli intenda secondo l’inten-zione del legislatore una norma ed invece faccia ricorso ad altri criteri per in-tendere le altre norme applicabili al caso da decidere. Se si risolve il caso dellafecondazione assistita, intendendo la legge che direttamente lo governa in basealla intenzione storica (o soggettiva) del legislatore che la ha emanata, e, nelcontempo, si argomenta, per sorreggere la conclusione presa, dalla legge sul-l’aborto, intesa invece secondo la sua ragione oggettiva, si fa opera di interpre-tazione creativa, e si dimostra che il richiamo alla intenzione del legislatore èpuramente retorico e non è fatto per dimostrare fedeltà interpretativa.

(25) S. Natoli, Intenzione e norma, in Ars Interpretandi, 1998, p. 62.(26) S. Natoli, op. ult. cit., p. 63 e nota 34.

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4. — Quest’ultimo rilievo ne introduce un altro. Nel campo giuridico au-tore e lettore (o interprete) hanno uno statuto particolare, non sono gli stessisoggetti che agiscono nella struttura narrativa (27). Non possono valere alloraper l’interprete della legge alcune libertà che valgono per quello di un testoletterario, o poetico ecc. La legge non è una comunicazione estetica, semmai,dal punto di vista della suddetta relazione, è una comunicazione semantica.

Ma proprio questo è il punto. A volte il problema è condizionato da undualismo assolutamente rigido: se il campo ermeneutico è limitato al testo edall’interprete le impostazioni oscillano tra la prevalenza dell’uno e quella del-l’altro. Prevalenza del testo non sempre vuol dire privilegiare l’intenzione delsuo autore, poiché si può supporre una coerenza interna al testo, che non di-pende dalla intenzione di chi lo ha redatto, ma che è da sola la causa di ciòche il lettore si figura leggendo o interpretando (28). Tuttavia possiamo defini-re testualiste le posizioni « intenzionaliste » perché esse, all’interno di questadicotomia, si propongono come tesi che privilegiano il testo rispetto all’inter-prete.

Da un certo punto di vista posizioni simili corrispondono anche a deter-minate concezioni della verità del linguaggio, in particolare a concezioni cheprivilegiano la nozione di verità come corrispondenza tra il testo e qualcosa(un significato) che sta al di fuori di esso, nel caso di specie l’intenzione del-l’autore: per cui l’interpretazione di un testo è vera se corrisponde alla inten-zione dell’autore. Dunque, l’idea del linguaggio come rappresentazione, piut-tosto che, in un senso che qui si preferisce, del linguaggio come pratica sociale(29). Una concezione che privilegia il fondamento, o la presenza del testo (perdirla con Peirce, la presenza del significato), piuttosto che gli effetti che il suouso ed i suoi significati hanno nella pratica sociale.

All’opposto, ma sempre all’interno di concezioni che limitano il campoermeneutico al testo ed al lettore, si collocano le posizioni più radicali che ne-gano ogni ruolo alla intenzione dell’autore, per sottolineare il carattere costi-

(27) Sono noti i tentativi di accomunare il procedimento interpretativo della legge aquello di un testo letterario. Uno degli aspetti più interessanti dell’accostamento tra lettera-tura e diritto, è quello di pensare a strutture narrative del conoscere, che valgono sia perl’una che per l’altra pratica. Sul punto, ad esempio, Dworkin, Questioni di principio, cit., p.194 ss. e la risposta di Posner, Law and Literature. A Misunderstood Relation, Cambridge,Mass., 1988, p. 258 ss.

(28) Sono posizioni che Rorty, Conseguenze del pragmatismo, Milano, 1986, p. 160 de-finisce di pragmatismo debole, in contrapposizione a quelle tendenze di lettura che invecepresuppongono un interprete che ricostruisce il testo in vista dei propri fini, e che l’A. defi-nisce come posizioni di pragmatismo forte.

(29) Patterson, Law and Truth, New York-Oxford, 1996, pp. 3-22 distingue concezio-ni realiste e antirealiste della verità. Le prime caratterizzate dall’idea che il mondo influenziil linguaggio e dunque che questo in tanto è vero in quanto riflette il mondo come realmen-te è; le seconde caratterizzate dalla idea che è vero ciò che corrisponde all’accordo di unadeterminata comunità. Entrambe sono dunque incentrate sulla idea della verità del lin-guaggio come corrispondenza a qualcosa che lo rende vero.

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tutivo della ricezione, e fare quindi dell’interprete il vero arbitro del significa-to (30), impostazioni che non sono lontane da quelle decostruzionistiche diDerrida. Secondo Derrida un testo ha inevitabilmente natura testamentaria,con conseguente scomparsa del suo autore. Ma, una volta che sia scomparsol’autore, il lettore non ha più l’obbligo di fedeltà ad una intenzione assente(31). In realtà, per Derrida, ogni lettura sposta il testo in avanti, oltre le inten-zioni dell’autore. Nella semiosi illimitata di Peirce ogni segno rimanda ad unaltro (in base a determinati criteri di somiglianza) così che si instaura una ca-tena infinita.

In un certo senso, si può dire che il mondo per chi interpreta è un insieme disegni, che compongono una catena indefinita di significato, come nella semiosi il-limitata di Peirce (« un segno è qualcosa conoscendo il quale conosciamo qualco-sa di più ») (32). Da questo punto di vista, se è vero che un segno rimanda ad unaltro secondo una catena che può sembrare infinita, anche se solo virtualmente, èanche vero che nel corso di un processo semiotico ci interessa sapere solo ciò che èrilevante all’interno di un determinato universo di discorso (33).

Il che significa che ciò che ci interessa in un testo, dunque anche in quel-lo giuridico, è quanto il testo è in grado di dire in accordo con i significatipropri di una comunità interpretativa; ed in ciò consiste l’idea che il significa-to di un testo non sta nella sua corrispondenza con qualcosa, e quindi nean-che con l’intenzione del legislatore, ma semplicemente nel suo uso (34). L’in-tenzione è ciò che l’autore vuole all’interno di significati condivisi (35). Così,se taluno dice di volere giocare a tennis deve ammettere che il gioco del tennis

(30) Si tratta della cosiddetta critica orientata verso il lettore (reader response critici-sm), di cui è originario esponente Stanley Fish, che, da iniziali applicazioni di questa teoriaalla critica letteraria è passato poi a sostenerne la validità anche in riferimento alla inter-pretazione giuridica. Si veda in particolare Fish, Is There a Text in This Class? The Autho-rity of Interpretive Communities, Cambridge, Mass., 1980 (trad. it.), Torino, 1987, in par-ticolare p. 107 ss. e p. 170 ss.; Id., Doing What Comes Naturally. Change, Rhetoric, andthe Practice of Theory in Literary and Legal Studies, Oxford, 1989, p. 356 ss. Di particola-re interesse è la polemica di Fish con Dworkin, il quale ha sostanzialmente criticato le tesidel primo in Questioni di principio, cit., pp. 179-205 e pp. 287-313. Fish, dal canto suo,ha risposto in Wrong Again, in Texas Law Rev., 1983, p. 299 ss. e in Working on the ChainGang: Interpretation in Law and Literay Criticism, in Mitchell (a cura di) The Politics ofInterpretation, Chicago, 1983, p. 249 ss. Si può dire che la tesi di Stanley Fish è essenzial-mente basata sulla idea che non ci sono regole interpretative vincolanti, poiché le regole in-terpretative a loro volta hanno bisogno di essere interpretate (Fish, Doing, ecc., cit., p. 121,ma anche Levinson, Law as Literature, in Tex. Law Rev., 1981, p. 373 ss.). Il testo non hadunque un significato proprio, ma ha piuttosto il significato che gli impone il lettore, ilquale lo legge alla luce di modelli interpretativi che sono scelti in base ad una personale as-sunzione e ad un personale scopo.

(31) Derrida, Della grammatologia (trad. it.), Milano, 1969, p. 31 ss.(32) Peirce, Collected Papers, Cambridge-Harvard, 1834-1948, 8, p. 332.(33) Eco, I limiti dell’interpretazione, cit., p. 327.(34) Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, 1967, p. 33.(35) Viola, op. ult. cit., p. 57.

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è ciò che per tale si ritiene convenzionalmente. L’intenzione dell’autore rilevasolo nella volontà di giocare a tennis, non già nel significato di cosa sia il ten-nis, significato che è dato dagli usi sociali del termine. Allora, per capire ciòche il parlante intendeva dire, è necessario riferirsi alla sua intenzione oppurea ciò che comunemente si intende per gioco del tennis, che è una circostanzache non fa parte dell’intenzione dell’autore?

La risposta dovrebbe essere che la conoscenza di ciò che ha detto il par-lante non è solo conoscenza della sua intenzione (che è semplicemente quelladi voler giocare a tennis), ma è piuttosto conoscenza di un significato condivi-so, ossia di cosa si intenda per gioco del tennis (36). Il senso del comprenderedunque non viene dalla intenzione ma da qualcos’altro. Diceva Wittgensteinche tra l’ordine e la sua esecuzione c’è un abisso, che deve essere colmato dalcomprendere (37). La caratteristica del discorso giuridico è di non essere undiscorso faccia a faccia (cui dedica attenzione la pragmatica) (38), bensì di es-sere un discorso fissato in un testo. A differenza della pragmatica, che si inte-ressa della conversazione, l’ermeneutica giuridica si occupa del testo come at-to di una determinata pratica sociale.

Torna allora il rilievo fatto in precedenza. La soluzione di una controver-sia civile, o la tutela di una situazione giuridica soggettiva implicano una atti-vità interpretativa diversa da quella che può essere la sola relazione tra unautore ed un testo, in quanto implicano il riferimento ad una serie di dati chel’interprete trova nella pratica giuridica, intesa come pratica linguistica. L’in-terprete chiamato a risolvere un caso di fecondazione assistita non può limi-tarsi ad intendere il testo della legge in base alla supposta intenzione di chi laha emanata, ma deve argomentare la sua conclusione dall’insieme delle regoleche la pratica sociale, chiamata diritto, ha elaborato intorno a quel tema, ecosì ha fatto del resto l’estensore della sentenza catanese, che ha sorretto ladecisione del caso argomentandola in base ad una serie di altre nozioni, dalsignificato della legge sulla interruzione della gravidanza, al significato da at-tribuirsi al diritto alla salute, e via dicendo.

Anche per il giudice catanese, che fa obbligo di fedeltà alla legge, dun-

(36) Viola, op. loc. ultt. citt.(37) Wittgenstein, op. ult. cit., p. 168.(38) Sostiene Dworkin, Questioni di principio, cit., p. 49 ss. che l’interpretazione giuri-

dica si distingue da quella conversazionale, che consiste nel comprendere quello cheun’altra persona dice, e che è un tipo di interpretazione « intenzionale », in quanto mira aconoscere il pensiero autentico dell’autore. Egli sostiene una visione dell’interpretazioneche, per certi versi, può ritenersi creativa, in quanto postula oltre a due fasi cognitive, os-sia rivolte ad individuare la regola ed i valori che la ispirano, una terza fase, dominatadal ruolo dell’interprete, nella quale questi interviene sul contenuto della regola allo scopodi fornirle il miglior significato possibile in vista di una ottimizzazione della tutela dei di-ritti. Su questo aspetto del pensiero di Dworkin, v. Schiavello, Diritto come integrità: in-cubo o nobile sogno?, Torino, 1998, p. 126 ss.; Chiassoni, L’antiscetticismo panglossianodi Ronald Dworkin, in Materiali per una storia del pensiero giuridico, 1987, I, in partico-lare p. 222 ss.

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que, l’intenzione del legislatore è solo una base di partenza per la soluzionedel caso, dal momento che egli, in pieno rispetto del gioco linguistico in cuiconsiste il diritto, usa una serie di argomenti che vengono assunti dal giudicenel significato che secondo lui viene loro conferito dalla comunità interpreta-tiva (39). Ed è nell’uso retorico di tali argomenti, compreso quello che fa levasull’intenzione del legislatore, che si dimostra l’autonomia dell’interprete.

Giuseppe Cricenti

Giudice del Tribunale di Roma

(39) Ma questa conclusione non è poi nemmeno tanto lontana da una impostazione se-miotica di tipo pragmatico, come quella rinvenibile in Peirce, Collected Papers, cit., V, p.517 il quale ritiene che stabilire cosa significhi un testo vuol dire prendere una decisionecoerente con le letture successive che di quel testo farà una comunità interpretativa. Conse-guentemente, un significato sorge quando una data comunità è indotta a concordare su unainterpretazione, concordanza che rende quel significato privilegiato, proprio in quanto in-tersoggettivo, rispetto a qualsiasi altra interpretazione ottenuta senza il consenso della co-munità. Sul punto resta un dato di partenza l’intuizione di Nietzsche, La Gaia scienza, inOpere, a cura di G. Colli-M. Montanari, 5, t. 2, Milano, 1991, p. 183 per la quale « uno so-lo ha sempre torto, ma con due comincia la verità. Uno solo non può dimostrarsi, ma duegià non possiamo confutarli ». Di recente la teoria dei giochi linguistici, che da Nietzsche siè sviluppata attraverso Wittgenstein, e che ha influenzato non poco le concezioni del dirittocome pratica sociale di tipo linguistico, ha avuto sviluppi pragmatici di un certo interessenelle opere di Patterson, Law and Truth, cit., passim e Coleman, The Practice of Principle.In Defense of a Pragmatist Approach to Legal Theory, Oxford, 2001, passim, ma soprattut-to pp. 3-13.

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LA CATEGORIA DEI CONTRATTI D’IMPRESA EIL PRINCIPIO DELLA BUONA FEDE (*)

Sommario: 1. Il diritto privato e la globalizzazione — 2. I c.d. contratti del consumatore:verso una ridefinizione dogmatica del principio della buona fede — 3. La categoria deicontratti d’impresa e il codice civile.

1. — La dialettica fra diritto globale e diritto locale è generalmente esa-minata dal punto di vista delle fonti del diritto e talvolta della teoria generaledel diritto, per indagare l’incidenza del fenomeno socio-economico definitocome globalizzazione sugli Stati, sugli ordinamenti giuridici nazionali e suquello internazionale. Si tratta dunque di riflessioni che, quando non sono dinatura sociologica o addirittura filosofica (1), possono essere definite come es-senzialmente pubblicistiche, perché al loro centro si pone lo Stato e il dirittoin quanto esercizio della sovranità statuale (2).

È quindi comprensibile che la letteratura sulla globalizzazione sia domi-nata dal senso della crisi e del limite, in qualche modo paragonabile a quelloche, poco più di un secolo fa, attraversava la cultura giuridica europea difronte all’incipiente secolarizzazione e al suo drammatico annuncio nicciano.Il parallelo tra i due fenomeni culturali è tanto più evidente, se si ricorda laceleberrima osservazione di Carl Schmitt, secondo cui « tutti i concetti piùpregnanti della moderna teoria dello Stato sono concetti teologici secolarizza-ti » (3).

In realtà, la crisi dello Stato può essere considerata più un presuppostoche un effetto dello globalizzazione, ed è comunque dovuta ad ulteriori, e for-se prevalenti cause, fra cui non può essere sottovalutata la volontà politica

(*) Il testo riproduce, con qualche integrazione e l’aggiunta delle note a piè di pagina,la relazione tenuta al convegno « Global law vs. local law », Brescia 12-14 maggio 2005,organizzato dal Prof. Giulio Ponzanelli.

(1) Com’è stato infatti autorevolmente notato (Grossi, Globalizzazione, diritto, scienzagiuridica, Estratto da Rend. Mor. Acc. Lincei, serie IX, vol. XIII, Roma 2002, p. 493), « ilgran parlare che si è fatto sinora di globalizzazione ha riguardato, [...] in Italia, la sua pre-valente dimensione sociologica economica politologica ». Fra i contributi più recenti, si pos-sono particolarmente ricordare Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione, Bologna2000; Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino 2002; Zolo, La globalizza-zione, Roma-Bari 2004.

(2) V. ad es. Michaels, Welche Globalisierung für das Recht? Welches Recht für die Glo-balisierung?, in RabelsZ, Bd. 69, 2005, p. 525 ss.

(3) Il passo è stato recentemente richiamato da Irti, Le categorie giuridiche della glo-balizzazione, in questa Rivista, 2002, I, p. 625.

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dello Stato stesso di abbandonare il proprio modello peculiare di razionalitàdell’agire (4).

Per lo meno a livello « regionale », inoltre, la crisi dello Stato non si è af-fatto identificata con la deregolamentazione del mercato, o per lo meno que-st’ultima non è rimasta fine a se stessa, ma ha preparato una ri-regolazionedel mercato stesso, secondo due principali linee direttive: una, esogena, è co-stituita dall’attività riformatrice della Comunità Europea; l’altra, endogena, ècostituita dall’istituzione di autorità regolatrici indipendenti da parte degliStati (5).

Il diffuso intendimento della lex mercatoria come alternativa al dirittodegli Stati e delle loro organizzazioni internazionali si dimostra dunquescarsamente realistico (6), anzitutto per quanto riguarda l’individuazione el’effettiva applicazione della norma giuridica: qualsiasi contratto internazio-nale, com’è stato osservato (7), per quanto possa mirare a essere autonomo ecompleto, non può non appoggiarsi al diritto nazionale, in primo luogo perquanto riguarda gli assetti proprietari e societari che ne costituiscono il ne-cessario presupposto, e in secondo luogo per quanto riguarda la sua even-tuale esecuzione forzata, perciò anche la valutazione preliminare della suavalidità.

Dando l’impressione che la naturalità della lex mercatoria si sia sosti-tuita alla politicità degli Stati, inoltre, si occulta potenzialmente l’effettivadinamica dei rapporti di forza socio-economica che sono caratteristici dellaglobalizzazione (8): anzitutto, la competizione fra gli ordinamenti giuridicinazionali, rimessi alla libertà di scelta degli operatori economici, in unanuova e più ampia arena pubblica (9), e, in secondo luogo, la sempre piùfrequente negoziazione fra privati e poteri pubblici degli interventi di regola-zione del mercato (10).

Tali rilievi suggeriscono di considerare la globalizzazione non tanto, o

(4) S. Cassese, L’arena pubblica. Nuovi paradigmi per lo Stato, in Id., La crisi delloStato, Roma-Bari 2002, p. 44 ss. Riguardo al diritto italiano, si pensi al nuovo comma1-bis dell’art. 1, l. n. 241/1990: « La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di na-tura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge dispongadiversamente »

(5) S. Cassese, Poteri indipendenti, Stati, relazioni ultrastatali, in Id., La crisi delloStato, cit., p. 21 ss.

(6) È stato perspicuamente notato, ad es., che il fenomeno della globalizzazione non siaccompagna a una riduzione del fenomeno statale, bensì a un suo aumento, almeno in sen-so quantitativo (v. S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, in Id., Lo spazio giuridico globa-le, Roma-Bari 2003, p. 5).

(7) Irti, Geo-diritto, in R. trim. d. proc. civ., 2005, p. 32.(8) Irti, op. ult. cit., p. 33 ss.(9) V. i saggi raccolti in La concorrenza tra ordinamenti giuridici, a cura di Zoppini,

Roma-Bari 2004.(10) S. Cassese, L’arena pubblica, cit., p. 44 ss.

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non soltanto, come momento negativo, di antitesi rispetto allo Stato, quantocome risultato razionale e positivo di alcuni processi di trasformazione e dimodernizzazione degli ordinamenti giuridici statuali e di quello internazio-nale.

2. — Secondo questa prospettiva, occorre anzitutto rilevare che la realtàsocio-economica attuale si caratterizza per l’instaurazione di nuovi conflittitra interessi privati concorrenti (nei rapporti business to business), ma soprat-tutto tra interessi privati antagonistici (nei rapporti business to consumer): laglobalizzazione, infatti, accrescendo la potenza delle imprese, aggrava losquilibrio socio-economico nei confronti dei consumatori e perciò inaspriscedrammaticamente la dialettica sociale della Modernità (11).

Questo fenomeno, tuttavia, non può dirsi radicalmente nuovo rispetto alpassato, almeno rispetto a quello più recente; o forse lo è soltanto in sensoquantitativo, anziché qualitativo. La vera novità sta nel fatto che il nesso diinterdipendenza fra il diritto privato e il mercato si è compiutamente dispie-gato nella sua costitutiva reciprocità, nel senso cioè che non soltanto il merca-to è determinato dal diritto, ma, reciprocamente, quest’ultimo è determinatodal mercato, attinge dal mercato la sua razionalità oggettiva.

Il diritto dei contratti, com’è ovvio, è una delle materie privilegiate per lamanifestazione di tale fenomeno.

A partire dalla metà degli anni ’80, nel diritto dei contratti si è verificatauna profonda discontinuità rispetto al passato.

Il diritto contrattuale anteriore, legato alla tradizione romanistica, è es-senzialmente (non anti-, ma) pre-capitalistico, ossia disciplina il contratto in-dipendentemente dalla regolazione del mercato. Il nuovo diritto contrattuale,invece, è progettato e realizzato proprio come strumento di regolazione, e tal-volta di instaurazione del mercato; si spiega quindi che esso disciplini il con-tratto in funzione non tanto del tipo di accordo voluto dalle parti, quanto deltipo di attività economica nell’esercizio della quale il contratto stesso è stipu-lato (i contratti bancari, i contratti finanziari, ecc.).

Per la medesima ragione, il nuovo diritto dei contratti diversifica netta-mente i contratti stipulati tra imprese, da un lato, e quelli stipulati tra impre-se e consumatori, dall’altro, concentrandosi prevalentemente su quest’ultimosettore.

È da chiedersi se si prospettino così due paradigmi contrattuali alter-nativi, basati l’uno sul modello del gioco cooperativo (il contratto fra im-prese e consumatori), l’altro sul modello del gioco antagonistico (il contrat-to fra imprese) (12). Per rispondere a questa domanda, conviene premettere

(11) Falzea, Il diritto europeo dei contratti di impresa, in questa Rivista, 2005, I,p. 5 s.

(12) In senso affermativo, v. Monateri, Ripensare il contratto: verso una visione antago-nistica del contratto, in questa Rivista, 2003, I, p. 409 ss.; Id., I contratti di impresa e il di-

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che i c.d. contratti dei consumatori costituiscono una categoria dogmaticaspuria (13).

In primo luogo, la qualità di consumatore (di una) delle parti contraentinon consente propriamente di determinare l’àmbito soggettivo di applicazionedelle rispettive discipline giuridiche: tale qualità non costituisce pertanto ilcriterio formale che le possa unificare dal punto di vista concettuale. Le disci-pline giuridiche di cui si tratta, infatti, non presuppongono sempre che laparte utilizzatrice del bene o del servizio, per quanto definita come consuma-tore, agisca al di fuori della propria eventuale attività professionale (14); esseinoltre non disciplinano affatto i contratti stipulati tra soli consumatori, e cheperciò, in quanto puramente o bilateralmente civili, dovrebbero più netta-mente diversificarsi da quelli stipulati dagli imprenditori. Per altro verso, lediscipline giuridiche di cui si tratta presuppongono sempre che la parte forni-trice del bene o del servizio stipuli il contratto nella sua qualità di professioni-sta.

In realtà, i c.d. contratti dei consumatori sono anch’essi contratti com-merciali, o d’impresa, ed è proprio per questa ragione che sono stati intensi-vamente disciplinati dal legislatore, anzitutto comunitario (15). Nei sistemi ca-pitalistici avanzati, infatti, in cui l’economia è orientata al lato della doman-da, è essenziale che si impedisca agli imprenditori di abusare delle strutturaliasimmetrie informative di cui godono nei confronti dei fruitori finali di beni edi servizi, laddove questo problema è assai meno grave, sebbene non inesi-stente, nei rapporti tra imprenditori concorrenti (16).

Si spiega dunque che il contratto stipulato da un consumatore nei con-fronti di un altro consumatore non sia stato preso in considerazione dal nuovodiritto dei contratti.

ritto comunitario, in Il diritto europeo dei contratti d’impresa, a cura di Sirena, Milano2006, p. 85 ss.

(13) Per una più ampia analisi, mi permetto di rinviare a Sirena, L’integrazione del di-ritto dei consumatori nella disciplina generale del contratto, in questa Rivista, 2004, I, p.787 ss.

(14) Grundmann, Europäisches Schuldvertragsrecht. Das europäische Recht der Unter-nehmensgeschäfte, Berlin-New York 1999, p. 13.

(15) Sul punto v. recentemente Somma, Diritto comunitario vs. diritto comune europeo,Torino 2003, p. 66 ss. (il quale esprime una valutazione aspramente critica di tale politicadel diritto); Camardi, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato. La discipli-na dei contratti di consumo nel sistema del diritto della concorrenza, in Studi in onore diPiero Schlesinger, IV, Milano 2004, p. 2447 ss. Si può porre così il problema apparente-mente paradossale se le discipline giuridiche di cui si tratta vadano ascritte alla componen-te commercialistica del diritto privato (v. al riguardo Grundmann, Verbraucherrecht, Unter-nehmensrecht, Privatrecht — warum sind sich UN-Kaufrecht und EU-Kaufrechts-Richtlinieso ähnlich, in AcP, Bd. 202, 2002, p. 43 s.). Per la tesi negativa, mi permetto di rinviareancora a Sirena, op. cit., p. 806 ss.

(16) V., in generale, Baffi, I limiti dell’autonomia contrattuale nel pensiero economico efilosofico contemporaneo, in R. crit. d. priv., 2004, p. 631 ss.

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Conviene poi esaminare il ruolo che, nelle discipline giuridiche di cui sitratta, è svolto della clausola generale di buona fede, poiché esso è decisivo aifini della loro razionalizzazione dogmatica.

La connotazione solidaristica della buona fede contrattuale, per quantopossa essere condivisibile in sé, rischia di essere fuorviante, in quanto si carat-terizza per la (consapevole) implicazione di valori non patrimoniali, estraneio addirittura incompatibili con la « logica del mercato » (17); è quest’ultima,invece, che individua l’essenza della buona fede, in quanto limite specificodell’autonomia contrattuale dell’imprenditore (18).

(17) Nel diritto italiano, com’è noto, la connotazione solidaristica della buona fede, dap-prima intesa dalla dottrina c.d. precettiva del negozio giuridico come originaria vincolativi-tà sociale della parola data (Betti, Teoria generale del negozio giuridico2, Napoli, rist.1994, p. 46), è stata poi riformulata in riferimento all’art. 2 Cost. (Rodotà, Le fonti di inte-grazione del contratto, Milano 1969, p. 150 ss.), soprattutto da parte della Scuola civilisti-ca pisana (v. in particolare Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del dirittonell’ordinamento giuridico italiano, in R. trim. d. proc. civ., 1958, p. 18 ss.; Id., L’attuazio-ne del rapporto obbligatorio, I, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano 1974, p. 1 ss.; BigliazziGeri, voce Buona fede nel diritto civile, in Dig. disc. priv. — sez. civ., II, Torino 1988, p.169 ss.; Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano1968, spec. p. 63 ss.; Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in questa Rivista,2001, I, p. 537 ss., spec. p. 544). Un autonomo orientamento di pensiero ha più pragmati-camente specificato il contenuto solidaristico della buona fede nei distinti canoni della leal-tà e della salvaguardia: il primo opererebbe nella formazione e nell’interpretazione del con-tratto, imponendo la lealtà del comportamento, l’altro interverrebbe invece nell’esecuzionedel contratto e del rapporto obbligatorio, obbligando ciascuna parte a salvaguardare l’utili-tà dell’altra nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio a suo carico (C.M.Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in questaRivista, 1983, I, p. 205 ss., spec. p. 209 s.); quest’ultima proposizione è ormai stabilmenterecepita nelle massime della giurisprudenza di legittimità. Per un’analisi dettagliata dellediverse impostazioni concettuali al riguardo, v. Uda, la buona fede nell’esecuzione del con-tratto, Torino 2004, p. 31 ss.

(18) Nel senso che la nozione della buona fede contrattuale possa essere determinataproprio « muovendo dal diritto dei traffici e degli usi del traffico commerciale », v. Resci-gno, Rimeditazioni sulla buona fede: omaggio ad Alberto Burdese, in Il ruolo della buonafede oggettiva. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, a curadi Garofalo, IV, Padova, 2003, p. 573. A proposito dei Principî di diritto contrattuale euro-peo elaborati dalla Commissione Lando e dei Principî sui contratti commerciali internazio-nali elaborati dall’UNIDROIT, v. M. Barcellona, La buona fede e il controllo giudiziale delcontratto, in Il contratto e le sue tutele. Prospettive di diritto europeo, a cura di Mazzamu-to, Torino 2002, p. 324 s., il quale identifica la buona fede con l’imposizione del prezzo odell’equilibrio ottenibile in un mercato perfettamente concorrenziale; così facendo, tuttavia,oltre a utilizzare una concezione statica della concorrenza (c.d. perfetta) ormai ampiamentesuperata dalla scienza economica e, di conseguenza, da quella giuridica (v. Libertini, Auto-nomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in R. d. comm., 2002, I, p. 433 ss.), sifraintende la funzione sistematica del principio di buona fede. L’eventuale squilibrio sinal-lagmatico del contratto, in sé considerato, non determina affatto la violazione del principiodella buona fede, poiché non implica necessariamente che la parte avvantaggiata abbiaabusato del suo potere di autonomia privata (v. Castronovo, Profili della disciplina nuovadelle clausole c.d. vessatorie cioè abusive, in Europ. d. priv., 1998, I, p. 30 ss.; Somma, op.cit., p. 25 ss.); in termini tradizionali, si può dire che il principio della buona fede costitui-

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La « logica del mercato » cui la buona fede contrattuale rinvia non siidentifica tuttavia in un dato della realtà socio-economica, bensì in un datodella realtà normativa. In altri termini, la buona fede non è costituita né dalladeontologia professionale, né dalla prassi sociale, né, ancora, dalla valutazio-ne etica dei comportamenti imprenditoriali che si rinviene nella coscienza so-ciale: essa è costituita invece dai principî generali inderogabili dell’ordina-mento giuridico in materia di attività economiche e di buon funzionamentodel mercato (19).

Nella disciplina dei contratti d’impresa dunque, siano essi stipulati trasoli imprenditori ovvero con un consumatore, la buona fede delimita le« mosse ammesse » nel gioco competitivo. Se si vuole, si tratta senza’altro

sce un criterio di valutazione del comportamento tenuto dalle parti contraenti (v. Mengoni,Problemi di integrazione della disciplina del « contratto del consumatore » nel sistema delcodice civile, in Studi in onore di Pietro Rescigno, III, 2, Milano 1998, p. 539), laddove losquilibrio sinallagmatico, quando non sia semplicemente riconducibile allo scostamentodelle clausole contrattuali rispetto al diritto positivo, comporta un giudizio di equità, il qua-le non è sicuramente generalizzabile come autonomo principio (se non funzionalizzandoinammissibilmente l’autonomia negoziale dei privati al perseguimento dell’interesse genera-le) (v. Busnelli, op. cit., p. 541). Non si tratta di una questione meramente terminologica oclassificatoria, ma propriamente dogmatica, perché individua i due distinti e irriducibiliproblemi che stanno alla base delle discipline giuridiche che prendono in considerazione lac.d. giustizia contrattuale, segnatamente nel diritto comunitario (v. Barba, Libertà e giusti-zia contrattuale, in Studi in onore di Pietro Rescigno, III, 2, cit., p. 11 ss.; Di Nella, Merca-to e autonomia contrattuale nell’ordinamento comunitario, Napoli 2003, p. 283 ss.; Volpe,La giustizia contrattuale tra autonomia e mercato, Napoli 2004, p. 98 ss.): affinché il con-tratto sia nullo e possa essere eventualmente corretto dal giudice, non è infatti sufficienteche esso determini un « significativo squilibrio » tra le parti contraenti, ma è altresì neces-sario che tale squilibrio consegua alla violazione del principio generale della buona fede, os-sia che sia stato determinato dall’abuso di potere negoziale della parte che se ne è avvan-taggiata (assai significativa al riguardo è l’ormai celebre sentenza del Bundesverfassungsge-richt, 19 ottobre 1993, tradotta in Nuova g. civ. comm., 1995, I, p. 197 ss., con nota di Ba-renghi, Una pura formalità. A proposito di limiti e di garanzie dell’autonomia privata indiritto tedesco). Com’è stato icasticamente puntualizzato, è dunque la buona fede che, nellediscipline di cui si tratta, guida e orienta l’equità e ne delimita pregiudizialmente l’àmbitooperativo (v. Busnelli, op. cit., p. 541, nonché Macario, I diritti oltre la legge. Principi e re-gole nel nuovo diritto dei contratti, in Scritti in onore di Pietro Rescigno, III, 2, cit., p. 514s.). Tale duplicità di valutazioni non è affatto disconosciuta, ma anzi presupposta dalladottrina secondo cui, nelle discipline di cui si tratta, il precetto di buona fede si specifiche-rebbe come principio di equità contrattuale, che il predisponente dovrebbe rispettare nel-l’esercizio del suo potere (di fatto) (C.M. Bianca, Le tecniche di controllo delle clausole ves-satorie, (già in Le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, a cura del me-desimo e di Alpa, Padova, 1996, e ora) in Id., Realtà sociale ed effettività della norma.Scritti giuridici, II/2, Milano 2002, p. 634, nonché Id., Diritto civile, III, Il contratto2, Mila-no 2000, p. 379 s., nota 26).

(19) In quanto la buona fede sintetizza la tutela giuridica del mercato, è puramenteideologico il tentativo di ravvisare in essa lo strumento di una « moralizzazione » del mer-cato stesso (v. De Trazegnies Granda, Desacralizando la buena fe en el derecho, in Trata-do de la buona fe en el derecho, diretto da Córdoba, II, Buenos Aires 2004, p. 26 ss., non-ché, per una valutazione anche politica, M. Barcellona, op. cit., p. 325 ss.).

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del divieto di abusare del mercato, che si concretizza in regole di fair dea-ling (20).

L’aggancio costituzionale della buona fede resta (21), ma non è più al-l’art. 2 Cost. (i diritti inviolabili dell’uomo), bensì all’art. 41, 2o comma,Cost., nella parte in cui prevede che l’iniziativa economica privata non possasvolgersi in contrasto con l’utilità sociale (22). Quest’ultima deve essere intesacome nucleo di principî generali inderogabili dell’ordinamento giuridico inmateria economica, i quali convergono nella decisione di sistema a favore delmercato aperto e della libera concorrenza (23). È appunto su tali principî chela buona fede contrattuale si fonda e si giustifica.

(20) Per una diversa impostazione concettuale, cfr. tuttavia, con specifico riguardo aiPrincipî della Commissione Lando, Castronovo, Il contratto nei Principi di diritto europeo,in Il contratto e le sue tutele. Prospettive di diritto europeo, a cura di Mazzamuto, cit., p.52 ss.; Id., Good Faith and the Principles of European Contract Law, in Europ. d. priv.,2005, p. 589 ss., e con specifico riguardo ai Principî dell’UNIDROIT, Di Majo, I principidei contratti commerciali internazionali dell’UNIDROIT, in Contratto e impr./Europa,1996, p. 289 s., i quali intendono essenzialmente la buona fede come « autointegrazione »del contratto basata sulla volontà ipotetica delle parti contraenti. Se riferita al diritto positi-vo, contrariamente peraltro alla dichiarata volontà degli a. citati, la tesi non è tuttavia con-divisibile, poiché muove dal presupposto che il principio di buona fede non possa costituireun criterio di validità del contratto, ma possa svolgere soltanto una funzione integrativa,« sicché, per così dire, [esso] può aggiungere o togliere un ramo, l’albero restando fuori di-scussione » (Castronovo, Il contratto nei Principi di diritto europeo, cit., p. 50); com’è statoconvincemente spiegato, « la funzione del corrigere diviene, invece, il proprium del ruolodella buona fede » (Busnelli, op. cit., p. 543; in senso contrario, cfr. i noti lavori di G.D’Amico, Regole di validità e di comportamento nella formazione del contratto, in questaRivista, 2002, I, pp. 50, 59; Id., « Regole di validità » e principio di correttezza nella forma-zione del contratto, Napoli, 1996, p. 336 ss.). Si spiega quindi l’esigenza di differenziaredogmaticamente la buona fede destruens da quella costruens (v. al riguardo Navarretta, Icontratti d’impresa e il principio della buona fede, in Il diritto europeo dei contratti d’im-presa, a cura di Sirena, cit. p. 507 ss.; sulla funzione integrativa della buona fede contrat-tuale v. ampiamente Uda, op. cit., p. 109 ss.

(21) Cfr. tuttavia, in generale, Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca,borsa, tit. cred., 1997, I, p. 9, il quale contesta energicamente « il riferimento ai principicostituzionali come parametri interpretativi della clausola della correttezza e buona fede ».

(22) Si pone allora il problema se la buona fede contrattuale da principio generale fon-damentale sia divenuta principio generale comune dell’ordinamento giuridico (secondo lecategorie concettuali definite da Falzea, I principi generali del diritto, in questa Rivista,1991, I, p. 468 ss.).

(23) Oppo, L’iniziativa economica, in questa Rivista, 1988, I, p. 332. Movendo dall’or-mai classica concezione della utilità sociale di cui all’art. 41, 2o comma, Cost. come « for-mula verbale riassuntiva di una serie di interessi a rilievo sociale, assunti come propri dallegislatore » (Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano 1974, p. 81), si deve ap-punto ritenere che essa, nella realtà attuale dell’ordinamento giuridico, non possa nonprendere in considerazione il funzionamento del mercato (Libertini, op. cit., p. 441; Libo-nati, Ordine giuridico e legge economica del mercato, in Scritti in onore di Antonio PavoneLa Rosa, I, 2, Milano 1999, p. 644 ss.; Mengoni, Persona e iniziativa economica privatanella Costituzione, in Persona e mercato, a cura di Vettori, Padova, 1996, p. 35 s.; Id., Pro-blemi di integrazione della disciplina dei « contratti del consumatore » nel sistema del codi-

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Tali considerazioni non escludono affatto che, per quanto qui rileva, labuona fede contrattuale sia formalizzabile concettualmente come clausola ge-nerale in senso tecnico. Nella sua concezione più rigorosa, infatti, quest’ulti-mo intendimento presuppone esplicitamente che il riferimento alla coscienzasociale o etica della società possa servire soltanto a formalizzare la naturaleelasticità della buona fede, ma non a individuare il criterio di valutazione cheessa esprime: escluso che tale criterio possa essere tratto da una valutazionesoggettiva dei dati della coscienza sociale da parte del giudice, lo si riconduceinfatti agli indici di valutazione legislativa delle esigenze sociali (24). In talsenso, la clausola generale non è concepita come strumento per integrare ildiritto positivo in base ad autonome valutazioni del giudice o a standards so-ciali (25), ma come strumento elastico di risoluzione dei conflitti mediante ap-plicazione dei principî generali dell’ordinamento giuridico (26).

Si può solo aggiungere che, nella misura in cui il principio generale del-la buona fede contrattuale è concretizzato dal legislatore in discipline giuri-

ce civile, cit., p. 535 s.; Perlingieri, Mercato, solidarietà e diritti umani, in Rass. d. civ.,1995, p. 101 ss.); in tal senso, è comunque decisivo il Trattato istitutivo della ComunitàEuropea (su quest’ultimo punto, v. Irti, L’ordine giuridico del mercato4, Roma-Bari 2003,passim e spec. p. 20 ss., p. 125 ss., p. 137 ss., il quale denuncia tuttavia la « antinomia tracostituzione economica e decisione di sistema »; ma cfr. Libonati, op. cit., p. 657 s.).

(24) V. soprattutto Rodotà, Le clausole generali, in I contratti in generale a cura di Al-pa e Bessone, I, in G. sist. d. civ. comm., fondata da Bigiavi, Torino 1991, p. 406 s.; Id., Lefonti di integrazione del contratto, cit., pp. 134 s., 150 s.

(25) Busnelli, op. cit., p. 555 s. Sul delicato rapporto tra standards valutativi e principîgenerali dell’ordinamento giuridico, cfr. Falzea, Gli standards valutativi e la loro applica-zione, in questa Rivista, 1987, I, p. 12 ss., il quale rileva che i primi, sebbene si distinguanoformalmente perché la loro base è costituita dalla prassi sociale piuttosto che dalle leggi,confluiscono sostanzialmente nei secondi, « perché le leggi vanno interpretate e applicatecon l’ausilio dei canoni valutativi ». Si può forse porre il problema se tale naturale con-fluenza non possa svilupparsi diacronicamente nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico,fino a culminare nella compiuta trasformazione formale di uno standard valutativo in unprincipio generale, non più indotto dunque dalla prassi sociale, ma, con un’inversione delprocedimento di concretizzazione normativa, dalla sommità del sistema; tale è la parabolaevolutiva della buona fede contrattuale che si è tentato di delineare nel testo.

(26) Così, a proposito della « correttezza professionale » di cui all’art. 2598, n. 3, c.c.,Libertini, I principi della correttezza professionale nella disciplina della concorrenza slea-le, in Scritti in onore di Antonio Pavone La Rosa, I, 2, cit., p. 581. Cfr. tuttavia Castrono-vo, Il contratto nei Principi di diritto europeo, cit., p. 56, secondo il quale la buona fedeadottata dai Principles of European Contract Law non consisterebbe più nella morale so-ciale o nei valori dell’ordinamento sovraimposti autoritativamente al regolamento delle par-ti contraenti, ma nella « stessa logica impressa dalle parti al loro atto di autonomia proiet-tata su ciò che il contratto non risulta avere regolato »; l’assunto, che trova rispondenzadella più fine elaborazione dogmatica degli artt. 1362 e 1366 c.c. (C. Scognamiglio, Inter-pretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova 1992, spec. p. 368 ss., e pià re-centemente, Id., « Statuti » dell’autonomia privata e regole ermeneutiche nella prospettivastorica e nella contrapposizione tra parte generale e disciplina di settore, in Europ. d. priv.,2005, p. 1015 ss.), è condivisibile esclusivamente in quanto riferito alla buona fede co-struens, ma non a quella destruens.

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diche puntuali, esso non costituisce uno specifico elemento costitutivo dellafattispecie rispetticamente disciplinata, e perciò una clausola generale, marileva (soltanto) come ragione sostanziale delle norme dettate dal legislatore(27). Il bilanciamento da parte del giudice degli interessi in gioco in virtù delprincipio generale di buona fede è sostituito perciò dall’applicazione dellediscipline contrattuali fondate sul medesimo principio (28). Il che non signi-fica, ovviamente, che quest’ultimo perda la propria importanza teorica epratica.

3. – Secondo la prospettiva che si è cercato di delineare, dunque, i c.d.contratti dei consumatori non segnano alcuna soluzione di continuità rispettoa quelli stipulati tra imprenditori: le loro rispettive discipline giuridiche rea-lizzano infatti interventi di regolazione del mercato che sono indispensabiliper prevenire i fallimenti di quest’ultimo, o per porvi rimedio.

In tal senso, i due ambiti disciplinari si raccordano strettamente nonsoltanto tra loro, ma anche con la disciplina della concorrenza (29), e l’ele-mento di raccordo è costituito proprio dalla buona fede: quest’ultima, dun-que, non è affatto un elemento caratterizzante il diritto dei consumatori insenso solidaristico, ma si richiama a quei principî generali inderogabili del-l’ordinamento giuridico in materia di attività economica, che si esprimononell’utilità sociale di cui all’art. 41, 2o comma, Cost. (del resto, è significati-vo che la parte più tradizionale del diritto della concorrenza si basi propriosulla slealtà o scorrettezza del comportamento imprenditoriale, artt. 2598 ss.c.c.) (30).

Se è così, la tesi di una frattura interna al nuovo diritto dei contratti, unaspecie di doppio binario (Zweispurigkeit), deve essere disattesa: ai tempi dellaglobalizzazione, la disciplina dei contratti d’impresa è miracolosamente com-patta e unitaria, fondata sul modello di razionalità socio-economica che si

(27) Falzea, I principi generali del diritto, cit., p. 462.(28) Con particolare riguardo ai principî generali del diritto comunitario, v. Navarret-

ta, Complessità dell’argomentazione per principi nel sistema attuale delle fonti di dirittoprivato, in questa Rivista, 2001, I, p. 794.

(29) Non si può non ricordare al riguardo l’insegnamento dell’Ascarelli (sul quale v. re-centemente Barela, Teoria della concorrenza e libertà del consumatore: l’insegnamento diTullio Ascarelli, in Rass. d. civ., 2004, p. 909 ss.; Libonati, Diritto commerciale e mercato(L’insegnamento di Tullio Ascarelli), in Diritto privato 1997, III, L’abuso del diritto, Pado-va 1998, p. 551 ss.). Con riguardo al diritto europeo, v. inoltre Grundmann, EC Consumerand EC Competition Law: How Related are They? Examining the Existing EC ContractLaw Sources, in The Forthcoming EC Directive on Unfair Commercial Practices. Contract,Consumer and Competition Law Implications, ed. by Collins, The Hague-London-NewYork 2004, p. 211 ss.

(30) Particolarmente indicativa in tal senso è la recente direttiva 2005/29/CE del Parla-mento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commercialisleali tra imprese e consumatori nel mercato interno (direttiva sulle pratiche commercialisleali).

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esprime nel mercato. Considerato che tale disciplina è stata quasi tutta ema-nata dalla Comunità Europea, si può quindi ravvisare nella buona fede unprincipio generale del diritto europeo dei contratti (31).

Questi rilievi consentono forse di dare conto di un fenomeno che è talvol-ta occultato dall’imperfezione della tecnica legislativa, o comunque dalle suecaratteristiche contingenti, ma del quale si scorgono chiarissimamente i segni:ai tempi della globalizzazione, trionfano quelle regole che dettano la discipli-na generale del contratto, mentre passano in secondo piano quelle regole chedisciplinano partitamente singoli tipi contrattuali (32). Si inverte così la ten-denza che si era delineata negli ordinamenti giuridici europei, e segnatamentein quello italiano, a partire dagli anni ’70, nella stagione, così distante daquella attuale, dell’economia mista.

Le regole della parte generale del contratto sono infatti prioritarie e indi-spensabili, perché, come si è detto prima, garantiscono il funzionamento delmercato, e sono quindi espressive di principî generali dell’ordinamento giuri-dico, indipendentemente dalla loro collocazione topografica e dall’ampiezzadel loro àmbito applicativo.

Le regole della parte speciale, invece, sono secondarie perché, in linea diprincipio, sono finalizzate soltanto ad agevolare le parti contraenti nell’eserci-zio dell’autonomia negoziale, mettendo a loro disposizione pacchetti di regole,

(31) C.M. Bianca, Buona fede e diritto privato europeo, in Il ruolo della buona fede og-gettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, Atti del Convegno internazionaledi studi in onore di Alberto Burdese, a cura di Garofalo, I, cit., p. 202 s.; Busnelli, op. cit.,p. 557 (cfr. tuttavia, per una posizione più cauta, Collins, Good Faith in European Con-tract Law, in Oxford Journal of Legal Studies, vol. 14, 1999, p. 229 ss.; Vettori, Buona fe-de e diritto europeo dei contratti, in Europ. d. priv., 2002, p. 915 ss.). Al di là dei dubbitalvolta manifestati sull’effettiva rilevanza sistematica del principio di buona fede, è peral-tro ampiamente noto che esso suscita una certa diffidenza da parte dei giuristi inglesi (v.De Vita, Buona fede e common law. Attrazione non fatale nella storia del contratto, in Ilruolo della buona fede oggettiva, a cura di Garofalo, I, cit., p. 459 ss.; Goode, The Conceptof « Good Faith » in English Law, in Saggi, conferenze e seminari del Centro di studi e ri-cerche di diritto comparato e straniero, n. 2, Roma, 1992), tanto da creare paradossalmen-te il pericolo di costituire un fattore di ulteriore divaricazione, anziché di armonizzazionedegli ordinamenti giuridici (v. Teubner, Legal Irritants: Good Faith in British Law or HowUnifying Law Ends Up in New Divergences, in The Europeanisation of Law: The Legal Ef-fects of European Integration, ed. by Snyder, Oxford 2000, p. 243 ss.). Per uno sguardod’insieme, v. Castronovo, Good Faith and the Principles of European Contract Law, cit., p.589 ss.; Whittaker, Zimmermann, Good faith in European contract law: surveying the legallandscape, in Good Faith in European Contract Law, a cura dei medesimi, Cambridge2000, p. 7 ss. Per il diverso atteggiamento del diritto statunitense, v. Farnsworth, TheConcept of Good Faith in American Law, in Saggi, conferenze e seminari del Centro di stu-di e ricerche di diritto comparato e straniero, n. 10, Roma 1993.

(32) Sul tema v. recentemente, in generale, Lucchini Guastalla, Sul rapporto tra partegenerale e parte speciale della disciplina del contratto, in R. trim. d. proc. civ., 2004, pp.379 ss., 821 ss.; Vettori, la disciplina generale del contratto nel tempo presente, in R. d.priv., 2004, p. 324 ss.; Gorgoni, Regole generali e regole speciali nella disciplina del con-tratto, Torino 2005; Leccese, Il contratto e i contratti: alcune riflessioni, in Studi in onoredi Cesare Massimo Bianca, III, Milano 2006, p. 451 ss.

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che sono contingenti e interscambiabili con altri pacchetti di regole eventual-mente voluti dalle parti. Nella misura (minima) in cui nonsono dispositive,d’altro canto, tali regole sono eccezionali, in quanto derogano ai principî ge-nerali dell’ordinamento giuridico in considerazione di esigenze « politiche »particolari (33).

