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BIBLIOTECA IDEALE GIUNTI

Salammbo - Gustave Flaubert

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Romanzo storico di Gustave Flaubert, ambientato a Cartagine nel III secolo a. C., durante la Rivolta dei Mercenari che ebbe luogo immediatamente dopo la prima guerra punica.

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BIBLIOTECA IDEALE GIUNTI

GUSTAVE FLAUBERT

Salammbôa cura di

Lanfranco Binni

Titolo originale:Salammbô

Progetto grafico di copertina:Lorenzo Pacini

Il logo BIG è stato realizzato daSebastiano Ranchetti

www.giunti.it

© 1994, 2005 Giunti Editore S.p.A., Firenze - MilanoPrima edizione digitale: 2010

ISBN 9788809753518

Edizione elettronica realizzata da Simplicissimus Book Farm srl

Introduzione

GUSTAVE FLAUBERT

Gustave Flaubert nasce a Rouen, il 12 dicembre 1821, inun appartamento dell’Hôtel-Dieu assegnato al padre,Achille-Cléophas Flaubert, primario chirurgodell’ospedale.I Flaubert sono una delle famiglie più antiche dellaChampagne: proprietari terrieri, medici, funzionari. Ildottor Flaubert è un tipico rappresentante della borghesiain ascesa. Libero pensatore di formazione volterriana,liberale moderato, totalmente impegnato nella suaprofessione, possiede una biblioteca ricca di classici dellamedicina, della religione e della letteratura. A fianco diun marito dalla forte personalità, Anne Justine Carolinecostituisce una presenza passiva e muta. In famiglia legiornate sono scandite dai ritmi e dalle vicendedell’ospedale. Alcuni allievi del dottor Flaubertricorderanno di aver visto più volte il piccolo Gustaveaggirarsi per la sala anatomica: la presenza fisica dellamorte, lo spettacolo della decomposizione dei cadaveri

entrano a far parte del suo immaginario.Nel 1829 inizia a frequentare la scuola, ma si trova a

disagio con i compagni, si annoia, e comincia a costruirsiun mondo a parte. Il teatro diventa il suo gioco preferito;con la sorella Caroline, nata nel 1824, mette in scenadelle storie in una sala attigua alla sala anatomica.

Nel 1832 entra come allievo interno nel Collège Royaldi Rouen, riservato alle migliori famiglie della borghesiacittadina. Al grigiore e alla disciplina della vita di collegioFlaubert reagisce attraverso la lettura di Byron, delWerther di Goethe, di Shakespeare, stabilendo unrapporto importante con l’insegnante di francese, HenryGourgaud-Dugazon, e con l’insegnante di storia, AdolpheChéruel, che lo appassiona alla storia romana emedievale. Dalla collaborazione con Gourgaud-Dugazonnasce il giornale manoscritto «Art et Progrès» di cuiFlaubert è direttore e unico redattore; sul secondonumero, che esce nel 1835, pubblica due testi checostituiscono un documento significativo della suaformazione: Voyage en enfer [Viaggio all’inferno],percorso alla scoperta dell’onnipresenza del Male nelmondo, e Une pensée [Un pensiero], evocazionefantastica dell’amore sensuale e illusorio per una donna.

Nel 1836, durante le vacanze estive a Trouville, sullaspiaggia gli appare, magica, sensuale e materna, adulta,irraggiungibile, Élisa Schlesinger, la cui cristallizzazioneprodurrà un modello fondamentale di femminilità e diamore puro.

Nel 1837 la rivista «Le Colibri», di Rouen, gli pubblicadue racconti: Bibliomanie [Bibliomania], storiadrammatica di una “mania” vissuta fino al delitto, e Uneleçon d’histoire naturelle. Genre commis [Una lezione distoria naturale. Genere: commesso], “fisiologia” di unimpiegato abbrutito dal suo lavoro di copista, come infuturo i protagonisti di Bouvard et Pécuchet [Bouvard ePécuchet]. A llo stesso anno appartengono alcuni raccontidensi di implicazioni filosofiche ed esistenziali, tra cuiRêve d’enfer [Sogno d’inferno], in cui riappare il temasatanico del Male, e Passion et Vertu [Passione e virtù],storia di un adulterio per la quale Flaubert si ispira a unfatto di cronaca, e che svolgerà un ruolo nella genesi diMadame Bovary. In questo anno di entusiasmo einquietudine, Flaubert scopre nuovi maestri (Rabelais,Montaigne) e negli ultimi mesi tenta una sintesi dellapropria concezione del mondo: Agonies. Penséessceptiques [Agonie. Pensieri scettici], raccolta di brevitesti, frammenti autobiografici, aforismi, in un tonoappassionato e violento.

Dal 1838 continua a frequentare il Collège Royal, macome allievo esterno. Scopre Les confessions [Leconfessioni] di Rousseau e tenta un bilancio esistenzialenei Mémoires d’un fou [Memorie di un pazzo],ricostruendo la propria storia di forzato della sensibilità inun mondo «idiota»: è il limite estremo del suo febbrileromanticismo e di una scrittura usata come strumento diespressione personale.

Nel 1839, all’ultimo anno presso il Collège Royal,

Nel 1839, all’ultimo anno presso il Collège Royal,viene espulso per insubordinazione. Prepara da esterno ilbaccalauréat, e intanto si appassiona alla lettura delleopere di Sade. Conseguito il diploma nel 1840, conalcuni amici di famiglia compie un viaggio nei Pirenei e inCorsica, durante il quale riempie diciannove quaderni diappunti. A Marsiglia ha un intenso e indimenticabileincontro d’amore con la figlia del padrone dell’albergo,Eulalie Foucaud, che lo inizia al piacere sessuale. A Parigidal 1841, si iscrive alla Facoltà di diritto; suo padre hadeciso per lui: farà il giudice o l’avvocato.

Dal 1842, pur continuando a frequentare l’università ea preparare esami con «estremo disgusto», tutta la suaattenzione si concentra sul lavoro letterario. Scrive illungo racconto Novembre [Novembre], in cui appare unnuovo atteggiamento nei confronti della confessioneautobiografica: la narrazione comincia a essere concepitacome creazione d’arte, come questione di stile. E nel1843 inizia il romanzo L’éducation sentimentale[L’educazione sentimentale], con l’intenzione di osservarel’esistenza propria e della sua generazione da un punto divista oggettivo, esterno, depurato dal lirismo esuberanteche gli appare ormai troppo legato a un’adolescenzaconclusa.

Nel 1844, rientrato a Rouen per le vacanze di Natale,resta quasi ucciso da un violento attacco di epilessia checambia profondamente il corso della sua vita, e lo liberadagli incubi di un’improbabile carriera forense. Lafamiglia Flaubert si trasferisce in campagna, a Croisset, a

qualche chilometro da Rouen. Da questo momento lavilla di Croisset sarà la sua “tana”, dove ormai è libero did ed i ca r s i totalmente alla scrittura dell’Éducationsentimentale.

L’anno successivo, nel corso di un viaggio in Italia, aGenova, nella quadreria di palazzo Balbi, resta folgoratoda un quadro di Bruegel il Giovane, La tentazione disant’Antonio: una composizione complessa, brulicante dipersonaggi, dettagli, toni, colori. Quel soggetto e quellapotente visione d’insieme diventeranno presto centrali nellaboratorio di Flaubert.

Nel gennaio 1846 muore il padre, dopo pochi mesi lasorella Caroline. La perdita del genitore, ma ancora di piùquella della sorella, gettano Gustave in uno stato diprofonda prostrazione. Nello stesso anno, a Parigi, iniziauna relazione intensa e tormentata con Louise Colet ecomincia a lavorare alla prima stesura della Tentation desaint Antoine, documentandosi scrupolosamentesull’epoca in cui si svolge la storia del suo santo – il IVsecolo, il periodo della decadenza alessandrina.

Da maggio ad agosto 1847 compie un viaggio inBretagna in compagnia dell’amico Maxime Du Camp;insieme tengono un diario. Al ritorno, scrivono a quattromani Par les champs et par les grèves [Attraverso i campie lungo i greti], un “esercizio di stile” estenuante.

Durante la rivoluzione del febbraio 1848 è a Parigi. Leconseguenze degli avvenimenti, a cui assiste consostanziale distacco e che farà rivivere nella seconda

versione dell’Éducation sentimentale, costituiscono perFlaubert una conferma ulteriore del suo profondopessimismo: dietro i clamori e i cambiamenti apparenti,la tragedia di una condizione esistenziale immodificabile.Nel settembre 1849 conclude La tentation de saintAntoine: l’opera è un quadro imponente, animato da unagrande varietà di toni stilistici, dal lirismo all’ironia, dalgrottesco all’erudizione, che “tiene” per la forza di un’ideagenerale della composizione, di un punto di vista unitario(l’eremita Flaubert) sullo spettacolo del mondo. Latentation de saint Antoine rimarrà un cantiere aperto; neusciranno una seconda redazione nel 1856 e una terza,definitiva, nel 1872.

Il 29 ottobre, sempre del 1849, Flaubert e Du Camppartono per un viaggio in Oriente; si imbarcano aMarsiglia, diretti ad Alessandria. Poi, a cavallo,attraversano il deserto alla volta del Cairo. È il viaggio nelfavoloso Oriente sul quale Flaubert fantastica da sempre;durerà quasi due anni, rimanendo indelebile nella suasensibilità.

Rientra in Francia nel 1851, precocemente invecchiatoe rafforzato nella sua generale concezione del mondo:l’esperienza di un radicale “spaesamento” dal quotidianoborghese provocato dalla repentina immersione negliabissi della Storia, in culture lontane e diverse da quellaoccidentale, dà una nuova consistenza alle sue intuizionifilosofiche sulla solitudine dell’esistenza umana, sullosprofondare del presente negli abissi dell’atemporalità edella materia, e alla convinzione che soltanto attraverso la

della materia, e alla convinzione che soltanto attraverso lacreazione artistica l’uomo può sfuggire al proprio destinodi soccombere al nulla. A settembre inizia il romanzoMadame Bovary, uno scavo esasperante nelle dinamichequotidiane di una storia di ordinaria vita borghese: vilavorerà per quasi cinque anni nell’isolamento di Croisset,concludendolo nell’aprile 1856.

Per disintossicarsi dalla sua storia “borghese”, riprendeil lavoro sulla Tentation de saint Antoine, e abbozza Lalégende de saint Julien l’hospitalier [La leggenda di sanGiuliano ospitaliere], che scriverà vent’anni dopo.

Alla sua pubblicazione, prima su rivista e poi involume, Madame Bovary provoca scandalo per il crudorealismo – Flaubert viene addirittura processato peroltraggio alla morale pubblica e religiosa – ma è ancheun grande successo editoriale, e diventa un riferimentoobbligato nel dibattito in corso sulla questione delrealismo e dell’arte per l’arte.

Nel marzo 1857, Flaubert sta già pensando a un nuovoprogetto: «Voglio scrivere», annuncia a un’amica, «unromanzo la cui azione si svolgerà tre secoli prima diCristo, perché sento il bisogno di uscire dal mondomoderno in cui la mia penna si è intinta troppo a lungo eche d’altra parte mi stanca rappresentare quanto midisgusta vedere». È Salammbô, cui Flaubert dedicheràcinque anni di lavoro. Nell’aprile-giugno 1858, perdocumentarsi sullo scenario del nuovo romanzo, compieun viaggio in Algeria e in Tunisia. Rientrato a Croisset,inizia la stesura del romanzo “cartaginese”, che conclude

nell’aprile 1862. Pubblicato a novembre, il romanzoottiene un grande successo di pubblico.

Nel 1864 inizia a lavorare alla seconda versionedell’Éducation sentimentale. Con il consueto rigorescientifico si documenta su ogni aspetto del periodostorico (dal 1840 al 1869), dell’ambiente sociale (laborghesia parigina, i ceti popolari), delle posizionipolitiche (dai socialisti ai conservatori) e dei luoghi in cuisi svolgerà il romanzo. È il tempo storico del mediocretrionfo della vita borghese sulle aspirazioni di unagenerazione che si è nutrita di illusioni romantiche; ma èanche, per Flaubert, l’età della maturità, dellaconsapevolezza sempre maggiore della propria identità ditestimone separato, disincantato, padrone dei propristrumenti creativi. Pubblicato nel novembre 1869,L’éducation sentimentale sconcerta il pubblico, che nonama veder raffigurare il proprio tempo con toni cosìprofondamente disperanti, e incontra l’aperta ostilità dellacritica.

Gli avvenimenti del 1870-1871, la guerra franco-prussiana, la disfatta, la Comune, coinvolgono Flaubert. Iprussiani occupano Croisset e alcuni ufficiali si installanoin casa Flaubert, dove l’ “eremita” può rientrare solonell’aprile del 1871. Nel marzo 1872 muore la madre. Incasa con lui resta una nipote; i disastri economici delmarito di lei travolgeranno presto lo stesso Flaubert. Aluglio la terza versione della Tentation de saint Antoine èconclusa: «È l’opera di tutta la mia vita». E subitoFlaubert si mette a lavorare a «un romanzo moderno [...]

Flaubert si mette a lavorare a «un romanzo moderno [...]che avrà la pretesa di essere comico». È Bouvard etPécuchet, una profonda e radicale negazione del mondomoderno, dei suoi valori e dei suoi miti attraverso ilracconto delle vicende grottesche di due copisti che siimpegnano nello studio e nella verifica personale dellescienze e delle arti, subendo le disastrose conseguenze diogni loro esperienza; il romanzo è anche lo sviluppo diquel Dictionnaire des idées réçues [Dizionario dei luoghicomuni] nel quale Flaubert ha raccolto nel corso deglianni un repertorio delle sciocchezze umane.

Negli anni 1875-1877, nelle pause di Bouvard etPécuchet, scrive La légende de saint Julien l’hospitalier,Un coeur simple [Un cuore semplice] e Hérodias[Erodiade], che nel 1877 raccoglie in Trois contes [Treracconti]: un trittico prezioso, stilisticamente perfetto, chericeve un’accoglienza entusiastica. Il parnassianoThéodore de Banville saluta in Flaubert un «genio»; igiovani scrittori – Maupassant, Huysmans, Mirbeau... –acclamano in lui un maestro. Tuttavia, le difficoltàeconomiche continuano a ossessionarlo. Nel 1879Edmond de Goncourt e la principessa Mathilde cercano difargli ottenere un impiego come conservatore allaBibliothèque Mazarine. Per Flaubert è un’umiliazione.Finisce per accettare una pensione di conservatoreonorario, senza obbligo di presenza.

L’8 maggio 1880 muore a Croisset, fulminato daun’emorragia cerebrale.

SALAMMBÔ

Nauseato di Parigi, di Madame Bovary e del suo assurdoprocesso, nel marzo 1857, neppure un mese dopo ilritorno a Croisset, Flaubert è già immerso in un altroprogetto. Il nuovo romanzo non avrà niente a che farecon la sfida “realistica” di Madame Bovary. Non solo sisvolgerà nel remoto e ignoto passato di Cartagine, ma nesarà profondamente diverso lo stile. Dopo le costrizioniestenuanti di un soggetto volgare e quotidiano, Flauberttorna a confrontarsi con le pulsioni più segrete e violentedella propria immaginazione, che lo accompagnano findall’adolescenza e costituiscono una componentefondamentale della sua poetica.

L’ “idea” la deve a Polibio. Nel Libro I delle Storie haincontrato le pagine dedicate alla rivolta dei Mercenaricontro Cartagine, al termine della prima guerra punica,nel secolo III a.C. Su quell’episodio, Polibio è l’unica fonteantica, all’origine delle notizie degli storici successivi.Prima di lui, il vuoto. Ma soprattutto è ignoto tutto ciòche riguarda Cartagine e la civiltà punica. Flaubert siimmerge in ricerche bibliografiche, consulta volumi diarcheologia, testi di storia e di letteratura, riempiequaderni di appunti. A novembre ha già abbozzato unaprima versione del primo capitolo di Chartage. Laprotagonista non si chiama ancora Salammbô ma Hanna.Continua ad accumulare letture, appunti. Hanna diventaPhyrra, poi Salammbô. Cambia titolo: da Chartage aSalammbô, roman cartaginois. Passa l’inverno a riscrivere

il primo capitolo, ad abbozzare il secondo; lavorasull’impianto generale del romanzo, su singole“sceneggiature”. I libri di archeologia e di storia nonbastano più. Ha bisogno di “sentire” fisicamente lamateria del romanzo. I ricordi del viaggio in Orientecompiuto tra il 1849 e il 1851 cominciano adaccompagnare le sue letture e le sue fantasie, a crearecolori e sensazioni. Nei mesi successivi, l’idea di tornarein Oriente per documentarsi sui luoghi in cui si svolgeràla vicenda, è sempre più forte. Il 12 aprile 1858 siimbarca a Marsiglia. Attraverso l’A lgeria, Tunisi, le rovinedi Utica (la base militare di Roma in Africa), si avvicinalentamente a Cartagine. Giunto alla meta, si aggira perquattro giorni fra le rovine della città punica e neidintorni. Verifica sul posto le informazioni che ha raccoltodai libri, si lascia travolgere dall’immaginazione, respira apieni polmoni un grande momento di libertà. Poi ilritorno: Biserta, ancora Tunisi, Costantina... A lla fine dimaggio si imbarca di nuovo per Marsiglia, e il 6 giugno èa Parigi. Rientrato a Croisset, riordina gli appunti di cuiha riempito numerosi quaderni. Ora si sente pronto.Consapevole delle difficoltà dell’impresa («A me, potenzedell’emozione plastica! Resurrezione del passato, a me!»)si mette al lavoro.

Il progetto è dunque la resurrezione “plastica” diCartagine e della sua perduta civiltà, sottraendole all’obliocon la forza dello stile. L’impresa è inedita, e il metodoche Flaubert intende seguire è del tutto diverso rispetto aquel l o rigorosamente applicato in Madame Bovary:

mentre nel romanzo “borghese” si è impegnato a scavarecon tenacia il reale quotidiano con l’obiettivo dellaricreazione impersonale, depurata di ogni esuberanzalirica, in Salammbô si abbandonerà liberamente a ognieccesso, con lo scopo di oggettivare in creazione d’arte lepotenti suggestioni della sua immaginazione. La guerratra Cartagine e i Mercenari ribelli, l’impossibile storiad’amore di Salammbô e Mâtho, saranno lo scenario diuna discesa allucinata nell’inferno degli ancestrali istintiumani, liberati in tutta la loro forza distruttiva. È perFlaubert una grande catarsi, cui si abbandona senzariserve, eccitato, stravolto. Le condizioni del manoscritto,con le sue molteplici versioni, riscritture, furiosecancellature, sono la testimonianza drammatica di unalotta incessante con le parole. La vera questione, ancorauna volta, è lo stile: Cartagine può risorgere soltanto invirtù della forza stilistica del suo evocatore, perché lafaccia vivere di vita propria e duratura, come creazioned’arte.

Ma cosa rappresenta Cartagine? Perché Flaubert hatrovato nella rivolta dei Mercenari contro la Repubblica ilnucleo tematico e narrativo del suo romanzo punico? Si ègià detto del carattere sostanzialmente inedito dellavicenda: dopo Madame Bovary, finalmente un soggettolibero da legami esterni, pressoché ignoto, da indagare incompleta libertà. Nel racconto di Polibio, la guerra tra iMercenari e Cartagine ha tutte le caratteristiche di unaguerra civile, fratricida. È lo scenario ideale per unanarrazione che attraversi la Storia in tutte le sue

narrazione che attraversi la Storia in tutte le suestratificazioni, dal passato remoto al presente. In effetti loscenario “barbaro” di Salammbô ha molto a che fare conla Francia del XIX secolo, alla vigilia dell’esplosionerivoluzionaria della Comune di Parigi. La rivolta deiMercenari contro Cartagine è una guerra di classe traschiavi e padroni, tra operai e Capitale, che inizia inseguito alla rottura di un contratto. L’armatore Amilcare èun industriale moderno; le sue strategie militaririspondono a logiche economiche; il suo palazzo èorganizzato come una grande fabbrica; usa la religionecome strumento di potere. E l’«elepoli» non è forse unapossente metafora del macchinismo industriale? E iMercenari, i Barbari, non minacciano forse la civiltà el’ordine esattamente come le «classi pericolose»? Attentoalle tensioni del proprio tempo, capace di percepirle,Flaubert le vive e le accoglie nel proprio immaginario,nell’inesauribile caleidoscopio delle proprie “tentazioni”.Questa presenza inquietante della Storia contemporaneadietro una scenografia cartaginese costituisceindubbiamente un elemento formidabile di ambiguitàpoetica, efficace sia nella fase della creazione che inquella della lettura.

Cartagine è poi l’Oriente, il teatro dei misteri essenzialidella vita e della morte, della sessualità, dell’immaginariofisico e metafisico di Flaubert fin dall’adolescenza, loscenario sempre presente della Tentation de saintAntoine. Ma soprattutto l’Oriente è l’universo di tutti gliuniversi possibili, la Babele dei linguaggi e delle culture,

della ricerca infinita e delle grandi sintesi filosofiche ereligiose. A un presente reso intollerabile anche dallavolgarità e dalla mediocrità borghese Flaubert intendeopporre un radicale spaesamento in una civiltà “altra”,sentendosi libero di penetrare regioni ignote e proibitedella condizione umana.

Su questo immenso e complesso scenario, Cartagineemerge dal nulla come in un acquerello di Turner, dura ecompatta, dorata, purpurea, sfavillante di suoni ebrulicante di forme, con i colori di Delacroix. È lo stile, lacapacità di vedere e di creare, il vero protagonista diSalammbô. All’interno di una struttura narrativa che vivedi grandi opposizioni simboliche, conflittuali e dinamiche(il banchetto dei Mercenari all’inizio del romanzo e lospeculare banchetto dei Cartaginesi alla fine, Salammbô eMatho simboli della Luna e del Sole, della notte e delgiorno, del femminile e del maschile, le folle dei Barbari edei Cartaginesi), tutto è risolto in rappresentazione. Ipaesaggi, le grandiose scene di massa, i costumi, i minutiframmenti di vita quotidiana, i dialoghi, le scene atroci,sono concrezioni di materia oggettivata. Tutto è comepietrificato, definitivo, immobile. I colori sono crudi,violenti fino all’eccesso. Tutto è osservazione a distanza,o comunque separata. Lo scenario di Salammbô èsospeso nel vuoto, circondato dal vuoto, immerso in ungrande silenzio. Eppure quei paesaggi pietrificati, quellemasse di armati, quelle scene di vita quotidiana strappateal vuoto e al nulla sono dotate di movimento. Amuoversi, con ritmi e velocità diversi, ora con lentezza

estenuante ora con accelerazioni improvvise, è il punto diosservazione. Il movimento nasce dall’incontro tra lavisione prospettica e l’oggetto, tra la descrizione el’azione.

Le parole sono oggetti, concrezioni da sfiorare, daafferrare. Le frasi devono essere cesellate. I tempi deiverbi svolgono un ruolo essenziale nel rendere eternaun’azione (l’imperfetto) o nel bloccare un movimento(l’alternarsi di imperfetto e perfetto). L’uso ricorrente dicongiunzioni e di avverbi crea effetti di accumulazione, diampliamento della visione o di accelerazione delmovimento. I termini tecnici, scrupolosamente ricercatida Flaubert nei suoi libri di archeologia, non sono usatitanto per restituire “colore locale” quanto piuttosto perrafforzare effetti di “spaesamento”. Ne nasce quella prosa«dura come il bronzo, lucente come l’oro» – l’espressioneè di Zola – che sarà ammirata da Gautier e daiparnassiani. Quella prosa costruita come poesia,compatta e lucente, duratura, che sfida la morte, non ètuttavia il prodotto di astratti esercizi di stile. InSalammbô Flaubert persegue anzitutto quella ricerca dellaverità che ha iniziato nei primi scritti autobiografici. Congrande coraggio, talvolta con feroce piacere, il chirurgoche aveva dissezionato il cuore di Madame Bovary inpunta di bisturi, scende senza alcuna protezione neisotterranei sulfurei della sessualità, della violenza, dellacrudeltà. Presenza di Sade? Certamente. Ma ancheelaborazione personale di uno scrittore che non ha maismesso di ricercare le ragioni profonde della propria

smesso di ricercare le ragioni profonde della propriascrittura, e che si mette costantemente in gioco.

LANFRANCO BINNI

Salammbô

IIl festino

Accadde a Megara, quartiere di Cartagine, nei giardini diAmilcare.

I soldati che Barca aveva comandato in Sicilia sistavano concedendo un gran banchetto per celebrarel’anniversario della battaglia di Erice,1 e poiché il padroneera assente ed erano in molti, mangiavano e bevevano inpiena libertà.

I capitani, calzati di bronzei coturni, stavano sul vialecentrale, sotto un velario di porpora a frange d’oro,disteso dal muro delle scuderie alla prima terrazza delpalazzo. I soldati erano sparsi sotto gli alberi tra i quali siscorgevano numerosi edifici dal tetto piatto, frantoi,dispense, magazzini, forni, arsenali, e poi un recinto pergli elefanti, fossati per le bestie feroci, una prigione pergli schiavi.

A lberi di fico circondavano le cucine; un bosco disicomori si estendeva fino a grandi macchie divegetazione dove, tra i bianchi ciuffi di cotone,

splendevano i melograni; viti cariche di grappoli siarrampicavano tra i rami dei pini; un campo di rose erasbocciato sotto i platani; qua e là, tra l’erba,ondeggiavano gigli; una sabbia nera, mista a polvere dicorallo, era sparsa sui sentieri, e al centro il viale deicipressi sembrava formare da un capo all’altro un doppiocolonnato di obelischi verdi.

Sullo sfondo il palazzo, tutto di marmo numidioscreziato di venature gialle, sovrapponeva su larghibasamenti quattro piani a terrazza. Col suo grandescalone diritto di legno d’ebano, che agli angoli di ognigradino sosteneva la prua di una galea vinta, con le porterosse inquartate da una croce nera, le grate di bronzo chein basso lo proteggevano dagli scorpioni e le grate dicanne dorate che in alto chiudevano ogni apertura, ilpalazzo appariva ai soldati, nella sua truce opulenza,solenne e impenetrabile come il volto di Amilcare.

Il Consiglio2 aveva assegnato loro la sua casa pertenervi il festino; i convalescenti ricoverati nel tempio diEshmun,3 che si erano messi in cammino all’alba, sierano trascinati fin lì sulle loro grucce. Continuavano adarrivare. Ne sbucavano continuamente da ogni sentiero,come torrenti che si gettino in un lago. Si vedevanocorrere tra gli alberi gli schiavi delle cucine, spaventati eseminudi; belando, le gazzelle fuggivano sui prati; il soletramontava e il profumo dei limoni rendeva ancor piùgrevi le esalazioni di quella folla in sudore.

C’erano uomini di tutte le nazioni, Liguri, Lusitani,

Balearici, Negri e disertori di Roma. Accanto al grevedialetto dorico, si udivano le sillabe celtiche sonore comecarri da battaglia, e le desinenze ioniche cozzavanocontro le consonanti del deserto, aspre come grida disciacalli. Si riconosceva il Greco dalla corporatura minuta,l’Egizio dalle spalle rialzate, il Cantabrico dai polpaccimassicci. I Carii facevano ondeggiare con orgoglio lepiume degli elmi, gli arcieri di Cappadocia si erano dipintisul corpo, con succhi d’erbe, grandi fiori, e qualche Lidiovestito da donna e con gli orecchini mangiava inpantofole. Altri che per la festa si erano imbrattati dicinabro, sembravano statue di corallo.

Se ne stavano sdraiati sui cuscini, mangiavanoaccovacciati intorno ai grandi vassoi, oppure, sdraiati sulventre, afferravano i pezzi di carne e si saziavanoappoggiati sui gomiti, nella placida posizione dei leoniintenti a sbranare la preda. Gli ultimi venuti, in piedicontro gli alberi, guardavano, in attesa del loro turno, ibassi tavoli che quasi scomparivano sotto tappetiscarlatti.

Poiché le cucine di Amilcare non erano sufficienti, ilConsiglio aveva inviato schiavi, stoviglie, letti; e sivedevano al centro del giardino, come su un campo dibattaglia quando si bruciano i morti, grandi fuochiabbaglianti sui quali stavano arrostendo dei buoi. I panicosparsi di anice si alternavano ai grandi formaggi piùpesanti di macine, ai crateri pieni di vino, alle anforepiene d’acqua, ai cesti in filigrana d’oro ricolmi di fiori. Lagioia di potersi finalmente ingozzare a volontà spalancava

gioia di potersi finalmente ingozzare a volontà spalancavagli occhi di tutti; qua e là si cominciava a cantare.

Per prima cosa furono serviti uccelli in salsa verde, inpiatti d’argilla rossa con bordi a disegni neri, poi tutte lespecie di frutti di mare che si trovano sulle coste puniche,farinate di grano, di fave e d’orzo, e lumache al cuminosu piatti d’ambra gialla.

Poi i tavoli furono ricoperti di carni: antilopi con le lorocorna, pavoni con le penne, interi montoni cotti in vinodolce, cosci di cammella e di bufalo, ricci al garo,4 cicalefritte e ghiri in umido. In gamelle di legno diTamrapanni,5 grandi pezzi di grasso galleggiavano nellozafferano. L’aria era impregnata di odore di salamoia,tartufi e assafetida.6 Le piramidi di frutta crollavano suidolci al miele, e non ci si era dimenticati di quei piccolicani panciuti e dalle rosee setole che venivano ingrassaticon sansa d’olive, cibo cartaginese abominevole per glialtri popoli. La novità dei cibi eccitava l’avidità deglistomaci. I Galli dai lunghi capelli raccolti sulla testa, sistrappavano di mano i cocomeri e i limoni chedivoravano con la buccia. Alcuni Negri che non avevanomai visto le aragoste, si graffiavano la faccia con le loropinze rosse. I Greci dal volto rasato, più bianchi delmarmo, si gettavano dietro le spalle i resti dei loro piatti,mentre i pastori del Bruzio,7 vestiti di pelli di lupo,divoravano in silenzio, con la testa sul piatto.

Scendeva la notte. Venne tolto il velario steso sul vialedei cipressi e furono portate delle fiaccole.

Le luci vacillanti del petrolio che bruciava in vasi di

porfido spaventarono, in alto sui cedri, le scimmie sacrealla Luna; si misero a strillare, suscitando l’allegria deisoldati.

Fiamme oblunghe tremavano sulle corazze di bronzo.Scintillii di ogni genere sprizzavano dai piatti incrostati dipietre preziose. I crateri, con i bordi di specchietticonvessi, moltiplicavano l’immagine ingrandita dellecose; i soldati vi si affollavano intorno, per rimirarsi constupore, e facevano smorfie per ridere. Si lanciavano,sopra i tavoli, gli sgabelli d’avorio e le spatole d’oro.Tracannavano i vini greci dagli otri, i vini di Campaniadalle anfore, i vini dei Cantabrici dai barili, e i vini digiuggiolo, di cinnamomo e di loto. Ce n’eranopozzanghere per terra, e vi si scivolava. Il fumo dellecarni saliva tra il fogliame col vapore dei fiati. Si udivano,in un unico frastuono, il battito delle mascelle, il rumoredelle parole, il fracasso dei vasi campani che sirompevano in mille pezzi, o il suono limpido di ungrande piatto d’argento.

Più cresceva l’ebbrezza, e più chiaro diventava in loro ilricordo dell’ingiustizia di Cartagine. Infatti la Repubblica,stremata per la guerra, aveva lasciato che siconcentrassero in città tutte le bande che ritornavano.Giscone,8 il loro generale, aveva tuttavia avutol’accorgimento di farli rientrare alla spicciolata, perfacilitare il loro pagamento, e il Consiglio aveva credutoche avrebbero finito per accettare qualche riduzione delcompenso pattuito. Ma ora si provava del rancore nei

loro confronti, per il fatto di non poterli pagare. Nelsentire comune dei Cartaginesi questo debito siconfondeva con i tremiladuecento talenti euboici pretesida Lutazio,9 e così anche loro, come Roma, eranoconsiderati nemici di Cartagine. I Mercenari se nerendevano conto, e la loro indignazione esplodeva inminacce e intemperanze. Infine avevano chiesto diriunirsi per celebrare una delle loro vittorie, e il partitodella pace acconsentì, vendicandosi di Amilcare che tantoaveva sostenuto la causa della guerra; infatti eraterminata malgrado la sua tenace insistenza, e così,disperando di Cartagine, Amilcare aveva affidato aGiscone il comando dei Mercenari. Farli riunire nel suopalazzo significava scaricare su di lui parte dell’odio di cuierano oggetto. Inoltre la spesa, che doveva esserenotevole, sarebbe stata quasi interamente a suo carico.

Fieri di aver piegato la Repubblica, i Mercenaricredevano che finalmente sarebbero tornati alle loro case,con la paga del loro sangue nel cappuccio del mantello.Ma le fatiche, riviste attraverso i vapori dell’ebbrezza,apparivano loro prodigiose e malamente ricompensate. Simostravano l’un l’altro le ferite, si raccontavano icombattimenti, i viaggi e le cacce nei loro paesi.Imitavano i versi delle bestie feroci e i loro balzi. Poigiunse il momento delle bravate immonde; affondavanola testa nelle anfore e bevevano senza mai prendere fiato,come dromedari assetati. Un Lusitano, di corporaturagigantesca, che sosteneva un uomo con ogni braccio,

passava attraverso i tavoli sputando fuoco dalle narici.A lcuni Lacedemoni che non si erano tolti la corazzasaltavano pesantemente. Altri avanzavano con mossefemminili, facendo gesti osceni; altri ancora sidenudavano per combattere, tra le coppe, comegladiatori; una compagnia di Greci danzava intorno a unvaso sul quale erano raffigurate delle ninfe, mentre unNegro batteva con un osso di bue su uno scudo dibronzo.

Improvvisamente si udì un canto lamentoso, un cantoforte e dolce che scendeva e saliva nell’aria, come unbattito d’ali di un uccello ferito.

Era la voce degli schiavi nell’ergastolo. Alcuni soldati,per liberarli, si alzarono di scatto e scomparvero.

Tornarono spingendo avanti, tra le grida, nellapolvere, una ventina di uomini che si distinguevano per ilvolto più pallido. Un berretto di forma conica, in feltronero, copriva le loro teste rasate; tutti portavano sandalidi legno e facevano un rumore di ferraglia come carri incorsa.

Giunsero nel viale dei cipressi, dove si dispersero tra lafolla che li interrogava. Uno di loro era rimasto indisparte, in piedi. Attraverso gli strappi nella tunica gli sivedevano le spalle solcate da lunghe cicatrici.Abbassando il mento, si guardava intorno diffidente esocchiudeva le palpebre al bagliore delle fiaccole; maquando vide che nessuno di quegli uomini in armi cel’aveva con lui, un gran sospiro gli sfuggì dal petto;

balbettava, ridacchiava, mentre grandi lacrime glilavavano il viso; poi afferrò per le anse un cantaro pienodi vino, lo sollevò in alto con le braccia da cui pendevanole catene e, con lo sguardo fisso al cielo, continuando atenere sollevata la coppa, disse:

«Innanzitutto salute a te, Baal-Eshmun10 liberatore,che la gente della mia patria chiama Esculapio! E salute avoi, dèi nascosti sotto le montagne e nelle caverne dellaterra! E a voi, uomini forti dalle lucenti armature, che miavete liberato!».

Poi riabbassò la coppa e raccontò la sua storia. Sichiamava Spendio.11 I Cartaginesi l’avevano catturatonella battaglia delle Eginuse;12 parlando in greco, ligure epunico, ringraziò ancora una volta i Mercenari; e baciavaloro le mani. Infine si congratulò per il banchetto,mostrandosi tuttavia stupito di non vedere sui tavoli lecoppe della Legione sacra. Quelle coppe, decorate con untralcio di vite di smeraldi su ognuna delle sei facce d’oro,appartenevano a una milizia composta esclusivamente dagiovani patrizi, i più alti di statura. Erano il segno di unprivilegio, quasi un onore sacerdotale; per questa ragionenon c’era niente tra i tesori della Repubblica che iMercenari desiderassero di più. E detestavano la Legioneproprio a causa di quelle coppe, e più di una volta si eravisto qualcuno rischiare la vita per l’inconcepibile piaceredi bervi.

Dunque ordinarono di andare a prendere le coppe, cheerano custodite dai Sissizi, compagnie di commercianti

che mangiavano in comune. Gli schiavi ritornarono. Aquell’ora tutti i membri dei Sissizi dormivano.

«Svegliateli!», replicarono i Mercenari.Dopo un secondo tentativo, si spiegò loro che le coppe

erano chiuse in un tempio.«Apritelo!», risposero.E quando gli schiavi, tremanti, ebbero confessato che

le coppe erano nelle mani del generale Giscone,gridarono:

«Le porti qui!».Ben presto Giscone apparve in fondo al giardino, in

mezzo a una scorta della Legione sacra. Il suo ampiomantello nero, trattenuto sulla testa da una mitra d’orocostellata di pietre preziose, pendente tutt’intorno finoagli zoccoli del cavallo, si confondeva, da lontano, con ilcolore della notte. Non si scorgeva altro che la barbabianca, lo scintillio del copricapo e il triplice collare dilarghe piastre azzurre che gli batteva sul petto.

I soldati, appena fece il suo ingresso, lo salutaronocon una grande acclamazione, gridando tutti insieme:

«Le coppe! Le coppe!».Cominciò dichiarando che, considerato il loro valore,

ne erano certamente degni. La folla urlò di gioia,applaudendo.

Lo sapeva bene, lui che li aveva comandati laggiù, edera ritornato con l’ultima coorte sull’ultima galea!

«È vero! È vero!», dicevano.Tuttavia, continuò Giscone, la Repubblica aveva

rispettato le loro divisioni in popoli, i loro costumi, i loroculti; ed erano liberi a Cartagine! Quanto ai vasi dellaLegione sacra, erano di proprietà privata. Tutt’a un tratto,accanto a Spendio, un Gallo si lanciò sopra i tavoli, corsediritto verso Giscone, e lo minacciò gesticolando con duespade sguainate.

Il generale, senza interrompersi, lo colpì sulla testacon il pesante scettro d’avorio: il Barbaro cadde. I Galliurlavano, e il loro furore, comunicandosi agli altri, stavaper trascinare i legionari. Vedendoli impallidire, Gisconealzò le spalle. Pensava che il suo coraggio sarebbe statoinutile contro quei bruti inferociti, esasperati. Era megliovendicarsene più tardi, con qualche astuzia; così fece uncenno ai soldati e si allontanò lentamente. Poi, giuntosotto l’arco della porta, rivolto ai Mercenari gridò loro chese ne sarebbero pentiti.

Il banchetto ricominciò. Ma Giscone poteva tornare e,accerchiando il sobborgo che si addossava agli ultimibastioni della città, schiacciarli contro le mura. Allora sisentirono soli nonostante fossero una folla; e la grandecittà che dormiva sotto di loro, nell’ombra, d’un tratto liimpaurì con le sue scale sovrapposte, i suoi alti edificineri e i suoi strani dèi, ancora più feroci dei suoi abitanti.In lontananza, qualche fanale scivolava sul porto ec’erano luci nel tempio di Khamon.13 Si ricordarono diAmilcare. Dov’era? Perché li aveva abbandonati, unavolta conclusa la pace? Sicuramente i suoi conflitti con ilConsiglio non erano altro che una trama per rovinarli.

Ora il loro odio represso ricadeva su di lui; e lomaledicevano, esasperandosi a vicenda con la lorocollera. In quel momento si formò un assembramentosotto i platani, intorno a un Negro che si rotolava perterra sbattendo le membra, gli occhi sbarrati, il collotorto, la schiuma alla bocca. Qualcuno gridò che era statoavvelenato. Tutti credettero di essere stati avvelenati. Siprecipitarono sugli schiavi; si alzò un clamore terrificantee un vortice di distruzione si abbatté sull’esercito ubriaco.Colpivano a caso intorno a sé, spaccando e uccidendo:alcuni lanciarono fiaccole tra il fogliame; altri, appoggiatialla balaustrata dei leoni, li massacrarono a colpi difreccia; i più temerari corsero verso gli elefanti, pertagliare loro la proboscide e mangiarne l’avorio dellezanne.

Intanto i frombolieri balearici, che per saccheggiarepiù comodamente avevano svoltato l’angolo del palazzo,furono fermati da un’alta barriera di canne d’India.Tagliarono coi pugnali le corregge della serratura e sitrovarono sotto la facciata che dava su Cartagine, in unaltro giardino ricco di piante accuratamente potate. Filaridi fiori bianchi, susseguendosi sulla terra azzurrina,descrivevano lunghe parabole, come scie di stelle. Icespugli, pieni di tenebre, esalavano odori caldi, delsapore del miele. C’erano tronchi d’alberi imbrattati dicinabro che sembravano colonne insanguinate. Nelmezzo, dodici piedistalli di rame sostenevano ognunouna grande sfera di vetro, e bagliori rossastri riempivanoconfusamente quei globi cavi, come enormi pupille

ancora palpitanti. I soldati facevano luce con delle torce,avanzando incerti sul terreno scosceso e smosso inprofondità.

Scorsero infine un laghetto, diviso in numerosi bacinida pareti di pietre azzurre. L’acqua era così limpida che lefiamme delle torce tremavano fino sul fondo, un letto dipietre bianche e di polvere d’oro; si mise a ribollire,pagliuzze luminose si agitarono, e apparvero in superficiegrossi pesci che portavano intorno alla gola pietrepreziose.

I soldati, con grandi risate, infilarono le dita nellebranchie dei pesci e li portarono in tavola.

Erano i pesci della famiglia Barca. Tutti discendevanoda quei pesci primordiali che avevano fatto schiuderel’uovo mistico in cui si celava la dea.14 L’idea di compiereun sacrilegio risvegliò la ghiottoneria dei Mercenari;subito accesero i fuochi sotto vasi di bronzo e sidivertirono a guardare quei bei pesci che si dibattevanonell’acqua bollente.

I soldati si accalcavano. Non avevano più paura.Ricominciavano a bere. Gli unguenti che colavano dallefronti inzuppavano di larghe gocce le tuniche a brandelli;alcuni, appoggiati con i gomiti sui tavoli che a lorosembravano ondeggiare come navi, volgevano attorno igrandi occhi ebbri, per divorare con lo sguardo ciò chenon potevano prendere. Altri, camminando tra i piattisulle tovaglie di porpora, fracassavano a calci gli sgabellid’avorio e le fiale di vetro di Tiro. Le canzoni si

mescolavano al rantolo degli schiavi agonizzanti tra lecoppe infrante. Chiedevano vino, carni e oro. Deliravanoin cento lingue. Alcuni credevano di trovarsi in untepidario, per tutto il vapore che fluttuava intorno,oppure, vedendo il fogliame, immaginavano di essere acaccia e si gettavano sui loro compagni come fosserobestie selvagge. L’incendio si propagava da un alberoall’altro e gli alti fogliami, da cui fuggivano lunghe spiralibianche, sembravano vulcani che cominciassero afumare. Il clamore cresceva; i leoni feriti ruggivanonell’ombra.

D’un tratto si illuminò la terrazza più alta del palazzo,la porta centrale si aprì, e una donna, la figlia diAmilcare, proprio lei, coperta di vesti nere, apparve sullasoglia. Scese la prima rampa di scale che fiancheggiavaobliqua il primo piano, poi la seconda, la terza, e sifermò sull’ultima terrazza, in cima alla gradinata dellegalee. Immobile, a testa bassa, guardava i soldati.

Dietro di lei, sui due lati, si svolgevano due lungheteorie di uomini pallidi, vestiti di bianche tuniche confrange rosse che cadevano dritte sui piedi. Non avevanoné barba, né capelli, né sopracciglia. Con le maniscintillanti di anelli reggevano delle enormi lire e tutticantavano, con voce acuta, un inno alla divinità diCartagine. Erano i sacerdoti eunuchi del tempio di Tanit,che Salammbô15 chiamava spesso presso di sé.

Finalmente scese la gradinata delle galee. I sacerdoti laseguirono. Avanzò nel viale dei cipressi, camminando

lentamente tra i tavoli dei capitani, che indietreggiavanoper guardarla passare.

La capigliatura, incipriata di polvere di violette eraccolta sulla testa a forma di torre secondo l’usanza dellevergini cananee, la faceva sembrare più alta. Pendenti diperle intrecciate scendevano dalle tempie fino agli angolidella bocca, rosa come una melagrana socchiusa. Sul suopetto, una distesa di pietre luminose scintillava screziatacome scaglie di murena. Le braccia, adorne di diamanti,uscivano nude dalla tunica senza maniche, costellata difiori rossi su fondo nero. Portava tra le caviglie unacatenella d’oro per regolare il passo, e il suo ampiomantello di porpora scura, tagliato in una stoffasconosciuta, si trascinava a terra dietro di lei, formandouna grande onda a ogni suo passo.

Di tanto in tanto i sacerdoti pizzicavano sulle lireaccordi sommessi, e nelle pause si udiva l’esile tintinniodella catenella d’oro e lo scricchiolio regolare dei sandalidi papiro.

Nessuno ancora la conosceva. Si sapeva soltanto cheviveva ritirata, dedita a pratiche religiose. Alcuni soldatil’avevano vista di notte, nella parte più alta del palazzo,inginocchiata sotto le stelle, tra le spire di fumo degliincensieri. Era stata la luna a renderla così pallida, equalcosa di divino la avvolgeva come un vapore sottile.Le sue pupille sembravano guardare lontano, oltre glispazi terrestri. Camminava a testa china, e con la manodestra reggeva una piccola lira d’ebano. La udivano

mormorare:«Morti! Tutti morti! Più non verrete ubbidienti alla mia

voce, quando, seduta in riva al lago, vi gettavo dei semidi cocomero! Il mistero di Tanit scorreva nel profondodei vostri occhi, più limpidi di una goccia d’acqua difiume». E li chiamava con i loro nomi, che erano i nomidei mesi. «Siv! Sivan! Tammuz, Elul, Tishri, Shebar!16

Ah! Pietà di me, o dea!».I soldati, non capendo cosa stesse dicendo, le si

stringevano intorno. Erano stupiti del suo abbigliamento;Salammbô rivolse a tutti uno sguardo spaventato, poi,ritraendo la testa tra le spalle e allargando le braccia,ripeté più volte:

«Che avete fatto! Che avete fatto! Eppure avevate, perfesteggiare, pane, carni, olio, tutto il malòbatro17 deigranai! Avevo fatto venire dei buoi da Ecatompilo,18

avevo mandato cacciatori nel deserto!». La sua vocecresceva di tono, le guance s’imporporavano. Aggiunse:«Dove credete di essere? In una città espugnata o nonpiuttosto nel palazzo di un padrone? E di quale padrone!Il suffeta19 Amilcare mio padre, servitore di Baal! Fu lui arifiutare a Lutazio le vostre armi, che ora sono rosse delsangue dei suoi schiavi! Conoscete forse nelle vostrenazioni un solo uomo che sappia condurre una battagliameglio di lui? Ma guardate! I gradini del nostro palazzosono carichi dei trofei delle nostre vittorie! Continuate!Bruciate tutto! Porterò via con me il Genio della mia casa,il mio serpente nero che dorme lassù sopra foglie di loto!

Fischierò, e mi seguirà; e se salirò su una galea, correràsulla schiuma delle onde nella scia della mia nave».

Le sue narici sottili palpitavano. Si rompeva le unghiecontro le pietre preziose appoggiate sul petto. I suoiocchi divennero languidi; e continuò:

«Ah! Povera Cartagine! Sventurata città! Non hai più, adifenderti, gli uomini forti di un tempo, che varcavano glioceani per costruire templi sulle loro rive. Tutti i paesilavoravano intorno a te, e le pianure del mare, arate daituoi remi, facevano ondeggiare le tue messi».

Allora si mise a cantare le avventure di Melkarth,20 diodei Sidonii e capostipite della sua famiglia.

Narrava l’ascensione delle montagne d’Ersifonia, ilviaggio a Tartesso, e la guerra contro Masisabal pervendicare la regina dei serpenti:

«Inseguiva nella foresta il mostro femminile la cuicoda ondeggiava sulle foglie morte come un ruscellod’argento; e arrivò a una prateria dove alcune donne daldorso di drago stavano intorno a un grande fuoco,appoggiate alla punta della coda. La luna, color sangue,splendeva dentro un alone pallido, e le loro linguescarlatte, biforcute come fiocine di pescatori, siallungavano curvandosi fino a sfiorare le fiamma».

Poi Salammbô, senza fermarsi, raccontò comeMelkarth, dopo aver vinto Masisabal, conficcò la sua testamozzata sulla prora della nave. «A ogni battito di ondeaffondava nella schiuma; ma il sole l’imbalsamava, e cosìdivenne più dura dell’oro; tuttavia gli occhi non

smettevano di piangere, e le lacrime continuavano acadere nell’acqua».

Cantava queste storie in un vecchio dialetto cananeoche i Barbari non capivano. Si chiedevano cosa maivolesse dire loro con quei gesti terribili con cuiaccompagnava le sue parole; e, saliti intorno a lei suitavoli, sui letti, sui rami dei sicomori, a bocca aperta eallungando il collo, cercavano di cogliere il senso diquelle storie confuse che ondeggiavano davanti alla loroimmaginazione attraverso l’oscurità delle teogonie, comefantasmi tra le nubi.

Soltanto i sacerdoti senza barba capivano Salammbô.Le loro mani grinzose, appoggiate alle corde delle lire,fremevano e di tanto in tanto ne estraevano un lugubreaccordo: infatti, più deboli di vecchie donne, tremavanoper l’emozione mistica e insieme per la paura che tuttiquegli uomini incutevano loro. I Barbari non se necuravano; continuavano ad ascoltare la vergine checantava.

Ma nessuno la guardava nel modo in cui la stavaguardando un giovane capo numida seduto al tavolo deicapitani, in mezzo ai soldati della sua nazione. La suacintura era talmente irta di frecce che formava una gobbasotto l’ampio mantello fermato alle tempie da un laccio dicuoio. Il panno, rigonfio sulle spalle, lasciava nell’ombrail suo volto, e si scorgevano soltanto due occhi ardenti. Sitrovava per caso a quel banchetto; suo padre lo facevavivere in casa dei Barca secondo l’usanza dei re che

mandavano i figli nelle grandi famiglie per prepararealleanze; ma durante i sei mesi che Narr’Havas21 vi avevatrascorso, non aveva ancora visto Salammbô; e, sedutosui talloni, la barba reclinata sulle aste dei suoi giavellotti,la scrutava come un leopardo acquattato tra i bambù.

Dall’altro lato dei tavoli c’era un Libico di staturacolossale, capelli corti, neri e ricciuti. Si era lasciatoaddosso soltanto la maglia di ferro le cui lamine dibronzo laceravano la porpora del letto. Alcuni schizzi disangue gli macchiavano il volto; stava appoggiato sulgomito sinistro, e sorrideva con la bocca spalancata.

Salammbô aveva terminato il suo canto sacro. Oraparlava contemporaneamente in tutte le lingue deiBarbari: delicatezza di donna per attenuare la loro collera.Ai Greci parlava in greco, poi si rivolgeva ai Liguri, aiCampani, ai Negri; e ognuno, ascoltandola, ritrovava inquella voce la dolcezza della propria patria. Commossadai ricordi di Cartagine, ora cantava le antiche battagliecontro Roma; e loro applaudivano. S’infiammava albagliore delle spade sguainate; gridava con le bracciaspalancate. La lira cadde a terra, e lei tacque: con le manipremute sul cuore, rimase per qualche minuto a occhichiusi, assaporando l’agitazione di tutti quegli uomini.

Mâtho22 il Libico si chinò su di lei. Involontariamente,lei gli si avvicinò e, spinta dalla riconoscenza del proprioorgoglio soddisfatto, gli versò in una coppa d’oro unlungo getto di vino, per riconciliarsi con l’esercito.

«Bevi!», gli disse.

Mâtho prese la coppa, e la stava portando alle labbraquando un Gallo, lo stesso che Giscone aveva ferito, glitoccò una spalla, rivolgendogli con aria gioviale dellefacezie nella lingua del proprio paese. Spendio non eralontano; si offrì di tradurle.

«Parla!», disse Mâtho.«Gli dèi ti proteggono, stai per diventare ricco. A

quando le nozze?»«Quali nozze?»«Le tue! Perché da noi», disse il Gallo, «quando una

donna fa bere un soldato, significa che gli offre il proprioletto».

Non aveva ancora finito di parlare che Narr’Havas, conun balzo, estrasse un giavellotto dalla cintura e,appoggiando il piede destro sul bordo del tavolo, lolanciò contro Mâtho.

Il giavellotto sibilò tra le coppe e, trapassando ilbraccio del Libico, lo inchiodò sulla tovaglia con tantaforza che l’impugnatura vibrò a lungo nell’aria.

Mâtho lo strappò via; ma non aveva armi, era nudo;poi, sollevando con le braccia il tavolo stracarico, loscagliò contro Narr’Havas, in mezzo alla folla che siprecipitava tra di loro. I soldati e i Numidi si accalcavanoal punto da non poter estrarre le spade. Mâtho si facevalargo dando dei gran colpi con la testa; quando larisollevò, Narr’Havas era scomparso. Lo cercò con gliocchi. Anche Salammbô era scomparsa.

Allora, volgendo lo sguardo al palazzo, vide proprio in

alto la porta rossa che si stava chiudendo. Si precipitò.Lo videro correre tra le prore delle galee, poi

riapparire lungo le tre rampe di scale fino alla portarossa, sulla quale si abbatté con tutto il peso del corpo.Ansimante, si appoggiò al muro per non cadere.

Un uomo l’aveva seguito; nelle tenebre, poiché le lucidel banchetto erano nascoste dall’angolo del palazzo,riconobbe Spendio.

«Vattene», gli disse.Lo schiavo, senza rispondere, si lacerò coi denti un

lembo della tunica; poi, inginocchiatosi accanto a Mâtho,gli prese il braccio delicatamente, palpandolo nell’ombraper trovare la ferita.

Sotto un raggio di luna che scivolava tra le nubi,Spendio scorse in mezzo al braccio una ferita aperta. Leavvolse intorno il brandello di stoffa; ma l’altro, irritato,diceva: «Lasciami! Lasciami!».

«Oh, no!», rispose lo schiavo. «Tu m’hai liberatodall’ergastolo. Ti appartengo! Sei il mio padrone!Ordina!».

Mâtho, camminando lungo i muri, fece il giro dellaterrazza. A ogni rumore di passi tendeva l’orecchio, eattraverso le fessure tra le canne dorate affondava losguardo nelle stanze silenziose. Poi si fermò con ariadisperata.

«Ascolta!», gli disse lo schiavo. «Oh! non disprezzarmiper la mia debolezza! Io ho vissuto nel palazzo. Possocalarmi tra i muri come una vipera. Vieni! Nella sala degli

antenati c’è un lingotto d’oro sotto ogni pietra delpavimento; un passaggio sotterraneo conduce alle lorotombe».

«E che m’importa!», disse Mâtho.Spendio tacque.Erano sulla terrazza. Un’enorme massa d’ombra si

stendeva davanti a loro, e sembrava che contenessecumuli confusi, simili alle onde gigantesche di un oceanonero pietrificato.

Ma una barra luminosa si alzò da Oriente. A sinistra, inbasso, i canali di Megara cominciavano a irradiare dibianche sinuosità il verde dei giardini. I tetti conici deitempli ettagonali, le gradinate, le terrazze, i bastioni, apoco a poco si profilavano sul pallore dell’alba; etutt’intorno alla penisola cartaginese una cinta di schiumabianca ondeggiava, mentre il mare color smeraldosembrava irrigidito nella frescura del mattino. Poi,mentre il cielo rosato si allargava, le altre case inclinatesui pendii si ergevano, accalcandosi come un gregge dicapre nere che scenda dai monti. Le strade deserte siallungavano; le palme, spuntando qua e là sopra i muri,stavano immobili; le cisterne piene d’acqua sembravanoscudi d’argento persi nei cortili; il faro del promontorioErmeo23 cominciava a impallidire. In cima all’Acropoli,nel bosco di cipressi, i cavalli di Eshmun,24 sentendogiungere la luce, poggiavano gli zoccoli sul parapetto dimarmo e nitrivano verso il sole.

Finalmente apparve; Spendio, alzando le braccia, gettò

un grido.Ora tutto si agitava in un rossore diffuso, perché il dio,

lacerandosi le vene, riversava a pieni raggi su Cartaginela sua pioggia d’oro. Gli speroni delle galee scintillavano,il tetto di Khamon sembrava in fiamme, e si scorgevanoluci nei templi le cui porte venivano aperte. I grandi carriche giungevano dalla campagna rotolavano le ruote sullastricato delle strade. Alcuni dromedari carichi di bagagliscendevano per le gradinate. I cambiamonete, neicrocicchi, rialzavano gli sportelli delle loro botteghe.Alcune cicogne si alzarono in volo; alcune vele bianchepalpitavano. Nel bosco di Tanit si udiva il tamburellodelle cortigiane sacre, e verso la punta dei Mappali25

cominciavano a fumare i forni per cuocere le bared’argilla. Spendio si sporgeva dalla terrazza. Batteva identi e ripeteva:

«Ah! Sì... sì... padrone! Capisco perché primadisdegnavi di saccheggiare la casa».

Mâtho fu come svegliato dal sibilo della sua voce, esembrava non capire; Spendio continuò:

«Ah! Quali ricchezze! E gli uomini che le possiedononon hanno neppure le armi per difenderle!».

Poi, indicandogli con la mano destra dei popolani chestrisciavano sulla sabbia, oltre il porto, alla ricerca dipagliuzze d’oro:

«Guarda!», gli disse. «La Repubblica è come queimiserabili: china sulla riva degli oceani, affonda in ognispiaggia le sue avide braccia, e il rumore delle onde le

rimbomba talmente negli orecchi che non sentirebbearrivare dietro di sé il tallone di un padrone!».

Trascinò Mâtho dal lato opposto della terrazza, emostrandogli il giardino dove brillavano al sole le spadedei soldati appese agli alberi:

«Ma qui ci sono uomini forti il cui odio è esasperato! Eniente li lega a Cartagine, né le loro famiglie, né i lorogiuramenti, né i loro dèi!».

Mâtho restava appoggiato al muro; Spendio,avvicinandosi, proseguì a bassa voce:

«Mi capisci, soldato? Potremmo passeggiare coperti diporpora come satrapi. Ci laverebbero nei profumi; e iopotrei avere a mia volta degli schiavi! Non sei stanco didormire sulla dura terra, di bere l’aceto degliaccampamenti, e di sentir suonare la tromba? Ti riposeraipiù tardi, vero? Quando ti strapperanno la corazza didosso per gettare il tuo cadavere in pasto agli avvoltoi! Oforse quando, appoggiandoti al bastone, cieco, zoppo,debole, te ne andrai di porta in porta a raccontare la tuagiovinezza ai ragazzini e ai venditori di olive in salamoia.Ricordati di tutte le ingiustizie dei tuoi capi, gliaccampamenti tra la neve, le marce forzate sotto il sole,le tirannie della disciplina e l’eterna minaccia della croce!Dopo tante miserie ti hanno dato un collare d’onore,come si appende al collo degli asini una sonagliera perstordirli durante la marcia, per non far sentire loro lafatica. Un uomo come te, più valoroso di Pirro! Eppure,se tu avessi voluto! Ah! Come saresti felice nelle grandi

sale fresche, al suono delle lire, sdraiato su un letto difiori, circondato da buffoni e da donne! Non dirmi chel’impresa è impossibile! Forse che i Mercenari non si sonogià impadroniti di Reggio e di altre piazzeforti in Italia?Chi te lo impedisce? Amilcare è assente; il popolo odia iRicchi; Giscone non ha alcun potere sui vigliacchi che glistanno intorno. Ma tu sei valoroso! Ti obbediranno!Comandali! Cartagine è nostra; prendiamola!».

«No!», disse Mâtho. «La maledizione di Moloch26 pesasu di me. L’ho sentito nei suoi occhi, e ho appena visto inun tempio un ariete nero che indietreggiava». Eaggiunse: «Ma lei dov’è?».

Spendio comprese che era in preda a un’inquietudineimmensa; non osò più parlare.

Gli alberi dietro di loro fumavano ancora; dai loro ramianneriti, carcasse di scimmie bruciacchiate cadevano ditanto in tanto tra i vassoi. I soldati ubriachi russavano abocca aperta accanto ai cadaveri; e quelli che nondormivano chinavano la testa abbagliati dalla luce delgiorno. Il suolo pesticciato era cosparso di pozzanghererosse. Gli elefanti dondolavano tra i pali dei loro recinti leproboscidi sanguinolente. Nei granai aperti si scorgevanosacchi di frumento rovesciati, e sotto l’arco della portauna fila serrata di carri accatastati dai Barbari; i pavoniappollaiati sui cedri dispiegavano la coda e lanciavanogridi.

Intanto l’immobilità di Mâtho stupiva Spendio; eraancora più pallido di prima, e con gli occhi fissi sembrava

scrutare qualcosa all’orizzonte, appoggiato con i duepugni al parapetto della terrazza. Spendio, chinandosi,finì per scoprire cosa stava contemplando. Un puntodorato si muoveva lontano nella polvere sulla strada diUtica; era il mozzo di un carro trainato da due muli; unoschiavo correva alla testa del timone tenendoli per labriglia. Due donne erano sedute sul carro. Le crinieredegli animali erano raccolte tra le orecchie secondo l’usopersiano, sotto una reticella di perle azzurre. Spendio lericonobbe; trattenne un grido.

Un grande velo, dietro, ondeggiava nel vento.

IIA Sicca

Due giorni dopo, i Mercenari uscirono da Cartagine.A ognuno di loro era stata data una moneta d’oro, a

condizione che andassero ad accamparsi a Sicca,1 e conogni sorta di lusinghe era stato detto loro:

«Voi siete i salvatori di Cartagine! Ma restando quil’affamereste; e allora non potrebbe mai pagarvi.A llontanatevi! La Repubblica, più tardi, vi sarà grata ditale condiscendenza. Riscuoteremo subito nuoveimposte; la vostra paga vi sarà data per intero, earmeremo delle galee che vi ricondurranno nei vostripaesi».

Non sapevano cosa rispondere a tutti questi discorsi.Quegli uomini, abituati alla guerra, si annoiavano in unacittà; non fu difficile convincerli, e il popolo salì sullemura per vederli partire.

Sfilarono per la via di Khamon e la porta di Cirta, allarinfusa, gli arcieri con gli opliti,2 i capitani con i soldati, i

Lusitani con i Greci. Marciavano con passo energico,facendo risuonare sul lastricato i pesanti coturni. Learmature erano ammaccate dalle catapulte e i voltianneriti dal fumo delle battaglie. Dalle folte barbeuscivano grida rauche; le cotte lacerate sbattevano sulleimpugnature delle spade, e si scorgevano, attraverso glisquarci nelle corazze di bronzo, le membra nude, terribilicome macchine da guerra. Le sarisse,3 le asce, gli spiedi,i berretti di feltro e gli elmi di bronzo, ogni cosaondeggiava in un unico movimento. Riempivano le stradetanto da far crepare i muri, e quella lunga massa disoldati in armi scorreva tra le alte case a sei piani, dallepareti imbrattate di bitume.4 Dietro le grate di ferro o dicanne, le donne, con la testa coperta da un velo,guardavano in silenzio passare i Barbari.

Le terrazze, le fortificazioni, i muri scomparivano sottola folla dei Cartaginesi avvolta in vesti nere. Le tunichedei marinai sembravano macchie di sangue in quellascura moltitudine, e dei bambini seminudi, dalla pellerilucente sotto braccialetti di rame, gesticolavano tra ilfogliame dei capitelli o tra i rami di una palma. AlcuniAnziani avevano preso posto sulla piattaforma delle torrie non si capiva per quale ragione fossero disposti in quelmodo, sparsi qua e là, quei personaggi dalla lunga barbae in atteggiamento pensoso; apparivano da lontano, sullosfondo del cielo, vaghi come fantasmi e immobili comepietre.

Tutti però erano oppressi dalla stessa inquietudine;

avevano paura che i Barbari, vedendosi tanto forti,venissero presi dalla voglia di rimanere. Ma quellipartivano così fiduciosi che i Cartaginesi ripreserocoraggio e si mescolarono ai soldati. Li assediavano conpromesse e abbracci. Qualcuno addirittura li esortava anon lasciare la città, esagerando in politica e in ipocrisia.Gettavano loro profumi, fiori e monete d’argento.Donavano loro amuleti contro le malattie, ma dopoavervi sputato sopra tre volte per attirare la morte oaverli tenuti chiusi in pelli di sciacallo che rendono ilcuore vile. Invocavano ad alta voce il favore di Melkhart,e sottovoce la sua maledizione.

Poi giunse la ressa delle salmerie, delle bestie da somae dei ritardatari. C’erano malati che gemevano suidromedari; altri si appoggiavano, zoppicando, a untroncone di picca. Gli ubriaconi trascinavano otri di vino;i voraci si portavano via quarti di bue, dolci, frutta, burroin foglie di fico, neve in sacchi di tela. Se ne vedevanocerti con un parasole in mano, un pappagallo sulla spalla.Altri si tiravano dietro mastini, gazzelle o pantere. Donnedi razza libica, in groppa ad asini, lanciavano ingiurie alleNegre che per seguire i soldati avevano abbandonato ilupanari di Malqua;5 molte di loro allattavano bambiniappesi al petto dentro una reticella di strisce di cuoio. Imuli, pungolati con la punta delle spade, piegavano laschiena sotto il fardello delle tende; e c’era una quantitàdi servi e portatori d’acqua, smunti, gialli per le febbri ecoperti di pidocchi, schiuma della plebe cartaginese che

seguiva i Barbari.Quando furono passati, dietro di loro si chiusero le

porte; il popolo non scese dalle mura, e l’esercito sisparse rapidamente sull’intera larghezza dell’istmo.

Si divideva in masse ineguali. Poi le lance sembraronoalti fili d’erba, e tutto infine si perse in una striscia dipolvere; i soldati che si volgevano indietro versoCartagine ormai vedevano solo le sue lunghe mura, con imerli vuoti che si stagliavano contro l’orizzonte.

Allora i Barbari udirono un grande grido. Credetteroche alcuni di loro, rimasti in città (non sapevano infattiquanti fossero), si divertissero a saccheggiare un tempio.L’idea li fece ridere molto, poi ripresero il cammino.

Erano contenti di ritrovarsi, come un tempo, amarciare tutti insieme in piena campagna; e alcuni Grecicantavano la vecchia canzone dei Mamertini:

«Con la mia lancia e con la mia spada, aro e mieto; esono io il padrone di casa! L’uomo inerme mi si getta aipiedi e mi chiama Signore e Grande Re».

Gridavano, saltavano, i più allegri cominciavano araccontare delle storie; il tempo delle pene era finito.Giunti a Tunisi, alcuni notarono che mancava undrappello di frombolieri delle Baleari. Ma non dovevanoessere lontani, e nessuno ci pensò più.

Alcuni trovarono alloggio nelle case, altri siaccamparono sotto le mura, e gli abitanti della cittàvennero a chiacchierare con i soldati.

Per tutta la notte si videro fuochi all’orizzonte, verso

Cartagine; quei bagliori, come torce gigantesche, siallungavano sul lago immobile. Nessuno, nell’esercito,sapeva dire quale festa si stesse celebrando.

Il giorno dopo i Barbari attraversarono una campagnainteramente coltivata. Le fattorie dei patrizi sisusseguivano sui lati della strada; canaletti scorrevano inboschetti di palme; gli olivi disegnavano lunghe lineeverdi; vapori rosa fluttuavano nelle gole delle colline;dietro, si ergevano montagne azzurre. Soffiava un ventocaldo. Camaleonti strisciavano sulle larghe foglie deicactus.

I Barbari rallentarono.Avanzavano a gruppi isolati, o si trascinavano gli uni

dietro gli altri a lunghi intervalli. Mangiavano l’uva deivigneti. Si sdraiavano nell’erba, e guardavano stupiti legrandi corna di bue artificialmente ritorte, le pecorecoperte di pelli per proteggere la lana, i solchi ches’incrociavano formando delle losanghe, e i vomeri degliaratri simili ad ancore di navi, e i melograni che venivanoinnaffiati di silfio.6 Erano abbagliati dall’opulenza dellaterra e da quelle sapienti invenzioni.

La sera si sdraiarono sopra le tende senza neppureaprirle; e, addormentandosi con la faccia rivolta allestelle, rimpiangevano il banchetto di Amilcare.

A metà del giorno seguente sostarono sulla riva di unfiume, tra ciuffi di oleandri. A llora gettarono a terra lelance, gli scudi, le cinture. Si lavavano gridando,riempivano d’acqua gli elmi, mentre altri bevevano

sdraiati sulla riva, con la faccia nell’acqua, in mezzo allebestie da soma i cui bagagli cadevano a terra.

Spendio, seduto su un dromedario rubato nei recinti diAmilcare, vide da lontano Mâtho che, col braccio appesoal collo, a testa nuda e col volto chino, faceva bere ilmulo e intanto guardava scorrere l’acqua. Subito si misea correre tra la folla, chiamando: «Padrone! Padrone!».

Mâtho lo ringraziò appena per tutte le sue benedizioni.Spendio, non curandosene, si mise a camminargli dietroe, di tanto in tanto, volgeva uno sguardo inquieto indirezione di Cartagine.

Era il figlio di un retore e di una prostituta campana.Dapprima si era arricchito vendendo donne; poi, rovinatoda un naufragio, aveva fatto la guerra contro i Romanicoi pastori del Sannio. L’avevano catturato, era fuggito;l’avevano ripreso, e aveva lavorato nelle cave, ansimatoaccanto alle caldaie, gridato tra le sevizie, cambiato moltipadroni, conosciuto tutti i furori. Un giorno infine, perdisperazione, si era gettato in mare dall’alto della triremesu cui si trovava alla voga. Alcuni marinai di Amilcarel’avevano raccolto morente e condotto a Cartaginenell’ergastolo di Megara. Ma poiché bisognava restituire aiRomani i loro transfughi, aveva approfittato del disordineper fuggire con i soldati.

Durante tutto il viaggio rimase accanto a Mâtho; gliportava da mangiare, lo aiutava a smontare, la sera glistendeva un tappeto sotto la testa. Mâtho finì percommuoversi di tante premure, e a poco a poco

dischiuse le labbra.Era nato nel golfo delle Sirti. Suo padre l’aveva portato

in pellegrinaggio al tempio di Ammon.7 Poi avevacacciato gli elefanti nelle foreste dei Garamanti.8 Quindi siera arruolato al servizio di Cartagine. Era stato nominatotetrarca9 alla presa di Trapani. La Repubblica gli dovevaquattro cavalli, ventitré medimni10 di grano e la paga diun inverno. Temeva gli dèi e sperava di morire per lapatria.

Spendio gli parlò dei suoi viaggi, dei popoli e deitempli che aveva visitato. Conosceva molte cose: sapevafare sandali, spiedi, reti, addomesticare le bestie feroci ecuocere i pesci.

Talvolta si interrompeva, per cacciare un grido raucodal fondo della gola; allora il mulo di Mâtho accelerava ilpasso, e gli altri si affrettavano a seguirlo; poi Spendioricominciava a parlare, sempre agitato dalla stessaangoscia, che si calmò la sera del quarto giorno.

Procedevano fianco a fianco, alla destra dell’esercito,costeggiando una collina; la pianura, in basso, siallungava perduta nei vapori della notte. Le linee deisoldati che sfilavano sotto di loro serpeggiavanonell’ombra. Di tanto in tanto passavano su rilievirischiarati dalla luna; allora una stella tremava sulla puntadelle picche, per un attimo gli elmi luccicavano, poi tuttoscompariva, e ne sopraggiungevano altri, di continuo. Inlontananza le greggi svegliate belavano, e una dolcezzainfinita sembrava abbattersi sulla terra.

Spendio, la testa rovesciata all’indietro e gli occhisocchiusi, aspirava a pieni polmoni la freschezza delvento; apriva le braccia muovendo le dita per megliosentirne la carezza su tutto il corpo. Speranze di vendettariemergevano, e lo trascinavano. Si portò la mano sullabocca per frenare i singhiozzi, e quasi inebetitodall’ebbrezza abbandonava la cavezza sul collo deldromedario che avanzava a grandi passi regolari. Mâthoera ricaduto nella sua tristezza: le gambe eranoabbandonate penzoloni, fino a terra, e le erbe,frustandogli i coturni, facevano un sibilo continuo.

Intanto la strada si allungava senza finire mai. A l limiteestremo di una pianura, ci si trovava sempre su unaltopiano di forma rotonda; poi si scendeva ancora unavolta in una vallata, e le montagne che sembravanochiudere l’orizzonte, via via che ci si avvicinava, sispostavano indietro come se scivolassero via. Di tanto intanto tra il verde delle tamerici appariva un fiume, perpoi perdersi tra le colline. Talvolta si innalzava un massogigantesco, simile alla prua di un vascello o al piedistallodi un colosso scomparso.

Si incontravano, a intervalli regolari, piccoli templiquadrangolari che servivano come stazioni di sosta per ipellegrini che si recavano a Sicca. Erano chiusi cometombe. I Libici, per farsi aprire, davano dei gran colpi alleporte, ma dall’interno non rispondeva nessuno.

Poi le colture si fecero più rare. Ci si trovava di colposu strisce di sabbia, irte di cespugli spinosi. Greggi di

pecore brucavano tra le pietre; le custodiva una donnacon un vello turchino intorno alla vita. Fuggiva gridandoappena scorgeva tra le rocce le picche dei soldati.

Marciavano in una specie di grande corridoiofiancheggiato da due catene di montagnole rossastre,quando un odore nauseabondo colpì le loro narici, ecredettero di vedere in cima a un carrubo qualcosa distraordinario: la testa di un leone emergeva dal fogliame.

Accorsero. Era un leone, inchiodato per le quattrozampe a una croce come un criminale. Il muso enormegli ricadeva sul petto, e le due zampe anteriori, quasinascoste dalla folta criniera, erano divaricate come le alidi un uccello. Le costole sporgevano, una a una, sotto lapelle tesa; le zampe posteriori, inchiodate l’una sull’altra,erano un po’ rialzate; e sangue nero, scorrendo tra i peli,si era rappreso in stalattiti in fondo alla coda che pendevadritta lungo la croce. Intorno, i soldati si divertirono; lochiamavano console e cittadino di Roma, e gli gettavanodei sassi negli occhi, per farne volar via i moscerini.

Cento passi più avanti ne videro altri due, poi d’untratto apparve una lunga fila di croci sulle quali eranoappesi altri leoni. A lcuni erano morti da tanto tempo, cosìche sul legno restavano soltanto frammenti di scheletro;altri, putrefatti solo in parte, torcevano la bocca in unasmorfia orribile; ce n’erano di enormi, l’albero della crocesi piegava per il peso; ondeggiavano al vento, mentresulle loro teste volteggiavano senza sosta stormi di corvi.Così si vendicavano i contadini cartaginesi quando

catturavano una bestia feroce; speravano, conquell’esempio, di atterrire le altre. I Barbari, smettendo diridere, precipitarono in un lungo stupore: «Ma chepopolo è questo», pensavano, «che si diverte acrocifiggere dei leoni!».

Del resto, soprattutto gli uomini del Nord, si sentivanovagamente inquieti, turbati, già malati, con le manigraffiate dalle spine delle piante di aloe; grandi zanzareronzavano intorno ai loro orecchi, e nell’esercitocominciavano i casi di dissenteria. Li preoccupava nonvedere ancora Sicca. Avevano paura di perdersi e di finirenel deserto, il paese delle sabbie e delle paure. Molti nonvolevano più andare avanti. A ltri ripresero la via diCartagine.

Finalmente al settimo giorno, dopo aver costeggiato alungo la base di una montagna, si svoltò bruscamente adestra; allora apparve una linea di mura erette su roccebianche, con cui si confondevano. E subito si innalzò lacittà intera; veli blu, gialli e bianchi sventolavano sullemura, nel rossore della sera. Erano le sacerdotesse diTanit, accorse a ricevere gli uomini. Stavano allineatelungo il bastione, battendo i tamburelli, pizzicando le lire,scuotendo i crotali,11 e i raggi del sole, che tramontavasullo sfondo tra le montagne della Numidia, passavanotra le corde delle arpe sulle quali si protendevano le lorobraccia nude. A tratti gli strumenti tacevano di colpo, ederompeva un grido stridulo, ansioso, furioso, continuo,una sorta di latrato che quelle donne producevano

colpendo con la lingua gli angoli della bocca. Altre,appoggiate sui gomiti, il mento tra le mani, restavano piùimmobili delle sfingi, osservando con i grandi occhi neril’esercito che saliva.

Malgrado fosse una città santa, Sicca non potevacontenere una tale moltitudine; il tempio e i suoi annessine occupavano da soli la metà. Così i Barbari sisistemarono nella pianura, nei modi che preferirono: ipiù disciplinati in schiere regolari, gli altri per nazioni osecondo la loro fantasia.

I Greci allinearono le loro tende di pelli in fileparallele; gli Iberici disposero in cerchio i loro padiglionidi tela; i Galli si costruirono baracche di tavole; i Libicicapanne di pietre a secco, e i Negri scavarono nellasabbia, con le unghie, fosse in cui dormire. Molti, nonsapendo dove sistemarsi, si aggiravano tra i bagagli e lanotte dormivano per terra, avvolti nei loro mantelli laceri.

La pianura si stendeva intorno a loro, circondata damontagne. Qua e là una palma si piegava su una collinadi sabbia; abeti e querce punteggiavano i fianchi deiprecipizi. Talvolta la pioggia di un temporale pendeva dalcielo come una lunga sciarpa, mentre la campagnarestava ovunque coperta di azzurro e di serenità; poi unvento tiepido spazzava turbini di polvere; e un ruscelloscendeva a cascate dalle alture di Sicca su cui si ergeva,con il suo tetto d’oro su colonne di bronzo, il tempiodella Venere Cartaginese,12 dominatrice della contrada,che sembrava riempire con la sua anima. Il terreno

tormentato, il mutare improvviso della temperatura, igiochi di luce, manifestavano la stravaganza della suaforza e insieme la bellezza del suo eterno sorriso. Le cimedelle montagne avevano la forma della mezzaluna; altresembravano petti di donna che tendessero i seni gonfi, ei Barbari sentivano pesare sulle loro fatiche unosfinimento colmo di delizie.

Spendio, con il denaro del dromedario, si eracomprato uno schiavo. Durante tutto il giorno dormivadisteso davanti alla tenda di Mâtho. Spesso si svegliavacredendo di udire nel sonno il sibilo della frusta; allora,sorridendo, si passava le mani sulle cicatrici delle gambe,là dove erano stati serrati a lungo i ferri; poi siriaddormentava.

Mâtho accettava la sua compagnia e, quando usciva,Spendio, con una lunga spada sulla coscia, lo scortavacome un littore; oppure Mâtho gli appoggiava connoncuranza un braccio su una spalla, perché Spendio erapiccolo.

Una sera che attraversavano insieme le viedell’accampamento, scorsero degli uomini coperti dimantelli bianchi; tra loro c’era Narr’Havas, il principe deiNumidi. Mâtho trasalì.

«La tua spada!», gridò. «Voglio ucciderlo!».«Non ancora!», disse Spendio trattenendolo.Narr’Havas gli stava venendo incontro.Fece il gesto di abbassare i pollici, in segno di alleanza,

attribuendo all’ebbrezza del banchetto il suo attacco di

collera; poi parlò a lungo contro Cartagine, ma non disseper quale ragione era venuto tra i Barbari.

«Sarà per tradire loro o la Repubblica?», si chiedevaSpendio; e siccome contava di trarre vantaggio da ognidisordine, era grato a Narr’Havas per le future perfidie dicui lo sospettava.

Il capo dei Numidi restò tra i Mercenari. Sembravavoler conquistare l’amicizia di Mâtho. Gli inviava in donograsse capre, polvere d’oro e piume di struzzo. Il Libico,stupito di tutte quelle cortesie, non sapeva se ricambiarleo irritarsene. Ma Spendio lo calmava, e Mâtho si lasciavaguidare dallo schiavo, sempre irresoluto e in un torporeinvincibile, come uno che abbia ingerito una bevanda chelo farà morire.

Una mattina che partivano tutti e tre per la caccia alleone, Narr’Havas nascose un pugnale sotto il mantello.Spendio gli camminò sempre dietro; e rientrarono senzache il pugnale fosse stato estratto.

Un’altra volta Narr’Havas li condusse molto lontano,fino ai confini del suo regno. Giunsero in una golastretta; Narr’Havas sorrise dicendo che non conosceva piùla strada; Spendio la ritrovò.

Ma più spesso Mâtho, malinconico come un augure, sene usciva all’alba per vagabondare nella campagna. Sistendeva sulla sabbia, e rimaneva immobile fino alla sera.

Consultò, uno dopo l’altro, tutti gli indovinidell’esercito, quelli che osservano i movimenti deiserpenti, quelli che leggono nelle stelle, quelli che

soffiano sulle ceneri dei morti. Trangugiò galbano,seseli13 e veleno di vipera, che gela il cuore; donnenegre, cantando parole barbariche al chiaro di luna, glipunsero la pelle della fronte con stiletti d’oro; si caricavadi collane e amuleti; invocò di volta in volta Baal-Khamon, Moloch, i sette Cabiri,14 Tanit e la Venere deiGreci. Incise un nome su una lastra di rame e la seppellìnella sabbia al limitare della tenda. Spendio lo udivagemere e parlare da solo.

Una notte entrò.Mâtho, nudo come un cadavere, era sdraiato bocconi

sopra una pelle di leone, con la faccia tra le mani; unalampada sospesa illuminava le sue armi, appese, sopra latesta, al palo della tenda.

«Soffri?», gli chiese lo schiavo. «Di che hai bisogno?Dimmelo!».

E gli scosse una spalla chiamandolo più volte:«Padrone! Padrone!...».

Finalmente Mâtho alzò su di lui due grandi occhitorbidi.

«Ascolta!», disse sottovoce, con un dito sulle labbra.«È la collera degli dèi! La figlia di Amilcare mi perseguita!E io ne ho paura, Spendio!».

Si stringeva le braccia al petto come un bambinospaventato da un fantasma.

«Parlami! Io sono malato! Voglio guarire! Ho provatotutto! Ma tu, conosci dèi più potenti o qualcheinvocazione irresistibile?»

«Per fare cosa?», chiese Spendio.Rispose, colpendosi la testa con i pugni:«Per liberarmi di lei!».Poi diceva, parlando tra sé, con lunghe pause:«Sono forse la vittima di qualche olocausto che ha

promesso agli dèi?... Mi tiene legato con una catena chenon si vede. Se cammino, è perché lei avanza; se mifermo, è lei che si ferma! I suoi occhi mi bruciano, odo lasua voce. Mi circonda, mi penetra. Mi sembra che siadiventata la mia anima! Eppure è come se tra noi cifossero i flutti invisibili di un oceano illimitato! È lontanae inaccessibile! Lo splendore della sua bellezza creaintorno a lei una nube di luce; e a volte io credo nonaverla vista mai... che non esista... che tutto questo siaun sogno!».

Così Mâtho piangeva nelle tenebre; i Barbaridormivano. Spendio, guardandolo, si ricordava deigiovani che, un tempo, tenendo vasi d’oro tra le mani, losupplicavano quando portava a passeggio per le città ilsuo gregge di cortigiane; provò un sentimento di pietà edisse:

«Sii forte, padrone! Fai appello alla tua volontà esmettila di implorare gli dèi, che sono indifferenti allegrida degli uomini! Ecco che piangi come un vigliacco! Manon ti umilia il fatto che una donna ti faccia soffriretanto?»

«Sono forse un bambino?», disse Mâtho. «Credi che illoro viso e le loro canzoni possano intenerirmi ancora? A

Trapani ne avevamo per pulire le scuderie. Ne hopossedute in mezzo agli assalti, sotto i soffitti checrollavano e mentre la catapulta vibrava ancora!... Maquella, Spendio, quella!...».

Lo schiavo lo interruppe:«Se non fosse stata la figlia di Amilcare...».«No!», gridò Mâtho. «Non ha niente in comune con le

altre figlie degli uomini! Hai visto i suoi grandi occhi sottole grandi sopracciglia, come soli sotto archi di trionfo?Ricorda: quando è apparsa le torce sono impallidite. Tra idiamanti della sua collana splendeva il seno nudo; dietrodi lei si sentiva un sapore di tempio, e da tutta la suapersona si levava qualcosa che era più soave e piùterribile della morte. Continuava a camminare, poi si èfermata».

Rimase a bocca aperta, la testa china, lo sguardo fisso.«Ma io la voglio! Ne ho bisogno! Ne muoio! All’idea di

stringerla tra le braccia, sono travolto da un furore digioia, e tuttavia la odio, Spendio! Vorrei picchiarla! Chefare? Ho voglia di vendermi, per diventare suo schiavo.Tu lo sei stato! Tu potevi vederla: parlami di lei! È veroche tutte le notti sale sulla terrazza del suo palazzo? Ah!Le pietre devono fremere sotto i suoi sandali, e le stelledevono chinarsi a guardarla!».

Ricadde furente, ansimando come un toro ferito.Poi Mâtho cantò: «Inseguiva nella foresta il mostro

femmina, la cui coda serpeggiava sulle foglie morte comeun ruscello d’argento». E, modulando la voce, imitava

quella di Salammbô, mentre le mani protese simuovevano come due mani leggere sulle corde di unalira.

Alle consolazioni di Spendio, ripeteva gli stessidiscorsi; le loro notti passavano tra lamenti edesortazioni.

Mâtho provò a stordirsi col vino. Ma dopo le sueubriacature era più triste di prima. Provò a distrarsi congli astragali,15 e perse una dopo l’altra le piastre d’oro delsuo collare. Si lasciò portare dalle ancelle della dea; madiscese la collina singhiozzando, come quelli che tornanodai funerali.

Spendio, al contrario, diventava sempre piùbaldanzoso e allegro. Lo si vedeva, nelle bettole sotto lefrasche, a discorrere in mezzo ai soldati. Accomodavavecchie corazze. Faceva giochi di abilità con i pugnali,andava a raccogliere erbe nei campi per i malati. Erafaceto, sottile, pieno di trovate e di parole; i Barbari siabituavano ai suoi servizi; e lui sapeva farsi amare.

Intanto erano in attesa di un ambasciatore di Cartagineche avrebbe portato loro, con i muli, ceste piene d’oro; erifacendo sempre da capo lo stesso calcolo, con le ditatracciavano cifre sulla sabbia. Ognuno, in anticipo,organizzava la propria vita: chi avrebbe avuto concubine,schiavi, terreni; chi voleva nascondere il proprio tesoro orischiarlo su una nave. Ma in tanto ozio gli umori siirritavano: sorgevano continue dispute tra i cavalieri e ifanti, tra i Barbari e i Greci, e si era continuamente

storditi dalla voce stridula delle donne.Ogni giorno giungevano bande di uomini seminudi,

con delle foglie in testa per proteggersi dal sole; erano idebitori dei ricchi Cartaginesi, costretti a lavorare le loroterre, e che erano fuggiti. Affluivano Libici, contadinirovinati dalle tasse, banditi, malfattori. Poi l’orda deimercanti, tutti i venditori d’olio e di vino che, furiosi pernon essere stati pagati, se la prendevano con laRepubblica, contro la quale declamava Spendio. Prestocominciarono a mancare i viveri. Si parlava di marciaresu Cartagine e di chiamare i Romani.

Una sera, all’ora di cena, si udirono avvicinarsi suonigrevi e striduli, e in lontananza, tra le ondulazioni delterreno, apparve qualcosa di rosso. Era una grandelettiga di porpora, con gli angoli adorni di ciuffi di piumedi struzzo. Catene di cristallo, con ghirlande di perle,sbattevano contro le tende chiuse. La seguivano deicammelli che facevano suonare le grosse campaneappese ai pettorali, e intorno a loro si scorgevano deicavalieri con armature in squame d’oro che li coprivanodai talloni alle spalle.

Si fermarono a trecento passi dal campo, per estrarredalle custodie che portavano in groppa lo scudo tondo, lalarga spada e l’elmo alla beota. Alcuni rimasero con icammelli; gli altri si rimisero in cammino. Finalmenteapparvero le insegne della Repubblica: bastoni di legnoblu con in cima teste di cavallo o pigne. I Barbari si

alzarono tutti in piedi, applaudendo; le donne siprecipitarono verso le guardie della Legione, a baciareloro i piedi.

La lettiga avanzava sulle spalle di dodici Negri, checamminavano a ritmo, con piccoli passi veloci. Andavanoa destra e a sinistra, a caso, impacciati dalle corde delletende, dalle bestie vaganti e dai treppiedi su cuicuocevano le vivande. Di tanto in tanto una mano grassa,carica di anelli, socchiudeva una tenda della lettiga; unavoce rauca gridava delle ingiurie; allora i portatori sifermavano, poi prendevano un’altra strada attraversol’accampamento.

Ma le cortine di porpora si sollevarono, e si vide su ungrande cuscino una testa umana impassibile e gonfia; lesopracciglia formavano come due archi d’ebano ches’incontravano sopra il naso; pagliuzze d’oro luccicavanotra i capelli crespi, e la faccia era talmente pallida dasembrare incipriata con polvere di marmo. Il resto delcorpo scompariva sotto le pelli che riempivano la lettiga.

I soldati riconobbero in quell’uomo così adagiato ilsuffeta Annone,16 colui che con la sua lentezza avevacontribuito a far perdere la battaglia delle isole Egadi;quanto alla sua vittoria di Ecatompilo sui Libici, se si eracomportato con clemenza l’aveva fatto per avidità perché,pensavano i Barbari, aveva venduto per proprio contotutti i prigionieri, dopo aver dichiarato alla Repubblicache erano tutti morti.

Dopo aver cercato, per un po’, un luogo adatto ad

arringare i soldati, fece un cenno: la lettiga si fermò, eAnnone, sorretto da due schiavi, poggiò i piedi a terra,barcollando.

Portava calzari di feltro nero, decorati con luned’argento. Bende simili a quelle che avvolgono lemummie gli fasciavano le gambe, e la carne sporgeva trale bende incrociate. Il ventre debordava sul gonnellinoscarlatto che gli copriva le cosce; le pieghe del collo gliricadevano sul petto come la giogaia di un bue; la tunica,dipinta a fiori, stava per lacerarsi sotto le ascelle, tantoera tesa; portava inoltre una sciarpa, una cintura e unampio mantello nero con larghe maniche allacciate.L’abbondanza degli indumenti, la grande collana di pietreblu, le fibbie d’oro e i pesanti orecchini rendevano ancorapiù ripugnante la sua deformità. Lo si sarebbe detto ungrosso idolo sbozzato in un blocco di pietra; infatti unapallida lebbra, diffusa in tutto il corpo, gli dava l’aspettodi una cosa inerte. E tuttavia il naso, adunco come ilbecco di un avvoltoio, si dilatava con forza per aspirarel’aria, e gli occhi piccoli, dalle ciglia incollate, brillavano diuna lucentezza dura e metallica. Teneva in mano unaspatola di aloe, per grattarsi la pelle.

Infine due araldi suonarono i loro corni d’argento; iltumulto si placò, e Annone si mise a parlare.

Cominciò elogiando gli dèi e la Repubblica; i Barbaridovevano essere lieti di averla servita. Ma bisognavamostrarsi più ragionevoli, i tempi erano duri, «e se unpadrone ha soltanto tre olive, non è giusto che ne tenga

due per sé?».Così il vecchio suffeta farciva il suo discorso di

proverbi e apologhi, e intanto faceva cenni con la testaper sollecitare consensi.

Parlava punico, e quelli che lo circondavano (i piùsolleciti erano accorsi senza le armi) erano Campani,Galli, Greci, e così nessuno in quella folla lo capiva.Annone se ne accorse, si fermò, e cominciò a dondolarsipesantemente, da una gamba all’altra, riflettendo.

Gli venne l’idea di convocare i capitani; allora i suoiaraldi gridarono l’ordine in greco, la lingua che, dai tempidi Santippo,17 veniva usata per gli ordini negli eserciticartaginesi.

Le guardie, a colpi di frusta, costrinsero la folla deisoldati a fare largo; e dopo poco giunsero i capitani dellefalangi alla spartana e i capi delle coorti barbare, con leinsegne del loro grado e le armature del loro paese. Eracalata la notte, e un grande rumore agitava la pianura;qua e là ardevano fuochi; di soldato in soldato, ci sichiedeva «Che succede?», e perché il suffeta nondistribuiva il denaro?

Costui stava esponendo ai capitani gli oneri infinitidella Repubblica. Il tesoro era vuoto. Il tributo deiRomani la schiacciava. «Non sappiamo più che fare!... LaRepubblica è da compiangere».

Di tanto in tanto si sfregava le membra con la spatoladi aloe, oppure si interrompeva per bere da una coppad’argento, che gli porgeva uno schiavo, una tisana fatta

con cenere di donnola e asparagi bolliti in aceto; poi siasciugava le labbra con un tovagliolo scarlatto, eriprendeva:

«Ciò che valeva un siclo18 d’argento oggi vale tre siclid’oro, e le colture abbandonate durante la guerra nonproducono niente! Le nostre peschiere di porpora sonoquasi perdute, le perle hanno raggiunto prezziesorbitanti; abbiamo appena unguenti a sufficienza per ilculto degli dèi! Quanto alle cose della tavola, non neparlo neppure, è un disastro! Mancandoci le galee, cimancano le spezie, ed è quasi impossibile rifornirsi disilfio, a causa delle ribellioni alla frontiera di Cirene. LaSicilia, dove si trovavano tanti schiavi, ora ci è preclusa!Proprio ieri, per un servo dei bagni e quattro sguatteri,ho speso più denaro di quanto ne avrei speso un tempoper una coppia di elefanti!».

Svolse un lungo rotolo di papiro; e lesse, senza saltareuna sola cifra, tutte le spese che il governo avevasostenuto: tanto per riparare i templi, tanto per lastricarele strade, tanto per costruire navi, e poi per le peschieredi corallo, per ingrandire i Sissizi, e per alcune macchineche servivano nelle miniere, nel paese dei Cantabri.

Ma i capitani, come i loro soldati, non capivano ilpunico, anche se i Mercenari si salutavano in quellalingua. Di solito si piazzavano negli eserciti dei Barbaricerti ufficiali cartaginesi che facevano da interpreti; dopola guerra si erano nascosti per timore di rappresaglie, eAnnone non aveva pensato a portarli con sé; comunque

la sua voce troppo sorda si perdeva nel vento.I Greci, stretti nei cinturoni di ferro, tendevano

l’orecchio nello sforzo d’indovinare le sue parole, mentrealcuni montanari, coperti di pelli come orsi, loguardavano con diffidenza o sbadigliavano, appoggiatialla clava chiodata di bronzo. I Galli disattenti scuotevanoridendo le folte capigliature, e gli uomini del desertoascoltavano immobili, incappucciati nei mantelli di lanagrigia: altri sopraggiungevano da dietro; le guardie,spinte dalla calca, barcollavano sui loro cavalli; i Negrireggevano a braccia tese rami d’abete in fiamme e ilgrosso Cartaginese continuava la sua arringa, dall’alto diun poggio erboso.

I Barbari intanto cominciavano a innervosirsi; siudirono dei mormorii e ognuno si mise a redarguirlo.Annone gesticolava con la sua spatola; quelli chevolevano far tacere gli altri, gridando più forteaumentavano il baccano.

Improvvisamente un uomo dall’aspetto meschino saltòai piedi di Annone, strappò la tromba a un araldo, visoffiò dentro, e Spendio (perché si trattava di lui)annunciò che aveva qualcosa di importante da dire. Aquesta dichiarazione, subito tradotta in cinque linguediverse, greco, latino, gallo, libico e balearico, i capitani,un po’ ridendo e un po’ sorpresi, risposero: «Parla!Parla!».

Spendio esitò; tremava. Poi, rivolgendosi ai Libici, cheerano i più numerosi, disse loro:

«Avete udito tutti le orribili minacce di quest’uomo!».Annone non protestò, dunque non capiva affatto il

libico; e, per continuare l’esperimento, Spendio ripeté lastessa frase negli altri idiomi dei Barbari.

Si guardarono stupiti; poi tutti, come per un tacitoaccordo, credendo forse d’aver capito, abbassarono latesta in segno di assenso.

Allora Spendio cominciò con voce veemente:«Innanzitutto ha detto che tutti gli dèi degli altri popoli

sono solo fantasie al confronto con gli dèi di Cartagine! Evi ha chiamati vigliacchi, ladri, bugiardi, cani e figli dicagne! Se non fosse per voi (ha detto questo!) laRepubblica non sarebbe costretta a pagare il tributo aiRomani; e con i vostri eccessi l’avete lasciata senzaprofumi, senza aromi, senza schiavi e senza silfio, perchéve la intendete con i nomadi alla frontiera di Cirene! Ma icolpevoli saranno puniti! Ha letto l’elenco dei supplizi:dovranno lavorare a lastricare le strade, a costruire navi,ad abbellire i Sissizi, e gli altri saranno mandati a grattarela terra nelle miniere, nel paese dei Cantabri».

Spendio ripeté le stesse cose ai Galli, ai Greci, aiCampani, ai Balearici. Riconoscendo molte parole che giàavevano colpito la loro attenzione, i Mercenari furonoconvinti che riferisse esattamente il discorso del suffeta.Alcuni gridarono: «Tu menti!». Le loro voci si persero neltumulto degli altri; Spendio aggiunse:

«Non avete visto che ha lasciato fuori del campo unariserva dei suoi cavalieri? A un segnale accorreranno a

scannarvi tutti».I Barbari si voltarono da quel lato, e in mezzo alla folla

che si stava aprendo si vide avanzare, con la lentezza diun fantasma, un essere umano tutto curvo, magro,completamente nudo e coperto fino ai fianchi da lunghicapelli irti di foglie secche, polvere e spine. Aveva intornoalle reni e alle ginocchia impacchi di argilla e paglia, ebrandelli di tela; la pelle floscia e terrea penzolava dallemembra scarnite, come stracci su rami secchi; le mani glitremavano con un fremito continuo, e camminavaappoggiandosi a un bastone di olivo.

Giunse vicino ai Negri che reggevano le torce. Unasorta di ghigno idiota gli scopriva le gengive esangui; igrandi occhi smarriti scrutavano la folla dei Barbari chegli era intorno.

Poi, con un urlo di terrore, si gettò dietro di loro,cercando rifugio dietro i loro corpi; balbettava «Eccoli!eccoli!», e indicava le guardie del suffeta, immobili nellearmature lucenti. I loro cavalli scalpitavano, abbagliatidalla luce delle torce che scoppiettavano nelle tenebre; lospettro umano si dibatteva e urlava: «Li hannoammazzati!».

A queste parole che gridava in balearico, alcuniBalearici si avvicinarono e lo riconobbero; senzarispondere loro, continuava a ripetere:

«Sì, ammazzati tutti, tutti! Schiacciati come uva! Queibei giovani! I frombolieri! I miei compagni, i vostri!».

Gli fecero bere del vino, e pianse; poi si lasciò andare

alle parole.Spendio faceva fatica a contenere la sua gioia, mentre

spiegava ai Greci e ai Libici le cose orribili che raccontavaZarxas;19 non poteva crederci, tanto giungevano aproposito. I Balearici impallidivano venendo a sapere inquale modo erano morti i loro compagni.

Si trattava di una schiera di trecento frombolierisbarcati il giorno prima della partenza, e che quel giornoavevano dormito troppo a lungo. Giunsero sulla piazza diKhamon, quando i Barbari erano partiti, e si trovaronosenza difesa perché le loro pallottole d’argilla erano statecaricate sui cammelli con il resto dei bagagli. Lilasciarono avanzare nella via di Satheb, fino alla porta diquercia rivestita di piastre di bronzo; allora il popolo, inun solo movimento, si era gettato su di loro.

In effetti, i soldati si ricordarono di un grande grido;Spendio, che fuggiva in testa alle colonne, non l’avevaudito.

I cadaveri furono poi sistemati tra le braccia degli dèiPateci20 che circondavano il tempio di Khamon. Furonorimproverati loro tutti i crimini dei Mercenari: l’ingordigia,i furti, le empietà, l’arroganza, e il massacro dei pesci nelgiardino di Salammbô. Ai loro corpi furono inflittemutilazioni atroci; i sacerdoti ne bruciarono i capelli pertormentare le loro anime; li appesero a pezzi nellebotteghe dei macellai; qualcuno giunse ad affondarvi identi, e la sera, per farla finita, furono accesi roghi neicrocevia.

Erano queste le fiamme che rilucevano da lontano sullago. Ma siccome qualche casa aveva preso fuoco, sierano affrettati a gettare oltre le mura quanto restava dicadaveri e agonizzanti. Zarxas era rimasto nascosto neicanneti, sulle rive del lago, fino all’indomani; poi avevaerrato per la campagna, alla ricerca dell’esercito,seguendone le tracce dei passi nella polvere. Al mattinosi nascondeva nelle caverne; la sera, si rimetteva inmarcia, con le piaghe sanguinanti, affamato, malato,sopravvivendo di radici e carogne; un giorno, finalmente,aveva scorto delle lance all’orizzonte e le aveva seguite,perché a forza di terrori e disgrazie la sua ragione erasconvolta.

L’indignazione dei soldati, contenuta mentre parlava,esplose come una tempesta; ora volevano massacrare leguardie con il suffeta. Ma alcuni si misero in mezzo,dicendo che bisognava ascoltarlo e almeno sapere sesarebbero stati pagati. A llora tutti gridarono: «Il nostrodenaro!». Annone rispose loro che l’aveva portato.

Corsero agli avamposti, e i bagagli del suffeta giunseroin mezzo alle tende spinti dai Barbari. Senza attendere glischiavi, subito aprirono le ceste; vi trovarono vesti digiacinto,21 spugne, strigili, spazzole, profumi, bacchetted’antimonio per truccarsi gli occhi; il tutto appartenevaalle Guardie, uomini ricchi abituati a simili raffinatezze.Poi si scoprì su un cammello una grande tinozza dibronzo: era del suffeta, per fare il bagno durante ilviaggio; costui aveva preso infatti ogni sorta di

precauzioni, fino a portare con sé, nelle loro gabbie, ledonnole di Ecatompilo che venivano bruciate vive perpreparare la sua tisana. E poiché la sua malattia glimetteva un grande appetito, c’erano anche molticommestibili e molto vino, salamoie, carni e pesci almiele, e vasetti di Commageno, grasso d’oca fusoricoperto di neve e paglia tritata.22 Le provviste eranoconsiderevoli; man mano che si aprivano le ceste,continuavano a venirne fuori, e le risate si alzavano comeonde che cozzassero insieme.

Quanto alla paga dei Mercenari, riempiva più o menodue canestri di sparto; in uno, addirittura, si vedevanoalcune di quelle rotelle di cuoio che la Repubblica usavacome monete; e poiché i Barbari sembravano moltosorpresi, Annone dichiarò che, essendo i loro contitroppo difficili, gli Anziani non avevano avuto il tempo diesaminarli con calma. Intanto, era quello chemandavano.

Allora tutto fu rovesciato, gettato all’aria: i muli, iservi, la lettiga, le provviste, i bagagli. I soldati presero lemonete dai canestri per lapidare Annone. A stento costuiriuscì a salire su un asino; fuggiva aggrappato al pelo,urlando, piangendo, sbattuto, contuso, e intanto invocavala maledizione di tutti gli dèi sull’esercito. La grandecollana di pietre preziose gli sobbalzava fino agli orecchi.Tratteneva coi denti il mantello troppo lungo,trascinandoselo dietro, e i Barbari da lontano gligridavano: «Vattene, vigliacco! Maiale! Fogna di Moloch!

Suda il tuo oro e la tua peste! Più in fretta! Più in fretta!».La scorta in rotta galoppava ai suoi fianchi.

Ma il furore dei Barbari non si placò. Si ricordaronoche molti di loro, partiti per Cartagine, non eranoritornati; dovevano averli uccisi. Tanta ingiustizia liesasperò, e si misero a svellere i picchetti delle tende, adarrotolare i mantelli, a imbrigliare i cavalli; ognuno presel’elmo e la spada, in un istante tutti furono pronti. Quelliche non avevano armi, si lanciarono nei boschi a tagliarsidei bastoni.

Sorgeva il giorno; gli abitanti di Sicca, svegliati,riempivano le strade. «Vanno a Cartagine», si diceva, equesta voce si sparse rapidamente nella contrada.

Da ogni sentiero, da ogni vallone sbucavano uomini.Si vedevano i pastori che di corsa scendevano dallemontagne.

Poi, quando i Barbari furono partiti, Spendio fece ilgiro della pianura, a cavallo del suo stallone punico e conil suo schiavo che conduceva un terzo cavallo.

Una sola tenda era restata. Spendio vi entrò.«In piedi, padrone! Alzati! Partiamo!».«E dove andate?», chiese Mâtho.«A Cartagine!», gridò Spendio.Mâtho saltò sul cavallo che lo schiavo teneva sulla

soglia.

IIISalammbô

La luna si alzava a fior d’acqua, e, sulla città ancoracoperta di tenebre, brillavano dei punti luminosi, deichiarori: il timone di un carro in un cortile, qualchecencio di tela appeso, l’angolo di un muro, una collanad’oro sul petto di un dio. I globi di vetro sui tetti deitempli rilucevano, qua e là, come grossi diamanti. Marovine confuse, mucchi di terra nera e giardini formavanonel buio masse più scure, e giù a Malqua le reti deipescatori erano stese da una casa all’altra comegiganteschi pipistrelli ad ali aperte. Non si udiva più ilcigolio delle ruote idrauliche che portavano l’acquaall’ultimo piano dei palazzi; e in mezzo alle terrazze icammelli riposavano tranquilli, sdraiati sul ventre, allamaniera degli struzzi. I portieri dormivano nelle stradesull’uscio delle case; l’ombra dei colossi si allungava sullepiazze deserte; talvolta, in lontananza, il fumo di unsacrificio ancora ardente sfuggiva tra le tegole di bronzo,e una calda brezza portava col profumo di erbe

aromatiche i sapori della marina e le esalazioni dei muriscaldati dal sole. Intorno a Cartagine le ondesplendevano immobili, perché la luna diffondeva la sualuce sia sul golfo chiuso dalle montagne che sul lago diTunisi, dove i fenicotteri disegnavano tra i banchi disabbia lunghe linee rosa; al di là del lago, sotto leCatacombe, la grande laguna salata luccicava come unpezzo d’argento. La volta del cielo blu sprofondavanell’orizzonte, da un lato nella polvere delle pianure,dall’altro nelle brume del mare, e sulla cima dell’Acropolii cipressi piramidali intorno al tempio di Eshmunondeggiavano, con un mormorio simile ai lenti e regolaribattiti della risacca contro il molo, sotto i bastioni.

Salammbô salì sulla terrazza del suo palazzo, sorrettada una schiava che portava in un piatto di ferro deicarboni ardenti.

In mezzo alla terrazza c’era un lettino d’avorio copertodi pelli di lince con cuscini di piume di pappagallo,animale fatidico sacro agli dèi, e ai quattro angoli siinnalzavano quattro lunghi bruciaprofumi pieni di nardo,incenso, cinnamomo e mirra. La schiava accese iprofumi. Salammbô guardò la stella polare; salutòlentamente i quattro punti del cielo, e si inginocchiò sulpavimento sulla polvere azzurra disseminata di stelled’oro, a imitazione del firmamento. Poi, con i gomiti suifianchi, gli avambracci protesi e le mani aperte,rovesciando la testa sotto i raggi della luna, disse:

«O Rabbetna!... Baalet!... Tanit!», 1 e la sua voce si

trascinava in tono lamentoso, come per chiamarequalcuno. «Anaitis! Astarte! Derceto! Astoreth! Militta!Athara! Elissa! Tiratha!...2 Per i simboli occulti; per le miecetre sonore; per i solchi della terra; per il silenzio eternoe l’eterna fecondità; dominatrice del tenebroso mare edelle azzurre spiagge, o Regina delle cose umide, salute ate!».

Ondeggiò con tutto il corpo due o tre volte, poi sigettò con la fronte nella polvere, a braccia aperte.

La schiava la risollevò prontamente, perché bisognava,secondo i riti, che qualcuno sottraesse la supplice alla suaprosternazione; significava dirle che gli dèi la gradivano,e la nutrice di Salammbô non mancava mai di adempierequesto dovere di devozione.

Alcuni mercanti della Getulia Darizia3 l’avevano portataancora bambina a Cartagine, e dopo il suo affrancamentonon aveva voluto abbandonare i suoi padroni, comeprovava l’orecchio destro col suo grande foro. Una gonnaa strisce multicolori le serrava le anche e scendeva finoalle caviglie, dove si urtavano due anelli di stagno. Ilvolto, piuttosto comune, era giallo come la sua tunica.Spilloni d’argento molto lunghi disegnavano una sorta diraggiera dietro la testa. Portava su una narice un bottonedi corallo, e stava accanto al letto, più dritta di un’erma ele palpebre abbassate.

Salammbô si avvicinò al parapetto della terrazza. Isuoi occhi percorsero in un attimo l’orizzonte, poi siabbassarono sulla città addormentata, e il sospiro che

emise, sollevandole i seni, fece ondeggiare da un capoall’altro la lunga zimarra bianca che le scendeva intorno,senza fibbia né cintura. I sandali dalle punte ricurvescomparivano sotto un cumulo di smeraldi, e i capellisciolti riempivano una reticella di fili di porpora.

Poi risollevò la testa per contemplare la luna, emescolando alle sue parole frammenti di un inno,mormorò:

«Come ruoti leggera, sorretta dall’etere impalpabile,che intorno a te si leviga! Ed è il moto del tuo corso adistribuire i venti e le rugiade feconde. A seconda che tucresca o diminuisca, si allungano e si rimpiccioliscono gliocchi dei gatti e le macchie delle pantere. Le spose urlanoil tuo nome nel dolore dei parti! Tu gonfi i frutti di mare!Fai fermentare i vini! Mandi in putrefazione i cadaveri!Formi le perle in fondo ai mari!

«E tutti i germi, o dea!, fermentano nelle oscuritàprofonde della tua umidità.

«Quando appari, sulla terra si diffonde la quiete; i fiorisi chiudono, i flutti si placano, gli uomini stanchi sisdraiano col petto rivolto verso di te, e il mondo con isuoi oceani e le sue montagne si contempla nel tuo voltocome in uno specchio. Sei bianca, dolce, luminosa,immacolata, ausiliatrice, purificatrice, serena».

La falce della luna era allora sulla Montagna delleAcque Calde, nella cavità tra le due vette, dall’altro latodel golfo. Più in basso brillava una piccola stella, etutt’intorno un alone chiaro. Salammbô riprese:

«Ma sei anche terribile padrona!... È per opera tua chesi generano i mostri, i fantasmi terrificanti, i sognimendaci; i tuoi occhi divorano le pietre degli edifici, e lescimmie si ammalano tutte le volte che ti rinnovi.

«Dove vai dunque? Perché cambiare forma dicontinuo? Ora sottile e curva, scivoli negli spazi comegalea senz’alberi, ora in mezzo alle stelle sembri unpastore che custodisca il gregge. Lucente e rotonda, sfiorila cima dei monti come la ruota di un carro.

«O Tanit! Tu mi ami, vero? Quanto ti ho guardato! Mano! Tu corri nel tuo azzurro, e io resto sulla terraimmobile.

«Taanach, prendi il tuo nebal 4 e suona molto pianosulla corda d’argento, perché il mio cuore è triste!».

La schiava sollevò una specie di arpa in legno d’ebanopiù alta di lei, triangolare come un delta; ne fissò lapunta in un globo di cristallo, e si mise a suonare con ledue mani.

I suoni si susseguivano, sordi e veloci come un ronziodi api: in un crescendo d’intensità si alzavano nella nottecon il lamento dei flutti e il fremito dei grandi alberi sullacima dell’Acropoli.

«Taci!», gridò Salammbô.«Che hai dunque, padrona? La brezza che soffia, una

nube che passa, tutto ora ti inquieta e ti agita».«Non so», disse lei.«Ti affatichi in preghiere troppo lunghe!».«Oh, Taanach! Vorrei dissolvermi in esse come un

fiore nel vino!».«Sono forse le esalazioni dei tuoi profumi?»«No!», disse Salammbô. «Lo spirito degli dèi dimora

nei buoni odori».Allora la schiava le parlò di suo padre. Lo credevano

partito per il paese dell’ambra, al di là delle colonne diMelkarth.5

«Ma se non torna», diceva, «dovrai comunquescegliere uno sposo tra i figli degli Anziani, poiché questaera la sua volontà; e allora la tua afflizione sparirà tra lebraccia di un uomo».

«Perché?», chiese la fanciulla. Tutti quelli che avevavisto le facevano orrore con le loro risate da bestieselvatiche e le membra grossolane.

«Talvolta, Taanach, esalano dal fondo del mio esserevampate di calore, più dense dei vapori di un vulcano.Voci mi chiamano, un globo di fuoco rotola e sale nelmio petto, mi soffoca, sto per morire; poi, qualcosa disoave, che scende dalla fronte ai piedi, passa nella miacarne... è una carezza che mi avvolge, e io mi sentoschiacciata come se un dio si stendesse su di me. Oh!Vorrei perdermi nella nebbia delle notti, nell’acqua dellefontane, nella linfa degli alberi, uscire dal mio corpo, nonessere che un soffio, un raggio di luce, e scivolare, salirefino a te, o Madre!».

Alzò le braccia il più in alto possibile, inarcando la vita,pallida e leggera come la luna, nella sua lunga veste. Poiricadde ansimante sul giaciglio d’avorio; ma Taanach le

mise intorno al collo una collana d’ambra con denti didelfino per scacciare le paure, e Salammbô disse convoce quasi spenta:

«Vai a cercarmi Shahabarin».Suo padre non aveva voluto che lei entrasse nel

collegio delle sacerdotesse, e neppure che venisse aconoscere alcunché della Tanit popolare. La riservava aun matrimonio che potesse servire alla sua politica, e perquesto Salammbô viveva sola nel palazzo; sua madre eramorta da molto tempo.

Era cresciuta tra astinenze, digiuni e purificazioni,sempre circondata da cose squisite e austere, il corposaturo di profumi, l’anima piena di preghiere. Non avevamai assaggiato vino, né mangiato carne, né toccato unanimale immondo, né messo piede nella casa di unmorto.

Ignorava i simulacri osceni; dato che ogni dio simanifestava in forme diverse, culti spesso contraddittoritestimoniavano uno stesso principio, e Salammbôadorava la dea nella sua figurazione siderale. Un influssoera sceso dalla luna sulla vergine: quando l’astro era infase calante, Salammbô si indeboliva. Languida per tuttoil giorno, si rianimava la sera. Durante un’eclisse, perpoco non era morta.

Ma la Rabbet gelosa si vendicava di quella verginitàsottratta ai suoi sacrifici, e tormentava Salammbô conossessioni tanto più forti in quanto erano vaghe, diffusein quella credenza e da essa ravvivate.

La figlia di Amilcare si preoccupava continuamente diTanit. Aveva appreso le sue avventure, i suoi viaggi etutti i suoi nomi che ripeteva anche se per lei nonavevano un significato preciso. Per penetrare leprofondità del suo dogma, voleva conoscere nel luogopiù segreto del tempio il vecchio idolo con il magnificomantello da cui dipendevano i destini di Cartagine,poiché l’idea di un dio non si distingueva nettamentedalla sua raffigurazione, e possedere o anche solo vedereil suo simulacro significava appropriarsi di una parte dellasua virtù e, in qualche modo, dominarlo.

Salammbô si volse. Aveva riconosciuto il rumore deicampanelli d’oro che Shahabarin portava appesi all’orlodella tunica.

Costui salì le scale; poi, sulla soglia della terrazza, sifermò incrociando le braccia.