Da ciò si possono trarre due considerazioni.In primo luogo, si rende necessario un adeguamento delle categorie dog-

matiche. In particolar modo, sussistono i presupposti normativi e assiologiciper accreditare in senso forte la categoria dei contratti d’impresa, come stru-mento concettuale necessario per formalizzare la disciplina generale del con-tratto. Al riguardo, si sono manifestate forti diffidenze nella dottrina italiana,che sono state anche espresse in occasione di un recente convegno senese de-dicato a questo argomento (34); tali diffidenze, tuttavia, possono essere supe-rate mediante un’adeguata ricostruzione concettuale dei contratti d’impresa (iquali, in quanto categoria dogmatica, non possono comunque esibire quelmassimo grado di purezza e di generalità che è proprio delle categorie filoso-fiche) (35).

In particolare, deve essere chiarito che i contratti d’impresa non sonoconcepibili come classe di tipi contrattuali, perché rispetto a questi ultimi nonrileva, se non indirettamente, l’attività nell’esercizio della quale il contratto èstipulato (una vendita è sempre una vendita, anche se è stipulata da un im-prenditore).

I contratti d’impresa non sono dunque una categoria di parte speciale,ma di parte generale, perché non attengono alla disciplina dei singoli tipi con-trattuali, bensì alla disciplina del contratto in quanto tale, ossia in quantostrumento di autonomia privata: da questo punto di vista, è giuridicamenterilevante se l’interesse per cui l’autonomia negoziale è esercitata sia costituitoo meno dall’esercizio della libertà di iniziativa economica.

Se ricostruita in tal senso, la categoria dogmatica dei contratti d’impresaè fondata, da un lato sulle norme che delimitano l’àmbito applicativo delledue discipline contrattuali, dall’altro sul loro raccordo, anche assiologico, conil principio generale di tutela del mercato che si esprime nella clausola dibuona fede.

Del resto, tale categoria, com’è necessario (36), muove dall’esperienzaempirica e dalla prassi sociale, e anzi, in un certo senso, formalizza concet-tualmente l’elemento di maggiore novità rispetto al passato. Infatti, l’elemen-to caratteristico e dirimente della globalizzazione non si può ravvisare né nel-

(33) Sull’alternativa tra clausole generali e « microlegislazione di settore », v. Rodotà,Le clausole generali, cit., pp. 395, 398.

(34) Vedine gli atti in Il diritto europeo dei contratti d’impresa, a cura di Sirena, cit.(35) Su quest’ultimo punto, v. in generale Falzea, Il diritto europeo dei contratti di im-

presa, cit., p. 2 s.(36) Falzea, Il diritto europeo dei contratti di impresa, cit., p. 7.

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l’internalizzazione del commercio, né nell’interdipendenza fra le economienazionali, tutti fenomeni che, com’è stato osservato (37), erano già ben noti estudiati anche nel passato — basti pensare al primo capitolo del Manifesto diMarx ed Engels (38). Ciò che è veramente nuovo rispetto al passato, invece, èla radicale trasformazione dell’impresa, la quale, da semplice organismo pro-duttivo di beni e servizi, è divenuta un’istituzione autonoma (39): è quindi lo-gico che il diritto dei contratti ai tempi della globalizzazione sia il diritto deicontratti d’impresa.

Resta naturalmente ferma, in linea di principio, la necessità di distingue-re i contratti d’impresa con i consumatori (unilateralmente commerciali, se-condo la terminologia della tradizione) dai contratti d’impresa con un’altraimpresa (bilateralmente commerciali), in quanto, sebbene, come si è detto, siponga in entrambi i casi un’esigenza di regolazione del mercato basata sullostrumento della buona fede, i contenuti concreti di tale regolazione, e anchela sua intensità, potranno opportunamente diversificarsi.

Da questo punto di vista, si manifesta un’esigenza ambivalente: da un la-to, prendere atto di un processo di « consumerizzazione » del diritto dei con-tratti, analogo a quella « commercializzazione » che lo ha caratterizzato nelpassato: dall’altro, evitare che tale processo si spinga troppo oltre, compro-mettendo così l’efficienza del mercato. È ovvio, ad es., che il problema delleasimmetrie informative tra le parti contraenti sussiste anche quando entram-be agiscono nell’esercizio della loro attività professionale, ma esso è ben piùgrave, e in un certo senso anche diverso, quando una soltanto di esse agiscecome professionista e l’altra, invece, come consumatore.

L’ulteriore corollario che si può desumere dalle precedenti considerazioniè la riscoperta del codice civile, in quanto custode dei valori e della razionali-tà del sistema. Come si è già avvertito, la pluralità di modelli razionali e as-siologici che dette luogo alla moltiplicazione di leggi speciali, e alla conse-guente decodificazione del sistema delle fonti del diritto, ha ceduto il passo auna ferrea ricomposizione unitaria del diritto contrattuale, basata sul suo nes-so costitutivo con il mercato: è quindi inevitabile che si riaffermi conseguente-mente la centralità sistematica del codice civile, come sede della disciplina ge-nerale del contratto e come strumento di raccordo di quest’ultima con le arti-colazioni del mercato (40).

Ciò non sembra contraddetto dall’europeizzazione degli ordinamenti giu-ridici nazionali, come dimostra la ricodificazione che è stata recentementerealizzata in Germania, seppure con qualche limite. Si tratta di un modello da

(37) Galgano, L’impresa transnazionale e i diritti nazionali, in R. trim. d. proc. civ.,2005, p. 39 ss.

(38) L’osservazione è di Cassese, Lo spazio giuridico globale, cit., p. 5.(39) Guarino, op. cit., p. 29 ss.(40) Ci si permette di rinviare a Sirena, Il codice civile e il diritto dei consumatori, in

Nuova g. civ. comm., 2005, II, p. 277 ss. Cfr. tuttavia Camardi, op. cit., p. 2459 s.

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imitare: le discipline del contratto di derivazione comunitaria meritano di es-sere organicamente inserite nel codice civile, perché partecipano della sua es-senziale razionalità sistematica (41).

Pietro Sirena

Prof. ord. dell’Università di Siena

(41) Il legislatore italiano ha viceversa recentemente scelto di raccogliere tale disciplinein un testo unico, denominato « codice del consumo » (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206,pubblicato sulla G.U. n. 235 dell’8 ottobre 2005). A favore di tale opzione in àmbito comu-nitario, v. C. Amato, Per un diritto europeo dei contratti con i consumatori, Milano 2003,p. 59 ss.

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TRASFORMAZIONI ETEROGENEE:NOTE INTRODUTTIVE (*)

Sommario: 1. La trasformazione eterogenea come fattispecie ordinaria. — 2. Società com-merciali e figure soggettive non commerciali tra affinità e incompatibilità. Profili d’in-dagine. — 3. Ritorno al passato?

1. — Si coglie in modo forse più penetrante che altrove la portata, davve-ro sostanziale, della recente riforma del diritto societario, quando si osservi inche misura essa abbia in più luoghi valicato i tradizionali confini della « ma-teria » e della « forma » commerciali, quali, pur dopo l’unificazione legislati-va del 1942, si continuavano a ravvisare all’interno del sistema del dirittoprivato. Confini ormai, certo, individuati alla stregua di presupposti notevol-mente diversi da quelli definiti dalle previgenti codificazioni commerciali (1),ma non per ciò meno chiaramente enucleabili.

Innovazione, da un lato, e, dall’altro, contaminatio con istituti fino adora annoverati tra quelli proprî del diritto civile in senso stretto, sono percepi-bili con particolare ed immediata evidenza nella riformata disciplina dellatrasformazione eterogenea.

Tale disciplina, sebbene s’incentri su fenomeni trasformativi soltanto a par-tire, e verso, società commerciali tipologicamente determinate (le società di capi-tali), contiene norme che incidono profondamente— e non potrebbe essere altri-menti — anche nella disciplina tradizionale delle figure soggettive contemplatedal libro I del codice civile; disciplina, quest’ultima, a sua volta soltanto parzial-mente e non organicamente investita da precedenti interventi novellatori (princi-palmente consistiti nella riforma del procedimento di riconoscimento, operata dald.p.r. 10 febbraio 2000, n. 361, in attuazione della l. 15 marzo 1997, n. 59) (2).

(*) Il presente scritto contiene, con taluni adattamenti, alcune riflessioni introduttive diun lavoro monografico in tema di trasformazioni eterogenee, di prossima pubblicazione.

(1) Il riferimento è qui d’obbligo alle considerazioni sulla nozione di commercialità nelcodice civile del ’42 di G. Oppo, Princìpi, in Tratt. Buonocore, sez. I, t. I, Torino, 2001, pp.4 s., 21 ss., 60 ss.; ma anche ad altri celebri saggi dello stesso illustre A., Materia agricola e« forma » commerciale, in Studi Carnelutti, Padova, 1950, vol. III, p. 90 ss., nonché Notepreliminari sulla commercialità dell’impresa, in questa Rivista, 1967, I, p. 562 ss.; Codicecivile e diritto commerciale, ibid., 1994, I, p. 221. Inoltre, accanto agli studi di Oppo, sipuò utilmente consultare il recente e appassionato saggio polemico di V. Buonocore, « Lacultura giuridica italiana dagli anni sessanta ad oggi » e il diritto commerciale, in R. trim.d. proc. civ., 2005, p. 1 ss., spec. p. 9 ss.

(2) Le istanze di deregolamentazione del procedimento di riconoscimento delle personegiuridiche, manifestatesi già all’inizio degli anni ’90, sembravano aver subìto una battutad’arresto: basti ricordare che già Cons. St., ad. gen., 13 aprile 1994, in G. comm., 1995, I,p. 640 ss., aveva espresso parere negativo sullo schema di regolamento Cassese — poi nonpiù emanato —, ritenendo che la generale previsione dell’art. 17 l. 400/88 non consentisse

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Le innovazioni legislative del 2003, insomma, paiono andare ben oltre ilsemplice riconoscimento dell’emergere di un generale favor alla conservazione deipatrimoni autonomi: esse segnano in certo qual modo l’irrompere di modellistrutturali e funzionali proprî del diritto delle società commerciali anche all’inter-no del sistema delle persone giuridiche di diritto privato e, più generalmente, del-le figure soggettive non commerciali. Forse queste nuove norme, nonostante— losi ripete— l’insufficiente organicità dell’intervento, che patisce l’inevitabile limi-te genetico della legge delega 3 ottobre 2001, n. 366 (3), precorrono un’evoluzio-ne che nella pratica potrebbe rivelarsi notevolmente più ampia: si pensi, ad esem-pio, a come un indiscriminato transito attraverso la forma intermedia della socie-tà per azioni—qui più chemai assunta come « generica struttura istituzionale »,secondo quanto autorevolmente s’è ipotizzato (4)—potrebbe ora indirettamente,ma illimitatamente, consentire fino ad oggi impensabili (e vicendevoli)metamor-fosi tra associazioni di diritto privato e fondazioni (5).

D’altro canto, è innegabile che sulla scelta del legislatore, di disciplinareappunto in modo permanente le trasformazioni eterogenee da o verso figuresoggettive ed enti patrimonialmente autonomi non soltanto non commerciali,ma anche tout court non associativi, abbia influito significativamente l’espe-

di abrogare mediante atto regolamentare norme di legge in questa materia; cfr. G. Ponza-nelli, Gli enti collettivi senza scopo di lucro nell’attesa della riforma, ibid., I, p. 515 ss. An-cor più numerose erano state le voci che, già nei decenni precedenti, si erano levate special-mente tra i giuspubblicisti, i quali non avevano mancato di sottolineare la sopravvenuta in-compatibilità di un procedimento, fino al 2000 ancora strutturato sul modello concessorio,con l’art. 18 della Costituzione repubblicana: v. per tutti M.S. Giannini, Diritto amministra-tivo2, vol. II, Milano, 1993, p. 666 s.; G. Leondini, Le associazioni tra autonomia privata econtrolli pubblici, Padova, 2005, p. 8 ss.

(3) Il cui art. 7, lett. b), circoscrive naturalmente l’ambito delle trasformazioni che in-vestono gli enti non societari alle sole trasformazioni che hanno come partenza o esito unasocietà di capitali: il limite era già segnalato da G. Marasà, La riforma di società, cooperati-ve, associazioni e fondazioni, Padova, 2005, p. 235 ss.

(4) G. Oppo, Le grandi opzioni della riforma e le società per azioni, in Aa.Vv., Le gran-di opzioni della riforma del diritto e del processo societario, a cura di G. Cian, Padova,2004, p. 25 s.

(5) L’ipotesi è adombrata anche da G. Marasà, Le trasformazioni eterogenee, in R. not.,2003, p. 594. Solo pochi anni fa, e pur dopo la riforma del procedimento di riconoscimentoattuata col d.p.r. 361/2000, che ha ridotto l’ambito di discrezionalità della p.a. eliminandoil sindacato sulla c.d. meritevolezza dello scopo (G. Marasà, La riforma di società, coopera-tive, associazioni e fondazioni, cit., p. 237), il Cons. St., comm. spec., 20 dicembre 2000, n.288, in Ragiusan, 2001, f. 203-3, p. 36, negava che potesse darsi trasformabilità dell’asso-ciazione in fondazione, essendo le due figure « fondate su presupposti giuridici e strutturalitotalmente diversi tra loro ». Del resto, la prassi ha sovente conosciuto l’utilizzazione di mo-duli indiretti per conseguire risultati trasformativi, spesso anticipando riforme generali del-l’istituto della trasformazione: è il caso recente del Belgio, anteriormente alla legge 7 mag-gio 1999: v. G. Delvaux, La transformation des sociétés commerciales, Bruxelles, 2005; inprecedenza la giurisprudenza belga era costante nel ritenere che persino la trasformazioneintrasocietaria implicasse scioglimento dell’una società e creazione di un’entità giuridicanuova (cfr. Cass. Belgio, 4 marzo 1966, in Pasicrisie belge, 1966, I, p. 859; 4 febbraio1966, ibid., p. 722; 20 novembre 1962, ibid., 1963, I, p. 362).

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rienza — pur frammentaria e in molti luoghi ellittica (6) — delle leggi specialidi privatizzazione: l’estrema varietà tipologica degli enti privatizzandi interes-sati da fenomeni di trasformazione (intesa da quelle leggi, il più delle volte,come vicenda propriamente « conservativa » e non, per così dire, « estintiva-costitutiva ») ha forse contribuito a indurre i riformatori del 2003 ad adottareuna nuova impostazione concettuale, di carattere in certo qual modo stabile egenerale.

Anzi, sembra lecito soggiungere, l’esperienza delle privatizzazioni a benvedere manifestava un disegno complessivo — ammesso per inconcessum chedi disegno sistematico possa o potesse parlarsi — in certo qual modo discor-dante, se non antitetico, rispetto a quello poi accolto dal legislatore del 2003.Giacché, com’è stato messo in luce (7), il legislatore delle privatizzazioni pare-va prospettare due opzioni divergenti e tra loro reciprocamente irreversibili, overso gli enti del libro I del codice civile, da un lato, o verso le società del li-bro V, dall’altro (8); mentre il secondo intervento legislativo contempla unavarietà quasi illimitatamente commutabile di opzioni, non necessariamente o,almeno, non tutte certamente irreversibili.

Va riconosciuto tuttavia che, anche da prima ed indipendentemente dallavicenda delle privatizzazioni, altri fermenti premonitori della successiva svol-ta legislativa si erano manifestati nelle linee di tendenza di giurisprudenza edottrina, che sempre più, negli ultimi lustri del ’900, avevano portato in luceed accentuato il già ricordato favor alla conservazione dei patrimoni autono-mi e alla loro transizione senza e a prescindere da vicende estintive o liquida-tive (9).

(6) È quasi scontato, ed ampiamente condiviso, il rilievo che fosse assai difficilmenteravvisabile una coerenza sistematica nella legislazione speciale: cfr. C. Ibba, Tipologia delleprivatizzazioni, in G. comm., 2001, I, p. 464.

(7) C. Ibba, op. cit., p. 470 s.(8) Il modello sembra in qualche modo imitato anche negli artt. 113 bis e 114 del T.U.

degli enti locali, per quanto attiene alle forme organizzative della gestione dei servizi pub-blici.

(9) Un’attenta ricognizione delle tendenze, risalente ad epoca ben anteriore alla riformadel 2003, è già in G. Marasà, Contratti associativi e impresa, Padova, 1995, p. 220 ss.; perla giurisprudenza successiva al 1995 si vedano pure, senz’alcuna pretesa di completezza,Trib. Roma 18 gennaio 2001, in D. fall., 2002, II, p. 458, con nt. Malinconico; App. Vene-zia 24 maggio 1999, in F. pad., 2000, I, p. 27 con nt. Martina; Trib. Napoli 11 febbraio1998, in Società, 1998, p. 826 con nt. di Fico; App. Torino 25 marzo 1997, in G. it., 1998,p. 256 con nt. di M. Sarale, e in G. comm., 1998, II, p. 814, con nt. di C. Santagata; App.Potenza 10 febbraio 1996, in R. not., 1996, p. 1443, tutte nel senso che una trasformazio-ne vicendevole sia possibile tra associazioni di diritto privato e società. Contra, peraltro,Trib. Udine 3 luglio 1997, in D. fall., 1998, II, p. 378; id., 23 maggio 1996, ibid., 1996, II,p. 1144; Trib. Torino 12 novembre 1996, in G. comm., 1998, II, p. 814, con nt. di C. San-tagata, cit. È anche interessante ricordare che il legislatore francese, che pure ignora a tut-t’oggi una disciplina generale delle trasformazioni eterogenee, ha di tanto in tanto emanatoprovvedimenti speciali che consentono eccezionalmente — quasi come una sorta di « con-dono » giuscommercialistico — la trasformazione in associazioni, dotate di personalità alla

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2. — Dalle vaste implicazioni della riforma sull’intero impianto normati-vo del codice del ’42, si può argomentare che l’ordinamento oggi conosce unaequiparazione d’ordine nuovo tra figure soggettive societarie, siano esse lucra-tive o mutualistiche, ed entità non societarie; e, ancor più radicalmente, trasocietà e rapporti plurilaterali d’altro genere, non causalmente connotati allastessa stregua, e che non necessariamente configurano autonomi centri d’im-putazione di poteri e di doveri (ma che semmai — e paradossalmente — necostituiscono in certo qual modo l’oggetto).

Proprio il fatto che il legislatore del 2003 abbia disciplinato questa trasfor-mazione solo, e propriamente, come Formwechsel, anziché come übertragendeUmwandlung (10), impone all’interprete di ricercare quale sia il filo conduttore o,se si vuole, il momento unificante delle fattispecie contemplate dalla novella; mo-mento che dovrebbe necessariamente risultare comune tra commercialità, checonnota le società di capitali — termine imprescindibile di partenza o di arrivodella metamorfosi—, e non commercialità, che contraddistingue altre figure.

Dunque anche quella trasformazione, che le rubriche degli artt. 2500septies e 2500 octies c.c. declinano ora come « eterogenea », se ed in quantoconfigurata come Formwechsel dovrebbe essere pensata alla stregua di unnuovo assetto che s’imprima ad interessi preesistenti e permanenti; come mo-dificazione, in altre parole, di soli rapporti giuridici interni a tale sistemad’interessi. Restandone, per contro, tendenzialmente immutati i rapportiesterni, se è vero che anche nel testo riformato — così come del resto, con an-cor maggiore chiarezza, nel vecchio testo — l’art. 2498 sembra inequivocabil-mente delineare per qualsiasi trasformazione (non esclusa, perciò, quella ete-rogenea) una vicenda di tipo esclusivamente conservativo, e non certo estinti-va o estintiva-costitutiva (11).

stregua dalla legge generale 1o luglio 1901, delle società commerciali o civili che risultino,di fatto, prive di scopo di lucro o che posseggano altri requisiti di volta in volta determinatidalle singole leggi speciali (legge 8 luglio 1969, n. 69-717; legge 7 giugno 1977, n. 77-574;legge 31 dicembre 2003, n. 2003-1312): v. J. Mestre et a. (a cura di), Lamy sociétés com-merciales, Paris, 2005, p. 7 s.; C. Laronde-Clérac, voce Associations, in JurisClasseur So-ciétés, Paris, 2005, f. 174-40, n. 113 ss. Curiosamente, l’art. 43 della l. 77-574 non con-sente di attuare siffatta trasformazione attraverso la semplice modificazione statutaria, maesige invece un apposito procedimento detto di requalification judiciaire.

(10) Al paradigma della übertragende Umwandlung andrebbe invece, in certo qual sen-so, ricondotta la vecchia « trasformazione » delle fondazioni contemplata dall’art. 31 c.c.,peraltro tuttora in vigore. Mentre la riforma del 2003 sembra dunque concepire un unitariomodello di trasformazione, Formwechsel ed übertragende Umwandlung, dal canto loro,rappresentano per il legislatore tedesco del 1994 soltanto due tra le possibili modalità dellavicenda trasformativa (§ 1 UmwG): cfr. M. Lutter, in Umwandlungsgesetz, Kommentar acura di M. Lutter, Köln, 2000, Bd. I, p. 110.

(11) Di questa concezione inequivoca della vicenda in termini di continuità soggettiva,la dottrina aveva già fatto larga applicazione, da ultimo in materia di privatizzazioni for-mali: per tutti P.G. Jaeger, voce Privatizzazioni, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1995, § 2;G. Cabras, Le trasformazioni, in Tratt. Colombo-Portale, VII, 3, Torino, 1997, spec. p. 66ss.; G. Marasà, Le società, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2000, p. 60; C. Ibba, Tipologia

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Il dato normativo oggi codificato, insomma, impone di trovare ricono-scimento e rilevanza giuridica alla trasformazione eterogenea secondo crite-ri di rigorosa omologia con la (usuale) trasformazione intrasocietaria, e in-duce perciò a ricercare nel sistema positivo una nuova nozione concettual-mente compatibile della trasformazione stessa, prima di pervenire ad unsostanziale o pregiudiziale rifiuto di ogni operazione ermeneutica (comepure si è peraltro, di recente, autorevolmente proposto [12]). O ancora, pri-ma di giungere alla conclusione, forse altrettanto inappagante, che la rifor-ma del 2003 abbia spezzato definitivamente l’unità concettuale dell’istitu-to, un tempo uniformemente definito dall’art. 2498 c.c.: cosicché la nuova« trasformazione » eterogenea non rappresenterebbe più null’altro se nonun nuovo caso di polisemia legislativa (13), rispetto alla trasformazionepropriamente detta.

Sembra quindi ragionevole che l’indagine si collochi fuori della tradizio-nale contrapposizione tra società dotate di personalità giuridica e società con-notate da sola autonomia patrimoniale (la stessa autonomia patrimoniale puòoggi, invero, completamente mancare in uno od altro dei termini della vicen-da trasformativa); ciò, nella più radicale prospettiva dell’individuazione diquegli interessi, privati e pubblici, collettivi e no (non va trascurato in propo-sito che, ora, non solo l’autonomia patrimoniale ma addirittura la stessastruttura pluripersonale può essere del tutto assente dalla fattispecie della tra-sformazione), che si accompagnano alla vicenda trasformativa eterogenea.

Occorre infine vagliare se e dove la presenza di un medesimo nucleo d’in-teressi, in altre e differenti fattispecie pur non enunciate nella legge di rifor-ma, renda la trasformazione eterogenea istituto del diritto comune, general-mente applicabile oltre il quadro positivamente delineato negli artt. 2500septies e 2500 octies c.c. per regolare fenomeni diversi, privi di regime testua-le. Il pensiero corre, ad esempio, alle possibili trasformazioni di consorzi traenti locali (14), di istituzioni pubbliche, di comunioni zur gesamten Hand o di

delle privatizzazioni, cit., p. 477 s. Ma di opinione diametralmente opposta, e cioè che —almeno nelle ipotesi estreme della trasformazione di società di capitali in fondazione e incomunione d’azienda — la vicenda dia luogo ad un fenomeno costitutivo-estintivo, sono A.Paciello, La trasformazione delle società cooperative, in G. comm., 2005, I, p. 469; R. Ro-sapepe, Consorzi, società consortili e trasformazione eterogenea, in R. d. comm., 2004, I, p.717.

(12) Quantomeno, con riguardo alla trasformazione delle comunioni d’azienda: A. Pa-vone La Rosa, Comunione di azienda e società di capitali: ammissibilità di una trasforma-zione?, in G. comm., 2005, p. 147 ss., spec. p. 150 ss.

(13) La polisemia del linguaggio legislativo, come altri ha osservato (L. Salamone, Uni-tà e molteplicità della nozione di valore mobiliare, Milano, 1995, p. 77 ss.) è fenomeno sin-golarmente frequente nel campo del diritto commerciale (si pensi ai concetti di azione, divalore mobiliare, di sottoscrizione, ecc.).

(14) I consorzi per la gestione associata di servizi e l’esercizio associato di funzioni sonoprevisti dall’art. 31 del T.U. degli enti locali (d. legisl. 18 agosto 2000, n. 267): di essi giàci si era chiesto, in altra occasione (G. Carraro, in L’ordinamento degli enti locali, Com-

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persone giuridiche riconosciute iure antiquo (15), di « soggetti » diversi dallebanche contemplati all’art. 155, comma 6o, T.U. bancario (16), nonché piùgeneralmente di figure soggettive la cui collocazione tassonomica sfugga a cri-teri certi ed univoci.

Ma la prospettiva più importante, da cui un’indagine critica incentratasugli interessi non pare poter prescindere, è proprio la considerazione dei li-miti entro i quali le trasformazioni eterogenee possano comprimere, o addirit-tura sopprimere, taluni di siffatti interessi, specialmente incidendo su quellid’ordine individuale, e proprio con riguardo alle figure soggettive di diritto ci-vile, estranee — almeno, tradizionalmente — alla sfera dei rapporti « com-merciali » e di per sé causalmente prive di rilievo economico.

3. — Una valutazione critica dei numerosi e talora antitetici interessi, coin-volti nella trasformazione eterogenea da e verso le persone giuridiche contempla-te dal libro I del codice civile, delinea certamente— come s’è già notato—motivid’incertezza esegetica e d’insufficiente coerenza sistematica. Ma suscita anche, atutta prima e se si tengano presenti taluni precedenti non immediati, la singolaree, se si vuole, paradossale impressione che la riformata disciplina, pur pensata epresentata comemolto innovativa (17), contempli aspetti strutturali e funzionaliche rimandano piuttosto ad un passato relativamente remoto e che parevano de-finitivamente abbandonati nel corso del lungo cammino evolutivo, conosciutonell’ultimo secolo e mezzo dagli istituti del diritto commerciale.

Ci s’intende riferire, ad esempio, all’ult. comma dell’art. 2500 octies, che

mento a cura di M. Bertolissi, Bologna, 2002, p. 188), se, anche anteriormente all’introdu-zione del comma 7o bis dell’art. 115 T.U.E.L., ne fosse ipotizzabile la trasformazione in so-cietà per azioni; ed oggi ancora ci si può chiedere — pur dopo tale modificazione legislativa— se la loro trasformabilità sia limitata ai soli consorzi aventi per oggetto la gestione dipubblici servizi o non s’estenda invece anche a quelli costituiti per l’esercizio associato difunzioni ovvero a quelli che cumulino entrambi gli scopi.

(15) Si pensi, ad esempio, alle antiche comunanze ed organizzazioni collettive delle fa-miglie proprietarie di boschi e pascoli allodiali, di derivazione germanica, di cui è dissemi-nato tutto l’arco alpino (tra queste, le celeberrime Regole ampezzane e cadorine: cfr. Com-miss. usi civici Venezia, 19 settembre 1986, in G. agr. it., 1987, 437), che spesso esercitanoattività economiche di non poco momento; oppure alle, altrettanto celebri, Contrade di Sie-na, la cui personalità giuridica è senz’altro ius receptum: Comm. trib. I gr. Siena, 25 otto-bre 1990, in F. it., 1992, III, c. 132; Cass. 8 novembre 2001, n. 13829, in R. giur. trib.,2002, p. 855; più in generale, sulla personalità giuridica degli enti preunitari, F. Ferrarasr., Le persone giuridiche2, in Tratt. Vassalli, Torino, 1956, p. 265 s.

(16) Si tratta di quelle figure soggettive che « senza fine di lucro, raccolgono tradizio-nalmente in ambito locale somme di modesto ammontare ed erogano piccoli prestiti » (traqueste, le c.d. casse peote, alla cui possibilità di trasformazione si è avuta occasione di ac-cennare a suo tempo, nello scritto Le casse peote del Veneto e la nuova legge bancaria, inBanca, borsa, tit. cred., 2000, I, p. 394 e nt. 44; cfr. altresì L. Bonzanini, Commentario al-l’art. 35 del d. legisl. 4 agosto 1999, n. 342, in A.A. Dolmetta, Le nuove modifiche al t.u.bancario, Milano, 2000, p. 137).

(17) Così la Relazione ministeriale alla riforma del 2003, § 14.

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— in tema di trasformazione eterogenea delle fondazioni — sembra implicareuna sorprendente e certo inconsapevole ricomparsa di una sorta d’ingerenzagovernativa, non solo nella vita delle persone giuridiche, ma direttamente nel-l’esercizio dell’iniziativa economica sotto forma di società di capitali in manoprivata: un intervento, insomma, non dissimile da quello già previsto dall’art.156 c.co. ’65 e, ancor prima, dall’art. 47 del codice albertino e dall’art. 37del c.co. napoleonico del 1807.

Siffatta ingerenza, va detto, alla fine del XIX secolo e con l’avvento del c.co.’82, già si considerava nulla più che un relitto d’importanza storica (18). Eppure èappena il caso di ricordare come, pochi decenni prima, appunto in occasione del-la precedente codificazione commerciale del 1865, la conservazione dell’inter-vento governativo nella fase di costituzione delle società di capitali fosse stata alcentro di un acceso dibattito parlamentare (19), in esito al quale l’orientamentomaggiormente conservatore aveva finito col prevalere, giustificato da un dupliceasserito obiettivo: l’attribuzione alla p.a. di un controllo imparziale circa il rispet-to dei presupposti normativi per la costituzione della società (controllo, come sisa, dal c.co. ’82 poi definitivamente devoluto all’autorità giudiziaria), da un lato,e dall’altro la valutazione discrezionale dell’iniziativa economica, a tutela dellapubblica fiducia e al fine di prevenire deprecabili avventure speculative (20).

(18) L’espressione è di C. Vivante, Trattato di dir. commerciale3, Milano, s.d., vol. II, p.243 nt. 60. L’a. ricorda al riguardo anche il passo della Relazione Mancini al codice dicommercio del 1882 (p. 268) che illustra le ragioni della modifica legislativa e segna dun-que il passaggio definitivo al sistema del riconoscimento c.d. normativo per l’anonima el’accomandita per azioni. A. Padoa Schioppa, Le società commerciali nei progetti di codifi-cazione del Regno italico, in Saggi di storia del diritto commerciale, Milano, 1992, p. 131,ricorda come anche nel resto d’Europa (Francia e Inghilterra in particolare), la necessitàdell’autorizzazione governativa per le società azionarie si mantenne all’incirca fino al setti-mo decennio dell’800. E si veda anche M. Cossu, Società aperte e interesse sociale. Consi-derazioni introduttive, in questa Rivista, 2006, I, p. 82 s.

(19) L. Borsari, Il codice di commercio annotato, p. I, Torino, 1868, p. 472, ed A.Marghie-ri,Delle società e delle associazioni commerciali, nelCodice di commercio commentato a cura diBolaffio eVivante, vol. III, Verona, 1904, p. 85, ricordano la relazione e il disegno di legge del-la Commissione Corsi (tra i cui membri sedeva lo stesso P.S. Mancini che, anni dopo, comeguardasigilli avrebbe praticamente condotto a termine la codificazione dell’82 e definitivamen-te soppresso il regime dell’autorizzazione governativa), presentati alla Camera il 18 dicembre1862, per l’abolizione della tutela governativa, definita « irrazionale » dagl’illustri relatori (larelazione è citata anche da A. Padoa Schioppa,Disciplina legislativa e progetti di riforma dellesocietà per azioni, in Saggi di storia, cit., p. 208). Il parlamento non solo non approvò tale pro-posta, ma al contrario accolse l’orientamento del governo, favorevole ad ampliare addirittural’originaria previsione dell’art. 47 del codice albertino, estendendo la necessità dell’autorizza-zione anche alle accomandite per azioni nominative, che fino ad allora ne erano rimaste esentiproprio in virtù del particolare regime circolatorio delle partecipazioni.

(20) Così la Relazione del guardasigilli Vacca al c.co. ’65, sub libro I, in Codice di com-mercio del Regno d’Italia coll’aggiunta dell’indice alfabetico analitico e della relazione delMinistro a S.M. per l’approvazione di detto codice, Torino, 1865, p. 223 ss. Per la storiadella codificazione del 1882, ed in particolare sull’abolizione del principio dell’ingerenzagovernativa (definito « mostruoso » dal Mancini: v. Processi verbali della Commissione in-

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Va osservato peraltro che le identiche perplessità già avvertite di frontealla disposizione dell’art. 156 c.co. ’65 — l’essere, cioè, l’autorità governativapessimo amministratore degli affari economici privati, e i pubblici funzionarigeneralmente poco competenti e poco attenti alla tutela degli interessi coin-volti (21) — paiono ritornare oggi d’attualità con riferimento ai tratti contra-stanti esibiti dal nuovo art. 2500 octies c.c.

Il breve excursus consente quindi di risalire a un periodo storico in cuil’accentramento nel governo del potere di concedere, per così dire, il privilegiodell’incorporazione, comune sia alle figure soggettive non commerciali che aquelle commerciali, inevitabilmente avrebbe potuto indurre una minor carat-terizzazione tipologica e procedimentale, tanto all’interno di ciascuna catego-ria, quanto tra l’una e l’altra di queste (22). Ma è invece notevole la constata-zione che i riferimenti di quel periodo, pur caratterizzato da un’amplissima

caricata di studiare le modificazioni da introdursi nel Codice di commercio del Regno d’Ita-lia, in Atti della Commissione, Roma, 1884, n. 57), cfr. ancora A. Padoa Schioppa, La gene-si del Codice di commercio del 1882, in Saggi di storia, cit., p. 161 ss.

(21) Ne riferiscono L. Borsari, op. loc. cit. (l’a. peraltro si dichiarava personalmente fa-vorevole al sistema dell’ingerenza governativa), ed A. Marghieri, op. cit., p. 83 ss. Ed è cu-rioso notare che, ancora decenni dopo l’entrata in vigore del c.co. ’82, la p.a. tentasse sur-rettiziamente di mantenere una sorta di sindacato indiretto sulle società pur omologate dal-l’autorità giudiziaria, ritardando o condizionando la pubblicazione dell’atto costitutivo nelbollettino ministeriale: il fenomeno è stigmatizzato da A. Scialoja, Arbitraria ingerenza mi-nisteriale nel controllo di legalità sulle società per azioni, in R. d. comm., 1911, I, p. 459.

(22) Ciò, quantomeno, con riferimento al diritto vigente negli Stati sardi (e quindi al-l’immediato antecedente della legislazione postunitaria): qui, per il periodo anteriore allacodificazione albertina, « per le diverse leggi che imperarono [...] non era determinata unaforma speciale per l’approvazione dei corpi morali » (così Cass. Torino 4 settembre 1879,in Rep. gen. di giurisprudenza civ., pen., comm. ed amm. del Regno, I suppl., p. I, Torino,1884, voce Enti morali, n. 27); tant’è che la dottrina soleva annoverare tout court senza di-stinzione le società commerciali tra i corpi morali: G. Giorgi, La dottrina delle persone giu-ridiche o corpi morali, Firenze, 1913, vol. I, p. 84. Diverso appare invece il caso del Lom-bardo-Veneto, dove l’ininterrotta conservazione in vigore (in virtù della Sovrana risoluzio-ne 23 dicembre 1816) del codice di commercio napoleonico, da una parte, e la immediatapromulgazione nel 1815 dell’ABGB austriaco, dall’altra, avevano prodotto una diversifica-zione dei modelli costitutivi: il primo, connotato dall’ingerenza governativa, per le societàdi capitali (art. 37 c.co. Napoleone); il secondo, invece, dominato dal principio dell’attribu-zione della personalità alle associazioni non commerciali su base normativa e sul semplicepresupposto della conclusione di una valida Gründungsvereinbarung (v. § 26 ABGB): e ciòalmeno fino all’emanazione della Patente imperiale 15 marzo 1851, che sottopose ad auto-rizzazione preventiva talune associazioni ed istituzioni di nuova creazione: F. v. Zeiller,Commentario sul codice civile universale per tutti gli stati ereditarj tedeschi della monar-chia austriaca, trad. it., Milano, 1815, p. 134; G. Basevi, Annotazioni al codice civile au-striaco, Milano, 1855, p. 27; J. Aicher, Kommentar zum allgemeinen bürgerlichen Gesetz-buch, Wien, 1990, p. 86 ss.; con espresso riferimento al § 26 ABGB, Cass. Firenze 31 gen-naio 1878, in F. it., 1878, III, I, c. 219; Cass. Firenze 27 gennaio 1881, in Rep. F. it., 1881,voce Corpi morali, n. 3; e in tempi recenti anche l’interessante Trib. Padova decr. 22 giu-gno 1994, in G. mer., 1995, p. 470. Per il solo Veneto, inoltre, il sistema cambiò nuova-mente con l’entrata in vigore, nell’ultimo triennio della terza dominazione austriaca, ossia apartire dal 1o luglio 1863, del nuovo codice di commercio germanico (ADHGB: su quest’ul-

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discrezionalità amministrativa, non testimoniano che scarse o nulle tracce ditrasformazioni strutturali vicendevoli, e ancor meno di trasformazioni oggidefinibili « eterogenee ».

Così era, ad esempio, ius receptum che — prima dell’emanazione della l.15 aprile 1886, n. 3818, che ne istituì poi un apposito procedimento d’omo-logazione, ad instar di quello previsto per le società di capitali dal c.co. ’82 —le società operaie di mutuo soccorso non potessero venire erette in ente morale(23); che la capacità giuridica dei corpi morali costituiti prima dell’unificazio-ne legislativa dovesse rimanere regolata dalle sole leggi anteriori né che la lo-ro struttura potesse legittimamente venir modificata sulla base dei nuovi co-dici unitari (24); che, infine, il governo non avesse il potere di trasformare osopprimere enti preunitari sorti per iniziativa privata e dotati di mezzi priva-ti, e che contro il provvedimento di trasformazione — siccome lesivo del dirit-to del singolo ente alla libera esistenza — si desse senz’altro ricorso all’autori-tà giudiziaria ordinaria, alla stregua dell’art. 2 l. 20 marzo 1865, all. E (25).

Si può concludere osservando che, anche e a maggior ragione nel mutatocontesto legislativo instauratosi a partire dalla codificazione del 1882, sembròrimanere del tutto ignota l’idea di una vicendevole trasformabilità tra corpimorali non commerciali e persone giuridiche commerciali; e ciò pur in assen-za, in quel codice, di un dato testuale che disciplinasse — al pari che nel c.c.’42 — la trasformazione almeno come istituto intrasocietario (26).

Ma ancora altre impressioni suscitano le nuove disposizioni in tema ditrasformazione eterogenea; impressioni che, a ben vedere, si rivelano di segnodiscorde rispetto ad una diversa questione che la novella parrebbe per moltiversi aver definitivamente risolta. Ci s’intende riferire alla storica disputa traconcezione contrattualistica e concezione istituzionalistica della società di ca-pitali, ed al comune convincimento che il legislatore del 2003 abbia inequivo-cabilmente aderito al primo dei due modelli contrapposti (27).

timo, noto anche come codice di Norimberga, v. qualche riferimento in M. Cossu, op. loc.cit.).

(23) Né tantomeno trasformate in associazioni di diritto privato: Cons. St. 4 febbraio1876, in F. it., 1876, I, III, c. 113.

(24) Cfr. Cons. St. 28 agosto 1876, in G. Cons. St., 1876, II, p. 183; Cass. Torino 7 feb-braio 1890, in G. it., 1890, I, 1, c. 322; Cass. Torino 15 dicembre 1893, ibid., 1894, I, 1, c.165; Cass. Torino 12 settembre 1898, ibid., 1898, I, 1, c. 363.

(25) Trib. Parma 6 giugno 1898, in D. eccl., 1898, p. 107.(26) È noto che, nel vigore del c.co. ’82, il quale della trasformazione societaria non fa-

ceva menzione, la communis opinio annoverava i « cambiamenti di forma » delle societàcommerciali (ivi comprese le cooperative) tra i meri cambiamenti introdotti nello statuto,consentiti dall’art. 96 senza necessità di scioglimento della esistente e di costituzione di unasocietà nuova: cfr. C. Vivante, Trasformazioni delle società commerciali da una specie nel-l’altra, in R. d. comm., 1903, I, p. 90 ss.; Id., Trattato di diritto commerciale, cit., p. 105ss.; U. Manara, Delle società e delle associazioni commerciali, Trattato teorico-pratico:parte generale, Torino, 1902, I, n. 306 ss.

(27) Al riguardo non si può mancare di segnalare sin d’ora il recente contributo di G.

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Norme che abilitino la trasformazione eterogenea di figure soggettive col-lettive, senza il concorso della volontà positiva di tutti e singoli i componentidel gruppo, danno implicita prevalenza all’interesse di quest’ultimo rispetto aquello dell’individuo (28).

Quando le norme abbiano questi caratteri, esse imprimono innegabil-mente alla fattispecie novellata una connotazione fortemente istituzionalisti-ca, e ne contraddicono le pur annunciate velleità contrattualistiche.

Giuseppe Carraro

Avvocato in Padova

Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo (Variazione sul tema da uno spunto di GiorgioOppo), in R. soc., 2005, p. 693, nel quale l’a. ammonisce tra l’altro a non considerare comeinconciliabili sul piano ideologico le due contrapposte tesi. V. ancora Id., L’impresa nelpensiero dei Maestri degli anni Quaranta, in G. comm., 2005, p. 5 ss.La disputa si connettestrettamente al celebre tema dell’Unternehmen an sich, la cui la paternità si deve probabil-mente a W. Rathenau, Vom Aktienwesen. Eine geschäftliche Betrachtung, Berlin, 1917, p.12 ss.; è tuttavia innegabile l’influenza determinante esercitata dalle teorie di Otto von Gie-rke sulla genesi e sullo sviluppo del concetto: per una esauriente ricostruzione storica, A.Riechers, Das « Unternehmen an sich ». Die Entwicklung eines Begriffes in der Aktienrecht-sdiskussion des 20. Jahrhunderts, Tübingen, 1996, spec. pp. 53 ss.; F. Laux, Die Lehre vomUnternehmen an sich. Walther Rathenau und die aktienrechtliche Diskussion in der Wei-marer Republik, Berlin, 1998.

(28) G. Marasà, Le trasformazioni eterogenee, cit., p. 593, nota che il consenso richiestoper la trasformazione eterogenea non sempre è più severo rispetto a quello richiesto per al-tre modifiche contrattuali: e indica ad es. il caso del consorzio, cui l’art. 2500 octies c.c. ri-chiede la sola maggioranza (« assoluta »), laddove l’art. 2607 esigerebbe altrimenti l’unani-mità. E, per altro verso, v. altresì L. Pisani, Il principio di maggioranza nella nuova disci-plina della trasformazione della società di persone, in R. d. comm., 2005, I, p. 379 ss.

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IL POTERE GIUDIZIALE DI RISTABILIRE L’EQUITÀCONTRATTUALE NELLE TRANSAZIONI COMMERCIALI

Sommario: 1. Premessa e oggetto dell’indagine. — 2. La natura giuridica della fattispecie edil rapporto con l’applicazione dei termini legali. — 3. La ratio della disposizione di cuiall’art. 7, comma 3o, del d. legisl. 231/2002. — 4. Il tentativo di collocazione sistemati-ca della disposizione: a) l’equità come fonte di integrazione del contratto. — 5. Segue:b) l’offerta di ricondurre il contratto ad equità per evitare la rescissione. — 6. Segue: c)l’offerta di ripristino dell’equità per evitare la risoluzione per eccessiva onerosità. — 7.Segue: d) la riduzione della penale manifestamente eccessiva. — 8. I limiti al poteregiudiziale di ripristino dell’equità. — 9. Profili conclusivi.

1. — Con l’emanazione del d. legisl. 9 ottobre 2002, n. 231, attuativodella l. 1o marzo 2002, n. 39 concernente « Disposizioni per l’adempimento diobblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità Europea -Legge comunitaria 2001 », è stata recepita nel nostro ordinamento la diretti-va 2000/35 CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 giugno 2000,relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali(1).

(1) Sulla direttiva si vedano Balestrieri, Legge n. 39 del 1o marzo 2002: art. 26, criteriper l’attuazione della direttiva 2000/35/CE, in materia di lotta contro i ritardi di pagamen-to nelle transazioni commerciali, in Dir. form., 2002, p. 961 ss.; Conti, La direttiva 2000/35/CE sui ritardati pagamenti e la legge comunitaria 2001 di delega al Governo per la suaattuazione, in Corr. giur., 2002, p. 802 ss.; Dalmotto, Direttiva sui ritardi nei pagamenti edecreto ingiuntivo da notificare all’estero, in R. d. proc., 2001, p. 1092 ss.; De Marzo, Ri-tardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2002, p. 628; Id., Legge co-munitaria 2001 e tutela del contraente debole, in Corr. giur., 2002, p. 681 ss.; Fauceglia,Direttiva 2000/35/CE in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazionicommerciali, in Contratti, 2001, p. 311 ss.; Mengoni, La direttiva 2000/35/CE in tema dimora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, in Europ. d. priv., 2001, p. 73 ss.; Picciano,Transazioni commerciali. Nuova direttiva del Parlamento e del Consiglio relativa alla lottacontro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2000, p. 1067ss.; Senni, La direttiva 2000/35/CE sul ritardo nei pagamenti in rapporto alla disciplinasulla subfornitura, in D. comm. int., 2001, p. 841 ss.; Zaccaria, La direttiva 2000/35/CErelativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Studiumiuris, 2001, p. 259 ss. Sulla legge di recepimento cfr. Aa.Vv., I ritardi di pagamento nelletransazioni commerciali. Profili sostanziali e processuali, a cura di A.M. Benedetti, Torino,2003; Aa.Vv., La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Com-mentario a cura di De Cristofaro, in Nuove l. civ. comm., 2004, p. 461 ss; Arnò Ferri, Lanuova normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, Torino, 2003;Bregoli, La legge sui ritardi di pagamento nei contratti commerciali: prove (maldestre) dineodirigismo?, in R. d. priv., 2003, p. 715 ss.; Clarizia, Il decreto legislativo sui ritardatipagamenti e l’impatto sul sistema, in Nuova g. civ. comm., 2003, II, p. 57 ss.; ColombiCiacchi, L’attuazione della direttiva sui ritardi di pagamento. Germania, in Europ. d. priv.,2004, p. 161 ss.; Conti, Il d. lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardatipagamenti nelle transazioni commerciali, in Corr. giur., 2003, p. 99 ss.; De Cristofaro,Obbligazioni pecuniarie e contratti d’impresa: i nuovi strumenti di « lotta » contro i ritardi

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Nonostante tale dichiarata finalità, nell’analisi dei « considerando » (inparticolare quelli dal 7 al 10) della direttiva si desume tuttavia — come al-cuni hanno già sottolineato (2) — che l’obiettivo principale della nuova di-sciplina comunitaria coincide in realtà con l’intento di ridurre la lunghezzaeccessiva dei tempi di pagamento presenti in alcuni Paesi membri (ricondu-cibili all’area mediterranea) la cui prassi imprenditoriale ostacola il buonfunzionamento del mercato comune e diverge nettamente dai termini medi

nel pagamento dei corrispettivi di beni e servizi, in Studium iuris, 2003, p. 1 ss.; De Marzo,Ritardi di pagamento nei contratti tra imprese: l’attuazione della disciplina comunitaria,in Contratti, 2002, p. 1155 ss.; G. De Nova-S. De Nova, I ritardi di pagamento nei contrat-ti commerciali, Milano, 2003; Frignani Cagnasso, L’attuazione della direttiva sui ritardi dipagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2003, p. 308 ss.; La Spina, La nul-lità relativa degli accordi in materia di pagamento nelle transazioni commerciali, in Rass.d. civ., 2003, p. 117 ss.; Luminoso, Il contratto nell’Unione europea: inadempimento, risar-cimento del danno e rimedi sinallagmatici, in Contratti, 2002, p. 1037 ss.; Monticelli,Considerazioni sui poteri officiosi del giudice nella riconduzione ad equità dei termini eco-nomici del contratto, in Contratto e impr., 2006, p. 215 ss.; Pandolfini, La nuova normati-va sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, Milano, 2003; Id., La nullità de-gli accordi « gravemente iniqui » nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2003, p. 501ss.; Perreca, I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: d. lgs. 9 ottobre 2002 n.231, in Aa.Vv., Codice della vendita, a cura di Buonocore e Luminoso, 2a ed., Milano,2005; Perrone, L’accordo « gravemente iniquo » nella nuova disciplina sul ritardato adem-pimento delle obbligazioni pecuniarie, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, I, p. 64 ss.; Russo,La nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratto eimpr., 2003, p. 445 ss.; Id., Le transazioni commerciali, Padova, 2005; Salvi G., « Accordogravemente iniquo » e « riconduzione ad equità » nell’art. 7 d. legisl. n. 231 del 2002, inContr. e impr., 2006, p. 166 ss.; Sanna, L’attuazione della dir. 2000/35/CE in materia dilotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: introduzione al d. lgs. 9ottobre 2002 n. 231 (prima parte), in Resp. civ. prev., 2003, I, p. 247 ss.; Scotti, Aspetti didiritto sostanziale del d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 « attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali », in Gr.mer., 2003, p. 603 ss.; Spoto, L’attuazione della direttiva sui ritardi nei pagamenti. A) Ita-lia, in Europ. d. priv., 2004, p. 161 ss.; Vardi, Il decreto legislativo n. 231 del 2002 di at-tuazione della direttiva, 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelletransazioni commerciali, in Contratto e impr./Europ., 2003, p. 1029 ss.; Venuti, Nullitàdella clausola e tecniche di correzione del contratto. Profili della nuova disciplina dei ritar-di di pagamento, Padova, 2004; Vullo, Le disposizioni processuali del d. legisl. 9 ottobre2002, n. 231, sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Studium iuris,2003, p. 19 ss.; Zaccaria, Il coordinamento fra la recente disciplina sui ritardi di pagamen-to nelle transazioni commerciali e la precedente disciplina in materia, in Studium iuris,2004, p. 305 ss.