I suoi occhi infossati brillavano come le lampade di unsepolcro; il lungo corpo magro fluttuava nella veste dilino, appesantita dai sonagli che sui talloni si alternavanocon grossi smeraldi. Le sue membra erano deboli, ilcranio obliquo, il mento aguzzo; la pelle sembrava freddaal tatto, e la faccia gialla, solcata da rughe profonde,come contratta da un desiderio, da un eterno dolore.

Era il gran sacerdote di Tanit, colui che aveva allevatoSalammbô.

«Parla!», disse. «Che vuoi?»«Speravo... mi avevi quasi promesso...».Salammbô balbettava, turbata; poi, tutt’a un tratto:

«Perché mi disprezzi? Cosa ho dimenticato nei riti? Seiil mio maestro, e mi hai detto che nessuno conoscevameglio di me le cose della dea; ma ce ne sono che nonvuoi dirmi. È vero, padre?».

Shahabarin si ricordò gli ordini di Amilcare, e rispose:«No, non ho altro da insegnarti!».«Un Genio», riprese lei, «mi spinge a questo amore.

Ho salito la scala di Eshmun, dio dei pianeti e delleintelligenze; ho dormito sotto l’olivo d’oro di Melkarth,patrono delle colonie tirie; ho spinto le porte di Baal-Khamon, che porta la luce e la fertilità; ho sacrificato aiCabiri sotterranei, agli dèi dei boschi, dei venti, dei fiumie delle montagne; ma tutti sono troppo lontani, troppo inalto, troppo insensibili, capisci?... Mentre lei, la sentounita alla mia vita; mi riempie l’anima, e sento deisobbalzi interiori come se stesse tentando di fuggirsenevia. Mi sembra di udire la sua voce, di vedere il suovolto; dei lampi mi abbagliano, poi ripiombo nelletenebre».

Shahabarin taceva. Salammbô, con uno sguardosupplice, gli chiedeva una risposta.

Alla fine, con un gesto, fece allontanare la schiava, chenon era di razza cananea. Taanach scomparve, eShahabarin, alzando in aria un braccio, cominciò:

«Prima degli dèi, c’erano solo le tenebre, e un soffiofluttuava, greve e indistinto come la coscienza di unuomo che stia sognando. Poi quel soffio si contrasse,creando il Desiderio e la Nube, e dal Desiderio e dalla

Nube uscì la Materia primitiva. Era un’acqua melmosa,nera, gelata, profonda. Racchiudeva mostri insensibili,parti incoerenti delle forme destinate a nascere e chesono dipinte sulle pareti dei santuari.

«Poi la Materia si condensò. Divenne un uovo. Siruppe. Una metà formò la terra, l’altra il firmamento.Apparvero il sole, la luna, i venti, le nubi; e, al frastuonodella folgore, gli animali intelligenti si svegliarono. AlloraEshmun si svolse nella sfera stellata; Khamon splendettenel sole; Melkarth lo spinse con le braccia dietro Gades; iCabiri scesero sotto i vulcani, e Rabbetna, come unanutrice, si chinò sul mondo, versando la sua luce comelatte e la notte come un mantello».

«E poi?», chiese Salammbô.Le aveva narrato il segreto delle origini per distrarla

con prospettive più elevate; ma il desiderio della verginesi riaccese a queste ultime parole, e Shaharabin, cedendoin parte, proseguì:

«È lei che ispira e governa gli amori degli uomini».«Gli amori degli uomini!», ripeté Salammbô, sognante.«È lei l’anima di Cartagine», continuò il prete, «e

benché sia presente in ogni luogo è qui che dimora, sottoil velo sacro».

«O padre!», gridò Salammbô. «Io la vedrò, vero? Micondurrai da lei! Da molto tempo esitavo; la curiositàdella sua forma mi divora. Pietà! Aiuto! Andiamo!».

Il sacerdote la respinse con un gesto veemente ealtero.

«Mai! Non lo sai che si muore? I Baal ermafroditi6 sisvelano solo per noi, uomini nell’animo, donne nelladebolezza. Il tuo desiderio è un sacrilegio; contentatidella scienza che possiedi!».

Salammbô cadde in ginocchio, appoggiando due ditasugli orecchi in segno di pentimento; e singhiozzava,distrutta dalle parole del sacerdote, al tempo stesso pienadi collera contro di lui, di terrore e di umiliazione.Shahabarin, in piedi, restava più insensibile delle pietredella terrazza. La guardava dall’alto in basso, tuttafremente ai suoi piedi, e provava una sorta di gioia nelvederla soffrire per la sua divinità, che neppure lui potevaafferrare nella sua interezza. Già gli uccelli cantavano,soffiava un vento freddo, delle nuvolette correvano nelcielo più chiaro. Tutt’a un tratto egli scorse all’orizzonte,dietro Tunisi, qualcosa come una nebbia leggera checorreva sul suolo; poi fu un grande velario di polveregrigia, disteso perpendicolarmente, e, nel turbinìo diun’enorme massa, apparvero teste di dromedari, lance escudi. Era l’esercito dei Barbari che avanzava suCartagine.

IVSotto le mura di Cartagine

La gente della campagna, sugli asini o correndo a piedi,pallida, ansimante, terrorizzata, arrivò in città. Era in fugadavanti all’esercito, che in tre giorni aveva compiuto ilpercorso da Sicca a Cartagine per venire a distruggeretutto.

Furono chiuse le porte. I Barbari apparvero quasisubito; ma si fermarono a metà dell’istmo, sulla riva dellago.

All’inizio non ebbero atteggiamenti ostili. Molti siavvicinarono tenendo delle palme in mano. Furonorespinti a colpi di freccia, tanto era il terrore.

Talvolta, al mattino e al calar della sera, si vedevaqualcuno aggirarsi lungo le mura. Si notava in particolareun uomo piccolo, accuratamente avvolto in un mantello,il volto che scompariva sotto una visiera molto bassa.Restava per ore a osservare l’acquedotto, con una taleinsistenza da far credere che volesse confondere iCartaginesi sulle sue vere intenzioni. Lo accompagnava

un altro uomo, una sorta di gigante che camminava atesta scoperta.

Ma Cartagine era difesa sull’intera larghezza dell’istmo:prima da un fossato, poi da un terrapieno erboso, einfine da un muro, alto trenta cubiti, in pietre squadrate esu due piani. Conteneva scuderie per trecento elefanti,con i magazzini per le loro gualdrappe, le bardature e ilforaggio, poi altre scuderie per quattromila cavalli con leprovviste d’orzo e i finimenti, e caserme per ventimilasoldati con le armature e tutto il materiale da guerra. Sulsecondo piano si ergevano delle torri, completamentemerlate, con all’esterno, appesi a uncini, scudi di bronzo.

Quella prima linea di mura riparava innanzituttoMalqua, il quartiere dei marinai e dei tessitori. Siscorgevano pennoni dov’erano ad asciugare vele diporpora, e sulle ultime terrazze forni d’argilla per cuocerela salamoia.

Dietro, la città sovrapponeva in forma di anfiteatro lesue alte case cubiche. Erano costruite in pietra, tavole,ciottoli, canne, conchiglie, terra battuta. I boschi deitempli formavano delle specie di laghi di verde in quellamontagna di blocchi variamente colorati. Le piazzepubbliche la livellavano a distanze ineguali; innumerevolistradine si incrociavano, la tagliavano dall’alto in basso.Si distinguevano le cinte dei tre vecchi quartieri, oraconfuse insieme; si alzavano qua e là come grandi scogli,o si allungavano in ammassi enormi, mezzi coperti difiori, anneriti, ampiamente percorsi dagli scarichi dei

rifiuti, e attraverso gli squarci spalancati passavano dellestrade, come fiumi sotto i ponti.

La collina dell’Acropoli, al centro di Birsa, scomparivasotto un cumulo disordinato di monumenti. Erano templidalle colonne tortili con capitelli di bronzo e catene dimetallo, coni in pietra a secco con strisce blu, cupole dirame, architravi di marmo, contrafforti babilonesi,obelischi poggiati sulla punta come torce rovesciate. Iperistili raggiungevano i frontoni; le volute si svolgevanotra i colonnati; muri di granito sostenevano paratie dicotto; tutto ciò si sovrapponeva, nascondendosi in parte,in un modo grandioso e incomprensibile. Si avvertiva ilsuccedersi delle età, come un ricordo di patriedimenticate.

Dietro l’Acropoli, su terreni rossi, la via dei Mappali,fiancheggiata da tombe, si allungava in linea retta dal lidoalle Catacombe; più in là, grandi abitazioni si spargevanotra i giardini, e quel terzo quartiere, Megara, la cittànuova, giungeva fino al limite della scogliera, dovesorgeva un faro gigantesco che ardeva ogni notte.

Così si dispiegava Cartagine davanti ai soldatiaccampati in pianura.

Da lontano riconoscevano i mercati, i crocicchi;discutevano tra loro sull’ubicazione dei templi. Quello diKhamon, di fronte ai Sissizi, aveva tegole d’oro; Melkarth,a sinistra di Eshmun, aveva sul tetto rami di corallo; piùin là, Tanit arrotondava tra le palme la sua cupola dirame; il nero Moloch era in basso rispetto alle cisterne,

dalla parte del faro. Agli angoli dei frontoni, sopra i muri,nelle piazze, ovunque si vedevano divinità dalla testamostruosa, colossali o tozze, con ventri enormi, osmisuratamente appiattite, con la bocca spalancata, lebraccia aperte, con in mano forche, catene o giavellotti; eil blu del mare si stendeva in fondo alle strade, che laprospettiva faceva apparire ancora più scoscese.

Una folla tumultuosa le riempiva dalla mattina allasera; ragazzi con campanelli in mano gridavano sullaporta dei bagni; le botteghe di bevande calde fumavano,nell’aria risuonavano i colpi sulle incudini, i galli bianchiconsacrati al Sole cantavano sulle terrazze, i buoi chevenivano sgozzati muggivano nei templi, e schiavicorrevano con ceste sulla testa; e nelle profondità deiportici appariva qualche sacerdote avvolto in uno scuromantello, a piedi nudi, con un berretto a punta.

Lo spettacolo di Cartagine irritava i Barbari. Laammiravano, la esecravano, avrebbero voluto nellostesso tempo annientarla e abitarvi. Ma cosa c’era nelPorto Militare, difeso da una triplice muraglia? Poi, dietrola città, in fondo a Megara, più in alto dell’Acropoli,appariva il palazzo di Amilcare.

Gli occhi di Mâtho vi si posavano in ogni momento.Saliva sugli olivi, e si sporgeva, con la mano tesa sullesopracciglia. I giardini erano vuoti, e la porta rossa acroce nera restava sempre chiusa.

Più di venti volte fece il giro dei bastioni, alla ricerca diun varco per entrare. Una notte si tuffò nel golfo e nuotò

per tre ore senza mai fermarsi. Giunse sotto i Mappali,tentò di arrampicarsi sulla scogliera. Si insanguinò leginocchia, si spezzò le unghie, poi ricadde in acqua etornò indietro.

La sua impotenza lo esasperava. Era geloso di quellaCartagine che imprigionava Salammbô, come di qualcunoche l’avesse posseduta. Poi la prostrazione passò, esubentrò un ardore di azione folle e senza tregua. Leguance in fiamme, gli occhi irritati, la voce rauca, siaggirava per il campo a passi rapidi; oppure, seduto sullariva, sfregava con la sabbia la sua grande spada. Lanciavafrecce agli avvoltoi che passavano. Il suo cuoretraboccava di parole furiose.

«Lascia andare la tua collera come un carro senzafreni», diceva Spendio. «Grida, bestemmia, distruggi euccidi. Il dolore si placa con il sangue, e poiché non puoiappagare il tuo amore, ingozza il tuo odio; esso tisosterrà!».

Mâtho riprese il comando dei suoi soldati. Li facevaesercitare senza sosta. Lo rispettavano per il suocoraggio, ma soprattutto per la sua forza. Del resto,incuteva una sorta di timore mistico; si credeva che dinotte parlasse con i fantasmi. Il suo esempio spronò glialtri capitani. Ben presto l’esercito ritrovò la disciplina.Dalle loro case i Cartaginesi udivano la fanfara dellebuccine che ritmava gli esercizi. A lla fine i Barbari siavvicinarono.

Per annientarli sull’istmo sarebbe stato necessario che

due eserciti li attaccassero alle spallecontemporaneamente, il primo sbarcando in fondo algolfo di Utica, il secondo presso la Montagna delle AcqueCalde. Ma che fare con la sola Legione sacra, forte diseimila uomini al massimo? Se avessero piegato a orientesi sarebbero uniti ai Nomadi, interrompendo la via diCirene e il commercio attraverso il deserto. Se inveceavessero piegato a occidente, si sarebbe sollevata laNumidia. Infine la mancanza di viveri li avrebbe costretti,prima o poi, a devastare come cavallette le campagneintorno; i Ricchi tremavano per i loro bei castelli, per ivigneti, per le colture.

Annone propose misure atroci e impraticabili, come lapromessa di una forte somma per ogni testa di Barbaro ol’idea di incendiare il loro accampamento con navi emacchine da guerra. Il suo collega Giscone voleva, alcontrario, che venissero pagati. Ma, a causa della suapopolarità, gli Anziani lo detestavano; infatti nonvolevano correre il rischio di doversi sottomettere a unpadrone e, temendo la monarchia, cercavano diindebolire ciò che ne restava o potesse rinsaldarla.

Al di là delle fortificazioni c’era della gente di un’altrarazza e di origini sconosciute, tutti cacciatori diporcospini, mangiatori di molluschi e di serpenti.Andavano nelle caverne a catturare le iene vive, che lasera si divertivano a far correre sulle sabbie di Megara,tra le stele delle tombe. Le loro capanne di fango e dialghe erano avvinghiate alla scogliera come nidi dirondini. Vivevano là dentro, senza governo e senza dèi,

rondini. Vivevano là dentro, senza governo e senza dèi,in promiscuità, completamente nudi, deboli e feroci nellostesso tempo, e da secoli esecrati dal popolo a causa deiloro cibi immondi. Una mattina le sentinelle si accorseroche erano andati via tutti.

A lla fine alcuni membri del Gran Consiglio si decisero.Vennero al campo, senza collane né cinture, in ciabatte,come vicini. Avanzavano con passo tranquillo, salutando icapitani, oppure fermandosi a parlare con i soldati,dicendo che era tutto finito e che le loro richieste stavanoper essere soddisfatte.

Molti di loro vedevano per la prima volta unaccampamento di Mercenari. Invece della confusione cheavevano immaginato, ovunque c’erano un ordine e unsilenzio che mettevano paura. Un terrapieno erbosochiudeva l’esercito entro un’alta muraglia, incrollabilesotto i colpi delle catapulte. Le strade erano bagnated’acqua fresca; attraverso i fori delle tende, scorgevanopupille selvagge che brillavano nell’ombra. I fasci dipicche e le panoplie appese li abbagliavano come specchi.Parlavano tra loro a bassa voce. Temevano di rovesciarequalcosa con le loro lunghe vesti.

I soldati chiesero viveri, impegnandosi a pagarli con ildenaro che dovevano ricevere.

Furono mandati loro buoi, pecore, faraone, fruttasecca e lupini, con sgombri affumicati, quegli sgombrieccellenti che Cartagine spediva in tutti i porti. Ma isoldati si aggiravano con atteggiamento sdegnosointorno a tutto quel bestiame magnifico; e, denigrando

ciò che desideravano, offrivano per un montone il prezzodi un piccione, per tre capre il prezzo di una melograna. IMangiatori-di-cose-immonde, atteggiandosi ad arbitri,sostenevano che li stavano imbrogliando. Allora iMercenari estraevano le spade e minacciavano diucciderli.

A lcuni commissari del Gran Consiglio scrissero ilnumero degli anni di paga dovuti a ogni soldato. Maormai era impossibile sapere quanti fossero stati iMercenari assoldati, e gli Anziani rimasero atterriti dallasomma esorbitante che avrebbero dovuto pagare.Bisognava vendere le riserve di silfio, imporre tasse allecittà commerciali; i Mercenari avrebbero perso lapazienza, Tunisi era già con loro; e i Ricchi, frastornatitra i furori di Annone e i rimproveri del suo collega,raccomandarono ai cittadini che potevano conoscerequalche Barbaro di andare subito a trovarlo perriconquistarne l’amicizia, dirgli qualche buona parola.Una tale confidenza li avrebbe calmati.

Mercanti, scribi, operai dell’arsenale, intere famiglie sirecarono dai Barbari.

I soldati lasciavano entrare nel campo tutti iCartaginesi, ma attraverso un solo passaggio talmentestretto che quattro uomini di fronte vi si urtavano coigomiti. Spendio, in piedi contro la barriera, li facevaperquisire meticolosamente; Mâtho, di fronte a lui,scrutava quella folla con la speranza di ritrovare qualcunoche avesse già visto nel palazzo di Salammbô.

Il campo sembrava una città, tanto era pieno di gentee di movimento. Le due folle distinte si mescolavanosenza confondersi, l’una vestita di tela o di lana, conberretti di feltro simili a pigne, l’altra di ferro e con elmi.In mezzo ai servi e ai venditori ambulanti circolavanodonne di tutte le nazioni, brune come datteri maturi,verdastre come olive, gialle come arance, vendute damarinai, trovate nelle bettole, rubate alle carovane, presenei saccheggi delle città, esauste d’amore fintanto cheerano giovani, caricate di botte quando erano invecchiate,e che morivano nelle disfatte sul ciglio delle strade, tra lesalmerie e le bestie da soma abbandonate. Le spose deiNomadi facevano ondeggiare sui calcagni vesti di pelo didromedario, squadrate e di colore fulvo; musicanti dellaCirenaica, avvolte in garze viola e con le sopraccigliadipinte, cantavano accovacciate su delle stuoie; vecchieNegre dalle mammelle pendule raccoglievano, per farefuoco, escrementi di animali da far seccare al sole; leSiracusane portavano piastre d’oro tra i capelli, leLusitane avevano collane di conchiglie, e le donne deiGalli pelli di lupo sui candidi seni; bambini robusti,coperti di pidocchi, nudi, non circoncisi, davano testatenel ventre ai passanti oppure li seguivano, come cucciolidi tigri, a mordere loro le mani.

I Cartaginesi si aggiravano per il campo, sorpresi dallaquantità di cose di cui traboccava. I più poveri eranotristi, e gli altri dissimulavano la loro inquietudine.

I soldati battevano loro una mano sulla spalla,invitandoli a essere allegri. Appena scorgevano qualche

invitandoli a essere allegri. Appena scorgevano qualchepersona in vista, la invitavano ai loro svaghi. Giocandocol disco, facevano in modo di schiacciargli i piedi; alpugilato, fin dalla prima mossa, gli fracassavano lamascella. I frombolieri spaventavano i Cartaginesi con leloro fionde, gli incantatori di serpenti con le vipere, icavalieri con i cavalli. Quella gente dedita a occupazionitranquille, a ogni oltraggio chinava la testa e si sforzavadi sorridere. Alcuni, per mostrarsi coraggiosi, dicevano agesti di voler diventare soldati. Li mettevano a spaccarlegna e a strigliare muli. Li chiudevano in un’armatura e lifacevano rotolare come barili per le vie del campo. Poi,quando si accingevano ad andarsene, i Mercenari sistrappavano i capelli con delle contorsioni grottesche.

Molti, per stupidità o pregiudizio, credevanoingenuamente che tutti i Cartaginesi fossero ricchissimi, eli seguivano supplicandoli di dar loro qualcosa.Chiedevano tutto ciò che a loro sembrava bello: unanello, una cintura, dei sandali, la frangia di una veste, e,quando il Cartaginese spogliato di ogni cosa esclamava:«Ma non ho più nulla. Che vuoi?». Quelli rispondevano:«Tua moglie!». Altri dicevano: «La tua vita!».

I conti delle paghe militari furono consegnati aicapitani, letti ai soldati, definitivamente approvati. A llorachiesero delle tende: furono concesse le tende. Poi ipolemarchi dei Greci chiesero qualcuna di quelle bellearmature che si fabbricavano a Cartagine; il GranConsiglio votò delle somme per questo acquisto. Ma eragiusto, sostenevano i cavalieri, che la Repubblica li

risarcisse per i loro cavalli; e uno affermava di averneperduti tre al tale assedio, un altro cinque durante la talemarcia, un altro quattordici nei precipizi. Furono offertiloro degli stalloni di Ecatompilo; preferirono il denaro.

Poi chiesero che venisse pagato in argento (in pezzid’argento e non in monete di cuoio) il grano che spettavaloro, e al prezzo più alto a cui era stato venduto durantela guerra, e così per una misura di farina pretendevanoquattrocento volte più di quanto avessero speso per unsacco di grano. Quest’ingiustizia esasperò i Cartaginesi,ma bisognò cedere.

Allora i delegati dei soldati e quelli del Gran Consigliosi riconciliarono, giurando sul Genio di Cartagine1 e suglidèi dei Barbari. Con i convenevoli e le verbosità orientali,si scambiarono scuse e cortesie. Poi i soldati pretesero,come prova di amicizia, la punizione dei traditori che liavevano mal disposti nei confronti della Repubblica.

Si finse di non capirli. E quelli si spiegarono piùchiaramente, dicendo che serviva la testa di Annone.

Uscivano dal campo più volte al giorno. Camminavanosotto le mura. Gridavano che gli buttassero giù la testadel suffeta, e tendevano le vesti ad accoglierla.

Il Gran Consiglio avrebbe ceduto, forse, se non cifosse stata un’ultima pretesa più ingiuriosa delle altre:chiesero in moglie, per i loro capi, vergini scelte nellegrandi famiglie. Era un’idea di Spendio, che moltitrovavano del tutto semplice e possibile. Ma questapretesa di volersi mischiare con il sangue punico indignò

il popolo; fu detto loro brutalmente che non c’eranient’altro da avere. Allora quelli si misero a gridare cheerano stati ingannati; se la paga non fosse arrivata entrotre giorni, sarebbero andati loro a prendersela dentroCartagine.

La malafede dei Mercenari non era così assoluta comepensavano i loro nemici. Amilcare aveva fatto loropromesse esorbitanti, in realtà vaghe, ma solenni ereiterate. Così avevano creduto, sbarcando a Cartagine,che sarebbe stata abbandonata loro la città, e che sisarebbero spartiti dei tesori; e quando videro cheavrebbero avuto a mala pena la paga, fu una delusioneper il loro orgoglio e la loro avidità.

Dionisio, Pirro, Agatocle2 e i generali di A lessandronon erano forse stati esempi di fortune meravigliose?L’ideale di Ercole, che i Cananei confondevano col Sole,splendeva all’orizzonte degli eserciti. Si sapeva chesemplici soldati avevano indossato diademi, e il fragoredegli imperi che crollavano faceva sognare il Gallo nellasua foresta di querce, l’Etiope nelle sue sabbie. Ma c’eraun popolo sempre disposto a utilizzare i coraggiosi; e illadro scacciato dalla sua tribù, il parricida errante sullestrade, il sacrilego perseguitato dagli dèi, tutti gliaffamati, tutti i disperati, cercavano di raggiungere ilporto dove il sensale di Cartagine reclutava soldati. Disolito manteneva le sue promesse. Ma quella volta lo zelodella sua avarizia l’aveva trascinata in una pericolosainfamia. I Numidi, i Libici, l’Africa intera, stavano per

gettarsi su Cartagine. Solo il mare era libero. Là avrebbeincontrato i Romani; e, come un uomo aggredito dagliassassini, ovunque intorno a sé sentiva la morte.

Fu necessario ricorrere a Giscone; i Barbari accettaronola sua mediazione. Una mattina videro abbassarsi lecatene del porto, e tre battelli piatti, passando per ilcanale della Tenia, 3 entrarono nel lago. Sul primo, aprua, si scorgeva Giscone. Dietro di lui, più alta di uncatafalco, s’innalzava una cassa enorme, adorna di anellisimili a corone appese. Appariva poi la legione degliInterpreti, acconciati come sfingi, e con un pappagallotatuato sul petto. Seguivano amici e schiavi, tutti senzaarmi, così numerosi che le spalle si toccavano. Le trelunghe barche, piene da affondare, avanzavano tra leacclamazioni dell’esercito, che le guardava.

Appena Giscone sbarcò, i soldati gli corsero incontro.Fece innalzare, con dei sacchi, una specie di tribuna edichiarò che non se ne sarebbe andato prima di averlipagati tutti interamente.

Scoppiò un grande applauso; per un bel po’ non riuscìa parlare.

Poi biasimò i torti della Repubblica e quelli dei Barbari;la colpa era di pochi facinorosi, che con la loro violenzaavevano spaventato Cartagine. La prova migliore dellebuone intenzioni della Repubblica era il fatto che venisseinviato da loro proprio lui, l’eterno avversario del suffetaAnnone. Non dovevano pensare che il popolo fosse cosìinetto da voler irritare dei coraggiosi, né così ingrato da

misconoscere i loro servizi; e Giscone si accinse a pagarei soldati, cominciando dai Libici. Poiché costoro avevanodetto che le liste mentivano, non se ne servì.

Sfilavano davanti a lui, per nazioni, aprendo le dita perdire il numero degli anni; venivano quindi segnati sulbraccio sinistro con una pittura verde; gli scribiprendevano il denaro dalla cassa aperta, e altri, con unostiletto, facevano dei fori su una lamina di piombo.

Passò un uomo che camminava con passo pesante,alla maniera dei buoi.

«Vieni qui da me», disse il suffeta, sospettando unimbroglio, «per quanti anni hai servito?»

«Dodici anni», rispose il Libico.Giscone gli passò le dita sotto la mascella, perché il

sottogola dell’elmo vi formava col tempo due callosità;venivano chiamate carrube, e avere le carrube era unmodo di dire per indicare un veterano.

«Ladro!», gridò il suffeta. «Quello che manca al tuoviso devi averlo sulle spalle!» e, strappandogli la tunica,scoprì una schiena coperta di croste sanguinolente; eraun contadino di Ippozarito.4 Si alzarono delle urla; fudecapitato.

Quando fu notte, Spendio andò a svegliare i Libici. Edisse loro:

«Quando i Liguri, i Greci, i Balearici e gli uominid’Italia saranno stati pagati, se ne torneranno via. Ma voialtri, voi resterete in Africa, dispersi nelle vostre tribù esenza alcuna difesa. Allora la Repubblica si vendicherà!

Non fidatevi! Volete credere a ogni sua parola! I duesuffeti sono d’accordo! Costui vi inganna! Ricordatevidell’Isola delle Ossa, e di Santippo che fu rimandato aSparta su una galea marcia».5

«Che dobbiamo fare?», chiedevano.«Riflettete!», disse Spendio.I due giorni seguenti servirono a pagare la gente di

Magdala, di Leptis, di Ecatompilo; Spendio si occupavadei Galli.

«Pagano i Libici, poi pagheranno i Greci, poi iBalearici, gli Asiatici, e tutti gli altri! Ma a voi, che nonsiete numerosi, non daranno nulla! Non rivedrete più ivostri paesi! Non avrete navi! Vi uccideranno, perrisparmiare i viveri».

I Galli si recarono dal suffeta. Autarito, quello stessoche aveva ferito nei giardini di Amilcare, gli fece delledomande. Respinto dagli schiavi, scomparve, giurandoche si sarebbe vendicato.

Le proteste, le lamentele si moltiplicarono. I piùostinati entravano nella tenda del suffeta; per intenerirlogli afferravano le mani, gli facevano toccare le bocchesdentate, le braccia magrissime, le cicatrici delle ferite.Quelli che ancora non erano stati pagati si irritavano,quelli che avevano ricevuto la paga ne chiedevanoun’altra per i cavalli; e i vagabondi, i banditi, prendevanole armi dei soldati e sostenevano di essere statidimenticati. Continuavano ad arrivare uomini, in unasorta di turbinio; le tende si strappavano, crollavano; la

moltitudine racchiusa tra i bastioni dell’accampamentoondeggiava urlante dalle porte al centro. Quando iltumulto diventava troppo forte, Giscone appoggiava ungomito sullo scettro d’avorio e, guardando il mare,rimaneva immobile, con le dita affondate nella barba.

Spesso Mâtho si metteva in disparte con Spendio; poiriprendeva il suo posto di fronte al suffeta, e Gisconeavvertiva costantemente le pupille di Mâtho che lofissavano come due falariche6 in fiamme. Più volte silanciarono ingiurie, sopra la folla, che tuttavia nonriuscirono a udire. Intanto la distribuzione continuava, eil suffeta sapeva trovare gli espedienti per superare ogniostacolo.

I Greci vollero cavillare sulle diversità delle monete. Elui dette loro tali spiegazioni che si ritirarono senzamormorii. I Negri pretesero quelle conchiglie bianche diuso corrente nel commercio all’interno dell’Africa. Offrìloro di mandarle a prendere a Cartagine; allora, come glialtri, accettarono il denaro.

Ma ai Balearici era stato promesso qualcosa di meglio,cioè delle donne. Il suffeta rispose che era attesa per loroun’intera carovana di vergini: la strada era lunga, civolevano ancora sei lune. Quando fossero state grasse ebelle lucide di benzoino, le avrebbero inviate con le navinei porti delle Baleari.

D’un tratto Zarxas, ora bello e vigoroso, saltò come unfunambolo sulle spalle dei suoi amici e gridò:

«Ne hai riservate anche per i cadaveri?», e intanto

indicava, a Cartagine, la porta di Khamon.Sotto gli ultimi raggi di sole, le piastre di bronzo che la

rivestivano dall’alto in basso mandavano riflessi di fuoco;i Barbari credettero di vedervi una striscia insanguinata.Ogni volta che Giscone voleva parlare, ricominciavano aurlare. Alla fine scese con passo austero e si chiuse nellasua tenda.

Quando ne uscì all’alba, i suoi interpreti, chedormivano fuori, rimasero immobili; giacevano suldorso, con gli occhi sbarrati, la lingua tra i denti e lafaccia bluastra. Dalle loro narici colava del muco bianco,e le membra erano rigide, come gelate dal freddo dellanotte. Intorno al collo di ognuno c’era un lacciolo digiunco.

Da quel momento la ribellione fu inarrestabile. Lastrage dei Balearici ricordata da Zarxas confermava ladiffidenza di Spendio. Erano ormai convinti che laRepubblica volesse ingannarli in ogni occasione.Bisognava farla finita! E avrebbero fatto a meno degliinterpreti! Zarxas, con una fionda intorno alla testa,cantava canzoni di guerra; Autarito brandiva la suagrande spada; Spendio, a uno bisbigliava una parola, aun altro porgeva un pugnale. I più forti tentavano dipagarsi da sé, i meno infuriati chiedevano che ladistribuzione continuasse. Ora nessuno lasciava le armi, ele ire di tutti si univano contro Giscone in un odiotumultuoso.

Alcuni gli salivano accanto. Finché vociferavano

ingiurie venivano ascoltati pazientemente; ma se per casotentavano di dire qualcosa in suo favore venivanoimmediatamente lapidati, o, da dietro, un colpo disciabola gli troncava la testa. Il mucchio dei sacchi erapiù rosso di un’ara.

Diventavano terribili dopo aver bevuto del vino! Erauna gioia proibita, punita con la morte, negli esercitipunici, e allora alzavano le coppe in direzione diCartagine, a schernire la sua disciplina. Poi tornavanodagli schiavi delle finanze e ricominciavano a uccidere. Laparola ammazza!, diversa in ogni lingua, era capita datutti.

Giscone sapeva bene che la patria lo stavaabbandonando; tuttavia, malgrado la sua ingratitudine,non voleva disonorarla. Quando gli ricordarono cheerano state promesse delle navi, giurò su Moloch che leavrebbe procurate lui stesso, a proprie spese, e,strappandosi la collana di pietre blu, la gettò in mezzoalla folla come pegno del suo giuramento.

Allora gli Africani reclamarono il grano previsto dagliimpegni del Gran Consiglio. Giscone distese i conti deiSissizi, scritti con pittura viola su pelli di pecora; leggevatutto quello che era entrato in Cartagine, mese per mesee giorno per giorno.

Improvvisamente si fermò, con gli occhi spalancati,come se avesse scoperto tra le cifre la propria sentenza dimorte.

In effetti gli Anziani le avevano fraudolentemente

ridotte, e il grano, venduto nel periodo più funesto dellaguerra, era registrato a un prezzo così basso da nonpoterci credere, a meno di essere ciechi.

«Parla!», gridarono. «Più forte! Ah, cerca di mentire ilvigliacco! Non fidiamoci».

Esitò per un po’. Quindi riprese il suo compito.I soldati, non sospettando che li stesse ingannando,

presero per veri i conti dei Sissizi. A llora l’abbondanza incui si era trovata Cartagine li precipitò in una gelosiafuribonda. Spezzarono la cassa di sicomoro; era vuotaper tre quarti. Avevano visto uscirne tali somme che laconsideravano inesauribile; Giscone aveva senza dubbionascosto qualcosa nella sua tenda. Scalarono i sacchi. Liguidava Mâtho, e poiché gridavano «Il denaro! Ildenaro!», Giscone alla fine rispose:

«Ve lo dia il vostro generale!».Li guardava in faccia, senza parlare, con i suoi grandi

occhi gialli e il lungo volto, più pallido della barba. Unafreccia, trattenuta dalle penne, era conficcata sottol’orecchio nel largo anello d’oro, e un filo di sanguecolava dalla tiara sulla spalla.

A un gesto di Mâtho, tutti avanzarono. Giscone aprì lebraccia; Spendio gli strinse i polsi in un nodo scorsoio;un altro lo rovesciò a terra, e il suffeta scomparve neltumulto della folla che si accalcava sui sacchi.

Saccheggiarono la tenda. Vi trovarono soltanto le coseindispensabili alla vita; poi, cercando meglio, treimmagini di Tanit e, in una pelle di scimmia, una pietra

nera caduta dalla luna. Molti Cartaginesi avevano volutoaccompagnarlo; erano tutti notabili, del partito dellaguerra.

Li trascinarono fuori dalle tende, e li precipitarononella fossa delle immondizie. Poi, con catene di ferrofurono legati per il ventre a pioli conficcati nel terreno, epassavano loro il cibo sulla punta di un giavellotto.

Autarito, che li sorvegliava, li copriva d’insulti, mapoiché non capivano la sua lingua, non rispondevano;allora il Gallo, di tanto in tanto, li prendeva a sassate infaccia per farli gridare.

L’indomani, subentrò nell’esercito una specie dilanguore. Sbollita la collera, l’inquietudine s’impadronivadegli uomini. Mâtho soffriva di una vaga tristezza. Glisembrava di aver oltraggiato indirettamente Salammbô.Quei Ricchi erano come un’appendice della sua persona.Di notte si sedeva sul ciglio della fossa e nei loro gemitiritrovava qualcosa della voce che gli riempiva il cuore.

Intanto tutti accusavano i Libici, gli unici che fosserostati pagati. Ma proprio mentre si riaccendevano leantipatie nazionali insieme con gli odi personali, siavvertiva il pericolo di abbandonarvisi. Le rappresaglie,dopo un oltraggio così grave, sarebbero state terribili.Bisognava dunque prevenire la vendetta di Cartagine. Iconciliaboli, le arringhe non finivano più. Ognuno parlavae nessuno veniva ascoltato, e Spendio, di solito tantoloquace, a ogni proposta scuoteva la testa.

Una sera chiese distrattamente a Mâtho se ci fosserodelle sorgenti all’interno della città.

«Neppure una!», rispose Mâtho.Il giorno dopo, Spendio lo portò in riva al lago.«Padrone», disse l’ex schiavo, «se il tuo cuore è

intrepido, ti condurrò dentro Cartagine».«In che modo?», rispose l’altro, ansioso.«Giura di eseguire tutti i miei ordini, e di venirmi

dietro come un’ombra!».Allora Mâtho, alzando un braccio verso il pianeta di

Shabar,7 esclamò:«Per Tanit, lo giuro!».Spendio continuò:«Domani, dopo il tramonto, mi aspetterai ai piedi

dell’acquedotto, tra la nona e la decima arcata. Porta conte un piccone, un elmo senza cimiero e sandali di cuoio».

L’acquedotto di cui parlava attraversava obliquamentel’intero istmo, opera considerevole che i Romani più tardiavrebbero ingrandito. Malgrado il suo disprezzo per glialtri popoli, Cartagine aveva rozzamente imitato daiRomani quella nuova invenzione, così come Roma avevafatto con la galea punica; e cinque file di archisovrapposti, di architettura tozza, con contrafforti allabase e teste di leone sulla sommità, giungevano fino allato occidentale dell’Acropoli, dove sprofondavano sottola città per riversare un fiume d’acqua nelle cisterne diMegara.

All’ora convenuta, Spendio vi trovò Mâtho. Legò una

specie di arpione alla cima di una corda, lo fece rotearevelocemente come una fionda, l’attrezzo di ferro siagganciò; e si misero, uno dietro l’altro, ad arrampicarsisu per il muro.

Ma quando ebbero raggiunto il primo piano, l’arpione,ogni volta che lo lanciavano, ricadeva giù; per scoprirequalche fessura, erano costretti a camminare sulcornicione, che a ogni piano diventava sempre piùstretto. Poi la corda si allentò. Più volte fu sul punto dispezzarsi.

Finalmente raggiunsero la piattaforma superiore. Ditanto in tanto Spendio si chinava a toccare le pietre con lemani.

«Ci siamo», disse, «cominciamo!».E facendo forza sul piccone portato da Mâtho,

riuscirono a sconnettere una delle pietre.In lontananza videro un drappello di cavalieri che

galoppavano a briglia sciolta. I loro bracciali d’orosobbalzavano tra le ampie pieghe dei mantelli. Sidistingueva alla testa del gruppo un uomo con unacorona di piume di struzzo, che galoppava con una lanciain ogni mano.

«Narr’Havas!», esclamò Mâtho.«Che importa!», rispose Spendio; e saltò nel buco che

avevano aperto spostando la pietra.Mâtho, a un suo ordine, tentò di spingere uno dei

blocchi. Ma, per mancanza di spazio, non potevamuovere i gomiti.

«Torneremo», disse Spendio, «vai avanti». E siavventurarono nella conduttura delle acque.

Erano immersi fino alla vita. Ben presto cominciaronoa vacillare, e dovettero nuotare. Le loro membraurtavano contro le pareti del canale troppo stretto.L’acqua scorreva quasi a contatto con le pietre della volta;si scorticavano la faccia. Poi la corrente li trascinò. Un’ariapiù greve che in un sepolcro opprimeva il petto, e con latesta tra le braccia, le ginocchia strette, allungandosiquanto potevano, passavano come frecce nell’oscurità,soffocando, rantolando, quasi morti. A un tratto, tutto sifece nero davanti a loro mentre la velocità della correnteraddoppiava. Precipitarono.

Quando tornarono a galla, rimasero per qualcheminuto stesi sul dorso, a respirare l’aria, deliziati. Inmezzo a larghe mura che separavano numerosi bacini siapriva una successione di arcate. I bacini erano tutticolmi, e l’acqua si stendeva a un unico livello per l’interalunghezza delle cisterne. Le cupole del soffitto facevanofiltrare tra le loro fessure un pallido chiarore chedisegnava sull’acqua dei dischi di luce, e le tenebreintorno, più fitte vicino alle pareti, li respingevanoindefinitamente. Il più piccolo rumore produceva unagrande eco.

Spendio e Mâtho si rimisero a nuotare, e passandosotto gli archi attraversarono molti bacini uno in filaall’altro. Due altre serie di bacini più piccoli correvanoparallelamente da ogni lato. Si persero, giravano su se

stessi, tornavano indietro. Finalmente sentirono qualcosadi consistente sotto i piedi. Era il selciato della galleriache costeggiava le cisterne.

Allora, avanzando con grande prudenza, tastarono lepareti per trovare un’uscita. Ma i piedi scivolavano; cosìcadevano nelle vasche profonde. Allora dovevano risalire,per poi cadere di nuovo; e provavano una stanchezzaspaventosa, come se le membra, nuotando, si fosserodissolte nell’acqua. I loro occhi si chiusero: agonizzavano.

Spendio urtò una mano contro le sbarre diun’inferriata. La scossero, cedette, e si ritrovarono suigradini di una scala. Una porta di bronzo la chiudeva inalto. Con la punta di un pugnale rimossero la sprangache si spostava da fuori; un’improvvisa ventata di ariapura li investì.

La notte era piena di silenzio, e il cielo era di un’altezzasmisurata. Ciuffi d’alberi sporgevano dalle lunghe lineedei muri. La città intera dormiva. I fuochi degli avampostibrillavano come stelle perdute.

Spendio, che aveva passato tre anni nell’ergastolo, nonera molto pratico dei quartieri. Mâtho suppose che perarrivare al palazzo di Amilcare dovessero prendere asinistra, attraversando i Mappali.

«No», disse Spendio, «Portami al tempio di Tanit».Mâtho fece per parlare.«Ricordati!», disse l’ex schiavo; e, alzando il braccio,

gli mostrò il pianeta di Shabar che splendeva.Allora Mâtho voltò in silenzio verso l’Acropoli.

Avanzavano lungo le siepi di nopale8 checosteggiavano i sentieri. L’acqua colava dalle loromembra sulla polvere. I sandali umidi non facevanoalcun rumore; Spendio, con occhi fiammeggianti più ditorce, a ogni passo scrutava i cespugli; e camminavadietro Mâtho, con le mani sull’impugnatura dei duepugnali che portava alle braccia, fissati sotto le ascelle dauna cinghia di cuoio.

VTanit

Usciti dai giardini, si trovarono di fronte la cinta murariadi Megara. Ma scoprirono una breccia nella spessamuraglia, e passarono.

Il terreno scendeva formando una sorta di vallonemolto largo. Era un luogo scoperto.

«Ascolta», disse Spendio, «e non temere! Manterrò lapromessa...».

Si interruppe; sembrava che stesse riflettendo, comeper cercare le parole.

«Ti ricordi quella volta, all’alba, quando ti ho mostratoCartagine dalla terrazza di Salammbô? Eravamo forti quelgiorno, ma tu non volesti darmi ascolto!». Poi, con vocegrave: «Padrone, nel santuario di Tanit c’è un velomisterioso, caduto dal cielo, che ricopre la dea».

«Lo so», disse Mâtho.Spendio continuò:«Anche il velo è divino, perché è parte di lei. Gli dèi

dimorano dove si trovano i loro simulacri. È perché lo

dimorano dove si trovano i loro simulacri. È perché lopossiede che Cartagine è potente». Poi, chinandosi al suoorecchio: «Ti ho portato con me per rapirlo!».

Mâtho indietreggiò inorridito.«Vattene! Cerca qualcun altro! Non voglio aiutarti in

questo ignobile misfatto».«Ma Tanit è la tua nemica», replicò Spendio, «ti

perseguita, e la sua collera ti fa morire. Ti vendicherai elei ti obbedirà. Diventerai quasi immortale e invincibile».

Mâtho abbassò la testa. Spendio continuò:«Soccomberemo. L’esercito si annienterà da solo. Non

possiamo sperare in una fuga, e neppure in soccorsi, néin un perdono. Quale punizione puoi temere da partedegli dèi, quando stai per avere nelle mani la loro forza?O preferisci morire la sera dopo una disfatta,miserabilmente, nascosto in un canneto, oppure tra gliinsulti della plebaglia, tra le fiamme del rogo? Padrone,un giorno entrerai a Cartagine, tra i collegi dei Ponteficiche ti baceranno i sandali: e se il velo di Tanit ti peseràancora, lo riporrai nel suo tempio. Seguimi! vieni aprenderlo».

Un desiderio terribile divorava Mâtho. Avrebbe volutopossedere il velo, ma senza commettere il sacrilegio.Diceva tra sé che forse non sarebbe stato necessarioprenderlo per impossessarsi della sua virtù. Non seguivafino in fondo i suoi pensieri; si fermava al punto in cui lospaventavano.

«Andiamo!», disse. E si allontanarono a passo svelto,fianco a fianco, senza parlare.

Il terreno risalì, e le abitazioni si avvicinarono. Siaggirarono per le strade strette, nelle tenebre. Tende disparto, a chiusura delle porte, sbattevano sulle paretidelle case. In una piazza alcuni cammelli ruminavanodavanti a mucchi d’erba tagliata. Passarono quindi sottouna galleria coperta di foglie. Una muta di cani abbaiò.Ma d’un tratto lo spazio si allargò; e riconobbero il latooccidentale dell’Acropoli. Nella parte bassa di Birsa sistendeva una lunga massa nera: era il tempio di Tanit,u n insieme di monumenti e giardini, cortili e atri,recintato da un muretto di pietre a secco. Spendio eMâtho lo scavalcarono.

Quel primo recinto racchiudeva un bosco di platani,come difesa contro la peste e l’aria infetta. Qua e là eranosparse delle tende dove di giorno si vendevano pomatedepilatorie, vestiti, dolci a forma di luna, e immagini delladea con rappresentazioni del tempio, scolpite in blocchidi alabastro.

Non avevano nulla da temere, perché nelle notti in cuil’astro non appariva ogni rito era sospeso; eppure Mâthorallentava il passo; si fermò davanti ai tre gradini d’ebanoche conducevano al secondo recinto.

«Avanti!», disse Spendio.Vi si alternavano con regolarità melograni, mandorli,

cipressi e mirti, immobili come foglie di bronzo; ilsentiero, lastricato di ciottoli blu, scricchiolava sotto i loropassi; da un pergolato pendevano rose fiorite, sull’interalunghezza del viale. Giunsero davanti a un foro ovale,

protetto da una griglia. A llora Mâtho, intimorito da quelsilenzio, disse a Spendio:

«Qui vengono mescolate le Acque dolci con le Acqueamare».

«L’ho già visto», rispose l’ex schiavo, «in Siria, nellacittà di Maphug».

E attraverso una scalinata di sei gradini d’argentosalirono al terzo recinto.

Un enorme cedro ne occupava il centro. I suoi ramipiù bassi scomparivano sotto le bende di stoffa e lecollane che i fedeli vi avevano appeso. Dopo pochi passi,apparve la facciata del tempio.

Due lunghi portici, i cui architravi poggiavano su rozzipiloni, fiancheggiavano una torre quadrangolare la cuipiattaforma era ornata da una falce di luna. Agli angolidei portici e ai quattro angoli della torre si ergevano deivasi colmi di aromi che bruciavano. Melograne ecoloquintidi ricoprivano i capitelli. Tortiglioni, losanghe,file di perle si alternavano sui muri, e una cancellata infiligrana d’argento formava un largo semicerchio davantiallo scalone di bronzo che scendeva dal vestibolo.

All’ingresso, tra una stele d’oro e una di smeraldo,c’era un cono di pietra; Mâtho, passandovi di fianco, sibaciò la mano destra.

La prima stanza era altissima, con innumerevoliaperture nella volta; alzando la testa si potevano vederele stelle. Tutt’intorno, lungo le pareti, in ceste di viminierano ammucchiate barbe e capigliature, primizie di

adolescenti; e al centro dell’ambiente circolare, il corpo diuna donna usciva da una guaina coperta di mammelle.1

Grassa, barbuta, le palpebre abbassate, sembrava chesorridesse, con le mani incrociate sul grosso ventre,lucido per i baci della folla.

Poi si ritrovarono all’aria aperta, in un corridoiotrasversale, dove un’ara di dimensioni esigue eraappoggiata contro una porta d’avorio. Non era possibileoltrepassarla: soltanto i preti potevano aprirla; perché untempio non era un luogo di riunione per la moltitudine,ma la dimora privata di una divinità.

«L’impresa è impossibile», diceva Mâtho. «Non ci avevipensato! Torniamo indietro!». Spendio esaminava i muri.

Voleva quel velo, non perché credesse nei suoi poteri(Spendio credeva soltanto all’Oracolo), ma perché eraconvinto che i Cartaginesi, vedendosene privati,sarebbero caduti in un grande abbattimento. Per trovareun varco fecero il giro da dietro.

Sotto boschetti di terebinti si vedevano edicole diforme diverse. Qua e là si ergeva un fallo di pietra, egrandi cervi vagavano tranquilli, spingendo con i piediforcuti le pigne cadute.

Tornarono sui propri passi tra due lunghe gallerie cheavanzavano parallele. Sulle pareti si aprivano piccolecelle. Tamburelli e cembali 2 erano appesi dall’alto inbasso alle colonne di cedro. All’esterno delle celle c’eranodonne che dormivano sdraiate su stuoie. I loro corpi,grassi di unguenti, emanavano un odore di spezie e di

incensieri spenti; erano talmente coperte di tatuaggi,collane, anelli, cinabro e antimonio che, non fosse statoper il movimento del petto, avrebbero potuto esserescambiate per idoli rovesciati a terra. Piante di lotocircondavano una fontana dove nuotavano pesci simili aquelli di Salammbô; poi, in fondo, contro la parete deltempio, si stendeva una vigna i cui tralci erano di vetro ei grappoli di smeraldo: i raggi delle pietre preziosefacevano giochi di luce tra le donne dipinte, sui voltiaddormentati.

Mâtho soffocava nei caldi vapori esalati dalle pareti dicedro. Tutti quei simboli della fecondazione, queiprofumi, quei riflessi, quei fiati lo opprimevano. In quellasorta di stordimento mistico pensava a Salammbô. La suaimmagine si confondeva con quella della dea, e il suoamore ne risultava più forte, come le grandi piante diloto che fiorivano sulla profondità delle acque.

Spendio stava calcolando quanto denaro avrebbeguadagnato in altri tempi con la vendita di quelle donne;e con rapidi sguardi pesava le collane d’oro.

Il tempio era impenetrabile, sia da un lato chedall’altro. Tornarono dietro la prima stanza. MentreSpendio cercava e frugava, Mâtho, prosternato davantialla porta, implorava Tanit. La supplicava di nonpermettere quel sacrilegio. Cercava di addolcirla conparole gentili, come si fa con una persona irritata.

Spendio notò sopra la porta una stretta apertura.«Alzati!», disse a Mâtho, e lo fece addossare al muro,

in piedi. Quindi, posando un piede sulle sue mani e l’altrosulla testa, giunse all’altezza dello spiraglio, vi siintrodusse e scomparve. Poco dopo Mâtho si sentì caderesu una spalla una corda a nodi, la stessa che Spendio siera avvolto intorno al corpo prima di entrare nellecisterne; aggrappandosi con le due mani, presto siritrovò accanto a lui in una grande sala piena d’ombra.

Profanazioni di questo genere erano eventistraordinari. L’insufficienza dei mezzi per prevenirleattestava che erano considerate impossibili. Il terrore, piùdei muri, proteggeva i santuari. Mâtho, a ogni passo, siaspettava di morire.

Eppure in fondo alle tenebre vacillava un chiarore; vi siavvicinarono. Era una lampada che ardeva in unaconchiglia, sul piedistallo di una statua che portava intesta il berretto dei Cabiri.3 Dischi di diamante eranodisseminati sulla lunga veste blu, ed era legata per lecaviglie da alcune catene che scomparivano sotto ilpavimento. Mâtho trattenne un grido. Balbettava: «Ah!Eccola! Eccola!...». Spendio prese la lampada per farsiluce.

«Che empio che sei!», mormorò Mâtho. Ma gli andavadietro.

Entrarono in una stanza dove c’era soltanto una pitturanera che raffigurava un’altra donna. Le gambe arrivavanoin cima alla parete. Il corpo occupava l’intero soffitto.Dall’ombelico pendeva, appeso a un filo, un uovoenorme, e la figura ricadeva sull’altra parete a testa in

giù, fino al pavimento che raggiungeva con le ditaaguzze.

Per andare oltre, scostarono una tenda, ma soffiò ilvento e la luce si spense.

Allora avanzarono a tentoni, perduti nei meandri deltempio. D’un tratto avvertirono sotto i piedi qualcosa distranamente morbido. Sprizzavano scintille, crepitando;sembrava che stessero camminando sul fuoco. Spendiotastò il suolo e sentì che era accuratamente tappezzato dipelli di lince; poi gli sembrò che una grossa cordabagnata, fredda e vischiosa, scivolasse tra le loro gambe.Alcune fessure aperte nei muri filtravano esili raggibianchi. Avanzavano in quel fioco chiarore. Alla finedistinsero un grande serpente nero. Subito scattò e sparì.

«Fuggiamo!», gridò Mâtho. «È lei! La sento; stavenendo».

«Eh, no!», rispose Spendio. «Il tempio è vuoto».Allora una luce abbagliante li costrinse ad abbassare

gli occhi. Poi videro tutt’intorno un’infinità di bestie,scheletriche, ansimanti, che agitavano gli artigli, mischiatitutti insieme in un disordine misterioso e terrificante.C’erano serpenti con i piedi, tori con le ali, pesci dallatesta umana che divoravano frutta, fiori che sbocciavanonelle mascelle dei coccodrilli, ed elefanti che, laproboscide eretta, attraversavano l’aria, orgogliosamente,come aquile. Uno sforzo terribile tendeva le loro membraincomplete o molteplici. Quando tiravano fuori la linguaavevano l’aria di voler buttare fuori l’anima; e vi si

trovavano tutte le forme, come se il ricettacolo dei germi,esplodendo all’improvviso, si fosse svuotato sui muridella sala.

Sul suo pavimento circolare c’erano dodici globi dicristallo, sormontati da mostri che sembravano tigri. Leloro pupille sporgevano come gli occhi delle lumache, ecurvando le tozze reni si volgevano verso il fondo dovesplendeva, su un carro d’avorio, la Rabbet suprema,l’Omnifeconda, l’ultima inventata.

Squame, piume, fiori e uccelli le salivano fino alventre. Come orecchini aveva dei cimbali d’argento che lesbattevano sulle guance. I grandi occhi guardavano fisso,e una pietra luminosa, incastonata sulla fronte in unsimbolo osceno, rischiarava l’intera sala riflettendosi al disopra delle porte in rossi specchi di rame.

Mâtho fece un passo; una pietra del pavimentocedette, ed ecco che le sfere si misero a ruotare, i mostria ruggire; si alzò una musica, armoniosa e roboantecome l’armonia dei pianeti; l’anima tumultuosa di Tanitstava sgorgando. La dea stava per sollevarsi, grandecome la sala, con le braccia aperte. D’un tratto i mostrichiusero la bocca, e i globi di cristallo smisero di ruotare.

Per qualche attimo rimase nell’aria una lugubremodulazione, che poi si spense.

«E il velo?», disse Spendio.Non lo si vedeva da nessuna parte. Dov’era dunque?

Come scoprirlo? E se i sacerdoti l’avessero nascosto?Mâtho provava uno strazio nel cuore, e una sorta di

delusione nella fede.«Di qua!», sussurrò Spendio. Era guidato da

un’ispirazione. Spinse Mâtho dietro il carro di Tanit, doveuna fenditura larga un cubito tagliava la parete dall’alto inbasso.

Allora penetrarono in una piccola sala circolare, cosìalta che sembrava l’interno di una colonna. Al centroc’era una grossa pietra nera semisferica, come untimpano; sopra vi ardeva una fiamma; dietro s’innalzavaun cono d’ebano, con una testa e due braccia.

Ma al di là c’era una specie di nube nella qualescintillavano delle stelle; nella profondità delle sue piegheapparivano strane figure: Eshmun con i Cabiri, alcuni deimostri già visti, le bestie sacre dei Babilonesi, ed altre chei due non conoscevano. Tutto ciò passava come unmantello sotto il volto dell’idolo, e risaliva stendendosisulla parete, aderendo agli angoli; era insieme bluastrocome la notte, giallo come l’aurora, purpureo come ilsole, armonioso, diafano, scintillante, leggero. Era questoil manto della dea, il sacro zaimf che non era lecitovedere.

Impallidirono entrambi.«Prendilo!», disse infine Mâtho.Spendio non esitò; e, appoggiandosi all’idolo, staccò il

velo che si afflosciò a terra. Mâtho vi pose sopra le mani;poi introdusse la testa nell’apertura, se ne avvolse ilcorpo, e apriva le braccia per contemplarlo meglio.

«Andiamo!», disse Spendio.

Mâtho, ansimante, era immobile con lo sguardo fissosul pavimento.

Improvvisamente esclamò:«Ma se andassi da lei? Non ho più paura della sua

bellezza. Che potrebbe fare contro di me? Ora sono piùche un uomo. Potrei attraversare le fiamme, potreicamminare sul mare! Un ardore mi spinge! Salammbô!Salammbô! Sono il tuo padrone!».

La sua voce tuonava. A Spendio sembrava più alto,trasfigurato.

Un rumore di passi si avvicinò, una porta si aprì eapparve un uomo, un sacerdote, col suo alto berretto egli occhi sgranati. Prima ancora che avesse potuto fare ungesto, Spendio gli si era precipitato addosso e,stringendolo tra le braccia, gli aveva affondato nei fianchii suoi due pugnali. La testa sbatté rumorosamente sulpavimento.

Poi, immobili come il cadavere, per un po’ rimasero inascolto. Si udiva solo il mormorio del vento attraverso laporta socchiusa.

Quella porta dava su uno stretto passaggio. Spendio visi inoltrò, Mâtho lo seguì, e si ritrovarono quasi subitonel terzo recinto, tra i portici laterali, dove erano leabitazioni dei sacerdoti.

Dietro le celle doveva esserci una via più breve peruscire. Si affrettarono.

Spendio, chinandosi sul bordo della fontana, si lavò lemani insanguinate. Le donne dormivano. La vigna di

smeraldi splendeva. Si rimisero in cammino.Ma qualcuno, sotto gli alberi, correva dietro di loro; e

Mâtho, che portava il velo, sentì più volte di esseretrattenuto dal basso, leggermente. Era un grandecinocefalo, di quelli che vivevano liberi nel recinto delladea. Come se fosse consapevole del furto, si aggrappavaal mantello. Tuttavia non osavano batterlo, per pauradelle sue grida; poi improvvisamente si calmò e si mise atrottare al loro fianco, dondolandosi sul corpo e con lelunghe braccia penzoloni. Poi, alla barriera, con un saltosi lanciò in un palmizio.

Usciti dall’ultimo recinto, si diressero verso il palazzodi Amilcare; Spendio aveva capito che era inutiletrattenere Mâtho.

Presero per la via dei Conciatori, la piazza diMuthumbal, il mercato delle erbe e il crocevia di Cinasin.All’angolo di un muro, un uomo indietreggiò, spaventatoda quella cosa scintillante che attraversava le tenebre.

«Nascondi lo zaimf!», disse Spendio.Incrociarono altre persone, ma senza essere notati.Infine riconobbero le case di Megara.Il faro, costruito in fondo, sulla sommità della

scogliera, illuminava il cielo di una grande luce rossa, el’ombra del palazzo, con le sue terrazze sovrapposte, siproiettava sui giardini come una mostruosa piramide.Entrarono attraverso la siepe di giuggioli, spezzandone irami a colpi di pugnale.

C’erano ancora ovunque le tracce del banchetto dei

Mercenari. Le recinzioni erano a pezzi, i canali asciutti, leporte dell’ergastolo aperte. Non si vedeva nessunointorno alle cucine e alle dispense. Erano stupiti di tantosilenzio, rotto soltanto dall’ansimare rauco degli elefantiche si agitavano legati alle catene, e dal crepitio del farosul quale ardeva un falò di aloe.

Intanto Mâtho ripeteva: «Ma dov’è? Voglio vederla!Portami da lei!».

«È una follia!», diceva Spendio. «Griderà,accorreranno gli schiavi, e malgrado la tua forzamorirai!».

Così giunsero allo scalone delle galee. Mâtho alzò latesta, e gli sembrò di scorgere, in alto, un vago chiarorediffuso e tenero. Spendio tentò di trattenerlo. Ma lui silanciò su per i gradini.

Ritrovandosi nei luoghi dove l’aveva già vista,l’intervallo dei giorni trascorsi si cancellò dalla suamemoria. Pochi attimi prima Salammbô aveva cantato trai tavoli; poi era scomparsa, e da quel momento Mâthonon faceva che salire quella scala. Il cielo, sopra di lui,era infuocato; il mare riempiva l’orizzonte; a ogni passoera circondato da un’immensità più vasta, e continuava asalire con la strana leggerezza che si prova nei sogni.

Il fruscio del velo che sfiorava il pavimento gli ricordòil suo nuovo potere; ma, travolto dalla sua grandesperanza, ora non sapeva cosa fare; l’incertezza lointimidì.

Di tanto in tanto incollava il viso alle finestre

quadrangolari delle stanze chiuse, e in molte credette divedere delle persone addormentate.

L’ultimo piano, più stretto, formava una sorta di dadosulla sommità delle terrazze. Mâtho vi girò intorno,lentamente.

Una luce lattiginosa bagnava le foglie di talco chechiudevano le piccole aperture del muro; nella lorodisposizione simmetrica sembravano, nelle tenebre, filedi perle fini. Riconobbe la porta rossa con la croce nera. Ibattiti del suo cuore raddoppiarono. Avrebbe volutofuggire. Spinse la porta; si aprì.

Una lampada a forma di galea ardeva appesa in fondoalla camera; e tre raggi, riflessi dalla carena d’argento,tremavano sulla parte alta delle pareti, verniciata di rossoa bande nere. Il soffitto era fatto di travi, decorate diametiste nei punti d’incrocio, e di topazi nei nodi dellegno. Sui due lati maggiori della stanza c’era un lettomolto basso, di strisce di cuoio bianche; e più in alto siaprivano nelle pareti, come conchiglie, piccole nicchie dacui pendeva fino a terra qualche indumento.

Un gradino di onice circondava una vasca ovale; sulbordo erano rimaste, accanto a una brocca di alabastro,delle fini pantofole di pelle di serpente. Più in là siscorgeva la traccia di un piede bagnato. Sapori squisitievaporavano.

Mâtho sfiorava appena il pavimento intarsiato d’oro, dimadreperla e di vetro; e malgrado la levigatezza delpavimento, gli sembrava che i piedi affondassero come

se stesse camminando sulla sabbia.Aveva visto dietro la lampada d’argento un grande

quadrato azzurro sospeso in aria da quattro cordeattaccate al soffitto, e avanzava, curvo, a bocca aperta.

Ali di fenicottero infisse in manici di corallo nero eranosparse alla rinfusa tra i cuscini di porpora e gli strigili ditartaruga, i cofanetti di cedro, le spatole d’avorio. Anelli ebraccialetti erano infilati su corna di antilope; e vasi diargilla si rinfrescavano al vento, nella fenditura del muro,su un graticcio di vimini. Inciampò più volte, perché ilpavimento era su livelli diversi che dividevano la stanza inscomparti. In fondo, una balaustrata d’argento recingevaun tappeto disseminato di fiori dipinti. Infine giunsedavanti al letto sospeso, accanto a uno sgabello d’ebanoche serviva per salirvi.

Ma la luce si arrestava al bordo del letto, e l’ombra,come una grande tenda, scopriva soltanto un angolo delmaterasso rosso, con la punta di un piccolo piede nudoposato sulla caviglia. A llora Mâtho, piano piano, avvicinòa sé la lampada.

Salammbô stava dormendo, con una guancia su unamano e l’altro braccio disteso. I riccioli della chioma le sispargevano intorno così abbondanti che sembravaadagiata su piume nere, e l’ampia tunica bianca la coprivain molli drappeggi fino ai piedi, seguendo le sinuosità delcorpo. Tra le palpebre socchiuse si intravedevano gliocchi. Le cortine, cadendo dall’alto, la avvolgevano inun’atmosfera bluastra, e il movimento del suo respiro,

comunicandosi alle corde, sembrava cullarla nell’aria. Unagrande zanzara ronzava intorno.

Mâtho, immobile, teneva col braccio teso la galead’argento, ma la zanzariera s’incendiò all’improvvisodissolvendosi, e Salammbô si svegliò.

Il fuoco si era spento da solo. Lei non parlava. Lalampada proiettava in alto, sulle pareti, grandimarezzature luminose e tremolanti.

«Che cos’è?», chiese Salammbô.Mâtho rispose:«È il velo della dea!».«Il velo della dea!», esclamò Salammbô. E appoggiata

sui pugni si sporgeva in fuori fremente. Mâtho continuò:«Per te sono andato a cercarlo nelle profondità del

santuario! Guarda!». Lo zaimf scintillava coperto di raggi.«Ricordi?», diceva Mâtho. «La notte apparivi nei miei

sogni; ma io non riuscivo a capire l’ordine muto dei tuoiocchi!». Lei appoggiò un piede allo sgabello d’ebano. «Seavessi capito, sarei accorso; avrei abbandonato l’esercito;non sarei uscito da Cartagine. Per obbedirti, scendereiattraverso la caverna di Adrumeto4 nel regno delleOmbre... Perdonami! C’erano montagne che pesavanosulle mie montagne, eppure qualcosa mi trascinava!Tentavo di raggiungerti! Senza gli dèi, avrei mai osato?...Andiamo! Devi seguirmi! Oppure, se non vuoi, sarò io arestare. Che importa... Annega la mia anima nel soffiodel tuo respiro! Le mie labbra si consumino a baciare letue mani!».

«Lasciami vedere!», diceva lei. «Più vicino! Piùvicino!».

Sorgeva l’alba, e un colore rossastro tingeva le fogliedi talco sulle pareti. Salammbô si appoggiava ai cuscinidel letto, come stesse per svenire.

«Ti amo!», gridava Mâtho.Lei balbettò: «Dammelo!». Ed erano sempre più vicini.Lei continuò ad avanzare, trascinando la tunica bianca,

con i grandi occhi fissi sul velo. Mâtho la contemplava,abbagliato dallo splendore del suo viso, e tendendo versodi lei lo zaimf stava per stringerla in un abbraccio.Salammbô aprì le braccia. Di colpo si fermò, e rimasero aguardarsi a bocca aperta.

Senza capire cosa le chiedesse, fu presa dall’orrore. Lesopracciglia sottili si sollevarono, le labbra sischiudevano; tremava. Infine colpì una delle patere dibronzo appese agli angoli del materasso purpureo,gridando:

«Aiuto! Aiuto! Indietro, sacrilego! Infame! Maledetto! Ame, Taanach, Krum, Ewa, Micipsa, Schaul!».

E la faccia spaventata di Spendio, apparendo nellafenditura del muro tra le brocche d’argilla, lanciò questeparole:

«Fuggi! Arrivano!».Un gran tumulto salì scuotendo le scale, e una folla di

gente, donne, servi, schiavi, irruppe nella stanza conspiedi, mazze, coltellacci, pugnali. Rimasero paralizzatidall’indignazione vedendo un uomo; le serve urlavano

come ai funerali, e gli eunuchi impallidivano sotto la pellenera.

Mâtho era dietro la balaustrata. Avvolto nello zaimf,sembrava un dio siderale attorniato dal firmamento. Glischiavi stavano per gettarsi su di lui. Salammbô li fermò.

«Non toccatelo! È il manto della dea!».Salammbô si era ritirata in un angolo; poi fece un

passo verso di lui e, tendendo il braccio nudo:«Maledizione su di te che hai derubato Tanit! Odio,

vendetta, massacro e dolore! Gurzil, dio delle battaglie, tidilani! Matisma, dio dei morti, ti soffochi! E l’A ltro, coluiche non si può nominare, ti bruci!».5

Mâtho gettò un grido come fosse stato ferito da unaspada. Lei ripeté più volte: «Vattene! Vattene!».

La folla dei servitori si fece da parte e Mâtho, a testabassa, passò lentamente in mezzo a loro; ma giunto allaporta si fermò, perché la frangia dello zaimf era rimastaimpigliata in una stella d’oro del pavimento. Lo tiròbruscamente, scrollando una spalla, e scese le scale.

Spendio, saltando di terrazza in terrazza, scavalcandole siepi e i canali, era fuggito dai giardini. Giunse ai piedidel faro. Il muro in quel punto era abbandonato, tanto lascogliera era inaccessibile. Avanzò fino al ciglio, si stesesul dorso e, con i piedi in avanti, si lasciò scivolare lungoil pendio; poi raggiunse a nuoto il promontorio delleTombe, deviò attraverso la laguna salata, e la sera rientròal campo dei Barbari.

Il sole si era levato; e, come un leone che si allontani,

Mâtho scendeva per i sentieri gettando intorno a sésguardi terribili.

Udiva un rumore confuso; partito dal palazzo,ricominciava più lontano, dalla parte dell’Acropoli. A lcunidicevano che era stato rubato il tesoro della Repubblicanel tempio di Moloch; altri parlavano di un sacerdoteassassinato. Altrove si credeva che i Barbari fosseroentrati in città.

Mâtho, che non sapeva come uscire dalla cintamuraria, camminava diritto davanti a sé. Lo videro, sialzarono grida. Tutti avevano capito; ci fu costernazione,poi una collera immensa.

Dal fondo dei Mappali, dalle alture dell’Acropoli, dalleCatacombe, dalle rive del lago, la folla accorse. I patriziuscivano dai loro palazzi, i commercianti dalle botteghe;le donne lasciavano i bambini; si presero spade, asce,bastoni; ma l’ostacolo che aveva trattenuto Salammbôfermò anche loro. Come riprendere il velo? Il solovederlo era un delitto: era della stessa natura degli dèi eil suo contatto faceva morire.

Nel peristilio dei templi, i sacerdoti disperati sitorcevano le braccia. Le guardie della Legionegaloppavano a caso: la gente saliva sulle case, sulleterrazze, sulle spalle dei colossi, sull’alberatura delle navi.Intanto Mâtho continuava ad andare avanti, e a ogni suopasso la rabbia aumentava, ma anche il terrore. Le stradesi vuotavano al suo avvicinarsi, e quel torrente di uominiin fuga rigurgitava sui lati fino alla sommità dei muri.

Ovunque non vedeva altro che grandi occhi spalancati,come per divorarlo, e denti che battevano, e pugni tesi;le imprecazioni di Salammbô si moltiplicavano in un’ecoinfinita.

D’un tratto sibilò una lunga freccia, poi un’altra, evolarono sassi: ma i colpi, mal diretti perché si temeva dicolpire lo zaimf, gli passavano sopra la testa. Del resto,facendosi scudo del velo, lo tendeva a destra, a sinistra,davanti, dietro; e quelli non sapevano a quale espedientericorrere. Camminava sempre più in fretta, prendendo levie più aperte. Erano sbarrate da corde, carri, trappole; aogni deviazione tornava indietro. Finalmente raggiunse lapiazza di Khamon, dove erano morti i Balearici; Mâtho sifermò, impallidendo come uno che stia per morire.Questa volta era perduto; la folla batteva le mani.

Corse alla grande porta chiusa. Era altissima, diquercia massiccia, con borchie di ferro e rivestita dibronzo. Mâtho le si gettò contro. Il popolo batteva i piedidalla gioia, vedendo l’impotenza del suo furore; allora sitolse un sandalo, ci sputò sopra, e con quello colpì ibattenti immobili. La città intera urlò. Stavanodimenticando il velo, erano pronti a schiacciarlo. Mâthoguardò la folla con due occhi vuoti. Le tempie glipulsavano fino a stordirlo; si sentiva invaderedall’intorpidimento degli ubriachi. Ma improvvisamentevide la lunga catena che veniva tirata per manovrare ilcontrappeso della porta. Con un balzo vi si aggrappò,tendendo le braccia, puntando i piedi; e alla fine glienormi battenti si dischiusero.

enormi battenti si dischiusero.Quando fu fuori, si tolse dal collo il grande zaimf e lo

alzò sulla testa il più in alto possibile. Il tessuto, teso dalvento di mare, splendeva al sole con i suoi colori, le suepietre preziose e le raffigurazioni dei suoi dèi. Mâtho,portandolo in questo modo, attraversò l’intera pianurafino alle tende dei soldati, e il popolo, sulle mura,guardava la fortuna di Cartagine che se ne andava via.

VIAnnone

«Avrei dovuto rapirla!», disse la sera a Spendio.«Bisognava prenderla, strapparla dalla sua casa! Nessunoavrebbe osato fare qualcosa contro di me!».

Spendio non lo ascoltava. Disteso supino, si concedevaun riposo delizioso accanto a una grande giara piena diacqua mielata, dove di tanto in tanto tuffava la testa perberne di più.

Mâtho riprese:«Che fare... Come rientrare a Cartagine?»«Non so», gli disse Spendio.Quell’impassibilità lo esasperava; esclamò:«È colpa tua! Mi ci trascini, e poi mi abbandoni,

vigliacco! Perché dovrei obbedirti? Credi di essere il miopadrone? Ah, ruffiano, schiavo e figlio di schiavi!».

Digrignava i denti e alzava su Spendio la sua grossamano.

Il Greco non rispose. Una lucerna d’argilla ardeva

piano vicino al palo della tenda, dove lo zaimf splendevanella panoplia appesa.

All’improvviso Mâtho calzò i coturni, affibbiò la magliaa lamine di bronzo, prese l’elmo.

«Dove vai?», chiese Spendio.«Torno da lei! Lasciami! La porterò qui! Se si faranno

vedere li schiaccerò come vipere! La farò morire,Spendio!». Ripeté: «Sì! la ucciderò! Vedrai, la ucciderò!».

Ma Spendio, che stava con gli orecchi tesi, afferròbruscamente lo zaimf e lo gettò in un angolo,ammucchiandovi sopra delle pelli. Si udì un brusio divoci, brillarono delle torce, e Narr’Havas entrò, seguito dauna ventina di uomini.

Indossavano mantelli di lana bianca, lunghi pugnali,collari di cuoio, orecchini di legno, calzari di pelle di iena;e, fermi sulla soglia, si appoggiavano alle lance comepastori che si stiano riposando. Narr’Havas era il più bellodi tutti; cinghie adorne di perle gli stringevano le bracciasottili; nel cerchio d’oro che fermava intorno alla testal’ampio mantello era infilata una piuma di struzzo che gliricadeva dietro le spalle; un perenne sorriso gli scopriva identi; gli occhi sembravano aguzzi come frecce, e in tuttala sua persona c’era qualcosa di attento e leggero.

Annunciò che veniva a unirsi ai Mercenari, perché datroppo tempo la Repubblica minacciava il suo regno.Dunque era suo interesse aiutare i Barbari, e nello stessotempo poteva essere utile a loro.

«Vi fornirò elefanti (le mie foreste ne sono piene),

vino, olio, orzo, datteri, pece e zolfo per gli assedi,ventimila fanti e diecimila cavalli. Mi rivolgo a te, Mâtho,perché possedere lo zaimf ti ha fatto diventare il primodell’esercito». Aggiunse: «E poi, siamo vecchi amici».

Intanto Mâtho osservava Spendio, che ascoltavaseduto sulle pelli di pecora e faceva con la testa piccolicenni di assenso. Narr’Havas parlava. Chiamava atestimoni gli dèi, malediceva Cartagine. Imprecò, spezzòun giavellotto. I suoi uomini gettarono tutti insieme ungrande urlo, e Mâtho, travolto da quell’ira, gridò cheaccettava l’alleanza.

Allora portarono un toro bianco e una pecora nera,simboli del giorno e della notte. Li sgozzarono sul bordodi una fossa. Quando fu piena di sangue, vi immersero lebraccia. Poi Narr’Havas appoggiò la mano destra benaperta sul petto di Mâtho, e Mâtho la sua sul petto diNarr’Havas. Imposero poi le mani sulla tela delle lorotende. Quindi passarono la notte a mangiare, e gli avanzidelle carni furono bruciati insieme con la pelle, le ossa, lecorna e le unghie.

Un’acclamazione immensa aveva salutato Mâthoquando era tornato portando il velo della dea; anchecoloro che non erano di religione cananea intuirono, dalloro entusiasmo indefinito, che stava giungendo unGenio. Quanto a cercare di impadronirsi dello zaimf,nessuno ci pensò; il modo misterioso in cui l’aveva avutobastava, nello spirito dei Barbari, a legittimarne ilpossesso. Così pensavano i soldati di razza africana. Gli

altri, il cui odio era meno antico, non sapevano cosapensare. Se avessero avuto delle navi se ne sarebberoandati immediatamente.

Spendio, Narr’Havas e Mâtho spedirono degli uominiin tutte le tribù del territorio punico.

Cartagine estenuava quei popoli. Ne ricavava tributiesorbitanti; e i ferri, l’ascia o la croce punivano i ritardi eperfino i mormorii. Bisognava coltivare ciò che convenivaalla Repubblica, fornire ciò che chiedeva; nessuno avevail diritto di possedere un’arma; quando i villaggi siribellavano, i loro abitanti venivano venduti; i governatorierano considerati come torchi, per quello che riuscivano aspremere. Poi, al di là delle regioni direttamentesottomesse a Cartagine, c’erano gli alleati che pagavanoun mediocre tributo; e ancora più in là vagabondavano iNomadi, che potevano essere aizzati contro di loro.Grazie a questo sistema i raccolti erano sempreabbondanti, gli allevamenti ben curati, le piantagionifloride. Il vecchio Catone, che in fatto di agricoltura e dischiavi era un maestro, novantadue anni più tardi nerimase sbalordito, e il grido di morte che ripeteva aRoma non era altro che l’espressione di un’avida gelosia.

Durante l’ultima guerra le estorsioni eranoraddoppiate, e così le città della Libia erano passate quasitutte dalla parte di Regolo. Per punirle, Cartagine avevapreteso da loro mille talenti, ventimila buoi, trecentosacchi di polvere d’oro, consistenti anticipi di grano, e icapi delle tribù erano stati crocifissi o gettati ai leoni.

Tunisi in particolare odiava Cartagine! Più antica dellametropoli, non le perdonava la sua grandezza; se nestava di fronte alle sue mura, accovacciata nel fango, inriva all’acqua, come una bestia velenosa che stesse aguardarla. Le deportazioni, i massacri e le epidemie nonla indebolivano. Aveva sostenuto Arcagato, figlio diAgatocle.1 I Mangiatori-di-cose-immonde vi avevanotrovato subito delle armi.

I corrieri non erano ancora partiti che nelle provinceesplose una gioia universale. Senza aspettare ancora,furono strangolati nei bagni gli intendenti delle grandifamiglie e i funzionari della Repubblica; le vecchie armiche erano state nascoste nelle caverne furono tirate fuori;si forgiarono spade col ferro degli aratri; sulle porte ifanciulli appuntivano i giavellotti, e le donne donarono leloro collane, gli anelli, gli orecchini, tutto ciò che potesseservire alla distruzione di Cartagine. Ognuno volevacontribuirvi. Nei borghi i fasci di lance si ammucchiavanocome covoni di mais. Mandarono al campo bestiame edenaro. Mâtho poté pagare presto ai Mercenari il soldoarretrato, e quest’idea di Spendio fece sì che venissenominato generale in capo, shalishim2 dei Barbari.

Nel frattempo affluivano rinforzi di uomini. A ll’inizioapparvero le popolazioni di razza autoctona, poi glischiavi delle campagne. Furono catturati e armati i Negridi alcune carovane; certi mercanti che stavano andando aCartagine si unirono ai Barbari, nella speranza di unprofitto più certo. Nuove bande di uomini continuavano

ad arrivare. Dall’alto dell’Acropoli si vedeva crescerel’esercito.

Le guardie della Legione erano appostate sullapiattaforma dell’acquedotto; accanto a loro, di tanto intanto, s’innalzavano caldaie di rame in cui bollivano fiottidi asfalto. In basso, nella pianura, la grande folla siagitava tumultuosa; erano incerti, perché provavanoquell’imbarazzo che la vista delle mura suscita sempre neiBarbari.

Utica e Ippozarito rifiutarono l’alleanza. Colonie feniciecome Cartagine, si governavano da sole e, nei trattatistipulati dalla Repubblica, ogni volta facevano inseriredelle clausole che distinguessero la loro posizione.Rispettavano tuttavia quella sorella più forte, che leproteggeva, e non credevano che un’accozzaglia diBarbari riuscisse a vincerla; anzi, essi erano destinati allosterminio. Così preferivano restare neutrali e viveretranquille.

Ma la loro posizione le rendeva indispensabili. Utica, infondo a un golfo, era molto comoda per far giungere aCartagine soccorsi dall’esterno. Nel caso che Utica fossestata conquistata, Ippozarito, a sei ore di distanza sullacosta, l’avrebbe rimpiazzata, e la metropoli, così rifornita,sarebbe risultata inespugnabile.

Spendio voleva che l’assedio iniziasseimmediatamente; Narr’Havas si oppose: prima di tuttobisognava occuparsi della frontiera. Era l’opinione deiveterani, e dello stesso Mâtho; così fu deciso che Spendio

andasse ad attaccare Utica, e Mâtho Ippozarito, mentre ilterzo corpo d’armata, appoggiandosi su Tunisi, avrebbeoccupato la piana di Cartagine; se ne incaricò Autarito.Quanto a Narr’Havas, doveva tornare nel suo regno aprendervi gli elefanti, battendo le strade con la cavalleria.

Le donne urlarono con forza contro tale decisione;infatti volevano i gioielli delle donne puniche. Anche iLibici protestarono. Li avevano chiamati contro Cartagine,ed ecco che si andava via! I soldati partirono quasi soli.Mâtho comandava i suoi compagni, con gli Iberici, iLusitani, gli uomini dell’Occidente e delle isole; tutti quelliche parlavano greco avevano chiesto di seguire Spendio,per via della sua intelligenza.

Fu grande lo stupore dei Cartaginesi quando tutt’a untratto videro l’esercito mettersi in movimento e sfilaresotto il monte di Ariana, sulla strada di Utica, dal lato delmare. Un troncone rimase davanti a Tunisi; il restoscomparve, per poi riapparire sull’altra sponda del golfo,sul limitare dei boschi nei quali sparì.

Erano ottantamila uomini, forse. Le due città tirie nonavrebbero resistito; e sarebbero tornati su Cartagine. Giàun esercito considerevole la minacciava, occupando labase dell’istmo, e assai presto la città sarebbe caduta perfame perché non si poteva vivere senza l’aiuto delleprovince, dal momento che i cittadini non pagavano,come a Roma, tributi. Il genio politico mancava aCartagine. La sua eterna ansia di profitto le impediva diavere quella prudenza che nasce dalle ambizioni più

elevate. Galea ancorata sulla sabbia libica, vi simanteneva a forza di lavoro. Le nazioni, come flutti, lemugghiavano intorno, e la più piccola tempesta scuotevaquella macchina formidabile.

Il tesoro era stato esaurito dalla guerra romana, e datutto quello che si era dilapidato, perduto, amercanteggiare con i Barbari. Ma intanto servivanosoldati, e non c’era un solo governo che si fidasse dellaRepubblica. Tolomeo 3 le aveva appena rifiutato duemilatalenti. E poi li scoraggiava il ratto del velo. Spendiol’aveva saputo prevedere.

Ma questo popolo, che si sentiva odiato, si stringeva alcuore il suo denaro e i suoi dèi; e il suo patriottismo eraassicurato dalla costituzione stessa del governo.

Innanzitutto, il potere dipendeva da tutti senza chenessuno fosse abbastanza forte da impadronirsene. Idebiti privati erano considerati debiti pubblici, e gliuomini di razza cananea avevano il monopolio delcommercio; moltiplicando i guadagni della pirateria perquelli dell’usura, sfruttando duramente la terra, gli schiavie i poveri, talvolta si raggiungeva la ricchezza. Questasola permetteva di accedere a tutte le magistrature; ebenché il potere e il denaro restassero sempre nellestesse famiglie, si tollerava l’oligarchia perché si aveva lasperanza di giungere a farne parte.

Le società dei commercianti, dove si elaboravano leleggi, sceglievano gli ispettori delle finanze che, alloscadere del mandato, nominavano i cento membri del

Consiglio degli Anziani, che a loro volta dipendevanodalla Grande Assemblea, riunione generale di tutti iRicchi. Quanto ai due suffeti, questi avanzi di re, menoimportanti dei consoli, erano scelti lo stesso giorno indue famiglie diverse. Venivano divisi con ogni sorta dirivalità, perché si indebolissero a vicenda. Non potevanodecidere in materia di guerra; quando venivano sconfitti,il Gran Consiglio li crocifiggeva.

La forza di Cartagine proveniva dunque dai Sissizi, unagrande corte nel centro di Malqua, nel luogo dove sidiceva che fosse approdata la prima barca di marinaifenici, dato che nel corso dei secoli il mare si era ritiratomolto. Era un complesso di piccole camere di strutturaarcaica, in tronchi di palma e con angoli di pietra, divisele une dalle altre per accogliere separatamente le diversecompagnie. I Ricchi si affollavano là dentro per tutto ilgiorno, a discutere dei loro interessi e di quelli delgoverno, dalla ricerca del pepe alla distruzione di Roma.Tre volte a ogni luna facevano portare i letti sull’altaterrazza che costeggiava il muro del cortile; allora, dalbasso, era possibile vederli a tavola, all’aperto, senzacoturni e senza mantelli, con le dita cariche di anelli chevagavano tra le carni e i grandi orecchini chepenzolavano tra le brocche: tutti robusti e grassi, mezzinudi, beati, a ridere e a mangiare sotto il cielo azzurro,come grossi squali che giochino nel mare.

Ma in quel momento non riuscivano a nascondere leloro preoccupazioni, erano troppo pallidi; la folla, che liaspettava sulle porte, li scortava fino ai palazzi per

aspettava sulle porte, li scortava fino ai palazzi perricavarne qualche notizia. Come in tempi di peste, tutte lecase erano chiuse; le strade si riempivano all’improvviso,e subito si vuotavano; si saliva sull’Acropoli; si correva alporto; ogni notte il Gran Consiglio deliberava. Alla fine ilpopolo fu convocato sulla piazza di Khamon, e fu decisodi affidarsi ad Annone, il vincitore di Ecatompilo.

Era un uomo devoto, astuto, spietato con lepopolazioni dell’Africa, un vero Cartaginese. Le suerendite erano pari a quelle dei Barca. Nessuno avevaun’esperienza come la sua nelle cosedell’amministrazione.

Decretò l’arruolamento di tutti i cittadini validi, piazzòcatapulte sulle torri, pretese esorbitanti forniture d’armi,ordinò perfino la costruzione di quattordici galee di cuinon c’era bisogno; e volle che tutto questo fosseregistrato e scritto con cura. Si faceva portare all’arsenale,al faro, nel tesoro dei templi; ovunque si vedeva la suagrande lettiga che, ondeggiando di gradino in gradino,saliva su per le scalinate dell’Acropoli. Nel suo palazzo, dinotte, quando non riusciva a dormire, per prepararsi allabattaglia urlava ordini di guerra con una voce terribile.

Tutti, per eccesso di paura, diventavano coraggiosi. IRicchi, al canto del gallo, si allineavano lungo i Mappali;e, rimboccate le maniche, si esercitavano a maneggiare lapicca. Ma poiché non c’era un istruttore, litigavano.Sedevano ansimanti sulle tombe, poi ricominciavano.Molti si imposero una dieta. Alcuni, pensando chebisognasse mangiare molto per aumentare la forza, si

ingozzavano, mentre altri, impediti dalla loro corpulenza,si sottoponevano a digiuni estenuanti per dimagrire.

Utica aveva già richiesto più volte l’aiuto di Cartagine.Ma Annone non voleva partire finché alle macchine daguerra mancasse l’ultimo dado. Perse ancora tre lune aequipaggiare i centododici elefanti alloggiati nei bastioni;erano i vincitori di Regolo; il popolo li amava;l’attenzione per quei vecchi amici non era maiabbastanza. Annone fece rifondere le piastre di bronzo dicui erano armati i loro pettorali, dorare le zanne,ampliare le torri, e tagliare nella porpora più bella dellegualdrappe orlate di frange pesantissime. Infine, dalmomento che i loro conduttori venivano chiamati Indiani(senza dubbio perché i primi erano giunti dalle Indie),ordinò che tutti fossero acconciati alla moda indiana, cioècon un turbante bianco intorno alle tempie e calzoni cortidi bisso che, con le loro pieghe trasversali, sembravanole due valve di una conchiglia applicata sulle anche.

L’esercito di Autarito continuava a rimanere davanti aTunisi. Era nascosto dietro un muro fatto con il fango dellago e difeso sulla sommità da una siepe di rovi. I Negrivi avevano conficcato qua e là, in cima a grandi bastoni,figure terrificanti, maschere umane fatte con penne diuccelli, teste di sciacallo o di serpente, a fauci spalancateverso il nemico per spaventarlo; e con questoconsiderandosi invincibili, i Barbari danzavano, lottavano,giocherellavano, convinti che Cartagine sarebbe cadutapresto. Uno diverso da Annone avrebbe annientatofacilmente quella folla impedita dalle greggi e dalle

facilmente quella folla impedita dalle greggi e dalledonne. Del resto non capivano nessuna manovra militare,e Autarito, scoraggiato, non pretendeva più niente daloro.

Si scostavano, quando passava roteando i grandi occhiblu. Poi, giunto sulla riva del lago, si toglieva il saio dipelle di foca,4 scioglieva la corda che teneva legati ilunghi capelli rossi, e li immergeva nell’acqua.Rimpiangeva di non aver disertato, di non esser passatodalla parte dei Romani insieme con i duemila Galli deltempio di Erice.

Spesso, a metà giornata, improvvisamente il soleperdeva i suoi raggi. A llora il golfo e il mare apertosembravano immobili come piombo fuso. Una nube dipolvere bruna, verticale, avanzava in un turbine; le palmesi curvavano, il cielo scompariva, si udivano rimbalzare lepietre sul dorso degli animali; e il Gallo, con le labbraincollate ai fori della tenda, ansimava sfinito emalinconico. Pensava all’odore dei pascoli nei mattinid’autunno, ai fiocchi di neve, ai muggiti degli uri5

sperduti nella nebbia, e chiudendo gli occhi credeva discorgere i fuochi delle lunghe capanne coperte di paglia,tremanti sulle paludi, in fondo ai boschi.

A ltri rimpiangevano come lui la patria, sebbene nonfosse altrettanto lontana. In effetti, i Cartaginesiprigionieri potevano distinguere, al di là del golfo, suipendii di Birsa, i velari delle loro case, stesi nei cortili. Mac’erano sentinelle che marciavano continuamente intornoa loro. Li avevano attaccati tutti a una catena comune.

Ognuno portava una gogna di ferro, e la folla non sistancava di venire a vederli. Le donne mostravano aibambini le loro belle vesti che pendevano a brandellidalle membra smagrite.

Ogni volta che Autarito guardava Giscone, venivatravolto dal furore al ricordo dell’ingiuria subita; senza ilgiuramento fatto a Narr’Havas, lo avrebbe ucciso. Allorarientrava nella tenda, beveva un miscuglio di orzo ecumino fino a perdersi nell’ebbrezza; poi si svegliava inpieno giorno, divorato da una sete orribile.

Intanto Mâtho assediava Ippozarito.Ma la città era protetta da un lago comunicante col

mare. Aveva tre cinte murarie, e sulle alture che ladominavano si svolgeva un muro fortificato con torri.Non aveva mai diretto imprese del genere. Inoltre loassillava il pensiero di Salammbô, e tra i piaceri della suabellezza sognava le delizie di una vendetta che loriempiva di orgoglio. Era un bisogno di rivederla acre,furioso, permanente. Pensò perfino di offrirsi comeparlamentare nella speranza che, una volta a Cartagine,sarebbe giunto fino a lei. Spesso faceva suonare l’attaccoe, senza attendere, si lanciava sul molo che si stavacercando di costruire nel mare. Strappava le pietre con lemani, rovesciava, colpiva, affondava ovunque la spada. IBarbari si precipitavano alla rinfusa; le scale sispezzavano con grande fracasso, e masse di uominirovinavano nell’acqua che in rossi flutti s’infrangevacontro le mura. Poi il tumulto si attenuava, e i soldati si

allontanavano per poi ricominciare.Mâtho andava a sedersi fuori delle tende; si asciugava

col braccio il viso schizzato di sangue, e, rivolto versoCartagine, guardava l’orizzonte.

Davanti a lui, tra gli olivi, le palme, i mirti e i platani,si stendevano due grandi stagni collegati con un terzo dicui non si distinguevano i contorni. Dietro una montagnase ne innalzavano altre e al centro dell’immenso lago siergeva un’isola tutta nera, a forma di piramide. Sullasinistra, in fondo al golfo, cumuli di sabbia sembravanograndi onde bionde, immobili, mentre il mare, piattocome un pavimento di lapislazzuli, saliva insensibilmentefino al limite del cielo. Il verde della campagnascompariva a tratti sotto lunghe chiazze gialle; carrubibrillavano come bottoni di corallo; pampini ricadevanodalle chiome dei sicomori; si udiva il mormoriodell’acqua; allodole col ciuffo saltellavano, e gli ultimiraggi del sole doravano il guscio delle tartarughe cheuscivano dai canneti a respirare la brezza.

Mâtho gettava sospiri profondi. Si sdraiava bocconi;affondava le unghie nella terra e piangeva; si sentivamiserabile, debole, abbandonato. Non avrebbe maiposseduto Salammbô, e non riusciva neppure aimpadronirsi di una città.

La notte, solo, nella sua tenda, contemplava lo zaimf.A cosa gli serviva quella cosa degli dèi? E qualche dubbiosi insinuava nella mente del Barbaro. Poi gli sembrava, alcontrario, che il velo della dea fosse intimamente unito a

Salammbô, e che una parte dell’anima di lei vi fluttuassepiù lieve di un respiro; allora lo palpava, lo annusava, viaffondava il viso, lo baciava singhiozzando. Se neavvolgeva le spalle per illudersi e credersi accanto a lei.

Talvolta fuggiva all’improvviso; alla luce delle stellescavalcava i soldati che dormivano avvolti nei loromantelli; poi, alle porte del campo, saltava su un cavallo,e due ore dopo era a Utica nella tenda di Spendio.

Si metteva a parlare dell’assedio; in realtà era venutoper alleviare il proprio dolore parlando di Salammbô.Spendio lo esortava alla saggezza:

«Scaccia dal tuo animo queste miserie che lodegradano! Un tempo obbedivi ai comandi altrui; maoggi sei tu a comandare un esercito, e se anche Cartaginenon sarà conquistata ci saranno certamente concessedelle province, diventeremo re!».

Ma perché il possesso dello zaimf non dava loro lavittoria? Secondo Spendio bisognava attendere.

Mâtho pensò che il velo riguardasse solo gli uomini dirazza cananea e, nella sua sottigliezza di Barbaro, sidiceva: «Dunque lo zaimf non farà niente per me; mapoiché l’hanno perduto, non farà niente neppure perloro».

Poi fu preso da uno scrupolo. Aveva paura cheadorando Aptuknos, il dio dei Libici, avrebbe offesoMoloch; perciò chiese timidamente a Spendio a quale deidue convenisse sacrificare un uomo.

«Sacrifica sempre!», disse Spendio ridendo.

Mâtho, che non capiva questa indifferenza, sospettòche il Greco avesse un Genio di cui non voleva parlare.

Tutti i culti, come tutte le razze, s’incontravano inquegli eserciti di Barbari, e si rispettavano gli dèi deglialtri che comunque incutevano timore. Molti univanopratiche straniere alla religione nativa. Pur non adorandole stelle, poiché una data costellazione era ritenutafunesta o propizia le si facevano dei sacrifici; un amuletosconosciuto, trovato per caso in una situazione dipericolo, diventava una divinità; oppure si trattava di unnome, nient’altro che un nome, che veniva ripetuto senzache neppure si cercasse di capirne il significato. Ma, aforza di saccheggiare templi, di vedere tanti popoli emassacri, molti finivano per credere soltanto al destino ealla morte; e ogni sera si addormentavano con la serenitàdelle bestie feroci. Spendio avrebbe sputato sulleimmagini del Giove Olimpico; tuttavia temeva di parlarea voce alta nelle tenebre, e non mancava mai, ognigiorno, di calzare prima il piede destro.

Stava facendo innalzare, di fronte a Utica, un lungoterrapieno quadrangolare. Ma via via che cresceva inaltezza, cresceva anche il bastione frontale; ciò che eraabbattuto dagli uni, veniva quasi subito ricostruito daglialtri. Spendio risparmiava i suoi uomini, studiava piani;cercava di ricordare gli stratagemmi di cui aveva sentitoparlare durante i suoi viaggi. Perché Narr’Havas nonritornava? C’era molta inquietudine.

Annone aveva concluso i preparativi. In una notte

senza luna fece attraversare agli elefanti e ai soldati, suzattere, il golfo di Cartagine. Poi aggirarono la Montagnadelle Acque Calde per evitare Autarito, e proseguironocon tanta lentezza che invece di sorprendere i Barbariall’alba, come aveva calcolato il suffeta, arrivarono alterzo giorno, col sole alto.

A oriente di Utica una pianura si estendeva fino allagrande laguna di Cartagine; dietro, sboccava ad angoloretto una valle racchiusa tra due basse montagne che siinterrompevano bruscamente; i Barbari si eranoaccampati più lontano, sulla sinistra, in modo da bloccareil porto; e dormivano nelle loro tende (perché quelgiorno i due avversari, troppo stanchi per combattere,riposavano) quando da dietro le colline apparve l’esercitocartaginese.

Servi armati di fionde erano distanziati sulle ali. Leguardie della Legione, nelle loro armature a lamine d’oro,formavano la prima linea, coi loro grandi cavalli senzacriniera, senza pelo e senza orecchie, con un cornod’argento in mezzo alla fronte per farli somigliare a deirinoceronti. Tra i loro squadroni, dei giovani cheportavano in testa un piccolo elmo bilanciavano inentrambe le mani un giavellotto di frassino; dietro,avanzavano le lunghe picche della fanteria pesante. Tuttiquei mercanti si erano messi addosso la maggiorequantità possibile di armi: se ne vedevano alcuni cheportavano contemporaneamente una lancia, un’ascia, unaclava, due spade; altri erano irti di frecce comeporcospini, e tenevano le braccia scostate dalle corazze in

porcospini, e tenevano le braccia scostate dalle corazze inlamine di corno o in piastre di ferro. Infine apparvero leimpalcature delle alte macchine da guerra: carrobaliste,onagri,6 catapulte e scorpioni,7 ondeggianti su carritrainati da muli e da quadrighe di buoi; via via chel’esercito si dispiegava, i capitani, ansimanti, correvano adestra e a sinistra per trasmettere ordini, far serrare lefile e mantenere le distanze tra una fila e l’altra. Quelli tragli Anziani che avevano funzioni di comando erano venuticon elmi purpurei le cui frange magnifiche s’impigliavanotra le cinghie dei coturni. I loro volti, imbrattati dicinabro, rilucevano sotto elmi giganteschi sormontati daimmagini di dèi; e poiché portavano scudi con un bordod’avorio ricoperto di pietre preziose sembravano dei soliche passassero davanti a muri di bronzo.

I Cartaginesi manovravano con una tale lentezza che isoldati, per deriderli, li invitavano a sedersi. Gridavanoche avrebbero forato subito i loro pancioni, e spazzolatobene la doratura della loro pelle, e che avrebbero fattobere loro del ferro.

In cima al palo piantato davanti alla tenda di Spendioapparve un brandello di tela verde: era il segnale.L’esercito cartaginese rispose con un frastuono di trombe,cimbali, flauti di osso di asino e timpani. I Barbari eranogià balzati fuori dalle palizzate. Si era a portata digiavellotto, faccia a faccia.

Un fromboliere balearico avanzò di un passo, posenella fionda un proiettile di argilla, roteò il braccio; unoscudo d’avorio andò in pezzi, e iniziò la mischia.

I Greci, colpendo i cavalli sul muso con la punta dellepicche, li fecero rovesciare addosso ai loro padroni. Glischiavi che dovevano lanciare pietre, le avevano sceltetroppo grosse; così ricadevano vicino ai loro piedi. I fantipunici, che colpivano di taglio con le lunghe spade, siscoprivano il fianco destro. I Barbari sfondarono le lorolinee; li sgozzavano affondando la spada; inciampavanosui moribondi e sui cadaveri, accecati dal sangue cheschizzava sui loro volti. Quell’ammasso di lance, di elmi,di corazze, di spade e di membra confuse, roteava su sestesso, allargandosi e restringendosi con contrazionielastiche. Le coorti cartaginesi si disgregarono sempre dipiù; le loro macchine da guerra si erano insabbiate;infine la lettiga del suffeta (la sua grande lettiga con ipendagli di cristallo), che fin dall’inizio era stata vistaondeggiare tra i soldati come una barca sui flutti,improvvisamente sprofondò. Annone doveva esseremorto. I Barbari si trovarono soli.

La nube di polvere stava ricadendo intorno a loro, ecominciavano a cantare, quando Annone in personaapparve in cima a un elefante. Era a testa nuda, sotto unparasole di bisso che era tenuto da un Negro alle suespalle. La sua collana di piastre blu sbatteva sui fiori dellatunica nera; bracciali di diamanti gli stringevano leenormi braccia, e, a bocca aperta, brandiva una lanciasmisurata che in punta si apriva come un fiore di loto,più brillante di uno specchio. Subito la terra tremò, e iBarbari videro accorrere, in una sola linea, tutti glielefanti di Cartagine con le loro zanne dorate, le orecchie

dipinte di blu, corazzati di bronzo, e che scuotevanosopra le gualdrappe scarlatte le torri di cuoio, dentroognuna delle quali tre arcieri tendevano grandi archi.

I soldati erano armati malamente, e disposti allarinfusa. Il terrore li gelò; restarono indecisi. E già dall’altodelle torri li bersagliavano di giavellotti, frecce, falariche,blocchi di piombo; alcuni, per arrampicarsi, siaggrappavano alle frange delle gualdrappe. Mozzavanoloro le mani con dei coltellacci, e quelli cadevano riversisulle spade alzate in alto. Le lance troppo deboli sispezzavano; gli elefanti passavano in mezzo alle falangicome cinghiali tra ciuffi d’erba; con le proboscidistrapparono i pali dell’accampamento, lo attraversaronoda un capo all’altro rovesciando le tende sotto i loropettorali. Tutti i Barbari erano fuggiti. Si nascondevanosulle colline che costeggiavano la valle da cui eranovenuti i Cartaginesi.

Annone, vincitore, si presentò davanti alle porte diUtica. Fece suonare la tromba. Apparvero i tre Giudicidella città, sulla cima di una torre, tra i merli.

La popolazione di Utica non voleva accogliere in cittàospiti così bene armati. Annone s’infuriò. Alla fineacconsentirono a farlo entrare con una piccola scorta.

Quando il suffeta fu in città, i notabili andarono asalutarlo. Si fece condurre ai bagni, e chiamò i suoicuochi.

Tre ore dopo, era ancora immerso nell’olio di

cinnamomo di cui era stata riempita la vasca; e mentrefaceva il bagno mangiava, sopra una pelle di bue che gliera stata distesa davanti, lingue di fenicottero con semi dipapavero conditi al miele. Accanto a lui, il suo medico,immobile in una lunga tunica gialla, faceva di tanto intanto riscaldare la stufa, e due giovani, chini sui gradinidella vasca, gli strofinavano le gambe. Ma le cure delcorpo non frenavano il suo amore per la cosa pubblica;così stava dettando una lettera per il Gran Consiglio e,poiché erano stati presi dei prigionieri, si chiedeva qualeterribile punizione potesse mai inventare.

«Fermati!», disse a uno schiavo che scriveva, in piedi,sul palmo della mano. «Portatemene qualcuno! Vogliovederli».

E dal fondo della sala piena di un vapore biancastrosul quale le torce gettavano riflessi rossi, furono spintiavanti tre Barbari: un Sannita, uno Spartano e unCappadocio.

«Continua!», disse Annone.«Gioite, luce dei Baal! Il vostro suffeta ha sterminato i

cani voraci! Benedizioni sulla Repubblica! Ordinatepreghiere!». Scorse i prigionieri e allora, scoppiando aridere: «Ah! ah! I miei prodi di Sicca! Oggi non gridatepiù tanto forte! Sono io! Mi riconoscete? Dove sono finitele vostre spade? Che uomini terribili! Veramente!». Efingeva di volersi nascondere, come se avesse paura diloro. «Chiedevate cavalli, donne, terre, magistrature, esacerdozi, vero? Perché no? Ebbene, ve le darò io le

terre... non ne uscirete più! Sarete sposati a forche bellenuove! La vostra paga? Vi sarà fusa in bocca, in lingotti dipiombo! E vi darò dei buoni posti, molto in alto, tra lenuvole, per essere vicini alle aquile!».

I tre Barbari, coi capelli lunghi e coperti di stracci, loguardavano senza capire quello che stava dicendo. Feritialle ginocchia, erano stati catturati con delle corde, e leestremità delle grosse catene che stringevano le loromani strusciavano sul pavimento. Annone si indignò perla loro impassibilità.

«In ginocchio! In ginocchio! Sciacalli! Polvere! Pidocchi!Escrementi! E non rispondono neppure! Basta! Silenzio!Che siano scorticati vivi! No! Più tardi!».

Soffiava come un ippopotamo, roteando gli occhi.L’olio profumato traboccava sotto la massa del suo corpo,e, incollandosi alle squame della sua pelle, alla luce delletorce la faceva apparire rosa.

Annone riprese:«Durante quattro giorni abbiamo sofferto molto per il

sole. Al passaggio del Macar, dei muli sono andatiperduti. Malgrado la loro posizione, il coraggiostraordinario... Ah! Demonade, quanto soffro! Fairiscaldare i mattoni, e che siano rossi!».

Si udì un rumore di pale e di fornelli. Il fumodell’incenso si alzò più denso dagli incensieri, e imassaggiatori completamente nudi, che sudavano comespugne, gli schiacciarono sulle giunture una pasta fatta digrano, zolfo, vino nero, latte di cagna, mirra, galbano e

storace.8 Era divorato da una sete irrefrenabile; l’uomovestito di giallo non cedette e, porgendogli una coppad’oro nella quale fumava un brodo di vipera:

«Bevi!», gli disse. «Affinché la forza dei serpenti, natidal sole, penetri nel midollo delle tue ossa, e tu prendacoraggio, o riflesso degli dèi! Tu sai del resto che unsacerdote di Eshmun osserva intorno al Cane le stellecrudeli dalle quali deriva la tua malattia. Impallidisconocome le macchie della tua pelle; vuol dire che non devimorire».

«Oh, sì, vero?», ripeté il suffeta. «Io non devomorire!». E dalle sue labbra violacee usciva un fiato piùnauseabondo delle esalazioni di un cadavere. Al postodegli occhi, privi di ciglia, pareva ardessero due carboni;una borsa di pelle rugosa gli pendeva sulla fronte; leorecchie, staccandosi dalla testa, cominciavano aingrandirsi, e le rughe profonde che formavano deisemicerchi intorno alle narici gli davano un aspetto stranoe spaventoso, da animale selvatico. La sua voce snaturatasomigliava a un ruggito; disse: «Che tu abbia ragione,Demonade? In effetti molte ulcere si sono chiuse. Misento robusto. Ecco, guarda come mangio!».

E più per ostentazione che per gola, e per dimostrare ase stesso che stava bene, addentava i ripieni di formaggioe di origano, i pesci senza lisca, le zucche, le ostriche,con uova, rafano, tartufi e spiedini di uccelli. Guardando iprigionieri si divertiva a prefigurare il loro supplizio.Intanto si ricordava di Sicca, e la rabbia per tutti i suoi

dispiaceri si sfogava in ingiurie contro quei tre uomini.«Ah, traditori! Ah, miserabili! Infami! Maledetti! E voi

oltraggiavate me! Il suffeta! Il loro servizio, il prezzo delloro sangue, come dicono! Ah, sì! Il loro sangue! Il lorosangue!». Poi, parlando a se stesso: «Moriranno tutti!Neppure uno sarà venduto! Sarebbe meglio portarli aCartagine! Mi si vedrebbe... ma forse non ho portatocatene a sufficienza! Scrivi: Mandatemi... Quanti sono?Andate a chiederlo a Mathumbal! Nessuna pietà: mi siportino le ceste con dentro tutte le loro mani mozzate!».

Ma strane grida, insieme rauche e acute, giungevanonella sala coprendo la voce di Annone e il sonoro rumoredei piatti che gli venivano posati tutt’intorno. Le gridadivennero più forti, e all’improvviso esplose il barrirefurioso degli elefanti, come se la battaglia stessericominciando. Un grande tumulto circondava la città.

I Cartaginesi non avevano neppure tentato d’inseguirei Barbari. Si erano accampati sotto le mura con i bagagli,i servi e tutti i loro accessorii da satrapi, e festeggiavanonelle belle tende dalle frange di perle mentre il campo deiMercenari, nella pianura, era ridotto a un ammasso dirovine. Spendio aveva ritrovato il suo coraggio. SpedìZarxas da Mâtho, attraversò i boschi, radunò i suoiuomini (le perdite non erano considerevoli) che, rabbiosiper essere stati sconfitti senza combattere, ricostituivanole proprie linee quando qualcuno scoprì una tinozza dipetrolio, senza dubbio abbandonata dai Cartaginesi.A llora Spendio fece prendere dei maiali dalle fattorie, li

cosparse di bitume, gli appiccò fuoco e li spinse versoUtica.

Gli elefanti, spaventati da quelle fiamme, fuggirono. Ilterreno era in salita, scagliavano contro di loro igiavellotti, e quelli tornarono indietro; a gran colpi dizanne e con i piedi sventravano i Cartaginesi, lisoffocavano, li schiacciavano. Dietro di loro, i Barbariscendevano la collina; il campo punico, sprovvisto ditrincee, fu messo a soqquadro al primo assalto, e iCartaginesi si trovarono schiacciati contro le porte, chenon si vollero aprire per paura dei Mercenari.

Sorgeva il sole; si videro arrivare, da Occidente, i fantidi Mâtho. Contemporaneamente apparvero dei cavalieri;era Narr’Havas con i suoi Numidi. Saltando sopra i fossi ei cespugli, inseguivano i fuggiaschi come levrieri a cacciadi lepri. Il mutamento della sorte colse di sorpresa ilsuffeta. Gridò che qualcuno lo aiutasse a uscire dalbagno.

I tre prigionieri erano ancora davanti a lui. A llora unNegro (lo stesso che durante la battaglia gli reggeva ilparasole) si chinò al suo orecchio.

«Ebbene?...», rispose lentamente il suffeta. «Ah!Uccidili!», aggiunse con tono brusco.

L’Etiope estrasse dalla cintura un lungo pugnale, e letre teste caddero. Una, rimbalzando tra i resti delbanchetto, andò a cadere nella vasca, e vi galleggiò perun po’ con la bocca aperta e gli occhi sbarrati. Le luci delmattino entravano dalle fessure delle pareti; i tre corpi

riversi bocconi gettavano fiotti di sangue come trefontane, e un rivolo di sangue colava sui mosaici cosparsidi polvere azzurra. Il suffeta immerse la mano in quellafanghiglia calda e se ne sfregò le ginocchia: era unrimedio.

Venuta la sera, fuggì dalla città con la sua scorta; poisalì sulla montagna per raggiungere il suo esercito.

Riuscì a ritrovarne i resti.Quattro giorni dopo era a Gorza, in cima a una cresta,

quando le truppe di Spendio apparvero nel fondovalle.Venti buone lance, attaccando frontalmente la colonna, leavrebbero fermate facilmente; i Cartaginesi leguardarono passare stupefatti. Annone riconobbe nellaretroguardia il re dei Numidi; Narr’Havas s’inchinò persalutarlo, facendo un segno che lui non capì.

Tornarono a Cartagine tra ogni sorta di terrori.Marciavano soltanto di notte; di giorno si nascondevanonegli oliveti. A ogni tappa qualcuno moriva; più voltecredettero di essere perduti. Finalmente raggiunsero ilcapo Ermeo, dove alcune navi vennero a prenderli.

Annone era così stanco, così disperato – lo avvilivasoprattutto la perdita degli elefanti – che per farla finitachiese del veleno a Demonade. Del resto, si sentiva giàsteso sulla croce.

Cartagine non ebbe la forza di indignarsi contro di lui.Si erano perduti quattrocentomilanovecentosettantaduesicli d’argento, quindicimilaseicentoventitré shekel d’oro,diciotto elefanti, quattordici membri del Gran Consiglio,

trecento Ricchi, ottomila cittadini, grano per tre lune, unbagaglio considerevole e tutte le macchine da guerra! Ladefezione di Narr’Havas era certa, i due assediricominciavano. Ora l’esercito di Autarito occupava ilterritorio tra Tunisi e Rades. Dall’alto dell’Acropoli siscorgevano nella campagna alte colonne di fumo chesalivano fino al cielo; erano i castelli dei Ricchi chestavano bruciando.

Un uomo soltanto avrebbe potuto salvare laRepubblica. Ci si pentì di averlo misconosciuto, e lostesso partito della pace votò olocausti per il ritorno diAmilcare.

La vista dello zaimf aveva sconvolto Salammbô. Dinotte credeva di udire i passi della dea e, spaventata, sisvegliava gridando. Ogni giorno mandava offerte neitempli. Taanach faticava a eseguire tutti i suoi ordini, eShahabarim non la lasciava più.

VIIAmilcare Barca

L’Annunciatore-delle-lune, che vegliava ogni notte sullasommità del tempio di Eshmun per segnalare con la suatromba le perturbazioni dell’astro, un mattino scorse aOccidente qualcosa di simile a un uccello che con lelunghe ali sfiorasse la superficie del mare.

Era una nave a tre ordini di remi; sulla prua c’era uncavallo scolpito. Il sole stava sorgendo: l’Annunciatore-delle-lune si mise una mano davanti agli occhi; poi,impugnando con decisione la tromba, lanciò su Cartagineun forte grido di bronzo.

La gente uscì da ogni casa; non si voleva credere alleparole, si discuteva, il molo era gremito di folla.Finalmente tutti riconobbero la trireme di Amilcare.

Avanzava orgogliosa e indomabile, la vela gonfia perl’intera lunghezza dell’albero, fendendo la schiuma; i ramigiganteschi battevano l’acqua in cadenza; di tanto intanto appariva l’estremità della chiglia, come il vomere diun aratro, e, sotto il rostro che concludeva la prua, il

cavallo dalla testa d’avorio, inarcando le zampe anteriori,sembrava galoppasse sulla pianura del mare.

Intorno al promontorio, poiché il vento era cessato, lavela cadde e accanto al pilota si vide un uomo in piedi, acapo scoperto; era lui, il suffeta Amilcare! Aveva intornoai fianchi lamine di ferro lucenti; un manto rosso fermatosulle spalle lasciava libere le braccia; due lunghe perlependevano dagli orecchi, e la folta barba nera cadeva sulpetto.

Intanto la galea sballottata tra gli scogli costeggiava ilmolo, e la folla la seguiva sul lastricato gridando:

«Salute! Benedizione! Occhio di Khamon! Ah! Liberaci!È colpa dei Ricchi! Vogliono farti morire! Stai attento,Barca!».

Lui non rispondeva, come se il clamore degli oceani edelle battaglie l’avesse reso completamente sordo. Maquando fu ai piedi della scalinata che scendevadall’Acropoli, Amilcare risollevò la testa, e, con le bracciaincrociate, guardò il tempio di Eshmun. Il suo sguardosalì ancora più in alto, al grande cielo puro; con voceaspra gridò un ordine ai suoi marinai; la trireme fece unbalzo in avanti, sfiorando l’idolo eretto all’angolo delmolo per fermare le tempeste; nel porto mercantile pienodi immondizie, schegge di legno e bucce di frutti,respingeva, speronava le altre navi ormeggiate ai pali, lecui prue sembravano mascelle di coccodrillo. Il popoloaccorreva, alcuni si gettarono a nuoto. La trireme era giàin fondo, davanti alla porta irta di chiodi. La porta si alzò

e la trireme sparì sotto la volta profonda.Il Porto Militare era completamente separato dalla

città; quando giungevano degli ambasciatori, dovevanopassare tra due muraglie, in un corridoio che sboccava asinistra, davanti al tempio di Khamon. Questo grandespecchio d’acqua, rotondo come una coppa, eracircondato da banchine dove erano stati costruiti deicapannoni per accogliervi le navi. Davanti a ognicapannone c’erano due colonne sormontate da capitelliadorni di corna di Ammone, che formavano un porticatocontinuo tutt’intorno al bacino. Al centro, su un’isola, siergeva una casa per il suffeta del mare.

L’acqua era talmente limpida che si scorgeva illastricato bianco del fondo. Il rumore delle strade nongiungeva fin là, e Amilcare, passando, riconosceva letriremi che un tempo aveva comandato.