(2) Cfr., sul punto, Bregoli, La legge sui ritardi di pagamento nei contratti commercia-li, ecc., cit., p. 716, il quale rileva che: « ... in effetti la direttiva si propone di combattere,più che i ritardi di pagamento (che danneggiano la politica economica, la programmazionee quindi l’efficienza delle imprese creditrici, soprattutto le piccole e le medie), la lunghezzadei tempi di pagamento »; per un quadro schematico quanto efficace delle ragioni che han-no indotto alla emanazione della direttiva v. Mengoni, La direttiva 2000/35/CE in tema dimora debendi nelle obbligazioni, cit., p. 259, il quale sottolinea che la Comunità è interve-nuta per la prima volta su un punto centrale del diritto delle obbligazioni senza trincerarsidietro il paravento della necessità di tutelare il consumatore, ma preoccupandosi di risolve-re i problemi delle piccole e medie imprese.

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di adempimento praticati, di regola, nei Paesi scandinavi, germanici ed an-glosassoni.

La eliminazione — o quantomeno la sensibile diminuzione — di tale di-vario, insieme con lo snellimento della modalità di escussione dei crediti sca-duti rappresentano, dunque, in ordine di importanza, le ragioni per le quali ilParlamento europeo ed il Consiglio hanno emanato la direttiva 2000/35.

Per il raggiungimento di tali obiettivi, indubitabilmente fra loro collega-ti, il legislatore comunitario, nel rispetto del principio di autonomia negozia-le, attribuisce — in via principale — importanza primaria al termine previ-sto nel contratto. Soltanto qualora quest’ultimo non sia determinabile o ri-sulti « gravemente iniquo » per il creditore la direttiva introduce, in un am-bito soggettivo ed oggettivo ben delimitato (3), un termine legale di trentagiorni (corrispondente al periodo medio di pagamento adottato nei paesiscandinavi ed anglosassoni) scaduto il quale interviene, per effetto della mo-ra ex re del debitore, l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere gli interessimoratori (espressamente definiti « dissuasivi » nei « considerando » 16 e 20della direttiva) sempreché le parti non abbiano pattuito interessi in misuradifferente e comunque idonea a superare il giudizio di grave iniquità per ilcreditore.

Con i medesimi limiti soggettivi ed oggettivi imposti dalla direttiva, in se-de di recepimento il legislatore interno ha introdotto, in assenza dell’indica-zione nel contratto della data di scadenza o della fine del periodo di paga-mento, un termine legale — da alcuni qualificato, per certi versi, come inte-ressante novità — pari a trenta giorni (4).

Analogamente alle previsioni contenute nella normativa comunitaria ildecreto legislativo di attuazione prevede altresì un’automatica mora del debi-tore, derivante dall’inosservanza del termine di pagamento, idonea ad attri-buire al creditore il diritto alla corresponsione degli interessi (determinati inmisura corrispondente al saggio di interesse del principale strumento di rifi-nanziamento della Banca Centrale Europea) sempreché il debitore non offrala prova dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione verificatasi per cau-sa a lui non imputabile.

(3) Per la individuazione del quale si rimanda agli artt. 2 e 3 della direttiva medesima.(4) In sede di recepimento, il legislatore della novella, all’art. 4, comma 3o, in ossequio

a quanto previsto dall’art. 3, paragrafo 2, della direttiva, ha elevato a sessanta giorni il ter-mine legale per i soli contratti aventi ad oggetto la cessione di prodotti alimentari deteriora-bili, espressamente individuati all’art. 2, lett. f). Più in generale, l’introduzione di un termi-ne legale di pagamento ha trovato il consenso della dottrina prevalente: cfr., fra i tanti, S.De Nova, in G. De Nova S. De Nova, I ritardi di pagamento nei contratti commerciali, cit.,p. 14; nello stesso senso Bregoli, La legge sui ritardi di pagamento, ecc., cit., 728; Conti, Ild. lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle transazionicommerciali, cit., p. 107; Venchiarutti, in Aa.Vv., I ritardi nei pagamenti, cit., p. 20 ss.;Pandolfini, La nuova normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali,cit., p. 31 ss.; Grondona, in Aa.Vv., I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali,cit., p. 49 ss.

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In linea con la politica legislativa comunitaria seguita anche in passato,nella direttiva non sono state introdotte le sanzioni derivanti dalla conclusio-ne di accordi sulla data del pagamento, o sulle conseguenze del ritardatopagamento, risultanti gravemente iniqui in danno del creditore. Il legislatorecomunitario in questo caso, infatti, ha demandato agli Stati membri il com-pito di individuare gli strumenti più consoni per ciascun ordinamento inter-no.

Tuttavia già nella direttiva, al paragrafo 3 dell’art. 3, si prevede espres-samente che in caso di accertamento della grave iniquità dell’accordo « ... siapplicano i termini legali, a meno che il giudice nazionale non riporti il con-tratto ad equità » (5).

Il riferimento al potere giudiziale riaffiora puntualmente in sede di rece-pimento là dove, all’art. 7, comma 3o, del decreto legislativo di attuazione siprevede non soltanto la possibilità — in capo al giudice — di dichiarare lanullità dell’accordo gravemente iniquo (è questa, infatti, la sanzione introdot-ta dal legislatore nazionale), ma anche di applicare i termini legali ovvero ri-condurre ad equità il contenuto dell’accordo.

E proprio il potere giudiziale di ripristinare l’equità contrattuale costitui-sce l’oggetto del presente lavoro attraverso il quale ci si propone di tratteggia-re i caratteri e la ratio della figura per distinguerla dalle altre fattispecie ana-loghe, ma soprattutto per individuarne i limiti in considerazione del notoprincipio dell’intangibilità dell’autonomia negoziale.

A rendere più agevole tale compito non soccorre, tuttavia, il testo dellaRelazione governativa che accompagna il decreto legislativo di recepimentodella direttiva, considerato che nel commento dedicato all’art. 7 la trattazioneè quasi interamente incentrata sull’illustrazione delle ragioni a sostegno dellascelta della nullità, mentre sul ripristino giudiziale dell’equità il Relatore si li-mita, da un lato, a qualificare come potere l’attività del giudice e, dall’altrolato, a considerare tale meccanismo maggiormente idoneo a combatterel’abuso della libertà contrattuale che affiora dal riferimento, di matrice comu-nitaria, alla « grave iniquità ».

Pertanto, viste le scarne indicazioni provenienti dal legislatore interno,l’interprete dovrà tener conto degli elementi desumibili da altri recenti inter-

(5) In particolare, nella Relazione governativa si legge testualmente: « Si è preferito ilmantenimento della terminologia comunitaria, con il suo riferimento alla grave iniquità, ri-spetto alla formulazione iniziale evocante il concetto di eccessiva onerosità. La scelta sispiega, per un verso, con la necessità di chiarire la differenza del fenomeno in questione, re-lativo ad un abuso originario di un contraente nei confronti della controparte, determinanteuna patologia genetica della stipulazione, rispetto al rimedio della risoluzione per eccessivaonerosità, ex articolo 1467 c.c., ove si considera l’inefficacia sopravvenuta del contratto perun fatto successivo alla stipulazione che incide sul sinallagma ed impedisce la prosecuzionedel rapporto; per altro verso, con la necessità di usare una terminologia tale da evocare inmodo più nitido il legame della relazione dell’ordinamento con un comportamento concre-tante abuso della libertà contrattuale (XIX considerando della direttiva) e, quindi, capacedi spiegare il potere di riconduzione ad equità esercitabile dal giudice in base al comma 2 ».

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venti normativi di origine comunitaria diretti alla protezione di alcune speci-fiche categorie di soggetti, senza, tuttavia, perdere di vista i principi fonda-mentali che animano il nostro ordinamento.

2. — Nella direttiva, così come nel decreto legislativo di recepimento, illegislatore non attribuisce una qualificazione precisa all’attività svolta dalgiudice chiamato a ristabilire l’equità contrattuale. La dottrina pressochéunanime (6), in proposito, ha, tuttavia, genericamente ricompreso il compor-tamento giudiziale in questione nella categoria del potere, così sottintenden-do, evidentemente, che il ripristino dell’equità dell’accordo così come l’appli-cazione dei termini legali costituiscono espressione delle attribuzioni del giu-dice ordinario. Per meglio individuare i caratteri della fattispecie, il potere inquestione deve collocarsi, in linea con la più accreditata dottrina processualci-vilistica (7), nell’ambito di quel controllo estrinseco, finalizzato alla direzionedel procedimento, dal quale si sviluppano i ristretti margini dell’impulso d’uf-ficio nell’ambito di un processo essenzialmente permeato dal principio dispo-sitivo.

Se, però, non si ravvisano particolari controindicazioni ad una siffatta ri-costruzione, non altrettanto accade in relazione all’oggetto di tale potere. Si

(6) Sulla qualificazione dell’intervento del giudice come potere, cfr. A.M. Benedetti, inAa.Vv., I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 135 ss., il quale, aproposito dell’alternativa tra applicazione dei termini legali e ripristino dell’equità, parla di« ... scelta della “terapia” idonea a ripristinare la funzionalità dello scambio contrattuale »;nello stesso senso v. S. De Nova, in G. De Nova-S. De Nova, I ritardi di pagamento nei con-tratti commerciali, cit., p. 28; Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione delcontratto, cit., p. 148, la quale ritiene che il legislatore della novella abbia voluto attribuireal giudice « ... un ampio potere determinativo del contenuto del regolamento negoziale »;anche Scotti, Aspetti di diritto sostanziale del d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, ecc., cit., p.623, pur definendolo « inconsueto », ritiene che si tratti di un potere; nello stesso senso DeMarzo, Ritardi di pagamento nei contratti tra imprese: l’attuazione della disciplina comu-nitaria, cit., p. 1162; così anche Vardi, Il decreto legislativo n. 231 del 2002, ecc., cit., p.1044; oltreché Perreca, I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: d. lgs. 9 otto-bre 2002 n. 231, cit., p. 1276 il quale definisce l’intervento giudiziale come « ... potere cor-rettivo del giudice »; la natura giuridica della fattispecie in questione sarebbe, invece, quel-la della facoltà secondo Frignani-Cagnasso, L’attuazione della direttiva sui ritardi di paga-mento nelle transazioni commerciali, cit., p. 313.

(7) Cfr., in tal senso, Comoglio-Ferri-Taruffo, Lezioni sul processo civile, Bologna,1995, p. 395, i quali, nella classificazione dei poteri giudiziali, annoverano anche i poteri didirezione del procedimento che si caratterizzano per una marcata discrezionalità del giudi-ce da esercitarsi nel necessario contemperamento del principio dell’impulso di parte con larilevanza pubblicistica degli interessi diretti al sollecito e leale svolgimento del processo;nello stesso senso v. Montesano-Arieta, Trattato di diritto processuale, I, 2, Padova, 2001,p. 1077, i quali osservano che i poteri di direzione del giudice hanno riacquistato l’origina-ria importanza a seguito della riforma del c.p.c. dopo l’entrata in vigore della novella del1990; sui poteri del giudice nel processo civile si vedano, inoltre, La China, Diritto proces-suale civile generale, Milano, 1991, p. 581 ss.; Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano,1997, p. 45 ss.; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale, Napoli, 1994, p. 123 ss.; SattaPunzi, Diritto processuale civile, 11a ed., Padova, 2005.

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registrano infatti opinioni discordanti in dottrina a proposito del ricorso indif-ferenziato, da parte del giudice, all’applicazione dei termini legali ovvero alripristino dell’equità.

E ciò deriva, innanzitutto, dalla differente formulazione del testo delladirettiva rispetto a quello della disciplina di attuazione. Nella prima, infatti,l’inciso finale del paragrafo 3o dell’art. 3 recita testualmente: « Ove si accertiche tale accordo è gravemente iniquo, si applicano i termini legali, a menoche il giudice nazionale non riporti il contratto ad equità », mentre in sede direcepimento il legislatore interno, al comma 3o dell’art. 7, ha previsto che: « ilgiudice, anche d’ufficio, (.....) applica i termini legali ovvero riconduce adequità il contenuto dell’accordo medesimo ».

In mancanza di una piena coincidenza letterale delle due norme, alcuni(8), commentando il testo della direttiva ed auspicandone la coincidenza conquello di recepimento, ritengono che la riduzione ad equità debba avere laprecedenza nel senso che la sostituzione delle clausole difformi con le previ-sioni legali possa avvenire soltanto qualora il giudice abbia escluso di ripristi-nare in altro modo l’equità.

Altri Autori (9), invece, dall’esame del decreto legislativo di attuazionedesumono una assoluta pariteticità tra l’applicazione dei termini legali e la ri-conduzione ad equità attribuendo all’operato del giudice la massima discre-zionalità. In proposito si è osservato, infatti, che l’alternatività tra l’applica-zione dei termini legali ed il ripristino dell’equità trova conferma nella quali-ficazione di tali attività come espressione dei poteri del giudice dal momentoche una preventiva preferenza manifestata dal legislatore verso l’uno o l’altro

(8) Così Zaccaria, La direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di paga-mento nelle transazioni commerciali, cit., p. 270, il quale osserva « Dal testo sembrerebbepotersi ricavare che la riduzione ad equità deve avere la precedenza: in altre parole, il testodella norma sembra dire che la sostituzione delle clausole difformi con le previsioni legalipuò avere luogo solo una volta che il giudice abbia ritenuto non sussistere spazio per unariconduzione ad equità in altri modi »; all’indomani della emanazione della direttiva sem-bra, invece, essere di diverso avviso Conti, La direttiva 2000/35/CE sui ritardati pagamentie la legge comunitaria 2001 di delega al Governo per la sua attuazione, cit., p. 811, il qua-le ritiene che spetti soltanto al giudice decidere se applicare i termini legali ovvero ristabili-re l’equità.

(9) Così A.M. Benedetti, in Aa.Vv., I ritardi di pagamento, ecc., cit., p. 135, il quale,riferendosi alla legge di recepimento, osserva: « .... pare non stabilire una precisa gerarchiatra le due “terapie” suggerite dal legislatore per ripristinare la funzionalità del contratto:(...) al giudice spetta scegliere la soluzione migliore sulla scorta dei medesimi criteri utiliz-zati per scrutinare la validità dell’accordo derogatorio »; nello stesso senso S. De Nova, inG. De Nova-S. De Nova, I ritardi di pagamento nei contratti commerciali, ecc., cit., p. 28;la paritetica alternativa tra applicazione dei termini legali e riconduzione del contratto adequità è condivisa anche da Pandolfini, La nuova normativa sui ritardi di pagamento nelletransazioni commerciali, cit., p. 78. Il passaggio dalla prevalenza del ripristino dell’equità,presente nella direttiva, alla alternatività tra i due rimedi a disposizione del giudice è statoevidenziato da Sanna, L’attuazione della dir. 2000/35/CE in materia di lotta, ecc., cit., p.273; così anche Russo, La nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni com-merciali, cit., p. 493.

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rimedio si rivelerebbe incompatibile proprio con il concetto di potere giudi-ziale in precedenza delineato (10).

La dottrina prevalente (11), pertanto, sulla scorta di tali considerazioniritiene che il giudice possa comunque ristabilire l’equità contrattuale anchequalora il creditore abbia espressamente domandato l’accertamento della nul-lità. La presenza dell’avverbio « ovvero » nel comma 3o dell’art. 7 lascerebbe,infatti, intendere — secondo alcuni — che il potere correttivo-integrativo delgiudice non possa trovare limitazioni nella volontà di uno dei contraenti chesollecita l’accertamento della nullità del patto.

Il possibile ricorso indifferenziato — ad opera del giudice — ai terminilegali ovvero al ripristino dell’equità contrattuale troverebbe, tuttavia, anchea parere di alcuni dei sostenitori dell’opinione appena illustrata, una limita-zione di carattere oggettivo nel caso di vendita di prodotti alimentari deterio-rabili. Tale categoria merceologica, in relazione alla quale il legislatore inter-no, all’art. 4, comma 3o, — esercitando l’espressa facoltà contemplata dalcomma 2o dell’art. 3 della direttiva — ha sancito, come è noto, un termine le-gale di pagamento di sessanta giorni (contro quello di trenta giorni previstoper tutti gli altri tipi di prodotti) con una maggiorazione di ulteriori due puntipercentuali del saggio di interesse previsto dal successivo art. 5, non rientre-rebbe — secondo una parte della dottrina (12) — nell’orbita della riconduzio-ne ad equità ad opera del giudice, il quale, per tali prodotti, sarebbe tenutoesclusivamente all’applicazione dei termini legali. Si tratterebbe — si è detto— di un’ipotesi di « inderogabilità forte » che, in quanto prevista espressa-

(10) In tal senso v. Perreca, I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, ecc.,cit., p. 1277, il quale, occupandosi delle differenze tra il meccanismo introdotto dalla no-vella e la sostituzione automatica di clausole ex art. 1339 c.c., osserva: « il timore di conse-guenze destabilizzanti per il settore degli scambi commerciali ha indotto il legislatore a op-tare per una soluzione più articolata ed al tempo stesso più innovativa per il nostro sistemadel diritto contrattuale ».

(11) Così Conti, Il d. lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pa-gamenti nelle transazioni commerciali, cit., p. 115; nello stesso Sanna, L’attuazione, ecc.cit., p. 273, il quale ritiene preferibile siffatta soluzione in quanto « ... maggiormente orien-tata verso la valorizzazione del criterio oggettivo della “corretta prassi commerciale” »; sulpunto v. anche Carano, in Aa.Vv., I ritardi nei pagamenti, cit., p. 55 il quale osserva: « ...sul piano processuale, la stessa dichiarazione di nullità di un accordo in deroga (...) potreb-be entrare in conflitto con il principio stesso della domanda (...) là dove la domanda siastata formulata dal creditore facendo valere invero il tenore dell’accordo »; considerato ilrischio di una pronuncia ultra petita, v., in senso contrario, Monticelli, Considerazioni suipoteri oficiosi del giudice, ecc., cit., p. 225.

(12) In argomento cfr. S. De Nova, in G. De Nova-S. De Nova, I ritardi di pagamentonei contratti commerciali, cit., p. 28, la quale ritiene che l’inderogabilità del tasso di inte-resse previsto per i prodotti alimentari deteriorabili costituisca un limite invalicabile ancheper l’intervento del giudice ex art. 7, comma 3o; nello stesso senso v. Russo, La nuova disci-plina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit. p. 493, il quale giunge al-le medesime conclusioni esclusivamente in ragione dell’espressa previsione di inderogabilitàdel termine e del saggio degli interessi riguardanti i contratti aventi ad oggetto tali prodotti.

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mente dalla legge, non sarebbe sottoponibile al potere del giudice di ripristi-nare l’equità contrattuale, al quale, al contrario, soggiacerebbe solo il terminegenerale di pagamento di cui all’art. 4, comma 2o, qualificato come espressio-ne della « inderogabilità debole ».

Il potere giudiziale di ristabilire l’equità contrattuale presuppone l’avve-nuta dichiarazione, anche d’ufficio, della nullità dell’accordo sulla data delpagamento (o sulle conseguenze del ritardato pagamento) in ragione della suagrave iniquità.

L’accertamento della nullità, previsto dal comma 1o dell’art. 7, si basasugli stessi parametri, richiamati dal successivo comma 3o del medesimo art.7, ai quali deve riferirsi il giudice per riportare il contratto ad equità.

Sulla previsione di nullità in questione in dottrina è stata prospettata unaserie di differenti opinioni.

La tesi prevalente (13) è quella che, in linea con quanto previsto dalla Re-lazione governativa, qualifica la fattispecie come nullità parziale in ragionedella caducazione degli effetti limitata alla sola pattuizione gravemente ini-qua. Quest’ultima, infatti, ai sensi dell’art. 7 comma 3o, sarebbe sostituita, at-traverso il meccanismo di cui all’art. 1339 c.c., dai termini legali (introdottidalla novella) senza travolgere l’intero contratto.

Le ragioni di una simile soluzione devono ricercarsi — a parere della dot-trina in esame (14) — nella recente tendenza legislativa diretta alla salvaguar-dia del contraente debole al quale si consente di evitare che l’altra parte possaottenere la caducazione dell’intero contratto attraverso la dimostrazione del-l’essenzialità della clausola invalida.

Un’altra corrente di pensiero (15) che rifiuta l’impostazione seguita dallaRelazione governativa, invece, ravvisa nella nullità in questione una serie dipeculiarità che la differenziano dalla categoria codicistica della nullità parzia-

(13) Così S. De Nova, in G. De Nova-S. De Nova, I ritardi di pagamento nei contratticommerciali, cit., 26, la quale osserva « ... la nullità prevista dall’art. 7.1 è un’ipotesi dinullità parziale che può essere dichiarata anche d’ufficio dal giudice ex art. 1419, secondocomma, codice civile »; nello stesso senso v. Carano, in Aa.Vv., I ritardi nei pagamenti, cit.,p. 52, il quale propende per la qualifica di nullità parziale in ragione del riferimento nor-mativo ai « termini legali » che viene interpretato come applicazione del « ... collaudatomeccanismo di cui agli artt. 1419, comma 2o, e 1339 c.c. »; in senso contrario v., tuttavia,Russo, La nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p.491, il quale ritiene che la imprescrittibilità dell’azione, la legittimazione assoluta e il pote-re esercitabile dal giudice d’ufficio possano conciliarsi con la qualificazione dell’invaliditàin questione in termini di inefficacia.

(14) Oltre gli Aa. citati nella precedente nota (13), v., in particolare, Pandolfini, Lanuova normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 77 il qualeindividua nella nullità parziale lo strumento più adatto a salvaguardare la posizione delcontraente debole contro il rischio della caducazione dell’intero contratto.

(15) Cfr., in tal senso, Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione del con-tratto, cit., p. 92, la quale critica la Relazione governativa a proposito dell’assimilazionedella invalidità prevista dalla novella alla nullità parziale.

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le allontanandola altresì dal congegno della sostituzione automatica di clauso-le.

Si tratterebbe, in particolare, di una nullità « per l’effetto » in ragionedella sua non immediata individuabilità a causa della prodromica « attivitàinterpretativa volta a mettere in luce tutte le specificità della relazione con-trattuale e a valutare in chiave prospettica le possibili conseguenze della pat-tuizione » (16).

La causa della nullità prevista dalla novella, coincidente con la grave ini-quità in danno del creditore e non già con la violazione di una norma impera-tiva, rappresenta — a parere dell’opinione in esame — la principale differen-za con la fattispecie di cui all’art. 1419 c.c. Quest’ultima, inoltre, sempre se-condo la dottrina in commento (17), diverge dalla disciplina introdotta dallanovella in quanto la sostituzione della clausola nulla avviene di diritto conl’applicazione delle nome imperative violate senza che il giudice possa — co-me, invece, prevede l’art. 7, comma 3o, — scegliere tra la riformulazione dellaclausola secondo equità e l’applicazione delle previsioni legali. Si tratterebbe,pertanto, di una figura diversa e ulteriore rispetto alla fattispecie prevista dal-l’art. 1419 c.c., da qualificarsi, tuttavia, come nullità parziale intesa nellasua accezione meramente letterale ossia come nullità riferita a una parte sol-tanto del contratto.

Le differenti opinioni proposte in dottrina a proposito della qualificazio-ne (e del fondamento) della nullità in questione si registrano anche in ordineal regime di tale invalidità.

Secondo un primo orientamento (18), infatti, al potere del giudice di di-chiarare d’ufficio la nullità (contemplato dall’art. 7, comma 3o) si accompa-gna la regola, prevista — come è noto — per la nullità codicistica, della legit-timazione generale a far valere la sanzione da parte di chiunque vi abbia inte-resse. In senso contrario, invece, altri autori (19), dopo aver criticato l’equa-zione tra rilevabilità d’ufficio e legittimazione assoluta, ritengono che la tutelaintrodotta dalla novella, pur mirando alla salvaguardia di un interesse di ca-rattere generale, debba essere interpretata in senso unidirezionale in favoredel creditore, con esclusione, quindi, del debitore dai soggetti legittimati afarla valere.

(16) Così, testualmente, Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione del con-tratto, cit., p. 92.

(17) Si tratta sempre dell’opinione di Venuti, Nullità della clausola e tecniche di corre-zione del contratto, cit., p. 101.

(18) In argomento v. Pandolfini, La nullità degli accordi « gravemente iniqui » nelletransazioni commerciali, in Contratti, 2003, 510; Maffeis, Abuso di dipendenza economicae grave iniquità dell’accordo sui termini di pagamento, ivi, 2003, p. 623.

(19) Sul punto v., in particolare, A. M. Benedetti, in Aa.Vv., I ritardi di pagamento nelletransazioni commerciali, cit., p. 133; La Spina, La nullità relativa degli accordi in materia diritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Rass. d. civ., 2003, p. 153; nello stessosenso, Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione del contratto, cit., p. 111.

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A ben vedere la nullità in questione si caratterizza, in realtà, per evidentielementi di specialità che riguardano non tanto il suo regime, ma, piuttosto, ilsuo fondamento. Se, infatti, la rilevabilità d’ufficio e la legittimazione ad agi-re da parte di chiunque vi abbia interesse (e non del solo creditore) — desu-mibili entrambe dalla lettura dell’art. 7 comma 3o — richiamano i criteri del-la disciplina ordinaria, la inosservanza del canone equitativo, piuttosto che laviolazione di norme imperative induce a riscontrare, a proposito del fonda-mento di tale invalidità, un’indubbia deviazione dal sistema (20). E ciò trovaulteriore conferma nell’introduzione — ad opera del legislatore della novella— del potere giudiziale di ripristino dell’equità in alternativa all’applicazionedei termini legali che rende definitivamente incompatibile l’invalidità in que-stione con la sostituzione della clausola nulla con norme imperative, prevista,invece, per la nullità parziale di matrice codicistica.

La sanzione introdotta dalla novella non può, pertanto, che essere collo-cata fra le svariate forme di nullità speciali derivanti dal processo di progres-siva frantumazione della generale categoria della nullità intrapreso di recentedal legislatore delle leggi speciali.

3. — Si è detto in precedenza (cfr. infra paragr. 1) che la ratio generaledel decreto legislativo di recepimento, così come quella della direttiva, coinci-de con l’esigenza di ridurre la lunghezza eccessiva dei tempi di pagamento edi snellire le modalità di escussione dei crediti scaduti al fine di adeguare cosìil mercato interno e quello di altri Paesi del Mediterraneo ai termini di adem-pimento mediamente praticati nei Paesi scandinavi, anglosassoni e germanici.

La specifica disposizione dell’art. 7, comma 3o, che attribuisce al giudiceil potere di ripristinare d’ufficio l’equità contrattuale violata da accordi grave-mente iniqui in danno del creditore, sembrerebbe proprio ispirarsi al raggiun-gimento delle finalità che permeano l’intera disciplina.

Tuttavia, la prevalente dottrina che si è occupata del problema (21), nel

(20) Sulla violazione del canone equitativo quale fondamento della nullità prevista dallanovella, v., specificamente, Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione del con-tratto, cit., p. 101; più in generale, sul rapporto tra la categoria codicistica della nullità e lenullità speciali, v. Passagnoli, Nullità speciali, Milano, 1995, p. 191 ss., il quale ha elabo-rato la categoria della nullità speciale con finalità protettive, caratterizzata dalla legittima-zione a farla valere esclusivamente in capo al contraente debole affinché l’altro contraentenon possa, a sua volta, paralizzare il contratto o la clausola colpita da invalidità.

(21) Così Carano, in Aa.Vv., I ritardi nei pagamenti, cit., p. 55, il quale ritiene che « ...astrattamente il giudice (...) potrebbe applicare una disciplina (giudiziaria) più severa nonsolo rispetto a quella (convenzionale) pattuita ma giudicata gravemente iniqua, ma anche aquella (legale) indicata nello stesso decreto legislativo »; sul punto cfr., inoltre, Pandolfini,La nuova normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 82, ilquale osserva: « Tuttavia, considerando che, nelle intenzioni del legislatore comunitario, lanormativa in esame è reputata idonea a contrastare il fenomeno dei ritardi nei pagamentied a tutelare gli interessi dei creditori, (...) appare, invero, improbabile che il giudice — edin special modo, per quel che interessa in questa sede, il giudice italiano, — possa ritenere

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commentare la norma in esame non interpreta l’esercizio del potere giudizialecome direttamente finalizzato alla protezione dei diritti del creditore.

Nonostante il potere del giudice sia caratterizzato da ampi margini di di-screzionalità tanto da consentirgli astrattamente l’introduzione, in via equita-tiva, di un regolamento negoziale ancor più favorevole al creditore rispetto aitermini legali previsti dalla disciplina in esame, alcuni Autori (22) hanno, co-munque, escluso che egli possa in concreto ritenere maggiormente equa unadisciplina più penalizzante per il debitore. A tali conclusioni si è giunti facen-do valere un’argomentazione di carattere letterale fondata sull’inciso « ricon-duce » adoperato dal legislatore della novella nella disposizione di cui all’art.7, comma 3o. Da quella espressione si desume — si è detto — l’intento di mi-tigare la disciplina legale, considerata particolarmente pregiudizievole per ildebitore. A ciò si è aggiunto che la scelta del legislatore comunitario e di quel-lo nazionale di ricondurre l’accordo ad equità anziché applicare i termini le-gali nasce proprio dalla consapevolezza che i termini di pagamento e gli inte-ressi di mora previsti dalla nuova disciplina si discostano notevolmente dal-l’attuale prassi commerciale caratterizzata da termini più ampi e saggi di in-teresse più bassi.

La previsione dell’intervento giudiziale acquisterebbe, pertanto, propriola funzione di introdurre una « corretta prassi commerciale » a metà stradatra le pratiche negoziali correnti, frutto di un generalizzato abuso della libertàcontrattuale, e i termini legali, giudicati troppo svantaggiosi per il debitore.

Di contrario avviso si è mostrata, invece, un’altra corrente di pensiero(23) la quale, dopo aver manifestato il proprio apprezzamento per la sicura ef-

maggiormente “equa” una disciplina ancor più penalizzante per il debitore di quella intro-dotta dalla nuova normativa »; così anche S. De Nova, in G. De Nova-S. De Nova, I ritardidi pagamento nei contratti commerciali, cit., p. 28, la quale osserva: « ... ma, soprattuttonei primi tempi, è probabile che il giudice si rifaccia ad una corretta prassi commercialeapplicabile al caso di specie, prassi che, in ogni caso, si discosta dai termini legali ».

(22) Cfr., in proposito, gli Aa. citati alla precedente nota (21) oltreché Scotti, Aspetti didiritto sostanziale, ecc. cit., p. 622, il quale manifesta scetticismo circa l’intervento d’uffi-cio del giudice non preceduto dall’impulso di parte ed, al riguardo, osserva: « È comunqueabbastanza improbabile che il giudice abbia gli elementi per valutare la nullità, che presup-pone la grave iniquità, e la disamina dei vari parametri valutativi proposti dalla legge, senon è stata la stessa parte a sottoporglieli e a comprovarli in giudizio »; così anche Bregoli,La legge sui ritardi di pagamento, ecc., cit., p. 747; nello stesso senso S. De Nova, in G. De

Nova-S. De Nova, I ritardi, ecc. cit., p. 28, la quale evidenzia la consapevolezza del legisla-tore della novella sul fatto che i termini legali « ... si discostano notevolmente dalla prassicommerciale, che si caratterizza per termini di pagamento particolarmente alti e per inte-ressi di mora particolarmente bassi ».

(23) Così Conti, Il d. lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva, ecc., cit., p. 116,il quale rileva: « Attribuire al giudice il potere di intervenire d’ufficio appare quindi del tut-to coerente con il regime civilistico che la direttiva indica come sanzione nei confronti diclausole contrattuali inserite nei contratti tra imprese che rientrano nel suo campo di appli-cazione »; in senso favorevole al meccanismo di ripristino giudiziale introdotto dalla novel-la, ma senza nascondere le difficoltà cui andrà incontro il giudice con il suo intervento cor-

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ficacia dell’intervento giudiziale definendolo idoneo a svolgere un’azione dideterrenza, ha individuato la ratio della disposizione in esame nell’esigenza dioffrire al creditore una « tutela effettiva » diretta ad evitare che questi ignori isuoi diritti o incontri difficoltà nell’esercitarli.

Si è giunti così a ravvisare la presenza di un interesse pubblico economi-co coincidente con l’esigenza di neutralizzare gli effetti pregiudizievoli perl’imprenditore derivanti dalla presenza di clausole lesive della sua libertà con-trattuale.

In senso favorevole ad interpretare la disposizione in esame come espres-sione della salvaguardia della posizione del creditore si segnala altresì l’opi-nione di chi (24) ha sottolineato l’emersione di asimmetrie di potere contrat-tuale in ambito diverso dall’area dei contratti del consumatore in ragione delprogressivo affievolimento del divario tra le c.d. transazioni unilaterali quali-ficate (business to consumer) e le c.d. transazioni commerciali bilaterali pure(business to business), là dove anche queste ultime necessitano sempre più difrequente di una correzione del contratto per renderlo conforme ai canoni del-la buona fede e della correttezza. In quest’ottica deve essere, quindi, collocato— secondo la dottrina in esame — il potere del giudice di cui all’art. 7, com-ma 3o che, d’altra parte, si adegua alle medesime tecniche di intervento giudi-ziale previste nei PECL (Principals of European Contract Law) per tutti gliscambi che si allontanano dagli « ... usuali parametri mercantili ».

4. — La Relazione governativa, nel punto dedicato al commento dell’art.7 della novella, si caratterizza per l’espresso riferimento alla categoria dell’in-tegrazione del contratto richiamando espressamente il « ... potere integrativoesercitato ex officio dal giudice ». Nonostante il chiaro tenore letterale della

rettivo, v. De Marzo, Ritardi di pagamento nei contratti tra imprese: l’attuazione della di-sciplina comunitaria, cit., p. 1162.

(24) Così Sanna, L’attuazione della dir. 2000/35/CE, ecc., cit., p. 274, il quale sottoli-nea che, in ambito europeo, al di fuori dei contratti con il consumatore, si assiste all’emer-sione di un nuovo paradigma caratterizzato da asimmetrie di potere tra le parti a prescin-dere dalla qualifica socio-economica di ciascuna di esse; in questo senso v., amplius, Roppo,Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di poterecontrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in R. crit. d. priv., 2001, 2001, p.769 ss.; in argomento cfr., inoltre, Zeno Zencovich, Il diritto europeo dei contratti (verso ladistinzione fra contratti commerciali e contratti con i consumatori), in G. it., 1993, IV, p.57 ss.; oltreché Grundmann, La struttura del diritto europeo dei contratti, in questa Rivista,2002, p. 365 ss., il quale risale alle ragioni per cui, almeno inizialmente, l’intervento comu-nitario ha riguardato esclusivamente l’area dei contratti del consumatore; in argomento v.,da ultimo, Calvo, I contratti con i consumatori, nel Trattato di dir. comm. e di dir. pubbl.dell’ec., XXIV, diretto da Galgano, Padova, 2005, p. 37; per quanto riguarda i PECL ri-chiamati nel testo, si fa riferimento alla seconda versione che il 16 dicembre 1999 la Com-missione per la redazione di un progetto di codice civile europeo ha presentato all’Universi-tà di Utrecht; per un diffuso commento si rinvia a Lando, Principles of European ContractLaw and Unidroit Principles: Moving from Harmonisation to Unification?, in Uniform LawRev., 2003, p. 123 ss.; oltreché Principi di diritto europeo dei contratti, I e II, versione ita-liana a cura di Castronovo, Milano, 2001.

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Relazione, la dottrina prevalente ha tuttavia escluso la possibilità di ricondur-re la fattispecie in esame alla categoria dell’integrazione del contratto di cuiall’art. 1374 c.c.

La prima ragione di distinguo — da alcuni evidenziata (25) — riguarda ilmomento operativo della fattispecie in quanto il potere del giudice previstodall’art. 7 della novella — si è detto — attiene alla fase rimediale e non già aquella fisiologica alla quale, invece, si riferisce la disposizione dell’art. 1374c.c. Si è osservato, inoltre, che, contrariamente a quanto accade per il princi-pio di integrazione del contratto, caratterizzato dal concorso della difettosaespressione della volontà delle parti con l’intervento equitativo del giudicenella formazione del regolamento negoziale, quest’ultimo, quando il giudiceesercita il potere di ripristino dell’equità ai sensi dell’art. 7 della novella, su-bisce una completa rielaborazione rimessa integralmente alla volontà giudi-ziale senza alcun apporto ad opera dei contraenti.

Al fine di allontanare definitivamente la possibilità di ricondurre la fatti-specie in esame all’integrazione è stato inoltre evidenziato che quest’ultimanon consiste in una sostituzione-correzione di elementi già definiti dai con-traenti con un diverso regolamento negoziale non voluto né presupposto, ma,al contrario, essa si caratterizza per una valutazione negativa e una conse-guente reazione correttiva ad opera dell’ordinamento su un assetto negozialein cui le parti hanno pienamente esercitato il potere di autoregolamentazionedei propri interessi (26). L’operatività dell’integrazione in una fase fisiologicadel rapporto contrattuale, contrapposta al momento patologico in cui, invece,interviene il potere giudiziale previsto dalla novella, escluderebbe, dunque,qualunque tentativo di identificare quest’ultimo con la prima.

Alle medesime conclusioni perviene un altro Autore (27) il quale, richia-

(25) Così Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione del contratto, cit., p.118, la quale sottolinea altresì che nella disciplina in esame l’intervento è « ... rimesso inte-ramente alla volontà del giudice per quanto concerne l’individuazione della modalità direalizzazione (sostituzione con le norme di legge ovvero riconduzione ad equità) »; sull’inte-grazione del contratto v., in generale, Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Mila-no, 1965; Sacco, L’integrazione, in De Nova-Sacco, Obbligazioni e contratti, nel Tratt. Re-scigno, 10, II, Torino, 1988, p. 468 ss.; Franzoni, Degli effetti del contratto, II, Integrazionedel contratto. Suoi effetti reali e obbligatori, nel Codice Schlesinger, Milano, 1999.

(26) Così ancora Venuti, Nullità della clausola, ecc., cit., p. 119, la quale osserva « ... siritiene qui che la previsione dell’art. 1374 c.c. in materia di integrazione del contratto nonriguardi fenomeni — come quello contemplato dall’art. 7 in commento — di intervento percosì dire ex post sul contratto » sottolineando che tale opinione trova conferma sia nella let-teratura classica (Betti, Teoria generale del negozio giuridico, nel Tratt. Vassalli, Torino,1955, XV, 2, p. 354; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1989,p. 230) che in quella più critica alla dogmatica tradizionale (Rodotà, Le fonti di integrazio-ne del contratto, cit., p. 73 ss.; P. Barcellona, Intervento statale e autonomia privata nelladisciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, p. 159 ss.).

(27) Cfr., in tal senso, Bregoli, La legge sui ritardi di pagamento, ecc., cit., p. 747, ilquale, riferendosi alla disposizione di cui all’art. 7, comma 3o, osserva: « La misura intro-dotta rappresenta un interessante tentativo di attribuire al giudice (“anche d’ufficio”) pote-

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mando l’opinione della miglior dottrina, sottolinea che le ipotesi in cui l’ordi-namento riserva al giudice il potere di modificare equitativamente il contenu-to del contratto esulano dalla generale previsione delle fonti di integrazione erivestono, comunque, carattere eccezionale.

Deve, infine, segnalarsi l’opinione di chi (28), limitandosi a riportare fe-delmente il testo della Relazione governativa nella parte dedicata all’illustra-zione delle ragioni che hanno indotto all’introduzione della disposizione inesame, sembra condividerne il contenuto a proposito dell’esplicita qualifica-zione del ripristino giudiziale dell’equità contrattuale come ipotesi di integra-zione del contratto, ma non propone, tuttavia, ulteriori spunti argomentativiin favore di tale soluzione.

5. — Nella Relazione governativa l’uso della terminologia comunitariafondata sulla « grave iniquità » quale presupposto dell’intervento giudizialeviene giustificato sottolineando che il rimedio introdotto deriva da una « pa-tologia genetica » del negozio caratterizzato da « ... un abuso originario di uncontraente nei confronti della controparte ». Tale precisazione ha indotto unaparte della dottrina a confrontare la fattispecie in esame con l’offerta di modi-fica del contratto a condizioni inique, finalizzata ad evitare la rescissione (art.1450 c.c.).

In proposito alcuni Autori (29) hanno evidenziato che la somiglianza tra i

ri correttivi che, nel nostro ordinamento, sono quasi sconosciuti ed eccezionali ». Lo stessoA. ricorda il pensiero di Bianca (Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, p. 519, nt. 66)a proposito della eccezionalità del potere giudiziale di modificare equitativamente il conte-nuto del contratto che esula dalla previsione generale delle fonti di integrazione.

(28) Così Scotti, Aspetti di diritto sostanziale, ecc., cit., p. 621; sul punto la Relazionegovernativa richiama espressamente la l. 18 giugno 1998, n. 192 in tema di subfornituranelle attività produttive, il d. legisl. 2 febbraio 2002, n. 24 in materia di garanzia nella ven-dita di beni di consumo, oltreché la l. 6 febbraio 1996, n. 52 che ha introdotto il capo XIVbis del codice civile rubricato « Dei contratti del consumatore »; in proposito nel documentogovernativo si legge testualmente: « L’opzione appare anche in armonia con le disposizionirecate dall’articolo 6 della legge 18 giugno 1998, n. 192 che, in tema di subfornitura nelleattività produttive, sanziona con la nullità la violazione del divieto di abuso nei confrontidell’impresa versante in situazione di dipendenza economica, oltre che dal decreto legislati-vo n. 24 del 2002, in tema di garanzia nella vendita dei beni di consumo, ove pure, supe-randosi l’originaria impostazione dell’articolo 1469 quinquies del codice civile, e, esercitan-do il potere di integrazione del contratto, applica i termini legali ovvero riporta il contrattoad equità, avuto riguardo all’interesse del creditore, alla corretta prassi commerciale ed allecircostanze, soggettive ed oggettive, menzionate nel comma 1o ».

(29) In argomento si rimanda a Carano, in Aa.Vv., I ritardi nei pagamenti, cit., p. 55;Pandolfini, La nuova normativa, ecc., cit., p. 81, il quale distingue la reductio codicisticada quella prevista nel decreto legislativo proprio in ragione della necessaria presenza, nellaprima, della domanda di parte convenuta che, invece, nella seconda è sostituita dall’inter-vento giudiziale attraverso il quale viene discrezionalmente stabilito il contenuto della re-ductio; così anche Venuti, Nullità della clausola, ecc., cit., p. 138, la quale, riferendosi allaprevisione di cui all’art. 1450 c.c., parla di « ... risistemazione del rapporto affidata alla vo-lontà dei privati ».

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due istituti in ragione della presenza in entrambi di un ripristino dell’equitàcontrattuale sottoposto al controllo giudiziale non deve, tuttavia, indurre l’in-terprete ad identificare l’una con l’altra le due fattispecie. Nella disciplinaprevista dall’art. 1450 c.c. — si è detto — la rescissione può essere evitata so-lo in presenza di una specifica domanda della parte interessata che mira a ri-portare il contratto ad equità, con un conseguente e successivo controllo delgiudice — nel caso di proposta indeterminata — avente ad oggetto l’idoneitàdell’offerta formulata. Al contrario, invece, il potere attribuito al giudice dallanovella presupporrebbe — si è detto — un suo intervento di ampia discrezio-nalità consentendogli, a prescindere dall’impulso di parte, di determinared’ufficio i caratteri della pattuizione equa. A ciò si è altresì aggiunto (30), ri-chiamando un’autorevole dottrina, che la conservazione dell’equilibrio con-trattuale non si pone come fine primario dell’ordinamento ad esclusione del-l’ipotesi eccezionale di lesione ultra dimidium.

In senso favorevole ad identificare il meccanismo introdotto dalla novellacon quello previsto dall’art. 1450 c.c. si segnala, inoltre, l’opinione di chi (31),pur premettendo che « ... l’analogia è superficiale e orientativa », riconducela fattispecie in esame all’azione generale di rescissione per lesione qualifican-do espressamente come rescissorio il rimedio previsto dall’art. 7, comma 3o,della novella. In particolare, tale dottrina ha ritenuto che, nonostante la man-canza dei presupposti dello stato di bisogno e della dimensione ultra dimi-dium della lesione — entrambi caratterizzanti la tutela rescissoria — la sussi-stenza della contrarietà alla corretta prassi commerciale, accompagnata dal-l’elemento soggettivo dell’approfittamento (desunto dalla disposizione di cuiall’art. 7, comma 2o), oltreché, naturalmente, dalla riconduzione del contenu-

(30) Sul punto v. ancora, Venuti, Nullità della clausola ecc., cit., p. 132, la quale osser-va: « A stretto rigore un problema di “deperimento” del sinallagma o, più esattamente, digrave difetto di funzionamento si pone soltanto in presenza di quella sproporzione oltre lametà che costituisce la soglia di attenzione del legislatore nei riguardi del problema (...)dell’equivalenza dei valori economici nei contratti a prestazioni corrispettive ». L’A. richia-ma, inoltre, il pensiero di Nicolò (Alea, in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 1026) a parere delquale « ... la realizzazione e la conservazione dell’equilibrio contrattuale non si pone davve-ro come un fine primario dell’ordinamento »; sulla rescissione in generale si rimanda a Car-resi, Rescissione I) Diritto civile, in Enc. giur., XXXVI, Roma, 1991, p. 1 ss.; Mirabelli, Larescissione del contratto, Napoli, 1962; Carpino, La rescissione del contratto, nel CodiceSchlesinger, Milano, 2000; Costanza, Sulla reductio ad aequitatem del contratto rescindibi-le, in Giust. civ., 1979, p. 1091 e ss.

(31) Così Russo, La nuova disciplina, ecc., cit., p. 492, il quale rileva che « ... in defini-tiva, il potere del giudice è analogo al potere che viene esercitato nella azione generale direscissione per lesione; il rimedio che viene concesso è di tipo rescissorio (...). Sono presentituttavia, anche nella terminologia, elementi propri dei rapporti contrattuali rescindibili: ilvenire contro alla corretta prassi commerciale (...); l’elemento subiettivo dell’approfitta-mento ricorrente nell’ipotesi di cui al comma 2o dell’art. 7, la possibilità di riconduzione adequità del contenuto dell’accordo »; in senso contrario, a proposito della mancanza dei re-quisiti soggettivi dello stato di bisogno e dell’approfittamento, v. specificamente Venuti,Nullità della clausola, ecc., cit., p. 132, nt. 37.

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to dell’accordo ad equità, debbano indurre a qualificare la fattispecie in esa-me come espressione della tutela rescissoria, da ricomprendersi tra i rimedidiretti al riequilibrio delle prestazioni contrattuali.

A tali conclusioni giunge anche quella parte della dottrina (32) che, purtenendo conto delle ragioni per le quali nella Relazione governativa la rescis-sione è stata ritenuta non coniugabile con il principio della rilevabilità d’uffi-cio, sottolinea che la somiglianza fra i due istituti derivi della presenza, in en-trambi, di un vizio genetico suscettibile di essere corretto con la reductio adaequitatem.

6. — Qualche breve osservazione merita anche il necessario raffronto conl’offerta di ripristino dell’equità per evitare la risoluzione per eccessiva onero-sità, espressamente prevista dall’art. 1467, comma 3o, c.c.

In proposito, la dottrina (33) che si è occupata del problema ha fondato leproprie critiche ad una identificazione di tale fattispecie con quella in esamerichiamando, in parte, gli argomenti — già illustrati in precedenza — utiliz-zati per negare la riconducibilità del ripristino giudiziale dell’equità, introdot-to dalla novella, alla previsione dell’art. 1450 c.c. in tema di rescissione. An-che la risoluzione per eccessiva onerosità così come la rescissione, si è detto,può essere evitata soltanto attraverso la domanda della parte interessata (chenell’ipotesi prevista dall’art. 1467 c.c., comma 3o, consiste — come è noto —nell’offerta di modificare equamente le condizioni del contratto) che, al con-trario, non è ravvisabile nel potere discrezionale esercitabile d’ufficio dal giu-dice ai sensi dell’art. 7, comma 3o, della novella.

A tale argomentazione è stata, peraltro, affiancata un’ulteriore ragione di

(32) Cfr., in tal senso, Scotti, Aspetti di diritto sostanziale, ecc., cit., p. 622, il quale os-serva: « Per vero, l’istituto della rescissione per lesione non è lontanissimo da quello in og-getto, dal momento che presuppone, esso pure, un vizio genetico incidente sull’equilibrioequitativo del rapporto, suscettibile di essere corretto con la reductio ad aequitatem ».