Non ne restavano più di una ventina, al riparo, a terra,inclinate su un fianco o dritte sulla chiglia, con poppealtissime e prue bombate, coperte di dorature e disimboli mistici. Le chimere avevano perduto le ali, gli dèiPateci le braccia, i tori le corna d’argento; e tutti stinti,inerti, marci, ma pieni di storie e ancora del sapore deiviaggi, come soldati mutilati che rivedano il propriocomandante, sembrava che gli dicessero: «Siamo noi!Siamo noi! E anche tu sei vinto!».

Nessuno, tranne il suffeta del mare, poteva entrarenella casa ammiraglia. Finché non si aveva la prova dellasua morte, lo si considerava ancora vivo. Gli Anziani, in

questo modo, evitavano un padrone di più, e nel caso diAmilcare non avevano mancato di rispettare la tradizione.

Il suffeta si inoltrò nelle stanze deserte. A ogni passoritrovava armature, mobili, oggetti noti che tuttavia lostupivano; nel vestibolo, in un bruciaprofumi c’eraaddirittura ancora la cenere degli aromi bruciati allapartenza per scongiurare Melkarth. Non certo in questomodo aveva sperato di ritornare! Rivide nella memoriatutto ciò che aveva fatto, tutto ciò che aveva visto: gliassalti, gli incendi, le legioni, le tempeste, Trapani,Siracusa, il Lilibeo, il monte Etna, l’altopiano di Erice,cinque anni di battaglie, fino al giorno funesto in cui,deposte le armi, avevano perso la Sicilia. Poi rivedeva ilimoneti, i pastori con le capre sulle montagne grigie; egli batteva il cuore al pensiero di fondare laggiù un’altraCartagine. I progetti, i ricordi gli ronzavano nella testa,ancora stordita dal rollio della nave; era oppressodall’angoscia, e, divenuto improvvisamente debole, sentìil bisogno di avvicinarsi agli dèi.

A llora salì all’ultimo piano dell’edificio; poi, estratta dauna conchiglia d’oro appesa a un braccio una spatolaguarnita di chiodi, aprì una cameretta ovale.

Esili rondelle nere, incastrate nella parete e trasparenticome vetro, la rischiaravano appena. Tra le file di queidischi eguali erano scavati dei fori, simili a quelli delleurne nei colombari. Ogni foro conteneva una pietrarotonda, scura, che sembrava molto pesante. Solo lepersone di animo superiore potevano onorare questi

abadir1 caduti dalla luna. Con la loro cadutarappresentavano gli astri, il cielo, il fuoco; con il lorocolore, la notte tenebrosa, e con la loro densità lacoesione delle cose terrestri. Un’atmosfera soffocanteriempiva quel luogo mistico. Sabbia marina, senzadubbio spinta dal vento attraverso la porta, imbiancavaleggermente le pietre rotonde deposte nelle nicchie.Amilcare le contò una per una con la punta di un dito;poi si nascose il viso sotto un velo color zafferano e,cadendo in ginocchio, si stese per terra con le bracciaaperte.

Dall’esterno, la luce del giorno batteva contro le laminedi talco nero. Arborescenze, monticelli, vortici, incerteforme animali si delineavano nel loro diafano spessore; ela luce arrivava, terribile eppure pacifica, come deveaccadere dietro il sole, nei tristi spazi delle creazionifuture. Amilcare si sforzava di bandire dalla propriamente tutte le forme, tutti i simboli e i nomi degli dèi,per cogliere meglio lo spirito immutabile nascosto sottole apparenze. Qualcosa delle vitalità planetarie penetravain lui, che intanto provava per la morte e per il caso undisprezzo più consapevole e più intimo. Quando si rialzò,era pienamente sereno, intrepido, invulnerabile allamisericordia, alla paura, e siccome si sentiva soffocaresalì sulla cima della torre che dominava Cartagine.

La città digradava disegnando un’ampia curva, con lesue cupole, i templi, i tetti d’oro, le case, i ciuffi di palmequa e là, i globi di vetro dai quali scaturivano dei fuochi; i

bastioni formavano una specie di gigantesco orlo diquella cornucopia che si riversava verso di lui. Scorgevain basso i porti, le piazze, l’interno dei cortili, il tracciatodelle vie, gli uomini minuscoli che si muovevano quasiraso terra. Ah, se Annone non fosse arrivato troppo tardiquella mattina alle isole Egadi! I suoi occhi si spinseroall’estremo orizzonte; protese le braccia frementi indirezione di Roma.

La folla occupava i gradini dell’Acropoli. Sulla piazza diKhamon ci si accalcava per veder uscire il suffeta, laterrazza a poco a poco si riempiva di gente; alcuni che loavevano riconosciuto lo salutavano; si ritirò, perprovocare meglio l’impazienza del popolo.

Amilcare trovò nella sala, da basso, gli uomini piùimportanti del suo partito: Istatten, Subeldia, Ictamon,Yeuba e altri. Gli raccontarono tutto quello che erasuccesso dopo la conclusione della pace: l’avarizia degliAnziani, la partenza dei soldati, il loro ritorno, le lororichieste, la cattura di Giscone, il furto dello zaimf, Uticasoccorsa e poi abbandonata, ma nessuno osò parlarglidegli avvenimenti che lo riguardavano direttamente. Allafine si separarono; si sarebbero rivisti durante la notteall’assemblea degli Anziani, nel tempio di Moloch.

Erano appena usciti quando all’esterno, alla porta, ci fudel frastuono. Qualcuno, nonostante i servitori, volevaentrare; e poiché il baccano aumentava, Amilcare ordinòdi far entrare lo sconosciuto.

Apparve una vecchia Negra, curva, rugosa, tremante,

dall’aria ebete, e avvolta fino ai piedi in larghi veli blu.Avanzò fino a trovarsi di fronte al suffeta; si scrutaronol’un l’altra per un po’; improvvisamente Amilcare trasalì;a un gesto della sua mano, gli schiavi se ne andarono.Allora, facendole segno di camminare con prudenza, lacondusse per un braccio in una stanza lontana.

La Negra si gettò a terra, ai suoi piedi, per baciarglieli;ma lui la rialzò in modo brusco.

«Dove l’hai lasciato, Iddibal?»«Laggiù, padrone». E, liberandosi dei veli, con la

manica si sfregò la faccia; il colore nero, il tremito senile,il dorso curvo, tutto scomparve. Era un vecchio robusto,la cui pelle sembrava conciata dalla sabbia, dal vento edal mare. Un ciuffo di capelli bianchi si alzava sul craniocome il pennacchio di un uccello; e con uno sguardoironico indicava, a terra, il suo travestimento.

«Hai fatto bene, Iddibal! Va bene!». Poi, quasitrapassandolo con lo sguardo penetrante: «Nessunoancora ha qualche sospetto?...».

Il vecchio gli giurò sui Cabiri che il mistero eracustodito. Non lasciavano mai la capanna a tre giorni daAdrumeto, costa popolata di tartarughe, con palmizi sulledune. «E secondo i tuoi ordini, padrone, gli insegno alanciare il giavellotto e a guidare il cocchio!».

«È forte, vero?»«Sì, padrone, e anche intrepido! Non ha paura né dei

serpenti, né del tuono, né dei fantasmi. Corre a piedinudi, come un pastore, sul ciglio dei precipizi».

«Parla! Parla!».«Inventa trappole per le bestie selvatiche. La luna

scorsa (lo crederesti?) ha sorpreso un’aquila; latrascinava, e il sangue dell’uccello e il sangue del ragazzoschizzavano in aria a grandi gocce, come petali di rosestrappati dal vento. La bestia, furiosa, lo avviluppava neicolpi d’ala; e lui se la stringeva contro il petto, e più labestia agonizzava, più le sue risate erano forti, sonore eorgogliose come un cozzare di spade».

Amilcare abbassò la testa, abbagliato da questi presagidi grandezza.

«Ma da qualche tempo un’inquietudine lo agita.Guarda le vele che passano lontane sul mare; è triste,rifiuta il cibo, fa domande sugli dèi e vuole conoscereCartagine».

«No, no! Non ancora!», esclamò il suffeta.Il vecchio schiavo sembrò consapevole del pericolo che

spaventava Amilcare, e continuò:«E come trattenerlo? Devo già fargli delle promesse, e

sono venuto a Cartagine solo per comprargli un pugnaledall’impugnatura d’argento tempestata di perle».

Poi raccontò come, avendo scorto il suffeta sullaterrazza, si fosse spacciato ai guardiani del porto per unadelle schiave di Salammbô, per poter giungere fino a lui.

Amilcare restò a lungo pensieroso sulle decisioni daprendere; alla fine disse:

«Domani ti troverai a Megara, al tramonto, dietro lefabbriche di porpora, e per tre volte imiterai il grido dello

sciacallo. Qualora tu non mi veda, tornerai a Cartagine ilprimo giorno di ogni luna. Non dimenticare nulla! Amalo!Ora puoi parlargli di Amilcare».

Lo schiavo indossò di nuovo il suo travestimento, euscirono insieme dalla casa e dal porto.

Amilcare proseguì da solo, a piedi, senza scorta,perché le riunioni degli Anziani, in circostanzeeccezionali, erano sempre segrete, e vi si andava in modomisterioso.

All’inizio seguì la facciata orientale dell’Acropoli, poiattraversò il mercato delle erbe, la galleria di Kinsido, ilquartiere dei profumieri. Le rare luci si spegnevano, le viepiù larghe diventavano silenziose, poi alcune ombrescivolarono nelle tenebre. Lo stavano seguendo, nesopraggiunsero altre, e tutte si dirigevano come lui dallaparte dei Mappali.

Il tempio di Moloch era costruito ai piedi di una ripidagola, in un luogo sinistro. Dal basso si scorgevanosoltanto alte muraglie che salivano all’infinito come paretidi una tomba mostruosa. La notte era cupa, una nebbiagrigiastra sembrava gravare sul mare che batteva controla scogliera con un rumore di rantoli e singhiozzi; e leombre a poco a poco svanivano come se fossero passateattraverso i muri.

Ma appena varcata la soglia, ci si trovava in un’ampiacorte quadrangolare, delimitata da arcate. Nel mezzosorgeva una mole architettonica a otto lati eguali,sormontata da cupole che si raccoglievano intorno a un

secondo piano che sosteneva una specie di rotonda, dallaquale si slanciava in alto un cono a curva rientrante, chein cima terminava in un globo.

Alcuni fuochi ardevano dentro cilindri in filigrana,fissati a pertiche sorrette da uomini. Queste lucivacillavano sotto le raffiche del vento e arrossavano ipettini d’oro che trattenevano sulla nuca i loro capelliintrecciati. Essi correvano, si chiamavano per accoglieregli Anziani.

Qua e là sul pavimento erano accovacciati come sfingidei leoni enormi, simboli viventi del Sole divoratore.Sonnecchiavano con le palpebre socchiuse. Ma, svegliatidai passi e dalle voci, si alzavano lentamente, siavvicinavano agli Anziani che riconoscevano dalle vesti, sifregavano contro le loro gambe inarcando il dorso consbadigli sonori; il vapore del loro fiato fluttuava sullefiamme delle torce. L’agitazione aumentò, alcune porte sichiusero, tutti i sacerdoti fuggirono, e gli Anzianiscomparvero sotto le colonne che delimitavano unvestibolo profondo intorno al tempio.

Le colonne erano disposte in modo da riprodurre, coni loro cerchi concentrici, il cielo saturnio che contiene glianni, e gli anni i mesi, e i mesi i giorni, e alla fineterminavano, incontrandosi, contro la parete delsantuario.

Era lì che gli Anziani deponevano i loro bastoni dicorno di narvalo, perché una legge sempre rispettatapuniva con la morte chi partecipasse alla riunione con

un’arma qualsiasi. Molti avevano sull’orlo inferiore dellatunica uno strappo fermato con un nastro di porpora, perfar vedere che piangendo la morte dei loro congiunti nonsi erano curati delle proprie vesti, e questa testimonianzadi cordoglio impediva allo spacco di allargarsi. A ltritenevano la barba racchiusa in un sacchetto di pelle viola,legato agli orecchi con due cordoni. Tutti si avvicinaronogli uni agli altri abbracciandosi, petto contro petto.Circondavano Amilcare, si felicitavano con lui;sembravano fratelli che rivedessero un fratello.

Questi uomini erano generalmente tarchiati, con nasiricurvi come quelli dei colossi assiri. A lcuni tuttavia, pergli zigomi più sporgenti, la statura più alta e i piedi piùstretti, rivelavano un’origine africana, antenati nomadi.Coloro che passavano la vita nel chiuso delle lorobotteghe erano pallidi in volto; altri conservavanonell’aspetto la durezza del deserto, e strani gioielliscintillavano su ogni dito delle loro mani, abbronzate dasoli sconosciuti. Si riconoscevano i navigatoridall’andatura ondeggiante, mentre gli uomini deditiall’agricoltura sapevano di frantoio, erbe secche e sudoredi mulo. Questi vecchi pirati facevano lavorare i campi,questi accumulatori di denaro armavano navi, questiproprietari di piantagioni nutrivano schiavi cheesercitavano dei mestieri. Tutti erano sapienti nellediscipline religiose, esperti in stratagemmi, spietati ericchi. Sembravano logorati dalle preoccupazioni. I loroocchi infuocati scrutavano con diffidenza, e l’abitudine aiviaggi e alle menzogne, ai traffici e al comando, dava a

tutta la loro persona un aspetto di astuzia e di violenza,una sorta di brutalità discreta e convulsa. Del resto, liincupiva l’influsso del dio.

Prima attraversarono una sala a volta che aveva laforma di un uovo. Sette porte, corrispondenti ai settepianeti, aprivano sulla parete sette riquadri di colorediverso. Dopo un lungo corridoio, entrarono in un’altrastanza uguale.

Sul fondo ardeva un candelabro coperto di fioricesellati, e ognuno dei suoi otto bracci d’oro sosteneva,in un calice di diamante, un lucignolo di bisso; erasistemato sull’ultimo dei lunghi gradini che salivano a ungrande altare, che agli angoli terminava con corna dibronzo. Due scale laterali conducevano alla sua piattasommità; non si scorgevano le lastre di pietra; era comeuna montagna di ceneri accumulate, e, sopra, qualcosa diindistinto fumava lentamente. Più in là, più in alto delcandelabro, e molto più in alto dell’altare, si innalzava ilMoloch, tutto di ferro, con il suo petto d’uomo in cui siaprivano delle fenditure. Le sue ali aperte si stendevanosulla parete, le mani abbandonate scendevano fino aterra; tre pietre nere, chiuse in un cerchio giallo,formavano tre pupille sulla fronte, e, come per muggire,sollevava con uno sforzo terribile la sua testa di toro.

Intorno alla sala erano disposti sgabelli d’ebano, dietroognuno dei quali uno stelo di bronzo appoggiato su treartigli sosteneva una fiaccola. Tutte queste luci siriflettevano nelle losanghe di madreperla di cui era

composto il pavimento della sala, e questa era così altache il colore rosso delle pareti, salendo verso la volta,diventava nero, e i tre occhi dell’idolo sembravano, inalto, stelle perdute nella notte.

Gli Anziani sedettero sugli sgabelli d’ebano, dopoessersi coperta la testa con un lembo della tunica.Restavano immobili, con le mani incrociate dentro leampie maniche, e il pavimento di madreperla sembravaun fiume luminoso che, scorrendo dall’altare verso laporta, passasse sotto i loro piedi nudi.

I quattro pontefici stavano nel mezzo, schiena controschiena, su quattro scranni d’avorio disposti a croce, ilgran sacerdote di Eshmun in una veste di giacinto, il gransacerdote di Tanit in una veste di lino bianco, il gransacerdote di Khamon in una veste di lana fulva, e il gransacerdote di Moloch in una veste di porpora.

Amilcare avanzò verso il candelabro. Gli girò intorno,esaminando i lucignoli che bruciavano, sui quali gettòuna polvere profumata; sulle estremità dei bracciapparvero fiamme violette.

Allora si alzò una voce acuta, un’altra le rispose; icento Anziani, i quattro pontefici, e Amilcare in piedi,tutti insieme intonarono un inno, e ripetendo sempre lestesse sillabe e crescendo di tono, le loro voci salivano,esplosero, divennero terribili, poi, di colpo, tacquero.

Ci fu un’attesa. Infine Amilcare estrasse dalla veste, sulpetto, una piccola statuetta a tre teste, blu come lozaffiro, e la pose davanti a sé. Era l’immagine della

Verità, il genio stesso della sua parola. Poi la ripose inseno, e tutti, come còlti da una collera improvvisa,gridarono:

«Ecco i tuoi amici Barbari! Traditore! Infame! Torni pervederci morire, vero? Lasciatelo perdere! No! No!».

Si vendicavano del contegno cui erano stati costrettidal cerimoniale politico; e sebbene avessero desiderato ilritorno di Amilcare, ora si indignavano perché non avevasaputo prevenire i loro disastri o piuttosto non li avevasubìti come loro.

Quando il tumulto si fu calmato, il pontefice di Molochsi alzò.

«Noi ti chiediamo perché non sei tornato a Cartagine!»«E che v’importa!», rispose sdegnosamente il suffeta.Le loro grida aumentarono.«Di che mi accusate? Ho forse condotto male la

guerra? Li avete visti i piani delle mie battaglie, voi chelasciate comodamente a dei Barbari...».

«Basta! Basta!».Riprese a voce bassa, perché fossero costretti ad

ascoltarlo:«Oh! È vero! Mi sbaglio, luce dei Baal: ci sono tra voi

dei coraggiosi! Giscone, alzati! Tu puoi accusarmi,costoro mi difenderanno! Ma dov’è?». Poi, comericredendosi: «Ah! Certamente a casa sua, circondato daifigli, a comandare gli schiavi, felice, a contare sul muro icollari d’onore che la patria gli ha concesso!».

Gli Anziani si agitavano scuotendo le spalle, come

sotto i colpi di uno staffile.«Non sapete neppure se è vivo o morto!».E senza curarsi del clamore diceva che, abbandonando

il suffeta, era la Repubblica che avevano abbandonato.Quanto alla pace romana, per quanto fosse sembrata lorovantaggiosa, era più funesta di venti battaglie. A lcuniapplaudirono, i meno ricchi del Consiglio, sospettati diessere sempre a favore del popolo o della tirannide. Iloro avversari, capi dei Sissizi e amministratori, libattevano per numero; i più ragguardevoli eranoschierati accanto ad Annone, che stava seduto all’altrocapo della sala, davanti all’alta porta chiusa da una tendadi giacinto.

Annone si era coperto con del belletto le ulcere delvolto. Ma la polvere d’oro dei capelli gli era caduta sullespalle, dove formava due chiazze brillanti, e ora i capellisembravano biancastri, fini e crespi, come lana. Fasceimbevute di un profumo grasso che gocciolava sulpavimento gli avvolgevano le mani, e la sua malattiadoveva essersi aggravata notevolmente perché gli occhiscomparivano sotto le pieghe delle palpebre. Per vedere,doveva rovesciare indietro la testa. I suoi sostenitori loincitavano a parlare. Finalmente, con una voce rauca eorribile:

«Meno arroganza, Barca! Tutti siamo stati vinti!Ognuno sopporti la propria sventura! Rasségnati!».

«Piuttosto, raccontaci», disse Amilcare sorridendo,«come hai fatto a condurre le tue galee in mezzo alla

flotta romana!».«Ero spinto dal vento», rispose Annone.«Tu fai come il rinoceronte che calpesta i propri

escrementi: emani la tua stupidità! Taci!».E cominciarono ad accusarsi a vicenda per la battaglia

delle isole Egadi.Annone accusava Amilcare di non essergli andato

incontro.«Ma significava sguarnire Erice. Bisognava prendere il

largo; chi te lo impediva? Ah, dimenticavo! Tutti glielefanti hanno paura del mare!».

I sostenitori di Amilcare trovarono la battuta cosìbuona che esplosero in grandi risate. La volta rintronavacome se fossero stati percossi dei timpani.

Annone denunciò l’indegnità di un simile oltraggio; lamalattia gli era venuta perché aveva preso freddoall’assedio di Ecatompilo, e sul suo viso scorrevanolacrime come una pioggia d’inverno su un muro inrovina.

Amilcare continuò:«Se mi aveste amato quanto avete amato costui, oggi

ci sarebbe grande gioia a Cartagine! Quante volte vi hoimplorato! E sempre mi negavate il denaro!».

«Ne avevamo bisogno», dissero i capi dei Sissizi.«E quando la nostra situazione era disperata –

abbiamo bevuto l’urina dei muli e mangiato le cinghie deisandali –, quando avrei voluto che i fili d’erba fosserosoldati, e trasformare in battaglioni la putredine dei nostri

morti, voi richiamavate le navi che mi restavano!».«Non potevamo rischiare tutto», rispose Baat-Baal,

proprietario di miniere d’oro nella Getulia Darizia.«E intanto che facevate qui a Cartagine, nelle vostre

case, dietro le vostre mura? Ci sono Galli sull’Eridano chebisognava far muovere, Cananei a Cirene che sarebberovenuti, e mentre i Romani inviavano ambasciatori aTolomeo...».

«Ora ci fa l’elogio dei Romani!».Qualcuno gli gridò:«Quanto ti hanno pagato per difenderli?»«Chiedilo alle pianure del Bruzio, alle rovine di Locri,

di Metaponto e di Eraclea!2 Ho bruciato ogni albero, hosaccheggiato ogni tempio, e fino alla morte dei nipoti deiloro nipoti...».

«Eh, declami come un retore!», disse Kapura, unnotissimo mercante. «Insomma, cosa vuoi?»

«Dico che bisogna essere più astuti o più feroci! Sel’Africa intera rifiuta il vostro giogo, è perché, da padronideboli, non sapete metterglielo sulla schiena! Agatocle,Regolo, Cepione,3 tutti gli uomini coraggiosi devono solosbarcare per impadronirsene; e quando i Libici che sonoa Oriente si accorderanno coi Numidi che sono aOccidente, e i Nomadi arriveranno da sud e i Romani danord...». Si alzò un grido di orrore.

«Oh, vi battete il petto, vi rotolate nella polvere, vistrappate i mantelli! Non serve a niente! Bisognerà andarea girare la mola in Suburra e vendemmiare sulle colline

del Lazio».Si battevano la coscia destra per rimarcare la loro

indignazione, e le maniche delle tuniche si alzavano comegrandi ali di uccelli impauriti. Amilcare, come trascinatoda un demone, continuava a parlare, in piedi sul gradinopiù alto dell’altare, fremente, terribile; alzava le braccia, ei raggi del candelabro che ardeva dietro di lui glipassavano tra le dita come giavellotti d’oro.

«Perderete le vostre navi, i vostri campi, i vostri carri, ivostri letti sospesi, e i vostri schiavi che vi massaggiano ipiedi! Gli sciacalli si stabiliranno nei vostri palazzi, l’aratrorivolterà le vostre tombe. Non ci sarà più nient’altro che ilgrido delle aquile e l’ammucchiarsi delle rovine. Tuperirai, Cartagine!».

I quattro pontefici stesero le mani per respingerel’anatema. Tutti si erano alzati in piedi. Ma il suffeta delmare, magistrato sacerdotale sotto la protezione del Sole,era inviolabile fino a quando l’assemblea dei Ricchi nonl’avesse giudicato. L’altare emanava terrore.Indietreggiarono.

Amilcare non parlava più. Con l’occhio fisso e il voltopallido quanto le perle della sua tiara, ansimava, quasiatterrito da se stesso, con la mente perduta in visionifuneree. Dall’altezza in cui si trovava, tutte le fiaccole suiloro steli di bronzo gli sembravano una grande corona difuochi appoggiati sul pavimento; sprigionavano fumi neriche si perdevano nelle tenebre della volta; per qualcheminuto il silenzio fu così profondo che in lontananza si

udiva il rumore del mare.Poi gli Anziani cominciarono a interrogarsi. I loro

interessi e la loro esistenza erano minacciati dai Barbari.Ma non si poteva vincerli senza l’aiuto del suffeta, equesta considerazione, nonostante il loro orgoglio, feceloro dimenticare tutte le altre. Presero in disparte i suoiamici. Ci furono riconciliazioni interessate, sottintesi epromesse. Amilcare non voleva più immischiarsi innessun governo. Tutti lo scongiurarono. Lo supplicavano;e poiché il termine tradimento ricorreva nei loro discorsi,si infuriò. L’unico traditore era il Gran Consiglio perchél’ingaggio dei soldati terminava con la guerra, e a guerrafinita tornavano liberi; addirittura giunse a esaltare la lorobravura e tutti i vantaggi che ne sarebbero venuti se iloro interessi fossero stati legati a quelli della Repubblicacon donazioni e privilegi.

A llora Magdassan, ex governatore di province, dissestralunando gli occhi gialli:

«Veramente, Barca, a forza di viaggiare, sei diventatoun Greco o un Latino, o non so che! Parli di ricompenseper quegli uomini! Muoiano diecimila Barbari piuttostoche uno solo di noi!».

Gli Anziani approvavano con la testa mormorando:«Sì, perché preoccuparsene tanto? Se ne trovano

sempre!».«E ci libera facilmente di loro, vero? Si abbandonano,

come avete fatto in Sardegna. Si dice al nemico qualestrada prenderanno, come nel caso di quei Galli in Sicilia,

oppure si sbarcano in mezzo al mare. Tornando, ho vistolo scoglio tutto bianco delle loro ossa!».

«Che disgrazia!», disse impudentemente Kapura.«Ma non sono passati cento volte al nemico?»,

esclamarono gli altri.Amilcare gridò:«Perché allora, malgrado le vostre leggi, li avete

richiamati a Cartagine? E quando si trovano nelle vostrecittà, poveri e numerosi in mezzo a tutte le vostrericchezze, non vi viene neppure in mente di indebolirlicreando divisioni al loro interno! Poi li congedate con leloro donne e i loro figli, tutti, senza trattenere un soloostaggio! Credevate che si sarebbero assassinati tra diloro per risparmiarvi il dispiacere di mantenere le vostrepromesse? Voi li odiate perché sono forti! E odiate meancora di più, perché sono il loro capo! Oh, l’ho sentitopoco fa quando mi baciavate le mani, trattenendovi dalmorderle!».

Se i leoni che dormivano nel cortile fossero entratiruggendo, il clamore non sarebbe stato più spaventoso.Ma il pontefice di Eshmun si alzò e, con le ginocchiastrette, i gomiti sui fianchi, eretto, le mani semiaperte,disse:

«Barca, Cartagine ha bisogno che tu assuma ilcomando generale delle forze puniche, contro iMercenari!».

«Rifiuto», rispose Amilcare.«Ti daremo pieni poteri!», gridarono i capi dei Sissizi.

«No!».«Senza controllo, senza spartizione, tutto il denaro che

vorrai, tutti i prigionieri, l’intero bottino, cinquanta zeret4

di terra per ogni cadavere di nemico».«No! No! perché è impossibile vincere con voi!».«Ha paura di loro!».«Perché voi siete vili, avari, ingrati, pusillanimi e

pazzi!».«Se li tiene buoni!».«Per mettersi alla loro testa», disse qualcuno.«E attaccarci», disse un altro. E dal fondo della sala

Annone urlò:«Vuol farsi re!».Allora saltarono in piedi, rovesciando gli sgabelli e le

torce: corsero in folla verso l’altare; brandivano pugnali.Ma, frugandosi nelle maniche, Amilcare ne estrasse duegrandi coltellacci; e, curvo, il piede sinistro in avanti, gliocchi fiammeggianti, i denti stretti, li sfidava, immobilecome il candelabro d’oro.

Insomma, per precauzione, erano venuti armati; equesto era un crimine; si guardarono l’un l’altrospaventati. Ma poiché tutti erano colpevoli, ben prestoognuno si rassicurò; e a poco a poco, voltando la schienaal suffeta, ridiscesero, rabbiosi per l’umiliazione. Per laseconda volta indietreggiavano davanti a lui. Rimasero inpiedi per un po’. Molti, che si erano feriti le dita, se leportavano alla bocca o le avvolgevano piano piano in unlembo del mantello; e stavano per andarsene quando

Amilcare udì queste parole:«Eh! È un riguardo per non dispiacere alla figlia!».Si alzò una voce più forte:«Certamente, dal momento che quella si sceglie gli

amanti tra i Mercenari!».Amilcare vacillò, poi i suoi occhi cercarono

rapidamente Shahabarim. Ma il sacerdote di Tanit eral’unico che fosse rimasto al suo posto; e Amilcare, dalontano, vide soltanto l’alto copricapo. Tutti glisghignazzavano in faccia. Più cresceva la sua angoscia,più cresceva la loro gioia, e, in mezzo alle grida, quelliche erano dietro di lui gridavano:

«L’hanno visto uscire dalla sua camera!».«Una mattina del mese di Tammuz!».5

«È il ladro dello zaimf!».«Un uomo bellissimo!».«Più alto di te!».Si tolse la tiara, insegna della sua dignità – la sua tiara

a otto ordini mistici che aveva al centro una conchiglia dismeraldo – e con le due mani, con tutta la sua forza, lascagliò a terra; i cerchi d’oro, spezzandosi, rimbalzarono,e le perle risuonarono sul pavimento. Videro allora sullasua fronte pallida una lunga cicatrice che si agitava comeun serpente tra le sopracciglia; tutte le sue membratremavano. Salì una delle scale laterali che portavanosull’altare; vi camminava sopra! Significava votarsi al dio,offrirsi in olocausto. Il movimento del suo mantelloagitava le fiamme del candelabro, più in basso dei suoi

sandali, e il pulviscolo sollevato dai suoi passi loavvolgeva fino al ventre come una nuvola. Si fermò tra legambe del colosso di bronzo. Prese due manciate diquella polvere la cui sola vista faceva fremere di orroretutti i Cartaginesi, e disse:

«Per le cento fiaccole delle vostre intelligenze! Per gliotto fuochi dei Cabiri! Per le stelle, le meteore e i vulcani!Per tutto ciò che brucia! Per la sete del deserto e lasalsedine dell’oceano! Per la caverna di Adrumeto el’impero delle anime! Per lo sterminio! Per la cenere deivostri figli, e la cenere dei fratelli dei vostri avi, con laquale ora confondo la mia! Voi, i Cento del Consiglio diCartagine, voi avete mentito accusando mia figlia! E io,Amilcare Barca, suffeta del mare, capo dei Ricchi edominatore del popolo, davanti a Moloch dalla testa ditoro, giuro...».

Ci si aspettava qualcosa di terribile, ma continuò convoce più forte e più calma: «... che non gliene parleròneppure!».

I servi sacri, che portavano pettini d’oro, entrarono: gliuni con spugne di porpora e gli altri con rami di palma.Sollevarono la tenda di giacinto stesa davanti alla porta; eattraverso l’angolo dell’apertura si scorse, in fondo allealtre sale, il grande cielo rosa che sembrava continuare lavolta, appoggiandosi all’orizzonte sul mare blu. Il solesorgeva, uscendo dai flutti. Improvvisamente colpì ilpetto del colosso di bronzo, diviso in sette scompartichiusi da griglie. Le sue fauci dai denti rossi si aprivano in

uno sbadiglio orribile; le enormi narici si dilatavano, laluce del giorno sembrava animarlo, gli dava un aspettoterribile e impaziente, come se avesse voluto saltare fuoriper unirsi all’astro, il dio, e percorrere insieme leimmensità.

Intanto le torce sparse sul pavimento continuavano abruciare gettando qua e là, sulle lastre di madreperla,riflessi che sembravano chiazze di sangue. Gli Anzianibarcollavano esausti; aspiravano a pieni polmoni l’ariafresca; il sudore colava sui loro volti lividi; avendogridato tanto, non si udivano più tra di loro. Ma la lorocollera contro il suffeta non si era affatto placata; comeper salutarlo, gli lanciavano minacce, e Amilcarerispondeva:

«Alla prossima notte, Barca, nel tempio di Eshmun!».«Ci sarò!».«Ti faremo condannare dai Ricchi!».«E io dal popolo!».«Attento a non finire sulla croce!».«E voi, a non finire fatti a pezzi nelle strade!».Appena furono sulla soglia del cortile, ripresero un

atteggiamento tranquillo.Le scorte e i cocchieri li attendevano alla porta. La

maggior parte se ne andò a dorso di mule bianche. Ilsuffeta saltò sul suo carro, afferrò le redini; le due bestie,curvando il collo e colpendo ritmicamente i ciottoli cherimbalzavano, salirono di gran galoppo l’intera via deiMappali, e l’avvoltoio d’argento collocato sulla punta del

timone sembrava che volasse, tale era la velocità delcarro.

La strada attraversava un campo disseminato di lunghepietre, aguzze in cima, come piramidi, che avevanoscolpita nel mezzo una mano aperta, come se il mortoche vi giaceva sotto l’avesse alzata verso il cielo perchiedere qualcosa. Inoltre, vi erano sparse delle capannedi terra, di frasche, di giunchi, tutte di forma conica.Muretti di ciottoli, ruscelli d’acqua, cordami di sparto,siepi di nopale separavano irregolarmente questeabitazioni che diventavano sempre più fitte a mano amano che si saliva verso i giardini del suffeta. MaAmilcare fissava lo sguardo su una grande torre i cui trepiani costituivano tre mostruosi cilindri, il primo di pietra,il secondo di mattoni, e il terzo interamente di cedro,quest’ultimo reggeva una cupola di rame appoggiata suventiquattro colonne di ginepro, dalle quali pendevano,come ghirlande, catenelle di bronzo intrecciate. Questoalto edificio dominava le costruzioni che si stendevano adestra, i depositi, il fondaco, mentre il palazzo delledonne sorgeva in fondo ai cipressi, allineati come duemuraglie di bronzo.

Appena il carro fu entrato, rumorosamente, per laporta stretta, si fermò sotto una grande tettoia dovealcuni cavalli, legati, mangiavano mucchi di fieno.

Tutti i servi accorsero. Erano molti, perché quelli chelavoravano nei campi erano stati ricondotti a Cartagineper paura dei soldati. I contadini, vestiti di pelli,

trascinavano catene fissate alle caviglie; gli operai dellemanifatture di porpora avevano le braccia rosse comecarnefici; i marinai, berretti verdi; i pescatori, collane dicorallo; i cacciatori, una rete in spalla; e la gente diMegara, tuniche bianche o nere, brache di cuoio, cappellidi paglia, di feltro o di tela, secondo il loro servizio o laloro attività.

Dietro si accalcava una plebaglia cenciosa. Erano quelliche vivevano senz’alcuna occupazione, lontano dalleabitazioni, di notte dormivano nei giardini, divoravano gliavanzi delle cucine, muffa umana che vegetava all’ombradel palazzo. Amilcare li tollerava, più per preveggenzache per disprezzo. Tutti, in segno di gioia, si erano messiun fiore all’orecchio, anche se molti di loro non l’avevanomai visto.

Ma alcuni uomini, acconciati come sfingi e muniti digrossi bastoni, si lanciarono nella folla colpendo a destrae a sinistra. Volevano allontanare gli schiavi curiosi divedere il padrone, perché non venisse travolto dalla calcae disturbato dal loro odore.

Allora tutti si gettarono a terra, bocconi, gridando:«Occhio di Baal, che la tua casa prosperi!». Tra quegliuomini, stesi a terra in quel modo nel viale dei cipressi,Abdalonim, l’intendente degli intendenti, con in testa unamitra bianca e un incensiere in mano, avanzò versoAmilcare.

In quel momento Salammbô scendeva la scalinatadelle galee. Dietro di lei c’erano tutte le sue schiave; a

ognuno dei suoi passi, anche loro scendevano. Le testedelle Negre segnavano con grossi punti neri la linea dellefasce a piastre d’oro che cingevano la fronte delleRomane. Altre avevano tra i capelli frecce d’argento,farfalle di smeraldi o lunghi spilloni disposti ad aureola.Su quella confusione di vesti bianche, gialle e blu,splendevano gli anelli, i fermagli, le collane, le frange, ibraccialetti; si avvertiva un fruscio di stoffe leggere; siudiva il calpestio dei sandali e il rumore sordo dei piedinudi sul legno; – e, qua e là, un grande eunuco, che lesovrastava, sorrideva col viso all’aria. Quando leacclamazioni degli uomini terminarono, tutte insieme,coprendosi il volto con le maniche, lanciarono un gridobizzarro, simile all’ululato di una lupa, ed era così furiosoe stridente che sembrava facesse vibrare, come una liradall’alto in basso, la grande scalinata d’ebano gremita didonne.

Il vento sollevava i loro veli, e gli esili steli dei papiriondeggiavano lievi. Si era nel mese di Shebat,6 in pienoinverno. I melograni in fiore si curvavano sull’azzurro delcielo, e attraverso i rami si vedeva il mare con un’isola inlontananza, sperduta nella foschia.

Amilcare, vedendo Salammbô, si fermò. Gli era natadopo la morte di numerosi figli maschi. Del resto, lanascita delle figlie era considerata una calamità nellereligioni del Sole. Gli dèi, più tardi, gli avevano inviato unfiglio; ma ancora conservava nel cuore il risentimentodella sua speranza tradita, e il ricordo della maledizione

pronunciata contro di lei. Intanto Salammbô continuava ascendere.

Perle di diversi colori le scendevano in lunghi grappolidagli orecchi sulle spalle. I capelli erano cotonati, inmodo da simulare una nuvola. Portava intorno al collopiccole piastre d’oro, quadrangolari, che raffiguravanouna donna tra due leoni rampanti; e il suo abbigliamentoriproduceva in ogni dettaglio quello della dea. La suaveste di giacinto, a maniche larghe, era stretta in vita esvasata in basso. Il vermiglio delle sue labbra facevasembrare più bianchi i denti, e l’antimonio delle palpebrele allungava gli occhi. I sandali, di piume d’uccello,avevano tacchi molto alti; e lei era straordinariamentepallida, senza dubbio a causa del freddo.

Giunse infine accanto ad Amilcare e, senza guardarlo,senza alzare la testa, gli disse:

«Salute, Occhio di Baalim, gloria eterna! Trionfo!Quiete! Soddisfazione! Ricchezza! Da molto tempo il miocuore era triste, e la casa languiva. Ma il padrone chetorna è come Tammuz resuscitato; e sotto il tuo sguardo,padre, ovunque sboccerà la gioia, un’esistenza nuova!».

E prendendo dalle mani di Taanach un vasettooblungo nel quale fumava un miscuglio di farina, burro,cardamomo e vino:

«Bevi d’un fiato», gli disse, «la bevanda del ritornopreparata dalla tua serva».

Amilcare rispose: «Benedizione su di te!», e presemeccanicamente il vaso d’oro che lei gli porgeva.

Intanto la osservava con un’attenzione così penetranteche Salammbô, turbata, balbettò:

«Ti è stato detto, signore...».«Sì! So tutto!», disse Amilcare a voce bassa.Era una confessione? O lei stava parlando dei Barbari?

E Amilcare aggiunse qualche frase vaga sulle pubblichedifficoltà che sperava di risolvere da solo.

«O padre!», esclamò Salammbô. «Non riuscirai acancellare l’irreparabile!».

Amilcare indietreggiò, e Salammbô era sorpresa delsuo stupore; perché non pensava affatto a Cartagine, maal sacrilegio di cui era rimasta complice. Quell’uomo, chefaceva tremare le legioni e che lei conosceva appena,l’atterriva come un dio; aveva indovinato, sapeva tutto,stava per accadere qualcosa di terribile. Gridò: «Grazia!».

Amilcare abbassò la testa, lentamente.Pur volendo accusarsi, Salammbô non osava aprire le

labbra; e tuttavia soffocava per il bisogno di lamentarsi edi essere consolata. Amilcare lottava con la voglia dirompere il suo giuramento. Lo rispettava per orgoglio, oper paura di porre fine alla sua incertezza; e la guardavanegli occhi, intensamente, per cogliere ciò che leinascondeva in fondo al cuore.

A poco a poco, ansimante, Salammbô affondava latesta fra le spalle, schiacciata dal peso di quello sguardo.Ora Amilcare era sicuro che fosse caduta tra le braccia diun Barbaro; fremeva, alzò i due pugni. Salammbô gettòun grido e cadde tra le braccia delle sue schiave, che le si

strinsero intorno.Amilcare si girò e si allontanò. Tutti gli intendenti lo

seguirono.Gli aprirono la porta dei magazzini, ed egli entrò in

una vasta sala circolare dove confluivano, come i raggi diuna ruota sul mozzo, lunghi corridoi che conducevano inaltre sale. Al centro si alzava un disco di pietra, con unabalaustra per sostenere cuscini accatastati su dei tappeti.

A ll’inizio il suffeta andò avanti e indietro, a grandipassi rapidi; respirava rumorosamente, pestava i piediper terra, si passava una mano sulla fronte come se fosseinfastidito dalle mosche. Poi scosse la testa, e vedendo lesue ricchezze accumulate si calmò; il suo pensiero,attratto dalle fughe dei corridoi, andava alle altre salepiene di tesori più rari. Lastre di bronzo, lingottid’argento e barre di ferro si alternavano ai pani di stagnoportate dalle Cassiteridi7 attraverso il Mare Tenebroso; legomme dei paesi dei Neri traboccavano dai sacchi difoglie di palma; e la polvere d’oro, ammucchiata negliotri, usciva impercettibilmente attraverso le cucituretroppo vecchie. Sottili filamenti, derivati dalle piantemarine, pendevano tra i lini d’Egitto, di Grecia, diTaprobane e di Giudea; madrepore simili a fitti cespuglisi ergevano al piede delle pareti; e nell’aria fluttuava unodore indefinibile che era l’esalazione dei profumi, deicuoi, delle spezie e delle piume di struzzo legate in grossimazzi appesi alla volta. All’ingresso di ogni corridoio, duezanne di elefante, in piedi, formavano un arco sopra la

porta congiungendosi per le punte.Alla fine Amilcare salì sul disco di pietra. Tutti gli

intendenti stavano con le braccia incrociate, a testa bassa,mentre Abdalonim alzava orgogliosamente la sua mitraaguzza.

Amilcare interrogò il Capo-delle-navi. Era un vecchiopilota con le palpebre logorate dal vento, e bianchibioccoli di pelo gli scendevano fino alle anche, come se laspuma delle tempeste gli fosse rimasta sulla barba.

Rispose che aveva mandato una flotta via Gades eTimiamata, per tentare di raggiungere Eziongaberdoppiando il Corno del Sud e il promontorio degliAromi.8

Altri avevano proseguito verso ovest, durante quattrolune, senza incontrare terra; ma la prua delle navis’impigliava nelle alghe, l’orizzonte rimbombavacontinuamente per il rumore delle cateratte, nebbie colorsangue oscuravano il sole, una brezza carica di profumiaddormentava gli equipaggi, che ora non potevano direnulla perché la loro memoria ne era rimasta sconvolta.Tuttavia avevano risalito i fiumi degli Sciti, eranopenetrati nella Colchide, nel paese degli Ingrii e degliEstii, avevano rapito millecinquecento vergininell’Arcipelago, e avevano affondato tutti i vascellistranieri che navigavano al di là del capo Estrimone,affinché il segreto delle rotte non fosse svelato. Il reTolomeo tratteneva l’incenso di Shesbar; Siracusa,Elathia, la Corsica e le isole non avevano dato nulla, e a

questo punto il vecchio pilota abbassò la voce per direche una trireme era stata catturata a Rusicada daiNumidi, «Perché stanno con loro, padrone».

Amilcare aggrottò le sopracciglia; poi, con un cenno,dette la parola al Capo-dei-viaggi; era avvolto in unaveste bruna senza cintura, la testa coperta con una lungasciarpa di stoffa bianca che, passandogli davanti allabocca, ricadeva dietro una spalla.

Le carovane erano partite regolarmente all’equinoziod’inverno. Ma, dei millecinquecento uomini direttiall’estrema Etiopia con ottimi cammelli, otri nuovi escorte di tela colorata, uno solo era ricomparso aCartagine, gli altri erano morti di stenti oppure impazzitiper il terrore del deserto; costui diceva di aver visto,molto al di là dell’Harush Nero, oltre gli Ataranti e ilpaese delle grandi scimmie,9 reami immensi dove gliutensili più ordinari sono tutti d’oro, e un fiume color dellatte, largo come un mare; e foreste di alberi blu, collinedi aromi, mostri dal volto umano a vegetare sulle rocce ele cui pupille, per guardarvi, si schiudono come fiori; poi,al di là di certi laghi pieni di draghi, montagne di cristalloche sorreggono il sole. Altri erano ritornati dall’India conpavoni, pepe e tessuti nuovi. Quanto a coloro chedovevano acquistare le calcedonie sulla strada delle Sirti edel tempio di Ammone, senza dubbio erano morti tra lesabbie. Le carovane della Getulia e di Fazzania10 avevanofornito i soliti prodotti; ma per il momento lui, il Capo-dei-viaggi, non osava prepararne altre.

Amilcare capì; i Mercenari occupavano la campagna.Con un sordo gemito, si appoggiò sull’altro gomito; e ilCapo-delle-fattorie aveva così paura di parlare chetremava orribilmente, malgrado le spalle possenti e legrandi pupille rosse. La sua faccia, camusa come quelladi un mastino, era sormontata da una reticella di fibrevegetali; portava un cinturone di pelle di leopardo contutti i suoi peli, su cui luccicavano due terribili coltellacci.

Appena Amilcare si girò verso di lui, si mise a gridareinvocando tutti i Baal. Non era colpa sua! Non potevafarci nulla! Era stato attento alle temperature, ai terreni,alle stelle, aveva fatto piantare al solstizio d’inverno,aveva fatto potare con la luna calante, aveva sorvegliatogli schiavi, risparmiato sui loro vestiti.

Ma Amilcare era irritato da tanta loquacità. Feceschioccare la lingua e l’uomo dai coltellacci si affrettò adire:

«Ah, padrone! Hanno saccheggiato tutto! Devastatotutto! Distrutto tutto! Tremila piedi di alberi tagliati aMashala, e a Ubada i granai sfondati, le cisterne riempitedi terra! A Tedes hanno portato via millecinquecentogommor di farina; a Marazzana hanno ucciso i pastori,mangiato le greggi, bruciato la tua casa, la tua bella casadalle travi di cedro, dove venivi l’estate! Gli schiavi diTuburbo, che segavano l’orzo, sono fuggiti sullemontagne; e gli asini, i bardotti, i muli, i buoi diTaormina, i cavalli oringi11... non ne resta uno solo! Tuttirubati! È una maledizione! Non sopravviverò!».

Continuava piangendo: «Ah, se tu sapessi com’eranopiene le cantine e rilucenti gli aratri! Ah, che belle greggi!Ah, che bei tori!...».

Amilcare era soffocato dalla collera, che esplose:«Taci! Sono dunque povero? Niente bugie! Dite la

verità! Voglio sapere tutto quello che ho perduto, finoall’ultimo siclo, fino all’ultimo cab!12 Abdalonim, portamii conti delle navi, quelli delle carovane; quelli dellefattorie, quelli del palazzo! E se la vostra coscienza non ètranquilla, sventura su di voi! Uscite!».

Tutti gli intendenti, camminando all’indietro, con ipugni che sfioravano il suolo, uscirono.

Abdalonim andò a prendere, da uno scaffale incassatonella parete, corde annodate, strisce di tela o di papiro,scapole di pecora coperte da una scrittura sottile. Deposeogni cosa ai piedi di Amilcare, gli mise tra le mani unacornice di legno con tre fili all’interno sui quali eranoinfilate delle sfere d’oro, d’argento e di corno, ecominciò:

«Centonovantadue case nei Mappali, affittate ai nuoviCartaginesi in ragione di una beka13 per luna».

«No, è troppo! Non approfittare dei poveri! E scrivi inomi di coloro che ti sembreranno i più coraggiosi,cercando di sapere se sono legati alla Repubblica! Poi?».

Abdalonim esitava, sorpreso da tanta generosità.Amilcare gli strappò di mano le strisce di tela.«Che è questo? Tre palazzi nei pressi di Khamon a

dodici kesitah al mese! Portali a venti! Non voglio che i

Ricchi mi divorino».L’Intendente degli intendenti, dopo un lungo inchino,

proseguì:«Prestati a Tigilla, fino alla fine della stagione, due

kikar al tre per cento, interesse marittimo; a Bar-Melkarth, millecinquecento sicli su pegno di trentaschiavi. Ma dodici sono morti nelle saline».

«Evidentemente non erano robusti», disse ridendo ilsuffeta. «Che importa! Se ha bisogno di denaro, daglielo.Bisogna sempre prestare, e a interessi diversi, secondo laricchezza delle persone».

Allora il servitore si affrettò a leggere tutto quello cheavevano reso le miniere di ferro di Annaba,14 lepeschiere di corallo, le fabbriche di porpora, lariscossione delle imposte sui Greci residenti,l’esportazione dell’argento in Arabia dove valeva diecivolte l’oro, il bottino delle navi, detratta la decima parteper il tempio della dea. «Ho sempre dichiarato un quartodi meno, padrone!». Amilcare faceva i conti con le biglieche tintinnavano sotto le sue dita.

«Basta! Che hai pagato?»«A Stratonicle di Corinto e a tre mercanti di

A lessandria, su queste lettere (sono state onorate),diecimila dracme ateniesi e dodici talenti d’oro siriani. Ilmantenimento degli equipaggi ammontando a venti mineil mese per ogni trireme...».

«Lo so! quante ne sono andate perdute?»«Ecco il conto su queste lamine di piombo», disse

l’Intendente. «Quanto alle navi noleggiate in comune,siccome è stato spesso necessario gettare a mare ilcarico, le perdite disuguali sono state ripartite secondo ilnumero degli associati. Per i cordami presi a prestitodagli arsenali, e che è stato impossibile restituire, i Sissizihanno preteso ottocento kesitah, prima della spedizionedi Utica».

«Ancora loro!», disse Amilcare abbassando la testa. Erimase per qualche momento come schiacciato sotto ilpeso di tutto l’odio che sentiva su di sé:

«Ma non vedo le spese di Megara!».Abdalonim, impallidendo, andò a prendere da un altro

scaffale delle tavolette di sicomoro legate a mazzi concorde di cuoio.

Amilcare lo ascoltava, curioso dei dettagli domestici,calmandosi al suono monotono di quella voce cheelencava cifre; Abdalonim leggeva sempre piùlentamente. D’un tratto lasciò cadere a terra le tavolettedi legno e si gettò a terra lui stesso, bocconi, con lebraccia distese, nella posizione dei condannati. Amilcare,senza turbarsi, raccolse le tavolette; e le sue labbra sischiusero e gli occhi si spalancarono quando vide, tra lespese di un solo giorno, un esorbitante consumo di carni,pesci, uccelli, vini e aromi, e vasi rotti, schiavi morti,tappeti rovinati.

Abdalonim, sempre prosternato, gli raccontò delbanchetto dei Barbari. Non aveva potuto sottrarsi alledisposizioni degli Anziani, e anche Salammbô, del resto,

aveva voluto che si prodigasse il denaro per meglioaccogliere i soldati.

Udendo il nome della figlia, Amilcare si alzò di scatto.Poi, stringendo le labbra, si accovacciò sui cuscini; nestrappava le frange con le unghie, ansimante, lo sguardofisso.

«Alzati!», disse; e scese.Abdalonim lo seguiva, con le ginocchia tremanti. Poi,

afferrata una sbarra di ferro, si mise a scalzarefuriosamente le lastre del pavimento. Un disco di legnosaltò via, e apparvero per tutta la lunghezza del corridoiomolti di quei grandi coperchi che chiudevano le fosse incui veniva conservato il grano.

«Lo vedi, Occhio di Baal», disse il servitore tremando,«non hanno ancora preso tutto! Ogni fossa è profondacinquanta cubiti ed è piena fino all’orlo! Durante il tuoviaggio, ne ho fatte scavare negli arsenali, nei giardini,ovunque! La tua casa è piena di grano, come il tuo cuoredi saggezza».

Un sorriso passò sul volto di Amilcare:«Va bene, Abdalonim!». Poi, chinandosi al suo

orecchio: «Ne farai venire dall’Etruria, dal Bruzio, da dovevorrai e a qualunque prezzo! Accumula e custodisci!Bisogna che io solo possieda tutto il grano di Cartagine».

Poi, quando furono all’estremità del corridoio,Abdalonim, con una delle chiavi che gli pendevano dallacintura, aprì una grande camera quadrangolare, divisanel mezzo da pilastri di cedro. Monete d’oro, d’argento e

di bronzo, ordinate su tavole o dentro nicchie, salivanolungo le quattro pareti fino alle travi del tetto. Enormicoffe di pelle d’ippopotamo, negli angoli, sostenevano filedi sacchi più piccoli; mucchi di monete di biglione15

formavano monticelli sul pavimento; qua e là, qualchepila troppo alta era crollata e ora sembrava una colonnain rovina. Le grandi monete di Cartagine, raffigurantiTanit a cavallo sotto una palma, si mescolavano conquelle delle colonie, contrassegnate da un toro, da unastella, da un globo o da una falce di luna. E ancora sivedevano, disposte in mucchi diseguali, monete di ognivalore, di ogni dimensione, di ogni tempo – da quelleantiche dell’Assiria, sottili come un’unghia, a quelleantiche del Lazio più spesse di una mano, ai bottoni diEgina, alle tavolette di Battriana, alle corte verghedell’antica Lacedemone; molte erano coperte di ruggine,di grasso, verdi per l’acqua o annerite dal fuoco, perchéerano state prese con le reti o dopo gli assedi tra lemacerie delle città. Il suffeta calcolò in fretta se le sommepresenti corrispondevano ai guadagni e alle perdite di cuiera stato informato; e se ne stava andando quando videtre giare di bronzo completamente vuote. Abdalonimvoltò la testa in segno di orrore, e Amilcare rassegnatonon disse nulla.

Attraversarono altri corridoi, altre sale, e alla finearrivarono davanti a una porta dove, per megliocustodirla, c’era un uomo legato per la vita a una lungacatena fissata alla parete, usanza romana da poco

introdotta a Cartagine. La barba e le unghie gli eranocresciute a dismisura, e ondeggiava da destra a sinistracon quel movimento continuo che è proprio delle bestiein cattività. Appena riconobbe Amilcare, gli si lanciòincontro gridando:

«Grazia, Occhio di Baal! Pietà! Uccidimi! Sono diecianni che non vedo il sole! In nome di tuo padre, grazia!».

Amilcare, senza rispondergli, batté le mani, eapparvero tre uomini; e tutti e quattro insieme, facendoforza con le braccia, fecero scorrere negli anelli l’enormesbarra che chiudeva la porta. Amilcare prese una torcia, escomparve nelle tenebre.

Era, a quanto si credeva, il sepolcreto della famiglia;ma non vi si sarebbe trovato altro che un largo pozzo.Era stato scavato solo per fuorviare i ladri, e nonnascondeva niente. Amilcare gli passò accanto; poi,abbassandosi, fece ruotare sui rulli una molapesantissima, e attraverso quest’apertura entrò in unastanza costruita a forma di cono.

Le pareti erano rivestite di lastre di bronzo; nel mezzo,su un piedistallo di granito, si ergeva la statua di unCabiro di nome Alete, che aveva scoperto le miniere nellaCeltiberia. A terra, addossati al basamento, eranodisposti in croce grandi scudi d’oro e straordinari vasid’argento, col collo chiuso, di forma stravagante e chenon potevano servire a niente; infatti c’era l’usanza difondere in questo modo grandi quantità di metalloperché fosse quasi impossibile dilapidarle e perfino

spostarle.Amilcare accese con la torcia una lampada da minatore

fissata al berretto dell’idolo; e, di colpo, luci verdi, gialle,blu, viola, color vino, color sangue, illuminarono la sala.Era piena di pietre preziose, raccolte in zucche d’oroappese come lampadari alle lastre di bronzo, o ancora neiloro blocchi originari ai piedi delle pareti. Erano callaidistrappate alle montagne a colpi di fionda, carbonchiformati dall’urina delle linci, glossopetri caduti dalla luna,tiani, diamanti, sandastri,16 berilli, le tre varietà delrubino, le quattro dello zaffiro e le dodici dello smeraldo.Sfolgoravano, simili a schizzi di latte, a ghiaccioli blu, apolvere d’argento, e diffondevano la loro luce a chiazze, araggi, a stelle. Le ceraunie17 generate dalla folgorescintillavano accanto alle calcedonie che guariscono daiveleni. C’erano topazi del monte Zabarca che prevengonogli spaventi, opali della Battriana che impediscono gliaborti, e corni di Ammone18 che si mettono sotto il lettoper avere dei sogni.

I fuochi delle pietre e le fiamme della lampada siriflettevano nei grandi scudi d’oro. Amilcare, in piedi econ le braccia incrociate, sorrideva, compiaciuto più cheper lo spettacolo per la consapevolezza delle propriericchezze. Erano inaccessibili, inesauribili, infinite. Gli avi,che dormivano sotto i suoi piedi, trasmettevano al suocuore qualcosa della loro eternità. Si sentiva molto vicinoai geni sotterranei. La sua era una gioia di Cabiro; e igrandi raggi luminosi che gli colpivano il viso gli

sembravano l’estremità di una rete invisibile che,attraverso gli abissi, lo legasse al centro del mondo.

Un’idea lo fece trasalire, e, essendosi spostato dietrol’idolo, andò dritto verso il muro. Poi esaminò tra itatuaggi del suo braccio una linea orizzontale con altredue perpendicolari, che in cifre cananee significava ilnumero tredici. A llora contò fino alla tredicesima lastra dibronzo, e sollevò di nuovo l’ampia manica; stesa la manodestra, lesse su un altro punto del braccio altre linee piùcomplicate, mentre faceva scorrere delicatamente le ditacome un suonatore di lira. Infine, con il pollice, battésette colpi; e in un solo blocco tutta una parte dellaparete ruotò.

Nascondeva una specie di cripta, dove erano racchiusioggetti misteriosi, senza nome e di un valoreinestimabile. Amilcare scese i tre gradini; prese in unbacile d’argento una pelle di lama che galleggiava su unliquido nero, poi risalì.

Abdalonim riprese allora a camminare davanti a lui.Batteva in terra il suo lungo bastone adorno di campanelliintorno al pomo, e davanti a ogni stanza gridava il nomedi Amilcare, seguito da lodi e benedizioni.