(33) Cfr., sul punto, Venuti, Nullità della clausola, ecc., cit., p. 138, nt. 50, la quale ri-tiene che, così come accade nel caso di offerta di riduzione della prestazione ad equità perevitare la rescissione, anche nel caso di ripristino dell’equità per evitare la risoluzione persopravvenuta eccessiva onerosità della prestazione l’iniziativa è rimessa alla volontà dei pri-vati; nello stesso senso Scotti, Aspetti di diritto sostanziale, ecc., cit., p. 621, il quale sotto-linea altresì che l’ipotesi prevista dall’art. 1467 c.c. riguarda un fatto successivo alla con-clusione del contratto « ... che altera il sinallagma e impedisce la prosecuzione del rappor-to » contrariamente a quanto accade nella fattispecie prevista dalla novella, attinente « ...ad un abuso originario di un contraente nei confronti della controparte »; così anche Cara-no, in Aa.Vv., I ritardi nei pagamenti, cit., p. 54; Pandolfini, La nuova normativa ecc., cit.,p. 81; più propenso a ricondurre il rimedio previsto dalla novella alla rescissione e alla riso-luzione v., invece, Russo, La nuova disciplina ecc., cit., p. 492, In generale, sulla risoluzio-ne per eccessiva onerosità sopravvenuta, v. Scalfi, Risoluzione del contratto I) Diritto civile,in Enc. giur., XXXVII, Roma, 1991, p. 1 ss.; Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti,nel Codice Schlesinger, Milano, 1995; Casella, La risoluzione del contratto per eccessivaonerosità sopravvenuta, Torino, 2001; Macario, Eccessiva onerosità, riconduzione ad equi-tà e poteri del giudice, in F. it., 1990, p. 574 ss.

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censura, desumibile anche dalla stessa Relazione governativa, fondata sul fat-to che il rimedio previsto dalla novella, così come anche quello rescissorio, in-terviene esclusivamente sul momento genetico della adeguatezza dello scam-bio e non già sull’aspetto funzionale del contratto come accade, invece, per larisoluzione (34).

7. — Una parte della dottrina (35), dopo aver sottolineato il carattere ec-cezionale e quasi sconosciuto delle ipotesi nelle quali il nostro ordinamentoattribuisce al giudice il potere di modificare equitativamente il contenuto delcontratto, ritiene che il rimedio introdotto dalla novella debba essere, per certiversi, ricondotto al potere giudiziale di ridurre la penale manifestamente ec-cessiva previsto dall’art. 1384 c.c. che, analogamente alla fattispecie in esa-me, si caratterizza per la commistione dell’autonomia contrattuale con l’inter-vento giudiziale.

In particolare (36), si è osservato che i principali elementi che accomuna-

(34) Oltre gli Aa. citati alla precedente nota (33), cfr. anche Frignani Cagnasso, L’at-tuazione della direttiva sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 313.

(35) Sul punto A.M. Benedetti, in Aa.Vv., I ritardi di pagamento ecc., cit., p. 137 ilquale identifica « l’interesse del creditore » previsto dall’art. 7, comma 3o, con l’« interessedel creditore all’adempimento » di cui all’art. 1384 c.c.; per un approfondito raffronto frale due fattispecie, cfr. Venuti, Nullità nella clausola ecc., cit., p. 135 ss.; in argomento v.anche Bregoli, La legge sui ritardi di pagamento, ecc., cit., p. 747; da ultimo cfr., inoltre,G. Salvi, « Accordo gravemente iniquo » e « riconduzione all’equità », ecc., cit., pp. 187-188, il quale evidenzia soprattutto l’analogia funzionale; il problema della affinità tra idue istituti è stato affrontato anche da Pandolfini, La nuova normativa ecc., cit., p. 82 ilquale richiama l’orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione a propositodella rilevabilità d’ufficio della penale manifestamente eccessiva. In proposito, a seguitodell’iniziale contrasto tra le diverse sezioni della S.C. (in senso favorevole v. Cass. 24 set-tembre 1999, n. 10511, in F. it., 2000, I, p. 1929, con nota di Palmieri; Cass. 23 maggio2003, n. 8188; contra, invece, Cass. 5 agosto 2002, n. 11710, in Contratti, 2003, p. 336,con nota di Andreani) è intervenuta la Suprema Corte a sezioni unite pronunciandosi insenso favorevole alla riduzione d’ufficio ad opera del giudice (Cass., sez. un., 13 settembre2005, n. 18128, in Dir. giust., 2005, p. 12); per un ragionato commento dello stato dellagiurisprudenza prima dell’intervento delle Sezioni Unite si rimanda a Galgano, La catego-ria del contratto alle soglie del terzo millennio, in Contratto e impr., 2000, p. 925; oltrechéa Calvo, Il controllo della penale eccessiva tra autonomia privata e paternalismo giudizia-le, in R. trim. d. proc. civ., 2002, p. 297 ss.; fra le corti di merito si segnala la prevalenza,già prima dell’intervento regolatore della S.C. a sezioni unite, dell’orientamento favorevolealla riducibilità d’ufficio: Trib. Roma 1 febbraio 2001, in Corr. giur., 2001, p. 1082 ss.,con nota di Lamorgese; Trib. Milano 25 maggio 2000, in Gius, 2001, p. 249; Trib. Napoli5 maggio 2000, in G. it., 2000, p. 1665 ss. In dottrina, in generale, a proposito della clau-sola penale, cfr. Marini, Clausola penale, in Enc. giur., VI, Roma, 1988; Zoppini, La penacontrattuale, Milano, 1991; De Luca, La clausola penale, Milano, 1998; Mazzarese, Clau-sola penale, nel Codice Schlesinger, Milano, 1999; Varano, Equità - I) Teoria generale, inEnc. giur., XII, Roma, 1989, p. 1 ss.

(36) Così Venuti, Nullità della clausola, ecc. cit., p. 37; oltreché Bregoli, La legge suiritardi di pagamento, ecc., cit., p. 747, il quale accomuna la fattispecie in esame alla previ-sione dell’art. 1384 c.c. in ragione dell’eccezionalità dell’intervento giudiziale finalizzato a

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no le due fattispecie consistono nella ragione dell’intervento dell’ordinamentooltreché nei caratteri del rimedio apprestato. In entrambe le ipotesi, infatti, ilmeccanismo introdotto dal legislatore non deriva dalla contrarietà della pat-tuizione ad una norma imperativa, ma dall’esistenza di uno squilibrio con-trattuale in danno di una delle parti. Altrettanto deve dirsi per le modalitàdell’intervento giudiziale: nella disposizione introdotta dalla novella, così co-me nella previsione dell’art. 1384 c.c., si caratterizza per l’ampia discreziona-lità attribuita al giudice in ordine all’an del proprio operato, che pur prescin-de dall’iniziativa di parte contrariamente a quanto accade per la rescissione ela risoluzione (cfr. infra paragg. 5 e 6).

Nonostante la presenza di non poche somiglianze fra le due fattispecie, ladottrina (37), tuttavia, nega comunque la possibilità di identificare la disposi-zione in esame con il potere giudiziale di riduzione della penale. Quest’ultimo,infatti, è stato qualificato come eminentemente correttivo della determinazionepattizia (che può essere soltanto modificata ma non definitivamente espulsadal regolamento negoziale) escludendosi qualunque funzione sostitutivo-san-zionatoria diretta alla eliminazione della clausola con efficacia ex tunc riveni-bile, invece, nel potere attribuito al giudice dall’art. 7, comma 3o, della novella.

L’origine delle differenti modalità che caratterizzano l’intervento giudi-ziale nelle due fattispecie qui esaminate deve ricercarsi — a parere di unaparte della dottrina (38) — nella particolare connotazione dei soggetti del rap-porto considerato. Nella novella, infatti, il contraente « debole » si identificacon il creditore mentre quello « forte » coincide, invece, con il debitore, con laconseguenza che lo squilibrio contrattuale risulta esattamente invertito rispet-to al paradigma previsto dall’art. 1384 c.c. Tali peculiarità avrebbero, dun-que, indotto il legislatore della novella a superare le limitazioni al principio diautonomia negoziale individuabili nella fattispecie prevista dall’art. 1384 c.c.per consentire al giudice di incidere maggiormente sul potere di autodetermi-nazione dei contraenti attraverso l’eliminazione della pattuizione iniqua (san-

modificare equitativamente il contenuto del contratto; nello stesso senso v. Conti, Il d. lgs.n. 231/2002, ecc., cit., p. 115, il quale parla di « ... tutela giudiziale che supera il dogmadell’intangibilità del contratto per pervenire ad una più terrena presa d’atto che l’autono-mia, se mal governata, necessita di un intervento correttivo che và ricondotto all’attivitàimparziale del giudice ». Sulle limitazioni al principio di autonomia negoziale si rimanda aRescigno, L’autonomia dei privati, in Iustitia, 1967, p. 3; Oppo, L’iniziativa economica, inR. d. comm., 1988, I, p. 311 ss.; Galgano, L’imprenditore, Bologna, 1992, p. 161; Mengoni,Autonomia privata e costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, p. 1 ss.; G.B. Ferri,La « cultura » del mercato e le strutture del contratto, in Diritto privato europeo e categoriecivilistiche, a cura di Lipari, Napoli, 1998, p. 177 ss.; P. Barcellona, Intervento statale eautonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, cit., p. 159; Schlesinger, L’au-tonomia privata e i suoi limiti, in G. it., 1999, p. 229.

(37) In tal senso v. Venuti, Nullità della clausola, ecc., cit., p. 136 ss.; A.M. Benedetti,in Aa.Vv., I ritardi di pagamento ecc., cit., p. 136; Carano, in Aa.VV., I ritardi di paga-menti, cit., p. 54; Pandolfini, La nuova normativa, ecc., cit., p. 79.

(38) Cfr., in proposito, gli Aa. citati alla precedente nota (37).

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zionata con la nullità) e la sua sostituzione con una diversa regola di esclusivamatrice giudiziale.

Una parte della dottrina (39) si è spinta fin a prospettare un’interpreta-zione estensiva della tutela introdotta dalla novella ipotizzandone l’applica-zione anche al di fuori dell’ipotesi di ritardo di pagamento in danno al credi-tore nelle transazioni commerciali. Non sono state, infatti, ravvisate particola-ri controindicazioni nel ricorrere alla nuova disciplina ogniqualvolta ci si troviin presenza di un sostanziale squilibrio negoziale, in relazione al quale le di-sposizioni contenute negli artt. 1382 e 1384 c.c. si rivelino inadeguate a sod-disfare l’esigenza di protezione del creditore, considerato, sempre meno inu-sualmente, come contraente debole.

8. — La differenza più significativa tra la direttiva ed il decreto legislati-vo di recepimento a proposito dell’intervento giudiziale volto a ristabilirel’equità contrattuale deve ravvisarsi nei limiti all’operato del giudice.

Al silenzio del legislatore comunitario sul punto si contrappone, infatti,l’esplicito riferimento della novella « ... all’interesse del creditore, alla corret-ta prassi commerciale ed alle altre circostanze di cui al comma 1 ».

In particolare, proprio il richiamo alle « altre circostanze » ha indotto ladottrina (40) a sostenere che l’inserimento — ad opera del giudice — dellaclausola diretta a ristabilire l’equità contrattuale (contemplato dall’art. 7,comma 3o) debba ispirarsi ai medesimi criteri previsti dal precedente comma1o del medesimo art. 7 per l’accertamento della nullità della pattuizione ini-qua in danno al creditore.

(39) Così Venuti, Nullità della clausola ecc., cit., p. 148, la quale propone: « ... un ap-proccio innovativo al quale l’interprete può riferirsi al di là dell’ambito specifico di applica-zione del decreto sui ritardi di pagamento, nel momento in cui la disciplina degli artt. 1382e 1384 c.c. si riveli inidonea a dare risposta alle esigenze di protezione del creditore che, inun rapporto negoziale connotato “professionalmente”, si trovi in condizione di strutturaleminorità rispetto al partner contrattuale forte ». La giustificazione del potere correttivo delgiudice nell’esigenza di bilanciamento degli interessi delle parti è stata rinvenuta da Mosca-ti, Riduzione della penale e controllo sugli atti di autonomia privata, in nota a Cass. 24aprile 1980, n. 2479, in G. it., 1982, I, p. 1, 1797; in argomento v. anche Riccio, Un obiterdictum della Cassazione in materia di clausole penali, in Contratto e impr., 2001, p. 550ss.

(40) Sul punto, cfr. Russo, La nuova disciplina ecc., cit., p. 491, il quale osserva: « ... ilgiudice risulta investito del potere di controllare il contenuto dell’atto, sotto il profilo delladata di pagamento e delle conseguenze del ritardato pagamento, valutando lo stesso conte-nuto alla stregua di criteri di giustizia e di proporzionalità »; nello stesso senso v. De Mar-zo, Ritardi di pagamento ecc., cit., p. 1162, il quale ritiene che: « ... gli stessi elementi indi-cati nel comma 1o come oggetto della valutazione finalizzata alla verifica della grave iniqui-tà assumono rilievo in vista di una ridefinizione diversa da quella legale e pur equa dei ter-mini dell’accordo »; la simmetria tra il comma 1o ed il comma 3o dell’art. 7 a proposito deiparametri di riferimento per l’intervento giudiziale è stata evidenziata anche da Frignani

Cagnasso, L’attuazione della direttiva ecc., cit., p. 313; Carano, in Aa.Vv., I ritardi ecc.,cit., p. 55; Pandolfini, La nuova normativa ecc., cit., p. 79.

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L’individuazione, da parte del legislatore interno, di importanti parame-tri di riferimento, invero non particolarmente precisi, cui ricondurre funzio-nalmente l’operato giudiziale ha consentito alla dottrina di prospettare alcunesoluzioni interpretative dirette a far luce sul delicato rapporto tra l’attività delgiudice, i limiti legali e l’autonomia negoziale dei contraenti.

È stato delineato innanzitutto l’ambito operativo dell’intervento giudizia-le. In proposito la dottrina prevalente (41), dopo aver rilevato che nella disci-plina in esame — così come accade in tutta la più recente legislazione di ori-gine comunitaria ispirata alla protezione del c.d. « contraente debole » —l’attività del giudice ha ad oggetto la sola clausola iniqua senza la possibilitàdi una sua ripercussione sugli altri versanti del regolamento negoziale, ha sot-tolineato, comunque, la necessaria esigenza, in capo al giudice, di valutarel’intero scambio al fine di rendere maggiormente efficace il proprio interventocorrettivo sulla singola pattuizione. L’intervento giudiziale, inoltre, differen-ziandosi sensibilmente da quello previsto nella disciplina delle clausole vessa-torie, si caratterizzerebbe per essere destinato a ristabilire un equilibrio eco-nomico e non soltanto normativo fra le prestazioni, ben potendo in questo ca-so il giudice incidere direttamente sui termini dello scambio sempreché ciò siagiustificato dall’esigenza di riportare l’equità negoziale venuta meno.

La dottrina (42) si è preoccupata altresì di tratteggiare i criteri e i limiti

(41) Cfr., sul punto Venuti, Nullità della clausola ecc., cit., p. 156 ss., la quale indivi-dua una differenza tra la direttiva e la disciplina interna a proposito della sfera di operati-vità della determinazione giudiziale. Infatti, attraverso il riferimento testuale dell’art. 3, pa-ragrafo 3, della direttiva alla « ... riconduzione ad equità del contratto » l’intervento delgiudice sembrerebbe riguardare l’intero contratto, compreso il profilo dell’adeguatezza delcorrispettivo. L’inciso « ... riconduce ad equità il contenuto dell’accordo medesimo », previ-sto all’art. 7, comma 3o, rivelerebbe, invece, l’intento del legislatore interno di circoscriverel’attività del giudice al solo segmento negoziale caducato; in argomento v. anche Perreca, Iritardi di pagamento ecc., cit., p. 1274, il quale sottolinea che « ... la preoccupazione dellegislatore di evitare che la declaratoria di nullità della clausola iniqua possa comunicarsiall’intero contratto in danno del creditore è comune a tutta la più recente legislazione diorigine comunitaria ispirata alla protezione del c.d. contraente debole ». Sullo squilibrionormativo e non già economico che caratterizza la clausola vessatoria nei contratti conclusidal consumatore v. Uda, Sub. art. 1469 bis, comma 1o, c.c., in Aa.Vv., Le clausole vessato-rie nei contratti con i consumatori, I, a cura di Alpa e Patti, Milano, 1997. Per un raffrontotra lo squilibrio previsto dalla disciplina in esame e quello derivante da dipendenza econo-mica ai sensi della l. 18 giugno 1998, n. 192 in materia di subfornitura, v. Mengoni, La di-rettiva, ecc., cit., p. 180. Più in generale, sullo squilibrio contrattuale, v. Lanzillo, La pro-porzione fra le prestazioni contrattuali, Padova, 2003; Galgano, Squilibrio contrattuale emala fede del contraente forte, in Contratto e impr., 1997, p. 417 ss.; Perlingieri, Equili-brio normativo e principio di proporzionalità dello scambio, in Rass. d. civ., 2001, p. 334ss.; Alessi, Diritto europeo dei contratti e regole dello scambio, in Europ. d. priv., 2000, p.975.

(42) Cfr., sul punto, Venuti, Nullità della clausola ecc., cit., p. 163, la quale osserva:« L’interprete nel formulare la previsione integrativa del regolamento negoziale (originaria-mente o, come in questo caso, successivamente incompleto) non si allinea alle misure o alleproporzioni fissate dalle parti »; nello stesso senso Pandolfini, La nuova normativa ecc.,

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che devono caratterizzare l’attività del giudice nel ripristino dell’equità. Inproposito, si riscontra una sostanziale convergenza di consensi in ordine allairrilevanza della volontà dei singoli contraenti nella fase di elaborazione dellaregola equitativa. Ai fini della corretta osservanza del disposto dell’art. 7,comma 3o, sarebbe, infatti, necessario ma sufficiente che quest’ultima sia vol-ta al contemperamento degli interessi reciproci e, in particolare, al riequili-brio della pattuizione in favore del creditore, senza che la ricerca della effetti-va volontà delle parti possa essere elevata ad elemento idoneo a vincolare ladiscrezionalità del giudice.

Si ravvisa, invece, una diversità di opinioni a proposito del rapporto in-tercorrente tra il potere equitativo di matrice giudiziale e i termini legaliprevisti dalla novella. Sul punto una parte della dottrina (43), in assenza diqualunque disposizione in senso contrario e facendo leva, invece, sul dettatoletterale dell’art. 7, comma 3o, (nel quale — come è noto — si adoperal’espressione « riconduce » riferita all’attività giudiziale) ritiene che dal mo-mento in cui il giudice decide di esercitare il potere equitativo senza, quindi,applicare alternativamente i termini legali, questi ultimi non siano vincolantinell’esercizio della discrezionalità giudiziale alla quale il legislatore della no-vella ha scientemente riservato in via esclusiva l’elaborazione della regolaequitativa.

Altri Autori (44), invece, pur premettendo che la pronuncia riequilibrati-va fondata sull’equità postula esiti divergenti rispetto alle disposizioni di leg-ge, propendono per l’esclusione di un vero e proprio allontanamento del giu-dicante dalla disciplina legale.

E ciò perché altrimenti si giungerebbe ad una ingiustificata estensionedell’intervento giudiziale ai termini dell’intero scambio, in evidente contro-tendenza rispetto alla recente politica del legislatore comunitario finalizzataalla protezione del contraente debole attraverso la conservazione dell’impian-to negoziale originario dal quale viene espulsa la sola pattuizione considerataparticolarmente pregiudizievole per una delle parti. A parere della dottrina inesame, dunque, l’intervento giudiziale diretto al ripristino dell’equità puògiungere soltanto all’adattamento del caso concreto alle prescrizioni di legge,senza, tuttavia, poter mai disattendere i termini legali introdotti dalla novella.

cit., p. 81, il quale, riferendosi alla determinazione equitativa prevista dalla disciplina inesame, sottolinea che: « ... quella prevista dal decreto è esercitata esclusivamente dal giudi-ce, il quale, lungi dal valutare semplicemente un’offerta di reductio formulata dalla parte,provvede in questo caso a formularla egli stesso, determinandone, anche d’ufficio il conte-nuto »; così anche A.M. Benedetti, in Aa.Vv., I ritardi di pagamento ecc., cit., il quale parladi « giudizio di fatto che (....) è di esclusiva pertinenza del giudice di merito ».

(43) Cfr. supra gli Aa. citati alle precedenti note (21) e (22) oltreché Russo, La nuovadisciplina ecc., cit., p. 482, il quale affronta altresì il problema dei rapporti tra il poterecorrettivo del giudice e la determinazione convenzionale del saggio degli interessi.

(44) Così, in particolare, Venuti, Nullità della clausola ecc., cit., p. 160, la quale ritieneche il legislatore della novella « non abbia inteso tuttavia spingersi fino ad incidere sul nes-so di corrispettività originariamente pattuito ».

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Se, dunque, si rinvengono contrastanti opinioni in ordine al rapporto trai termini legali ed il potere discrezionale attribuito al giudice, non altrettantoaccade per quanto attiene ai parametri ai quali fare riferimento durante l’ela-borazione della regola equitativa.

In proposito, infatti, l’espresso richiamo della disposizione in esame « ...all’interesse del creditore, alla corretta prassi commerciale ed alle circostanzedi cui al comma 1 » ha indotto la dottrina pressoché unanime (45) ad indivi-duare una serie di criteri guida. In primo luogo è stata evidenziata l’esigenzadi tener conto degli standards valutativi appartenuti allo specifico negozioconsiderato. La regola equitativa deve essere ricercata — a parere della dot-trina prevalente — facendo ricorso alla adeguatezza ed alla ragionevolezzapropria della specifica prassi mercantile applicata al tipo di transazione com-merciale sottoposta al vaglio del giudice, il quale dovrà coniugare tali para-metri con le disposizioni di legge e con la concreta situazione di squilibrio allaquale dover rimediare (46).

Ciò che, tuttavia, ha maggiormente accomunato la dottrina nel tentativodi individuare le linee guida dell’intervento giudiziale è stato il principio dibuona fede. In particolare, la quasi totalità degli Autori (47) che si sono occu-pati del problema, facendo leva sul riferimento testuale della disposizione in

(45) In argomento v. De Marzo, Ritardi di pagamento nei contratti tra imprese ecc.,cit., p. 1162, il quale propende per una necessaria « valutazione interna dell’equilibrio con-trattuale, fondata sul raffronto con la prassi commerciale e la generalità dei contratti con-clusi da parti con potere contrattuale sostanzialmente equivalente »; sul ricorso alla prassicommerciale per evitare il mero arbitrio, v. A.M. Benedetti, in Aa.Vv., I ritardi di paga-mento ecc., cit., p. 137; a parere di Pandolfini, (La nuova normativa ecc., cit., p. 82), inve-ce, fra i criteri previsti dall’art. 7, comma 3o, l’interesse del creditore è quello al quale il le-gislatore della novella ha attribuito maggiore importanza; l’introduzione di alcuni parame-tri di riferimento per il giudice è il sintomo, secondo Sanna (L’attuazione ecc., cit., p. 274)di un’esigenza generale di correttezza nei rapporti contrattuali nell’ambito del mercato im-prenditoriale.

(46) Così Russo, La nuova disciplina ecc., cit., p. 492,; nello stesso senso v. Vardi, Il de-creto legislativo n. 231 del 2002 ecc., cit., p. 1044, la quale attribuisce al giudice la capaci-tà di « mediare » introducendo, in favore del creditore, una regola fondata sulla correttaprassi commerciale senza essere così severa come quella imposta dai termini e dai tassi mo-ratori legali. Più in generale, sulla ragionevolezza come criterio a garanzia dell’equilibriocontrattuale e sui suoi rapporti con l’equità e la buona fede, v. Troiano, La « ragionevolez-za » nel diritto dei contratti, Padova, 2005, p. 309 ss.

(47) In argomento v. Sanna, L’attuazione ecc., cit., p. 273; Carano, in Aa.Vv., I ritardinei pagamenti, cit., p. 55; A.M. Benedetti, I ritardi di pagamento ecc., cit., p. 137; Venuti,Nullità della clausola, ecc., cit., p. 172. Più in generale, sulla clausola di buona fede si ri-manda al recente studio di Uda, L’esecuzione del contratto secondo buona fede, Torino,2004, p. 26 ss., il quale esclude qualunque connotazione etica del canone di buona fede no-nostante l’indubbio collegamento con la solidarietà, intesa come valore di rilevanza costitu-zionale. Per un excursus in ordine all’evoluzione giurisprudenziale del principio di buonafede, recentemente inteso dalla Corte di Cassazione come primario criterio di interpretazio-ne del contratto, v. Todaro, Buona fede contrattuale: nuovi sviluppi della Cassazione, inContratto e impr., 2005, p. 579 ss.

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esame alle « altre circostanze », ritiene che il legislatore della novella abbiavoluto attribuire alla buona fede il ruolo di criterio guida per il giudice nel-l’elaborazione della regola equitativa. La buona fede — secondo l’opinione inesame — costituirebbe, infatti, lo strumento idoneo a contemperare il princi-pio della immutabilità del contratto con l’esigenza di ristabilire l’equilibriocontrattuale pregiudicato dalla asimmetria delle prestazioni (48). E ciò avver-rebbe in perfetta sintonia con la più recente politica del legislatore comunita-rio, tendente a rendere sempre meno eccezionale la deroga all’intangibilità delnegozio, oltreché con il ruolo rivestito dalla buona fede nei principi di dirittoeuropeo elaborati dalla Commissione Lando (PECL) e in quelli Unidroit daiquali emerge un rinvigorito concetto di tale criterio avente la funzione di stru-mento diretto a realizzare la libertà negoziale e nel contempo a fungerne dalimite.

Analogamente a quanto prevedono quelle disposizioni, infatti, anche nel-la disciplina in esame il canone della buona fede rappresenta — si è detto —il costante riferimento per il giudice nell’esercizio del proprio potere correttivoche con l’ausilio di tale criterio e degli altri parametri previsti nell’art. 7,comma 3o, perderebbe così l’apparente carattere di arbitrarietà. Nello stessosenso una parte della dottrina (49) ha individuato due linee guida nell’inter-vento correttivo del giudice, destinate ad intersecarsi tra loro. La prima coin-ciderebbe con i principi costituzionali di solidarietà e utilità sociale desumibilidall’ordinamento interno; la seconda, invece si identificherebbe con i canonidi lealtà e correttezza dello specifico segmento di mercato considerato, rinve-nibili nella matrice comunitaria della nuova disciplina. Tali parametri, riunititutti sotto le sembianze della buona fede, rappresentano — si è detto — l’uni-co criterio ispiratore dell’intervento giudiziale. Anche alla luce dell’importan-te contributo della giurisprudenza, che in alcuni settori si è recentemente ca-ratterizzata per il proprio intervento correttivo della determinazione pattiziasenza ancorarsi allo specifico dato normativo, l’applicazione diretta del cano-ne di buona fede sotto forma di lealtà e di correttezza nei rapporti commer-ciali ovvero, in via mediata, per il tramite della solidarietà e dell’utilità socialesi rivela lo strumento idoneo a giustificare i limiti ed i controlli all’autonomiaprivata da parte dell’ordinamento (50).

(48) Oltre agli Aa. citati alla precedente nota (47), v., in particolare, Spoto, L’attuazio-ne ecc., cit., p. 179, il quale, tenendo conto del necessario ricorso, da parte del giudice, alcanone di buona fede, osserva: « A ben guardare non vi è alcun intervento arbitrario delgiudice e si assiste piuttosto ad una attenta elaborazione e indicazione da parte della leggedei criteri volti ad orientare e “guidare” gli interventi giudiziali ».

(49) Cfr., in tal senso, Venuti, Nullità della clausola, ecc. cit., p. 167, la quale sottoli-nea che: « ... la propensione dei giudici ad intervenire sull’assetto dei diritti e degli obblighifissati dalle parti viene spesso giustificata con l’ancoraggio ai principi costituzionali di soli-darietà e utilità sociale (art. 2, art. 41), nonché a quelli di lealtà, buona fede e correttezzacui si ispira la normativa di matrice comunitaria ».

(50) Così ancora Venuti, op. ult. cit., p. 168, la quale, a conforto delle conclusioni rag-

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9. — Fin dalla prima lettura, l’art. 7, comma 3o, della novella rivela, pro-prio per il riferimento espresso all’equità, una evidente deviazione dal siste-ma. L’intervento correttivo del giudice in via equitativa, infatti, si profila co-me circostanza eccezionale e sussidiaria per il nostro diritto dei contratti, go-vernato — come è noto — dal principio dell’intangibilità dell’autonomia pri-vata.

La mancanza — nei lavori preparatori, nella Relazione governativa e nel-lo stesso decreto legislativo 231/2002 — di adeguate giustificazioni a tale de-roga deve perciò indurre l’interprete a ricostruire la fattispecie in esame perindividuarne la reale portata, la funzione e i limiti. Nel condurre siffatta inda-gine, proprio in ragione della matrice comunitaria della disposizione, i princi-pi che regolano l’interpretazione delle norme di diritto interno dovranno esse-re utilizzati in sintonia con le recenti tecniche interpretative derivanti dal pro-cesso di integrazione delle fonti comunitarie e di quelle interne che ha condot-to all’introduzione di nuove figure di impronta comunitaria nel nostro ordina-mento oltreché alla modifica dal di dentro di alcune tradizionali categorieconcettuali (51).

In proposito è opportuno partire da due punti fermi desumibili dal tenoreletterale della disposizione. Il primo consiste nella pacifica alternatività tral’applicazione dei termini legali ed il ripristino giudiziale dell’equità, doven-dosi ritenere che con la congiunzione disgiuntiva « ovvero », adoperata al-l’art. 7, comma 3o, dal legislatore della novella nell’indicare le alternative adisposizione del giudice debbano fugarsi definitivamente le incertezze nascen-ti dalla lettura dell’art. 3 della direttiva dal quale una parte della dottrina (52)

giunte, richiama alcune decisioni della S.C. in tema di anatocismo, di sopravvenuta usura-rietà degli interessi convenzionali nei contratti di finanziamento e di riduzione della penale,tutte finalizzate alla correzione della regola pattizia in virtù della congruità e della ragione-volezza proprie della prassi commerciale, ma senza espresso riferimento ad uno specificodato normativo.

(51) Per una definizione di diritto privato europeo inteso nell’accezione con la quale« ... nell’ambito di un ordinamento appartenente ad uno dei Paesi membri dell’Unioneeuropea, si allude al complesso di regole di derivazione comunitaria, composte dai regola-menti comunitari, che hanno immediata vigenza, e dalle regole attuative di direttive co-munitarie e delle altre fonti del diritto comunitario », v. Alpa Andenas, Fondamenti deldiritto privato europeo, Milano, 2005, p. 135 ss., ai quali si rimanda soprattutto per leindicazioni della vasta letteratura straniera. In senso favorevole al necessario adattamentodelle regole di interpretazione del diritto interno al processo di integrazione delle fonti co-munitarie, v. Luminoso, L’interpretazione del diritto comunitario. Regole e tecniche, in D.priv., 2001-2002, p. 579 ss.; Perlingieri, Una rivalutazione nel sistema delle fonti, in Di-ritto privato europeo e categorie civilistiche, cit., p. 49 ss.; Rescigno, Il sistema delle pre-leggi e la disciplina comunitaria, ivi, p. 55 ss.; Falzea, Effettività del diritto europeo, ivi,p. 19 ss.; Lodolini, Diritto comunitario e interpretazione del diritto interno, in R. crit. d.priv., 1997, p. 368 ss.; Lipari, Diritto privato e diritto privato europeo, in R. trim. d.proc. civ., 2000, p. 17 ss.; Sacco, I problemi dell’unificazione del diritto in Europa, inContratti, 1995, p. 77 ss.

(52) Cfr., al riguardo, gli Aa. citati alla precedente nota (8).

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ha desunto che il giudice possa, invece, ricorrere ai termini legali soltanto do-po aver escluso di ristabilire in altro modo l’equità contrattuale.

Il riferimento ai « termini legali » contenuto nell’art. 7, comma 3o, solle-va, in verità, un altro problema coincidente con l’individuazione dell’effettivosignificato da attribuirsi a tale espressione. Più in particolare non è dato sta-bilire con certezza se i « termini legali » in questione siano quelli speciali in-trodotti dalla novella, così come presuppone la dottrina maggioritaria (53),ovvero i termini generali previsti dal nostro diritto contrattuale interno. Aconforto di tale ultima soluzione bisogna tener conto che il legislatore dellanovella, attribuendo al Giudice il potere di ripristinare l’equità al fine di col-mare la lacuna contrattuale (derivante dall’invalidità della clausola), ha im-plicitamente valutato come non sempre adeguata al caso concreto la nuovadisciplina dal momento che, altrimenti, avrebbe potuto prevedere, ai sensidell’art. 1339 c.c., l’automatica sostituzione della pattuizione nulla con laspeciale previsione di legge. Ciò deve, pertanto, indurre a ritenere che l’alter-nativa alla elaborazione della regola equitativa ad opera del giudice debba ri-cercarsi nella disciplina generale del contratto e non già nei termini specialiprevisti dalla novella.

Il secondo punto fermo, anch’esso fondato su una considerazione di ca-rattere testuale, deve invece rinvenirsi nella identità tra i parametri utilizzatiai fini dell’accertamento della nullità dell’accordo sulla data del pagamento(o sulle conseguenze del ritardato pagamento) e i criteri ai quali deve riferirsiil giudice nel riportare il contratto ad equità, considerato l’espresso richiamoal comma 1o contenuto nel comma 3o del medesimo art. 7.

Tale simmetria metodologica rivela l’intento del legislatore della novelladi attribuire pari importanza, oltreché le medesime linee guida, all’interventogiudiziale non soltanto quando quest’ultimo riguarda l’espulsione dal regola-mento negoziale di una clausola particolarmente pregiudizievole per una delleparti, ma anche durante il procedimento inverso diretto a colmare la lacunaformatasi a seguito dell’accertamento della invalidità della pattuizione.

Sulla base dei principi interpretativi in precedenza richiamati, fondati sulprocesso di integrazione delle fonti comunitarie e di quelle interne, e tenendoconto dei punti fermi appena illustrati, deve escludersi la possibilità di identi-ficare la fattispecie in esame con una delle categorie già presenti nel nostroordinamento.

(53) Sul punto si rimanda agli Aa. citati alla precedente nota (17); la soluzione prospet-tata nel testo deriva anche dal fatto che, a parer nostro, l’invalidità prevista dalla novelladebba qualificarsi come nullità derivante da inosservanza del canone dell’equità e non giàda violazione di norme imperative. A ciò si aggiunga che se si dovesse condividere la tesicriticata (e interpretare, quindi, l’inciso in questione come possibilità di applicazione deitermini previsti dalla novella) il risultato di attribuire alternativamente al giudice il poteredi applicare i termini previsti dalla nuova disciplina sarebbe, comunque, raggiungibile an-che in assenza dell’espressa previsione normativa dato che in tal caso, esso sarebbe da ri-comprendersi nell’ambito del più ampio potere giudiziale di ristabilire l’equità.

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In particolare, come altri hanno già in precedenza sottolineato (54), l’ac-costamento all’integrazione del contratto prevista dall’art. 1374 c.c. si rivelainadeguato non tanto per la riferibilità di quest’ultima alla fase fisiologica delrapporto e non già a quella rimediale, quanto piuttosto perché la fattispeciein esame si caratterizza principalmente per l’attribuzione in via esclusiva algiudice del potere di elaborare autonomamente la regola equitativa, senza chela volontà delle parti possa concorrere in tal senso, contrariamente a quantoaccade, invece, nel caso di integrazione del contratto.

Altrettanto deve dirsi per l’offerta di ricondurre il contratto ad equità alfine di evitare la rescissione ovvero la risoluzione per eccessiva onerosità. Inproposito, davanti al tentativo di ricondurre a quelle fattispecie il potere delgiudice ex art. 7, comma 3o, della novella, l’obiezione che coglie maggior-mente nel segno (55) e deve, pertanto, essere condivisa si fonda sul potered’ufficio che caratterizza l’intervento giudiziale previsto nella novissima di-sciplina.

Tale peculiarità, infatti, non è presente nelle disposizioni di cui agli artt.1450 e 1467, comma 3o, c.c. ciascuna delle quali, al contrario, si contraddi-stingue per la necessaria iniziativa della parte interessata (ad evitare il rime-dio considerato) quale attività prodromica all’intervento giudiziale.

Ad analoghe conclusioni deve giungersi dopo aver raffrontato la fattispe-cie in esame con il potere giudiziale di riduzione della penale manifestamenteeccessiva. In proposito, nonostante la recente pronuncia della Corte di legitti-mità che, a sezioni unite (56), ha — come è noto — definitivamente statuitol’ammissibilità dell’esercizio ex officio del potere giudiziale previsto dall’art.1384 c.c., eliminando così un significativo elemento di distinguo dall’inter-vento giudiziale previsto dall’art. 7 comma 3o, l’identità tra le due fattispecienon è comunque ipotizzabile. E ciò in ragione principalmente dell’ampiezzadel potere che il legislatore della novella ha attribuito al giudice, il quale, no-nostante la presenza di alcune linee guida, è comunque chiamato ad elabora-re autonomamente la regola equitativa senza alcuno sbarramento di sorta,contrariamente a quanto, invece, accade nel caso della penale manifestamen-te eccessiva dove il canone equitativo funge esclusivamente da criterio direttoa misurare l’entità della riduzione.

Se, dunque, attraverso il tentativo di ricondurre la disposizione in que-stione ad altre norme appartenenti all’ordinamento interno non si giunge adapprezzabili risultati, si rende opportuno ricorrere ai principali criteri dell’er-meneutica da utilizzarsi, come si è avuto modo di rilevare in precedenza, te-

(54) Si rimanda, sul punto, alla precedente nota (25) anche per quanto attiene ai riferi-menti bibliografici sull’integrazione del contratto in generale.

(55) Cfr., in argomento, gli Aa. citati alla precedente nota (33).(56) Così Cass., sez. un., 13 settembre 2005, n. 18128, cit., p. 12, che ha posto fine al-

l’oscillante orientamento delle diverse sezioni della S.C.; cfr., sul punto, la precedente nota(27).

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nendo conto del processo di integrazione delle fonti interne e di quelle comu-nitarie, che ha condotto ad una rivisitazione, ad opera della dottrina, delle re-gole e delle tecniche interpretative del nostro ordinamento.

In proposito acquista particolare rilevanza la rinnovata lettura che alcuniAutori (57) hanno proposto dell’art. 12 disp. prel. c.c. introducendo fra i crite-ri indispensabili all’indagine interpretativa anche quelli della preferenza perl’interpretazione più fedele alla direttiva e del necessario riferimento ai prin-cipi generali dell’ordinamento delle Comunità europee e a quelli enucleatidalla Corte di Giustizia. E ciò in ragione della ormai pacifica supremazia deldiritto comunitario sul diritto nazionale che ha condotto alla elaborazione delprincipio, fondato sui criteri contenuti negli artt. 11 e 117 Cost., della « nonapplicazione » della legge nazionale in contrasto con la normativa comunita-ria.

L’impressione di una evidente deviazione del sistema, nascente dalla pri-ma lettura della disposizione in esame, si rafforza e trova conferma al terminedi una indagine interpretativa condotta attraverso il costante raffronto delladisciplina di recepimento con i principi che governano l’ordinamento internoe quello comunitario.

L’attribuzione al giudice in via esclusiva del potere correttivo diretto a ri-stabilire l’equità contrattuale venuta meno rappresenta, infatti, una inequivo-ca forma di rottura con il sistema interno che il legislatore della novella ha in-trodotto al fine di non vanificare le finalità e gli strumenti adoperati dal legi-slatore comunitario. L’autonoma elaborazione della regola equitativa consen-te al giudice di esercitare una forma di pura discrezionalità che trova limitesoltanto nei principi costituzionali e in quelli comunitari. La gerarchia dellefonti di integrazione del contratto subisce così, a seguito di tale innesto nelnostro sistema, un autentico sovvertimento dal momento che l’ordine dei cri-teri residuali previsti dall’art. 1374 c.c. passa in secondo piano rispetto alprincipio di buona fede contenuto nel successivo art. 1375 c.c., il quale, alcontrario, diviene la principale linea guida per il giudice nell’esercizio del po-tere di ripristino dell’equità, così come emerge dall’esplicito riferimento del-l’art. 7, comma 3o, della novella « ... all’interesse del creditore, alla correttaprassi commerciale e alle altre circostanze di cui al comma 1o ».

Anche la centralità della buona fede trova giustificazione nell’intento dellegislatore interno di uniformarsi ai principi generali del diritto comunitarioche hanno portato alla elaborazione dei PECL (Principals of European Con-tract Law) e dei principi di Unidroit dove la buona fede acquista la funzione

(57) Così Luminoso, L’interpretazione del diritto comunitario. Regole e tecniche, cit., p.586, a parere del quale il principio (od obbligo) « dell’interpretazione conforme » rappre-senta « ... un canone ermeneutico che si è venuto affermando progressivamente sulla basedegli artt. 5, comma 1o e 189, comma 3o del Trattato CE, e che trova oramai unanime rico-noscimento sia nella giurisprudenza comunitaria che in quella nazionale »; per la giurispru-denza comunitaria, v. C. giust. CE 14 luglio 1994, c 91/92, Faccini Dori, in G. it., 1995, I,1, 1385.

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di strumento diretto a salvaguardare la libertà negoziale e nel contempo afungerne da limite (58).

Nella stessa ottica il legislatore della novella ha, dunque, elevato la buonafede a primaria linea guida per il giudice nella elaborazione della regola equi-tativa sovvertendo così l’ordine della gerarchia delle fonti di integrazione delcontratto (59).

Tale conclusione trova, peraltro, conferma nell’espresso riferimento dellanorma di cui all’art. 7, comma 3o, ai « termini legali », da intendersi necessa-riamente come termini generali del diritto interno retrocessi a fonte sussidia-ria di integrazione del contratto e quindi sottordinata rispetto alla buona fedecontrattuale.

Se dunque la buona fede funge da primario riferimento per l’interventogiudiziale, ci si domanda a questo punto quali limiti possa incontrare il poterediscrezionale del giudice durante l’elaborazione della regola equitativa. Inproposito deve ritenersi che, proprio in ragione della necessaria osservanzadel canone di buona fede, l’intervento giudiziale correttivo debba adeguarsisoltanto ai principi generali del diritto comunitario e a quelli costituzionali ol-treché alle categorie fondamentali del diritto privato interno che si contraddi-stinguono per l’influsso costituzionale dal quale sono permeate. A ciò devononaturalmente aggiungersi anche i vincoli derivanti dalla corretta prassi com-merciale dello specifico segmento di mercato considerato oltreché le altre cir-costanze tassativamente indicate nel comma 1o dell’art. 7, da intendersi tutticome specificazione del generale principio di buona fede.

L’attendibilità di una siffatta ricostruzione trova, peraltro, conferma nel-la sua riconducibilità alla recente revisione della teoria delle fonti ad operadella dottrina (60) e all’introduzione di nuove regole interpretative derivanti

(58) Per un generale commento ai PECL si rinvia alla precedente nota (24); in partico-lare, sui rapporti tra i PECL ed il concetto di ingiustizia contrattuale, v., invece, Perfetti,L’ingiustizia del contratto, Milano, 2005, p. 349 ss. oltreché Pierazzi, La giustizia del con-tratto, in Contratto e impr., 2005, p. 655 ss.; in argomento v. anche Riccio, La clausola ge-nerale di buona fede è, dunque, un limite generale all’autonomia contrattuale, ivi, 1999, p.21 ss.

(59) Sulla buona fede come regola generale da utilizzare nell’esercizio del potere equita-tivo e sui rapporti tra ragionevolezza, buona fede ed equità a presidio dell’equilibrio econo-mico e normativo del contratto, v. Troiano, La ragionevolezza nel diritto dei contratti, cit.,p. 508 ss.; in argomento v., inoltre, G. Salvi, « Accordo gravemente iniquo » e « riconduzio-ne ad equità », ecc., cit., p. 189 il quale, pur collocando buona fede ed equità su piani dif-ferenti, propende per una reciproca integrazione di tali canoni; più in generale si rimandaa Franzoni, Buona fede ed equità tra le parti di integrazione del contratto, in Contratto eimpr., 1999, p. 86 ss. Sulla recente decisione della Suprema Corte (Cass. 11 febbraio 2005,n. 2855) che ha qualificato il canone di buona fede come governo della discrezionalità nel-l’esecuzione del contratto, v. Baraldi, Il governo giudiziario della discrezionalità contrat-tuale, in Contratto e impr., 2005, p. 501 ss.

(60) Sul punto si rimanda agli Aa. citati alla precedente nota (51); in particolare, a pro-posito del criterio che impone di interpretare il diritto interno secondo i criteri, i principi, leregole e il lessico del diritto comunitario, cfr. Luminoso, L’interpretazione del diritto comu-

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dall’innesto nel tessuto nazionale di normative di fonte comunitaria. La solu-zione proposta tiene conto, infatti, della supremazia del diritto comunitariosul diritto nazionale che nel nostro ordinamento, con il conforto della CorteCostituzionale (61), ha portato alla elaborazione del principio dell’obbligo diinterpretazione della legge nazionale in modo conforme alla normativa comu-nitaria.

Non è stata neppure tralasciata la rinnovata lettura dell’art. 12 delle pre-leggi, proposta da autorevole dottrina (62), a proposito dell’introduzione delcriterio dell’interpretazione più fedele alla direttiva e che meglio si presti adattuarne gli scopi, né il criterio, fondato sugli artt. 10, 11 e 117 Cost., secon-do il quale, nel dubbio, il diritto interno deve interpretarsi secondo i principie il lessico comunitario piuttosto che in chiave nazionale.

L’applicazione di tali regole ermeneutiche alla disposizione in esame deveavvenire, tuttavia, condividendo gli stessi limiti individuati dalla dottrina pre-valente (63). In particolare, così come si è avuto modo di rilevare in preceden-za, deve ritenersi che il giudice potrà con assoluta discrezionalità correggereequitativamente l’asimmetria contrattuale facendo in modo però, attraverso ilricorso alla buona fede, che la regola elaborata non contrasti con i principigenerali del diritto comunitario e con quelli costituzionali oltreché con le cate-gorie fondamentali del diritto interno aventi rilevanza costituzionale.

Corrado Chessa

Prof. ass. dell’Universitàdi Cagliari

nitario ecc., cit., p. 592 ss. del quale si condivide l’opinione a proposito del limite all’appli-cazione di tale principio nell’ipotesi di raggiungimento di un « ... risultato inconciliabile conuna o più categorie fondamentali di diritto interno o ad una soluzione incompatibile con ilcomplessivo sistema dei principi cui si ispira il diritto privato nazionale ». Sul punto si ri-manda alla soluzione prospettata infra nel testo.

(61) Così C. cost. 18 aprile 1991, n. 168, in F. it., 1992, I, p. 660, con nota di Daniele;per la giurisprudenza comunitaria si rimanda a Luminoso, op. ult. cit., p. 585, nt. (21) ol-treché ad Alpa Andenas, Fondamenti del diritto privato europeo, cit., p. 190.

(62) In tal senso v. Perlingieri, Diritto comunitario e legalità costituzionale. Per un si-stema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 1992, p. 134; oltreché Breccia, Considerazionisul diritto privato sovranazionale fra modelli interpretativi e regole effettive, in Studi inonore di Sacco, Milano, 1994, p. 140; sulla valenza costituzionale del diritto privato ai finidell’individuazione del concetto di equità, v., in particolare, G. Salvi, « Accordo gravementeiniquo » e « riconduzione ad equità », ecc., cit., p. 183.

(63) Sul punto si rimanda a Luminoso, op. ult. cit., p. 593 e a quanto già illustrato nellaprecedente nota (60).

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M A S S I M E C O M M E N T A T E

GARANZIA PER VIZI ED IMPEGNO DEL VENDITOREALLA RIPARAZIONE DEL BENE:

NOTE CRITICHE A MARGINE DI CASS. SEZ. UN.N. 13294/2005

Cass., sez. un., 21 giugno 2005, n. 13294: In tema di compravendital’impegno fornito dal venditore di eliminare i vizi, che rendono la cosa com-pravenduta inidonea all’uso cui è destinata, non costituisce una nuova obbli-gazione estintiva-sostitutiva dell’originaria obbligazione di garanzia, previstadall’art. 1490 c.c., ma consente al compratore di essere svincolato dai terminidi decadenza e dale condizioni di cui all’art. 1495 c.c. ai fini dell’eserciziodelle azioni previste in suo favore dall’art. 1492 c.c., costituendo un ricono-scimento del debito, interruttivo della prescrizione.

Sommario: 1. Introduzione. — 2. La disciplina dei vizi redibitori tra paradigma della garan-zia e paradigma della responsabilità. — 3. Consenso traslativo e disciplina speciale deirimedi come ostacolo alla tutela satisfattiva del compratore. — 4. Il « ruolo » della rico-gnizione del debito ed il piano rimediale secondo le Sezioni Unite. — 5. L’erosione delmodello codicistico di vendita e l’allontanamento dal principio consensualistico: le « fu-ghe in avanti » della giurisprudenza in tema di tutela del promissario acquirente di beneviziato. — 6. Segue: obbligo di conformità, consegna del bene e adempimento in naturanella vendita di beni di consumo. — 7. L’impegno alla riparazione del bene al vagliodelle corti tra novazione ed autonomia del vincolo. — 8. Considerazioni conclusive:l’impegno del venditore alla riparazione quale promessa unilaterale fonte di una auto-noma obbligazione di facere

1. — Con la recente sentenza del 21 giugno 2005, n. 13294 (1), le Sezio-ni Unite Civili della Corte di Cassazione sono intervenute a comporre l’ormairisalente contrasto giurisprudenziale delineatosi in merito all’inquadramentoda riservare alla dichiarazione con cui il venditore nel riconoscere, successiva-mente al perfezionamento del contratto ed al loro verificarsi, l’esistenza di viziredibitori (2) nella cosa compravenduta, assume altresì l’impegno di provve-dere alla riparazione ovvero alla sostituzione di essa.

(1) Pubblicata per esteso in Guida al dir. n. 28/205, 62 e ss. con nota di M. Piselli. V.altresì Corr. giur., 2005, 1688 ss. con nota di G. Travaglino.

(2) Sulla nozione di vizio redibitorio come inclusiva di qualsiasi imperfezione materiale,preesistente alla conclusione del negozio o comunque derivata da cause preesistenti, ineren-te al processo di produzione, fabbricazione, conservazione del bene, che costituisca in defi-nitiva un’alterazione patologica del suo stato, trattandosi di cosa naturale, ovvero un’ano-malia di forma, struttura o composizione, trattandosi di opere cfr, per tutti, C.M. Bianca,La vendita e la permuta, in Tratt. di Diritto Civile It., vol. VII, t. I**, 2a ed., Torino 1993,

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Questi, in sintesi, i fatti di causa.La società A ottiene dal Tribunale di Busto Arsizio l’emissione di un de-

creto ingiuntivo nei confronti della società B per l’importo che essa creditriceassume esserle ancora dovuto a titolo di saldo per una fornitura di beni, nellaspecie scatole di cartone stampate plastificate.

La società ingiunta, B, propone a sua volta opposizione avverso il decretoingiuntivo, chiedendone la revoca e, nel merito, chiedendo altresì la risoluzio-ne del contratto di vendita o, in subordine, la riduzione del prezzo, attesa ladenunciata esistenza di vizi redibitori a carico della merce fornita da A; viziche, peraltro, lo stesso pregresso intervento della parte venditrice non avevaconsentito di eliminare. In primo grado il Tribunale accoglie la domanda dimerito spiegata dall’opponente e dispone la riduzione del prezzo di venditanonché la restituzione di una parte di quanto di esso già versato.

Ricorrendo in appello, la società venditrice sostiene l’avvenuta estinzionedella originaria obbligazione di garanzia per vizi, gravante a proprio carico,con conseguente inesperibilità, per la controparte, dei rimedi prospettati dalcomma I dell’art. 1492 c.c, tra i quali dunque la stessa actio quanti minoris;ciò in ragione della pretesa novazione che tale originaria « obbligazione » digaranzia ex vendito avrebbe subito in dipendenza della dichiarazione con laquale la società venditrice, nel riconoscere l’esistenza dei vizi, si sarebbe altre-sì impegnata ad eliminarli.

La Corte di Appello di Milano rigetta il gravame affermando l’inidoneitàdella semplice dichiarazione ricognitiva del venditore circa la esistenza dei vi-zi del bene venduto, benché accompagnata dall’impegno a provvedere alla lo-ro eliminazione, a dare luogo, di per sé, alla « novazione dell’intero contrat-to » (3), in difetto della comprovata ricorrenza anche dei requisiti soggettivied oggettivi richiesti dagli artt. 1230 e 1231 c.c. per integrare la fattispecienovativa.

Avverso tale statuizione la società venditrice propone ricorso per Cassa-zione.

Avendo la seconda sezione civile della S.C., assegnataria del ricorso, « ri-levato la presenza di orientamenti giurisprudenziali divergenti in ordine allariconducibilità dell’impegno assunto dal venditore di eliminare i vizi della co-sa venduta nell’ambito della novazione oggettiva dell’obbligazione di garan-zia », il Primo Presidente del Supremo Collegio, ai sensi dell’art. 374, comma2o, c.p.c., rimette la questione alle Sezioni Unite.

L’esito complessivo di tale pronuncia appare — è bene chiarirlo subito —piuttosto deludente, e l’iter argomentativo su cui essa si regge non privo dicontraddizioni ed incongruenze.

885; analogamente già G. Gorla, voce Azione redibitoria, in Enc. dir., vol. IV, 875 ss., maspec. 878; in giurisprudenza da ultimo Cass. 3 agosto 2000, n. 10188 in I Contratti, 2001,262 e ss., con nota di Enriquez.

(3) Così testualmente la sentenza nella parte dedicata alla ricostruzione dello svolgi-mento del processo.

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Dal corpo della motivazione spicca invero la centralità del richiamo allafattispecie della ricognizione di debito, la cui natura e la cui funzione appaio-no nondimeno inopinatamente distorte allorché la Cassazione vi riconnette uninedito effetto di tipo « pseudo-novativo », ossia la parziale modificazionedello « statuto » del vincolo obbligatorio di base; esito, questo, estraneo al-l’istituto di cui all’art. 1988 c.c., che del (preesistente) vincolo obbligatoriovale solo a ribadire la persistente attualità, dando (unicamente) luogo al feno-meno della c.d. astrazione processuale della causa (4).

Ed invero, intanto in palese contraddizione logica e giuridica con la con-fermata sua attitudine interruttiva del decorso della prescrizione (sancita delresto dall’art. 2944 c.c.), le Sezioni Unite postulano che la dichiarazione rico-gnitiva del venditore valga bensì a modificare, da annuale in ordinario, il ter-mine (di prescrizione) per l’esercizio del diritto di azione del compratore scatu-rente dalla sottostante (obbligazione di) garanzia. Si legge così nella motivazio-ne che l’impegno dell’alienante di eliminare i vizi — che si sostanzierebbe ap-punto in un riconoscimento del debito — non costituirebbe « un quid novi coneffetto modificativo-estintivo della garanzia bensì un quid pluris che serve adampliarne le modalità di attuazione », consentendo al compratore « di esseresvincolato dalle condizioni e dai termini di cui all’art. 1495 c.c., particolar-mente brevi, come la prescrizione annuale, rispetto a quella decennale ».

Da altro e vieppiù significativo punto di vista, una volta escluso che l’im-pegno alla riparazione del bene, assunto dal venditore, spieghi un effetto mo-dificativo — estintivo (della precedente obbligazione), seguendo il ragiona-mento della Corte è giocoforza (direttamente) nell’atto ricognitivo che sembradoversi rintracciare la « fonte » dell’obbligazione di riparare (o sostituire) ilbene compravenduto. Ma il S.C. precisa che l’obbligazione di riparare, inquanto riedizione di quella di garanzia, di essa in definitiva non farebbe cheriproporre il contenuto (da qui, ad avviso della Corte, l’irrintracciabilità del-l’effetto novativo), sicché l’atto ricognitivo sarebbe rivolto « ad attuare il ri-sultato economico che il compratore si prefigurava di ottenere dal contratto ».

Ma se così è, delle due l’una. O il medio del congegno ricognitivo ha inrealtà l’effetto di modificare (rectius, arricchire) il contenuto dell’obbligazioneoriginaria — sia essa quella primaria di garanzia ovvero quella di fare acqui-stare il bene immune da vizi (5) — così però da rivelarsi altro da sé in quantovera e propria fonte di una nuova obbligazione (promessa in senso proprio,dunque); ovvero, escluso espressamente dal Supremo Collegio l’effetto novati-vo, a quella originaria obbligazione dovrebbe piuttosto riconoscersi la preor-dinazione a governare la piena attuazione del programma negoziale, persinosuccessivamente al momento traslativo, così da rinvenirsi in essa un contenu-to « complesso », inclusivo cioè anche di una prestazione di facere a caricodell’alienante, quale quella di riparare o sostituire il bene viziato.

(4) Si rinvia, sul punto, a quanto si dirà nel successivo par. 4.(5) Secondo le due note posizioni dottrinarie che saranno richiamate a breve (v. infra).

MASSIME COMMENTATE 471

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Conclusione, quest’ultima, comunque non idonea a dar conto in toto delpensiero della Corte, atteso che alla ricognizione, stando sempre alla sentenza,dovrebbe in ogni caso attribuirsi anche la (inedita) funzione di ampliare lemodalità di attuazione dell’obbligazione originaria, sub specie di allungamen-to dei termini di prescrizione.

Non mancano, insomma, contraddizioni e dubbi che l’interprete è solleci-tato a penetrare. L’esito più visibile e significativo- — ancorché più discutibi-le — del decisum è ovviamente quello di (pretendere di) ascrivere anche almodello codicistico della vendita in generale (e persino al suo archetipo dellavendita di cosa determinata) (6) quella tensione verso l’esatto adempimento equell’apparato rimediale parimenti orientato, di cui il sistema viceversa sem-bra, almeno ad oggi, precipuamente corredare il sottotipo — di matrice co-munitaria — « vendita di beni di consumo ».

2. — Le Sezioni Unite, nella prima parte della motivazione, richiamanosinteticamente e con puntualità le principali interpretazioni dottrinali e giuri-sprudenziali a proposito della natura della garanzia redibitoria; ciò tuttavianon prelude all’assunzione, da parte della Corte, di una posizione del tuttochiara e definita al riguardo.

Se, per un verso, la pronuncia mostra infatti di aderire all’idea di unacollocazione « delle garanzie edilizie nell’ambito dell’inadempimento dell’ob-bligazione di far acquistare utilmente la proprietà della cosa » (7), per l’altroessa, in linea con una diffusa tendenza giurisprudenziale (8) ed in conformitàalla lettera dell’art. 1476 n. 3 c.c., si riferisce alla garanzia in termini di ob-bligazione.

Si ha così l’impressione, per nulla smentita dall’approdo finale dell’iterargomentativo seguito, che il Supremo Collegio risenta, in certa misura, delrilancio che la tradizionale — financo abusata (9) — contrapposizione tra ga-ranzia e responsabilità conoscerebbe oggi, grazie alla recente disciplina dellavendita di beni di consumo (10). E ciò al punto da non far ritenere azzardatoil convincimento che il tema della garanzia redibitoria costituisca la « core is-sue » della sentenza piuttosto che lo sfondo su cui collocare gli effetti della di-chiarazione impegnativa del venditore.

(6) Non è dato rinvenire, invero, nell’argomentare della Corte alcun riferimento esplici-to né alla fattispecie della vendita di cosa generica, né a quella di cosa determinata. Ma sulpunto v. infra.

(7) Così la pronuncia in esame al punto 15.2.(8) Cfr. per tutte Cass. 12 maggio 2000, n. 6089 in F. it., 2000, I, 2497 e ss.; Cass. 19

giugno 2000, n. 8294, ined., in Rep. F. it., 2000, sub Vendita, n. 64.(9) Così G. Amadio, Difetto di conformità e tutele sinallagmatiche, in questa Rivista,

2001, 863 e ss., ma spec. 875, nt. 36.(10) Cfr., per tutti, Alessi, L’attuazione della direttiva nel diritto italiano: il dibattito e

la sua impasse, in La vendita dei beni di consumo, a cura di R. Alessi, Milano 2005, 3 e ss.ma spec. 5.

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A tale questione sistematica (11) — di cui la pronuncia è figlia e forse vit-tima — occorre allora preliminarmente tornare.

L’intricato nodo interpretativo e ricostruttivo (12) posto dalla disciplinadella garanzia nella vendita e dal complesso apparato rimediale di derivazio-ne romanistica costituito dalle cosiddette azioni edilizie (redibitoria e quantiminoris) (13), com’è noto, si diparte dall’interrogativo, sollecitato dal nonchiaro dettato normativo, circa la natura della prima. Se cioè la garanzia co-stituisca obbligazione primaria del venditore (come pure suggerito dall’artico-lo 1476 n. 3 c.c.), alla cui violazione riconnettere l’insorgere della responsabi-lità (da inadempimento); o se non debba piuttosto attribuirsi ad essa naturadi sanzione a carico dell’alienante, per l’inadempimento di altra obbligazioneprimaria posta a suo carico. Ovvero, ancora, se essa non debba venire consi-derata quale forma giuridica (garanzia, appunto) di una mera soggezione del-l’alienante alle azioni promuovibili ex latere emptoris al verificarsi di deter-minate condizioni, ed a prescindere dunque dalla mediazione di una qualcheobbligazione inadempiuta (14).

(11) Che, come rilevato da autorevole dottrina, investe in pieno la stessa disciplina ge-nerale del contratto ed il conseguente regime di responsabilità. V. ancora G. Gorla, op. ult.cit., 875 ad avviso del quale il complesso delle norme costituito dagli artt. 1490-1497 e1511-1513, per quanto direttamente concernente la vendita, risulterebbe altresì estensibilea « tutti gli altri contratti di scambio in cui una delle prestazioni consista nel dare la pro-prietà o altro diritto reale di godimento su una cosa corporale ».

(12) Di sicuro effetto risulta la definizione di « croce della vendita », datane da LeoRaape e riportata da Luigi Mengoni in apertura del suo celebre saggio sulla garanzia per vi-zi: v. L. Mengoni, Profili per una revisione della teoria della garanzia per i vizi nella vendi-ta, in R. d. comm., 1953, I, 3 e ss.

(13) Si veda in particolare V. Arangio Ruiz, La compravendita in diritto romano, I**,rist., Napoli 1956, 362. Circa la storia e l’evoluzione dell’istituto, senza alcuna pretesa dicompletezza, si rinvia altresì a G. Gorla, Considerazioni in tema di garanzia per i vizi redi-bitori, in R. trim. d. proc. civ., 1957, II, 1272 e ss.; Id., op. cit., 875 e ss.; L. Cabella Pisu,Garanzia e responsabilità nelle vendite commerciali, Milano 1983, 1 e ss.; C.G. Terranova,La garanzia per vizi della cosa venduta, in R. trim. d. proc. civ., 1989, 69 e ss; da ultimoV. Mannino, Le tutele per le anomalie del bene venduto fra antico e moderno, in La venditadi beni di consumo, cit., 177 e ss., ma spec. 182 e ss., nonché, diffusamente, L. Garofalo,Studi sull’azione redibitoria, Padova 2000.

(14) A ridosso della teoria della garanzia come soggezione alle azioni esperibili dal com-pratore, ossia quale accollo del rischio circa il verificarsi di determinati eventi (su cui co-munque infra), si collocano com’è noto le pregevoli ricostruzioni volte ad accreditare dellagaranzia per vizi ora una lettura in termini di impugnativa da « falsa rappresentazione »,ora una riconduzione alla teorica della presupposizione, ora, infine, al paradigma della re-sponsabilità precontrattuale. Queste teorie, al di là delle innegabili differenze, condividonocon quella della garanzia l’idea dell’estraneità della disciplina dei vizi redibitori rispetto al-l’area della responsabilità contrattuale. Per un’ampia disamina di queste posizioni vedi L.Cabella Pisu, Garanzia e responsabilità nelle vendite commerciali, cit., 72 e ss.; C.G. Ter-ranova, voce Redibitoria (azione), in Enc. giur., 3 e ss.; A. Luminoso, La Compravendita, 4a

ed., Torino 2004, 212 e ss.

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In entrambi i casi si impone la definizione dei rapporti (identità, specie agenere, ovvero alterità) intercorrenti con gli ordinari rimedi contrattuali.

Seppur talora riscontrandovi indizi di più generali tendenze sistematiche(15), la dottrina ha, intanto, sostanzialmente preso le distanze dalla letteradell’articolo 1476 n. 3 c.c., escludendone ogni contenuto precettivo e così ri-fiutando di considerare la garanzia per vizi quale oggetto di specifica obbliga-zione del venditore (16), a differenza di quelle, parimenti indicate nella mede-sima disposizione, di consegnare la cosa e di fare acquistare il dominio su diessa al compratore (nei casi di vendita c.d. obbligatoria). Ciò in ragione dellaevidente aporia sottesa alla configurazione di un’obbligazione che, non poten-do sussistere prima ed a prescindere dal manifestarsi dei vizi, sarebbe fatal-mente destinata a sorgere già inadempiuta e, soprattutto, mancherebbe del-l’elemento, viceversa fondante, costituito dalla prefigurazione di un compor-tamento dell’obbligato al quale sia riconnesso il soddisfacimento dell’interessedel creditore (17).

Escluso che la garanzia per vizi costituisca essa stessa obbligazione exlatere venditoris, vi è chi ha valorizzato l’effettiva corrispondenza tra nomeniuris dell’istituto e sua ontologia, così identificando nella disciplina di cuiagli articoli 1490-1495 c.c. una ipotesi di assunzione del rischio, da partedel venditore, circa il verificarsi di determinati eventi che non gli compete-rebbe cercare di impedire, ossia per l’appunto un’ipotesi di garanzia in sen-so tecnico (18).

Maggiori consensi ha avuto tuttavia la tesi che la garanzia redibitoria ri-conduce comunque all’ambito della responsabilità contrattuale. La dottrinatradizionale non esita in definitiva a configurare la garanzia redibitoria qualerimedio all’inadempimento contrattuale, salvo tornare a dividersi sulla rin-tracciabilità della relativa fonte nella violazione di una obbligazione ex con-tractu o piuttosto nella violazione della lex contractus.

Dal primo punto di vista, la garanzia per vizi costituirebbe sanzione perl’inadempimento dell’obbligazione di fare acquistare il diritto al compratore

(15) Così, ad esempio, R. Alessi, Risoluzione per inadempimento e tecniche di conserva-zione del contratto, in R. crit. d. priv., 1984, 55 ss. ma spec. 83 ove l’intero articolo 1476viene indicato quale elemento significativo della « sicura scelta del legislatore del 1942 dispingere decisamente in avanti la assimilazione tra i mezzi di tutela apprestati al compra-tore (nel caso di evizione o di vizi) e i (normali) rimedi assegnati al creditore, nel contrattoa prestazioni corrispettive ».

(16) Cfr D. Rubino, La Compravendita, in Tratt. Cicu-Messineo, vol. XXIII, 2a ed. Mila-no 1962, p. 634; L. Mengoni, op. ult. cit., p. 8; A. Luminoso, op. ult. cit., p. 211.

(17) Cfr ancora A. Luminoso, op. ult. cit., 211, nonché C.G. Terranova, voce Redibito-ria (azione), op. cit., p. 5. L’unanimità, oltre che la persuasività delle argomentazioni ad-dotte a sostegno della soluzione riportata nel testo, rende invero vieppiù criticabile il rinno-vato impiego, da parte delle sez. un. nella sentenza n. 13294/2005, della locuzione « obbli-gazione di garanzia »: così al punto 5 come al punto 16 della motivazione.

(18) Cfr. A. Di Majo, L’esecuzione del contratto, Milano 1967, p. 207 ss.

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(19), obbligazione dal contenuto complesso poiché tale da includere non solo enon tanto il puro e semplice immediato acquisto del diritto ma anche l’obbli-go di farlo acquistare su un bene che sia esente da vincoli di espropriabilità(garanzia per evizione) nonché da vizi (garanzia per vizi); da qui il ricorrere,con la garanzia redibitoria, di una sanzione legata al mancato o inesatto com-pimento della attribuzione patrimoniale fondamentale e principalissima a ca-rico del venditore cioè il fare acquistare al compratore il diritto venduto e conquei requisiti(20). Essendo, così, la garanzia concepita come reazione adun’alterazione del sinallagma funzionale ne discenderebbe, peraltro, la suasostanziale omogeneità rispetto alla ordinaria reazione che l’ordinamento ap-presta per l’inadempimento di qualsiasi altra obbligazione che entri nel sinal-lagma stesso (21).

Accentua l’idea del collegamento della garanzia per vizi con una obbliga-zione a carico del venditore, del cui inadempimento essa costituirebbe sanzio-ne, l’altrettanto nota opinione che postula una responsabilità (del venditore)per violazione dell’impegno traslativo (22). Se dalla pagina di Rubino trasparecomunque una qualche incertezza circa la piena assimilazione tra inadempi-mento dell’attribuzione patrimoniale ad effetto reale e l’inadempimento toutcourt di un’obbligazione (23), tale sfumatura viene meno nella costruzione daultimo riferita, ove il medio dell’obbligazione (e quindi del suo inadempimen-to) viene anzi chiaramente posto in risalto.

Nell’operazione economica tipicamente sottesa alla compravendita l’alie-nante si impegnerebbe ad un risultato traslativo che si determinerebbe « an-che in relazione all’esattezza materiale del bene » (24); il ricorrere di un vizioa carico del bene compravenduto invererebbe così una violazione della pro-messa (contrattuale) del venditore e legittimerebbe il compratore all’esercizio

(19) Si tratta della nota opinione di D. Rubino, op. ult. cit., p. 630 ss., e spec. p. 635 ss.È opportuno rammentare come ad avviso di tale A. la peculiarità dell’obbligazione richia-mata risiederebbe, fra l’altro, oltre che nel suo contenuto complesso (così come chiarito neltesto), anche e soprattutto nel suo definirsi e determinarsi pienamente, quanto al contenu-to, proprio attraverso la disciplina dettata per la garanzia dal diritto positivo. Si legge infat-ti a p. 636 dell’opera citata che: « proprio dalla garanzia si ricava che l’obbligazione delvenditore non è solo di trasmettere il diritto sulla cosa individuata, o più esattamente nonha solo quel contenuto, ma importa anche l’obbligo che la cosa sia dall’aspetto materiale,esente da vizi ».

(20) Id., op. ult. cit., p. 639.(21) È utile, al riguardo, rammentare come, nel pensiero di D. Rubino (op. loc. ult. cit.),

il sinallagma contrattuale sia prefigurato, oltre che fra obbligazioni, anche fra attribuzionipatrimoniali; e financo allorché una di esse o entrambe siano ad effetto reale.

(22) C.M. Bianca, op. cit., p. 892 ss.(23) D. Rubino, op. ult. cit., p. 758 ove infatti, a proposito della garanzia per vizi, l’a.

ha cura di precisare che « qui l’inesatto adempimento non è di un’obbligazione ma dell’at-tribuzione patrimoniale ad effetto reale ». Ma vedi anche quanto ricordato alla precedentent. 20.

(24) C.M. Bianca, op. cit., p. 895.

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di « una tutela contrattuale che la disciplina della vendita indica in terminidi garanzia ma che in definitiva rientra nell’ambito della generale tutela con-trattuale » (25).

Da altra ed opposta prospettiva, la ricostruzione della garanzia redibito-ria come ipotesi di responsabilità contrattuale in senso proprio, ossia dipen-dente, secondo le opinioni prima riportate, da inadempimento (di un’obbliga-zione), è stata oggetto di serrate critiche. Queste si sono appuntate principal-mente sulla configurabilità stessa di un’obbligazione primaria rispetto alla cuimancata o inesatta esecuzione la garanzia per vizi costituirebbe (regime di)responsabilità.

La lucida analisi di Luigi Mengoni, ormai più di cinquant’anni or sono,ha persuasivamente messo in evidenza le ragioni di inaccoglibilità di quella fi-gura balzana, messa in circolazione dal Pothier col nome di « obligation defaire avoir la chose utilment » (26) la quale indubbiamente costituisce il retro-terra anche delle ricordate posizioni della nostra dottrina.

Tali ragioni poggiano, come peraltro di recente è stato ricordato, « sullaimpossibilità logica e giuridica di imputare il vizio o l’assenza di qualità delbene alla condotta del venditore, il quale non abbia partecipato alla sua rea-lizzazione o, comunque, influito sul suo modo d’essere » (27). Prendendo lemosse dal superamento dell’apriorismo dogmatico che porta ad identificarel’inadempimento del contratto con la sola nozione di inadempimento diun’obbligazione contrattuale, si è ricordato come criterio di valutazione del-l’adempimento del contratto sia l’id quod actum est, e si è così reputato che la

(25) Id., ibid.; mostra di condividere questo approccio e con esso la riconduzione delleazioni di cui all’articolo 1492 c.c. al sistema dei rimedi contro l’inadempimento nei contrat-ti a prestazioni corrispettive M.G. Cubeddu, Vizio apprezzabile e garanzia della cosa ven-duta, in questa Rivista, 1990, II, p. 167 ss. Nel quadro di una più ampia riflessione sulledeviazioni (tipiche) dal modello generale della risoluzione, all’insegna della valorizzazionedi tecniche volte alla conservazione dell’operazione contrattuale, si rifà a tale ricostruzionegià R. Alessi, Risoluzione per inadempimento, cit., p. 84, la quale, però, sottolinea — aproposito della vendita — come l’emersione, in giurisprudenza, di una tendenza a costruiresulla destinazione economica del bene compravenduto il discrimine tra sua appartenenzaad un tipo diverso del medesimo genere ovvero appartenenza ad un genere radicalmente di-verso (aliud pro alio), asseconderebbe « l’aggancio del giudizio di risoluzione alla naturadello scambio e al risultato economico ultimo perseguito dal contratto ». Osservazione,questa, corroborata peraltro dalla denunciata ambivalenza della disciplina della vendita laquale — ad avviso dell’a. — non tenderebbe né (solo) alla protezione dell’interesse partico-lare del venditore, né (solo) a quello del compratore, mirando piuttosto a « garantire intempi brevi un esito certo dell’operazione di scambio » (91).

(26) Vedi L. Mengoni, Profili di una revisione della teoria della garanzia, cit., p. 3 espec. p. 4 ss., ove, a partire da un richiamo adesivo alle posizioni di Flume, si afferma che« Il distacco della garanzia dal concetto di obbligazione deve considerarsi un punto di par-tenza della teoria dei vizi redibitori ».

(27) Così testualmente S. Mazzamuto, Equivoci e concettualismi, nel diritto europeo deicontratti: il dibattito sulla vendita di beni di consumo, in Europ. d. priv., 2004, p. 1063 ss.,ora in La vendita di beni di consumo, a cura di R. Alessi, cit., p. 317 ss., ma spec. p. 345.

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consegna di cosa viziata, chiara ipotesi di inosservanza della lex contractus,rilevi quale condicio iuris di efficacia della garanzia, la quale a sua volta co-stituirebbe un surrogato della pretesa di adempimento, un’azione di risoluzio-ne per viam restitutuxionis perché preordinata a fare vale la pretesa alla resti-tuzione del prezzo (28).

Si è così tornato a parlare di (responsabilità per) inattuazione dell’effettoreale (29), ovvero di vincolo (fonte) di responsabilità, implicato dall’impegnotraslativo del venditore, la cui dichiarazione importerebbe infatti anche l’im-pegno al realizzarsi di un risultato traslativo conforme alle determinazioniconvenzionali e legali (30). Ma quella da violazione della garanzia costituireb-be, ad avviso della dottrina ora ricordata, una ipotesi di responsabilità con-trattuale (o da contratto) di tipo speciale (dunque non riconducibile alla cop-pia degli artt. 1218 e 1453 c.c.) poiché non mediata da una obbligazione escaturente piuttosto dalla oggettiva inattuazione o imperfetta attuazione del-l’effetto traslativo (31).

Infine, è ancora dalla condivisione di molte delle premesse della teoricamengoniana che trae forza la diversa e per molti aspetti radicale opinione —che abbiamo già avuto modo di ricordare — secondo cui deve valorizzarsipienamente il nomen iuris dato dal legislatore all’istituto di cui agli artt.1490-1492, poiché in effetti aderente alla natura ed ai caratteri del fenomenogiuridico: ricorrerebbe qui un accollo di rischio in ordine al verificarsi dieventi che non si è obbligati a evitare, il che è per l’appunto quanto dire unagaranzia in senso tecnico (32).

3. — Invero, appare innegabile il palesarsi di una radicale incompatibili-tà tra lo schema — tipo della compravendita e la figura dell’obligatio, ove ri-ferita alla posizione del venditore al riguardo dei vizi del bene compravendu-

(28) Cfr. L. Mengoni, op. ult. cit., p. 9 nonché 16-17 ad avviso del quale, peraltro,« anziché in obligatione, l’adempimento del contratto può essere dedotto, in tutto o in par-te, in condizione, nel senso che il promittente non è obbligato in tutto o in parte ad eseguirela prestazione promessa ma assume invece la garanzia dell’adempimento (garanzia pura).Allora l’inadempimento non è presupposto di responsabilità in senso tecnico, bensì unacondicio iuris di efficacia della garanzia ricollegata al contratto (..) in luogo dell’obbliga-zione subentra la garanzia » (16). È altresì necessario sottolineare come nel pensiero diMengoni la garanzia non costituisca sanzione (per inadempimento), presupponendo questainfatti una norma primaria, ossia un pregresso dovere giuridico; si tratterebbe piuttosto diuna « forma di tutela giuridica dell’interesse del compratore all’adempimento, ravvisatosotto l’aspetto della qualità della cosa ».

(29) Cfr. E. Russo, La responsabilità per inattuazione dell’effetto reale, Milano 1965, p.139 ss. e spec. pp. 180-181.

(30) Così A. Luminoso, La compravendita, cit., p. 216.(31) Id., op. loc. ult. cit.(32) È questa la nota opinione di A. Di Majo, L’esecuzione del contratto, cit., p. 270 ss.

ma spec. p. 298, da cui è tratto il corsivo riportato nel testo. Spunti in tale direzione già inG. Gorla, La compravendita e la permuta, in Tratt. Vassalli, VII, 1, Torino 1937, p. 88 ss.

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to; si tratta però, a ben vedere, di un’incompatibilità che alla fattispecie dellavendita giunge in via mediata, per il tramite, a monte, del principio del con-senso traslativo, il quale, giusta il disposto dell’art. 1376 c.c., governa la prin-cipale fattispecie contrattuale di scambio, se ed in quanto essa si configuriquale vendita di cosa specifica (33).

« L’efficacia immediatamente dispositiva attribuita al nudo consenso - –è stato sottolineato — rende superfluo un qualsiasi comportamento del vendi-tore diretto al trasferimento del bene, essendo questo comportamento quellostesso già confluito nell’accordo » (34). Per altro verso, ma sempre in dipen-denza del medesimo principio, stante la regola posta dall’articolo 1477 c.c.,comma 1o, « non avrebbe alcun senso l’impegno di un proprio comportamen-to futuro, se la cosa è venduta nello stato in cui si trova al (momento) presen-te e su tale stato il venditore non potrebbe influire con la propria condotta senon rifiutandosi ab initio di vendere quel bene sul quale a posteriori si è for-mato l’accordo » (35).

La circostanza che, come ben messo in luce nell’insegnamento sopra ri-portato, il principio consensualistico importi la mancata mediazione della faseesecutiva della vendita ad opera di una obbligazione, fa sì che la omessa oinesatta attuazione del programma negoziale (dunque anche sub specie di ri-correnza di vizi a carico del bene venduto) acquisti rilievo proprio per il tra-mite della garanzia (36). Questa a sua volta costituirebbe la reazione, dispostadalla legge, al dato di fatto della mancata o difettosa esecuzione del contratto;reazione da collocarsi però sul terreno delle restitutiones perché consistentenel rimettere alla determinazione del compratore la scelta sul tipo di riequili-

(33) Torna utile a questo riguardo rammentare, con la migliore dottrina, l’innegabileappiattimento, ad opera del legislatore del 1942, della disciplina generale della compra-vendita sul risalente modello della vendita civile, ossia quella di cosa specifica, prodottodi rapporti economici di certo ormai superati perché propri di un’economia di tipo proto-capitalistico: cfr M. Giorgianni, L’inadempimento, Milano 1975, p. 77; Id., voce Inadem-pimento (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XX, p. 860 ss. ma spec. p. 866; A. Di Majo, L’ese-cuzione del contratto, Milano 1967, p. 305 s.; L. Cabella Pisu, Garanzia e responsabili-tà, cit., p. 58.

(34) Così A. Di Majo, op. ult. cit., p. 294, il quale peraltro muove dalla suggestiva pro-spettiva d’indagine della dialettica tra programma contrattuale e sua attuazione.

(35) Id., op. ult. cit., p. 295; analoghe considerazioni in A. Luminoso, La compravendi-ta, cit., p. 215 ed spec. nt. 23 laddove, rispetto all’ipotesi di vizi e difetti, si sottolineal’ostacolo alla configurazione di un’obbligazione costituito dal fatto che « l’interesse delcompratore viene leso nel momento stesso dell’acquisto della proprietà (...) non successiva-mente in conseguenza della violazione di un dovere di condotta ». Di impasse costruttiva le-gata al dogma del consenso parla anche G. Amadio, Difetto di conformità, cit., p. 879; talea. ha tuttavia di recente (Id., Proprietà e consegna nella vendita dei beni di consumo, in Lavendita di beni di consumo, cit., p. 39 s.., ma spec. p. 53) precisato il senso di tale afferma-zione chiarendo che con essa avrebbe inteso riferirsi non tanto al principio del consenso tra-slativo, quanto alla « irreversibilità che caratterizza, nel tipo generale, il processo di indivi-duazione del termine oggettivo cui riferire (tutti) gli elementi contrattuali ».

(36) Cfr. A. Di Majo, op. ult. cit., p. 301 ss.

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brio inter partes da raggiungere, secondo l’alternativa tra restituzione inte-grale o parziale del prezzo (37).

Benché, come si è già anticipato, da tale ampio dibattito sulla natura del-la garanzia prenda le mosse, la motivazione della sentenza in commento ap-pare per certi versi ambigua, poiché alla premessa circa la connotazione dellegaranzie edilizie quali sanzioni per la violazione dell’impegno traslativo essafa seguire l’insistito richiamo alla garanzia quale obbligazione essa stessa, atal punto portatrice (meglio si direbbe caricata) di una tensione verso la pienaattuazione del programma negoziale da proiettarsi, attraverso comportamentiche ne costituirebbero comunque esecuzione, financo al di là del prodursi del-l’effetto traslativo.

Tale ambiguità nasce, forse, proprio dalla circostanza che le Sezioni Uni-te avvertono la necessità di recuperare il piano dell’obbligazione quale impre-scindibile premessa per il profilarsi di (una pretesa ad) un esatto adempimen-to del vincolo. Il che rimanda ancora una volta ai termini tradizionali del di-battito teorico, questa volta specificamente riferito al profilo dell’ammissibili-tà di un’azione di esatto adempimento del contratto di compravendita o, se sipreferisce, alla legittimità o meno di una pretesa del compratore ad ottenereuna riparazione o una sostituzione del bene compravenduto, in presenza divizi redibitori (38).

La diffusa opinione che, anche ammessa la configurazione del congegnonormativo delineato negli artt. 1490-1495 c.c. in termini di responsabilitàcontrattuale e relativi rimedi, esclude qualsiasi spazio, all’interno dello sche-ma della vendita, per una obbligazione di facere del venditore circa il modo

(37) Id., op. ult. cit., pp. 304-305; nonché in Garanzia e inadempimento, cit., p. 3, oveè rimarcata in particolare l’alterità tra l’azione redibitoria e l’azione di risoluzione per ina-dempimento nel quadro della rilevata disarmonia di carattere storico tra gli effetti dellavendita e quelli del contratto (p. 19); doveroso, a tal proposito, il rimando alla pagina men-goniana laddove viene nitidamente posta in risalto la circostanza che « L’eliminazione deglieffetti della vendita » — che si determina in conseguenza dell’esperimento dell’azione redi-bitoria — « è soltanto una conseguenza mediata della restitutio »: così Mengoni, op. ult.cit., p. 9. Critica la centralità del momento restitutorio che, in definitiva, consente di assi-milare le due azioni di cui all’art. 1492, Cabella Pisu, Garanzia e responsabilità, cit., p.231 ss., ad avviso della quale mentre l’azione redibitoria consisterebbe nella ordinaria azio-ne di risoluzione e dunque in un rimedio estremo diretto allo scioglimento del vincolo, vice-versa l’azione di riduzione tenderebbe a ricreare l’equilibrio alterato tra le prestazioni,adattandolo al mutamento delle circostanze; per tale ragione, conclude l’a., la riduzione delprezzo andrebbe rivista come rimedio speciale della vendita, non in contraddizione con ilnormale sistema dei rimedi contro l’inadempimento, ma certamente non riconducibile allaredibitoria « come il minus nel plus » (p. 232).

(38) Invero, la consapevolezza del dibattito sull’argomento si rivela piena da parte delleSez. Un., le quali vi fanno infatti puntuale, ancorché sintetico, riferimento ai punti 6.1, 6.2e 6.3 della motivazione; analogamente, come più volte già rilevato nel testo, deve dirsi aproposito della questione interpretativa sulla natura della garanzia, affrontata ai precedentipunti 4, 5 e 6.

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d’essere del bene, dà conto del prevalere, particolarmente in dottrina, dellasoluzione negativa (39) al quesito da ultimo posto.

Tanto, infatti, la riparazione del bene viziato, quanto la sua sostituzione,costituiscono forme di tutela di tipo satisfattivo (40), certamente da ricondurrealla più generale cornice dell’adempimento (in forma specifica) evocato dal-l’articolo 1453 c.c.; in particolare, per il loro tramite si realizzerebbe un « re-cupero » del rapporto obbligatorio nella direzione del soddisfacimento dell’in-teresse del creditore. Ciò, nonostante che quel medesimo rapporto risulti giàavviato — benché per l’appunto non irreversibilmente, trattandosi di manca-ta esecuzione di prestazione ancora possibile, ovvero di inesatta esecuzionedella stessa — verso la definitiva violazione (inadempimento definitivo) (41).

Proprio l’assenza di un’obbligazione (di facere) dovrebbe qui escludere inradice la possibilità stessa di ricorrere a strumenti di coazione all’adempimen-to e con essi di operare un simile « recupero » della vicenda traslativa, unavolta che questa si sia del tutto attuata, ancorché inesattamente. La sostitu-zione del bene, d’altra parte, integrerebbe un (inammissibile) secondo adem-pimento (42) imposto all’alienante.

(39) Cfr., oltre agli autori già citati nelle note precedenti, Martorano, La tutela delcompratore per i vizi della cosa, Napoli 1959, p. 110 ss. ma spec. p. 117; per una panora-mica sui diversi orientamenti negativi, nel solco comunque della premessa illustrata nel te-sto, si rinvia a A. Plaia, Sull’ammissibilità dell’azione di esatto adempimento in presenza divizi del bene venduto o promesso in vendita, in Contratto e impr., 1998, p. 123 ss.; nonchéId., Vizi del bene promesso in vendita e tutela del promissario acquirente, Padova 2000,spec. p. 86 ss.

(40) Su cui cfr. A. Di Majo, La tutela civile dei diritti, 3, 3a ed., Milano 2001, p. 261 ss.(41) Come è noto non vi è uniformità di vedute, in dottrina, circa l’interpretazione della

tutela specifica di cui all’art. 1453, atteso che alla soluzione abbracciata nel testo, legata aduna lettura del rimedio in questione come prioritariamente rivolto alla attuazione (ancorchénon spontanea) del diritto di credito, nel contesto di una visione procedimentale dell’ina-dempimento secondo la quale questo acquista la definitività di fattispecie solo con l’impos-sibilità della prestazione o con l’accoglimento della domanda di risoluzione (v. S. Mazza-muto, Equivoci e concettualismi, cit., p. 395 ss., ma spec. p. 399, ove il corsivo riportato;nonché già in L’inattuazione dell’obbligazione e l’adempimento in natura, in Europ. d.priv., 2001, p. 513 ss. ma spec. p. 518 ss.), si contrappone la diversa ricostruzione di chiconsidera qualunque deviazione dalle forme programmate di esecuzione del comportamen-to dovuto un inadempimento tout court, rispetto al quale si aprirebbe la via dei soli rimedidi carattere risarcitorio tra i quali quello del risarcimento in forma specifica (art. 2058):questa è la posizione di C. Castronovo, Il risarcimento in forma specifica come risarcimentodel danno, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti, a cura di S. Mazzamuto, I, Napo-li 1989, p. 492 ss.; Id., La nuova responsabilità civile, Milano 1997, p. 504 ss; Id., Le duespecie di responsabilità civile e il problema del concorso, in Europ. d. priv., 2004, p. 114;Id., La risoluzione del contratto dalla prospettiva del diritto italiano, in Europ. d. priv.,1999, p. 793 ss. Critici rispetto alla identificazione dell’azione di esatto adempimento con ilrisarcimento in forma specifica si mostrano altresì A. Luminoso, Riparazione o sostituzionedella cosa e garanzia per vizi nella vendita dal codice civile alla direttiva 1999/44/CE, inquesta Rivista, 2001, p. 837 ss., e spec. p. 849; A. Di Majo, op. ult. cit., pp. 246-247.

(42) Confronta in particolare C.M. Bianca, op. cit., pp. 1013-1014.

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In tal senso si è orientata, non a caso, anche la prevalente giurispruden-za, al punto che può ormai dirsi consolidata la massima per cui « consistendol’obbligazione del venditore in un dare, costui non può essere costretto ad unfacere per eliminare gli eventuali vizi esistenti, ma può soggiacere soltanto al-la risoluzione del contratto o, alternativamente, alla riduzione del prezzo(43) ». Premessa, questa, il più delle volte, di una ribadita alterità tra la disci-plina di cui agli artt. 1490 e ss. e quella generale in tema di inadempimentocontrattuale, dettata dall’art. 1453 c.c. (44).

Anche quanti in dottrina hanno sposato, più o meno esplicitamente, latesi dell’obbligazione ex latere venditoris quale fondamento della garanziaper vizi, si sono mostrati perplessi ed in generale restii ad ammettere l’esperi-bilità del rimedio diretto ad ottenere l’adempimento in natura (sotto forma diriparazione o sostituzione del bene) da parte dell’alienante, a meno di riferirsialla, invero assai poco probante (45), distinzione tra situazione di colpa o me-no del venditore, per restringere solo al primo caso la praticabilità del rime-dio, nel presupposto che in ragione del ricorrere della colpa si sarebbe fuoridal campo di applicazione dell’articolo 1492 (46) e la vicenda diverrebbe inte-ramente governata dall’art. 1453 c.c.

Ad esprimersi in senso nettamente favorevole è rimasta la sola autorevoleopinione secondo la quale, su ben altre basi che non il richiamo all’obbliga-zione del venditore, ma piuttosto a partire dalla ricognizione di una serie difattispecie tipiche, chiaramente orientate al rimedio specifico (segnatamentegli artt. 1512, 1667-1668 c.c.), si dovrebbe pervenire alla conclusione dellapiena estensibilità alla ipotesi di vizi redibitori dell’esatto adempimento sicco-me rimedio di carattere generale, nel presupposto — pure in sé del tutto con-divisibile — della totale estraneità della colpa rispetto alla coppia di rimedi(risoluzione-esatto adempimento), su cui poggia la tutela apprestata dall’arti-colo 1453 c.c., a differenza di quanto avviene per il regime risarcitorio ai sen-si dell’art. 1218 (47).

(43) Cfr. Cass. 24 novembre 1994, n. 9991, in F. it., 1995, 1, c. 3263 con nota di F. Maca-rio; Cass. 20maggio 1997, n. 4459, in Rep. F. it., 1997, voceContratto in genere, n. 448.

(44) Cfr. Cass. 3 agosto 2000, n. 10188, cit.; Cass. 15 maggio 2000, n. 6234, in Rep. F.it., 2000, voce Vendita, nn. 56-57.

(45) Si vedano al riguardo i rilievi critici di M. Giorgianni, op. ult. cit., 866, nonché A.Di Majo, L’esecuzione del contratto, cit., p. 307.

(46) Così D. Rubino, La Compravendita, cit., p. 825 ss.; analogamente Greco-Cottino,Della vendita, Art. 1470-1547, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma 1962, p. 226ss., ad avviso dei quali, nondimeno, l’azione di adempimento potrebbe concretarsi solo inuna pretesa di sostituzione e non anche di riparazione ed eliminazione dei vizi e soprattuttoandrebbe ristretta alla vendita di cosa generica.

(47) Cfr. M. Giorgianni, voce Inadempimento (dir. priv.), cit., p. 865 ss. Per quanto ba-sata sulla generalizzazione di indicazioni provenienti da fattispecie in sé «distanti » daquella della vendita di cosa specifica, ed improntata ad una certa enfasi nell’assecondareesigenze pratiche di adeguatezza della disciplina giuridica all’evolversi della realtà degli

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Invero nell’impianto del codice civile del 1942 è dato rintracciare fatti-specie la cui fisionomia esibisce la sicura ricorrenza di obbligazioni del vendi-tore, concernenti il « modo d’essere » della cosa alienata. Questo è ad esempioil caso della vendita di cosa mobile cui acceda una espressa garanzia di buonfunzionamento (art. 1512) (48) ovvero quello della vendita di cosa generica.

Non deve però sfuggire come in siffatte ipotesi in tanto un’obbligazione(di fare) ex latere venditoris trova spazio all’interno della fattispecie traslativain quanto, o ricorre una espressa determinazione di autonomia privata (« Seil venditore ha garantito per un tempo determinato il buon funzionamentodella cosa venduta », recita il comma 1o dell’art. 1512), ovvero lo scambio ri-mane fuori dall’ambito di operatività del principio del consenso traslativo, acausa di elementi oggettivi (l’individuazione solo nel genere della bene da tra-sferire) che impediscono, in concreto, al negozio di produrre da subito l’effet-to reale.

Inoltre, e per altro verso, sempre con riguardo alle ipotesi da ultimo con-siderate, è opportuno sottolineare come il ricorrere in esse di obbligazioni (difare) a carico dell’alienante, non valga di per sé a determinare la sicura fuo-riuscita dal raggio di azione della garanzia edilizia.

Nel caso della garanzia di buon funzionamento, ove pure la coppia obbli-gazione — rimedio specifico è esplicitata dallo stessa lettera dell’articolo 1512— allorché si fa parola (comma 2o) di sostituzione o riparazione del bene — èinfatti opinione prevalente quella secondo cui essa sarebbe comunque intrec-ciata con la garanzia per vizi e difetto di qualità (49).

Non diversamente accade nella vendita di cosa generica ove in capo alvenditore ricorre l’obbligo di far acquistare al compratore la proprietà dellacosa (art. 1476 n. 2).

Una volta escluso che qui, in particolare, ed a differenza che in altre ipo-tesi di vendita obbligatoria, ricorra un (mero) impegno di dare in senso tecni-

scambi (così almeno a giudicare da quanto osservato ivi a p. 867), la riflessione di Gior-gianni non solo evidenzia assai nitidamente gli elementi di inattualità della disciplina codi-cistica dettata in generale per la vendita, ma coglie al contempo gli altrettanto significativiindici positivi di erosione, o forse di stemperamento, del rigore di tale modello. Sul punto sitornerà comunque fra breve.

(48) Il momento obbligatorio, nella garanzia di buon funzionamento, è bene evidenziatoda Luminoso, op. cit., p. 294 ad avviso del quale « il venditore assume un impegno in ordi-ne a qualità e requisiti che la cosa deve possedere al momento della conclusione del con-tratto, e più precisamente in ordine alle qualità e ai requisiti di integrità che ne consentonoil funzionamento ».

(49) Cfr. in tal senso F. Bocchini, La vendita di cose mobili, Artt. 1510-1536, in Il Co-dice Civile Commentario, fond. da P. Schlesinger e continuato da F.D. Busnelli, 2a ed., Mi-lano 2004, p. 198, ove il corsivo riportato nel testo; dello stesso avviso già Greco-Cottino,op. cit., p. 306, secondo cui la regola di cui all’art. 1512 « non esclude, a latere, l’applica-zione delle norme sui vizi e sui difetti di qualità (o sull’inadempimento: aliud pro alio) sia inquanto sostitutive della regolamentazione dell’art. 1512 se la garanzia non sia stata con-venuta, sia perché relative ad inconvenienti indipendenti dal buon funzionamento da essacontemplato ».

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co (50) si è convincentemente prospettata l’idea che si tratti di un obbligo alcompimento di una serie di atti (di individuazione e specificazione) preordi-nati non solo a far scaturire dal consenso già prestato l’effetto reale cui era di-retto (51), bensì anche a far sì che il bene trasferendo risponda ad uno stan-dard qualitativo « minimo » (arg. ex artt. 1178, 1378 c.c.). Per questa via lafattispecie sembra dare spazio alla rintracciabilità di una obbligazione di con-tenuto più complesso di quello esibito dal tenore dell’art. 1376 n. 3 c.c., e tut-tavia si riannoda, sotto il profilo della responsabilità, alla regola di cui all’art.1497 c.c. (52).

È però questione vivacemente dibattuta se la disciplina codicistica sullagaranzia per vizi si estenda o meno fino a includere anche l’articolo 1497 c.c.sulla mancanza di qualità, vale a dire se possa scorgersi un’omogeneità tra leazioni rispettivamente previste da quest’ultima disposizione e dal precedenteart. 1492 c.c. Le contrapposte opinioni traggono spunto proprio dalla equivo-ca lettera dell’articolo 1497 c.c. Così, a favore della equiparazione (53) con leazioni edilizie in senso stretto si invoca usualmente il capoverso della disposi-zione in tema di mancanza di qualità, che a sua volta rinvia al precedente ar-ticolo 1495 sui termini di decadenza e prescrizione per l’esercizio del « dirittoalla garanzia » e delle azioni conseguenti; e, ancora, movendo dalla ricostru-zione della garanzia in termini di ordinaria responsabilità contrattuale, si en-fatizza proprio il riferimento che la norma sulla mancanza di qualità operaalla « risoluzione del contratto secondo le norme generali sulla risoluzione perinadempimento ». In senso opposto — muovendo quindi dalla premessa dellaalterità tra le azioni di cui all’art. 1492 e gli ordinari rimedi per l’inadempi-mento (contrattuale) — si prende spunto proprio dalla formulazione del com-ma 1o dell’articolo 1497 per sostenere la riconducibilità di questa sola dispo-sizione alla cornice rimediale apprestata dall’articolo 1453, mentre il rinvioespresso all’articolo 1495 viene « derubricato » a mero rinvio tecnico, perchéinterpretato in senso rigorosamente letterale e ristretto così al solo regime dei(ridotti) termini di esperibilità delle azioni previste, in conformità ad una (co-mune) ratio che si appunta tanto su una esigenza di stabilità dei contratti,quanto sulla scarsa praticabilità di una prova, a carico del compratore, circail vizio (ovvero la mancanza delle qualità) oltre l’anno dalla consegna (54).

(50) Cfr. per tutti A. Luminoso, La compravendita, cit., p. 124 ss.(51) V. per tutti Greco-Cottino, Della Vendita, cit., p. 5 ss., ma spec. p. 8 ove, con im-

magine assai efficace, il compimento degli atti necessari all’adempimento dell’obbligazionedi fare conseguire la proprietà della cosa viene qualificato quale « diaframma tra lo scam-bio dei consensi ed il passaggio della proprietà ».