Nella galleria circolare dove confluivano tutti i corridoierano stati accumulati lungo le pareti travicelli dialgummin, sacchi di lausonia, pani di terra di Lemno19 egusci di tartaruga pieni di perle. Il suffeta, passando, lisfiorava con la veste, senza neppure guardare igiganteschi pezzi d’ambra, materia quasi divina formata

dai raggi del sole.Si liberò una nube di vapore odoroso.«Spingi la porta!».Entrarono.Alcuni uomini nudi impastavano, tritavano erbe,

attizzavano carboni, versavano olio nelle giare, aprivanoe chiudevano le piccole celle ovoidali scavate tutt’intornonelle pareti e così numerose che la stanza sembraval’interno di un alveare. Traboccavano di mirobolano,bdellio,20 zafferano e violette. Ovunque erano sparseresine, polveri, radici, fiale di vetro, rami di filipendula,21

petali di rosa; e si soffocava tra i profumi, malgrado ivortici di fumo dello storace che sfrigolava al centrosopra un tripode di bronzo.

Il Capo-degli-odori-soavi, pallido e lungo come uncero, si fece incontro ad Amilcare per schiacciargli tra lemani un cilindro di metopio,22 mentre altri due uominigli sfregavano i talloni con foglie di bàccara.23 Amilcare liallontanò; erano Cirenei dai costumi infami, tenuti inconsiderazione solo per i loro segreti.

Per dimostrare la sua vigilanza, il Capo-degli-odorioffrì al suffeta, in un cucchiaio di elettro,24 un po’dimalòbatro perché lo assaggiasse; poi con una lesinatrafisse tre bezoar25 indiani. Il padrone, che conosceva gliartifici, prese un corno pieno di balsamo e dopo averloaccostato ai carboni lo inclinò sulla propria veste; viapparve una macchia scura, era una frode. Allora fissò ilCapo-degli-odori e senza una parola gli gettò in faccia il

corno di gazzella.Per quanto fosse indignato delle falsificazioni

commesse a suo danno, vedendo dei pacchetti di nardo26

che venivano imballati per i paesi d’oltremare, ordinò dimescolarvi dell’antimonio, allo scopo di aumentarne ilpeso.

Poi chiese dove si trovassero tre scatole di psaga,27

per il suo uso personale.Il Capo-degli-odori confessò di non saperne nulla:

erano venuti dei soldati, con dei coltelli, urlanti; avevaaperto loro le celle.

«Dunque li temi più di me!», esclamò il suffeta; eattraverso il fumo le sue pupille, come torce, scintillavanosul lungo uomo pallido che cominciava a capire.

«Abdalonim! Prima del tramonto lo farai frustare: falloa pezzi!».

Quel danno, minore degli altri, l’aveva esasperato;perché, malgrado tutti gli sforzi per bandirli dalla suamente, ritrovava continuamente i Barbari. I loro misfattisi confondevano con la vergogna di sua figlia, e cel’aveva con tutti quelli della casa perché ne erano alcorrente e non gliene parlavano. Ma qualcosa lo spingevaa sprofondarsi nel suo dolore; e, preso da una rabbiaindagatrice, ispezionò sotto le tettoie, dietro il fondaco, leprovviste di bitume, di legname, di ancore e cordami, dimiele e di cera, il magazzino delle stoffe, le scorte diviveri, il cantiere dei marmi, il deposito del silfio.

Andò dall’altro lato dei giardini a ispezionare, nelle

loro capanne, gli artigiani domestici di cui si vendevano iprodotti. C’erano sarti che ricamavano mantelli, altriintrecciavano reti, altri ancora rifinivano cuscini,tagliavano sandali, alcuni operai d’Egitto lisciavano ipapiri con una conchiglia; la spola dei tessitorischioccava, le incudini degli armaioli risuonavano.

Amilcare disse loro:«Forgiate spade! Continuate a forgiarne! Me ne

serviranno». Ed estrasse dal petto la pelle d’antilopemacerata nei veleni, perché gliene tagliassero una corazzapiù forte di quelle di bronzo, inattaccabile dal ferro e dalfuoco.

Appena si avvicinava agli operai, Abdalonim, perdistrarne la collera, cercava di irritarlo contro costorodenigrando il loro lavoro con dei mugugni. «Ma chemodo di lavorare! È una vergogna! Il padrone è davverotroppo buono». Amilcare, senza ascoltarlo, andava oltre.

Rallentò il passo, perché dei grandi alberi carbonizzatida cima a fondo, come se ne vedono nei boschi dove sisono accampati i pastori, sbarravano il cammino; lepalizzate erano spezzate, l’acqua dei canali si disperdeva,cocci di vetri e ossa di scimmie apparivano nelle pozzefangose. Qualche brandello di stoffa pendeva qua e là daicespugli; sotto i limoni, i fiori marciti formavano unaspecie di letame giallo. In effetti i servitori, credendo cheil padrone non sarebbe più tornato, avevanoabbandonato tutto.

A ogni passo scopriva qualche nuovo disastro,

un’ulteriore prova di quella cosa che si era vietato disapere. Ecco che adesso imbrattava gli stivaletti diporpora camminando tra le immondizie; e non avevaquegli uomini davanti a sé, tutti su una catapulta, perfarli volare in mille pezzi! Si sentiva umiliato per averlidifesi; era una truffa, un tradimento; e poiché non potevavendicarsi né dei soldati, né degli Anziani, né diSalammbô, né di nessuno, e doveva sfogare la suacollera su qualcuno, in un sol colpo condannò al lavoronelle miniere tutti gli schiavi dei giardini.

Abdalonim aveva i brividi ogni volta che lo vedevaavvicinarsi ai recinti degli animali. Ma Amilcare prese ilsentiero del mulino, dal quale si udiva uscire una lugubremelopea.

In mezzo alla polvere giravano le pesanti macine, cioèdue coni di porfido sovrapposti, di cui il più alto,provvisto di un imbuto, ruotava sull’altro per mezzo dirobuste stanghe. Alcuni uomini spingevano col petto econ le braccia, mentre altri, aggiogati, tiravano. Losfregamento delle cinghie di cuoio aveva formato intornoalle loro ascelle delle croste purulente come se ne vedonosul garrese dei somari, e lo straccio nero e floscio checopriva appena le loro reni penzolando per un lembobatteva sui garretti come una lunga coda. I loro occhierano rossi, le catene ai piedi sferragliavano, tutti i loropetti ansimavano insieme. Avevano sulla bocca unamuseruola, fissata con due catenelle di bronzo, in modoche fosse loro impossibile mangiare la farina, e le manierano strette in manopole senza dita perché non

erano strette in manopole senza dita perché nonpotessero prenderla.

All’ingresso del padrone, le stanghe di legnocigolarono più forte. Il grano strideva frantumandosi.Molti caddero in ginocchio; gli altri, continuando,passavano sui loro corpi.

Chiese di Giddenem, il governatore degli schiavi; equesto personaggio apparve, esibendo la sua importanzaattraverso la ricchezza delle vesti; infatti la sua tunica,aperta sui fianchi, era di porpora fine; pesanti anellierano appesi agli orecchi, e, per tenere unite le fasce distoffa che gli avvolgevano le gambe, un laccio d’oro,come un serpente intorno a un albero, saliva dallecaviglie alle anche. Teneva tra le dita, cariche di anelli,una collana di grani di giaietto per riconoscere gli uominiaffetti dal morbo sacro.28

Amilcare gli fece segno di togliere le museruole. Alloratutti, con grida di bestie affamate, si precipitarono sullafarina, che divoravano affondando la faccia nei mucchi.

«Li sfinisci!», esclamò il suffeta.Giddenem rispose che bisognava farlo per domarli.«Non valeva la pena che ti mandassi a Siracusa alla

scuola degli schiavi. Fai venire gli altri!».E i cuochi, i cantinieri, i palafrenieri, i lettighieri, gli

addetti ai bagni e le donne con i loro bambini, tutti sischierarono nel giardino su una sola linea, dal fondacofino al recinto delle belve. Trattenevano il respiro. Unsilenzio enorme riempiva Megara. Il sole si allungavasulla laguna, sotto le Catacombe. I pavoni pigolavano.

Amilcare camminava a passi lenti.«Che ci faccio con questi vecchi?», disse. «Vendili!

Troppi Galli; sono degli ubriaconi! E troppi Cretesi; sonobugiardi! Comprami dei Cappadoci, degli Asiatici e deiNegri».

Si stupì del piccolo numero dei bambini.«Ogni anno, Giddenem, la casa deve avere le sue

nascite! Lascerai aperte ogni notte le loro capanne,perché possano accoppiarsi in libertà».

Poi si fece indicare i ladri, i pigri, i ribelli. Distribuivapunizioni, e rimproveri a Giddenem; e Giddenem, comeun toro, chinava la fronte bassa sulla quales’incontravano le due folte sopracciglia.

«Guarda, Occhio di Baal», disse indicando un Libicorobusto. «Eccone uno che è stato sorpreso con la cordaal collo».

«Ah! Vuoi morire?», chiese sdegnoso il suffeta.E lo schiavo, con tono intrepido:«Sì!».Allora, senza preoccuparsi dell’esempio né del danno

economico, Amilcare disse ai servi:«Portatelo via!».Forse pensava a un sacrificio. Era una sventura che si

procurava per prevenirne altre più terribili.Giddenem aveva nascosto i mutilati dietro gli altri.

Amilcare li vide:«Chi ti ha tagliato il braccio?»«I soldati, Occhio di Baal».

Poi, a un Sannita che zoppicava come un airone ferito:«E te, chi ti ha conciato così?».Era stato il governatore, che gli aveva spezzato la

gamba con una sbarra di ferro.Quell’atrocità idiota indignò il suffeta; e, strappando

dalle mani di Giddenem la sua collana di giaietto:«Maledetto il cane che ferisce il gregge. Storpiare degli

schiavi, bontà di Tanit! Ah! Tu rovini il tuo padrone!Affogatelo nel letame! E quelli che ti mancano? Dovesono? Li hai assassinati d’accordo con i soldati?».

L’espressione del suo volto era così terribile che tuttele donne fuggirono. Gli schiavi, indietreggiando,formavano un grande cerchio intorno a loro; Giddenemgli baciava freneticamente i sandali; Amilcare, in piedi,restava immobile con le braccia alzate su di lui.

Ma, lucidissimo come nel pieno di una battaglia, ora siricordava mille cose odiose, tutte le ignominie dalle qualiaveva distolto lo sguardo; e, alla luce della sua collera,come ai bagliori di un uragano, rivedeva tutti insieme isuoi disastri. I governatori delle campagne erano fuggitiper paura dei soldati, forse per connivenza; tutti loingannavano, da troppo tempo si tratteneva.

«Portateli qui!», gridò. «Marchiateli sulla fronte colferro rovente, come si fa con i vigliacchi!».

Allora furono portati, e sparsi in mezzo al giardino,ritorte, gogne, coltelli, catene per i condannati alleminiere, ceppi per stringere le gambe, numelle perstringere le spalle, e scorpioni cioè staffili a tre strisce di

cuoio che terminavano con uncini di bronzo.Tutti furono messi con la faccia al sole, in direzione di

Moloch divoratore, stesi per terra sul ventre o sullaschiena; e i condannati alla flagellazione, in piedi controgli alberi, affiancati da due uomini, uno per contare icolpi e l’altro per frustare.

Frustava a due braccia; le corregge, sibilando,facevano volare la corteccia dei platani. Il sangue sispargeva a pioggia sul fogliame, e forme rosse sicontorcevano urlando ai piedi degli alberi. Coloro ai qualivenivano messi i ferri si straziavano il volto con leunghie. Si udivano cigolare le viti di legno;rimbombavano sordi colpi; talvolta un grido acuto,improvviso, fendeva l’aria. Dalla parte delle cucine, travesti stracciate e capigliature disfatte, alcuni uominiravvivavano i carboni con dei ventagli, e si sentiva odoredi carne bruciata. I flagellati svenivano, ma trattenutidalle corde che legavano le loro braccia, rovesciavano latesta sulle spalle chiudendo gli occhi. Gli altri, cheguardavano, si misero a gridare per lo spavento, e ileoni, forse ricordandosi del banchetto, si stiravanosbadigliando sul bordo delle fosse.

Si vide allora Salammbô, sulla piattaforma della suaterrazza. La attraversava veloce, da destra a sinistra,sconvolta. Amilcare la scorse. Gli sembrò che alzasse lebraccia verso di lui per chiedere grazia; ma con un gestodi orrore si inoltrò nel recinto degli elefanti.

Questi animali erano l’orgoglio delle grandi famiglie

puniche. Avevano trasportato gli avi, trionfato nelleguerre, ed erano venerati come prediletti del Sole.

Quelli di Megara erano i più forti di Cartagine.Amilcare, prima di partire, aveva preteso da Abdalonim ilgiuramento che li avrebbe sorvegliati. Ma erano morti perle loro mutilazioni; e ne restavano soltanto tre, sdraiati inmezzo al cortile, nella polvere, davanti alla mangiatoia infrantumi.

Lo riconobbero e gli andarono incontro.Uno aveva le orecchie orribilmente spaccate, un altro

aveva una larga piaga al ginocchio, e il terzo aveva laproboscide mozzata.

Lo guardavano con un’aria triste, come creatureragionevoli; e quello che non aveva più la proboscide,chinando l’enorme testa e piegando le zampe, cercava diaccarezzarlo teneramente con l’orrenda estremità del suomoncherino.

A quella carezza dell’animale, gli sgorgarono duelacrime dagli occhi. Saltò addosso a Abdalonim.

«Ah, miserabile! La croce! La croce!».Abdalonim, svenendo, si rovesciò a terra.Dietro le fabbriche di porpora, dalle quali salivano al

cielo lente volute di fumo blu, risuonò il latrato di unosciacallo; Amilcare si fermò.

Il pensiero del figlio, come il richiamo di un dio, loaveva calmato immediatamente. Intravedeva unprolungamento della sua forza, una continuazioneindefinita della sua persona, e gli schiavi non capivano da

dove gli fosse venuta quella quiete.Dirigendosi verso le fabbriche di porpora, passò

davanti all’ergastolo, lungo edificio di pietra neracostruito dentro una fossa quadrata con un sentierotutt’intorno e quattro scalini agli angoli.

Per completare il suo segnale, Iddibal aspettavasicuramente la notte. C’è tempo, pensava Amilcare; escese nella prigione. Qualcuno gli gridò: «Tornaindietro!». I più coraggiosi lo seguirono.

La porta aperta sbatteva al vento. Il crepuscolo entravaattraverso le strette feritoie, e all’interno si distinguevano,appese alle pareti, delle catene spezzate.

Era tutto ciò che restava dei prigionieri di guerra.Allora Amilcare impallidì, e coloro che erano sporti in

fuori sulla fossa videro che si appoggiava con una manoal muro per non cadere.

Ma lo sciacallo abbaiò, tre volte di seguito. Amilcarerialzò la testa; non disse una parola, non fece un gesto.Poi, quando il sole fu completamente tramontato,scomparve dietro la siepe di nopale, e la sera,all’assemblea dei Ricchi, nel tempio di Eshmun, entrandodisse:

«Luci dei Baalim, accetto il comando delle forzepuniche contro l’esercito dei Barbari!».

VIIILa battaglia del Macar

L’indomani Amilcare Barca si fece consegnare dai Sissiziduecentoventitremila kikar d’oro, e decretò un’imposta diquattordici shekel a carico dei Ricchi. Anche le donnecontribuirono; si pagava per i figli e, cosa incredibilenelle usanze cartaginesi, costrinse i collegi dei sacerdoti afornire denaro.

Requisì tutti i cavalli, tutti i muli, tutte le armi.Qualcuno tentò di nascondere le sue ricchezze: ne fecevendere i beni; e, per dissuadere l’avarizia degli altri,donò personalmente sessanta armature emillecinquecento gommor di farina, quanti ne dava laCompagnia dell’avorio.

Mandò gente in Liguria a reclutare soldati: tremilamontanari abituati a combattere con gli orsi; furonopagati anticipatamente, per sei lune, a quindici mine ilgiorno.

Aveva assolutamente bisogno di un esercito. Ma nonaccettò, come Annone, tutti i cittadini. Innanzitutto rifiutò

quelli che facevano un lavoro sedentario, poi quelli cheavevano una pancia eccessiva o l’aspetto pusillanime; eammise uomini malfamati, la marmaglia di Megara, figlidi Barbari, schiavi affrancati. Come ricompensa, promiseai nuovi Cartaginesi i pieni diritti di cittadinanza.

Sua prima cura fu la riforma della Legione. Quei beigiovani che si consideravano la maestà militare dellaRepubblica, si governavano da soli. Esautorò i loroufficiali; li trattò con durezza, li faceva saltare, salire d’unfiato il pendio di Birsa, lanciare il giavellotto, lottarecorpo a corpo, dormire la notte sulle piazze. Le lorofamiglie venivano a vederli e li compiangevano.

Ordinò spade più corte, calzari più forti. Stabilì ilnumero dei servi e ridusse i bagagli; e poiché nel tempiodi Moloch erano custoditi trecento pili romani, malgradole proteste del pontefice li requisì.

Con quelli che erano tornati da Utica e altri cheappartenevano a privati, organizzò una falange disettantadue elefanti e li rese terribili. Armò i loroconduttori di una mazza e di uno scalpello, per spezzareloro il cranio nel caso che in una mischia sfuggissero alcontrollo.

Non permise che i suoi generali fossero nominati dalGran Consiglio. Gli Anziani cercavano di opporgli le leggi,ma lui andava avanti; nessuno osava più mormorare,tutto si piegava sotto la violenza del suo genio.

Si occupava da solo della guerra, del governo e dellefinanze; e, per prevenire le accuse, chiese come revisore

dei conti il suffeta Annone.Fece rafforzare i bastioni e, per procurarsi le pietre,

fece demolire le vecchie mura interne, ormai inutili. Ma ladifferenza delle ricchezze, sostituendo la gerarchia dellerazze, continuava a separare i figli dei vinti da quelli deivincitori; così i patrizi erano irritati dalla distruzione diquei ruderi, mentre la plebe, senza sapere bene perché,se ne rallegrava.

Le truppe in armi sfilavano, dalla mattina alla sera,nelle strade; in ogni momento si udiva il suono delletrombe; passavano carri che trasportavano scudi, tende,picche: i cortili erano pieni di donne che preparavanostrisce di tela; l’ardore dell’uno si comunicava all’altro;l’anima di Amilcare riempiva la Repubblica.

Aveva diviso i soldati in numeri pari, avendo cura dialternare in ogni fila un uomo forte e uno debole,affinché il meno vigoroso o il più codardo fosse condottoe sospinto dagli altri due. Ma con i suoi tremila Liguri e imigliori di Cartagine riuscì a mettere insieme solo unafalange semplice di quattromilanovantasei opliti, protettida elmi di bronzo, che maneggiavano sarisse di frassinolunghe quattordici cubiti.

Duemila giovani portavano fionde, un pugnale esandali. Li rafforzò con altri ottocento, armati di unoscudo rotondo e di una spada alla romana.

La cavalleria pesante era composta dallemillenovecento guardie che restavano della Legione,rivestite di lamine di bronzo dorato, come i Clinabari1

assiri. Aveva inoltre quattrocento arcieri a cavallo, diquelli che erano chiamati Tarantini, con berretti di pelo didonnola, un’ascia a doppio taglio e una tunica di cuoio.Infine milleduecento Negri del quartiere delle carovane,mescolati ai Clinabari, dovevano correre a fianco deglistalloni, reggendosi con una mano alla criniera. Tutto erapronto, eppure Amilcare non partiva.

Spesso, di notte, usciva da Cartagine, da solo,spingendosi oltre la laguna, verso le foci del Macar. 2

Voleva unirsi ai Mercenari? I Liguri accampati sui Mappalicircondavano la sua casa.

Le apprensioni dei Ricchi sembrarono giustificatequando un giorno si videro avvicinarsi alle mura trecentoBarbari. Il suffeta fece aprire loro le porte; erano deitransfughi; correvano dal loro padrone, spinti dal timoreo dalla fedeltà.

Il ritorno di Amilcare non aveva affatto sorpreso iMercenari; erano convinti che quell’uomo non potessemorire. Tornava per mantenere le sue promesse:speranza che non aveva niente di assurdo, tantoprofondo era l’abisso tra la patria e l’esercito. Del resto,non si consideravano colpevoli; il banchetto era ormaidimenticato.

Le spie che catturarono li disillusero. Per i più accanitifu un trionfo; anche i più tiepidi si infuriarono. E poi idue assedi li opprimevano di noia; non accadeva niente;era meglio una battaglia! Così molti uomini sisbandavano, correvano la campagna. Alla notizia dei

nuovi armamenti, ritornarono; Mâtho ne fu felice.«Finalmente! Finalmente!», gridò.

Allora il rancore che provava nei confronti diSalammbô si rivolse contro Amilcare. Ora il suo odioscorgeva una preda ben definita; e poiché la vendetta erapiù facilmente concepibile, credeva di averla in pugno, egià se ne compiaceva. Nello stesso tempo era invaso dauna tenerezza più intensa, divorato da un desiderio piùpenetrante. Di volta in volta si vedeva in mezzo ai soldati,brandendo su una picca la testa del suffeta, poi nellacamera dal letto di porpora, stringendo la vergine tra lesue braccia, coprendole il viso di baci, passandole le manitra i lunghi capelli neri; e questa fantasia che sapevairrealizzabile lo torturava. Poiché i suoi compagnil’avevano nominato shalishim, giurò a se stesso dicondurre la guerra; la certezza che non ne sarebbetornato lo spingeva a renderla spietata.

Andò da Spendio, e gli disse:«Raccogli i tuoi uomini! Io porterò i miei. Avverti

Autarito! Se Amilcare ci attacca siamo perduti! Mi senti?Alzati!».

Spendio rimase stupito per quel tono imperioso. Ingenere Mâtho si lasciava condurre, e le sue ire duravanopoco. Ma ora sembrava insieme più calmo e più terribile;gli lampeggiava negli occhi una volontà superba, similealla fiamma di un sacrificio.

Il Greco non era d’accordo. Viveva in una tendacartaginese dagli orli di perle, beveva bevande fresche

nelle coppe d’argento, giocava al cottabo, si lasciavacrescere i capelli e conduceva l’assedio con lentezza. Delresto, aveva stabilito certi accordi segreti all’interno dellacittà e non voleva partire, sicuro che in pochi giorni leporte si sarebbero aperte.

Narr’Havas, che si aggirava tra i tre eserciti, in quelmomento era presso di lui. Si disse d’accordo conSpendio, e addirittura accusò il Libico di volerabbandonare la loro impresa, per eccesso di coraggio.

«Vattene se hai paura!», gridò Mâtho. «Ci avevipromesso pece, zolfo, elefanti, fanteria, cavalli! Dovesono?».

Narr’Havas gli ricordò che aveva sterminato le ultimecoorti di Annone; quanto agli elefanti, li stavanocacciando nei boschi, la fanteria la stava armando,mentre i cavalli erano in viaggio; e il Numida,accarezzando la piuma di struzzo che gli ricadeva sullaspalla, roteava gli occhi come una donna e sorrideva inmodo irritante. Mâtho, davanti a lui, non sapeva cosarispondere.

Ma entrò un uomo che nessuno conosceva, madido disudore, stravolto, con i piedi sanguinanti, la cinturaslacciata; un respiro affannoso gli scuoteva i magrifianchi fino a farli scoppiare, e parlando in un dialettoincomprensibile spalancava gli occhi, come se stesseraccontando una battaglia. Il re saltò fuori e chiamò isuoi cavalieri.

Si schierarono nella pianura, formando un cerchio

davanti a lui. Narr’Havas, a cavallo, chinava la testa e simordeva le labbra. Poi divise gli uomini in due metà,disse alla prima di aspettarlo; quindi, lanciando gli altri algaloppo con un gesto imperioso, scomparve all’orizzonte,in direzione delle montagne.

«Padrone!», mormorò Spendio. «Non mi piaccionoquesti avvenimenti straordinari, il suffeta che ritorna,Narr’Havas che se ne va...».

«Eh! che importa?», disse Mâtho sprezzante.Era una ragione di più per prevenire Amilcare

raggiungendo Autarito. Ma se si fosse abbandonatol’assedio della città, i loro abitanti sarebbero usciti, liavrebbero attaccati alle spalle, con i Cartaginesi di fronte.Dopo lunghe discussioni, furono prese e immediatamenteattuate le seguenti decisioni.

Spendio con quindicimila uomini raggiunse il pontecostruito sul Macar, a tre miglia da Utica; ne furonofortificati gli angoli con quattro enormi torri munite dicatapulte. Con tronchi d’albero, massi di roccia, groviglidi spine e muri di pietre, furono chiusi tutti i sentieri etutte le gole delle montagne; sulle cime fu ammucchiataerba da bruciare, per le segnalazioni, e vi furonoappostati, di vedetta, dei pastori dalla vista buona.

Era fuori discussione che Amilcare non sarebbepassato, come Annone, per la Montagna delle AcqueCalde. Non poteva non pensare che Autarito, padronedell’interno, gli avrebbe sbarrato la strada. E uno scaccoproprio all’inizio della campagna lo avrebbe perduto,

mentre una vittoria non sarebbe stata definitiva dalmomento che i Mercenari erano più lontani. Avrebbepotuto sbarcare al Capo dell’Uva,3 e da lì marciare su unadelle città. Ma in questo caso si sarebbe trovato tra i dueeserciti, imprudenza che non poteva commettere conforze poco numerose. Dunque doveva costeggiare la basedell’Ariana, quindi piegare a sinistra per evitare le foci delMacar e venire dritto in direzione del ponte. Ed era quiche Mâtho lo aspettava.

La notte, alla luce delle torce, sorvegliava i guastatori.Correva a Ippozarito, alle fortificazioni di montagna,ritornava, non si riposava. Spendio invidiava la sua forza;ma per quanto riguardava l’attività delle spie, la sceltadelle sentinelle, l’arte delle macchine da guerra e tutti glistrumenti di difesa, Mâtho ascoltava docilmente il suocompagno; e non parlavano più di Salammbô, l’unoperché non ci pensava più, e l’altro perché trattenuto dauna sorta di pudore.

Spesso Mâtho andava in direzione di Cartagine percercare di scorgere le truppe di Amilcare. Con lo sguardofisso all’orizzonte, si sdraiava bocconi, e nel sordo battitodelle sue arterie credeva di sentire un esercito.

Disse a Spendio che se Amilcare non fosse giuntoentro tre giorni, gli sarebbe andato incontro con tutti gliuomini, a dare battaglia. Passarono altri due giorni.Spendio lo tratteneva; la mattina del sesto partì.

I Cartaginesi non erano meno impazienti dei Barbari;

volevano combattere. Nelle tende e nelle case c’era lostesso desiderio, la stessa angoscia; tutti si chiedevanocosa mai impedisse la partenza di Amilcare.

Di tanto in tanto egli saliva sulla cupola del tempio diEshmun, accanto all’Annunciatore-delle-lune, e scrutava ilvento.

Un giorno, era il terzo del mese di Tibby, 4 lo videroscendere di corsa dall’Acropoli. Un grande clamore salìdai Mappali. In poco tempo le strade si riempirono difolla, e ovunque i soldati cominciavano ad armarsi inmezzo alle donne che in lacrime si gettavano sui loropetti; poi correvano veloci a schierarsi sulla piazza diKhamon. Era proibito seguirli, perfino parlar loro eavvicinarsi ai bastioni; per qualche minuto la città fusilenziosa come una grande tomba. I soldati, appoggiatialle lance, erano pensierosi, e gli altri, nelle case,sospiravano.

Al tramonto l’esercito uscì dalla porta occidentale; mainvece di prendere la strada di Tunisi o di raggiungere lemontagne in direzione di Utica, proseguì lungo la riva delmare; e ben presto raggiunse la laguna, dove chiazzerotonde, bianche di sale, luccicavano come giganteschipiatti d’argento, dimenticati sulla riva.

Poi le pozze d’acqua si moltiplicarono. Il terrenodiventava sempre più molle, i piedi vi affondavano.Amilcare non si voltava indietro. Procedeva sempre allatesta; e il suo cavallo, maculato di giallo come un drago,schizzando schiuma intorno, avanzava nel fango a gran

colpi di reni. Scese la notte, una notte senza luna. Alcunigridarono che si andava a morire; furono tolte loro learmi, furono date agli schiavi. Intanto il fango erasempre più profondo. Bisognò montare sulle bestie dasoma; altri si aggrappavano alla coda dei cavalli; i robustitiravano i deboli, e il corpo dei Liguri spronava la fanteriacon la punta delle picche. L’oscurità si fece più fitta.Avevano perduto la strada. Tutti si fermarono.

Allora alcuni schiavi del suffeta corsero avanti arintracciare i segnali che per suo ordine erano statipiantati di tanto in tanto. Gridavano nel buio, e a distanzal’esercito li seguiva.

Finalmente il terreno tornò a essere compatto. Poi sidelineò una vaga curva biancastra, e si ritrovarono sullariva del Macar. Malgrado il freddo, non furono accesifuochi.

A metà della notte si alzarono raffiche di vento.Amilcare fece svegliare i soldati, ma senza suonareneppure una tromba: i loro capitani li toccavanoleggermente su una spalla.

Un uomo di grande statura scese nell’acqua. Non gliarrivava alla cintura; si poteva passare.

Il suffeta ordinò che trentadue elefanti fossero piazzatinel fiume cento passi a monte, mentre gli altri, più avalle, avrebbero fermato le linee di uomini che fosserostate travolte dalla corrente; e tutti, tenendo le armisollevate sopra la testa, attraversarono il Macar come tradue muri. Aveva notato che il vento di ponente muoveva

la sabbia, ostruendo il fiume e formando un arginenaturale per tutta la sua larghezza.

Ora si trovava sulla riva sinistra di fronte a Utica, inuna vasta pianura, un vantaggio per gli elefanti checostituivano il punto di forza del suo esercito.

Questo colpo di genio entusiasmò i soldati; ripreserouna grande fiducia. Ora volevano attaccare subito iBarbari; ma il suffeta li fece riposare per due ore.Quando sorse il sole, furono schierati nella pianura su trelinee: prima gli elefanti, poi la fanteria leggera con lacavalleria, e infine la falange.

I Barbari accampati a Utica, e i quindicimila intorno alponte, furono sorpresi di veder ondeggiare la terra inlontananza. Il vento che soffiava molto forte sollevavavortici di sabbia; si alzavano come strappati dal suolo,salivano in grandi cortine bionde, si squarciavano ericominciavano continuamente, nascondendo ai Mercenaril’esercito punico. A causa delle corna sugli elmi, alcunicredevano di scorgere una mandria di buoi; altri,ingannati dall’agitazione dei mantelli, sostenevano discorgere delle ali; e quelli che avevano viaggiato molto,alzando le spalle spiegavano tutto con le illusioni delmiraggio. Intanto, qualcosa di enorme continuava adavanzare. Piccoli vapori, esili come fiati, correvano sullasuperficie del deserto; il sole, ora più alto, splendeva:una luce cruda, e che sembrava vibrare, aumentava laprofondità del cielo, e, penetrando gli oggetti, rendevaincalcolabile la distanza. L’immensa pianura si estendeva

in ogni direzione a perdita d’occhio; e le ondulazioni delterreno, quasi impercettibili, giungevano fino all’estremoorizzonte, chiuso da una grande linea blu che si sapevaessere il mare. I due eserciti, usciti dalle tende,guardavano; gli abitanti di Utica, per vedere meglio, siaccalcavano sui bastioni.

Finalmente poterono distinguere numerose barretrasversali, irte di punte uguali. Divennero più fitte,ingrandirono; dei monticelli neri ondeggiavano; d’untratto apparvero dei cespugli quadrati; erano elefanti elance; si alzò un solo grido: «I Cartaginesi!» e, senza unsegnale o un ordine, i soldati di Utica e quelli del pontecorsero alla rinfusa, per abbattersi tutti insieme suAmilcare.

A quel nome, Spendio trasalì. Ripeteva ansimando:«Amilcare! Amilcare!», e Mâtho non c’era! Che fare?Nessuna via di fuga! La sorpresa dell’avvenimento, ilterrore che aveva del suffeta e soprattutto l’urgenza diuna decisione immediata lo sconvolgevano: si vedevatrapassato da mille spade, decapitato, morto. Intanto lochiamavano; trentamila uomini lo avrebbero seguito; loprese un furore contro se stesso; si rifugiò nella speranzadi una vittoria; era piena di buoni auspici, si sentì piùintrepido di Epaminonda. Per nascondere il pallore siimbrattò le gote di carminio, poi si affibbiò gli schinieri,la corazza, tracannò una tazza di vino puro e corse dietroalle sue truppe che si affrettavano verso quelle di Utica.

Si ricongiunsero così rapidamente che il suffeta non

ebbe il tempo di schierare i suoi uomini in battaglia. Apoco a poco, rallentava. Gli elefanti si fermarono;dondolavano i testoni adorni di piume di struzzo, e sicolpivano le spalle con la proboscide.

Negli spazi che lasciavano si intravedevano le coortidei veliti,5 più lontano i grandi elmi dei Clinabari, e lameche luccicavano al sole, corazze, pennacchi, stendardi alvento. Ma l’esercito cartaginese, forte diundicimilatrecentonovantasei uomini, sembravacontenerli a fatica, perché formava una quadrilaterolungo, stretto sui fianchi e chiuso su se stesso.

Vedendoli così deboli, i Barbari, tre volte piùnumerosi, furono presi da una gioia sfrenata; non sivedeva Amilcare. Che fosse rimasto laggiù? Ma cheimportava! Il disprezzo che provavano per quei bottegairafforzava il loro coraggio; e prima che Spendio avesseordinato la manovra, tutti l’avevano intuita e già lastavano eseguendo.

Si dispiegarono su una lunga linea diritta, chesopravanzava le ali dell’esercito punico, in modo dapoterlo circondare completamente. Ma, quando furono auna distanza di trecento passi, gli elefanti, invece diavanzare si volsero indietro; poi anche i Clinabari, con unvoltafaccia, li seguirono; e la sorpresa dei Mercenaricrebbe ancora quando videro che tutti gli arciericorrevano a loro volta per raggiungerli. Dunque iCartaginesi avevano paura, fuggivano! Un clamoreformidabile esplose tra le file dei Barbari, e, dall’alto del

suo dromedario, Spendio gridava: «Ah, lo sapevo!Avanti! Avanti!».

Allora i giavellotti, le frecce, i proiettili delle fiondepartirono tutti insieme. Gli elefanti, punzecchiati sul dorsodalle frecce, si misero a galoppare più in fretta: un granpolverone li avvolgeva, e, come ombre in una nube,svanirono.

Intanto si udiva lontano un gran rumore di passi,dominato dal suono acuto delle trombe, suonate confuria. Lo spazio che i Barbari avevano di fronte, pieno divortici e di tumulto, attraeva come un gorgo; alcuni vi sigettarono. Apparvero coorti di fanteria; serravano le file;e nello stesso tempo tutti gli altri vedevano accorrere ifanti e i cavalieri al galoppo.

Amilcare aveva ordinato infatti alla falange dirompersi; agli elefanti, alle truppe leggere e allacavalleria di passare attraverso i varchi per portarsirapidamente sulle ali; e aveva calcolato così bene ladistanza dei Barbari che, nel momento in cui gliarrivavano addosso, l’intero esercito cartaginese formavauna lunga linea diritta.

Al centro si ergeva la falange, formata da sintagmi oquadrati pieni, con sedici uomini per lato. I capi di ognifila apparivano tra lunghi ferri aguzzi che lisopravanzavano in modo ineguale, perché le prime seifile incrociavano le sarisse impugnandole al centro, e ledieci file successive le appoggiavano sulle spalle deicompagni che li precedevano. I volti sparivano per metà

sotto la visiera degli elmi; schinieri di bronzoproteggevano le gambe destre; i larghi scudi cilindriciarrivavano fino alle ginocchia; e quell’orribile massaquadrangolare si muoveva come fosse un pezzo solo,sembrava vivere come una bestia e funzionare come unamacchina. Era fiancheggiata da due coorti di elefanti; conun fremito si scrollavano di dosso le punte delle frecceconficcate nella pelle nera. Gli Indiani accovacciati sulgarrese, tra i ciuffi di piume bianche, li trattenevano conl’uncino dell’arpione, mentre, nelle torri, uomini nascostifino alle spalle incoccavano, in grandi archi tesi, stocchi diferro con stoppacci in fiamme. A destra e a sinistra deglielefanti volteggiavano i frombolieri, con una fiondaintorno alle reni, una seconda sulla testa, una terza nellamano destra. Poi i Clinabari, ognuno affiancato da unNegro, tendevano le lance tra le orecchie dei cavalli tutticoperti d’oro come loro. Poi, scaglionati, c’erano i soldatiarmati alla leggera con scudi di pelle di lince, dai qualispuntavano i giavellotti impugnati con la mano sinistra; ei Tarantini, conducendo ognuno due cavalli appaiati,chiudevano sui due lati questa muraglia di soldati.

L’esercito dei Barbari, al contrario, non aveva potutomantenere il suo schieramento. Nella sua lunghezzaesorbitante si erano prodotte delle ondulazioni, dei vuoti;tutti ansimavano, trafelati per la corsa.

La falange si mosse pesantemente tendendo tutte lesue sarisse; sotto questo peso enorme la linea deiMercenari, troppo esile, ben presto piegò nel mezzo.

Allora le ali cartaginesi si dispiegarono per attaccarli:gli elefanti li seguivano. Con le sue lance proteseobliquamente, la falange tagliò in due la linea deiBarbari; due tronconi enormi si agitarono; le ali, a colpidi fionda e di freccia, li ributtavano addosso ai falangiti.Per liberarsene, mancava la cavalleria; tranne duecentoNumidi che mossero contro lo squadrone destro deiClinabari. Tutti gli altri si trovavano chiusi, né potevanorompere quelle linee. Il pericolo era imminente; urgevauna decisione.

Spendio ordinò di attaccare la falangesimultaneamente sui due fianchi, per passare attraverso.Ma le file più corte scivolarono dietro le più lunghe,ripresero il loro posto, e la falange si rigirò contro iBarbari, altrettanto terribile sui fianchi quanto lo era statafrontalmente.

I Barbari colpivano sulle aste delle sarisse, ma lacavalleria, da dietro, disturbava il loro attacco; e lafalange, che si appoggiava sugli elefanti, si contraeva e siallungava, si presentava in forma di quadrato, di cono, dirombo, di trapezio, di piramide. Dalla testa alla coda c’eraun duplice movimento interno, ininterrotto: quelli chestavano nelle ultime file correvano verso le prime, equeste, per stanchezza o a causa dei feriti, ripiegavanoindietro. I Barbari si trovarono accalcati sulla falange, chenon poteva avanzare; sembrava un oceano su cuisaltassero aironi rossi con scaglie di bronzo, mentre gliscudi chiari si rovesciavano come una schiuma d’argento.Talvolta, da un capo all’altro, ampie correnti scendevano,

Talvolta, da un capo all’altro, ampie correnti scendevano,poi risalivano, e al centro una massa greve restavaimmobile. Le lance si abbassavano e si alzavanoalternativamente. Altrove c’era un turbinio di spadesguainate talmente rapido che se ne scorgevano solo lepunte, e torme di cavalieri ampliavano cerchi che sirichiudevano dietro di loro, vorticosamente.

Sopra la voce dei capitani, sopra gli squilli di tromba elo stridio delle lire, i proiettili di piombo e di argillafendendo l’aria fischiavano, facevano saltare le spadedalle mani, il cervello dai crani. I feriti, reggendo con unbraccio lo scudo per proteggersi, tendevano la spadaappoggiandone l’impugnatura a terra, e altri, in pozze disangue, si contorcevano per mordere talloni. Lamoltitudine era così compatta, la polvere così fitta, iltumulto così forte, che non era possibile distinguereniente; i codardi che intendevano di arrendersi nonfurono neppure uditi. Quando le mani erano vuote, ci siavvinghiava corpo a corpo; i petti scricchiolavano controle corazze, e dei cadaveri rovesciavano la testaall’indietro, tra due braccia serrate. Ci fu una compagniadi sessanta Umbri che, fermi nella loro posizione, con lapicca davanti agli occhi, incrollabili e digrignando i denti,costrinsero a retrocedere due sintagmi alla volta. Deipastori epiroti corsero contro lo squadrone sinistro deiClinabari, afferrarono i cavalli per la criniera facendoroteare i loro bastoni; le bestie, disarcionando i cavalieri,fuggirono per la pianura. I frombolieri punici, sparsi quae là, erano indecisi. La falange cominciava a vacillare, i

capitani correvano smarriti, i serrafile spingevano i soldatie i Barbari avevano ricostituito le loro file; tornavanoall’attacco; la vittoria era loro.

Ma un grido, un grido spaventoso esplose, un ruggitodi dolore e di collera: erano i settantadue elefanti cheirrompevano in doppia fila; Amilcare aveva atteso che iMercenari fossero concentrati in un solo luogo perlanciarglieli contro. Gli Indiani li avevano pungolati contanta energia che il sangue colava sulle grandi orecchie.Le proboscidi, imbrattate di minio, erano alzate in aria,simili a serpenti rossi; i pettorali erano muniti di unospiedo, i dorsi erano protetti da una corazza, le zanne siprolungavano in lamine d’acciaio ricurve come sciabole,e, per renderli più feroci, li avevano inebriati con unmiscuglio di pepe, di vino puro e d’incenso. Scuotevano icollari di sonagli, gridavano; e gli elefantarchiabbassavano la testa sotto i lanci delle falariche checominciavano a volare dall’alto delle torri.

Per resistere meglio al loro assalto, i Barbari siprecipitarono in massa, compatti; gli elefanti si gettaronoin mezzo, impetuosamente. Gli spiedi dei pettorali, comeprue di navi, fendevano le coorti, che rifluivano in grandigorghi. Con le proboscidi strozzavano gli uomini, oppure,strappandoli da terra, li sollevavano sopra la loro testaper porgerli ai soldati nelle torri; li sventravano, lilanciavano in aria, e lunghe budella penzolavano dallezanne d’avorio come rotoli di cordame dai pennoni di unanave. I Barbari cercavano di accecarli, di tagliare i tendinidelle loro zampe; altri, scivolando sotto il ventre, vi

delle loro zampe; altri, scivolando sotto il ventre, viaffondavano la spada fino all’elsa e perivano schiacciati; ipiù intrepidi si aggrappavano alle cinghie e, sotto lefiamme, sotto i proiettili, sotto le frecce, continuavano asegarle finché la torre di vimini non crollava come unatorre di pietra. Quattordici di quelli che si trovavanoall’estrema destra, irritati dalle loro ferite, si voltaronoverso la seconda fila; gli Indiani presero le mazze e gliscalpelli, li appoggiarono sul collo, alla base del cranio, ebatterono con tutta la forza del braccio.

Le enormi bestie si accasciarono, caddero le une sullealtre, formando una montagna; e su quel mucchio dicadaveri e di armature un elefante mostruoso che venivachiamato Furore di Baal, rimasto impigliato con unazampa nelle catene, continuò a barrire fino a sera, conuna freccia conficcata in un occhio.

Intanto gli altri, come conquistatori che si dilettinonella propria opera di sterminio, rovesciavano,schiacciavano, calpestavano, si accanivano sui cadaveri,sui rottami. Per respingere i manipoli che si stringevanointorno a loro, ruotavano sulle zampe posteriori, con unmovimento continuo che gli permetteva di avanzare. ICartaginesi sentirono crescere il loro vigore, e la battagliaricominciò.

I Barbari cedevano; alcuni opliti greci gettarono learmi, il terrore si impadronì degli altri. Si vide Spendiochino sul suo dromedario, mentre lo pungolava sul dorsocon due giavellotti. Tutti allora si precipitarono sulle ali ecorsero verso Utica.

I Clinabari, i cui cavalli erano sfiniti, non tentarono diraggiungerli. I Liguri, estenuati dalla sete, gridavano chevolevano tornare al fiume. Ma i Cartaginesi, piazzati alcentro dei sintagmi, e che avevano sofferto meno,smaniavano vedendo sfuggirsi di mano la vendetta; giàstavano per lanciarsi all’inseguimento dei Mercenari;apparve Amilcare.

Tratteneva con briglie d’argento il suo cavallo tigrato,coperto di sudore. I nastri legati alle corna dell’elmoschioccavano al vento dietro di lui, ovale sotto la cosciasinistra teneva lo scudo. Con un movimento della picca atre punte fermò l’esercito.

I Tarantini saltarono subito dal primo al secondocavallo, e partirono a destra e a sinistra verso il fiume everso la città.

La falange sterminò comodamente tutto quello cherestava dei Barbari. Quando arrivavano le spade,porgevano la gola chiudendo gli occhi. A ltri si difesero aoltranza; li ammazzarono da lontano, a sassate, comecani rabbiosi. Amilcare aveva raccomandato di fareprigionieri. Ma i Cartaginesi gli obbedivano a malincuore,tale era il piacere che provavano ad affondare le spadenei corpi dei Barbari. Siccome avevano troppo caldo, simisero a lavorare a braccia nude, come falciatori; equando si interrompevano per riprendere fiato,seguivano con lo sguardo, nella campagna, un cavaliereche galoppava dietro un soldato in fuga. Lo raggiungeva,lo afferrava per i capelli, lo teneva così per un po’, quindi

lo abbatteva con un colpo di ascia.Scese la notte. I Cartaginesi, i Barbari erano

scomparsi. Gli elefanti, che erano fuggiti, vagabondavanoall’orizzonte con le torri incendiate, che bruciavano nelletenebre, qua e là come fari perduti nella nebbia; e nellapianura non si scorgeva altro movimento chel’ondeggiare del fiume, gonfio dei cadaveri che trascinavaal mare.

Due ore dopo, arrivò Mâtho. Intravide alla luce dellestelle lunghi mucchi ineguali sparsi a terra.

Erano schiere di Barbari. Si chinò; erano tutti morti,chiamò a gran voce; nessuno gli rispose.

Quella stessa mattina aveva lasciato Ippozarito con isuoi soldati per marciare su Cartagine. A Utica, l’esercitodi Spendio era appena partito, e gli abitanti cominciavanoa incendiare le macchine da guerra. Tutti si erano battuticon accanimento. Ma poiché il clamore che si udiva dallaparte del ponte aumentava in un modo incomprensibile,Mâtho si era gettato, per il sentiero più breve, attraversola montagna, e siccome i Barbari erano in fuga nellapianura, non aveva incontrato nessuno.

Di fronte a lui sorgevano nell’ombra piccole massepiramidali, e al di qua del fiume, più vicino, c’erano delleluci immobili rasoterra. Infatti i Cartaginesi avevanoripiegato dietro il ponte e, per ingannare i Barbari, ilsuffeta aveva collocato numerose postazioni sull’altrariva.

Mâtho, continuando ad avanzare, credette di

distinguere delle insegne puniche, perché si scorgevanoin aria teste di cavallo immobili, fissate in cima a fasci diaste che non si vedevano; e udì più lontano un granderumore, suoni di canti e tintinnii di coppe.

Allora, non sapendo dove si trovasse, né comeritrovare Spendio, in preda all’angoscia, sgomento,perduto nelle tenebre, tornò indietro per la stessa strada,con furia anche maggiore. L’alba imbiancava, quandodall’alto della montagna scorse la città, con le carcassedelle macchine annerite dalle fiamme, come scheletri digiganti appoggiati alle mura.

Tutto giaceva in un silenzio e in un’immobilitàstraordinari. Tra i suoi soldati, sulla soglia delle tende,uomini seminudi dormivano supini o con la fronte controun braccio sostenuto dalla corazza. Alcuni staccavanodalle gambe le fasce insanguinate. Quelli che stavano permorire giravano lentamente la testa; altri, trascinandosi,portavano loro da bere. Lungo stretti sentieri le sentinellecamminavano per riscaldarsi, oppure se ne stavano fermea guardare l’orizzonte, con la picca sulla spalla, in unatteggiamento truce.

Mâtho trovò Spendio sotto un brandello di telasostenuto da due bastoni piantati in terra, un ginocchiotra le mani, la testa china.

Restarono a lungo senza parlare.Poi Mâtho mormorò:«Vinti!».Spendio rispose con voce tetra:

«Sì, vinti!».E a ogni domanda rispondeva con gesti disperati.Intanto giungevano fino a loro sospiri e rantoli. Mâtho

sollevò leggermente la tela. Allora la vista dei soldati gliricordò un altro disastro, nello stesso luogo, edigrignando i denti:

«Miserabile! Già una volta...».Spendio lo interruppe:«Non c’eri neppure allora».«È una maledizione!», esclamò Mâtho. «Ma alla fine lo

raggiungerò! E lo vincerò! Lo ucciderò! Ah! Se ci fossistato...».

Il pensiero di aver mancato la battaglia lo disperavaancora più della sconfitta. Afferrò la spada e la scagliò aterra.

«Ma in quale modo i Cartaginesi vi hanno battuto?».L’ex schiavo si mise a descrivere le manovre. Mâtho

aveva l’impressione di vederle e si irritava. L’esercito diUtica, invece di correre verso il ponte, avrebbe dovutoattaccare Amilcare alle spalle.

«Eh! Lo so!», disse Spendio.«Bisognava raddoppiare lo schieramento, non

impegnare i veliti contro la falange, lasciare varchi per glielefanti. A ll’ultimo momento si poteva recuperare: nienteobbligava alla fuga».

Spendio rispose:«L’ho visto passare nel suo grande mantello rosso, le

braccia alzate, più in alto della polvere, come un’aquila

che volasse a fianco delle coorti, che a ogni cenno dellasua testa serravano i ranghi, si slanciavano; la mischia ciha trascinati l’uno verso l’altro; mi guardava; ho sentitonel cuore il gelo di una spada».

«Che abbia saputo scegliere il giorno?», si chiedevaMâtho sottovoce.

Si interrogarono, cercando di scoprire come il suffetaavesse potuto cogliere il momento più sfavorevole perloro. Giunsero a parlare della situazione, e per attenuarela propria colpa o riprendere coraggio, Spendio disse chein fondo restava ancora qualche speranza.

«Che ne resti o no, che importa!», disse Mâtho.«Anche da solo continuerò la guerra!».

«E anch’io!», esclamò il Greco balzando in piedi; oracamminava a grandi passi; gli luccicavano gli occhi e unsorriso strano increspava la sua faccia di sciacallo.

«Ricominceremo, non lasciarmi più! Non sono fattoper le battaglie alla luce del sole; il lampeggiare dellespade mi abbaglia; è una malattia, ho vissuto troppo alungo nell’ergastolo. Ma dammi delle mura da scalare dinotte, e io entrerò nelle cittadelle, e i cadaveri sarannofreddi prima che i galli abbiano cantato! Indicamiqualcuno, qualcosa, un nemico, un tesoro, unadonna...», ripeté, «... una donna, fosse anche la figlia diun re, e subito deporrò ai tuoi piedi ciò che desideri. Tumi rimproveri di aver perduto la battaglia contro Annone,eppure l’ho vinta. Confessalo! Il mio branco di porci ci èservito più di una falange di Spartani». E, cedendo al

bisogno di riabilitarsi e prendersi una rivincita, enumeròtutto quello che aveva fatto per la causa dei Mercenari.«Sono stato io, nei giardini del suffeta, ad aizzare il Gallo!Più tardi, a Sicca, li ho fatti infuriare tutti con la pauradella Repubblica! Giscone li faceva ripartire, ma io hoimpedito agli interpreti di parlare. Ah! Come penzolavanodalla bocca le loro lingue! Te ne ricordi? Io ti ho condottodentro Cartagine; io ho rubato lo zaimf. Io ti ho portatoda lei. Farò molto di più, vedrai!».

Scoppiò a ridere come un pazzo.Mâtho lo osservava con gli occhi spalancati. Si sentiva

a disagio di fronte a quell’uomo che era al tempo stessovile e terribile.

Il Greco riprese con tono gioviale, facendo schioccarele dita:

«Evohé! Dopo la pioggia, il sole! Ho lavorato nelle cavee ho bevuto vino massico in una coppa che mi èappartenuta, sotto un baldacchino d’oro, come unTolomeo. Le sventure devono servire a renderci piùastuti. A forza di lavoro, si piega anche la fortuna. Essaama i politici; cederà!».

Tornò accanto a Mâtho, e prendendolo per un braccio:«Padrone, in questo momento i Cartaginesi sono certi

della loro vittoria. Tu hai un intero esercito che non haancora combattuto, e i tuoi uomini ti obbediscono.Piazzali davanti; i miei, per vendicarsi, li seguiranno. Mirestano tremila Carii, milleduecento frombolieri e arcieri acoorti intere. Possiamo addirittura formare una falange;

andiamo!».Mâtho, sconvolto dal disastro, fino a quel momento

non si era neppure posto il problema di uscirne.Ascoltava a bocca aperta, e le lamine di bronzo che glicircondavano il petto si sollevavano ai battiti affannati delsuo cuore. Raccolse la spada, gridando:

«Seguimi, andiamo!».Ma gli esploratori, quando tornarono, annunciarono

che i morti dei Cartaginesi erano stati portati via, il ponteera completamente distrutto e Amilcare scomparso.

IXIn campagna

Amilcare aveva pensato che i Mercenari lo avrebberoatteso a Utica oppure sarebbero tornati per attaccarlo; e,ritenendo che le sue forze non fossero sufficienti sia perattaccare che per difendersi, si era inoltrato nel sudseguendo la riva destra del fiume, mettendosi così subitoal riparo da una sorpresa.

Voleva separare tutte le tribù dalla causa dei Barbari;per questo per il momento chiudeva gli occhi sulla lororivolta; poi, quando costoro sarebbero rimasti del tuttoisolati in mezzo alle province, allora si sarebbe gettato sudi loro e li avrebbe sterminati.

In quattordici giorni pacificò la regione compresa traThuccaber1 e Utica, con le città di Tignicabah, Tessurah,Vacca e altre ancora a occidente. Zunghar costruita tra imonti; Assura celebre per il suo tempio; Geraado fertiledi ginepri; Thapitis e Hagur gli inviarono ambasciatori.Gli abitanti delle campagne arrivavano con le mani pienedi viveri, imploravano la sua protezione, baciavano i suoi

piedi e quelli dei soldati, e si lamentavano dei Barbari.A lcuni venivano a offrirgli, chiuse dentro sacchi, teste diMercenari, uccisi da loro, dicevano, ma che avevanotagliato a cadaveri; perché molti si erano perduti nellafuga e venivano trovati morti qua e là, sotto gli olivi enelle vigne.

Per suscitare l’ammirazione del popolo, Amilcare giàl’indomani della vittoria aveva inviato a Cartagine iduemila prigionieri fatti sul campo di battaglia.Arrivarono in lunghe schiere di cento uomini ognuna,con le braccia attaccate sul dorso a una sbarra di bronzoche li afferrava alla nuca, e anche i feriti, sanguinanti,andavano di corsa; dei cavalieri, dietro di loro, lispingevano avanti a frustate.

Fu un delirio di gioia! La gente continuava a dire cheerano stati uccisi seimila Barbari; gli altri non avrebberoresistito, la guerra era finita; ci si abbracciava nellestrade, e si lustrava con burro e cinnamomo il volto deglidèi Pateci per ringraziarli. Con i loro grandi occhi, ilgrosso ventre e le braccia sollevate all’altezza delle spalle,sembravano vivi sotto quella pittura fresca, e partecipidell’allegria del popolo. I Ricchi lasciavano aperte le loroporte; la città risuonava del rullo dei tamburi; i templierano illuminati ogni notte, e le sacerdotesse della deascese a Malqua innalzarono nei crocicchi delle impalcaturedi sicomoro, in cui si prostituivano. Si votò l’assegnazionedi terre ai vincitori, olocausti per Merlkarth, trecentocorone d’oro per il suffeta, e i suoi sostenitoriproponevano di attribuirgli nuove cariche e nuovi onori.

proponevano di attribuirgli nuove cariche e nuovi onori.Amilcare aveva sollecitato gli Anziani a fare proposte

ad Autarito per scambiare contro tutti i prigionieriBarbari, se era necessario, il vecchio Giscone e gli altriCartaginesi prigionieri come lui. Ma i Libici e i Nomadiche costituivano l’esercito di Autarito conoscevanoappena quei Mercenari, uomini di razza italiota o greca; epoiché la Repubblica offriva loro così tanti Barbari contropochi Cartaginesi, questo poteva voler dire che gli unin o n valevano nulla e che gli altri valevano molto.Temevano una trappola. Autarito rifiutò.

Allora gli Anziani decretarono che i prigionieri fosserouccisi, benché il suffeta avesse scritto loro di non metterlia morte. Contava infatti di inserire i migliori nelle suetruppe, e incoraggiare in questo modo le defezioni. Mal’odio travolse ogni riserva.

I duemila Barbari furono legati, sulla via dei Mappali,alle stele delle tombe; e mercanti, sguatteri, ricamatori eanche donne, le vedove dei morti coi loro figli, tutti quelliche volevano, vennero a ucciderli a colpi di freccia.Prendevano la mira lentamente, per prolungarne ilsupplizio: si abbassava l’arma, per poi alzarla di nuovo; ela folla si accalcava urlante. C’erano paralitici che si eranofatti portare sulle barelle; molti, previdenti, si portavanoil cibo e restavano lì fino a sera; altri ci passavano lanotte. Erano state piantate delle tende dove si beveva.Molti guadagnarono grandi somme noleggiando gli archi.

Poi lasciarono lì, in piedi, tutti quei cadaveri crocifissi,che sembravano tante statue rosse sopra le tombe, e

l’esaltazione aveva conquistato perfino gli abitanti diMalqua, discendenti di famiglie autoctone e in genereindifferenti alle cose della patria. Ma, riconoscenti per ilbenessere che essa procurava loro, adesso siinteressavano alla sua sorte, si sentivano Punici, e gliAnziani si convinsero di essere stati molto abili a uniretutto il popolo in uno stesso sentimento di vendetta.