(52) V. in tal senso, recentemente, G. Pisciotta, Scambio di beni di consumo e modellicodicistici di protezione dell’acquirente, Napoli 2003, p. 102 ss.

(53) Cfr. D. Rubino, op. cit., p. 759 ss., ma spec. p. 764; F. Macario, voce Vendita, I)Profili Generali, voce, in Enc. giur., Vol. XXXII, 8 e 24.

(54) Cfr. in tal senso già G. Gorla, voce Azione redibitoria, cit., pp. 882-883.

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La rintracciabilità di un’obbligazione ex latere venditoris con contenutodiverso da quello « di fare acquistare la proprietà » sul bene e/o di consegna-re la cosa non è, di per sé sola, risolutiva, lasciando aperta la questione dellasua riconducibilità fuori dall’ambito di applicazione del regime speciale di tu-tele di cui agli artt. 1492-1495 c.c., che a sua volta esclude l’applicabilità deirimedi « conservativi » prefigurati dall’art. 1453 c.c. (azione di esatto adem-pimento sub specie di riparazione o sostituzione della cosa venduta).

Ritornando alla questione dell’ammissibilità, nella compravendita, diun’azione di esatto adempimento va detto che, ravvisata l’estraneità di ripa-razione e sostituzione del bene rispetto al paradigma della comune tutela con-trattuale (55), si sono prefigurati piuttosto margini di impiego per l’istituto delrisarcimento in forma specifica. Posto che al compratore, accertata l’esistenzadel vizio occulto, può spettare il risarcimento del danno, dovrebbe ammettersiche questo possa ottenersi nella forma del risarcimento in forma specifica exart. 2058 c.c., il che però, nel rispetto del criterio di non eccessiva onerositàper il debitore, condurrebbe a restringere il campo (peraltro della sola ripara-zione) esclusivamente alla vendita di macchine nuove o di immobili da co-struire o in costruzione (56).

Invero, rimanendo nel solco dell’insegnamento che mantiene ferma la di-stinzione tra adempimento in natura e risarcimento in forma specifica e riba-dita l’appartenenza di questo secondo istituto, così come regolato dall’articolo2058 c.c., all’esclusivo ambito della responsabilità aquiliana (57), non è daescludere a priori che in presenza di determinati presupposti (segnatamentecolpa e natura economica del danno) il compratore del bene viziato possa va-lersi di questa particolare modalità della tutela risarcitoria (58). Ciò apparedel resto in linea con una tendenza più generale che registra, come suggesti-vamente rappresentato da una dottrina, il progressivo insinuarsi di un istitutoin crisi di identità sistematica entro spazi tradizionalmente ad esso estranei, inrisposta ad una diffusa domanda di « effettività », nel quadro di una strategiavolta a legittimare e radicare sempre più, nel sistema, tutele di tipo reale (59).

(55) Così C.M. Bianca, op. cit., p. 1009 ss. Mette conto rilevare come, ad avviso del cita-to autore, l’azione di adempimento di cui all’articolo 1453 potrebbe trovare spazio ed am-mettersi solo quando il venditore non abbia ancora affatto adempiuto (1014-1015).

(56) Id., op. cit., p. 1011. Questa opinione è condivisa da C.G. Terranova, La garanziaperi vizi della cosa venduta, cit., p. 108.

(57) Vedi supra, nt. 40.(58) Vedi sul punto A. Plaia, Sull’ammissibilità dell’azione di esatto adempimento, cit.,

p. 157 ss.; in senso analogo già L. Cabella Pisu, Garanzia e responsabilità, cit., la qualemostra di ammettere il ricorso alla tecnica risarcitoria in forma specifica sia, sotto forma diriparazione diretta da parte del venditore, allorché si tratti di vendita di cosa mobile fabbri-cata direttamente dall’alienante; sia, questa volta come riparazione a spese del venditore,allorché si tratti di cosa mobile da questi non fabbricata.

(59) Cfr L. Nivarra, Il risarcimento del danno in forma specifica, in Vita not., 1997, p.669 ss., ma spec. pp. 672 e 674 ove l’a., nel segnalare il processo di vera e propria eteroge-

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Rimane comunque la circostanza che l’area coperta da tale tecnica di tu-tela non è integralmente sovrapponibile a quella delimitata dalla garanzia pervizi, sicché quella aquiliana si rivela solo in parte valida via di fuga dall’asfit-ticità delle azioni edilizie. Ove solo ci si soffermi a considerare i presuppostidell’istituto di cui all’articolo 2058 c.c. e tra di essi in specie il requisito (ne-cessario) della colpa del danneggiante, si coglie la cifra della possibile sfasa-tura rispetto alla fattispecie della vendita di bene viziato (60) e con essa in de-finitiva anche il gap di tutela (del compratore) per certi versi connaturato alladisciplina codicistica sulla vendita in generale (61).

4. — Da qui probabilmente il tentativo (a nostro avviso malriuscito) del-la Corte, ad un tempo, di recuperare il modello dell’obbligazione ex contractue di affrancarlo tout court dai limiti del regime delineato negli artt. 1492-1495 per il tramite del congegno ricognitivo, cui però essa finisce col far cari-co di un innegabile, ancorché ex professo denegato, effetto modificativo.

La ricognizione del debito, in cui si sostanzierebbe l’impegno del vendito-re alla riparazione, integra infatti, ad avviso del Supremo Collegio, un quidpluris in grado di ampliare le modalità di attuazione della garanzia, non solo« nel senso di consentire al compratore di essere svincolato dalle condizioni edai termini di cui all’art. 1495 c.c. », ma anche di realizzare in seconda bat-tuta l’esatto adempimento.

Si delinea insomma una sequenza ricognizione del debito — « amplia-mento » delle modalità di attuazione — (nuovo) regime di prescrizione laquale non può non suscitare perplessità.

Intanto, e principalmente, va censurata l’idea di una pretesa attitudinedel congegno di cui all’art. 1988 c.c. a modificare il regime di prescrizione deldiritto (di credito) scaturente dal rapporto sottostante.

nesi funzionale del risarcimento in forma specifica, sempre più accreditato come scorciatoiao alternativa alla tutela reale tipica, non manca d’altra parte di evidenziare le perplessitàlegate ad una collocazione sistematica dell’articolo 2058 c.c. diametralmente opposta ri-spetto a quella voluta dal legislatore.

(60) Com’è noto si esclude che presupposto della garanzia edilizia sia lo stato soggettivodi colpa del venditore: per tutti cfr. A. Di Majo, L’esecuzione del contratto, cit., p. 307;G.B. Ferri, La vendita in generale - Le obbligazioni del venditore - Le obbligazioni delcompratore, in Tratt. Rescigno, v. 11, Torino 2000, p. 483 ss., ma spec. p. 558; A. Lumino-so, La compravendita, cit., p. 217. In giurisprudenza cfr. Cass. 21 gennaio 2000, n. 639, inContratti, 2000, p. 903 ss., con nota di F. Capoluogo.

(61) Matura proprio a partire dalla consapevolezza di tali limiti alla tutela del compra-tore la creazione giurisprudenziale della fattispecie dell’aliud pro alio e con essa la tenden-ziale progressiva circoscrizione dell’area dei vizi redibitori. L’economia di questo lavoronon consente di affrontare la questione e con essa quella della linea di demarcazione tra vi-zio redibitorio, mancanza di qualità e consegna di aliud pro alio. Pertanto ci si limita a rin-viare alle osservazioni ed alle ulteriori indicazioni bibliografiche di G.B. Ferri, op. ult. cit.,p. 556 ss.; A. Luminoso, La Compravendita, cit., p. 259 ss.; F. Macario, voce Vendita, cit.,p. 24 ss. In giurisprudenza, per tutte, cfr. Cass. 17 settembre 2004, n. 18757, in Contratti,2005, p. 283 ss. con nota di A. Genovese.

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Come sottolineato dalla prevalente giurisprudenza — in conformità delresto alla lettera dell’articolo 1988 c.c. e sulla scia di importanti contributidottrinari — la ricognizione del debito costituisce sì un negozio giuridico madi tenore confermativo di un preesistente rapporto e ad effetti solo processua-li, in quanto cioè esclusivamente preordinato a rafforzare la posizione del cre-ditore importandone la relevatio ab onere probandi (62). Da qui la sua inca-pacità di interferire sul terreno sostanziale, non solo nel senso di non poterdar vita ad un’obbligazione nuova, ma evidentemente anche nel senso di nonpoter modificare i connotati di quella preesistente.

A conclusioni non dissimili si perviene peraltro anche sposando la per-suasiva ricostruzione che si rifà alla nota teorica ferriana della semplificazioneanalitica della fattispecie (63), per giungere a qualificare la ricognizione deldebito alla stregua di un negozio giuridico ad effetti sostanziali. Se con questaformula si intende infatti rappresentare la circostanza che, attraverso la rico-gnizione, si autonomizza una frazione di una più complessa fattispecie e chetale frazione contiene in sé il nucleo obbligatorio propriamente detto, così daimplicare che il fatto costitutivo del vincolo degradi a causa « esterna » diun’obbligazione che diverrebbe virtualmente « fonte di sé stessa » (64), la rile-vanza sostanziale di un simile schema negoziale rimane comunque « ristret-ta » alla sua (peraltro eventuale) attitudine generativa di nuove obbligazioni,non risultando suscettibile di estendersi anche all’effetto di automatica modi-fica dello statuto dell’obbligazione preesistente.

È infatti possibile che, ove il dichiarante (debitore) non riesca a fornireprova della inesistenza del rapporto di base, una dichiarazione, pur resa inassenza di un vincolo pregresso, finisca col condurre ad un giudicato « senzal’identificazione di una determinata fattispecie costitutiva diversa e distintadalla dichiarazione del debitore posta a fondamento della pronuncia giudi-

(62) Si veda ad esempio Cass. 28 maggio 2003, n. 8515, in Contratti, 2004, p. 133 ss.con nota di Timpano. Come è noto, in dottrina non si registra uniformità di vedute circa lanatura di promessa di pagamento e ricognizione del debito, contrapponendosi in definitivadue indirizzi: quello negozialista e quello antinegozialista. Mette comunque conto osservarecome la connotazione (negoziale) dell’istituto, riportata nel testo, non si discosti, per quelche riguarda la dimensione « effettuale », dagli esiti cui si previene ritenendo la ricognizio-ne un mero atto: cfr., per tutti, V. Scalisi, Negozio astratto (voce), in Enc. dir., Vol.XXVIII, p. 52 ss., ma spec. pp. 70-73 ove infatti si afferma che la dichiarazione contenente« l’affermazione in forma diretta dell’esistenza di una determinata situazione giuridica » èinidonea a costituire la situazione stessa avendo esclusivamente efficacia dichiarativa inquanto veicolo di conservazione di una situazione già preesistente nella realtà giuridica, aisoli fini di interruzione della prescrizione del diritto nonché di rafforzamento della posizio-ne processuale del creditore.

(63) Cfr. G. Ferri, Autonomia privata e promesse unilaterali, in Banca, borsa, tit.cred., 1960, p. 481, ma spec. p. 483.

(64) Cfr. A. Di Majo, voce Promessa unilaterale (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XXXVII, p.59.

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ziale » (65). Diversamente, però, a fronte di un rapporto giuridico effettiva-mente preesistente e dunque di un vincolo obbligatorio a contenuto legale noncontroverso tra le parti (come nel caso di specie), ove si ammettesse che lasemplice dichiarazione ricognitiva importi di per sé una modifica dei conno-tati del vincolo — ancorché solo sotto il profilo del regime di prescrizione —si finirebbe con il rimettere un simile incisivo effetto alla sola unilaterale ini-ziativa del debitore. Esito, questo, irrimediabilmente in conflitto con l’esigen-za di salvaguardia della posizione del creditore nonché esorbitante rispetto ailimiti sistematici cui le promesse unilaterali soggiacciono, pur ove le si affran-chi dal giogo della tipicità di cui all’art. 1987 c.c. (66).

Queste considerazioni non vengono smentite, anzi semmai corroborate,proprio dalla disposizione di cui all’articolo 2944 c.c. ove è riconnesso alla ri-cognizione l’effetto di interrompere la prescrizione.

La ricognizione rivela infatti — non diversamente dagli atti ascrivibili altitolare del diritto, contemplati dall’art. 2943 c.c. — una perdurante vitalitàdel rapporto che è situazione antitetica a quella di inerzia, cui l’efficacia pre-clusiva della prescrizione vale a porre rimedio (67). E d’altra parte a tal puntola prescrizione è vicenda del diritto che il regime dell’una può ben dirsi unasorta di proiezione della natura dell’altro, come ad esempio testimoniato dallediverse rationes che talora impongono regimi « speciali » di prescrizione, eche risultano infatti intimamente legate ai connotati del singolo rapporto giu-ridico cui il diritto afferisce.

L’interruzione si limita così a far perdere ogni efficacia al tempo già tra-scorso prima del compimento dell’atto (se del soggetto attivo o del soggettopassivo, poco importa) senza anche interferire con il modo d’essere del dirit-to. In questa chiave va letto il comma 1o dell’articolo 2945 c.c. ove è dispostoche « per effetto della interruzione s’inizia un nuovo periodo di prescrizione »;nuovo per l’appunto solo nel senso di prendere a decorrere funditus, non an-che nel senso di diverso per durata richiesta rispetto a quella di origine (68). A

(65) Così A. D’Angelo, Le promesse unilaterali, in Il Codice Civile, Comm. Schlesinger,Milano 1996, p. 539 nonché p. 559 ss.

(66) Ci sia consentito, a tal proposito, rinviare a E. Camilleri, La formazione unilatera-le del rapporto obbligatorio, Torino 2004, p. 51 ss.

(67) Cfr. P. Vitucci, Prescrizione, I) Diritto Civile, in Enc. giur., vol. XXIV, p. 11 ss. Intermini generali, benché giusto a proposito del riconoscimento dell’esistenza dei vizi da par-te del venditore V. Cass. 13 giugno 1996, n. 5434, in Corr. giur., 1996, p. 1380 ss., connota di M. Maienza.

(68) Cfr. per tutti F. Rosselli, sub Art. 2945, in La Prescrizione, Artt. 2941-2963, acura di P. Vitucci, in Il Codice Civile, Comm. Schlesinger, t. II, Milano 1999, p. 97 ss. ilquale, espressamente rileva che « Il nuovo periodo di prescrizione, che inizia dopo l’atto in-terruttivo, è dello stesso genere di quello interrotto, con la conseguenza che, interrotta unaprescrizione breve, inizia un nuovo periodo della stessa durata e non il periodo decennaledi cui all’art. 2946 ».

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tale principio non (può) fa(re) evidentemente eccezione la ricognizione deldebito.

Del pari improprio appare, inoltre, nell’argomentare della Corte l’acco-stamento tra « modalità di attuazione » del diritto (che per il tramite del rico-noscimento risulterebbero « arricchite ») e regime della prescrizione. Le pri-me infatti, se possono venire intese in senso per così dire rimediale, ossia, perl’appunto, come tecniche di attuazione di una data pretesa soggettiva, (e co-me tali essere dunque in grado di includere l’effetto della inversione dell’one-re della prova che dalla ricognizione prende corpo), di sicuro appaiono peròestranee all’istituto della prescrizione, riguardante infatti non già le modalitàbensì i limiti temporali all’esercizio di un diritto.

Sicché l’interprete trova conforto nel dubitare che, per il tramite dell’im-proprio accostamento, il Collegio abbia in realtà voluto evocare, oltre ed al dilà dei termini di prescrizione, le modalità di attuazione del rapporto obbliga-torio in questione, se è vero che, in esito alla discutibile ricostruzione sopracommentata, al venditore viene riconosciuta una pretesa all’adempimento an-che sub specie di riparazione o sostituzione del bene acquistato.

L’intento, del resto palesato dalla sentenza persino attraverso il richiamoalla disciplina della responsabilità del produttore, dovrebbe essere quello dipiegare il congegno ricognitivo a finalità di protezione dell’acquirente.

Attesa però la presunta appartenenza del rimedio satisfattorio all’origina-rio vincolo contrattuale, tale finalità di protezione finisce curiosamente, conl’essere considerata dal solo angolo visuale della prescrizione ed affidata allasostanziale rimessione in termini (allungati). Il solo regime abbreviato deter-minerebbe la principale situazione di pregiudizio per l’acquirente, ed all’op-posto dal suo semplice allineamento con il regime ordinario conseguirebbe unmigliore ottemperamento alla più generale direttiva di protezione, richiamatadalla Corte.

Se così è, spicca allora un grande assente nella motivazione e nel decisumdella sentenza in commento: il rimedio specifico.

Seppure gli argomenti impiegati dalla Corte spianino virtualmente la stra-da al suo irrompere sulla scena, importando la rimozione degli ostacoli logici egiuridici che tradizionalmente vi si sono frapposti, di esso non v’è traccia.

Le premesse teoriche che il Supremo Collegio mostra di accogliere con-sentivano tutte di valorizzare proprio il profilo della tutela per così dire in na-tura del diritto (di credito, ad acquistare utilmente la cosa) attribuito in capoal compratore — seppur subordinatamente alla mancata esecuzione sponta-nea delle riparazioni promesse dal venditore — e tuttavia le Sezioni Uniteignorano del tutto la questione.

Ma non si tratta, ovviamente, di una svista o di una lacuna. A meno di ri-tenere — ma sarebbe un modus operandi alquanto singolare — che, menzio-nando specificamente l’azione di risoluzione del contratto, il Collegio abbiafatto uso di una sineddoche ed inteso dunque richiamare l’intero ventaglio dialternative rimediali delineato dall’art. 1453 c.c., ivi compresa anche l’azione

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di esatto adempimento, corroborano questa conclusione sia il percorso argo-mentativo, sia l’esito della pronuncia.

Per giustificare il divenire da annuale a decennale del termine di prescri-zione dei diritti del compratore, scaturenti dalla (e ricompresi nella) garanzia,in virtù dell’atto ricognitivo del venditore, le Sezioni Unite espressamente sot-tolineano l’esigenza di evitare che il compratore, proprio per via di un esperi-mento necessariamente repentino delle azioni edilizie, interferisca con la rea-lizzazione della prestazione cui il venditore è tenuto in forza dell’atto di rico-gnizione. Il presupposto è dunque, pur sempre, che al compratore, il qualepure manifesti un interesse al contratto ed all’adempimento della prestazioneche gli sarebbe dovuta (risultato traslativo), nel caso di mancata effettuazionedella eliminazione dei vizi originariamente promessa non si diano altri rimediche quelli di cui all’art. 1492 c.c.

Né d’altra parte avrebbe pregio, in senso contrario, ritenere che l’impe-gno assunto dal venditore toglierebbe spazio all’attuazione coattiva del dirit-to, così da giustificare la mancata considerazione dell’eventuale rimedio: altroè invero che il venditore dichiari (prometta) di voler provvedere alla elimina-zione dei vizi, altro è che vi provveda di sua iniziativa o che comunque inconcreto dia seguito alla « promessa » resa.

In realtà, a nostro avviso, l’iter argomentativo della Corte è, da questoprofilo, a suo modo coerente. Letta la « promessa del venditore » quale meraricognizione del debito, preordinata esclusivamente ad attuare quello stessorisultato economico che, ad avviso della S.C., il compratore si prefigurava aborigine di ottenere (e poteva ab origine pretendere), ed esclusa, sul piano for-male, ogni sua efficacia novativa, dovrà negarsene l’effetto modificativo delcontenuto del preesistente vincolo non solo sotto il profilo delle contrapposteposizioni soggettive delle parti, ma anche sotto quello, speculare, dei rimediattivabili.

In altri termini, proprio l’essere la « promessa » del venditore non già unquid novi ma semplicemente una dichiarazione che ribadisce la preesistenza ela perdurante attualità del vincolo obbligatorio, implicherebbe la mancatamodificazione della situazione di partenza, quanto al profilo delle tutele; edallora quid iuris per il caso in cui la riparazione promessa dal venditore nonsia poi effettuata e per converso rimanga inalterato, nel compratore, l’interes-se all’adempimento?

La Corte, per l’appunto, tace a questo riguardo, limitandosi a prefigurareun ricorso alle (sole) azioni edilizie di cui all’art. 1492 c.c.; e proprio questosilenzio invera una situazione per certi aspetti paradossale.

Ed infatti, ad un piano sostanziale (in termini di diritti del comprato-re/obblighi del venditore) così ben delineato dal ricorrere di un rapportoobbligatorio dell’ampiezza prima descritta, fa da contraltare la esiguità diquello rimediale così da prospettarsi in definitiva una situazione che appa-re come qualcosa di più o di diverso che non la semplice negazione dellatendenziale primazia del piano rimediale su quello sostanziale, sintetizzata

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in dottrina attraverso una lettura rovesciata del brocardo « ubi ius ibi reme-dium » (69).

Qui, diversamente, sembrerebbe infatti di trovarsi in presenza della ver-sione in chiave municipale di quella relazione perduta tra diritti e rimedi chel’acuta riflessione di un giurista austriaco ha da ultimo evidenziato comeemergente talora dal corpo del diritto comunitario ed in specie dalla produ-zione giurisprudenziale della Corte di Giustizia (70).

5. — Questa sottovalutazione del piano rimediale, o per meglio dire que-sta pur ambiguamente ribadita esaustività delle azioni edilizie di cui all’art.1492 c.c. a protezione del compratore, appare a ben vedere tutt’altro che ca-suale, poiché rivela talune irrisolte contraddizioni nel pensiero della Corte.Sul punto torneremo in chiusura di queste brevi note.

Preme invece qui soffermarsi sull’assunto chiave da cui prende le mossela sentenza in commento, vale a dire la sovrapposizione/identificazione tragaranzia edilizia e paradigma dell’obbligazione (di fare); premessa da cui di-scende l’attribuzione di natura ricognitiva (del debito) alla dichiarazione« impegnativa » del venditore, nonché — quale ulteriore corollario — la qua-lificazione della concreta attività volta alla eliminazione dei vizi come nulla dipiù o di diverso che un’attività esecutiva della prestazione originariamentedovuta e nascente dal contratto.

Alla luce delle considerazioni svolte fin qui non può sfuggire come la ri-costruzione proposta dalle Sezioni Unite — invero già abbozzata in un isolatoprecedente (71) — di fatto eluda un duplice dato sistematico, in sé viceversadecisivo: quello cioè della rilevanza (preclusiva) del principio del consensotraslativo ai fini della rintracciabilità di obbligazioni ex latere venditoris di-

(69) Cfr., A. Di Majo, Il linguaggio dei rimedi, Europ. d. priv., 2005, p. 341 ss. Come ènoto, la disciplina sulla garanzia nella vendita di beni di consumo ha dato la stura ad un con-fronto tra differenti posizioni interpretative circa la possibilità di inferire o meno con certezzadal piano rimediale anche un sottostante tessuto di posizioni sostanziali. Per la soluzione af-fermativa v. per l’appunto, A. Di Majo, già in Garanzia e inadempimento nella vendita di be-ni di consumo, in Europ. d. priv., 2002, p. 1 ss., e spec. p. 8, nt. 14, nonché, da ultimo e nelquadro di considerazioni di più ampio respiro sulle tendenze al riguardo emergenti nel dirittocomunitario ed in generale in seno al common core del diritto privato europeo, nel saggio so-pra citato; critico rispetto a siffatta prospettiva ricostruttiva è invece S. Mazzamuto, Equivocie concettualismi nel diritto europeo dei contratti: il dibattito sulla vendita di beni di consu-mo, cit., 347, nt. 88. In argomento si veda, di recente l’interessante ricostruzione di D. Fried-mann, Rights and remedies, in Comparative remedies for breach of contract, a cura di NiliCohen e Ewan McKendrick, Oxford and Portland,Oregon, 2005, p. 3 ss.

(70) Cfr T. Eilmansberger, The relationship between rights and remedies in EC law: insearch of the missing link, in Comm. mark. law rev., 2004, p. 1199 ss.

(71) Si tratta di Cass. 29 dicembre 1994 n. 11281, in Giust. civ., 1995, 1, p. 2159 ss.con nota di P. Cerolini, cui le Sez. Un. fanno infatti espresso riferimento al punto 8.4 dellamotivazione. Una ricostruzione analoga a quella oggi proposta dalle Sezioni Unite si rinvie-ne in Colombo, In tema di prescrizione dell’azione di garanzia per vizi redibitori nella ven-dita, in Corr. giur., 1995, p. 607.

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verse da quella di consegnare il bene, menzionata dall’articolo 1476 n. 1 c.c.(72); e quello della collocazione dei vincoli obbligatori, per tale via eventual-mente rintracciati, fuori dall’apparato rimediale di cui agli artt. 1492-1495.

Dal primo profilo non può non rilevarsi la mancanza, nel ragionamentodella Corte, di qualsivoglia riferimento alla qualificazione della fattispecie(fornitura di scatole di cartone stampate plastificate) sub specie di vendita dicosa determinata solo nel genere ovvero di vendita di cosa specifica, con lepossibili implicazioni sopra ricordate. Ma v’è di più: la motivazione della Cor-te, ampiamente e reiteratamente, sviluppa argomentazioni che rinviano in to-to al modello della vendita ad effetti reali, come palesato dal riferimento agliartt. 1490 e 1476 n. 3 c.c.

Per vero, la coincidenza tra consenso contrattuale e consenso necessarioal trasferimento del dominio (73) — o se si preferisce la circostanza che l’unovalga già a realizzare l’effetto che dovrebbe scaturire dall’altro — importa,come si è detto, la preclusione di qualsiasi autonomia e scarto temporale tramomento programmatico e momento esecutivo dell’operazione negoziale discambio, donde per l’appunto l’assenza di ogni spazio per un impegno di farea carico dell’alienante.

Orbene, le Sezioni Unite forzano (rectius omettono di considerare) pro-prio questo dato quando, pur rimandando agli artt. 1492-1495 c.c. ne trag-gono le ricordate conclusioni, finendo però in tal modo con lo snaturare lostesso schema generale della vendita, sagomato com’è sul modello della ven-dita di cosa specifica, vale a dire su uno scambio cosa-prezzo riguardante pe-raltro beni finiti ed individuati e caratterizzato dalla piena disponibilità dellacosa da parte del tradens e dalla piena disponibilità del corrispettivo da par-te dell’accipiens (74).

Già nell’impianto codicistico è possibile invero, come ricordato, rintrac-ciare degli esempi di fattispecie traslative ove si profila la fisionomia diun’obbligazione di fare (inerente le caratteristiche del bene) posta a caricodell’alienante, ma la loro considerazione non sembra trovare posto nell’argo-mentare della Corte; così come non è dato rintracciarvi l’ulteriore nodo siste-matico riferito alla eventuale applicabilità di un apparato rimediale inclusivodi tecniche di tutela volte all’ adempimento coattivo.

Ed invero, fattispecie di per sé non derogatorie dell’articolo 1376 c.c.,

(72) Di incompatibilità logica tra schema dell’obbligazione e principio del consenso tra-slativo parla, ad esempio, Luminoso, La compravendita: dal codice ai nuovi assetti norma-tivi, in Contratto e impr., 2003, p. 1109 ss., ma spec. p. 1124. Contra, però, Mazzamuto,Equivoci e concettualismi, cit., p. 330.

(73) L’Einheitprinzip di cui la dottrina germanica ha parlato a proposito del sistema delCode Napoleon: v. Freid e Sonnenberg, in Das franzozische Zivilrecht, 2a ed., vol. II, Hei-delberg 1986, p. 54.

(74) Cfr. in particolare C. Camardi, Principio consensualistico, produzione e differimen-to dell’effetto reale. I diversi modelli, in Contratto e impr., 1998, p. 572 ss., ma in part. p.578, da cui è tratto il corsivo riportato nel testo.

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possono presentare obbligazioni di facere a carico del venditore (relative almodo d’essere ed alle caratteristiche del bene), e prospettare in principio l’ap-plicabilità di tecniche di tutela specifica a beneficio del compratore, solo se edin quanto l’operazione di scambio si discosti dalla regola del consenso trasla-tivo, o a causa di elementi oggettivi (l’individuazione solo nel genere del beneda trasferire) che impediscono, in concreto, al negozio di produrre da subitol’effetto reale (75); o in dipendenza dì espresse determinazioni di autonomiaprivata, come dimostra emblematicamente il caso della vendita di cosa mobi-le cui acceda una espressa garanzia di buon funzionamento della cosa stessa(art. 1512, ed in particolare comma 2o, c.c.) (76). O, infine, in presenza diconnotati causali del contatto, in certa misura devianti rispetto alla causavendendi pura, come è a dirsi nel caso di vendita di un bene (mobile o immo-bile che sia) che l’alienante stesso debba previamente realizzare (77).

Che l’allontanamento dal principio del consenso traslativo costituisca co-munque il presupposto necessario affinché un contratto di scambio possa esi-bire una disarticolazione tra manifestazione di volontà e produzione dell’ef-fetto reale (78), in una con l’arricchimento del rapporto giuridico attraverso lainclusione, a carico del venditore, di un vincolo obbligatorio (di fare) suscetti-bile di adempimento coattivo, lo dimostra emblematicamente la vera e pro-pria « fuga in avanti » della giurisprudenza nella direzione della (crescente)protezione del promissario acquirente.

In una con la messa a punto, ad opera della prassi immobiliare, della va-

(75) Cfr. G. Stolfi, Appunti sul c.d. principio consensualistico, in R. d. comm., 1977, I,p. 3 ss., ma spec. p. 8, ove la vendita di cosa generica è inserita tra i negozi che solo inastratto, ma non anche in concreto, possono di per sé produrre il trasferimento del dominio. D’altra parte è lo stesso articolo 1376 c.c. che, programmaticamente, circoscrive l’orbitadi azione del principio del consenso traslativo ai soli contratti che hanno ad oggetto il tra-sferimento della proprietà di una cosa determinata. Vedi altresì U. Breccia, Le obbligazio-ni, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano 1991, p. 153. Significative, dal medesimo profilo, le posi-zioni che in dottrina tendono ad ammettere il diritto del venditore alla sostituzione, nel casodi esito negativo dell’esame, nella vendita con riserva di gradimento (v. D. Rubino, op. cit.,p. 62) o a prova (Id., ibid., p. 423), purché si tratti di cosa generica. V. anche C.M. Bianca,op. cit., p. 344 nt. 2.

(76) Cfr. diffusamente F. Bocchini, La vendita di cose mobili, Artt 1510-1536, in Il Co-dice Civile Commentario, cit., p. 165 ss., ma spec. p. 185 ss. Come chiarisce ancora questoA. la stessa eventuale diversa previsione consuetudinaria non smentisce le indicazioni che sitraggono dai primi due commi dell’articolo 1512 c.c., atteso che « il formarsi degli usi in talsenso esprime la ripetuta tendenza di aziende con certe connotazioni e operanti in un de-terminato comparto ad inserire la garanzia in esame nei contratti di vendita » (p. 168).

(77) Qui, infatti, il profilo causale del contratto presenterà elementi caratteristici delrapporto contrattuale di appalto ovvero di contratto d’opera, sicché potranno trovare appli-cazione norme quali gli arti. 1667-1668 c.c., ovvero l’art. 2226 c.c. Per l’applicazione di-retta di tali norme, nelle ipotesi considerate, V. già Martorano, op. cit., p. 119. In argo-mento si rinvia comunque a C. Castronovo, La contrattazione immobiliare abitativa, inJus, 1986,I,54

(78) Per una attenta disamina di tali fattispecie si veda C. Camardi, op. ult. cit., passim.

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riante del c.d. preliminare ad effetti anticipati, la giurisprudenza è stata chia-mata a valutare se al promissario acquirente — il quale, anticipatamente im-messo nel possesso del bene, ne avesse riscontrato la difettosità — potesserodarsi, alternativamente o cumulativamente con la machinery dell’esecuzionein forma specifica ex art. 2932 c.c., anche altri rimedi quali segnatamentequelli della riduzione del prezzo e dell’esatto adempimento.

Non consentendo l’economia di queste note di ripercorrere le tappe dellaevoluzione giurisprudenziale in tema di contrattazione preliminare — almenodall’abbandono del dogma di intangibilità del Vorvertrag in avanti (79) — cisi deve qui limitare a rilevare come, seppur talora con qualche distinguo (80),possa ormai dirsi acquisito il principio per cui la tutela del promissario acqui-rente non resti affidata, in alternativa al rimedio risolutorio, al solo rimediocostitutivo di cui all’art. 2932 c.c., ma si giovi della possibilità di cumularecon tale domanda anche quella volta alla riduzione del prezzo ovvero allacondanna del promittente-venditore alla eliminazione dei vizi (81). L’una el’altra azione però, e sta in ciò un punto di cruciale importanza ai nostri fini,indicate quali rimedi conformi ai principi generali in tema di obbligazioni epreservazione del sinallagma contrattuale (82), al punto che a proposito dellariduzione del prezzo, si ha, sovente, cura di precisare che tale domanda sa-rebbe « solo per contenuto eguale alla quanti minoris, prevista dal regimedella vendita definitiva » (83).

Ed invero, il contratto preliminare, strumento tipicamente preordinato aconsentire un controllo delle sopravvenienze nonché una verifica di perduran-te convenienza dell’affare (84), costituisce in sé uno schema contrattuale (neu-

(79) Su cui v. per tutti S. Mazzamuto, L’esecuzione forzata, in Tratt. Rescigno, vol. 20,Torino 2002, 373 ss.; nonché Cass., sez. un., 27 febbraio 1985, n. 1720, in F. it., 1985, I,p. 1698 ss., con nota di F. Macario.

(80) Cfr. Cass. 5 febbraio 2000 n. 1296, in Vita Not., 2000, p. 285 che esclude l’azionedi esatto adempimento.

(81) Cfr., ex multis, Cass. 20 ottobre 2003, n. 16236, in I Contratti, 2004, p. 785 ss.con nota di Furieri; Cass. 1 ottobre 1997, n. 9560, in Corr. giur., 1998, p. 559 ss., con notadi M.C. Vidiri.

(82) V. ad esempio Trib. di Nola, 15 settembre 2004, in I Contratti, 2005, p. 763 ss.,con nota di L. Cilia. Nella medesima direzione si iscrive l’altrettanto consolidato orienta-mento incline a riconoscere al promissario acquirente che abbia constatato la ricorrenza deivizi altresì la possibilità di valersi delle c.d. eccezioni dilatorie ed in particolare dell’eccezio-ne di inadempimento: cfr. da ultimo Trib. Bologna 22 marzo 2005 n. 823, ined., ma la cuimassima è riportata in Guida al Diritto 36/2005, p. 80; nonché Cass. 7 novembre 2005, n.21490 la cui nomina è stata anch’essa pubblicata in Guida al dir. 1/2006, p. 83 e nellaquale è affermato anzi esplicitamente che né nel sistema positivo, né dall’art. 2932 c.c., èdato rinvenire « ragioni che impediscano di estendere anche a talie tipo di contratto la tute-la stabilita dai principi generali in tema di contratti a prestazioni corrispettive ».

(83) Cfr. Cass. 19 aprile 2000, n. 5121, ined.(84) Secondo la penetrante analisi di G. Gabrielli, Il Contratto preliminare, Milano

1970, p. 19 ss.

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tro, sul piano causale) che dà vita ad una particolare genesi di altro contratto(definitivo); in specie ad una formazione progressiva della fattispecie nonché,trattandosi di preliminare di contratto ad effetti reali, anche ad un progressi-vo dispiegamento degli effetti tipici di questo (85). Tale formazione progressi-va si attua precisamente, nei contratti ad effetti reali, attraverso uno scartosia cronologico che negoziale tra definizione dell’assetto di interessi e sua ese-cuzione, con la collocazione in posizione mediana e legante tra l’una e l’altrafase non solo dell’obbligo al completamento della fattispecie (sotto forma diobbligo reciproco delle parti a prestare il consenso definitivo), ma anche —questa volta con esclusivo riguardo al promittente alienante — di una più ar-ticolata obbligazione, inclusiva evidentemente anche di condotte di fare, con-sistente nella realizzazione del risultato traslativo conforme a quello pro-grammato con il preliminare (86): ossia nella consegna di un bene immune davizi, sia materiali che giuridici, nonché da difformità.

Come hanno chiarito le stesse Sezioni Unite in una ormai risalente pro-nuncia, l’offerta che il promittente venditore faccia di un bene che presentidifformità o vizi, viola il sostanziale impegno traslativo dello stesso promitten-te ed abilita la controparte ad utilizzare tutti i rimedi concessi dalle normegenerali in tema di adempimento » (87). Ciò peraltro a prescindere dalla cir-costanza che si tratti o meno di preliminare complesso, al quale pure si è talo-ra ritenuto di dovere restringere simile ricostruzione (88).

Indubbiamente, tanto il preliminare ad effetti anticipati quanto quello incui il promittente alienante sia anche costruttore del bene, assegnano una si-cura visibilità ad obbligazioni di fare del venditore: ora quella, appunto, diconsegnare il bene anticipatamente alla stipula del definitivo, ora quella diapprontare il bene con certe caratteristiche. Tuttavia, al di là di tali impegni,e dunque al di là dei connotati delle fattispecie che in concreto li generano, ri-corre — come già precisato — una più generale obbligazione (il cui contenutoè compatibile anche con prestazioni di fare) a carico del promittente alienan-te, la quale è per così dire connaturata alla stessa fisionomia che l’operazione(di scambio) assume in dipendenza di un preliminare tout court.

Da qui dunque non soltanto l’ascrizione dei rimedi che si danno per l’ine-satta esecuzione di tale obbligazione alla cornice dell’inadempimento in gene-rale ed a quella degli strumenti volti a presidiare il sinallagma contrattuale

(85) Ci sia permesso, a tal proposito, rinviare al nostro, Dal preliminare ai preliminari:la frammentazione dell’istituto e la disciplina della trascrizione, in Contratto e impr.,1999,p. 98 ss., ma spec. p. 132 ss.

(86) Così, testualmente, A. Luminoso, La Compravendita, cit., 397; in senso conforme siesprime anche F. Gazzoni, Il contratto preliminare, Torino 1999, p. 28.

(87) Cfr. Cass., sez. un., 27 febbraio 1985, n. 1720, cit.(88) Sul preliminare complesso si veda, per tutti, R. De Matteis, La contrattazione pre-

liminare con effetti anticipati, Padova 1991.

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(azione di esatto adempimento, riduzione del prezzo) (89); ma altresì il supe-ramento, ai fini della esperibilità di tali tecniche di tutela, della distinzionetra preliminare ad effetti anticipati e preliminare c.d. puro (90).

La « singolarità » del preliminare complesso tende del resto a sbiadire —se non a dissolversi del tutto — sol che si identifichi, come da tempo ormai fala giurisprudenza, già nel contratto preliminare puro la reale fonte del regola-mento di interessi voluto dalle parti (91); ed è del resto in stretta continuitàcon questa linea ricostruttiva che sembra doversi leggere l’evoluzione norma-tiva più recente in materia (92).

Ebbene, l’impiego del contratto preliminare di compravendita, proprio seed in quanto si rinvenga in questo una scissione tra titulus e modus adquirendi,comporta, in una con la deroga al principio del consenso traslativo, la possibili-

(89) In tal senso v. A. Plaia, Vizi del bene promesso in vendita e tutela del promissarioacquirente, cit., p. 155 ss., il quale tuttavia pare propenso a restringere la configurazione diuna obbligazione a carico del promittente venditore, e conseguentemente i rimedi a questaconnessi, alla sola variante del preliminare complesso. In giurisprudenza cfr. Cass. 18 giu-gno 1996, n. 5615, in Corr. giur., 1997, p. 48 ss., con nota di S. Palmieri.

(90) In tal senso si veda ancora Cass., sez. un., 27 febbraio 1985, n. 1720, cit. Si notiche il superamento, dal punto di vista considerato, della distinzione tra preliminare puro epreliminare complesso, oltre che aderente alla corretta ricostruzione della sequenza prelimi-nare — definitivo produce il sicuro guadagno di fare chiarezza sulla reale natura dei rimedi(esatto adempimento e quanti minoris) riconosciuti al promissario acquirente, scongiuran-do proprio quella sovrapposizione con i rimedi edilizi in cui è a lungo incorsa la giurispru-denza a causa della intrinseca equivocità della prefigurata « anticipazione » allo stadio pre-liminare di effetti tipici della fattispecie definitiva. Invero, come abbiamo già osservato inun precedente lavoro, nel preliminare di contratto ad effetti reali la segmentazione dellafattispecie si accompagna ad una segmentazione anche degli effetti giuridici scaturenti, sulmodello degli effetti preliminari della fattispecie (v. Camilleri, op. ult. cit., p. 130 ss.); maciò non riguarda però la garanzia edilizia che, in quanto garanzia in senso tecnico, presup-pone imprescindibilmente l’avvenuta produzione dell’effetto traslativo.

(91) Cfr. già Cass. 18 novembre 1987 n. 8486, in Nuova g. civ. comm., 1988, I, p. 537ss. con nota di R. De Matteis.

(92) Per quanto non attenga direttamente al tema della tutela (del promissario acqui-rente) per i vizi del bene promesso in vendita — benché pure risponda a finalità di prote-zione del promissario acquirente di beni immobili — non può omettersi di rilevare comeproprio alla compiutezza regolamentare ed alla pregnanza effettuale del preliminare, in al-tri termini proprio al suo configurarsi quale reale fonte del regolamento d’interessi quandonon anche quali segmento più significativo dell’intera fattispecie negoziale, va ricondotta ladisciplina sulla trascrivibilità del contratto preliminare di contratti ad effetti reali, la quale,introdotta con la legge n. 30 del 1997, ha portato alla novellazione del codice civile e dellalegge fallimentare, attraverso una serie di disposizioni di cui l’art. 2645 bis c.c. fa ideal-mente da capofila (artt. 2659, comma 1o, n. 4, 2668, ult. comma, 2775 bis, 2780, comma1o, n. 5 bis e 2825 bis del codice civile; art. 72 comma 5o, l. fall.). Risponde, infine, alla me-desima ratio di rafforzamento della tutela del promissario acquirente di beni immobili —ed anzi della legge n. 30 del 1997 costituisce per certi versi l’ideale completamento — la re-cente disciplina sulla « tutela dei diritti degli acquirenti di immobili da costruire », emanatacon il d. legisl. n. 122 del 20 giugno 2005, in attuazione della legge delega n. 210 del 2agosto 2004.

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tà di distinguere e separare determinazione del programma negoziale e sua at-tuazione, cui si accompagna anche l’insorgere, a carico del solo promittentealienante, di una obbligazione ad ampio spettro (93) inclusiva di prestazioni difacere. Ed è precisamente (solo) in funzione di tale obbligazione che alla difet-tosità del bene (leggi: all’inadempimento) può far seguito, da parte del promis-sario acquirente, l’esperimento del rimedio dell’adempimento coattivo.

6. — La circostanza che esclusivamente in presenza di deviazioni dalprincipio del consenso traslativo (e con esso dalla regola dell’art. 1477, com-ma 1o c.c.) un contratto di scambio possa dar vita — in vista del trasferimen-to del dominio — ad obbligazioni di facere a carico dell’alienante, diretta-mente inerenti a caratteristiche del bene oggetto dell’accordo, ci pare trovi og-gi espressione positiva anche nella recente disciplina sulla garanzia nella ven-dita dei beni di consumo, oggetto della Direttiva 99/44 CE, prima, e — inItalia — del d. legisl. (di recepimento) n. 24 del 2 febbraio 2002, poi. Questadisciplina si colloca invero in stretta continuità rispetto alle regole ed ai prin-cipi già introdotti dalla Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale dicose mobili (ratificata in Italia con legge 11 dicembre 1985, n. 765) (94), ma,a differenza del suo « archetipo », pone una ben più pressante istanza di rie-laborazione dogmatica (95), essendo confluita nel corpo stesso del codice civile(artt. 1519 bis e ss.), pur senza una concomitante riforma organica della di-sciplina della vendita in generale, come ad esempio accaduto nell’ordinamen-to tedesco (96).

Nel contesto dell’ampio dibattito che ha accompagnato la novella codici-stica, l’attenzione dei commentatori, — ed è quanto qui maggiormente inte-ressa — si è appuntata particolarmente sulle previsioni contenute agli artt.1519 ter e quater del codice civile, vale a dire sulla nozione di conformità alcontratto e sui diritti del consumatore.

Seguendo l’ordine delle disposizioni da ultimo richiamate, parrebbe in ef-fetti di rintracciare fin già dall’incipit (del testo) dell’articolo 1519 ter, il realesignificato della formula « conformità al contratto », la quale, ad un tempo,

(93) L’ espressione è di A. Luminoso, op. loc. ult. cit.(94) Cfr. A. Di Majo, Garanzia e inadempimento nella vendita di beni di consumo, op.

ult. cit.(95) Vi pone condivisibilmente l’accento A. Nicolussi, Difetto di conformità e garanzie

in forma specifica, in La vendita di beni di consumo, a cura di R. Alessi, cit., p. 69 ss., maspec. p. 70 ss.

(96) La riforma organica della disciplina codicistica sulla vendita, da attuarsi in occa-sione del recepimento della Direttiva 99/44 CE, era stata caldeggiata da più parti: così, adesempio, L. Cabella Pisu, Vendita, vendite: quale riforma delle garanzie?, cit., passim. Percontro non può però sottacersi come la stessa opzione adottata dal legislatore tedesco suscitinon poche perplessità: si vedano in proposito le osservazioni di S. Mazzamuto, Note minimein tema di autonomia privata alla luce della costituzione europea, in Europ. d. priv., 2005,p. 51 ss., ma spec. p. 55.

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sembra designare una obbligazione posta a carico del venditore ed il suo stes-so contenuto: « il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore beniconformi al contratto di vendita », recita il comma lo, cui segue la più analiti-ca esplicazione/esemplificazione contenutistica della conformità stessa (com-mi 2o e ss.).

Seppur la consapevolezza circa il valore di per sé solo relativo delle for-mule impiegate dal legislatore — tanto più se, come nel caso di specie, si trat-ti di formule di matrice comunitaria — ed ancor più il riflesso condizionatoche il civilista italiano accusa nell’avvertire la difficile compatibilità tra il tipovendita e la configurazione di una obbligazione ex contractu di conformitàdella cosa venduta, inducono ad un atteggiamento di estrema cautela e richie-dono un più attento scrutinio del dato positivo e dei suoi nessi sistematici, varilevato che proprio all’esito di tale scrutinio sembrerebbe potersi dire confer-mata la pertinenza del riferito richiamo alla categoria dell’obbligo.

Ma procediamo con ordine.L’articolo 1519 quater, nel delineare il quadro dei rimedi attivabili dal

compratore a tutela dei propri diritti, precisa, al comma 2o, che, in caso di di-fetto di conformità del bene, il consumatore — con priorità rispetto all’azionedi riduzione del prezzo nonché a quella di risoluzione — ha diritto al ripristi-no di tale conformità mediante riparazione o sostituzione della cosa, che puòchiedere al venditore di effettuare, senza spese ed a sua semplice scelta.

Ci si trova dunque al cospetto di un rimedio a carattere specifico, che ladottrina — pur con qualche autorevole voce di dissenso (97) — riconduce alloschema dell’obbligazione: il rimedio reagisce all’inadempimento dell’obbliga-zione di conformità al contratto (98) la quale, come si dirà fra breve, deduce in

(97) Cfr. S. Mazzamuto, Equivoci e concettualismi, cit., spec. p. 388 ove, a conclusione diuna accurata disamina critica delle opinioni tendenti a leggere quella di conformità al con-tratto come una obbligazione a carico del venditore — pur variamente congegnata — tali darilanciare il paradigma della responsabilità da inadempimento per l’alienante, si rileva che« L’inserimento del meccanismo di tutela predisposto agli artt. 1519 bis ss. c.c. nell’area del-la garanzia appare la soluzione più rigorosa, più coerente con gli indici normativi e, in defi-nitiva, più efficiente ». L’a. previene la scontata obiezione circa il dubbio fondamento dellamisura risarcitoria una volta che si escluda che la garanzia venga mediata da una qualcheobbligazione, attraverso la precisazione che la misura risarcitoria andrebbe considerata uncomplemento della garanzia edilizia, « il cui contenuto si è via via esteso — sino ad includerel’obbligazione risarcitoria — a seguito dell’evoluzione che dal diritto giustinianeo a quellomoderno ha fatto della garanzia la forma giuridica di tutela dell’interesse del compratore »(p. 389). Si rifà al paradigma della garanzia anche A. Nicolussi, Difetto di conformità, cit.,passim, il quale fa parola però di garanzia in forma specifica. Per una puntuale critica a que-sta opinione v. però A. Di Majo, op. ult. cit., p. 360 in nt. 32.

(98) Cfr. A. Di Majo, Il linguaggio dei rimedi, cit., p. 360-361; P. Schlesinger, Le ga-ranzie nella vendita di beni di consumo, in Corr. giur., 2002, p. 562; P.M. Vecchi, Com-mento al comma 1, sub Art. 1519 ter, in L. Garofalo-V. Mannino-E. Moscati-P.M. Vecchi,Commentario alla disciplina della vendita di beni di consumo, artt. 1519 bis-1519 noniesc.c. e art. 2 d.legisl. 2 febbraio 2002, n. 24, coordinato da L. Garofalo, Padova 2003, p.143 ss; E. Moscati, Note introduttive, sub Art. 1519 quater, commi 1-6, ibid., p. 297. Cri-

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oggetto una prestazione di individuazione e specificazione del bene singolo(dalla serie produttiva cui appartiene) che sia per l’appunto conforme al rego-lamento convenuto. Il che però implica anche l’abbandono dello schema dellagaranzia.

Per poco che si ponga mente ai termini tradizionali del dibattito sulla ga-ranzia nella vendita, in tanto potrà ammettersi infatti che il venditore vengachiamato (coattivamente) ad un facere, quale è quello di riparazione o sosti-tuzione del bene, in quanto a tale prestazione egli si ritenga già ab origine te-nuto. Se infatti quello dell’adempimento coattivo è rimedio che attiene pursempre alle vicende (esecutive) del rapporto obbligatorio — sebbene non giàalle conseguenze per il suo inadempimento definitivo — esso si mostra alloraincompatibile, come si è detto, con il paradigma della garanzia edilizia ed indefinitiva con lo schema generale della vendita, calibrato sulla regola di cuiall’art. 1376 c.c.

A questo punto però delle due l’una. O si nega che quella di conformitàal contratto sia in senso proprio una obbligazione a carico dell’alienante, e sirimane ancorati al paradigma codicistico della vendita di cosa specifica ed al-la garanzia edilizia che vi accede, benché però al prezzo di fare della previsio-ne del rimedio specifico di cui all’art. 1519 quater una vistosa incongruenza,se non già un elemento di eversione, nel sistema. Ovvero si prende atto del-l’innegabile ricorrere della coppia obbligazione — adempimento in natura, esi orienta l’indagine alla ricerca dei presupposti della sua ammissibilità, il cheè quanto dire degli elementi che consentano lo scostamento della fattispecie« vendita di beni di consumo » dallo schema della vendita di cosa specifica,con gli effetti di deviazione dalle conseguenze (dell’applicazione) del principiodel consenso traslativo, ivi compresa l’applicabilità di un apparato rimedialedecisamente accostabile al regime generale di cui all’art. 1453 piuttosto che aquello speciale di cui agli artt. 1492-1495.

Sarebbe di certo piuttosto miope, ed anzi viziata da una sorta di precom-prensione, una lettura della Direttiva condotta con le lenti delle categorie e de-gli istituti del diritto interno, così da scorgere in questa o quella sua opzione unallineamento « mirato » con questo o quel modello continentale sul passaggiodel dominio. Anzi, proprio le finalità di uniformazione delle (talora assai di-stanti) legislazioni nazionali, che la ispirano, fanno della Direttiva un testo chei singoli modelli tende ad un tempo a sintetizzare ed oltrepassare (99).

Se però tale premessa metodologica deve guidare la lettura della Diretti-va, essa va sensibilmente ridimensionata allorché le regole, pur da quella stes-

tico al riguardo di tale lettura si mostra invece A. Luminoso, Riparazione o sostituzione del-la cosa e garanzia per vizi nella vendita dal codice civile alla direttiva 99/44 CE, in questaRivista, 2001, 837 ss., ma spec. p. 842 ss.; nonché Id., La Compravendita, cit., p. 325-326.

(99) Si pensi al « mix » tra regole di fonte legale e convenzionale che essa esibisce agliartt. 3 e 6. Sulla garanzia convenzionale, così come recepita dal nostro legislatore e trasfusanell’articolo 1519 septies si veda in particolare A. Plaia, La garanzia convenzionale nellavendita di consumo, in La vendita di beni di consumo, a cura di R. Alessi, cit., 147 ss.

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sa poste, vengano fatte oggetto di una fonte interna e, per di più, trasfuse nelcorpo del codice civile.

Per quanto manchi di una espressa disposizione regolativa del passaggiodel rischio e per quanto già il Considerando n. 14 della Direttiva precisasseche il recepimento della stessa non avrebbe implicato per gli Stati membri an-che una modificazione delle norme domestiche sul punto, non v’è dubbio chela disciplina codicistica sulla vendita di beni di consumo assegni un decisivorisalto al momento della consegna. Esso cristallizza infatti lo stato del bene,rilevante rispetto alla lex contractus, nel senso che il venditore sarà responsa-bile per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna(art. 1519 quater, comma 1o); così facendo, però, tale momento di fatto segnaanche lo spartiacque tra doveri di condotta gravanti sull’alienante (v. art.1519 ter, comma 1o) e formalizzazione della loro inesatta esecuzione, conl’immediato delinearsi di diritti/pretese rimediali in capo al compratore (v.art. 1519 quater) (100).

Se solo si considerino, poi, ancor più che non le singole regole positiveadottate da altri Paesi dell’Unione (101), le regole stesse già consegnate allaConvenzione di Vienna (102) e segnatamente gli artt. 35, comma 1o e 36 com-ma 1o, che introducono per così dire ante litteram la nozione di conformità alcontratto, nonché soprattutto gli artt. 66 e 69 comma 1o che agganciano ilpassaggio del rischio alla consegna dei beni, difficilmente si potrà negare ilprofilarsi di una vicenda circolatoria altra da quella strutturata sul (rigoredel) consenso traslativo (103). Ciò peraltro in perfetta sintonia con la connota-zione economica della sottostante operazione di scambio, che la nuova disci-plina, come già il suo antecedente della vendita internazionale, è chiamata agovernare.

Quasi tutti i commentatori non mancano di ricordare che la vendita di

(100) Sul significato da assegnare al riferimento alla consegna nell’ambito della discipli-na sulla vendita dei beni di consumo, cfr. E. Corso, Vendita dei beni di consumo, in Comm.Scialoja-Branca, Artt. 1519 bis-1519 nonies, Bologna-Roma 2005, p. 102 ss.

(101) Si pensi ad esempio al riformato § 446 del BGB.(102) Continuità e discontinuità tra la CISG e la Direttiva 99/44 CE sono assai bene evi-

denziate da S. Grundmann, Introduction, in EU Sales Directive, a cura di C.M. Bianca e S.Grundmann, Antwerp-Oxford-New York, 2002, p. 17 ss.; S. A. Kruisinga, What consumerand commercial sales law have in common? A comparison of the EC Directive on consumersales law and the UN Convention on contracts for the international sale of goods, in Europ.rev. priv. law, 2001, p. 177 ss.

(103) Si vedano in tal senso già le decisive osservazioni di C. Angelici, « Consegna » e« proprietà » nella vendita internazionale, Milano 1979, le quali, per quanto svolte con speci-fico riferimento alla Legge Uniforme sulla vendita internazionale, oggetto della Convenzionedell’Aja del 1964, conservano piena attualità anche in relazione alla Convenzione di Vienna,in ragione degli elementi di sostanziale continuità tra i due testi normativi. Particolarmenteinteressante, ai nostri fini, risulta l’analisi condotta dall’a. a proposito del fenomeno di ten-denziale « svalutazione della proprietà » che emergerebbe dalla c.d. LUVI, accompagnatoproprio dalla accentuazione del significato operativo della consegna: v. spec. p. 34 ss.

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beni di consumo è vendita di prodotti seriali, di prodotti cioè che il comprato-re richiede nel presupposto che ciascuno di essi, siccome frutto di produzioneindustriale e non artigianale, si identifichi, nella sua individualità, con il« campione » produttivo, magari fisicamente esposto presso il venditore, o co-munque pubblicizzato: si pensi a questo proposito alla integrazione del rego-lamento contrattuale, ai fini della definizione concreta della nozione di con-formità del bene, con le caratteristiche fatte oggetto di messaggio pubblicita-rio o etichettatura (art. 1519 bis, comma 1o, lett. c) (104).

Senza addentrarci ulteriormente nella riflessione sui profili sistematicidella novella appena richiamati e senza voler prendere posizione — nell’eco-nomia di queste note — rispetto al dibattito, ancora acceso in dottrina, circala natura dell’obbligazione del venditore, è possibile comunque affermare chetale (sotto)tipo di vendita immediatamente rimanda ad un modello di scam-bio diverso da quello della vendita di cosa specifica, ed adotta conseguente-mente un regime giuridico più prossimo invece a quello, già codificato, dellavendita di cosa generica (105).

Quale che sia il paradigma in concreto ricorrente nei rapporti professio-nista venditore/consumatore acquirente, la centralità del momento della con-segna — con le conseguenze sopra richiamate ai fini della disciplina e soprat-tutto del congegno rimediale — implica una deviazione dalle regole conse-guenti al principio del consenso traslativo: il 14o Considerando della Direttiva,dichiaratamente rivolto a lasciare alle legislazioni interne la disciplina delpassaggio del rischio, reca con sé, a nostro avviso, l’altrettanto programmati-ca scelta normativa, questa sì ineludibile nelle discipline di recepimento, di

(104) Nel quadro di una più ampia riflessione condotta sull’evolversi dei nessi tra (disci-plina della) impresa e (disciplina del) mercato — siccome riflessi e mediati dallo strumentocontrattuale e dal suo statuto — condotta attraverso la specola di una legislazione semprepiù orientata a regolare (anche) situazioni di mercato che si riflettono sulla condotta con-trattuale delle imprese, è stato sottolineato come tra gli apporti più significativi della Diret-tiva UE 44/1999 alla tutela del consumatore vi fosse per l’appunto una nozione di « con-formità al contratto » tale da dare anche rilevanza ai comportamenti anteriori alla conclu-sione del contratto: così G. Oppo, Impresa e mercato, in questa Rivista, 2001, p. 421 ss., maspec. p. 426. Sul valore impegnativo delle dichiarazioni pubblicitarie si veda R. Alessi,Consensus ad idem e responsabilità contrattuale, in Il contratto e le tutele. Prospettive didiritto europeo, cit., p. 17 ss.; D. Corapi, La direttiva 99/44/Ce e la Convenzione di Viennasulla vendita internazionale: verso un nuovo diritto comune della vendita?, in Euop. d.priv., 2002, p. 655 e ss., ma spec. p. 659. Per una particolare lettura della impegnatività ditali dichiarazioni ed in specie per la loro riconducibilità al paradigma della promessa alpubblico si veda poi A. Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra im-prese e tra imprese e consumatori, in Tratt. Lipari, vol. III, Padova 2003, p. 3 ss., ma spec.p. 81.

(105) Ad analoga conclusione pare pervenire anche G. Pisciotta, op. cit., p. 139. Parti-colare è la posizione recentemente assunta da G. Amadio, Proprietà e consegna, cit., p. 51ss. il quale contesta che ricorra qui una deroga al principio del consenso traslativo e prefi-gura piuttosto una semplice disarticolazione della vicenda traslativo-possessoria. Si rinvia,però, alle condivisibili critiche mosse a questo ricostruzione da S. Mazzamuto, Equivoci econcettualismi, cit., p. 373 ss.

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assegnare alla configurazione ed attuazione del rapporto di scambio — dun-que del vincolo obbligatorio venditore/compratore – – una scansione diversada quella implicata nella regola di cui al nostro art. 1376 c.c. (106).

Questa necessità è appagata dalla disciplina di cui agli artt. 1519 bis e ss.la quale, se per un verso massimizza il riverberarsi sul piano positivo delleesigenze legate alle peculiari dinamiche della operazione che le è sottesa, perl’altro di queste appresta una regolamentazione giuridica financo più aderen-te rispetto a quella offerta dagli omogenei ma datati schemi codicistici conno-tati dalla separazione tra perfezionamento del consenso ed effetto traslativo:quello della vendita di cosa generica, innanzitutto, ma anche quelli della ven-dita a prova o con riserva di gradimento. Ciò grazie alla opportuna valorizza-zione della qualità professionale dell’alienante nonché della causa di consumoche sorregge l’intera vicenda circolatoria (107).

Qui, in definitiva, ci pare che l’allontanamento dal principio del consensotraslativo, o quanto meno dai suoi corollari (in tema di rischio), si confermi ilnecessario preludio all’inserimento, nella struttura della fattispecie contrat-tuale di scambio, di una obbligazione di facere a carico del venditore, orienta-ta al modo d’essere del bene. Ed a questa fisionomia del piano sostanziale siaccompagna, sul piano rimediale, il superamento della garanzia edilizia epiuttosto il raccordo pieno con le tutele apprestate in generale avverso l’ina-dempimento contrattuale.

7. — Alla luce delle considerazioni svolte non deve stupire — e torniamocon ciò alla questione che più specificamente è oggetto della pronunzia a Se-zioni Unite da cui abbiamo preso le mosse — che proprio la dichiarazione conla quale il venditore si impegna alla riparazione/sostituzione del bene si siaofferta quale via di fuga dalla « gabbia della garanzia » (108). Come il Supre-mo Collegio non manca di sottolineare (109), l’orientamento prevalente delleCorti vi aveva infatti fin qui attribuito natura e funzione di novazione oggetti-va della preesistente obbligazione (di garanzia), la quale verrebbe ad essere,

(106) Cfr. R. Alessi, La vendita di beni di consumo, cit., p. 22-23.(107) Della disciplina sulla garanzia nella vendita di beni di consumo come esempio per

certi versi paradigmatico di una normativa che tende ad accentuare sempre più i tratti dispecialità dei c.d. contratti di impresa, in ragione « della condizione delle parti, della con-clusione e della causa del contratto », nonché a volte « per lo stesso contratto, in funzione(anche) dell’oggetto » parla G. Oppo, I contratti di impresa tra codice civile e legislazionespeciale, in questa Rivista, 2004, p. 841 ss., ma spec. p. 848. Sulla causa di consumo cfr.,in particolare, G. Benedetti, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, in R. trim.d. proc. civ., 1998, p. 21 ss. nonché R. Alessi, Diritto europeo dei contratti e regole delloscambio, in Europ. d. priv., 2000, p. 961.

(108) L’espressione riportata in corsivo è usata da L. Cabella Pisu, op. ult. cit., p. 34anche se l’a. si riferisce espressamente alla dichiarazione ricognitivo-impegnativa in argo-mento in Garanzia e Responsabilità, cit., p. 234.

(109) Cfr. i punti 8-9.3 e 14-15.1

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per questa via, soppiantata dall’obbligazione di eliminare i vizi, che, siccomenuova ed autonoma rispetto alla prima, non sarebbe soggetta ai limiti di cuiall’art. 1495 c.c. (110).

Invero, come si dirà fra breve, neppure questa ricostruzione va esente dacritiche, poiché poggia su un presupposto in sé errato (ricorrenza di una ob-bligazione di garanzia a carico del venditore), e fuorviati ne appaiono pertan-to anche gli esiti (novazione).

Nondimeno, per quanto appunto « viziata » dall’ acritico appiattimentosulla lettera dell’articolo 1476 n. 3 c.c., essa rivela la consapevolezza, da par-te della giurisprudenza, circa l’estraneità di prestazioni di fare (del venditore)dai contenuti originari del rapporto scaturente dal contratto di compravendi-ta ed è in ciò che risiede un dato di sicuro interesse ai nostri fini.

Nel panorama giurisprudenziale su cui le Sezioni Unite intervengono,l’obbligazione di facere (alla eliminazione dei vizi), che viene a gravare sulvenditore in dipendenza della sua dichiarazione di tenore ricognitivo/impe-gnativo, viene considerata infatti nuova ed autonoma, per oggetto e titolo, ri-spetto a quella precedente e dunque espressione di una modificazione/inte-grazione dell’originario rapporto ex vendito; il che, se dà ben conto di un ter-mine prescrizionale non più breve bensì ordinario, spiana altresì la strada airimedi generali per l’inadempimento delle obbligazioni, ivi compreso quellospecifico (111).

Da questa interpretazione, sino ad oggi prevalente, le Sezioni Unite si di-scostano, avallando, sulla scia di un precedente ormai non più recentissimo,una diversa ricostruzione della dichiarazione del venditore e dei suoi effettisul rapporto contrattuale.

Se si eccettuano infatti quelle sentenze che hanno preso in esame dichia-razioni (del venditore) di contenuto solo ricognitivo del vizio — rilevantiquindi unicamente ai fini della esenzione del compratore dal termine di deca-denza ex art. 1495, comma 1 c.c. — per postularne la ricorrenza anche inpresenza di fatti concludenti (112), deve dirsi che all’indirizzo giurisprudenzia-le che si rifà allo schema della novazione oggettiva dell’obbligazione di garan-zia, si è contrapposto un isolato orientamento, secondo cui, come si legge del-la massima della pronuncia, risalente alla metà degli anni novanta, « l’impe-gno del venditore ad eliminare i vizi esistenti nella cosa venduta non è cheuno dei modi con i quali si assicura e si attua l’esatto adempimento dell’ob-bligazione e in quanto tale non dà luogo ad un accordo diretto a modificare

(110) Cfr. ad esempio Cass. 13 gennio 1995, n. 381, in I Contratti, 1995, p. 607 ss. connota di Colombo; Cass. 12 maggio 2000,n. 6089, in F. it., 2000, I, p. 2497 e s. con nota diR. Pardolesi; Cass. 19 giugno 2000, n. 8294, in Rep. F. it., voce Vendita, nn. 63-64; Cass.13 dicembre 2001, n. 15758, in I Contratti, 2002, p. 781 ss., con nota di G. Capilli.

(111) In tal senso si veda chiaramente già Cass. 11 febbraio 1977, n. 617, in Giur. it.,1977, 1, 1, p. 1682 ss.

(112) Per tutte Cass. 11 marzo 2004, n. 4968, in I Contratti, 2005, p. 55 ss., con notadi G. Capilli; Cass. 1 aprile 2003, n. 4893 in Rep. F. it., voce Vendita, n. 63.

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uno degli elementi essenziali (oggetto o titolo) dell’obbligazione stessa » (113).Ebbene, le Sezioni Unite proprio a tale indirizzo si rifanno ed anzi in cer-

ta misura lo consacrano con il crisma della nomofilachia; ciò però non soloignorando l’incertezza teorica dei presupposti su cui esso si regge ma financorendendone per certi aspetti paradossali gli stessi approdi interpretativi.

Ed infatti, se per un verso, come si è già avuto modo di osservare nei pre-cedenti paragrafi, la Corte fa proprio l’assunto per cui l’impegno del vendito-re risulterebbe esclusivamente preordinato ad attuare il risultato economicogià prefigurato in contratto (donde il richiamo alla ricognizione del debito),per altro verso, dalla linea tracciata nel ricordato precedente il Collegio si di-scosta « per eccesso », aggiungendo che tale impegno, che pure non integraun quid novi con effetto modificativo-estintivo, costituirebbe comunque unquid pluris destinato ad ampliare le modalità di attuazione dell’obbligazionedi garanzia nel senso di consentire al compratore di essere svincolato dallecondizioni e dai termini di cui all’art. 1495 c.c.

La negazione, pur in astratto condivisibile, di qualsiasi vicenda di tiponovativo, non deve far velo sulla erroneità delle premesse a partire dalle qualiad essa si perviene. La Corte esclude infatti che la dichiarazione ricognitivadel debito, in cui si sostanzierebbe l’impegno del venditore, determini una no-vazione della pregressa obbligazione di garanzia; ma a questo esito pervieneassumendo che già quella originaria obbligazione esibisca un contenuto percosì dire complesso, tale cioè da addossare al venditore prestazioni se del casoanche di facere, finalizzate all’attuazione del risultato economico prefiguratodal compratore.

L’impegno assunto dal venditore con la propria dichiarazione, resa suc-cessivamente alla conclusione del contratto, non sarebbe dunque fonte di unaobbligazione nuova e diversa da quella già esistente, né per oggetto né d’altraparte per titolo, essendo l’uno pur sempre quello della obbligazione di garan-zia e l’altro pur sempre il contratto di compravendita.

Ma, l’orientamento pressoché unanime della dottrina circa il caratterenon precettivo dell’art. 1476 n. 3 c.c., nel mentre sconfessa la identificazionedella garanzia con un’obbligazione primaria a carico del venditore, conduce acensurare anche l’orientamento, sinora dominante, che pure si è rifatto allanovazione oggettiva.

D’altra parte quanto si è già detto a proposito dello schema-tipo dellavendita e del principio del consenso traslativo che lo pervade, esclude la ricor-renza di ogni prestazione di facere a carico del venditore, tanto meno di unaobbligazione di facere legata al modo d’essere del bene, a meno di una verifi-ca sulla rintracciabilità, nella fattispecie, delle deviazioni dal principio con-sensualistico del tipo di quelle cui abbiamo fatto cenno, tali da lasciare spazioad una obbligazione dal contenuto complesso analogo a quello prefiguratodalle Sezioni Unite.

(113) Si tratta di Cass. 29 dicembre 1994 n. 11281, cit.

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Quel che rende inconferente tale modo di estinzione dell’obbligazione ri-spetto alla fattispecie in esame non è tanto — come pure opinano oggi le Se-zioni Unite — la (contingente) mancanza degli elementi (oggettivi e soggetti-vi) richiesti dall’articolo 1230 c.c. ai fini del prodursi dell’effetto estintivo-modificativo, ossia la novità, per oggetto e/o titolo, della più recente obbliga-zione rispetto a quella preesistente, nonché l’espressa volontà estintiva delleparti. Piuttosto, ed in radice, la carenza dei presupposti stessi della novazio-ne, vale a dire l’esistenza di una obbligazione — del contenuto prefiguratodalla Corte — da novare.

In definitiva, se la mancata individuazione di una obbligazione originariadi facere a carico del venditore deve condurre ad escludere che l’impegno daquesti successivamente assunto alla eliminazione dei vizi possa « derubricar-si » a semplice ricognizione del debito, piuttosto che qualificarsi invece qualefonte di una vera e propria sua obbligazione, nuova ed autonoma; per altroverso, una volta negata alla garanzia edilizia la natura di obbligazione prima-ria del venditore, dovrà escludersi la rintracciabilità in quello stesso impegnodella fonte di una vicenda novativa.

Il corto circuito interpretativo che così si profila sembra potersi scongiu-rare solo ove ci si torni a muovere nel solco di un indirizzo emerso da ormaipiù di dieci anni attraverso una pronunzia della stessa Corte di Cassazione(114), ove è affermato il principio secondo cui « l’impegno che, dopo la stipu-lazione del contratto, l’alienante assuma verso l’acquirente di attivarsi pereliminare gli inconvenienti manifestatisi nell’utilizzazione della cosa nego-ziata, dà vita ad una obbligazione autonoma, avente il titolo in una pro-messa unilaterale e, quindi, da intendersi svincolata da quelle nascenti dalcontratto primigenio, la quale pertanto non può essere ritenuta assoggettataagli speciali termini di decadenza e di prescrizione di cui all’articolo 1495c.c. ».

Il riferimento allo schema della promessa unilaterale, oltre che del tuttoappropriato sul piano teorico —, costituendo infatti la dichiarazione del ven-ditore la fonte per l’appunto unilaterale di una obbligazione di fare a suo ca-rico — apporta un contributo di tale chiarificazione alla fisionomia comples-siva della fattispecie da consentirne l’agevole affrancazione dall’orbita attrat-tiva della novazione.

All’argomento, pure in sé dirimente, della difficile rintracciabilità, nelmodello presupposto dagli artt. 1492-1495, di una obbligazione di facere danovare, si affianca infatti quello tratto dal carattere esclusivamente unilatera-le del negozio di cui all’articolo 1987 c.c., elemento di per sé incompatibilecon il ricorrere di una novazione, per la quale è infatti imprescindibilmente

(114) Cfr. Cass. 14 novembre 1994, n. 9562, in Giur. it., 1995, I, 1 1920, con nota diA. Gianola, Verso il riconoscimento della promessa atipica, informale, gratuita ma interes-sata; nonché Cass. 29 agosto 1997, n. 8234, in Rep. F. it., 1997, voce Vendita, n. 74.

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richiesta la comune volontà (estintivo-modificativa) di debitore e creditore(115).

Escluso che di novazione possa parlarsi si dovrà piuttosto dire che, in vir-tù della manifestazione unilaterale impegnativa di volontà del venditore, al-l’originario rapporto — già definitivamente inadempiuto — scaturente dalcontratto di compravendita, si affiancherà (senza anche modificarlo o sosti-tuirlo) il diverso ed autonomo rapporto (obbligatorio) scaturente dalla assun-zione unilaterale dell’impegno ad opera dell’alienante, che nella volontà diquesti trova differente ed autonoma fonte.

Rapporto del tutto svincolato dal contratto di compravendita e dal suopeculiare regime, sia sul versante della prescrizione (la quale sarà ordinaria enon già breve ex art. 1495 c.c.), sia su quello rimediale, atteso che in luogodel paradigma « speciale » della garanzia edilizia tornerà a valere la discipli-na generale in tema di (adempimento/inadempimento delle) obbligazioni.

8. — La dichiarazione con la quale il venditore, nel riconoscere la ricor-renza di vizi a carico del bene già compravenduto, si impegna altresì alla loroeliminazione deve dunque dirsi vera e propria promessa unilaterale, fonte diuna (autonoma) obbligazione di fare. Restano però da precisare meglio i con-torni di tale fattispecie, tenuto conto dei limiti sistematici che accompagnanol’operatività delle promesse unilaterali, al di fuori dei casi specificamente pre-visti dal legislatore.

Prioritaria è indubbiamente la definizione del versante causale dell’impe-gno, tanto più una volta che se ne escluda un raccordo con il contratto dicompravendita tale da fare di questo secondo la « causa esterna » dell’obbli-gazione (di facere) unilateralmente assunta con il primo.

Ebbene, come opportunamente è stato del resto evidenziato (116), quellain esame è promessa unilaterale, certamente atipica, ma interessata, ossia sor-retta da un interesse di tipo egoistico del promittente, legato alla prospettivadi un qualche suo tornaconto di tipo economico: ad esempio la volontà di evi-tare discredito commerciale ovvero il proposito di non subire gli esborsi di da-naro legati alla restituzione totale o parziale del prezzo incassato, dipendenteda risoluzione o quanti minoris.

L’interesse del promittente non vale però da solo ad integrare il requisitocausale che sorregge un impegno unilaterale. Ad esso deve infatti necessaria-mente accompagnarsi l’affidamento ragionevole riposto dal promissario sullaserietà del vincolo assunto ex altera parte, nonché sul suo esatto adempimento.

Anche alla luce di quanto emerso in seno alla esperienza statunitense,

(115) V. per tutti U. Breccia, op. cit., p. 692 ss., ove peraltro i principali riferimenti bi-bliografici.

(116) Cfr A. Gianola, op. ult. cit., spec. 1924; nonché Id., Atto gratuito, atto liberale. Ailimiti della donazione, Milano 2002, passim; ci sia permesso, poi, ancora una volta di rin-viare al nostro La formazione unilaterale del rapporto obbligatorio, cit., spec. p. 88 ss., ovepiù ampi riferimenti bibliografici.

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nonché in ragione degli indici estrapolabili dall’articolo 2:107 del Principlesof European Contract Law, ci era parso, in altro lavoro, di potere indicare inuna verifica « double oriented » — ossia comprensiva di apprezzamenti tantoriferiti alla condotta del promittente, quanto a quella del promissario — unagriglia di valutazione circa la ragionevolezza dell’affidamento riposto sullaimpegnatività di una promessa da parte del suo destinatario. In questa chiaveavevamo concluso reputando che potesse dirsi ragionevole quell’affidamentoche intanto fosse ingenerato da dichiarazioni impegnative del promittente,espressive di una sua chiara volontà di obbligarsi, eventualmente corroboratada determinati comportamenti, da certe sue qualità soggettive ovvero da unarelazione di impronta fiduciaria intercorrente con il destinatario della pro-messa stessa; quindi (quell’affidamento) che si fosse poi tradotto in concreteazioni o omissioni del promissario, giustificate dallo stato di fiducia ingenera-togli. Infine, avevamo ritenuto che, a riprova di questi suoi connotati, tale af-fidamento del promissario, proprio in quanto ragionevole, dovesse potersi di-re già ragionevolmente prevedibile da parte del promittente, sia in astrattoche nel suo concreto tradursi in azioni od omissioni (117).

Ebbene, questa griglia di valutazione, una volta rapportata alla fattispe-cie in esame, non fa altro che corroborare il carattere pienamente vincolantedella promessa resa dal venditore, atteso il sicuro profilarsi di un affidamentodel compratore, a sua volta ragionevolmente prevedibile da parte dell’alie-nante.

Una indiretta conferma la si trae proprio da uno degli elementi di fattoricorrenti nella fattispecie oggetto della sentenza in commento, come del restonella gran parte dei casi sui quali si è formata la giurisprudenza in tema diinquadramento della dichiarazione ricognitivo/impegnativa del venditore. Cistiamo riferendo alla circostanza che, una volta ricevuta la manifestazioneimpegnativa di volontà del venditore, il compratore (di norma) omette di agi-re nei termini di cui all’art. 1495 c.c., e ciò precisamente avendo riposto unaffidamento (ragionevole) e sulla vincolatività e sull’effettivo adempimentodell’impegno altrui, nonché sulla sua stessa autonomia dalla fattispecie con-trattuale, per così dire, di base. Affidamento che, d’altra parte, il venditorenon può non avere ragionevolmente previsto sia in astratto, sia nel suo con-creto tradursi per l’appunto (anche) in omissioni del genere di quella conside-rata. Da qui la posizione del compratore — attore o convenuto — di contesta-zione della prescrizione breve di cui alla disciplina della vendita.

In chiusura, non è forse superflua qualche considerazione finale, princi-palmente incentrata sulle implicazioni sistematiche che la pronunzia delle Se-zioni Unite n. 13294 del 12 giugno 2005 presenta.

Le Sezioni Unite, di fatto, prospettano una fisionomia della garanzia edi-lizia del tutto eversiva rispetto al paradigma generale della vendita, calibratocom’è sulla vendita di cosa specifica e sul principio del consenso traslativo.

(117) E. Camilleri, op. ult. cit., p. 113 ss., ma spec. p. 139-140.

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Una garanzia la quale infatti non solo viene riguardata quale obbligazioneprimaria del venditore ma financo ritenuta inclusiva di obbligazioni poste acarico dell’alienante in vista del soddisfacimento del risultato avuto di miradal compratore, e così caricata di una tensione verso l’esatto adempimentoche le è viceversa del tutto estranea, a maggior ragione poi se proiettata ancheal di là del prodursi dell’effetto traslativo.

Non è difficile azzardare che la pronuncia, e persino i suoi profili di am-biguità, siano in qualche modo figli del clima di grande fermento che la disci-plina della vendita di beni di consumo ha prodotto nel sistema, all’insegna diopzioni positive di sicura originalità; e ciò al punto da far apparire la recentepronuncia vittima di una sorta di suggestione sistematica, manifestatasi neltentativo di una rilettura unitaria — attraverso la specola della garanzia — diun tipo contrattuale (vendita) che è viceversa ormai sempre più frammentatoed articolato.

Neppure tale suggestione, tuttavia, per poco che si confermi tale, dà inpieno conto della linea dettata dalle Sezioni Unite, la quale infatti esplicita fi-no in fondo l’irrisolta contrapposizione dei modelli entro i quali si muove. Alricorso allo schema (e al linguaggio) dell’obbligazione (si direbbe di conformi-tà ancor più che di garanzia), fa infatti da contraltare l’applicazione rigorosadel regime della garanzia edilizia, nel senso che, pur postulandosi a carico delvenditore un obbligo anche di facere (consistente non solo nel garantire l’im-munità del bene da vizi ma financo nella eliminazione di questi), di tale ob-bligo si ignora (rectius si esclude) l’attuazione specifica, tradendo con ciò pro-babilmente l’intima consapevolezza della reale frammentazione del tipo ven-dita, che oggi l’allineamento con la disciplina di fonte comunitaria della ven-dita di beni di consumo sembra avere messo definitivamente a nudo.

Enrico Camilleri

Prof. ass. dell’Universitàdi Palermo

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PATTO COMMISSORIO E COLLEGAMENTO NEGOZIALE

Cass. 19 maggio 2004, n. 9466: Atteso che il divieto del patto commisso-rio, posto dall’art. 2744 cod. civ., va interpretato non secondo criterio forma-listico e strettamente letterale, ma secondo un criterio ermeneutico e funzio-nale, finalizzato ad una più efficace tutela del debitore e ad assicurare la« par condicio creditorum », in tal modo contrastando l’attuazione di stru-menti di garanzia diversi da quelli legali, il patto commissorio — con la con-seguente sanzione di nullità — è ravvisabile anche rispetto a più negozi traloro collegati, qualora scaturisca un assetto di interessi complessivo tale dafar ritenere che il meccanismo negoziale attraverso il quale deve compiersi iltrasferimento di un bene del creditore sia effettivamente collegato, piuttostoche alla funzione di scambio, ad uno scopo di garanzia, a prescindere dallanatura meramente obbligatoria, o traslativa, o reale del contratto, ovvero dalmomento temporale in cui l’effetto traslativo sia destinato a verificarsi, non-ché dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dallaidentità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o mi-sti, sempre che tra le diverse pattuizioni sia ravvisabile un rapporto di inter-dipendenza e le stesse risultino funzionalmente preordinate allo scopo finaledi garanzia. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di meritoche aveva escluso in linea di principio la possibilità di ravvisare un collega-mento negoziale tra il « preliminare » ed il « definitivo » stipulati fra soggettidiversi, senza analizzare in concreto se tali negozi potessero avere una comu-ne funzione strumentale e teleologica di garanzia).

Sommario: 1. La vicenda oggetto della pronuncia. — 2. Divieto del patto commissorio e col-legamento negoziale quale unitario regolamento di interessi. Sulla ragione pratica e si-stematica del divieto. — 3. La portata del divieto del patto commissorio: evoluzionegiurisprudenziale. 4. Individuazione del collegamento che caratterizza la fattispecie og-getto della sentenza. — 5. Ammissibilità delle alienazioni in garanzia nel nostro ordina-mento alla luce del d. legisl. n. 170/2004.

1. — La sentenza in commento, affrontando l’annoso problema del divietodel patto commissorio, aiuta a comprendere la portata della categoria giuridicadei contratti collegati che, nonostante i numerosi ed autorevoli contributi dot-trinali (1), ad oggi, risulta essere ancora, sotto qualche aspetto, oscura.

(1) La categoria del collegamento negoziale è stata affrontata tra gli altri da Giorgianni,Negozi giuridici collegati, in R. it. sc. giur., 1937, p. 275; Nicolò, Deposito in funzione digaranzia e inadempimento del depositario, in F. it., 1937, I, c. 1476 ss.; Scognamiglio, Col-legamento negoziale, voce dell’Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 375 ss.; Di Nanni, I negozicollegati nella recente giurisprudenza (note critiche), in D. e giur., 1976, p. 130 ss.; Casti-

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È soprattutto sotto quest’ultimo profilo che la sentenza in commento ap-pare possedere quel quid pluris che la rende particolarmente significativa.

Per una migliore intelligenza della complessa vicenda, in via preliminare,è opportuno puntualizzare che la sentenza in questione, anche se giunge aconclusioni condivisibili, da un lato non riferisce in modo puntuale i fatti dicausa, generando confusione e difficoltà per l’individuazione della fattispecieconcreta, e dall’altro dà per presupposti alcuni passaggi logici che avrebberodovuto essere esplicitati compiutamente.

Con riguardo alla portata del divieto del patto commissorio, tale pronun-cia si aggiunge alle numerose sentenze della Suprema Corte che hanno contri-buito ad ampliarne i confini di applicabilità, consacrando, in tal modo, la na-tura materiale dell’art. 2744 c.c. e dell’art. 1963 c.c.

Per cogliere la peculiarità di tale pronuncia è opportuno sintetizzare bre-vemente i fatti di causa.

Da quanto è dato comprendere A e B hanno stipulato un contratto preli-minare per persona da nominare di vendita con patto di riscatto di un beneimmobile.

A si è impegnata a vendere a B il suo immobile ad un dato prezzo (dallasentenza non è dato comprendere se il prezzo o quale misura dello stesso siastato versato al momento del preliminare o al momento del definitivo) e aduna certa data, riservandosi il diritto di riacquistarlo entro il 5.4.93 (data inseguito prorogata sino al 5.5.94). Inoltre le parti hanno convenuto che l’alie-nante, anche dopo la vendita, potesse detenere l’immobile a fronte del paga-mento di un cospicuo canone locativo.

A tale contratto preliminare non è seguito alcun contratto definitivo tra leparti originarie, né B ha sciolto la riserva di nomina.

In data 7.4.90 (la data del definitivo risulta essere precedente a quelladel preliminare), C, moglie di B, ha acquistato da A, con autonomo contratto,il suddetto immobile.

Da tale contratto non emergerebbe né il diritto di A di detenere l’immo-bile dopo la vendita, né il diritto di riscattarlo. Sul punto però non vi è certez-za. Di conseguenza si potrebbe anche ipotizzare che il contratto sottoscrittotra A e C prevedesse un patto di riscatto.

Con atto di citazione del 17 febbraio 1996 C ha convenuto in giudizio Aal fine di ottenerne la condannata al rilascio dell’immobile occupato senza ti-tolo.

glia, Negozi collegati in funzione di scambio, in questa Rivista, 1979, II, p. 397 ss.; Clari-zia, Collegamento negoziale e vicende della proprietà. Due profili della locazione finanzia-ria, Rimini, 1982; Ferrando, I contratti collegati, in G. Alpa-M. Bessone, I contratti in ge-nerale. I requisiti del contratto, III, in Giur. sist. fondata da W. Bigiavi, Torino, 1991, p.604 ss.; Lener, Profili del collegamento negoziale, Milano, 1999; Colombo, Operazioni eco-nomiche e collegamento negoziale, Padova, 1999, p. 243 ss.; del Prato, Concessione di unimmobile collegata con prestazione d’opera, in G. it., 1985, I, 1, c. 307 ss.; Cirillo, Negozicollegati ed eccezione di inadempimento, in G. it., 1982, I, 1, c. 377 ss.

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C si è costituita in giudizio contestando le avverse pretese ed osservandoche il suo diritto di detenere l’immobile era previsto nel contratto preliminarestipulato con B.

Con sentenza del 10-17 luglio 1998 il Tribunale ha rigettato la doman-data attorea, dichiarando nullo il contratto di vendita stipulato da A e C,avendo rilevato d’ufficio che la sequenza fenomenica delle pattuizioni poste inessere dalle parti (contratto preliminare e contratto definitivo) era caratteriz-zata da una causa di garanzia, contrastante con il divieto del patto commisso-rio.

Tale sentenza è stata gravata da C ed i giudici di secondo grado hannoaccolto l’appello ritenendo che il contratto definitivo era lecito e del tutto au-tonomo rispetto al preliminare. Infatti, da un lato B non aveva stipulato il de-finitivo, né aveva sciolto la riserva di nomina, e dall’altro il definitivo non ri-portava le pattuizioni mascheranti o rivelanti il patto illecito. Di conseguenza,è stata ordinata la liberazione dell’immobile.

La Suprema Corte di Cassazione, investita della questione, ha accoltocon rinvio il ricorso presentato da A. Secondo la S.C., in sintesi, per escludereun collegamento negoziale non è sufficiente che la causa del definitivo sia le-cita, né la diversità di soggetti che hanno posto in essere i vari contratti, inquanto l’interprete è chiamato ad individuare il complessivo assetto di inte-ressi perseguito dalle parti.

La sentenza in commento, seppure criticabile per alcuni profili, assumeparticolare rilevanza, in quanto aiuta a comprendere il fenomeno del collega-mento negoziale in relazione al divieto del patto commissorio.

Inoltre, essa offre l’opportunità di verificare se il d. lgs. n. 170 del 2004in materia di contratti di garanzia finanziaria ha mutato la portata che l’art.2744 c.c. ha assunto nel nostro ordinamento.

2. — Il patto commissorio, sanzionato con la nullità nel nostro ordina-mento, è l’accordo con cui creditore e debitore stabiliscono che in caso di ina-dempimento di un debito la proprietà di un bene del debitore, garantito dapegno, ipoteca (art. 2744 c.c.) o oggetto di contratto di anticresi (art. 1963c.c.), passa al creditore. Tale patto è considerato nullo anche se stipulato do-po la costituzione delle garanzie tipiche.

Va subito puntualizzato che, siccome il patto commissorio è finalizzato agarantire l’adempimento di un’obbligazione, ne presuppone l’esistenza. Diconseguenza, quando non è dato rinvenire la duplicità di rapporti non si è inpresenza di un patto commissorio.

Da una lettura formale delle norme che pongono il divieto emergerebbe,quindi, un suo ristretto ambito di applicazione. Infatti, da un lato il pattocommissorio opererebbe solo in presenza di una garanzia tipica e dall’altroesso comprenderebbe solo le alienazioni in garanzia sospensivamente condi-zionate all’inadempimento del debitore. Tuttavia, la dottrina e la giurispru-denza, mosse dall’esigenza sociale di contrastare le alienazioni aventi scopo di

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garanzia, hanno ampliato i confini della sua applicabilità. Come correttamen-te osservato dalla sentenza in commento si è passati da una lettura formaledelle norme che pongono il divieto ad una lettura funzionale delle stesse. Inquesto modo si è giunti a ritenere nullo anche il c.d. patto commissorio auto-nomo, cioè il patto che prescinde dall’esistenza di garanzie tipiche, qualsiasiveste giuridica le parti gli abbiano attribuito.

Per poter giustificare l’ampliamento della portata delle norme che pongo-no il divieto la dottrina si è sforzata di individuare le ragioni pratiche e siste-matiche che sono a base del divieto (2).

Il problema principale, infatti, è quello di individuare un interesse tutela-to dalla norma che sia compatibile con la sanzione della nullità. Non è questala sede per ripercorrere le molteplici opinioni che in dottrina si sono sussegui-te per l’individuazione della ratio del divieto. Va però osservato che non esisteancora unanimità di vedute sul punto.

A chi, infatti, sostiene che il divieto è posto a tutela del debitore (3), si re-plica (4) che la sanzione della nullità è ingiustificata, in quanto il nostro ordi-namento, mediante l’azione di annullamento e l’azione di rescissione, già tu-tela il contraente la cui volontà è stata coartata o condizionata dallo stato di

(2) Per un’ordinata e limpida ricostruzioni delle varie opinioni si segnala Gigliotti,Patto commissorio autonomo e libertà dei contraenti, Napoli, 1997, p. 44 ss. Tra le varieopinioni senza pretesa di completezza si ricordano quella di Betti, Sugli oneri ed i limitidell’autonomia privata ecc., in R. d. comm., 1931, II, p. 699; Bianca, Il divieto del pattocommissorio, Milano, 1957, il quale ritiene che la ratio della norma risiede nel prevenire ildanno che l’intera comunità risentirebbe se il patto commissorio si diffondesse, in quantoesso finirebbe per divenire una clausola di stile che danneggerebbe il debitore; Carnevali,voce Patto commissorio, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, p. 504; F. Carnelutti, Mutuopignoratizio e vendita con clausola di riscatto, in R. d. proc., 1946, II, p. 156.; Pugliatti,Precisazioni in tema di vendita a scopo di garanzia, in R. d. proc., Milano, 1950, p. 298ss.; Pugliese, Intorno alla validità della vendita a scopo di garanzia, in questa Rivista,1955, p. 1066; Pugliese, Nullità del patto commissorio e vendita con patto di riscatto, inGiur. Compl. Cass. Civ., 1945, p. 162; Rubino, La compravendita, in Tratt. Cicu-Messineo,Milano, 1971, p. 1027; Luminoso, La vendita con riscatto, in Il codice civile, CommentarioSchlesinger, Milano, 1987, p. 221 ss.; D’Ercole, Sull’alienazione in garanzia, in Contrattoe impr., 1995, p. 550 ss.; Anelli, L’alienazione in funzione di garanzia, Milano, 1996; Sas-si, Garanzia del credito e tipologie commissorie, Napoli, 1999, Cipriani, Patto commissorioe patto marciano, Napoli, 2000; Carimini, Il lease back e la funzione di scambio, Napoli,2004; Cipriani, in atti del Convegno « Il diritto civile oggi compiti scientifici e didattici delcivilista », in corso di pubblicazione.

(3) Cfr. Rubino, op. ult. cit., p. 1027; Pugliese, op. ult. cit., p. 162, il quale ritiene cheil divieto si giustifichi in relazione tanto alla tutela del debitore quanto a quella del credito-re; Luminoso, op. ult. cit., p. 221 ss. — il patto commissorio è nullo in quanto contrario anorma imperativa dettata per la tutela del debitore. L’autore ritiene che il divieto del pattocommissorio sia una norma di protezione come quella prevista per la locazione e i lavorato-ri subordinati. Tale autore desume la ratio della norma inquadrandola in una visione siste-matica; Cipriani, op. ult. cit.; Carimini, op. ult. cit.

(4) Andrioli, Divieto del Patto commissorio, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Ro-ma, 1945, p. 50; D’Ercole, op. ult. cit., p. 550 ss.

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bisogno. È notorio che tali azioni, a differenza dell’azione di nullità comune-mente intesa, sono prescrittibili e possono essere esperite solo dai soggetti lesi.Inoltre la circostanza che il divieto del patto commissorio prescinda dallacoercizione del debitore è confermata dal fatto che il patto è nullo anche sestipulato dopo la costituzione delle garanzie (art. 2744 c.c.).

A chi sostiene, invece, che il divieto sia posto a tutela della par condiciocreditorum (5) si replica che il nostro ordinamento dà la possibilità al credito-re di esperire l’azione revocatoria, anch’essa relativa e prescrittibile (6).

Infine, a chi ritiene che nel nostro ordinamento sono vietati mezzi di au-tosoddisfacimento del credito diversi da quelli previsti dalla legge (7) si repli-ca che il patto marciano — cioè il patto mediante il quale il creditore ed il de-bitore stabiliscono che in caso di inadempimento del debito la proprietà di unbene del debitore passa al creditore, ma che questo, previa valutazione effet-tuata da un terzo del valore del bene stesso, restituisce al debitore l’eccedenzadel valore del bene rispetto al debito — è valido, come anche il pegno irrego-lare (art. 1851 c.c.) (8).

Al riguardo merita rilievo l’intuizione avuta da parte della dottrina (9),che, partendo proprio dall’analisi del patto marciano giunge a ritenere che ilpatto commissorio è vietato, in quanto in esso mancherebbe la valutazionedel terzo del valore del bene dato in garanzia e l’impegno del creditore direstituire l’eccedenza del valore del bene al debitore. In altri termini, secon-do questo orientamento, la ratio del divieto risiederebbe nel disvalore che ilnostro ordinamento attribuisce a quei trasferimenti in funzione di garanziaove manca un giudizio di congruità tra il bene dato in garanzia e l’ammon-tare del debito.

Non sono state sollevate critiche a tale impostazione, né pare se ne possa-no fare. Il pregio di tale orientamento è, infatti, quello di eliminare in radicetutte le critiche mosse a chi ritiene che il divieto sia posto a tutela del debito-re, della par condicio creditorum e dell’inderogabilità delle procedure esecuti-ve.

Di contro, va rilevato che, secondo altra parte della dottrina (10), l’impor-tanza dell’individuazione della ratio del divieto va ridimensionata. Secondotale orientamento, per coglierne l’esatta portata, è necessario analizzare i pro-

(5) F. Carnelutti, Mutuo pignoratizio e vendita con clausola di riscatto, in R. d. proc.,1946, II, p. 156.; Mancini, Vendita con patto di riscatto e nullità ex art. 2744 cod. civ., inF. it., 1966, I, c. 1121; Stolfi, Promessa di vendita e patto commissorio, in F. pad., 1957,I, c. 767 s.; Pugliese, op. ult. cit., p. 162.

(6) Carnevali, op. ult. cit., p. 504.(7) Betti, op. ult. cit., p. 699.(8) Bianca, op. ult. cit., p. 218; da ultimo v. Cass. civ. 24 maggio 2004, n. 10000, in G.

it., 2005, p. 1418 con nota di Battelli.(9) Da ultimo D’Ercole, op. ult. cit.(10) Anelli, op. ult. cit.

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fili strutturali della fattispecie descritta dalla legge e non la sua ratio. In so-stanza il patto commissorio sarebbe un limite all’autonomia negoziale, inquanto nel nostro ordinamento vigerebbe un principio secondo cui i privatinon sarebbero legittimati a disporre preventivamente delle conseguenze giuri-diche dell’inadempimento dell’obbligazione.

A tale impostazione si è correttamente opposta altra parte della dottrina(11), che, con puntuali argomentazioni, ha, da un lato, rilevato l’inesistenzanel nostro ordinamento del suddetto principio e, dall’altro, ha distinto tra laratio che soggiace al patto commissorio tipico da quella posta a base del pattocommissorio autonomo. In sintesi, e senza pretesa di completezza, si può rile-vare che, secondo tale ultimo orientamento, la previsione del divieto del pattocommissorio tipico corrisponderebbe all’esigenza di salvaguardare la funzionesvolta dalle garanzie tipiche, che altrimenti, in presenza di un patto commis-sorio, diventerebbero inutili. Merita, in ultimo, rilievo una recente ricostruzio-ne del divieto del patto commissorio in chiave solutoria (12).

Secondo tale autore il patto commissorio assolverebbe solo una funzionesolutoria e non anche di garanzia essendo le due funzione distinte ed autono-me. Di conseguenza, seguendo tale impostazione, la presenza di un pattocommissorio in un’operazione economica determinerebbe la nullità del solopatto e non anche dell’intero negozio con funzione di garanzia. Tale ricostru-zione non appare però pienamente condivisibile. Infatti, come osservato daaltra parte della dottrina (13), se il patto commissorio avesse solo una funzio-ne solutoria l’obbligazione da garantire si estinguerebbe, determinando il ve-nir meno del presupposto stesso del patto, cioè l’esistenza di una duplicità dirapporti.