Non mancò neppure l’assenso degli dèi, perché daogni parte del cielo calarono stormi di corvi.Volteggiavano con grandi strida rauche, e formavanoun’enorme nube che roteava su se stessa continuamente.La si vedeva da Clipea, da Rhades e dal promontorioErmeo. Talvolta si rompeva all’improvviso, allargando inlontananza le sue spirali nere; era un’aquila chepiombava nel mezzo, poi risaliva; sulle terrazze, sullecupole, sulla punta degli obelischi e sul frontone deitempli c’erano, qua e là, grossi uccelli che tenevano nelbecco arrossato brandelli di carne umana.

A causa dell’odore, i Cartaginesi si rassegnarono aslegare i cadaveri. Ne bruciarono alcuni; gettarono glialtri in mare, e le onde spinte dal vento del nord nedepositarono un certo numero sulla spiaggia, in fondo algolfo, davanti al campo di Autarito.

La punizione doveva aver atterrito i Barbari, perchédall’alto di Eshmun li si vide togliere le tende, riunire legreggi, caricare i bagagli sugli asini, quella sera stessal’intero esercito si allontanò.

Spostandosi continuamente tra la Montagna delleAcque Calde e Ippozarito, l’esercito doveva impedire alsuffeta di avvicinarsi alle città tirie come pure di tornare aCartagine.

Intanto gli altri due eserciti avrebbero cercato diraggiungerlo nel sud, Spendio da oriente, Mâtho daoccidente, in modo da congiungersi tutti e tre percoglierlo di sorpresa e accerchiarlo. Poi sopraggiunse unrinforzo sul quale non contavano: ricomparve Narr’Havas,con trecento cammelli carichi di bitume, venticinqueelefanti e seimila cavalieri.

Il suffeta, per indebolire i Mercenari, aveva ritenutoopportuno impegnarlo nel suo stesso regno. DaCartagine si era accordato con Masgaba, un brigantegetulo che cercava di farsi un impero. Forte del denaropunico, l’avventuriero aveva sollevato gli Stati numidipromettendo loro la libertà. Ma Narr’Havas, avvisato dalfiglio della sua nutrice, era piombato a Cirta, avevaavvelenato i vincitori con l’acqua delle cisterne, tagliatoqualche testa, rimesso tutto in ordine, e ora tornavacontro il suffeta, più furioso dei Barbari.

I capi dei quattro eserciti si accordarono suiprovvedimenti da prendere. La guerra sarebbe statalunga: bisognava prevedere tutto.

Inanzitutto si decise di chiedere l’aiuto dei Romani, equesta missione fu proposta a Spendio; il quale, essendoperò un transfuga, non osò incaricarsene. Dodici uominidelle colonie greche si imbarcarono a Annaba su una

scialuppa dei Numidi. Poi i capi pretesero da tutti iBarbari un giuramento di obbedienza totale. Ogni giornoi capitani ispezionavano i vestiti, le calzature; fu ancheproibito alle sentinelle di usare lo scudo, perché spesso loappoggiavano alla lancia e si addormentavano in piedi;coloro che si portavano dietro un bagaglio furonocostretti a liberarsene; ogni cosa doveva essere portatasulla schiena, secondo l’uso romano. Come difesa daglielefanti, Mâtho istituì un corpo di cavalieri catafratti, talicioè che l’uomo e il cavallo scomparivano sotto unacorazza di pelle d’ippopotamo irta di chiodi; e perproteggere lo zoccolo dei cavalli, si fecero loro deglistivaletti di sparto intrecciato.

Fu proibito di saccheggiare i villaggi, di brutalizzare gliabitanti di razza non punica. Poiché le risorse del paese sistavano esaurendo, Mâtho ordinò di distribuire i viverisecondo il numero dei soldati, senza curarsi delle donne.All’inizio i soldati spartirono con esse. Per carenza di cibomolti si indebolivano. Era una causa continua di litigi einvettive, perché molti attiravano le compagne degli altricon l’offerta o anche la sola promessa della loro razione.Mâtho ordinò di scacciarle tutte senza pietà. Sirifugiarono nel campo di Autarito: ma i Galli e i Libici, aforza di oltraggi, le costrinsero ad andarsene.

Alla fine andarono sotto le mura di Cartagine aimplorare la protezione di Cerere e di Proserpina, perchéa Birsa c’era un tempio dei sacerdoti consacrati alle duedivinità, a espiazione degli orrori commessi in altri tempi

durante l’assedio di Siracusa.2 I Sissizi, in nome del lorodiritto a entrare in possesso dei relitti, pretesero le piùgiovani per venderle; e alcuni nuovi Cartaginesi preseroin moglie delle bionde Lacedemoni.

Alcune si ostinarono a seguire gli eserciti. Correvanosui fianchi dei sintagmi, accanto ai capitani. Chiamavano iloro uomini, li tiravano per il mantello, si battevano ilpetto maledicendoli, e tendevano con le braccia i loropiccoli, nudi e piangenti. Era uno spettacolo checommuoveva i Barbari; quelle donne costituivano unostacolo, un pericolo! Respinte più volte, ritornavanosempre; Mâtho le fece caricare a colpi di lancia daicavalieri di Narr’Havas; e poiché dei Balearici gligridarono che avevano bisogno di donne:

«Io non ne ho!», rispose.Adesso era posseduto dal genio di Moloch. Malgrado

ripugnasse alla sua coscienza, commetteva azionispaventose immaginando di obbedire alla voce di un dio.Quando non poteva devastarli, Mâtho gettava pietre neicampi per renderli sterili.

Con ripetuti messaggi, sollecitava Autarito e Spendioad affrettarsi. Ma le operazioni del suffeta eranoincomprensibili. Si accampò successivamente a Eidus, aMonchar, a Tehent; alcuni esploratori credettero di averloavvistato nei dintorni di Ishiil, vicino alle frontiere diNarr’Havas, e si venne a sapere che aveva attraversato ilfiume sopra Teburba, come per tornare a Cartagine.Appena giungeva in un luogo, subito si spostava in un

altro. Le strade che prendeva restavano sempresconosciute. Senza dare battaglia, il suffeta conservava ilsuo vantaggio; inseguito dai Barbari, sembrava che listesse guidando.

Queste marce e contromarce stancavano ancora di piùi Cartaginesi; e le forze di Amilcare, non venendorinnovate, diminuivano di giorno in giorno. Ora gliabitanti delle campagne gli portavano viveri conmaggiore lentezza. Ovunque notava un’esitazione, unodio taciturno; e malgrado le sue suppliche al GranConsiglio, da Cartagine non giungeva alcun soccorso.

Si diceva (forse si credeva) che non ne avesse bisogno.Si trattava di pretesti o di inutili lamentele; e i sostenitoridi Annone, per meglio ostacolarlo, esageravanol’importanza della sua vittoria. Le truppe che comandavacostituivano già un sacrificio, e non era possibilecontinuare a soddisfare ogni sua richiesta. La guerra eraun impegno pesante! Era costata troppo, e per orgoglio ipatrizi della sua fazione lo appoggiavano tiepidamente.

Allora, non contando sulla Repubblica, Amilcareprelevò con la forza dalle tribù tutto quello che gli servivaper la guerra: grano, olio, legno, bestiame e uomini. Magli abitanti non tardarono a fuggire. I villaggi cheattraversavano erano vuoti, e i soldati frugavano nellecapanne senza trovarvi nulla; ben presto una spaventosasolitudine circondò l’esercito punico.

I Cartaginesi, furiosi, si misero a saccheggiare leprovince; riempivano di terra le cisterne, incendiavano le

case. Le scintille portate dal vento si spargevano lontano,e sulle montagne bruciavano intere foreste; cingevano levalli di una corona di fuochi; per passare oltre, bisognavaaspettare. Poi riprendevano la marcia, in pieno sole, sulleceneri calde.

Talvolta vedevano luccicare in un cespuglio, sul cigliodella strada, qualcosa che somigliava alle pupille di ungatto selvatico. Era un Barbaro accovacciato sui talloni,che si era imbrattato il volto di polvere per confondersicon il colore del fogliame; oppure, quando costeggiavanoun burrone, quelli che si trovavano sulle ali all’improvvisosentivano rotolare delle pietre; e, alzando gli occhi,scorgevano nell’apertura della gola un uomo che saltavaa piedi nudi.

Intanto Utica e Ippozarito erano libere, perché iMercenari non le assediavano più. Amilcare ordinò loro divenirgli in aiuto. Ma, non osando compromettersi, glirisposero parole vaghe, complimenti, scuse.

Risalì improvvisamente verso nord, deciso a entrare inuna delle città tirie, a costo di assediarle. Gli serviva unpunto d’appoggio sulla costa, per potersi procurarerifornimenti e soldati dalle isole o da Cirene, e pensava alporto di Utica, il più vicino a Cartagine.

Il suffeta partì dunque da Zuitin e aggirò con prudenzail lago di Ippozarito. Ma ben presto fu costretto adallungare in colonna i suoi reggimenti per inerpicarsisulla montagna che separa le due vallate. Al tramontostavano scendendo nell’incavo della cima, a forma

d’imbuto, quando scorsero davanti a sé, rasoterra, dellelupe di bronzo che sembrava corressero sull’erba.

D’un tratto apparvero grandi pennacchi, e al ritmo deiflauti esplose un canto terrificante. Era l’esercito diSpendio; infatti dei Campani e dei Greci, in odio aCartagine, avevano preso le insegne di Roma. Nellostesso tempo, sulla sinistra, apparvero lunghe picche,scudi di pelle di leopardo, corazze di lino, spalle nude.Erano gli Iberici di Mâtho, i Balearici, i Getuli; si udirono initriti dei cavalli di Narr’Havas; si sparsero intorno allacollina; poi arrivò la massa tumultuosa che comandavaAutarito; i Galli, i Libici, i Nomadi; e tra loro siriconoscevano i Mangiatori-di-cose-immonde dalle lischedi pesce che portavano tra i capelli.

Così i Barbari, combinando con esattezza i loropercorsi, si erano ricongiunti. Ma, stupiti essi stessi,rimasero per qualche minuto immobili, a consultarsi.

Il suffeta aveva compattato i suoi uomini in una massacircolare, in modo da offrire in ogni punto la stessaresistenza. Gli alti scudi a punta, conficcati nel terrenoerboso gli uni accanto agli altri, circondavano la fanteria.I Clinabari stavano fuori dal cerchio, e più avanti, inordine sparso, gli elefanti. I Mercenari erano sfiniti; erameglio aspettare il giorno; e, certi della vittoria, i Barbaripassarono la notte a mangiare.

Avevano acceso grandi fuochi luminosi che,abbagliandoli, lasciavano in ombra l’esercito punico sottodi loro. Amilcare fece scavare intorno al suo campo,

come i Romani, un fossato largo quindici passi, profondodieci cubiti; con la terra di scavo fece alzare all’interno unparapetto sul quale furono piantati pali aguzzi ches’incrociavano, e all’alba i Mercenari videro con immensostupore i Cartaginesi trincerati come in una fortezza.

Riconoscevano in mezzo alle tende Amilcare, checamminava distribuendo ordini. Aveva il corpo stretto inuna corazza bruna, intagliata a piccole squame; seguitodal cavallo, di tanto in tanto si fermava per indicarequalcosa col braccio destro.

Allora più d’uno si ricordò mattinate simili quando, tragli squilli di tromba, li passava lentamente in rassegna e isuoi sguardi li rafforzavano come coppe di vino. Furonopresi da una sorta di commozione. Coloro invece che nonconoscevano Amilcare deliravano per la gioia di averlo inpugno.

Tuttavia, se tutti avessero attaccatocontemporaneamente, si sarebbero danneggiati a vicendain uno spazio troppo stretto. I Numidi potevano attaccaredi traverso, ma i Clinabari protetti dalle corazze liavrebbero sopraffatti; e poi, come superare le palizzate?Quanto agli elefanti, non erano sufficientementeaddestrati.

«Siete tutti dei codardi!», gridò Mâtho.E, con i migliori, si precipitò contro il trinceramento.

Una scarica di pietre li ricacciò indietro; infatti il suffetaaveva preso le catapulte che essi avevano abbandonatosul ponte.

Questo insuccesso fece mutare di colpo l’umorevolubile dei Barbari. L’irruenza scomparve; volevanovincere, ma rischiando il meno possibile. SecondoSpendio, bisognava tenere la posizione e affamarel’esercito punico. Ma i Cartaginesi si misero a scavarepozzi; la collina era circondata da montagne: trovaronol’acqua.

Dall’alto della palizzata lanciavano frecce, terra, letame,sassi che strappavano al terreno, mentre le sei catapulterotolavano senza sosta per tutta la lunghezza delterrapieno.

Ma le sorgenti si sarebbero esaurite; i viveri sarebberofiniti, le catapulte si sarebbero consumate; i Mercenari,dieci volte più numerosi, avrebbero finito per trionfare. Ilsuffeta pensò a un negoziato per prendere tempo, e unamattina i Barbari trovarono tra le loro linee una pelle dimontone coperta di scrittura. Si giustificava per la suavittoria: gli Anziani l’avevano costretto alla guerra, e perdar loro una prova che manteneva la propria parola, glioffriva il saccheggio di Utica o quello di Ippozarito, a loroscelta; concludendo, dichiarava di non temerli, perchéaveva dalla sua dei traditori e, grazie a loro, avrebbeavuto facilmente ragione di tutti gli altri.

I Barbari rimasero turbati: quella proposta di unbottino immediato li faceva sognare; e poi temevano untradimento, non sospettando una trappola nellamillanteria del suffeta; cominciarono a guardarsi l’unl’altro con diffidenza. Stavano attenti alle parole, ai gesti;

di notte si svegliavano terrorizzati. Molti abbandonavano ipropri compagni, e si sceglievano un altro esercito acausa delle proprie fantasie; così i Galli di Autaritoandarono a unirsi agli uomini della Cisalpina dei qualicapivano la lingua.

I quattro capi si riunivano tutte le sere nella tenda diMâtho, e, accovacciati intorno a uno scudo, spostavanoavanti e indietro, con grande attenzione, le piccolefigurine di legno inventate da Pirro per riprodurre lemanovre militari. Spendio mostrava le risorse diAmilcare; supplicava di non sprecare l’occasione, giuravasu tutti gli dèi. Mâtho, irritato, andava su e giùgesticolando. La guerra contro Cartagine era un suoaffare personale; lo indignava che gli altri se neimmischiassero senza volergli obbedire. Autarito neindovinava le parole dall’espressione del viso, eapplaudiva; Narr’Havas sollevava il mento in segno didisprezzo; non c’era una decisione che non giudicassefunesta; e non sorrideva più. Sospirava come serespingesse dentro di sé il dolore per un sognoimpossibile, la disperazione per un’impresa mancata.

Mentre i Barbari, incerti, deliberavano, il suffetaincrementava le proprie difese: fece scavare al di quadelle palizzate un secondo fossato, alzare un secondoterrapieno, costruire torri di legno agli angoli; e i suoischiavi si spingevano tra gli avamposti a nasconderetrappole nel terreno. Ma gli elefanti, le cui razioni eranodiminuite, si dibattevano tra le loro catene. Perrisparmiare l’erba, ordinò ai Clinabari di uccidere gli

risparmiare l’erba, ordinò ai Clinabari di uccidere glistalloni meno robusti. A lcuni si rifiutarono; li fecedecapitare. Furono mangiati i cavalli. Il ricordo di quellacarne fresca, nei giorni seguenti, fu una grande tristezza.

Dal fondo dell’anfiteatro in cui si trovavano rinchiusivedevano intorno a sé, sulle alture, i quattroaccampamenti dei Barbari in piena agitazione. Vicircolavano donne con otri sulla testa, vi erravano caprebelanti tra i fasci di picche; si cambiavano le sentinelle, simangiava intorno ai tripodi. Infatti le tribù fornivanoviveri in abbondanza, e non sospettavano neppurequanto la loro inattività atterrisse l’esercito punico.

Fin dal secondo giorno, i Cartaginesi avevano notatonel campo dei Nomadi un gruppo di trecento uomini indisparte. Erano i Ricchi tenuti prigionieri fin dall’iniziodella guerra. I Libici li schierarono tutti sul bordo delfossato e, appostati dietro di loro, lanciavano giavellottifacendosi scudo dei loro corpi. Quei disgraziati eranoquasi irriconoscibili, tanto il loro volto era coperto diparassiti e sporcizia. I capelli strappati a chiazzemettevano a nudo le piaghe della testa, ed eranotalmente magri e ripugnanti che sembravano mummie insudari bucati. A lcuni, tremanti, singhiozzavano con ariaebete; altri gridavano ai loro amici di tirare sui Barbari.Ce n’era uno, immobile, la fronte china, che non parlava;la grande barba bianca gli scendeva fino alle manicoperte di catene; e i Cartaginesi, quasi sentendo infondo al cuore il crollo della Repubblica, riconoscevanoGiscone. Benché il luogo fosse pericoloso, si spingevano

per vederlo. Gli avevano messo in testa una tiaragrottesca, in cuoio d’ippopotamo, tempestata di ciottoli.Era una fantasia di Autarito; ma non piaceva a Mâtho.

Amilcare esasperato fece aprire le palizzate, deciso adaprirsi un varco in qualunque modo; e con impetofurioso i Cartaginesi salirono fino a metà costa, pertrecento passi. Scese una tale ondata di Barbari che tuttifurono ricacciati sulle loro linee. Una guardia dellaLegione, rimasta fuori, barcollava tra le pietre. Zarxas siprecipitò e, dopo averla atterrata, le affondò un pugnalenella gola; poi lo estrasse, si gettò sulla ferita e,incollandovi la bocca, con grugniti di gioia e soprassaltiche lo scuotevano fino ai talloni, pompava il sangue contutta la sua forza; poi sedette tranquillo sul cadavere, alzòil viso rovesciando il collo all’indietro per respiraremeglio, come fa una cerva che abbia appena bevuto inun torrente, e, con voce acuta, intonò una canzone deiBalearici, una strana melodia piena di modulazioniprolungate, che s’interrompevano, si alternavano, comeechi che si rispondano tra le montagne; chiamava i suoifratelli morti e li invitava a un banchetto; poi lasciòricadere le mani tra le gambe, abbassò lentamente latesta, e pianse. Questa scena atroce fece inorridire iBarbari, soprattutto i Greci.

A partire da quel momento, i Cartaginesi nontentarono altre sortite; e non pensavano neppure adarrendersi, certi com’erano di perire tra i supplizi.

Nel frattempo i viveri, malgrado i provvedimenti di

Amilcare, diminuivano paurosamente. Per ogni uomonon restavano più che dieci k’kommer di grano, tre hin dimiglio e dodici betza3 di frutta secca. Niente più carne, néolio, né cibi sotto sale, non un chicco d’orzo per i cavalliche si vedevano chinare il collo smagrito per cercare nellapolvere qualche filo di paglia calpestato. Spesso lesentinelle di guardia sul terrapieno scorgevano, al chiarodi luna, un cane dei Barbari che veniva ad aggirarsi sottoil trinceramento, tra i mucchi d’immondizia; loabbattevano a sassate, e, aiutandosi con le cinghie delloscudo, si calavano lungo le palizzate, poi se lomangiavano in silenzio. Talvolta scoppiavano orribililatrati, e l’uomo non risaliva. Nella quarta dilochia deldodicesimo sintagma, tre falangiti che si contendevanoun topo si ammazzarono a coltellate.

Tutti rimpiangevano le loro famiglie, le loro case: ipoveri, le loro capanne a forma di alveare, con qualcheconchiglia sulla soglia, una rete sospesa; i patrizi, legrandi sale immerse in tenebre bluastre quando, nell’orapiù indolente del giorno, si riposavano ascoltando il vagorumore delle strade unito allo stormire delle foglie mossedal vento nei giardini; e, per meglio calarsi in questopensiero, per goderne di più, socchiudevano le palpebre;li risvegliava il dolore acuto di una ferita. In ognimomento c’era uno scontro, un nuovo allarme; le torribruciavano, i Mangiatori-di-cose-immonde saltavano sullepalizzate; si mozzavano loro le mani a colpi d’ascia; altriaccorrevano; una pioggia di ferro si abbatteva sulle

tende. Si costruirono gallerie con giunchi intrecciati perproteggersi dai proiettili. I Cartaginesi vi si chiuserodentro; non si muovevano più.

Ogni giorno il sole che girava sulla collinaabbandonava, fin dalle prime ore, il fondo della gola e lilasciava nell’ombra. Davanti e dietro, salivano i pendiigrigi del terreno, coperti di ciottoli chiazzati di un radolichene, e, sulle loro teste, il cielo, continuamentelimpido, si stendeva più liscio e freddo di una cupola dimetallo. Amilcare era così indignato con Cartagine daaver voglia di unirsi ai Barbari per guidarli contro di lei.Anche i portatori, i vivandieri, gli schiavi cominciavano amormorare, e né il popolo, né il Gran Consiglio, nessunoinviava neppure una speranza. La situazione eraintollerabile, soprattutto al pensiero che sarebbepeggiorata.

Alla notizia del disastro, Cartagine aveva avuto unsoprassalto di collera e di odio; se il suffeta si fosselasciato vincere fin dall’inizio, lo avrebbero esecratomeno.

Ma per assoldare altri Mercenari mancava il tempo,mancava il denaro. Quanto ad arruolare soldati in città,come equipaggiarli? Amilcare si era preso tutte le armi! Echi poi li avrebbe comandati? I migliori capitani eranolaggiù con lui! Intanto, uomini inviati dal suffeta siaggiravano per le strade, gridavano. Il Gran Consiglio sene inquietò, e fece in modo di farli sparire.

Era una precauzione inutile; tutti accusavano Barca diessersi comportato con fiacchezza. Avrebbe dovutoannientare i Mercenari subito dopo la vittoria. Perchéaveva saccheggiato le tribù? Eppure si erano impostisacrifici assai pesanti! E i patrizi deploravano il lorocontributo di quattordici shekel, i Sissizi i loroduecentoventitremila kikar d’oro; coloro che non avevanodato nulla recriminavano come gli altri. La plebaglia eragelosa dei nuovi Cartaginesi ai quali aveva promesso ilpieno diritto di cittadinanza; e perfino i Liguri, che sierano battuti con tanto valore, venivano confusi con iBarbari, venivano maledetti come loro; appartenere allaloro razza diventava un delitto, una complicità. Icommercianti sulla soglia delle botteghe, i manovali chepassavano con un regolo di piombo in mano, i venditoridi salamoia che sciacquavano i recipienti, i bagnanti nellestufe e i venditori di bevande calde, tutti avevanoqualcosa da dire sulle operazioni militari. Con un ditonella polvere si tracciavano piani di battaglia; e il piùinfimo sguattero sapeva correggere gli errori di Amilcare.

Era, dicevano i sacerdoti, la punizione della suaprolungata empietà. Non aveva offerto olocausti; nonaveva potuto purificare le truppe; aveva perfino rifiutatodi portare con sé gli àuguri; e lo scandalo del sacrilegiorafforzava la violenza dell’odio represso, la rabbia dellesperanze tradite. Si ricordavano i disastri della Sicilia, ilpesante fardello del suo orgoglio che avevano portato pertanto tempo! I collegi dei pontefici non gli perdonavanodi essersi impossessato del loro tesoro, e pretesero dal

Gran Consiglio l’impegno di crocifiggerlo, se mai fossetornato.

La calura del mese di Elul,4 eccessiva quell’anno, eraun’altra calamità. Dalle rive del lago salivano odorinauseabondi; attraversavano l’aria insieme con i fumidegli aromi che volteggiavano agli angoli delle strade. Siudivano continuamente risuonare inni. Fiumi di popolooccupavano i gradini dei templi: tutti i muri erano copertidi veli neri; dei ceri bruciavano davanti agli dèi Pateci, e ilsangue dei cammelli sgozzati nei sacrifici, colando lungole rampe di scale, formava sui gradini rosse cascate. Unfunebre delirio agitava Cartagine. Dal fondo delle viuzzepiù strette, dai più neri tuguri, sbucavano figure smunte,uomini dal profilo di vipera, che digrignavano i denti. Legrida acute delle donne riempivano le case, e, uscendodalle grate delle finestre, facevano voltare coloro chediscutevano in piedi nelle piazze. Talvolta si credeva che iBarbari stessero arrivando; erano stati visti dietro laMontagna delle Acque Calde; si erano accampati aTunisi; e le voci si moltiplicavano, si ingrandivano, siconfondevano in un unico clamore. Poi si ristabiliva unsilenzio generale, e alcuni restavano aggrappati sulfrontone degli edifici, con la mano aperta sopra gli occhi,mentre altri, ventre a terra sotto i bastioni, tendevanol’orecchio. Passato il terrore, ricominciava la collera. Ma laconvinzione della loro impotenza li precipitava di nuovonella solita tristezza.

E questa aumentava ogni sera quando tutti, saliti sulle

terrazze, si inchinavano per nove volte e lanciavano unalto grido per salutare il Sole. Scendeva lentamentedietro la laguna, e di colpo spariva tra le montagne, dallaparte dei Barbari.

Si attendeva la festa tre volte santa in cui, dall’alto diun rogo, un’aquila si alzava in volo verso il cielo, simbolodella resurrezione dell’anno, messaggio del popolo al suoBaal supremo, e che considerava una sorta di unione, unmodo di entrare in contatto con la forza del Sole. Delresto, ora pieno di odio, il popolo si rivolgevaistintivamente a Moloch-Omicida, e tutti abbandonavanoTanit. In effetti la Rabbetna, non avendo più il suo velo,era come privata di una parte della sua virtù; negava ilbeneficio delle sue acque, aveva abbandonato Cartagine;era una transfuga, una nemica. Alcuni, per oltraggiarla,le gettavano pietre. Ma, pur ingiuriandola, lacompiangevano; la amavano ancora, e forse piùprofondamente.

Tutte le sciagure derivavano dunque dalla perdita dellozaimf. Salammbô vi aveva partecipato indirettamente;veniva coinvolta nello stesso rancore; doveva esserepunita. Presto circolò nel popolo la vaga idea di unsacrificio. Per placare i Baalim, bisognava senza dubbiooffrire loro qualcosa di un valore incalcolabile, unacreatura bella, giovane, vergine, di antica famiglia,discendente degli dèi, un astro umano. Ogni giorno deglisconosciuti invadevano i giardini di Megara; gli schiavi,tremando per la propria vita, non osavano opporreresistenza. Tuttavia non oltrepassavano la scalinata delle

resistenza. Tuttavia non oltrepassavano la scalinata dellegalee. Restavano in basso, con gli occhi rivolti allaterrazza più alta; aspettavano Salammbô, e per lungheore gridavano contro di lei, come cani che abbaiano allaluna.

X

Il serpente

Quei clamori della plebaglia non spaventavano la figlia diAmilcare.

Era turbata da inquietudini ben più elevate: il suogrande serpente, il Pitone nero, languiva; e il serpenteera per i Cartaginesi un feticcio nazionale e privato nellostesso tempo. Lo si credeva figlio del limo della terra,poiché emerge dalle sue profondità e non ha bisogno dipiedi per percorrerla; il suo incedere ricordava lesinuosità dei fiumi; la sua temperatura, le antiche tenebreviscide e feconde; e il cerchio che descrive mordendosi lacoda, l’insieme dei pianeti, l’intelligenza di Eshmun.

Quello di Salammbô aveva già rifiutato molte volte iquattro passeri vivi che gli venivano offerti al plenilunio ea ogni luna nuova. La sua bella pelle, disseminata come ilfirmamento di macchie d’oro su un fondo nero, adessoera gialla, flaccida, grinzosa e troppo larga per il suocorpo; una muffa lanuginosa gli avvolgeva la testa; e

all’angolo delle palpebre si scorgevano dei puntini rossiche sembravano in movimento. Di tanto in tanto,Salammbô si avvicinava alla sua cesta di filo d’argento;scostava la cortina di porpora, le foglie di loto, le piumed’uccello; era sempre arrotolato su se stesso, piùimmobile di una liana avvizzita; e, a forza di guardarlo,finiva per sentire nel proprio cuore un sorta di spirale,come un altro serpente che a poco a poco le salisse allagola e la strangolasse.

Salammbô era disperata per aver visto lo zaimf, etuttavia ne provava una specie di gioia, un intimoorgoglio. Un mistero si celava nello splendore delle suepieghe; era la nube che avvolge gli dèi, il segretodell’esistenza universale, e Salammbô, inorridita di sestessa, rimpiangeva di non averlo sollevato.

Se ne stava quasi sempre rannicchiata in fondo allasua stanza, con le mani incrociate sulla gamba sinistraripiegata, la bocca socchiusa, il mento sul petto e losguardo fisso. Ricordava con spavento il volto di suopadre; avrebbe voluto andarsene tra i monti della Fenicia,in pellegrinaggio al tempio di Afaka,1 dove Tanit è scesain forma di stella; fantasie di ogni genere l’attraevano,l’atterrivano; del resto era circondata da una solitudineogni giorno più profonda. Non sapeva neppure cosastesse accadendo ad Amilcare.

Infine, stanca dei suoi pensieri, si alzava, e,trascinando i piccoli sandali la cui suola a ogni passoschioccava contro i talloni, si aggirava per la grande

stanza silenziosa. Le ametiste e i topazi del soffittofacevano tremare qua e là chiazze luminose, eSalammbô, mentre camminava, volgeva un po’ la testaper guardarle. Poi andava a prendere, per l’imboccatura,una delle anfore sospese; si rinfrescava il petto con larghiventagli, oppure si divertiva a bruciare del cinnamomodentro perle cave. Al tramonto, Taanach toglieva lelosanghe di feltro nero che chiudevano le aperture dellaparete; allora le sue colombe, odorose di muschio comele colombe di Tanit, entravano all’improvviso, e le lorozampe rosa scivolavano sulle lastre di vetro tra i chicchid’orzo che Salammbô distribuiva a piene mani, come unseminatore in un campo. Ma d’un tratto scoppiava insinghiozzi, e restava sdraiata sul grande letto appeso acorregge di bue, immobile, ripetendo sempre una stessaparola, a occhi aperti, pallida come una morta,insensibile, fredda; e intanto udiva le strida delle scimmienei ciuffi di palme, con il continuo cigolio della granderuota che di piano in piano portava un fiotto di acquapura nella vasca di porfiro.

Talvolta rifiutava il cibo, per molti giorni. Vedeva insogno astri inquietanti che passavano sotto i suoi piedi.A llora chiamava Shahabarim e, quando arrivava, nonaveva più niente da dirgli.

Non poteva vivere senza il sollievo della sua presenza.Ma intimamente si ribellava al potere che aveva su di lei;nei confronti del sacerdote sentiva nello stesso tempoterrore, gelosia, odio e una specie di amore, comericonoscimento per la singolare voluttà che provava

riconoscimento per la singolare voluttà che provavaaccanto a lui.

Shahabarim aveva riconosciuto l’influsso della Rabbet,abile com’era nel distinguere gli dèi dai quali provenivanole malattie; per guarire Salammbô, faceva spruzzare lasua stanza con lozioni di verbena e adianto;2 ognimattina le faceva mangiare delle mandragore;3 la facevadormire con la testa sopra un sacchetto di aromipreparati dai pontefici; aveva usato perfino il baaras,4

radice color del fuoco che respinge verso settentrione glispiriti malefici; infine, voltandosi verso la stella polare,mormorò tre volte il nome misterioso di Tanit; maSalammbô continuava a soffrire, le sue angoscediventarono più profonde.

Nessuno a Cartagine era più sapiente di lui. Ingioventù aveva studiato nel collegio dei Mogbed, aBorsippa, vicino a Babilonia; poi aveva visitatoSamotracia, Pessinunte, Efeso, la Tessaglia, la Giudea, itempli dei Nabatei sperduti tra le sabbie; e, dalle cataratteal mare, aveva percorso a piedi le rive del Nilo. Col voltocoperto da un velo, e agitando delle fiaccole, avevagettato un gallo nero in un fuoco di sandracca,5 davantial petto della Sfinge, la madre del terrore. Era sceso nellecaverne di Proserpina; aveva visto girare le cinquecentocolonne del labirinto di Lemno e risplendere il candelabrodi Taranto che regge sullo stelo tanti lampadari quantisono i giorni dell’anno; la notte, talvolta, riceveva deiGreci per porre loro delle domande. La struttura delmondo lo preoccupava non meno della natura degli dèi;

con le armille installate nel portico di A lessandria avevapotuto osservare gli equinozi, e aveva accompagnato finoa Cirene i bematisti6 di Evergete che misurano il cielocontando il numero dei propri passi; così, adesso,maturava nella sua mente una religione particolare, senzaformule precise, e, proprio per questo, piena di vertiginie di ardori. Non credeva più che la terra fosse fatta comeuna pigna; credeva che fosse rotonda, e che precipitasseeternamente nell’immensità con una velocità talmenteprodigiosa da non lasciarne percepire la caduta.

Dalla posizione del sole al di sopra della luna, traeva laconclusione di un predominio di Baal, di cui l’astro non èche il riflesso e l’immagine; del resto, tutto quello chevedeva nella realtà terrestre lo costringeva a riconoscerecome supremo il principio maschile sterminatore. Inoltre,in cuor suo imputava alla Rabbet la sventura della suavita. Non era forse per causa sua che in un tempolontano il gran pontefice, avanzando nel tumulto deicembali, gli aveva preso sotto una patera d’acquabollente la sua futura virilità? E seguiva con occhiomalinconico gli uomini che si perdevano con lesacerdotesse nel folto dei terebinti.

I suoi giorni trascorrevano nelle ispezioni ai turiboli, aivasi d’oro, alle molle, ai rastrelli per le ceneri dell’altare ea tutti gli addobbi delle statue fino allo spillone di bronzoche serviva ad arricciare i capelli di una vecchia Tanit,nella terza edicola, vicino alla vite di smeraldo. Semprealle stesse ore, sollevava i grandi tendaggi delle stesse

porte per poi lasciarli ricadere; restava a braccia apertenella stessa posizione; pregava prostrato sullo stessopavimento, mentre intorno a lui un popolo di preticircolava a piedi nudi nei corridoi immerso in un eternocrepuscolo.

Ma sull’aridità della sua vita Salammbô splendevacome un fiore nella crepa di un sepolcro. Tuttavia eraduro con lei, né le risparmiava penitenze e parole amare.La sua condizione stabiliva tra loro quasi l’eguaglianza diun sesso comune, ed egli provava per la vergine un certorancore dovuto non tanto al fatto di non poterlapossedere quanto a quello di vederla così bella esoprattutto così pura. Spesso si rendeva conto che lei siaffaticava a seguire il suo pensiero. Allora se ne tornavavia più triste; si sentiva più abbandonato, più solo, piùvuoto.

Talvolta gli sfuggivano delle parole strane, chepassavano davanti a Salammbô come grandi lampi cheilluminano gli abissi. Accadeva la notte, sulla terrazza,quando, soli, guardavano le stelle, e Cartagine sistendeva in basso, ai loro piedi, col golfo e il mare apertovagamente confusi nel colore delle tenebre.

Le esponeva la teoria delle anime che scendono sullaterra, seguendo la stessa strada del Sole attraverso isegni dello zodiaco. Col braccio teso, indicava nell’Arietela porta della generazione umana, nel Capricorno quelladel ritorno agli dèi; e Salammbô si sforzava di vederle,considerando realtà quelle immagini; infatti accettava

come veri in sé dei puri simboli e perfino certi modi didire; queste distinzioni non erano molto precise neppureper il prete.

«Le anime dei morti», diceva, «si dissolvono nella lunacome i cadaveri nella terra. Le loro lacrime costituisconola sua umidità; è un soggiorno oscuro pieno di fango, didetriti e di tempeste».

Salammbô chiese cosa ne sarebbe stato di lei.«All’inizio languirai, leggera come un vapore che

fluttua sulle onde; e dopo alcune prove e angosce piùlunghe, te ne andrai al focolare del Sole, alla sorgentestessa dell’Intelligenza!».

Ma non parlava mai della Rabbet. Salammbô pensavache lo facesse per pudore nei confronti della sua deaumiliata, e chiamandola con un nome che indicavacomunemente la luna, si diffondeva in benedizionisull’astro fertile e dolce. Alla fine esclamò:

«No! No! È dall’altro che prende tutta la sua fertilità!Ma non vedi che gli gira intorno come una donnainnamorata che corre dietro a un uomo in un campo?».

Ed esaltava continuamente la virtù della luce.Non reprimeva affatto i suoi desideri mistici, anzi li

stimolava, e sembrava godesse a tormentarla con lerivelazioni di una dottrina spietata. Salammbô, malgradole sofferenze del suo amore, accoglieva avidamentequelle parole.

Ma più Shahabarim dubitava di Tanit, più volevacrederci. Lo tratteneva un rimorso nel profondo

dell’anima. Avrebbe avuto bisogno di una prova, di unamanifestazione divina, e nella speranza di ottenerla ilsacerdote immaginò un’impresa che avrebbe potutosalvare nello stesso tempo la sua patria e la sua fede.

Da quel momento si mise a deplorare davanti aSalammbô il sacrilegio e le sciagure che ne derivavano finnelle regioni celesti. Poi, d’un tratto, le rivelò il pericoloche correva il suffeta, assalito da tre eserciti comandati daMâtho; perché a causa del velo i Cartaginesiconsideravano Mâtho il re dei Barbari. E aggiunse che lasalvezza della Repubblica e di suo padre dipendevanosoltanto da lei.

«Da me!», esclamò lei. «Come potrei...?».Ma il prete, con un sorriso sprezzante:«Non acconsentirai mai!».Lei lo supplicava. Finalmente Shahabarim gli disse:«Bisogna che tu vada al campo dei Barbari, a

riprendere lo zaimf!».Salammbô si lasciò cadere sullo sgabello di ebano;

restava con le braccia abbandonate tra le ginocchia, e untremito in tutto il corpo, come una vittima ai piedidell’altare mentre attende il colpo di mazza. Le ronzavanole tempie, vedeva roteare cerchi di fuoco, e, nel suostupore, capiva soltanto una cosa: che certamente stavaper morire.

Ma se Rabbet trionfava, se lo zaimf veniva restituito eCartagine liberata, che importanza poteva avere la vita diuna donna! – pensava Shahabarim. Poteva anche

accadere che riuscisse a ottenere il velo senza perdere lavita.

Per tre giorni non tornò; la sera del quarto, lei lomandò a chiamare.

Per meglio infiammarle il cuore, Shahabarim le riferivatutte le invettive urlate contro Amilcare in pienoConsiglio; le diceva che sua era la colpa, che dovevariparare e che la Rabbet ordinava quel sacrificio.

Spesso un grande clamore, percorrendo la via deiMappali, giungeva fino a Megara. Shahabarim eSalammbô uscivano subito a guardare dall’alto dellascalinata delle galee.

Erano uomini sulla piazza di Khamon, che gridavanoper avere armi. Gli Anziani non volevano dargliene,considerandolo uno sforzo inutile; altri che erano partitisenza generali, erano stati massacrati. Finalmente ebberoil permesso di andare e, per una sorta di omaggio aMoloch o per un vago istinto di distruzione, svelsero neiboschi dei templi grandi cipressi, e, avendoli accesi con letorce dei Cabiri, li portavano per le strade cantando.Quelle fiamme mostruose avanzavano, ondeggiandolentamente; mandavano bagliori sui globi di vetro chesormontavano i templi, sugli ornamenti dei colossi, suirostri delle navi; superavano in altezza le terrazze dellecase e sembravano dei soli che roteassero per la città.Scesero l’Acropoli. La porta di Malqua si aprì.

«Sei pronta?», gridò Shahabarim. «O hai detto loro difar sapere a tuo padre che vuoi abbandonarlo?».

Salammbô si nascose il viso nei veli, mentre i grandibagliori si allontanarono, abbassandosi a poco a pocofino alla riva del mare.

La tratteneva una paura confusa, aveva paura diMoloch, paura di Mâtho. Quell’uomo dalla staturagigantesca, che era padrone dello zaimf, dominava sia laRabbet che il Baal, e lo vedeva avvolto dagli stessifulgori; l’anima degli dèi visitava talvolta i corpi degliuomini. Shaharabim, quando parlava di lui, non le dicevaforse che avrebbe dovuto sconfiggere Moloch? L’uno el’altro si confondevano insieme nella sua mente; entrambila perseguitavano.

Volle conoscere il futuro e si avvicinò al serpente,poiché si traevano auspici dal comportamento deiserpenti. Ma la cesta era vuota; Salammbô ne rimaseturbata.

Lo trovò arrotolato per la coda a una colonninad’argento, vicino al letto sospeso; vi si sfregava perliberarsi della vecchia pelle giallastra, mentre il corporilucente e chiaro si allungava come una spada estrattadal fodero per metà.

Nei giorni seguenti, a mano a mano che Salammbô silasciava convincere ed era sempre più disposta ad aiutareTanit, il pitone guariva, ingrossava, sembrava rivivere.

Allora la certezza che Shahabarim esprimesse lavolontà degli dèi si stabilì nella sua coscienza. Unamattina si svegliò determinata, e chiese cosa doveva fareperché Mâtho le restituisse il velo.

«Chiederlo», disse Shahabarim.«Ma se rifiuta?».Il sacerdote la guardò fisso, e con un sorriso che lei

non aveva mai visto.«Sì, come fare?».Arrotolava tra le dita l’estremità delle bende che dalla

tiara gli scendevano sulle spalle, con gli occhi bassi,immobile. Poi, vedendo che lei non capiva:

«Sarai sola con lui».«E poi?»«Sola nella sua tenda».«E allora?».Shahabarim si morse le labbra. Cercava una frase, un

giro di parole.«Se devi morire, avverrà più tardi», disse, «più tardi!

Non temere! E qualunque cosa faccia, non chiamare! Nonaver paura! Dovrai essere umile, capisci? E sottomessa alsuo desiderio, che è l’ordine del cielo!».

«Ma il velo?»«Ci penseranno gli dèi», rispose Shahabarim.Salammbô aggiunse:«Se tu mi accompagnassi, padre?»«No!».La fece inginocchiare e, con la mano sinistra alzata e la

destra protesa, giurò per lei di riportare a Cartagine ilmanto di Tanit. Consacrandosi agli dèi con terribiliimprecazioni, Salammbô ripeteva ogni parola pronunciatada Shahabarim, e si sentiva svenire.

Le indicò tutte le purificazioni, i digiuni che dovevafare e in che modo giungere fino a Mâtho. Del restol’avrebbe accompagnata un uomo pratico delle strade.

Si sentì sollevata. Non pensava più ad altro che allagioia di rivedere lo zaimf, e ora benediceva Shahabarimper le sue esortazioni.

Era il periodo in cui le colombe di Cartagineemigravano in Sicilia, sulla montagna di Erice, intorno altempio di Venere. Prima della partenza, per molti giorni,si cercavano, si chiamavano per riunirsi; finalmente unasera spiccarono il volo; il vento le spingeva, e quellagrande nube bianca si librava nel cielo, sopra il mare,altissima.

L’orizzonte era color sangue. Sembravano scenderelentamente verso i flutti, poi d’un tratto sparirono comeinghiottite, precipitate nella gola del sole. Salammbô, chele guardava allontanarsi, chinò la testa, e Taanach,credendo d’indovinare la sua tristezza, le dissedolcemente:

«Ma ritorneranno, padrona».«Sì! Lo so».«E tu le rivedrai».«Forse!», disse sospirando.Non aveva confidato a nessuno la sua decisione; per

attuarla con maggiore segretezza, mandò Taanach(invece di chiederlo agli intendenti) ad acquistare nelsobborgo di Kinisdo tutto quello che le serviva: cinabro,aromi, una cintura di lino e vesti nuove. La vecchia

schiava era stupita per quei preparativi, ma non osavafare domande; e arrivò il giorno, scelto da Shahabarim,in cui Salammbô doveva partire.

Verso la dodicesima ora, scorse in fondo ai sicomoriun vecchio cieco, che aveva una mano appoggiata sullaspalla di un ragazzo che lo precedeva, e con l’altrareggeva contro l’anca una specie di cetra di legno nero.Gli eunuchi, gli schiavi e le donne erano stati allontanaticon cura, perché nessuno doveva sapere cosa si stavamisteriosamente preparando.

Taanach accese, agli angoli della stanza, quattrotripodi pieni di strobo e cardamomo;7 poi dispiegò certigrandi tendaggi babilonesi e li stese su delle corde,tutt’intorno alla stanza: Salammbô non voleva esserevista, neppure dai muri. Il suonatore di kinnor8 se nestava accovacciato dietro la porta, mentre il ragazzo, inpiedi, appoggiava alle labbra un flauto di canne. Lontanosi affievoliva il clamore delle strade, ombre violette siallungavano davanti al peristilio dei templi, e, dall’altrolato del golfo, le falde delle montagne, i campi di olivi e igialli terreni in abbandono, ondeggiando indefinitamentesi confondevano in un vapore bluastro; non si udivaalcun rumore, un’oppressione indicibile pesava nell’aria.

Salammbô sedette sul gradino di onice, sul bordo dellavasca; rialzò le ampie maniche che fissò dietro le spalle ecominciò le abluzioni, metodicamente, secondo i ritisacri.

Infine Taanach le portò una fiala di alabastro che

conteneva un liquido in parte coagulato; era il sangue diun cane nero, sgozzato da donne sterili in una notted’inverno tra le rovine di un sepolcro. Se ne sfregò leorecchie, i talloni, il pollice della mano destra, e le restòun po’ di rosso sull’unghia come se avesse schiacciato unfrutto.

Sorse la luna; allora la cetra e il flauto si misero asuonare insieme.

Salammbô si sfilò gli orecchini, la collana, ibraccialetti, la lunga zimarra bianca; sciolse la fascia chele cingeva i capelli, e per qualche minuto li scosse sullespalle, piano, per rinfrescarsi mentre si spargevano. Fuorila musica continuava; erano tre note, sempre le stesse,concitate, furiose; le corde stridevano, il flauto gemeva;Taanach segnava il tempo battendo le mani; Salammbô,ondeggiando con tutto il corpo, salmodiava preghiere ele vesti, una dopo l’altra, le scivolavano ai piedi.

Il pesante tendaggio tremò, e sopra la corda che loreggeva apparve la testa del pitone. Scese lentamente,come una goccia d’acqua che coli lungo un muro, strisciòtra le vesti sparse, poi, con la coda incollata a terra, sirizzò di colpo; e i suoi occhi, più brillanti di duecarbonchi, fissavano Salammbô.

L’orrore del freddo o il pudore, forse, all’inizio lafecero esitare. Ma ricordò gli ordini di Shahabarim, si feceavanti; il pitone si piegò e appoggiandole sulla nuca ilcentro del corpo, lasciava penzolare la testa e la codacome una collana spezzata i cui due capi scendessero fino

a terra. Salammbô se lo avvolse intorno ai fianchi, sottole braccia, tra le ginocchia; poi, tenendolo per lamascella, avvicinò quelle piccole fauci triangolari allapropria bocca e, socchiudendo gli occhi, si rovesciò sottoi raggi della luna. La bianca luce sembrava avvolgerla inuna nebbia d’argento, le orme dei suoi passi umidibrillavano sul pavimento, riflessi di stelle palpitavanonell’acqua profonda; il serpente stringeva intorno a lei lenere spire tigrate di macchie d’oro. Salammbô ansimavasotto quel grave peso, inarcava le reni, si sentiva morire;e la cima della coda le batteva sulla coscia piano piano;poi la musica tacque, e il serpente ricadde a terra.

Taanach le tornò accanto; e quando ebbe sistematodue candelabri le cui fiamme ardevano dentro globi dicristallo pieni d’acqua, le tinse di lausonia il palmo dellemani, le passò del cinabro sulle guance, dell’antimoniosull’orlo delle palpebre, e le allungò le sopracciglia conuna mistura di gomma, muschio, ebano e zampe dimosca schiacciate.

Salammbô, seduta su una sedia dai braccioli d’avorio,si abbandonava alle cure della schiava. Ma quei contatti,l’odore degli aromi e i digiuni cui si era sottoposta, lainnervosivano. Diventò così pallida che Taanach si fermò.

«Continua!», disse Salammbô e, irrigidendosi per farsiforza, si rianimò di colpo. Allora fu presa dall’impazienza;ora incitava Taanach a fare in fretta, e la vecchia schiavaborbottando:

«Va bene! Va bene! Padrona!... Non c’è mica nessuno

che ti aspetta!».«Sì», disse Salammbô, «qualcuno mi aspetta».Taanach indietreggiò sorpresa, e per saperne di più:«Quali sono i tuoi ordini, padrona? Perché se devi

assentarti...».Ma Salammbô singhiozzava; la schiava esclamò:«Tu stai soffrendo! Che hai dunque? Non andare!

Portami con te! Quando eri piccola e piangevi, tistringevo al petto e ti facevo ridere con i capezzoli dellemie mammelle; sei stata tu a prosciugarle, padrona!». Esi dava dei colpi sul petto avvizzito. «Ora sono vecchia!Non posso più fare nulla per te! Tu non mi vuoi più bene!Mi nascondi i tuoi dolori, disprezzi la tua nutrice!». Elacrime di commozione e di dispetto le colavano sulleguance, nei solchi dei tatuaggi.

«No», disse Salammbô, «no, ti voglio bene! Staitranquilla!».

Taanach, con un sorriso simile alla smorfia di unavecchia scimmia, riprese il suo lavoro. Secondo leraccomandazioni di Shahabarim, Salammbô le avevaordinato di farla splendida; e lei la stava preparandosecondo un gusto barbaro, molto raffinato e insiemeingenuo.

Sopra una prima tunica, sottile, color vino, ne infilòuna seconda, ricamata con piume di uccello. I fianchierano fasciati da una larga cintura di scaglie d’oro, da cuiscendevano le larghe pieghe dei pantaloni blu, stellatid’argento. Poi le fece indossare un’ampia veste tagliata

nella tela del paese dei Seri,9 bianca a strisce verdi. Fissòsulle spalle uno scialle quadrato di porpora, appesantitoin basso da pendagli di sandastro; e sotto tutte questevesti appoggiò un mantello nero a strascico; poi lacontemplò e, fiera del suo lavoro, non poté fare a menodi dire:

«Non sarai più bella il giorno delle tue nozze!».«Le mie nozze!», ripeté Salammbô, pensierosa, con il

gomito appoggiato sul bracciolo della sedia d’avorio.Ma Taanach le pose davanti uno specchio di rame così

largo e alto che poteva vedercisi tutta. Allora si alzò, econ un colpetto del dito sollevò un ricciolo che scendevatroppo in basso.

I capelli erano cosparsi di polvere d’oro, arricciati sullafronte, mentre dietro pendevano in lunghe trecce adornedi perle. I bagliori dei candelabri ravvivavano il truccodelle guance, l’oro delle vesti, il candore della pelle;aveva intorno alla vita, sulle braccia, sulle mani e alle ditadei piedi, una tale abbondanza di pietre preziose che lospecchio, come un sole, rifletteva i suoi raggi; eSalammbô, in piedi accanto a Taanach che si chinava pervederla, sorrideva in mezzo a quello splendore.

Poi passeggiò su e giù per la stanza, infastidita per iltempo che doveva passare.

D’un tratto un gallo cantò. In fretta si appuntò suicapelli un lungo velo giallo, si avvolse una sciarpa intornoal collo, infilò i piedi in stivaletti di cuoio blu, e disse aTaanach:

«Vai a vedere se sotto i mirti c’è un uomo con duecavalli».

Taanach era appena rientrata che lei già scendeva lascalinata delle galee.

«Padrona!», gridò la nutrice.Salammbô si girò, con un dito sulla bocca in segno di

discrezione e immobilità.Taanach scivolò lentamente lungo le prue fin sotto la

terrazza; e da lontano, al chiarore della luna, riuscì avedere, nel viale dei cipressi, un’ombra gigantesca checamminava obliqua alla sinistra di Salammbô: questo eraun presagio di morte.

Taanach risalì nella stanza. Si gettò per terra,lacerandosi il viso con le unghie; si strappava i capelli, elanciava grida acute a piena gola.

Le venne in mente che qualcuno poteva udirla; alloratacque. Ora singhiozzava in silenzio, la testa tra le mani eil viso sul pavimento.

XINella tenda

L’uomo che guidava Salammbô la fece risalire oltre ilfaro, verso le Catacombe; poi scesero attraverso il lungosobborgo di Moluya, pieno di viuzze scoscese. L’albacominciava a imbiancare il cielo. Ogni tanto, travi dipalma che sporgevano dai muri li obbligavano adabbassare la testa. I due cavalli, che avanzavano al passo,spesso scivolavano; finalmente arrivarono alla porta diTeveste.

I pesanti battenti erano socchiusi; passarono; la portasi richiuse dietro di loro.

All’inizio seguirono per un po’ i bastioni; poi, all’altezzadelle Cisterne, si inoltrarono sulla Tenia, la stretta linguadi terra gialla che, separando il golfo dal lago, siprolunga fino a Rades.

Intorno a Cartagine non si vedeva nessuno, né sulmare, né nei campi. Le onde color ardesia sciabordavanodolcemente, e un vento leggero, spingendone la schiumaqua e là, le macchiava di squarci bianchi. Malgrado tutti i

suoi veli, Salammbô rabbrividiva all’aria fresca delmattino; il movimento e l’aria pura la stordivano. Poi sialzò il sole; le mordeva la nuca; senza rendersene conto,lei si assopiva. Le due bestie, fianco a fianco, trottavanod’ambio affondando gli zoccoli nella sabbia muta.

Oltrepassata la Montagna delle Acque Calde,proseguirono ad andatura più veloce, su un terreno piùduro.

Ma i campi, benché si fosse nella stagione delle seminee dell’aratura, per quanto si guardasse lontano, eranovuoti come il deserto. C’erano qua e là, sparsi, deimucchi di grano; altrove, piante di orzo bruciacchiate sisgranavano. Sull’orizzonte chiaro si stagliavano lesagome nere dei villaggi, con forme incoerenti efrastagliate.

Di tanto in tanto appariva lungo la strada un tratto dimuro semicalcinato. I tetti delle capanne erano crollati, enell’interno si vedevano cocci di stoviglie, brandelli divestiti, ogni sorta di utensili e oggetti in pezzi,irriconoscibili. Spesso sbucava da quelle rovine un esserecoperto di stracci, il volto terreo e gli occhi infuocati. Mapresto si metteva a correre o scompariva in un buco.Salammbô e la sua guida non si fermavano.

Le pianure in abbandono si susseguivano. Su granditratti di terra bionda si stendevano lunghe strisce inegualidi polvere di carbone, che si alzava al loro passaggio.Talvolta incontravano piccoli luoghi tranquilli, un ruscelloche scorreva tra alte erbe; e, risalendo sull’altra riva,

Salammbô strappava delle foglie bagnate per rinfrescarsile mani. Dietro un cespuglio di oleandri, il suo cavalloscartò davanti al cadavere di un uomo steso a terra.

Subito lo schiavo la risistemò sulla sella. Era unservitore del Tempio, un uomo che Shahabarimimpiegava nelle missioni pericolose.

Per maggior precauzione, ora avanzava a piedi, al suofianco e tra i cavalli; e li frustava con un laccio di cuoioavvolto intorno a un braccio, oppure traeva da una saccaappesa al petto certe polpette di frumento, di datteri e dituorli d’uovo, avvolte in foglie di loto, e le offriva aSalammbô, senza una parola, continuando a correre.

Verso mezzogiorno tre Barbari, vestiti di pelli, liincrociarono sulla strada. A poco a poco ne apparveroaltri, vagavano in gruppi di dieci, dodici, venticinqueuomini; molti spingevano avanti delle capre o qualchevacca che zoppicava. I loro pesanti bastoni erano irti dichiodi di bronzo; dei coltellacci luccicavano sui loro vestitidi una sporcizia selvaggia, e sgranavano occhi minacciosie inebetiti. Mentre passavano, alcuni gli rivolgevano unabenedizione di uso comune; altri, delle facezie oscene; el’uomo di Shahabarim rispondeva a ognuno nella sualingua. Diceva che si trattava di un ragazzo malato, cheper guarire andava in un tempio lontano.

Intanto scendeva la sera. Si udirono latrati; vi sidiressero.

Poi, al chiarore del crepuscolo, scorsero un recinto dipietre a secco che racchiudeva una costruzione informe.

Un cane correva sul muro. Lo schiavo gli gettò dei sassi;ed entrarono in una stanza con un alto soffitto a volta.

Nel mezzo, una donna accovacciata si scaldava accantoa un fuoco di sterpi il cui fumo sfuggiva attraverso i buchinel soffitto. I capelli bianchi, che le scendevano fino alleginocchia, la nascondevano per metà; e non volendorispondere alle domande, borbottava con aria idiotaparole di vendetta contro i Barbari e contro i Cartaginesi.

La guida frugava a destra e a sinistra. Poi tornòaccanto a lei, chiedendole da mangiare. La vecchiascuoteva la testa e, con gli occhi fissi sui carboni,mormorò:

«Io ero la mano. Le dieci dita sono tagliate. La boccanon mangia più».

Lo schiavo le mostrò una manciata di monete d’oro.Lei vi si gettò sopra, ma poi riprese la sua immobilità.

Alla fine le puntò alla gola un pugnale che portava allacintura. Allora la vecchia, tremante, andò a sollevare unalarga pietra e portò un’anfora di vino e dei pesci diIppozarito spalmati di miele.

Salammbô si allontanò con disgusto da quel ciboimmondo e si addormentò sulle gualdrappe dei cavallidistese in un angolo della stanza.

Prima che fosse giorno, la guida la svegliò.Il cane ululava. Lo schiavo gli si avvicinò lentamente; e

con un solo colpo di pugnale gli mozzò la testa. Poisfregò col sangue le froge dei cavalli, per rianimarli. Lavecchia gli lanciò dietro una maledizione. Salammbô se

ne accorse, e strinse l’amuleto che portava sul cuore.Si rimisero in marcia.Di tanto in tanto lei chiedeva se mancava ancora

molto. La strada serpeggiava in un paesaggio di colline.Si udiva soltanto lo stridìo delle cicale. Il sole scaldaval’erba ingiallita; la terra era ovunque rotta da crepacci chela dividevano in lastroni mostruosi. Talvolta passava unavipera, volava un’aquila; lo schiavo continuava a correre;Salammbô fantasticava sotto i suoi veli, e malgrado ilcaldo non li sollevava nel timore di sporcare i bei vestiti.