La giurisprudenza, dal canto suo, appare invece unanime nell’accoglierel’orientamento che individua la ratio della norma nella tutela di più interessi.La S.C., infatti, nella sentenza in commento, come in molte altre (14), ritieneche l’interpretazione funzionale dell’art. 2744 c.c. è finalizzata « ad una più

(11) Gigliotti, op. ult. cit.(12) Cipriani, op. ult. cit.(13) Sassi, op. ult. cit.(14) Cfr. Cass. 3 giugno 1983, n. 3800, in Nuova G. it., 1985, I, 97, con nota di Roppo;

con nota di Macario; in Giust. civ., 1983, I, 2953. V. poi Cass. sez. un., 3 aprile 1989, n.1611, in Nuova G. it., 1989, I, 348, con nota di Carbone; in F. it., 1989, I, 1428, con notadi Mariconda e Realmonte. Cass. civ. 6 luglio 1990, n. 7161, in Corr. giur., 1990, p. 1137,con nota di Bussani; Cass. civ. 16 agosto 1990, n. 8325, in G. it. 1991, I, 1, 1208; Cass. 27febbraio 1991, n. 2126, in G. it., 1992, I, 1, 136; Cass. civ. 4 marzo 1996, n. 1657, in No-tariato, 1996, p. 409, con nota di Stella Richter, Vendita con patto di riscatto e fronde al-la legge; e in Contratti, 1996, p. 442, con nota di Zappata, Contratto plurilaterale e pattocommissorio; V. anche Cass. civ. 23 ottobre 1999, n. 11924, in Nuova G. it., 2000, I, 597,con nota di Camilleri, Alienazione in garanzia conclusa in forma di preliminare. Si rinvia atale nota per ulteriori richiami giurisprudenziali e dottrinali.

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efficace tutela del debitore e ad assicurare la par condicio creditorum, contra-stando l’attuazione di strumenti di garanzia diversi da quelli legali ».

Tuttavia, per le considerazioni dianzi esposte, la presa di posizione dellaS.C. suscita perplessità. Essa, infatti, non pare accorgersi degli evidenti pro-blemi sistematici che una non puntuale impostazione del problema della ratiodel divieto pone. Si vuole fare riferimento, in particolare, al problema relativoalla sanzione della nullità che non appare pienamente giustificato.

È necessario, infine, segnalare che, per giustificare l’ampliamento dellaportata del divieto in questione, non è sufficiente individuarne solo la ratio,ma occorre cogliere anche le ragioni sistematiche che sottendono al divieto.

La questione è stata compiutamente esposta da autorevole dottrina (15),che, in uno scritto che risale agli anni ’50, ha rilevato come le norme che pon-gono il divieto del patto commissorio (artt. 2744 e 1963 c.c.), poiché com-prendono tanto le garanzie reali tipiche (pegno ed ipoteca) quanto una parti-colare forma di garanzia personale ad rem, che si attua mediante il contrattodi anticresi, danno origine ad una norma unica.

Dalla struttura di tale norma, prosegue l’autore, non vi sarebbe alcunaragione per escludere dal suo raggio di azione la garanzia che si attua me-diante il trasferimento della proprietà, che è più forte rispetto a tutte le altreforme di garanzia.

A questo punto, se si coniugano i risultati a cui è giunta tale dottrina conl’intuizione avuta da quella parte della dottrina che rinviene la ragione prati-ca del divieto nella mancanza del c.d. giudizio di congruità, si può ritenereche nel nostro ordinamento esiste un principio secondo cui le alienazioni ingaranzia sono vietate solo se non sono accompagnate da un giudizio di con-gruità tra il bene venduto ed il debito garantito.

2. — Una volta focalizzate le ragioni che spingono ad ampliare il divietodel patto commissorio vediamo concretamente in che modo si è operata taleestensione.

Nella pratica uno strumento negoziale che si presta a perseguire uno sco-po di garanzia e che di fatto viene sovente utilizzato è la vendita con patto diriscatto.

L’art. 1500 c.c. prevede espressamente che « il venditore può riservarsi ildiritto di riavere la proprietà della cosa venduta mediante la restituzione delprezzo e i rimborsi stabiliti dalle disposizioni che seguono. Il patto di restitui-re un prezzo superiore a quello stipulato per la vendita è nullo per l’ecceden-za ».

È indubbio che tale strumento contrattuale è finalizzato a far ottenere alvenditore liquidità, utilizzando quale leva finanziaria, il suo diritto. Il punto èche, molto spesso, le parti simulano una vendita con patto di riscatto e dissi-mulano un mutuo garantito da patto commissorio.

(15) Pugliatti, op. ult. cit., p. 298 ss.

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Inizialmente la giurisprudenza (16), condizionata dal modello di patto il-lecito previsto dal codice (alienazione sospensivamente condizionata) e dallaconcezione secondo cui un tipo legale non può avere una causa illecita (17), ri-teneva in contrasto con il divieto del patto commissorio solo la vendita so-spensivamente condizionata all’inadempimento del debitore e non anche lavendita risolutivamente condizionata all’inadempimento, in quanto, in que-st’ultimo caso, il trasferimento della proprietà avveniva immediatamente.

In altri termini, l’elemento da cui far derivare l’invalidità della venditacon patto di riscatto, perché contrastante con il divieto del patto commissorio,era il momento in cui avveniva il trasferimento della proprietà.

Grazie all’elaborazione del concetto della causa in concreto (18) ed aicontribuiti apportati da autorevole dottrina (19), che ha posto in luce comeun’alienazione stipulata a garanzia di un credito non può rientrare nella figu-ra tipica della vendita, in quanto è sorretta da una causa (quella di garanzia)incompatibile con quella della vendita (scambio cosa contro prezzo), nel1983, la S.C. con una sentenza ormai storica (20), confermata in seguito an-che dalla S.C. a sezioni unite (21) ha abbandonato la lettura formalistica del-l’art. 2744 c.c., basata sul momento in cui il trasferimento della proprietà av-veniva, ed ha fornito una lettura funzionale delle norme che pongono il divie-to, ponendo l’accento sull’intento pratico perseguito dalle parti. In tal modola S.C. ha consacrato la rilevanza della funzione concreta che le parti attri-buiscono agli schemi contrattuali indipendentemente dalla loro tipicità.

Le pronunce successive a quella del 1983, compresa la sentenza in com-mento, hanno contribuito ad ampliare la portata del divieto del patto com-missorio. Su tale onda si è giunti a ritenere che qualsiasi contratto o pluralità

(16) Un risalente orientamento giurisprudenziale, ricorrendo all’interpretazione letteralee formalistica dell’art. 2744 c.c. e soprattutto condizionato dalla concezione che considera-va la causa come la funzione economico sociale perseguita dal contratto, riteneva che il di-vieto operasse solo per le alienazioni sospensivamente condizionate all’inadempimento deldebitore. V. sul punto Cass. 27 novembre 1951, n. 2696; Cass. 14 giugno 1966, n. 1544;Cass. 20 aprile 1968, n. 1221; Cass. 16 maggio 1973, n. 1390; Cass. 14 aprile 1981, n.2245; Cass. 26 aprile 1980, n. 642. In dottrina v. Carnevali, op. ult. cit., p. 504.

(17) Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, rist., Napoli, 1983, p. 172ss.

(18) Cfr. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, p. 345ss.; Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, p. 323; Id., I contratti, Partegenerale, Torino, 1994, p. 100. le difficoltà incontrate dalla dottrina nel distinguere la cau-sa dall’oggetto sono state recentemente riproposte da Navarretta, la causa e le prestazioniisolate, Milano 2000, p. 201 ss. per una compiuta analisi sulle interferenze tra la causa inconcreto e la fenomenologia dei vizi dl consenso v. Del Prato, la minaccia di far valere undiritto, Padova 1990, p. 21 ss.

(19) Bianca, op. ult. cit., pp. 145.(20) Cass. 3 giugno 1983, n. 3800 cit. nota 13.(21) Cass., sez. un., 3 aprile 1989, n. 1611 cit. nota 13.

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di contratti tra loro collegati (22), anche se stipulati da soggetti diversi (23),possono, in concreto perseguire uno scopo di garanzia vietato dalla legge. Allostato, quindi, qualsiasi contratto (tipico o atipico; ad effetti obbligatori o adeffetti reali) a cui le parti abbiano impresso una funzione di garanzia incorrenel divieto del patto commissorio.

L’art. 2744 c.c., come ribadito recentemente da autorevole dottrina (24)è, quindi, una norma materiale o effettuale, cioè una norma che colpisce undato effetto a prescindere dal mezzo giuridico adoperato. Tale norma, inoltre,ai sensi dell’art. 17 della l. n. 218/1995, è di applicazione necessaria, cioèprevale in caso di conflitto con una norma appartenente ad un ordinamentostraniero. Conseguentemente, prosegue l’autore, poiché la portata effettualedella norma non trova origine in se stessa, ma anche e soprattutto nell’inter-pretazione giurisprudenziale, la nullità delle alienazioni in garanzia potrebbeessere considerata come una nullità virtuale.

Ciò chiarito è necessario osservare che non è sempre agevole individuarese una alienazione è caratterizzata in concreto dalla causa di garanzia e quin-di se la causa della compravendita sia piegata a scopo di garanzia. Infatti, sevi è una reale attribuzione patrimoniale da parte del creditore-acquirente inconseguenza del trasferimento del bene da parte del debitore-alienante, non èagevole parlare di simulazione sotto la prospettiva dell’intento (25).

In ragione di tale difficoltà la giurisprudenza più risalente (26) ha indivi-duato alcuni indici, la cui presenza fa presumere l’intento delle parti di porrein essere un’alienazione in garanzia. Tra i più noti si hanno: la mancata con-segna della cosa venduta che rimane nella materiale detenzione dell’alienantea titolo di locazione, dove il pagamento dei canoni locativi corrisponderebbeagli interessi maturati dal capitale; il mancato pagamento del prezzo e la cir-costanza che le spese notarili sono state sostenute dal venditore.

Una volta inquadrato lo stato della questione, vediamo le peculiarità checaratterizzano il caso di specie.

4. — Nella sentenza in commento la S.C. ha affermato che la Corte terri-toriale è incorsa in errore di diritto perché ha escluso « la possibilità di ravvi-sare un collegamento tra il preliminare ed il definitivo, solo basandosi sul

(22) Cass. 30 ottobre 1991, n. 11638; Cass. 21 luglio 2004, n. 13580 tutte cit. nota 13.(23) V. ancora Cass. 30 ottobre 1991, n. 11638 cit. nota 13.(24) Del Prato, Categorie internazionalistiche ed istituti civilistici, in atti del Convegno

« Il diritto civile oggi compiti scientifici e didattici del civilista », in corso di pubblicazionesu questa Rivista. V. anche Luminoso, op. cit.; Pugliese, Nullità ecc., cit., p. 161. In giuris-prudenza v. Cass. 24 giugno 1957, n. 2402, in R. d. comm., 1958, II, p. 180 ss.

(25) V. Gentili, Il contratto simulato. Teorie della simulazione e analisi del linguaggio,Napoli, 1982, p. 275; Luminoso, op. cit.; Anelli, op. cit. Da ultimo v. Cass. 11 gennaio2005, n. 339, in R. giur. ed., 2005, p. 1151, con nota di Cheri.

(26) Cass. 14 giugno 1966, n. 1544; Cass. 11 febbraio 1969, n. 465, in G. it., 1970, I,1, c. 582 ss.; App. Milano 21 gennaio 1966, in Mon. Trib., 1966, p. 83 ss.

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principio astratto della sostituzione della disciplina del preliminare con quel-la, unica ed autonoma, del definitivo, se non conforme al primo, senza consi-derare la eventualità che, in concreto, entrambi i negozi potessero avere unacomune funzione strumentale e teleologica di garanzia ».

Inoltre la S.C. ha, altresì, rilevato che un collegamento negoziale non puòessere escluso per il solo fatto che i negozi abbiano discipline contrattuali di-verse e siano stati conclusi da soggetti diversi.

La sentenza, prima ancora che sotto il profilo del divieto del patto com-missorio, assume particolare importanza perché aiuta a comprendere il feno-meno del collegamento negoziale. Tuttavia, per coglierne appieno l’importan-za, è necessario fare alcuni chiarimenti.

I giudici del Supremo Collegio, infatti, pur giungendo a conclusioni con-divisibili, danno per presupposti alcuni passaggi logici in merito al collega-mento negoziale che, a parere di chi scrive, avrebbero dovuto essere esplicitaticompiutamente.

Il nocciolo della questione è quello di individuare a quale tipo di collega-mento negoziale la Suprema Corte fa riferimento e come sia giustificabile nelnostro ordinamento un collegamento fra negozi con parti non del tutto coinci-denti, soprattutto alla luce del principio della relatività dei contratti (art.1372, comma 2o, c.c.).

Non è certo questa la sede per affrontare un discorso compiuto ed esau-stivo sul collegamento negoziale (27). Tuttavia è necessario fare alcune sinteti-che puntualizzazioni.

Tradizionalmente si ha collegamento negoziale quando più negozi distintiper struttura sono unilateralmente o bilateralmente dipendenti, in modo taleche l’invalidità o la risoluzione di uno di essi determina la caducazione deglialtri (tale definizione è comune tanto in giurisprudenza [28], quanto nella ma-nualistica classica [29]). Il collegamento tra i negozi, secondo una nota suddi-

(27) Tra i contribuiti a carattere generale v. Giorgianni, op. cit., p. 275; Scognamiglio,op. cit., p. 375 ss.; Lener, op. cit. Tra i contributi a carattere speciale v. Del Prato, op. cit.,p. 307 ss.; Cirillo, op. cit., p. 377 ss. Con riferimento al rapporto tra preliminare e defini-tivo sotto la prospettiva causale v. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2003, p.859; Gazzoni, Il contratto preliminare, Torino, 1998; Bianca, Diritto Civile, parte III, Ilcontratto, Milano, 2000, p. 181 ss.; Sacco, Il contratto, Torino, 1999.

(28) V. tra le tante Cass. 17 novembre 1983, n. 6864, in Giust. civ., 1984, I, c. 1460;Cass. 5 luglio 1991, n. 7415, in Rep. F. it., 1991, voce « Contratto in genere », n. 159. Sulcollegamento negoziale con riferimento al patto commissorio: V. Cass. 30 ottobre 1991, n.11638, inMass. Giust. civ., 1991, f. 10; Cass. 20 luglio 1999, n. 7740, inMass. Giust. civ., p.16-75; Cass. 21 luglio 2004, n. 13580, inMass. Giust. civ., 2004, f. 7-8, in particolare in talepronuncia la S.C. ha affermato la necessità di valutare unitariamente l’intera fattispecie e cheper poter configurare un collegamento in senso tecnico è necessario che ricorra il requisitooggettivo (costituito dal nesso teleologico tra i negozi); il requisito soggettivo (rinvenibile nelcomune intento perseguito dalle parti ma anche l’intento di perseguire un fine ulteriore.

(29) V. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, rist., Napoli op. cit.;Gazzoni, op. cit.

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visione, può dipendere: dalla struttura dei negozi; dalla legge o dalla volontàdelle parti.

Si ritiene che il collegamento che unisce un contratto preliminare ad uncontratto definitivo appartenga al secondo gruppo. Infatti, poiché è la stessalegge che pone il collegamento tra i due negozi, la volontà delle parti ha unarilevanza marginale, sebbene l’effetto legale rispecchi appieno l’intento delleparti.

Anche per tale tipologia di collegamento il problema principale è quellodi verificare quali sono le conseguenze nel caso in cui uno dei due negozi è in-valido. In dottrina si è cercato di risolvere il problema focalizzando l’attenzio-ne sulle cause dei singoli contratti che compongono la fattispecie.

Secondo un orientamento, la giustificazione causale del contratto defini-tivo andrebbe ravvisata nella causa interna del definitivo stesso. In tal modo ivizi che inficiano il preliminare sarebbero del tutto irrilevanti se la causa deldefinitivo è lecita (30).

Secondo altro orientamento, invece, il contratto definitivo sarebbe unmero atto solutorio. Esso troverebbe la propria giustificazione causale nel-l’adempimento dell’obbligo di contrarre assunto nel preliminare. Conseguen-temente, avendo il definitivo una causa esterna, cioè nel preliminare, l’invali-dità di quest’ultimo si ripercuoterebbe direttamente sul contratto definitivo(31).

Con la sentenza in commento la S.C. mette in luce il limite delle suddetteimpostazioni che si sostanzia nel valutare da una prospettiva parziale la causadei contratti che compongono il collegamento negoziale.

La S.C. afferma, infatti, che l’interprete, in presenza di un contratto pre-liminare e di un contratto definitivo, deve valutare quale è la causa concretaperseguita da tutti e due gli atti e non soffermarsi sull’una o sull’altra causasingolarmente considerate. In altri termini con la sentenza in commento, laS.C. aderisce a quella parte della dottrina che considera i singoli negozi traloro collegati come parti di un unico autoregolamento complessivo (32).

Seguendo tale impostazione è chiaro che l’assetto di interessi perseguitodalle parti non si desume dal contratto preliminare o dal contratto definitivo,ma dall’autoregolamento complessivamente inteso.

Di conseguenza, anche se la causa del definitivo è lecita, non è detto chela causa complessiva, desumibile dai negozi collegati, lo sia, in quanto, in

(30) V. Bianca, Diritto Civile, parte III, Il contratto, Milano, 2000, p. 181 ss.; Sacco, Ilcontratto, Torino, 1999.

(31) V. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2003, p. 859; Gazzoni, Il contrattopreliminare, Torino, 1998, p. 11 ss.

(32) Lener, op. ult. cit. va però puntualizzato che l’autore tratta principalmente il c.d.collegamento bilaterale, volontario e funzionale. Per una diversa interpretazione del colle-gamento bilaterale v. Castiglia, Negozi collegati in funzione di scambio (su alcuni problemidel collegamento negoziale e della forma giuridica delle operazioni economiche di scambio,in R. d. civ., 1979, II, p. 429 ss.

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concreto, le parti potrebbero aver voluto perseguire un assetto di interessicontrario a norme imperative (33).

In questa prospettiva non vi è dubbio che l’esistenza di un collegamentolegale non può prescindere dall’indagine sulla concreta funzione che anima lafattispecie plurinegoziale. Tale indagine, va chiarito, deve essere operata dal-l’interprete mediante l’utilizzo del canone interpretativo previsto dall’art.1363 c.c., il quale prevede che le clausole che compongono l’autoregolamentodevono essere interpretate « le une per mezzo delle altre, attribuendo a cia-scuna il senso che risulta dal complesso dell’atto » (34).

Quanto appena detto comporta, inevitabilmente, che negozi tra loro ne-cessariamente collegati lo sono anche funzionalmente.

Il punto però, ed è qui la peculiarità della sentenza in commento, è verifi-care che cosa succede se uno dei due collegamenti (legale e funzionale) vienemeno.

A parere di chi scrive nella fattispecie oggetto della sentenza in commen-to, non può sussistere alcun collegamento legale in senso tecnico tra il preli-minare sottoscritto da A e B ed il definitivo sottoscritto tra A e C.

Ciò, però, non perché la causa del definitivo assorbe quella del prelimi-nare, come ritenuto dalla Corte territoriale, quanto perché A ha stipulato conB un contratto preliminare di vendita per persona da nominare, ma la riservadi nomina non è mai stata sciolta ed il contratto definitivo è stato stipulatotra A e C.

Ora, poiché ai sensi dell’art. 1403, comma 1o, c.c. la dichiarazione di no-mina non ha effetto se non riveste la stessa forma che le parti hanno usato peril contratto anche se non prescritta dalla legge (35), e poiché B, che ha stipula-to il contratto preliminare con A, non ha mai dichiarato di nominare la mo-glie C per la conclusione del definitivo, è indubbio che il collegamento legaletra i due negozi è tecnicamente interrotto. Di conseguenza, nel caso di specienon si è in presenza di un contratto preliminare e di un contratto definitivocomunemente intesi.

Tali considerazioni non devono però trarre in inganno.Infatti, il venir meno del c.d. collegamento legale tra i due negozi non de-

termina in linea astratta anche il venir meno del c.d. collegamento funzionale,che quindi in concreto potrebbe prevalere sul primo in quanto attiene all’ef-fettivo interesse perseguito dai contraenti. Non va trascurato che tale interesseva valutato caso per caso.

In questa logica, anche se non vi è stata alcuna dichiarazione di nomina,

(33) Cfr. Palermo, Funzione illecita e autonomia privata, Milano, 1970.(34) V. ancora Lener, op. ult. cit.(35) V. Gazzoni, voce Contratto per persona da nominare (dir. civ.), in Enc. giur.,

1988, vol. IX, pp. 1-9; Lazzara, Il contratto per persona da nominare, in Tratt. dir. pri., Ilcontratto in generale, Vol. XIII — Tomo VI — Parte Seconda, Torino, 2000, p. 128 ss.

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il limite della diversità dei soggetti che hanno concluso i contratti è solo appa-rente.

Se, infatti, si ammette che il programma perseguito dalle parti è unitario,pur nella formale diversità dei contratti posti in essere, non vi sono soggettiche possono tecnicamente essere definiti terzi ai sensi dell’art. 1372, comma2o, c.c., in quanto ogni contraente è parte dell’operazione complessiva.

La valutazione della fattispecie nella sua complessità permette di supera-re anche un ulteriore limite posto dalla fattispecie oggetto della sentenza incommento. Infatti, la circostanza che il primo contratto, sottoscritto tra A e B,non produce alcun effetto, in quanto la dichiarazione di nomina non è avve-nuta, non esclude che esso contribuisca, in concreto, a determinare, unita-mente al definitivo posto in essere tra A e C, l’assetto d’interessi che le partihanno inteso perseguire.

Ciò significa che l’interprete, quando è in presenza di più negozi tra lorocollegati, deve individuare l’effettivo interesse perseguito dalle parti andandoa valutare anche i contratti che tecnicamente o apparentemente non hannoprodotto alcun effetto.

A conferma di quanto appena detto, in una recente pronuncia la S.C. haespressamente affermato che « il giudice è tenuto, giusta disposto dell’art.1363 c.c., ad esaminare tutte le convenzioni intercorse tra le parti sì come ri-sultanti dai documenti all’uopo formati » (36).

Di conseguenza l’esclusione di un collegamento funzionale tra due nego-zi, come correttamente osservato dalla S.C. nella sentenza in commento, nonpotrà che essere desunta da un’attenta analisi della fattispecie concreta, nonessendo sufficiente escludere il collegamento né sulla base della parziale di-versità di soggetti che hanno posto in essere i vari contratti, né dalla circo-stanza che uno dei due negozi non produce alcun effetto e nemmeno dal fattoche una tipologia di collegamento sia venuto meno.

In conclusione, se, operata la suddetta analisi, che attiene al campo pro-batorio, dovesse emergere che le parti hanno voluto porre in essere un’aliena-zione con funzione di garanzia mediante l’utilizzo di più negozi, è indubbioche essa sarebbe nulla per illiceità della causa (art. 1344 c.c.), in quanto icontratti costituirebbero il mezzo per eludere il divieto del patto commissorio.

5. — Le considerazioni sinora svolte devono essere valutate alla luce del-l’entrata in vigore del d. legisl. n. 170/2004, che ha attuato la direttiva comu-nitaria n. 47/2002 in materia di contratti di garanzia finanziaria.

Il comma 2o dell’art. 6 di detto decreto stabilisce, infatti, che « ai contrat-ti di garanzia finanziaria che prevedono il trasferimento della proprietà confunzione di garanzia, compresi i contratti pronti contro termine, non si appli-ca l’art. 2744 del codice civile ».

Il punto da verificare è se con l’introduzione di tale norma il legislatore

(36) Cfr. Cass. civ. 16 luglio 2002, n. 10298, in Mass. Giust. civ., 2002, p. 1235.

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ha inteso limitare l’operatività del divieto del patto commissorio nei ristrettilimiti previsti dagli artt. 2744 e 1963 c.c., e quindi solo nel caso in cui il pat-to acceda ad una garanzia reale tipica o personale ad rem.

Parte della dottrina (37), ha osservato che l’art. 6, comma 2o, del d. legisl.n. 170/2004 indurrebbe a porre in essere una rilettura in chiave restrittivadegli articoli codicistici che pongono il divieto del patto commissorio.

Se si dovesse accogliere tale impostazione, è chiaro che la fattispecie og-getto della sentenza in commento non si porrebbe più in contrasto con il di-vieto del patto commissorio.

Non è questa la sede per affrontare in modo esaustivo la questione, ancheperché è ancora al vaglio della dottrina. Tuttavia non pare che l’art. 6, com-ma 2o, del d. legisl. n. 170/2004 possa ostacolare il ruolo materiale attribuitoall’art. 2744 c.c. dalla dottrina e dalla giurisprudenza per più ordini di ragio-ni.

Anzitutto va rilevato che il d. legisl. n. 170/2004 contiene una normativaspeciale che opera solo rispetto ai c.d. contratti di garanzia finanziaria e conriferimento ad una determinata categorie di soggetti (cfr. art. 1).

Ciò è un primo indice da cui dedurre che le alienazioni in garanzia a cuifa riferimento la norma non possono essere utilizzate come parametro per va-lutare le alienazioni in garanzia generalmente intese.

In altri termini, aderendo a quella parte della dottrina che ritiene che gliarticoli 2744 e 1963 c.c. danno origine ad una norma unica (38), l’art. 6,comma 2o, del d. legisl. n. 170/2004, si porrebbe come eccezione alla regola enon come canone interpretativo della regola stessa.

In secondo luogo la natura eccezionale di tale norma emergerebbe dallalettura del d. legisl. n. 170/2004 nel suo complesso.

Poiché, infatti, l’art. 4, lettere a, b e c, di tale decreto prevede che il cre-ditore pignoratizio, in caso di inadempimento del debitore, può provvedereall’alienazione del bene dato in garanzia, « trattenendo il corrispettivo a sod-disfacimento del proprio credito, fino a concorrenza del valore dell’obbliga-zione finanziaria garantita », la circostanza che l’art. 6, comma 2o, del d. legi-sl. n. 170/2004 non prevede tale meccanismo restitutorio (del tutto simile aquello previsto per il patto marciano e per il pegno irregolare) e che la normaescluda l’applicabilità dell’art. 2744 c.c., è indubbio indice del fatto che il le-gislatore ha ritenuto che solo per i contratti di garanzia finanziaria che preve-dono il trasferimento della proprietà con funzione di garanzia non è necessa-rio porre in essere alcuna preventiva valutazione di congruità tra il bene alie-nato ed il debito garantito.

(37) Cipriani, in atti del Convegno « Il diritto civile oggi compiti scientifici e didattici delcivilista », in corso di pubblicazione. La portata di una tale impostazione va valutata allaluce della particolare ricostruzione che il suddetto autore opera del divieto del patto com-missorio.

(38) Pugliatti, op. ult. cit., p. 298 ss.

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Da qui il carattere del tutto particolare dell’art. 6, comma 2o, del d. legi-sl. n. 170/2004.

In conclusione non pare che l’art. 6, comma 2o, del d. legisl. n. 170/2004possa ridimensionare la portata che oggi ha assunto il divieto del patto com-missorio, che permane una norma materiale.

Matteo V. Verdi

Dottorando di ricerca preso l’Universitàdegli studi di Macerata

MASSIME COMMENTATE 523

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T R I B U N A

IL « TESTAMENTO BIOLOGICO » (*)

Sommario: 1. Posizione del problema: se, allo stato attuale della legislazione, sia definibileun modello immediatamente operativo del testamento biologico. — 2. Soluzione affer-mativa secondo l’ordinamento costituzionale e civile. — 3. Requisiti essenziali del testa-mento biologico: — 3.1. Dichiarazione di volontà del disponente. — 3.2. Forma delladichiarazione. — 3.3. Oggetto della dichiarazione. — 4. Revoca del testamento biologi-co. — 5. Conservazione dell’atto. — 6. Regole del codice di deontologia medica. — 7.Definizione del testamento biologico. — 8. Titolarità dei poteri sostitutivi. — 9. Il pro-blema della nutrizione artificiale del malato terminale. — 10. Possibili contenuti del te-stamento biologico. — 11. Mancata redazione del testamento biologico. — 12. Conclu-sione.

1. — In una materia nella quale si intrecciano discipline così disparate edov’è, soprattutto, difficile discernere la ideologia dalla scienza, sembra indi-spensabile attenersi ai dati certi dell’esperienza. E l’esperienza dimostral’emergere, oggi, di una domanda collettiva, largamente diffusa e crescente —come prova la documentazione statistica —, diretta alla protezione di un be-ne: un bene che consiste nella dignità del morire.

Dal punto di vista etico-giuridico, questa aspirazione si traduce inun’istanza riconosciuta — come, tra breve, cercherò di chiarire — dai canonidi libertà delle nostre leggi.

Istanza, che si realizza clinicamente mediante la valutazione ponderata diquello che le Corti inglesi chiamano il « best interest » del paziente.

Sul piano giuridico, in prospettiva futura, sarà compito del legislatoretradurre in legge questa istanza di libertà, adottando una disciplina appro-priata, precisa, capillare delle direttive anticipate di trattamento sanitario, ilcosiddetto « testamento biologico ».

Ma si pone un problema: se, all’interno dell’ordinamento giuridico attua-le, sulla base, cioè, delle leggi vigenti, si possa già definire un modello opera-tivo del testamento biologico, naturalmente su un piano di razionale e siste-matica costruzione giuridica, non certo a livello empirico, assecondando even-tuali prassi correnti.

« Hic et nunc », che cosa deve dire l’avvocato a chi gli chiede come si po-trà difendere in quei momenti difficili? Che cosa deve dire il giudice all’avvo-cato che gli chiede di pronunciarsi in merito?

Per cercare di dare una risposta a questi interrogativi occorre partire dauna premessa.

In mancanza di un’apposita disciplina normativa, torna applicabile il

(*) Relazione svolta al Convegno di Trieste del 6 aprile 2005 sul tema « Il testamentobiologico — Direttive anticipate di trattamento — Considerazioni etico-giuridiche ».

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principio generale, sotteso dalla norma dell’articolo 1322 del codice civile, ri-chiamata dalla dottrina, per cui hanno rilevanza giuridica i negozi privi, sì, diuna particolare regolamentazione, ma diretti a realizzare un interesse merite-vole di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Nel caso in argomento, esiste o non esiste questo interesse meritevole ditutela?

Certamente esiste.Ed esistono diversi puntelli normativi che consentono di delineare un at-

tuale modello operativo del testamento biologico, sia sul piano del diritto co-stituzionale, sia sul piano del diritto privato.

2. — Sul piano del diritto costituzionale, è necessario collegare due fon-damentali disposizioni della Costituzione, immediatamente precettive, conte-nute, rispettivamente, negli articoli 32, comma 2o e 3o.

L’art. 32, comma 2o conferisce a chiunque la facoltà di sottrarsi a ogni ti-po di terapia (salvo contraria disposizione di legge).

L’art. 3 sancisce il canone di uguaglianza.Ne consegue che, da un lato, nell’imminenza dell’intervento sanitario, il

rifiuto attuale della cura, opposto da persona capace e informata, trova co-pertura costituzionale nell’art. 32, comma 2o; dall’altro, lo stesso rifiuto oppo-sto da persona capace e informata, a distanza di tempo, prima — anche anniprima — dell’intervento sanitario, trova, del pari, copertura costituzionalenell’art. 32, comma 2o in virtù del canone di uguaglianza dell’art. 3.

Il canone di uguaglianza, tuttavia, è sottoposto a una sorta di prova diresistenza, per la possibile interferenza di fattori estranei, che possano incep-parne il funzionamento.

Per esempio, nel periodo intermedio fra la stesura del testamento biologi-co e il potenziale intervento sanitario, l’adozione di nuovi metodi diagnostico-terapeutici, utili e talora salvifici per l’infermo, ne mettono fuori causa le di-rettive, che rimangono paralizzate.

La situazione si definisce, in tal caso, secondo la formula giuridica dellacosiddetta « clausola rebus sic stantibus », nel senso che il testamento biologi-co è ancorato a una condizione implicita per cui, al mutare della situazioneoriginaria, ne mutano anche gli effetti fino alla totale vanificazione delle di-rettive in esso contenute.

Ma — ecco il punto — al di fuori di tale e di altre consimili ipotesi (se nepossono dare di varia natura, storica, psicologica, ecc.), riprende pieno vigoreil principio costituzionale di uguaglianza, e perciò la direttiva va rispettata.

Salvo, naturalmente, il motivato dissenso del medico sulla ricorrenza delpresupposto clinico, giustificativo della sospensione della terapia: dissenso,sul quale, se del caso, sarà chiamato a decidere il giudice.

Pertanto, l’art. 9 della Convenzione di Oviedo (ratificata nel 2001), cheparla solo e sempre di « desideri » da « tenere in considerazione », dovrebbe,a mio sommesso avviso, essere sottoposto ad una « interpretazione adeguatri-

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ce » ai precetti della Costituzione italiana. Nel senso che la direttiva racchiusanel testamento biologico può avere, a seconda dei casi, efficacia vincolante onon vincolante. Sarà vincolante, ad esempio ove si tratti del rifiuto d’una ope-razione cranica devastante e inutile; non vincolante — ed espressione di sem-plice desiderio — ove si tratti della indicazione, privilegiata dal testatore, diun farmaco sul cui impiego sarà decisiva la valutazione del medico nel rap-porto di « alleanza terapeutica » con il paziente.

Fin qui, le considerazioni che si possono svolgere sul piano del diritto co-stituzionale, per la definizione di un attuale modello operativo del testamentobiologico.

Di pari rilievo sono quelle desumibili dall’ordinamento del diritto privato.Occorre, invero, stabilire, secondo le regole del codice civile e delle leggi

ad esso collegate, quali possano e debbano essere le condizioni di validità e diefficacia dell’atto contenente le direttive anticipate.

3. — Tre sono i punti essenziali di riferimento:1) Dichiarazione di volontà del disponente;2) Forma prescelta per esprimerla;3) Oggetto della dichiarazione.

3.1. — Per quanto riguarda il primo elemento consistente nella dichiara-zione di volontà, questa presuppone la capacità specifica dell’autore di espri-mere un consenso-dissenso informato.

Deve essere, pertanto, corredata della relativa certificazione medica.È superfluo aggiungere che le condizioni generali della capacità di agire

si desumono dalle forme di pubblicità dello « status » della persona fisica,previste dal codice civile e dalle leggi speciali ad esso collegate.

Altrettanto dicasi delle garanzie di autenticità del documento, affidate al-l’osservanza, da parte del testatore, degli oneri prescritti, nel suo esclusivo in-teresse, dallo stesso codice e dalle altre leggi vigenti in materia.

Non occorrono, insomma, nuove leggi al riguardo.A questo punto, è opportuno ricordare che rappresenta un falso proble-

ma quello, a suo tempo sollevato da una parte della dottrina, dell’attualità onon attualità del volere, già espresso nel testamento biologico, durante la faseterminale della perdita della coscienza; sicché, aderendo alla seconda alterna-tiva della non attualità del volere, l’intento di rifiutare la terapia, già manife-stato col testamento biologico, sarebbe destinato a rimanere, comunque, privodi ogni efficacia.

È un falso problema, perché negli atti revocabili di ultima volontà, o de-stinati, comunque, a produrre effetti giuridici « post mortem », oppure, comenel caso del testamento biologico, dopo la cessazione della capacità di agire,non si richiede il persistere del volere fino al limite estremo della vita.

Quel che conta è l’ultimo atto di volontà manifestato in vita: altrimenti itestamenti risulterebbero, al 99%, « inutiliter scripti ».

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Pertanto, a proposito del testamento biologico, è da considerare senz’al-tro condivisibile la proposta avanzata dal Comitato Nazionale per la Bioeticanel parere del 18 dicembre 1999, di considerare prevalente la volontà con es-so manifestata rispetto alla mera congettura di una volontà contraria nella fa-se terminale della malattia.

D’altronde, il testamento biologico non è obbligatorio. Perciò il suo auto-re assume liberamente il rischio derivante dall’ignorare quale potrebbe esserela sua vera reazione nel momento estremo.

3.2.—Quanto al requisito della forma della dichiarazione di volontà, il Co-mitato Nazionale per la Bioetica pone, nel suo parere del 18 dicembre del 2003,l’interrogativo se il testamento biologico debba essere redatto per iscritto.

A livello intuitivo, certamente sì.Ma proprio a questo proposito è rinvenibile un preciso dato normativo

per la costruzione di un modello del testamento biologico operativo già nel-l’ambito dell’ordinamento attuale indipendentemente da leggi future.

Si tratta della disposizione dell’articolo 587, comma 2o del codice civile,sicuramente applicabile per analogia al caso in argomento.

Con essa vengono incluse nel testamento — che non ammette la formaverbale per il divieto del cosiddetto « testamento nuncupativo » — le dichia-razioni atipiche di ultima volontà di natura non patrimoniale.

Ora, sono ben diverse, certo, le due situazioni di fatto, riferendosi il testa-mento propriamente detto all’evento morte, mentre il testamento biologico siriferisce all’evento della sopravvenuta perdita della coscienza e della capacitàdi agire.

Ma, secondo la previsione dell’articolo 14, comma 2o delle disposizionipreliminari al codice civile, è consentita l’applicazione analogica di una nor-ma per « casì simili o materie analoghe »; e non mi pare si possa dubitare del-la somiglianza del caso, né dell’analogia della materia in discussione rispettoa quella regolata dall’articolo citato 587, 2o co. codice civile.

3.3. — L’oggetto della dichiarazione racchiusa nel testamento biologicodeve essere, secondo i princìpi, lecito e determinato, o, quanto meno, determi-nabile.

Liceità vuol dire (tra l’altro) che è vietato all’autore, sotto pena di nullitàassoluta dell’atto, sollecitare con le proprie direttive la partecipazione dei sa-nitari ad ogni forma di eutanasia.

Quanto al requisito della determinatezza, o determinabilità dell’oggetto,esso può risultare insidiato dalla possibile (probabile) astrattezza della di-chiarazione rispetto alla complessa realtà clinica della situazione futura.

Questa possibile divergenza giustamente preoccupa il Comitato Naziona-le per la Bioetica. Ad essa si potrà, almeno in parte, ovviare mediante la coo-perazione del medico, nell’esercizio dell’« alleanza terapeutica » con l’infer-mo, per realizzare, nei limiti del possibile, gli scopi da lui perseguiti.

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4. — Naturalmente, l’efficacia del testamento biologico sarebbe paraliz-zata dalla prova dell’esistenza di un atto di revoca.

La revoca può essere esplicita. Ma può essere anche implicita per l’incom-patibilità di comportamenti successivi con l’intento in origine manifestato.

Ciò può desumersi, ad esempio, dal tenore di un carteggio o da altre fontidi prova. E la prova deve essere assolutamente libera, data la gravità delleconseguenze che dalla sua assunzione, o non assunzione, possono derivare.

5. — Per quanto riguarda la conservazione del documento, soccorre an-che qui l’applicazione analogica di un’altra norma, l’art. 608 del codice civile,che prevede il deposito dell’olografo presso un notaio.

Ma — bisogna riconoscerlo — sarà necessaria in questa materia l’emana-zione di una nuova legge introduttiva di un sistema di pubblicità-notizia, af-finché sia nota ad ogni interessato quanto meno l’esistenza del testamentobiologico.

È opportuno aggiungere, infine, che, come si desume dall’art. 490 del co-dice penale, chiunque venga a trovarsi, per qualsiasi ragione, in possesso deldocumento, ne deve dare comunicazione immediata al naturale destinatario,la struttura ospedaliera dell’attuale ricovero dell’infermo.

6. — Completano il quadro alcune disposizioni del codice di deontologiamedica.

Va premesso che la regola deontologica, per quanto, di certo, subvalenterispetto alla legge statale, rappresenta di questa un potente strumento di in-terpretazione evolutiva.

Orbene, l’art. 37 del codice deontologico, in perfetta sintonia con i pre-cetti, dinanzi accennati, della Costituzione, traccia il confine, secondo un cri-terio di ragionevolezza, fra terapia utile e terapia inutile.

Sicché, nel testamento biologico proprio in vista del possibile superamen-to di quel confine di ragionevolezza, l’interessato si può premunire, opponen-do un rifiuto « a priori » ad un intervento sanitario futuro, considerato osti-nato e inutile.

Sempre a livello della normativa deontologica, si deve ricordare altresìl’art. 34, comma 2o, per cui il medico non può non tener conto di quanto inprecedenza manifestato dall’infermo, e, ancora, l’art. 14, secondo il quale ilmedico si dovrà astenere dall’insistere su trattamenti, dai quali non si possafondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un migliora-mento della qualità della sua vita.

7. — In base alle precedenti considerazioni si può comprendere l’essenzadel testamento biologico.

È uno strumento negoziale di tutela dell’« human dignity », la dignitàdella persona, un diritto autonomo, riconosciuto dalla dottrina, che lo ascrivealla categoria dei cosiddetti « diritti di terza generazione », come il diritto alla

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pace e alla procreazione; e riconosciuto, altresì, dalla giurisprudenza: in Ita-lia, dalla Corte d’appello di Milano, con decreto del 31 dicembre 1999, e al-l’estero dall’« House of Lords », con sentenza risalente all’anno 1993, allaquale si sono ispirati i giudici milanesi.

Nella difesa di questo diritto all’« human dignity » contro l’accanimentoterapeutico rimangono fuori campo le norme che, in altre situazioni, sarebbe-ro applicabili per la punizione dell’omissione delle cure dovute.

La sanzione penale, invero, presuppone la esigibilità della prestazione delmedico; mentre, oltre il confine di ragionevolezza, la prestazione del mediconon è esigibile.

Vien meno, pertanto, il presupposto per la incriminazione della omissio-ne di una condotta non dovuta.

È fuori luogo qualunque riferimento all’eutanasia.

8. — Accertata la condizione di un irreversibile stato vegetativo del pa-ziente, si pone il problema della titolarità dei poteri sostitutivi.

Al di fuori dello stato di necessità, in cui decide il medico, la Corte d’ap-pello di Milano ha riconosciuto la spettanza di tali poteri al tutore, che deveattendere alla cura della persona dell’incapace (artt. 357, 424 c.c.), ed è,quindi, legittimato a ricorrere al giudice per ottenerne le debite autorizzazio-ni, integrative di quei poteri.

Nello stesso senso si è espressa la dottrina, decisamente contraria a rico-noscere ai familiari poteri di questo tipo.

Ma inevitabilmente si ripropone il problema sotto un diverso profilo:quello delle lungaggini di una procedura di interdizione (anche la nomina diun tutore provvisorio richiede il suo tempo).

Il progetto Tomassini consente, con l’art. 3, la facoltà di ricorrere al giu-dice tutelare.

Ma anche su questo punto non manca nell’ordinamento attuale un ad-dentellato normativo; al quale, anzi, lo strumento dell’art. 3 sembra ricollega-bile.

Mi riferisco all’art. 361 del codice civile, dettato in materia di tutela deiminori, ma estensibile, in virtù dell’art. 424 c.c., alla tutela dei maggiorenni.

Secondo tale disposizione, prima che il tutore abbia assunto le propriefunzioni, spetta al giudice tutelare di dare, sia d’ufficio, sia su richiesta delpubblico ministero, di un parente o di un affine, i provvedimenti urgenti chepossano occorrere per la cura della persona dell’incapace: come, appunto, po-trebbe essere la nomina di un curatore speciale, legittimato e ricorrere al tri-bunale per ottenerne le suddette, necessarie autorizzazioni.

A questo punto si innesta il problema della nomina nel testamento biolo-gico di un fiduciario, al quale affidare i poteri sostitutivi.

Ma bisogna andar cauti.Una legge « ad hoc » potrà conferire a questa nuova figura, anche in

deroga ai princìpi, le facoltà che saranno ritenute più opportune; ma nel-

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l’ordinamento attuale il diritto all’integrità fisica dell’autore del testamentobiologico è personalissimo e intrasmissibile per atto privato a un mandata-rio-fiduciario, il quale può essere delegato non all’esercizio di poteri dispo-sitivi di quel diritto, ma soltanto a vigilare sulla corretta esecuzione dellavolontà del paziente da parte degli organi legalmente preposti alla curadella sua persona.

Comunque (altro interrogativo formulato nel parere del Comitato Nazio-nale per la Bioetica), si deve riconoscere al fiduciario la facoltà di rinuncia al-la nomina per analogia con l’ipotesi prevista dall’art. 703 c.c., concernente laposizione dell’esecutore testamentario.

9. — In Italia è sempre aperto il problema della nutrizione e dell’idrata-zione artificiale del malato terminale.

Da un lato, si sostiene che si tratta di un atto medico, come tale passibile disospensione; dall’altro, che si tratta di un atto di natura infermieristica, aventeil solo scopo di sfamare e dissetare il paziente; atto paragonabile, addirittura,ad una frizione di alcool o alla rotazione del corpo dell’infermo nel suo letto.Per cui non sarebbe consentito, come suol dirsi, « staccare la spina ».

A livello scientifico, non è stata ancora raggiunta, in Italia, la soluzionedel problema.

In questa attesa, la Corte d’appello di Milano ha deciso di non decidere;ma in buona sostanza, ha respinto « pro tempore » il ricorso del tutore del-l’interdetto, volto ad ottenere l’autorizzazione ad interrompere la terapia.

Pur approvando l’opera della Corte per l’ampia motivazione dedicata,nel provvedimento, ai temi controversi, non mi sentirei di condividerne lapronuncia: non in termini procedurali, perché il giudice deve sempre deciderecon l’eventuale ausilio di un collegio di periti, anche a costo di dare inizio acontrastanti indirizzi giurisprudenziali; e neppure in termini di diritto sostan-ziale, perché a me sembra trattarsi di un atto di competenza specifica del me-dico, e non potrei proprio avallare nella motivazione di un decreto di rigettocerte similitudini come quelle sopra accennate.

10. — Il testamento biologico può comprendere disposizioni in senso po-sitivo e disposizioni in senso negativo.

Direttive in senso positivo sono la scelta di cure, la proposta di interventipalliativi, l’indicazione di terapie analgesiche.

Dominante in quest’ambito — come si è detto — appare, nell’eserciziodella « alleanza terapeutica », la valutazione del medico. Sicché non si po-trebbe davvero riconoscere alla direttiva un’efficacia superiore a quella di unsemplice desiderio.

Rispettivamente, sono direttive in senso negativo quelle che involgono unatto di rinuncia alle terapie.

Si è già parlato dell’opposizione all’accanimento terapeutico e dell’effica-cia tendenzialmente vincolante di una direttiva in tal senso.

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Ma a gravi problemi dà luogo la rinuncia ad una terapia utile o, addirit-tura, salvifica, come la emotrasfusione, rifiutata per motivi religiosi.

Deve prevalere il diritto costituzionale alla vita (art. 2 Cost.) o il dirittocostituzionale alla libertà della fede (art. 19 Cost.) ?

Personalmente, a me sembra prevalere su ogni altro il principio del soc-corso di necessità e quindi il dovere ippocratico della salvezza della vita uma-na.

Si è fuori, in tal caso, dell’area della terminalità; della condizione, cioè, diun irreversibile stato vegetativo. E la cura non è pervicace e inutile, ma deter-minante per il recupero della salute.

11. — L’interessato, anche se non abbia pensato a premunirsi con la re-dazione di un testamento biologico, non rimane, per ciò solo, privo di prote-zione contro la irragionevolezza dell’accanimento terapeutico.

Il rappresentante (tutore, tutore provvisorio, curatore speciale nominatod’urgenza) addetto alla cura della sua persona è sempre legittimato, di fatto e« in iure », a prendere ogni iniziativa possibile in sua difesa.

Ma, contrariamente a quanto è stato da taluno affermato, il testamentobiologico, quando c’è, non è mai superfluo.

Vero è che esso non rappresenta un atto di investitura di poteri già deri-vanti « ex lege » al soggetto preposto alla cura degli interessi morali e mate-riali dell’incapace; ma di tali poteri può condizionare l’esercizio, fino ad im-porre, talora, la direttiva con effetto vincolante. Direttiva che, in ogni caso, èdestinata a far parte, nella valutazione dialettica del « best interest », dellamotivazione della decisione che sarà adottata dal rappresentante dell’infermoin contraddittorio col medico (e, di fatto, con i familiari), e poi sottoposta alvaglio del giudice.

L’intera procedura — occorre sottolineare — si svolge non già secondo ilrito contenzioso ordinario fra soggetti portatori di interessi personali, partico-lari e differenziati, ma secondo il rito della camera di consiglio, nel cui ambi-to, anche in caso di dissenso fra le persone comunque in esso coinvolte, si di-scute soltanto del superiore interesse del paziente. Procedura necessaria, per-ché si tratta di integrare con l’autorizzazione del giudice i poteri del rappre-sentante legale del malato, dato il carattere assolutamente straordinario delsuo intervento.

La blindatura processuale dell’operazione — snellita mediante la nominaurgente di un curatore speciale, o, in base ad una legge futura, dalla presenzadi un fiduciario dotato di pieni poteri — è la garanzia offerta dallo Stato didiritto per la più rigorosa osservanza dei doveri vincolanti ciascuno dei sog-getti di essa partecipi.

12. — A queste conclusioni mi induce l’approccio etico-giuridico al pro-blema, nel tentativo di delineare un modello immediatamente operativo deltestamento biologico, in attesa delle future determinazioni del legislatore.

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Al di là di tale circoscritto perimetro, si estende il dominio senza confinidell’ideologia: la vita pensata come indisponibile dono, ovvero come disponi-bile frutto della natura.

La prima concezione si risolve, per misteriosa e provvida elezione, nel-l’atto di fede; la seconda, inevitabilmente, nel messaggio del nulla.

Ma entrambe poggiano sulla stessa petizione di principio, la stessa tauto-logica affermazione, secondo la quale la verità non è il risultato della ricerca,ma la precede.

Al che si contrappone una metafora antica, evocante l’immagine dellaformica, sola nel deserto, che legittimamente ritiene il mondo composto ditanti granellini di sabbia e legittimamente si adopera nel tentativo di enume-rarli.

Non può la formica, come con può il cosmologo, dare una definizione delmondo, perché non è in grado di guardarlo e vederlo dal di fuori, essendoneparte.

Ma ogni granellino di sabbia è uno spiraglio di libertà.

Domenico Maltese

Presidente Onorario dellaSuprema Corte di Cassazione

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