A distanze regolari si ergevano delle torri, costruite daiCartaginesi per sorvegliare le tribù. Vi entravano permettersi all’ombra, poi ripartivano.

Alla vigilia, per prudenza, avevano fatto un grandegiro. Ma ora non incontravano nessuno; la regione erasterile, i Barbari non ci erano neppure passati.

Poi, a poco a poco, ricominciarono i segni delladevastazione. Talvolta, in mezzo a un campo, apparivaun mosaico, unico resto di un castello scomparso; e gliolivi, senza foglie, da lontano sembravano grandicespugli di rovi. Attraversarono un borgo le cui caseerano state rase al suolo dal fuoco. Si vedevano lungo lemura degli scheletri umani; ce n’erano anche didromedari e di muli. Carogne mezze rosicchiatesbarravano le strade.

Scendeva la notte. Il cielo era basso e coperto di nubi.Risalirono ancora per due ore verso occidente e,

improvvisamente, videro davanti a sé un gran numero di

fiammelle.Brillavano sul fondo di un anfiteatro. Qua e là

scintillavano, spostandosi, alcune piastre d’oro: erano lecorazze dei Clinabari, l’accampamento punico; poiscorsero tutt’intorno altre luci più numerose, perché glieserciti dei Mercenari, ora confusi insieme, siestendevano su un grande spazio. Salammbô fece perandare avanti. Ma l’uomo di Shahabarim la condusse piùlontano, e costeggiarono il terrapieno che chiudeva ilcampo dei Barbari. Vi si apriva una breccia; lo schiavoscomparve.

Sopra il terrapieno camminava una sentinella con unarco in mano e una picca in spalla.

Salammbô continuava ad avvicinarsi; il Barbaro siinginocchiò, e una lunga freccia le trapassò l’orlo delmantello. Poi, siccome rimaneva immobile, le chiesegridando che cosa volesse.

«Parlare a Mâtho», rispose. «Sono in fuga daCartagine».

Il Barbaro lanciò un fischio, che fu ripetuto di distanzain distanza.

Salammbô attese; il suo cavallo, spaventato, girava suse stesso sbuffando.

Quando Mâtho arrivò, la luna si stava alzando dietro dilei. Ma il velo giallo a fiori neri che aveva sul viso, e letante vesti intorno al corpo, rendevano impossibile il suoriconoscimento. Dall’alto del terrapieno, Mâtho osservavaquella forma incerta che si ergeva come un fantasma

nelle penombre della sera.Finalmente lei gli disse:«Portami nella tua tenda! Lo voglio!».Un ricordo che non riusciva a definire gli attraversò la

memoria. Sentì battere il cuore. Quel tono imperioso lointimidiva.

«Seguimi!», le disse.La barriera fu abbassata; e Salammbô fu dentro il

campo dei Barbari.Lo riempivano un gran tumulto e una grande folla.

Fuochi abbaglianti ardevano sotto marmitte sospese; e iloro riflessi purpurei, illuminando certi luoghi, nelasciavano altri nelle tenebre più fonde. Si udiva gridare,chiamare; i cavalli legati per la cavezza formavano lunghelinee diritte in mezzo alle tende, che erano rotonde,quadrate, di cuoio o di tela; c’erano capanne di giunco etane nella sabbia come quelle dei cani. I soldatitrascinavano fascine, si accovacciavano per terra o siavvolgevano in una stuoia preparandosi a dormire; etalvolta il cavallo di Salammbô, per scansarli, dovevaallungare una zampa e saltare.

Lei si ricordava di averli già visti; ma le loro barbeerano più lunghe, le facce ancora più nere, le voci piùrauche. Mâtho, che la precedeva, li scostava con un gestodel braccio che sollevava il mantello rosso. Alcuni glibaciavano le mani; altri, chinando la schiena, loavvicinavano per chiedere ordini; perché era il vero,l’unico capo dei Barbari; Spendio, Autarito e Narr’Havas

erano scoraggiati, mentre lui aveva dimostrato tantaaudacia e ostinazione che tutti gli obbedivano.

Salammbô, seguendolo, attraversò l’interoaccampamento. La sua tenda era all’estremità opposta, atrecento passi dal trinceramento di Amilcare.

Notò alla sua destra un’ampia fossa, e le sembrò chedei volti si appoggiassero al bordo, al livello del suolo,come teste mozzate. Tuttavia i loro occhi si muo vevano,e dalle bocche semiaperte uscivano lamenti in linguapunica.

Due Negri che reggevano ognuno una torcia di resinastavano ai lati dell’ingresso. Mâtho ne scostò la telabruscamente. Salammbô lo seguì.

Era una tenda ampia, con un palo nel mezzo. Larischiarava una grande lampada a forma di loto, piena diolio giallo sul quale galleggiavano ciuffi di stoppa, e siscorgevano vari oggetti militari che rilucevanonell’ombra. Una spada sguainata era appoggiata a unosgabello, accanto a uno scudo; fruste di cuoio diippopotamo, cimbali, sonagli, collane erano alla rinfusadentro ceste di sparto; briciole di pane nero erano sparsesu una tovaglia di feltro; in un angolo, su una pietrarotonda, erano ammucchiate con negligenza monete dirame, e, attraverso gli strappi della tela, il vento portavada fuori la polvere insieme con l’odore degli elefanti, chesi udivano mangiare scuotendo le catene.

«Chi sei?», chiese Mâtho.Senza rispondere, Salammbô si guardava intorno,

lentamente, poi i suoi occhi si fermarono sul fondo dellatenda, dove su un letto di rami di palma era adagiatoqualcosa di bluastro e scintillante.

Fece un passo in avanti. Le sfuggì un grido. Mâtho,dietro di lei, era spazientito.

«Chi ti manda? Che sei venuto a fare?».Lei rispose indicando lo zaimf:«A riprendermelo!», e con l’altra mano si tolse i veli

dalla testa. Mâtho indietreggiò, le braccia indietro, abocca aperta, quasi atterrito.

Salammbô si sentiva sostenuta dalla forza degli dèi; e,guardandolo negli occhi, gli chiese lo zaimf; lo reclamavacon parole eloquenti e superbe.

Mâtho non ascoltava; la contemplava, e nella suamente le vesti di Salammbô erano tutt’uno col suo corpo.Il luccichio delle stoffe era, come la lucentezza della suapelle, qualcosa di speciale che poteva appartenere a leisoltanto. I suoi occhi, i suoi diamanti scintillavano; ilnitore delle sue unghie proseguiva lo splendore dellegemme che le coprivano le dita; i due fermagli dellatunica, sollevando leggermente i seni, li avvicinavanol’uno all’altro, e Mâtho si perdeva con il pensiero nel lorostretto intervallo, dove scendeva un filo a reggere ungioiello di smeraldi, che si scorgeva più in basso sotto ilvelo violetto. Aveva per orecchini due piccole bilance dizaffiri con incastonata una perla cava, piena di profumoliquido. Dai fori delle perle cadeva ogni tanto una goccia,che le inumidiva la spalla nuda. Mâtho la guardava

cadere.Lo prese una curiosità irresistibile; e, come un

bambino che allunghi la mano verso un fruttosconosciuto, tutto tremante, con la punta di un dito, latoccò leggermente sulla parte alta del petto; la carne unpo’ fredda cedette con una resistenza elastica.

Quel contatto, per quanto lievissimo, sconvolse Mâthofino in fondo all’anima. Uno slancio di tutto il suo esserelo trascinava verso di lei. Avrebbe voluto avvolgerla,assorbirla, berla. Ansimava, batteva i denti.

Prendendola per i polsi, la attirò dolcementre a sé, e sisedette su una corazza, accanto al letto di palme copertoda una pelle di leone. Lei stava in piedi. La guardava dalbasso in alto, tenendola tra le gambe, e ripeteva:

«Come sei bella! Come sei bella!».Gli occhi di lui continuamente fissi nei suoi la facevano

soffrire; e quel disagio, quella ripugnanza crescevano contale intensità che Salammbô doveva trattenersi per nongridare. Le tornò in mente Shahabarim; si rassegnò.

Mâtho continuava a tenere le sue piccole mani tra lesue; e di tanto in tanto, malgrado le raccomandazioni delprete, torceva il viso e tentava di divincolarsi scuotendo lebraccia. Mâtho dilatava le narici per meglio odorare ilprofumo che tutto il suo corpo emanava. Era un effluvioindefinibile, fresco, ma che stordiva come il fumo di unincensiere. Salammbô sapeva di miele, di pepe, diincenso, di rose, e di altro ancora.

Ma come mai si trovava con lui, nella sua tenda, in suo

potere? Forse qualcuno l’aveva mandata? Era venuta soloper lo zaimf? Lasciò cadere le braccia e chinò la testa,oppresso da improvvisi pensieri.

Lei, per intenerirlo, gli disse con voce lamentosa:«Che ti ho fatto dunque per volere la mia morte?»«La tua morte!».Salammbô proseguì:«Ti ho visto una sera, alla luce dei miei giardini che

bruciavano, tra coppe fumanti e schiavi sgozzati, e la tuacollera era tale che sei balzato verso di me e ho dovutofuggire! Poi il terrore è entrato a Cartagine. Si gridava dicittà devastate, di campagne bruciate, di soldatimassacrati; tu li avevi rovinati, tu li avevi assassinati! Tiodio! Il tuo solo nome mi tormenta come un rimorso. Seipiù esecrato della peste e della guerra romana! Leprovince tremano per il tuo furore, i solchi sono pieni dicadaveri! Ho seguito la traccia dei tuoi fuochi, come secamminassi dietro a Moloch!».

Mâtho si alzò di scatto; un orgoglio colossale gligonfiava il cuore; si sentiva un dio.

Con le narici palpitanti, i denti stretti, lei continuava:«E come se il tuo sacrilegio non bastasse, sei venuto

da me, mentre dormivo, avvolto nello zaimf! Le tueparole non le capivo; ma capivo bene che volevitrascinarmi in qualcosa di spaventoso, in fondo a unabisso».

Mâtho, torcendosi le braccia, gridò:«No! No! Volevo dartelo! Restituirtelo! Mi sembrava che

la dea avesse lasciato la sua veste per te, e che tiappartenesse! Nel suo tempio o nella tua casa, cheimporta? Non sei forse onnipotente, immacolata, radiosae bella come Tanit?».

E, con uno sguardo di infinita adorazione:«Sempre che tu non sia Tanit!».«Io, Tanit!», disse tra sé Salammbô.Non parlavano più. Il tuono rimbombava in

lontananza. Le pecore belavano, spaventate daltemporale.

«Oh! vieni qui!», riprese Mâtho. «Vieni vicina! Nonaver paura! Un tempo non ero che un soldato, confusonella massa dei Mercenari, e così mite che portavo sullespalle la legna degli altri. Che mi importa di Cartagine?La folla dei suoi uomini si agita come perduta nellapolvere dei tuoi sandali, e tutti i suoi tesori, le province,le flotte e le isole, non suscitano il mio desiderio quantola freschezza delle tue labbra e la linea delle tue spalle.Ma io volevo abbattere le sue mura per venire da te, perpossederti! Intanto, nell’attesa, mi vendicavo! Adessoschiaccio gli uomini come conchiglie, mi getto sullefalangi, scosto le sarisse con le mie mani, fermo i cavalliafferrandoli per le froge; una catapulta non riuscirebbe auccidermi! Oh, se tu sapessi quanto penso a te, in mezzoai combattimenti! Talvolta, il ricordo di un gesto, di unapiega della tua veste, mi coglie all’improvviso e mistringe come un laccio! Vedo i tuoi occhi nelle fiammedelle falariche e sulla doratura degli scudi! Sento la tua

voce nel fragore dei cimbali. Mi giro, ma tu non ci sei! Eallora mi rituffo nella battaglia!».

Alzava le braccia, sulle quali le vene si intrecciavanocome edera su rami d’albero. Il sudore gli colava sulpetto, tra i muscoli squadrati; e il respiro gli scuoteva ifianchi e la cintura di bronzo guarnita di strisce di cuoioche pendevano fino alle ginocchia, più salde del marmo.Salammbô, abituata agli eunuchi, era affascinata dallaforza di quell’uomo. Era la punizione della dea o l’influssodi Moloch che emanava dai cinque eserciti e agiva su dilei. Si sentiva esausta; ascoltava con stupore il gridointermittente delle sentinelle che si rispondevano.

Le fiamme della lampada vacillavano sotto raffiche diaria calda. Ogni tanto i bagliori dei lampi; poi l’oscuritàera più fitta; e lei non vedeva altro che le pupille diMâtho, come due tizzoni nella notte. Tuttavia sentivabene che una fatalità incombeva su di lei, che era giuntaa un momento supremo, irrevocabile, e, facendosi forza,si mosse verso lo zaimf e alzò le mani per prenderlo.

«Che fai?», disse Mâtho.Rispose con calma:«Me ne torno a Cartagine».Mâtho si fece avanti incrociando le braccia, e con

un’aria così terribile che Salammbô rimase comeinchiodata sui talloni.

«Tornartene a Cartagine!», balbettava, e ripetevadigrignando i denti:

«Tornartene a Cartagine! Ah! Venivi per prendere lo

zaimf, vincermi e poi sparire! No, no! Tu mi appartieni! Eadesso nessuno ti porterà via di qui! Oh! Non hodimenticato l’insolenza dei tuoi grandi occhi tranquilli, ecome mi schiacciavi dall’alto della tua bellezza! Ora toccaa me! Tu sei mia prigioniera, mia schiava, mia serva!Chiama, se vuoi, tuo padre e il suo esercito, gli Anziani, iRicchi e il tuo popolo esecrabile, tutto intero! Sono ilpadrone di trecentomila soldati! Andrò a cercarne altri inLusitania, nelle Gallie e in fondo al deserto, e distruggeròla tua città, brucerò tutti i suoi templi; le triremivogheranno su onde di sangue! Non voglio che resti unacasa, né una pietra né una palma! E se mi mancherannogli uomini, prenderò gli orsi delle montagne e spingeròavanti i leoni! Non tentare di fuggire, ti ucciderei!».

Pallido, con i pugni serrati, fremeva come un’arpa lecui corde stessero per spezzarsi. Ma improvvisamente isinghiozzi lo soffocarono, e accosciandosi sulle ginocchia:

«Ah! Perdonami! Sono un infame, più ignobile degliscorpioni, del fango e della polvere! Prima, mentreparlavi, il tuo respiro mi lambiva il volto, e io godevocome un moribondo che beva ventre a terra sulla spondadi un ruscello. Schiacciami, ma fammi sentire i tuoi piedi!Maledicimi, ma fammi udire la tua voce! Non andartene!Pietà! Io ti amo! Ti amo!».

Era in ginocchio, per terra, davanti a lei; le cingeva lavita con le due braccia, la testa all’indietro, le manivaganti; i dischi d’oro che gli pendevano dagli orecchibrillavano contro il collo abbronzato; grosse lacrime gli

scorrevano negli occhi, come globi d’argento; sospiravadolcemente, e mormorava parole vaghe, più leggere diuna brezza e soavi come un bacio.

Salammbô era invasa da un languore in cui perdevaogni coscienza di sé. Qualcosa di intimo e insiemesuperiore, un ordine degli dèi, la forzava a lasciarsiandare; si sentì sollevare da una nube e, venendo meno,cadde riversa sul letto, sulla pelle di leone. Mâtho leafferrò i talloni, la catenella d’oro si spezzò, e le due partischizzarono via colpendo la tela come vipere infuriate. Lozaimf cadde e avvolse Salammbô; scorse il volto di Mâthoche si piegava sul suo seno.

«Moloch, mi bruci!».E i baci del soldato, più voraci di fiamme, la

percorrevano; era come sollevata in un uragano, presanella forza del Sole.

Baciò tutte le dita delle sue mani, le braccia, i piedi, eda cima a fondo le lunghe trecce di capelli.

«Portalo pure via», diceva, «che m’importa! Portamivia con lui! Lascio l’esercito! Rinuncio a tutto! Al di là diGades, a venti giorni di mare, c’è un’isola coperta dipolvere d’oro, di foreste e di uccelli. Sulle montagneondeggiano, simili a eterni incensieri, immensi fiori pienidi aromi che fumano; dai limoni, più alti dei cedri,serpenti color latte colgono i frutti con le fauci didiamante e li fanno cadere sui prati; l’aria è così dolceche impedisce di morire. Oh! La troverò, vedrai. Vivremonelle grotte di cristallo, tagliate ai piedi delle colline. Non

vi abita ancora nessuno, oppure diventerò il re delpaese».

Le tolse la polvere dai coturni; volle che mettesse tra lelabbra uno spicchio di melagrana; le ammucchiò dellevesti dietro la testa per farle un cuscino. Cercava diservirla in ogni modo, umiliandosi; giunse a stenderle lozaimf sulle gambe, come fosse una coperta qualunque.

«Hai ancora», diceva, «quelle piccole corna di gazzelladove appendi le tue collane? Me le regalerai; le amo!».

Parlava come se la guerra fosse finita, e gli sfuggivanorisa di gioia; e i Mercenari, Amilcare, tutti gli ostacolierano scomparsi. La luna scivolava tra due nuvole. Lavedevano attraverso un’apertura della tenda.

«Ah! Quante notti ho passato a contemplarla! Misembrava un velo che nascondesse il tuo viso; tu miguardavi attraverso; il tuo ricordo si confondeva con isuoi raggi; non vi distinguevo più!».

E, con la testa tra i suoi seni, si abbandonava alpianto.

“È questo dunque”, pensava lei, “l’uomo terribile che fatremare Cartagine!”.

Mâtho si addormentò. Allora, sciogliendosi dalle suebraccia, posò un piede a terra, e si accorse che lacatenella era spezzata.

Le vergini delle grandi famiglie venivano educate arispettare quell’impedimento come una cosa quasireligiosa, e Salammbô, arrossendo, arrotolò intorno allegambe i due spezzoni della catena d’oro.

Cartagine, Megara, la sua casa e le campagne cheaveva attraversato turbinavano nella sua memoria inimmagini tumultuose eppure precise. Ma un abisso ora lerespingeva lontano da lei, a una distanza infinita.

L’uragano si allontanava; rare gocce d’acquabattevano, una per una, sul tetto della tenda facendolooscillare.

Mâtho, come ubriaco, dormiva steso su un fianco, conun braccio che penzolava dal letto. La sua fascia di perlesi era leggermente rialzata e gli scopriva la fronte. Unsorriso faceva intravedere i denti. Brillavano nella barbanera, e tra le palpebre socchiuse c’era un’allegriasilenziosa e quasi oltraggiosa.

Salammbô lo guardava immobile, la testa bassa, lemani incrociate.

Al capezzale del letto, sopra un tavolo di cipresso c’eraun pugnale; alla vista di quella lama luccicante fuafferrata da un impulso sanguinario. In lontananza,nell’ombra, si udivano voci lamentose; come un coro diGeni la incitavano. Si avvicinò al pugnale, lo afferrò per ilmanico. Al fruscio delle sue vesti, Mâtho socchiuse gliocchi, cercando con la bocca le sue mani; e il pugnalecadde.

Si udirono delle grida; una luce accecante folgoravadietro la tenda. Mâtho la sollevò; videro grandi fiammeche avvolgevano il campo dei Libici.

Le loro capanne di giunco stavano bruciando e lecanne, torcendosi, scoppiavano nel fumo e volavano via

come frecce; sull’orizzonte tutto rosso correvano ombrenere, come impazzite. Si udivano le urla di chi erarimasto dentro le capanne; gli elefanti, i buoi e i cavallisaltavano in mezzo alla folla e la schiacciavano insiemecon le armi e i bagagli che venivano strappati all’incendio.Le trombe squillavano. E gli uomini chiamavano «Mâtho!Mâtho!». C’era gente alla porta; volevano entrare.

«Vieni! Amilcare sta bruciando il campo di Autarito!».Balzò fuori. Salammbô restò sola.Allora guardò attentamente lo zaimf; e quando lo ebbe

osservato bene, fu sorpresa di non provare quella gioiache altre volte si era immaginata. Di fronte al suo sognocompiuto, era malinconica.

Ma il bordo inferiore della tenda si sollevò, e apparveuna forma mostruosa. All’inizio Salammbô distinse solo idue occhi, con una lunga barba bianca che scendeva finoa terra; il resto del corpo, impacciato negli stracci di unaveste rossiccia, strisciava sul terreno; e ad ognimovimento per avanzare le mani sparivano dentro labarba, per poi ricadere. Strisciando in questo modo,giunse ai suoi piedi, e Salammbô riconobbe il vecchioGiscone.

Infatti i Mercenari, per impedire che i vecchi prigionierifuggissero, a colpi di sbarra di bronzo gli avevanospezzato le gambe; e ora marcivano tutti alla rinfusa, inuna fossa, tra le immondizie. I più robusti, quandoudivano il rumore delle gavette, si alzavano gridando: ècosì che Giscone aveva visto Salammbô. Dalle palline di

sandastro che le sbattevano sui coturni avevariconosciuto una Cartaginese; e col presentimento di unmistero importante si era fatto aiutare dai suoi compagni,ed era riuscito a uscire dalla fossa; poi, con i gomiti e lemani, si era trascinato venti passi più in là, fino alla tendadi Mâtho. All’interno, due voci. Aveva ascoltato da fuori,aveva capito tutto.

«Sei tu!», disse Salammbô, quasi spaventata.Alzandosi sui polsi, rispose:«Sì, sono io! Mi credono morto, vero?».Salammbô chinò la testa. E lui continuò:«Ah, perché i Baal non mi hanno concesso questa

misericordia!». E, avvicinandosi fino a sfiorarla: «Miavrebbero risparmiato la pena di maledirti!».

Salammbô balzò indietro; aveva paura di quell’essereimmondo, schifoso come una larva e terribile come unfantasma.

«Presto avrò cent’anni». disse. «Ho visto Agatocle, hovisto Regolo1 e le aquile dei Romani passare sulle messidei campi punici! Ho visto tutti gli orrori delle battaglie eil mare ingombro dei rottami delle nostre flotte! Barbariche io comandavo mi hanno incatenato mani e piedi,come uno schiavo omicida. I miei compagni, uno dopol’altro, mi muoiono intorno; l’odore dei loro cadaveri misveglia di notte; devo scacciare gli uccelli che vengono abeccare i loro occhi; eppure, neanche per un giorno hosmesso di sperare in Cartagine! Se anche avessi visto tuttigli eserciti della terra schierati contro di lei, e le fiamme

dell’assedio superare l’altezza dei templi, ancora avreicreduto alla sua eternità! Ma ora tutto è finito, tutto èperduto! Gli dèi la esecrano. Maledizione a te che ne haiaffrettato la rovina con la sua ignominia!».

Salammbô schiuse le labbra.«Ah! Ero qui!», gridò Giscone. «Ti ho sentita rantolare

d’amore come una prostituta; poi ti parlava del suodesiderio, e ti lasciavi baciare le mani! Ma se eri travoltadal furore della tua impudicizia, dovevi fare almeno comele belve, che si nascondono nei loro accoppiamenti, senzaesporre la tua vergogna fin sotto gli occhi di tuo padre!».

«Come!», disse lei.«Ah! non sapevi che i due trinceramenti sono a

sessanta braccia l’uno dall’altro, e che il tuo Mâtho, perfolle orgoglio, si è accampato proprio davanti adAmilcare. Tuo padre è là, proprio dietro di te; e sepotessi salire il sentiero che porta sul terrapieno, gligriderei: “Vieni a vedere tua figlia tra le braccia delBarbaro! Per piacergli ha indossato la veste della dea; eabbandonandogli il corpo gli consegna, insieme con lagloria del tuo nome, la maestà degli dèi, la vendetta dallapatria e la stessa salvezza di Cartagine!”».

Il movimento della sua bocca sdentata agitava la barbain tutta la sua lunghezza; gli occhi, fissi su di lei, ladivoravano; e lui ripeteva, ansimando nella polvere:

«Ah! Sacrilegio! Che tu sia maledetta! Maledetta,maledetta!».

Salammbô aveva scostato la tela dell’ingresso, la

teneva sollevata col braccio teso, e, senza rispondergli,guardava verso il campo di Amilcare.

«È di là, vero?», chiese.«Che t’importa! Vòltati! Vattene! Piuttosto affonda la

faccia nella polvere! È un luogo santo che la tua vistainsozzerebbe».

Salammbô si strinse lo zaimf intorno alla vita, raccolsein fretta i suoi veli, il mantello, la sciarpa. «Ci vado dicorsa!», gridò; e fuggendo scomparve.

Camminò per un po’ nelle tenebre senza incontrarenessuno, perché tutti correvano sul luogo dell’incendio; eil clamore aumentava, grandi fiamme tingevano di rossoil cielo dietro di lei; si fermò davanti a un lungoterrapieno.

Si voltò, a destra, a sinistra, a caso, cercando unascala, una corda, una pietra, qualcosa che potesseaiutarla. Aveva paura di Giscone, e le sembrava che deigridi e dei passi la stessero inseguendo. Cominciava adalbeggiare. Scorse un sentiero che saliva sultrinceramento. Prese tra i denti l’orlo della veste che laimpacciava, e in tre salti si trovò sopra il terrapieno.

Un grido acuto risuonò sotto di lei, nell’ombra, lostesso che aveva udito in fondo alla scalinata delle galee;e, sporgendosi, riconobbe l’uomo di Shahabarim con isuoi due cavalli.

Si era aggirato per tutta la notte tra i duetrinceramenti; poi, preoccupato per l’incendio, eratornato indietro, cercando di capire cosa stesse

accadendo nel campo di Mâtho; e siccome sapeva chequel luogo era il più vicino alla sua tenda, per obbedire alsacerdote non si era mosso di lì.

Salì in piedi su uno dei cavalli. Salammbô si lasciòscivolare fino a lui; e fuggirono di gran galoppo facendoil giro del campo punico, per trovare un varco da qualcheparte.

Mâtho era rientrato nella sua tenda. La lampadaimmersa nel fumo la rischiarava appena, e lui pensò cheSalammbô stesse dormendo. Allora palpeggiòdelicatamente la pelle di leone, sul letto di palma.Chiamò, ma lei non rispose; strappò bruscamente unlembo della tenda per fare luce; lo zaimf era scomparso.

La terra tremava sotto un calpestìo di passi sempre piùforte. Grida acute, nitriti, cozzi di armature si alzavanonell’aria, e le trombe suonavano la carica. Era come unuragano, un vortice intorno a lui. Con furore cieco sigettò sulle armi, e si precipitò fuori.

Le lunghe file dei Barbari scendevano correndo dallemontagne, e contro di loro avanzavano le formazionipuniche, ondeggiando pesanti e regolari. La nebbia,lacerata dai raggi del sole, formava piccole nubiondeggianti che a poco a poco, alzandosi, scoprivano glistendardi, gli elmi e le punte delle picche. Sotto le rapidemanovre, tratti di terreno ancora in ombra sembravanospostarsi a blocchi interi; altrove sembrava un incrociarsidi torrenti, intorno a masse spinose che restavano

immobili. Mâtho distingueva i capitani, i soldati, gli araldie perfino, più indietro, i servi in groppa agli asini. Mainvece di tenere la sua posizione per coprire la fanteria,Narr’Havas svoltò bruscamente a destra, come se volessefarsi schiacciare da Amilcare.

I suoi cavalieri superarono gli elefanti cherallentavano; e tutti i cavalli, allungando le teste senzabriglie, galoppavano talmente veloci che il ventresembrava sfiorare il terreno. Poi, all’improvviso, Narr’Havas avanzò deciso verso una sentinella. Gettò la spada, lalancia, i giavellotti, e scomparve in mezzo ai Cartaginesi.

Il re dei Numidi giunse alla tenda di Amilcare; e glidisse, mostrandogli i suoi uomini che si erano fermati piùindietro:

«Barca! Te li consegno. Ti appartengono».Si gettò a terra in segno di sottomissione e, per

dimostrare la sua fedeltà, gli ricordò il suocomportamento fin dall’inizio della guerra.

Innanzitutto aveva impedito l’assedio di Cartagine e ilmassacro dei prigionieri; poi non aveva approfittato dellavittoria di Annone dopo la disfatta di Utica. Quanto allecittà tirie, si trovavano sul confine del suo regno. Infinenon aveva preso parte alla battaglia del Macar; anzi, siera allontanato per evitare di essere costretto acombattere contro il suffeta.

Narr’Havas, in realtà, aveva voluto estendere il proprioterritorio sconfinando nelle province puniche e, secondole sorti della guerra, aveva di volta in volta aiutato e

abbandonato i Mercenari. Ma vedendo che il più fortesarebbe stato definitivamente Amilcare, era passato dallasua parte; e forse nella sua defezione c’era anche delrancore nei confronti di Mâtho, per rivalità nel comando oper il suo antico amore.

Il suffeta lo ascoltò senza interromperlo. L’uomo che sipresentava così a un esercito dal quale doveva attendersivendette non era un alleato da disdegnare; Amilcare intuìsubito l’utilità di una tale alleanza per i suoi grandiprogetti. Con i Numidi si sarebbe sbarazzato dei Libici.Poi avrebbe trascinato l’Occidente alla conquistadell’Iberia; e, senza chiedergli perché non fosse venutoprima, senza fargli notare nessuna delle sue menzogne,baciò Narr’Havas, stringendolo al petto per tre volte.

Era per farla finita, e per disperazione, che avevaincendiato il campo dei Libici. Questo esercito gligiungeva come un aiuto degli dèi; dissimulando la suagioia, rispose:

«Che i Baal ti proteggano! Ignoro quello che farà laRepubblica per te, ma Amilcare non è ingrato».

Il tumulto cresceva; entravano dei capitani. Amilcare siarmava e intanto parlava:

«Su, riprendi il tuo posto! Con i cavalieri spingerai laloro fanteria tra i tuoi elefanti e i miei! Coraggio!Sterminali!».

E Narr’Havas si precipitava, quando apparveSalammbô.

Balzò rapida a terra. Aprì l’ampio mantello e,

allargando le braccia, dispiegò lo zaimf.La tenda di cuoio, rialzata agli angoli, lasciava vedere

tutt’intorno la montagna coperta di soldati; e poiché latenda si trovava al centro, Salammbô era visibile da ognilato. Esplose un clamore immenso, un lungo grido ditrionfo e di speranza. Quelli che erano in marcia sifermarono; i moribondi, appoggiandosi sui gomiti, sivolgevano verso di lei per benedirla. Tutti i Barbari orasapevano che lei aveva ripreso lo zaimf; da lontano lavedevano, o credevano di vederla; e altre grida, ma dirabbia e di vendetta, risuonavano malgrado gli applausidei Cartaginesi; i cinque eserciti, schierandosi sullamontagna, si agitavano e urlavano intorno a Salammbô.

Amilcare, non riuscendo a parlare, la ringraziava concenni della testa. I suoi occhi andavano continuamente dalei allo zaimf, e notò che la sua catenella era spezzata.Allora ebbe un brivido, còlto da un sospetto terribile. Ma,riprendendo subito la sua impassibilità, osservòNarr’Havas obliquamente, senza volgere il viso.

Il re dei Numidi si teneva in disparte, in atteggiamentodiscreto; aveva ancora sulla fronte una traccia dellapolvere che aveva toccato prosternandosi. Infine il suffetaandò verso di lui, e con tono solenne:

«Come ricompensa dei servigi che mi hai reso,Narr’Havas, ti dono mia figlia». E aggiunse: «Sii figliomio e difendi tuo padre!».

Narr’Havas fece un grande gesto di sorpresa, poi sigettò sulle sue mani e le coprì di baci.

Salammbô, immobile come una statua, sembrava noncapire. Arrossì un po’, abbassando le palpebre; le lungheciglia ricurve le disegnavano ombre sulle guance.

Amilcare volle unirli immediatamente con unfidanzamento indissolubile. Tra le mani di Salammbô fumessa una lancia che lei offrì a Narr’Havas; i loro pollicifurono stretti l’uno all’altro con una striscia di cuoio, poisulle loro teste fu versato del grano, e i chicchi checadevano a terra intorno a loro risuonavano,rimbalzando, come grandine.

XIIL’acquedotto

Dodici ore dopo, dei Mercenari non restava altro che unamassa di feriti, morti e agonizzanti.

Amilcare, uscito all’improvviso dal fondo della gola,era sceso lungo il pendio occidentale, dalla parte diIppozarito, e poiché in quel luogo lo spazio era maggioreaveva fatto in modo di attirarvi i Barbari. Narr’Havas liaveva circondati con la cavalleria; intanto il suffeta lirespingeva, li faceva a pezzi; inoltre erano sconfitti inpartenza a causa della perdita dello zaimf; anche quelliche non se ne erano preoccupati avevano provato unsenso di angoscia e di indebolimento. Amilcare, che nonriponeva il suo orgoglio nel fatto di occupare il campo dibattaglia, si era ritirato un po’ più lontano, sulla sinistra,su alcune alture da cui li dominava.

Si riconosceva la forma degli accampamenti dallepalizzate inclinate. Un lungo ammasso di ceneri nerefumava sull’insediamento dei Libici; il terreno sconvolto

era ondulato come il mare, e le tende, con la tela abrandelli, sembravano vagamente navi naufragate sugliscogli. Corazze, forconi, trombe, pezzi di legno, di ferro edi bronzo, grano, paglia, indumenti, erano sparsi inmezzo ai cadaveri; qua e là una falarica prossima aspegnersi bruciava su una catasta di bagagli; in certipunti il terreno spariva sotto gli scudi; carogne di cavallisi susseguivano come serie di monticelli; si scorgevanogambe, sandali, braccia, cotte di maglia e teste nei loroelmi, trattenute dal sottogola, che ruzzolavano comebocce; capigliature pendevano dai rovi; elefanti, colventre squarciato, rantolavano riversi con le loro torri inun lago di sangue; si camminava su cose viscide ec’erano pozze di fango, sebbene non fosse piovuto.

Quella confusione di cadaveri occupava, dall’alto inbasso, l’intera montagna.

I sopravvissuti non si muovevano più dei morti.Accovacciati in gruppi ineguali, si guardavano atterriti,senza parlare.

In fondo a una lunga prateria, il lago di Ippozaritoluccicava nel tramonto. Sulla destra, un gruppo di casebianche spuntava da una cinta muraria; più in là sistendeva il mare sconfinato; e, col mento appoggiato allamano, i Barbari sospiravano pensando ai loro paesi. Unanube di polvere grigia ricadeva.

Soffiò il vento della sera; allora tutti i petti sidilatarono; e a mano a mano che l’aria diventava piùfresca, si videro gli insetti abbandonare i morti che si

raffreddavano, e correre sulla sabbia calda. Sulla cima digrandi massi, corvi immobili scrutavano gli agonizzanti.

Quando fu scesa la notte, cani dal pelo giallo, queglianimali immondi che seguivano gli eserciti, giunserosilenziosamente in mezzo ai Barbari. Dapprima leccaronoi grumi di sangue sui moncherini ancora tiepidi; ma benpresto si misero a divorare i cadaveri, azzannandoli alventre.

I fuggitivi ricomparivano uno dopo l’altro, comeombre; anche le donne si arrischiarono a tornare; cen’erano ancora, soprattutto tra i Libici, malgrado l’orribilestrage che i Numidi ne avevano fatto.

Alcuni accendevano dei pezzi di corda, e se neservivano come torce. Altri, incrociate delle picche, vicaricavano sopra dei cadaveri per trasportarli altrove.

Erano stesi sul dorso in lunghe file, con la boccaaperta, la lancia accanto; oppure erano ammucchiati allarinfusa e spesso, per trovare chi mancava, bisognavascavare nel mucchio. Poi si faceva passare lentamente latorcia sui loro volti. Armi orribili avevano prodotto feritecomplicate. Brandelli verdastri pendevano dalle fronti;erano tagliuzzati, schiacciati fino al midollo, illividiti daglistrangolamenti, squarciati dalle zanne degli elefanti.Benché fossero morti quasi nello stesso momento,c’erano differenze nella decomposizione. Gli uomini delNord erano turgidi di un gonfiore livido, mentre gliAfricani, più magri, sembravano affumicati e già sidisseccavano. I Mercenari si riconoscevano dai tatuaggi

sulle mani: i vecchi soldati di Antioco avevano unosparviero; quelli che avevano prestato servizio in Egitto,una testa di cinocefalo; chi era stato presso i principidell’Asia, un’ascia, una melograna, un martello; chi avevaservito le repubbliche greche, il profilo di una cittadella oil nome di un arconte; e ce n’erano alcuni le cui bracciaerano interamente coperte da tutti questi simboli,moltiplicati, che si confondevano con cicatrici e nuoveferite.

Per gli uomini di razza latina, i Sanniti, gli Etruschi, iCampani e i Bruzi, furono eretti quattro grandi roghi.

I Greci scavarono fosse con la punta delle spade. GliSpartani si tolsero i mantelli rossi e ne avvolsero i morti;gli Ateniesi li stendevano col viso rivolto a oriente; iCantabri li seppellivano sotto un mucchio di sassi; iNasamoni1 li legavano piegati in due, con strisce dicuoio, e i Garamanti andarono a seppellirli sulla spiaggia,perché fossero bagnati dai flutti in eterno. Ma i Latinierano desolati di non poter raccogliere le ceneri nelleurne; i Nomadi rimpiangevano il calore della sabbia chemummifica i corpi, e i Celti, tre pietre grezze, sotto uncielo piovoso, in fondo a un golfo pieno di isolotti.

Si alzavano lamenti, seguiti da lunghi silenzi. Lofacevano per costringere le anime a ritornare. Poiricominciava il clamore, a intervalli regolari, conostinazione.

Ci si scusava coi morti di non poterli onorare comeprescrivevano i riti: perché a causa di questa privazione

avrebbero dovuto errare per periodi infiniti attraversoogni sorta di situazioni e di metamorfosi; venivanochiamati per nome, veniva chiesto loro cosadesiderassero; alcuni li coprivano di ingiurie per essersilasciati vincere.

Il bagliore dei grandi roghi faceva apparire ancora piùpallide le figure esangui, riverse qua e là tra resti diarmature; e le lacrime suscitavano le lacrime, i singhiozzisi facevano più acuti, i riconoscimenti e gli abbracci piùfrenetici. Le donne si stendevano sui cadaveri, boccacontro bocca, fronte contro fronte; bisognava batterleperché se ne staccassero quando si gettava la terra. C’erachi si anneriva le guance, chi si tagliava i capelli, chi sitoglieva del sangue e lo gettava nelle fosse; chi siprocurava ferite simili a quelle che sfiguravano i morti.Tra il rumore dei cimbali scoppiavano ruggiti. Qualcunosi strappava gli amuleti, ci sputava sopra. I moribondi sirotolavano nel fango insanguinato, mordendorabbiosamente i pugni mutilati; e quarantatré Sanniti,un’intera primavera sacra,2 si sgozzarono tra loro comegladiatori. Presto mancò la legna per i roghi, le fiamme sispensero, le fosse erano piene; e, stanchi di aver gridato,esausti, vacillanti, si addormentarono accanto ai lorofratelli morti; pieni di inquietudini quelli che volevanovivere, e gli altri col desiderio di non svegliarsi più.

Alle prime luci dell’alba, apparvero al limite del campodei Barbari dei soldati che sfilavano con gli elmi sullepunte delle picche; salutando i Mercenari, chiesero se

dovevano riferire qualcosa nei loro paesi.A ltri si avvicinarono, e i Barbari riconobbero alcuni dei

loro vecchi compagni.Il suffeta aveva proposto a tutti i prigionieri di entrare

nel suo esercito. Molti avevano intrepidamente rifiutato;deciso a non nutrirli ma neppure a lasciarli nelle mani delGran Consiglio, li aveva mandati via, con l’ordine di noncombattere mai più contro Cartagine. Quanto a coloroche la paura dei supplizi rendeva docili, avevano ricevutole armi tolte al nemico; e ora si presentavano ai vinti, piùper orgoglio e curiosità che per convincerli a seguire illoro esempio.

Prima parlarono del buon trattamento riservato lorodal suffeta; i Barbari li ascoltavano con invidia, purdisprezzandoli. Poi, alle prime parole di rimprovero, icodardi si infuriarono; gli mostravano da lontano lespade che erano state le loro, le loro corazze, einsultandoli li incitavano ad andarsele a prendere. IBarbari raccolsero dei sassi; tutti fuggirono; e sulla cimadella montagna si videro soltanto le punte delle lance chespuntavano dalle palizzate.

Allora un dolore ancora più forte dell’umiliazione dellasconfitta oppresse i Barbari. Pensavano all’inanità del lorocoraggio, con gli occhi fissi e digrignando i denti.

Venne a tutti la stessa idea. Si precipitarono urlandosui prigionieri cartaginesi. Per puro caso i soldati delsuffeta non erano riusciti a trovarli, e poiché si eranoritirati dal campo di battaglia i prigionieri si trovavano

ancora nella fossa profonda.Li allinearono per terra in un luogo pianeggiante. Delle

sentinelle formarono un cerchio intorno a loro, e silasciarono entrare le donne, in gruppi di trenta oquaranta per volta. Volendo approfittare del poco tempoloro concesso, correvano dall’uno all’altro, incerte,palpitanti; poi, chine su quei poveri corpi, li colpivanocon tutta la forza delle loro braccia, come le lavandaie colbucato; urlando i nomi dei loro sposi, li dilaniavano conle unghie; e trafissero loro gli occhi con gli spilloni deicapelli. Poi vennero gli uomini, e li suppliziavanocominciando dai piedi, che tagliavano alle caviglie, finoalla fronte, dalla quale strappavano corone di pelle perpoi mettersele in testa. I Mangiatori-di-cose-immondefurono atroci nella loro immaginazione. Invelenivano leferite versandovi polvere, aceto e frammenti di ceramica;altri erano in attesa dietro di loro; il sangue colava e lorogodevano, come vendemmiatori intorno ai tini fumanti.

Intanto Mâtho era seduto per terra, nello stesso luogodove si trovava alla fine della battaglia, i gomiti sulleginocchia, le tempie tra le mani; non vedeva nulla, nonudiva nulla, non pensava più.

Agli urli di gioia della folla, rialzò la testa. Davanti alui, un lembo di tela appeso a una pertica pendeva fino aterra coprendo confusamente delle ceste, dei tappeti, unapelle di leone. Riconobbe la sua tenda; e i suoi occhifissavano il suolo come se la figlia di Amilcare,scomparendo, fosse sprofondata sottoterra.

La tela lacerata sbatteva al vento; talvolta i suoi lunghibrandelli gli passavano davanti alla bocca, e così notò unsegno rosso, simile all’impronta di una mano. Era lamano di Narr’Havas, il segno della loro alleanza. AlloraMâtho si alzò. Prese un tizzone ancora fumante e lo gettòsui resti della tenda, sdegnosamente. Poi con la punta delcoturno spingeva verso la fiamma gli oggetti meno vicini,perché non restasse nulla.

A un tratto, senza che si potesse capire da doveveniva, apparve Spendio.

L’ex schiavo si era legato sulla coscia due spezzoni dilancia; zoppicava penosamente e si lamentava.

«Togliti questa roba», gli disse Mâtho. «So che sei unvaloroso!».

Era talmente oppresso dall’ingiustizia degli dèi che nonaveva più forza per indignarsi con gli uomini.

Spendio gli fece un cenno, e lo condusse nella cavità diun poggio dove stavano nascosti Zarxas e Autarito.

Anche loro, come lo schiavo, erano fuggiti, l’unomalgrado la sua crudeltà, l’altro malgrado il suo valore.Ma chi avrebbe potuto aspettarsi, dicevano, il tradimentodi Narr’Havas, l’incendio dei Libici, la perdita dello zaimf,l’attacco improvviso di Amilcare, e soprattutto le suemanovre che li avevano costretti a ritornarenell’avvallamento della montagna sotto i colpi immediatidei Cartaginesi? Spendio non confessava il suo terrore, esi ostinava a sostenere che aveva la gamba rotta.

Finalmente i tre capi e lo shalishim si chiesero quale

decisione convenisse prendere.Amilcare chiudeva la strada di Cartagine; erano presi

in mezzo tra i suoi soldati e le province di Narr’Havas; lecittà tirie si sarebbero unite ai vincitori; essi sarebberostati spinti sul litorale, e tutte quelle forze riunite liavrebbero schiacciati. Ecco cosa sarebbe accadutoimmancabilmente.

Non c’era un solo modo di evitare la guerra. Dunquedovevano proseguirla a oltranza. Ma come far capire lanecessità di una battaglia interminabile a quegli uominiscoraggiati e con le ferite ancora sanguinanti?

«Me ne occupo io!», disse Spendio.Due ore dopo, un uomo che arrivava da Ippozarito salì

di corsa la montagna. Agitava delle tavolette con lebraccia alzate, e siccome urlava a squarciagola i Barbarigli si fecero intorno.

Quelle tavolette erano state spedite dai soldati grecidella Sardegna. Raccomandavano ai loro compagnid’Africa di sorvegliare Giscone e gli altri prigionieri. Unmercante di Samo, un certo Ipponatte, di ritorno daCartagine, li aveva informati di un complotto organizzatoper farli evadere, e si esortavano i Barbari a stare con gliocchi aperti; la Repubblica era potente.

Lo stratagemma di Spendio non funzionò subito comeaveva sperato. La certezza di un nuovo pericolo, invece disuscitare furore sollevò dei timori; e ricordandosidell’avvertimento che Amilcare aveva appena gettato inmezzo a loro, ora si aspettavano qualcosa di imprevisto,

terribile. La notte passò in una grande angoscia; moltiaddirittura si sbarazzarono delle armi per impietosire ilsuffeta quando si sarebbe presentato.

Ma l’indomani, alla terza vigilia, apparve un secondocorriere ancora più affannato e nero di polvere. Il Grecogli strappò di mano un rotolo di papiro coperto discrittura fenicia. Vi si supplicavano i Mercenari di nonscoraggiarsi; i prodi di Tunisi stavano arrivando congrandi rinforzi.

Spendio lesse subito la lettera tre volte di seguito; e,seduto sulle spalle di due Cappadoci, si faceva trasportaredi qua e di là, e la rileggeva. Per sette ore arringò la folla.

Ricordava ai Mercenari le promesse del GranConsiglio; agli Africani, le crudeltà degli intendenti; atutti i Barbari, l’ingiustizia di Cartagine. La mitezza delsuffeta era soltanto una trappola. Quelli che siarrendessero, sarebbero venduti come schiavi; i vintiperirebbero tra i supplizi. Quanto a fuggire, per qualevia? Non un popolo li avrebbe accolti. Perseverandoinvece nei loro sforzi, avrebbero ottenuto insieme lalibertà, la vendetta e il denaro! E non avrebbero atteso alungo, perché il popolo di Tunisi, la Libia intera siprecipitava in loro aiuto. E mostrava il papiro srotolato:«Guardate! Leggete! Ecco le loro promesse! Non stomentendo».

I cani erravano qua e là, col muso nero tinto di rosso.Il sole ardente scaldava le teste nude. Un odorenauseabondo esalava dai cadaveri sepolti malamente.

Alcuni sporgevano da terra fino al ventre. Spendio lichiamava a testimoni di quello che diceva; poi alzava ipugni in direzione di Amilcare.

Del resto Mâtho lo osservava e, per coprire la propriaviltà, Spendio ostentava una collera dalla quale a poco apoco veniva preso lui stesso. Offrendosi agli dèi, coprivadi maledizioni i Cartaginesi. Il supplizio dei prigionieri eraun gioco da ragazzi. Perché mai risparmiarli e continuarea trascinarsi dietro quell’inutile mandria? «No! Bisognafarla finita! I loro progetti sono noti! Uno solo di loro puòprovocare la nostra perdita! Nessuna pietà!Riconosceremo i migliori dalla velocità delle gambe edalla forza dei colpi».

Allora tornarono addosso ai prigionieri. Moltirantolavano ancora; li finirono affondandogli un tallonein gola, oppure pugnalandoli con la punta di ungiavellotto.

Poi pensarono a Giscone. Non lo vedevano da nessunaparte; li prese l’inquietudine. Volevano convincersi dellasua morte, e nello stesso tempo parteciparvi. Finalmentetre pastori sanniti lo scovarono a quindici passi dal luogodove prima si trovava la tenda di Mâtho. Lo riconobberodalla lunga barba, e chiamarono gli altri.

Steso sul dorso, le braccia lungo i fianchi, le ginocchiaserrate, aveva l’aspetto di un morto preparato per lasepoltura. Tuttavia le sue magre costole si abbassavano erisalivano, e gli occhi, spalancati in mezzo al voltopallidissimo, avevano uno sguardo fisso e insopportabile.

I Barbari lo osservavano con grande stupore. Daquando viveva nella fossa, l’avevano quasi dimenticato;turbati da antichi ricordi, si tenevano a distanza e nonosavano alzare la mano su di lui.

Ma quelli che erano dietro mormoravano e siaccalcavano, finché un Garamante attraversò la folla;impugnava una falce; tutti capirono cosa voleva fare; iloro volti avvamparono e, sia pure vergognandosi,urlavano:

«Sì! Sì!».L’uomo col ferro ricurvo si avvicinò a Giscone. Gli

afferrò la testa, se la appoggiò su un ginocchio, e la segòcon pochi colpi veloci, finché cadde; due grossi getti disangue scavarono un buco nella polvere. Zarxas la afferròcon un balzo, e più leggero di un leopardo corse verso iCartaginesi.

Poi, salito a due terzi della montagna, tirò fuori dallaveste la testa di Giscone tenendola per la barba, roteò piùvolte le braccia rapidamente, e la massa, finalmentelanciata, descrisse una lunga parabola e scomparve dietroil trinceramento punico.

Poco dopo si alzarono sopra la palizzata due stendardiincrociati, segno convenuto per chiedere la restituzionedei cadaveri.

A llora quattro araldi, scelti per l’ampiezza del torace,percorsero il terrapieno con grandi trombe e, parlandoattraverso i tubi di bronzo, dichiararono che ormai tra iCartaginesi e i Barbari non c’era più fede, né pietà, né

dèi, e che respingevano preliminarmente ogni trattativa,e che i messi sarebbero stati rimandati indietro con lemani mozzate.

Subito dopo, Spendio fu inviato a Ippozarito perchiedere viveri; la città tiria ne inviò quella sera stessa.Mangiarono voracemente. Poi, quando si furonoritemprati, raccolsero in fretta i resti dei loro bagagli e learmi spezzate; le donne si riunirono al centro, e senzacurarsi dei feriti che piangevano dietro di loro, partironolungo il litorale, a passi veloci, come un branco di lupiche si allontani.

Marciavano su Ippozarito, decisi a prenderla, perchéavevano bisogno di una città.

Amilcare, scorgendoli da lontano, ebbe un attimo disconforto, malgrado l’orgoglio che provava vedendoselifuggire davanti. Sarebbe stato necessario attaccarli subitocon truppe fresche. Un’altra giornata così, e la guerrasarebbe finita! Se invece passava del tempo, sarebberoritornati più forti; le città tirie si sarebbero unite a loro; lasua clemenza verso i vinti non era servita a nulla. Deciseche d’ora in poi sarebbe stato spietato.

Quella sera stessa inviò al Gran Consiglio undromedario carico di braccialetti tolti ai morti e, conminacce orribili, ordinò che gli mandassero un altroesercito.

Tutti, da molto tempo, lo credevano perduto; così, allanotizia della sua vittoria, provarono uno stupore cherasentava il terrore. Il ritorno dello zaimf, vagamente

preannunciato, completava la meraviglia. Così ora gli dèie la forza di Cartagine sembravano favorire il suffeta.

Nessuno dei suoi nemici osò avanzare una lamentela ouna recriminazione. Per l’entusiasmo degli uni e lapusillanimità degli altri, un esercito di cinquemila uominifu pronto prima della scadenza stabilita.

Raggiunse rapidamente Utica per coprire laretroguardia del suffeta, mentre tremila uomini tra i piùvalorosi salirono sulle navi che li avrebbero sbarcati aIppozarito, da dove avrebbero respinto i Barbari.

Annone ne aveva accettato il comando; ma affidòl’esercito al suo luogotenente Magdassan, per guidarepersonalmente le truppe da sbarco, non potendosopportare gli scossoni della lettiga. La sua malattia gliaveva corroso le labbra e le narici, scavandogli in mezzoalla faccia un grande buco; gli si vedeva il fondo dellagola a una distanza di dieci passi, e lui sapeva di esserecosì ripugnante che si metteva, come una donna, un velosulla testa.

Ippozarito non ascoltò le sue intimazioni, e neppurequelle dei Barbari; ma ogni mattina gli abitanti calavano acostoro dei canestri pieni di viveri e, gridando dall’altodelle torri, si scusavano di non poter fare di più per laRepubblica, e li scongiuravano di allontanarsi. Le stesserimostranze le rivolgevano per mezzo di segnali aiCartaginesi che stazionavano in mare.

Annone si contentava di bloccare il porto senzarischiare un attacco. Tuttavia convinse i giudici di

Ippozarito ad accogliere trecento soldati. Poi andò versoil Capo dell’Uva e fece un lungo giro per accerchiare iBarbari, operazione inopportuna e anche pericolosa. Lasua gelosia gli impediva di andare in aiuto del suffeta;fermava le sue spie, ostacolava tutti i suoi piani,comprometteva l’impresa. Alla fine Amilcare scrisse alGran Consiglio di levarglielo di torno, e Annone tornò aCartagine furibondo per la viltà degli Anziani e la folliadel suo collega. Dunque, dopo tante speranze, ci siritrovava in una situazione peggiore di prima; ma sicercava di non pensarci e di non parlarne neppure.

Come se non bastasse, si venne a sapere che iMercenari della Sardegna avevano crocifisso il lorogenerale, si erano impadroniti delle piazzeforti e avevanosgozzato dappertutto gli uomini di razza cananea. Ilpopolo romano minacciò la Repubblica di aprireimmediatamente le ostilità se non pagava milleduecentotalenti e non cedeva l’intera isola della Sardegna. Avevaaccettato l’alleanza dei Barbari, e inviò loro delle chiattecariche di farina e carne secca. I Cartaginesi leinseguirono, catturando cinquecento uomini; ma tregiorni dopo, una flotta proveniente dalla Bisacena, cheportava viveri a Cartagine, affondò durante unatempesta. Evidentemente gli dèi erano contro Cartagine.

Allora i cittadini di Ippozarito, col pretesto di unallarme, fecero salire sulle mura i trecento uomini diAnnone; poi, giungendo improvvisamente alle lorospalle, li afferrarono per le gambe e li gettarono giù daibastioni. I pochi che non erano morti furono inseguiti e

bastioni. I pochi che non erano morti furono inseguiti efinirono annegati in mare.

Anche Utica sopportava male i soldati, perchéMagdassan aveva fatto come Annone, e secondo i suoiordini circondava la città, sordo alle preghiere diAmilcare. A costoro gli Uticensi dettero da bere del vinomisto a mandragora, poi li sgozzarono nel sonno.Contemporaneamente arrivarono i Barbari; Magdassanfuggì, le porte si aprirono, e da quel momento le duecittà tirie dimostrarono ai loro nuovi amici una tenacedevozione, e ai loro antichi alleati un odio irrefrenabile.

Questo abbandono della causa punica era unammonimento, un esempio. Le speranze di liberazione sirisvegliarono. Certe popolazioni ancora incerte nonesitarono più. Tutto stava crollando. Il suffeta lo venne asapere, e ormai non aspettava più nessun aiuto! Eraperduto, senza scampo.

Subito congedò Narr’Havas, che doveva proteggere lefrontiere del suo regno. Quanto a lui, decise di tornare aCartagine per prendervi nuovi soldati e ricominciare laguerra.

I Barbari insediati a Ippozarito videro il suo esercitomentre scendeva la montagna.

Dove andavano i Cartaginesi? Senza dubbio era lafame a spingerli; e, impazziti per le sofferenze, malgradola loro debolezza venivano a dare battaglia. Ma poisvoltarono a destra: fuggivano. Ora si potevanoraggiungere, e fare a pezzi. I Barbari si lanciarono al loroinseguimento.

I Cartaginesi furono fermati dal fiume. Era in piena, eil vento dell’ovest non aveva soffiato. Gli uni lo passaronoa nuoto, gli altri sugli scudi. Si rimisero in marcia. Scesela notte. Non si videro più.

I Barbari non si fermarono; risalirono il fiume, allaricerca di un passaggio più stretto. La gente di Tunisiaccorse trascinando quella di Utica. A ogni macchiacresceva il loro numero; e i Cartaginesi, sdraiandosi aterra, udivano rimbombare i loro passi nelle tenebre. Ditanto in tanto, per farli rallentare, Barca faceva lanciareindietro scariche di frecce; molti rimasero uccisi. Quandosorse il sole, si trovarono tra le montagne dell’Ariace,dove la strada fa un gomito.

Allora Mâtho, che procedeva in testa, credette discorgere all’orizzonte qualcosa di verde sulla cima diun’altura. Poi il terreno si abbassò e apparvero obelischi,cupole, case! Era Cartagine. Si appoggiò a un albero pernon cadere, tanto il suo cuore batteva veloce.

Pensava a tutto quello che era accaduto nella suaesistenza dall’ultima volta che vi era passato! Era unasorpresa infinita, che lo stordiva. Poi l’idea di rivedereSalammbô lo riempì di gioia. Ricordò le ragioni cheaveva di esecrarla; le allontanò in fretta. Fremente,concentrando lo sguardo, scrutava oltre il tempio diEshmun l’alta terrazza di un palazzo, al di sopra dellepalme; un sorriso estatico gli illuminava il volto, comeraggiunto da una grande luce; apriva le braccia, mandavabaci nel vento e mormorava: «Vieni! Vieni!»; un sospiro

gli gonfiò il petto, e due lacrime, lunghe come perle, glicaddero sulla barba.

«Chi ti trattiene!», esclamò Spendio. «Affrettati! Inmarcia! Il suffeta ci sfugge! Ma le tue ginocchia vacillanoe tu mi guardi come un ubriaco!».

Fremeva d’impazienza; spingeva Mâtho; e,ammiccando con gli occhi, come all’avvicinarsi di unameta a lungo sognata:

«Ah! Ci siamo! Eccoci! Li ho in pugno!».Sembrava così convinto e trionfante che Mâtho, scosso

dal suo torpore, si sentì trascinare. Quelle parole gligiungevano nel momento del massimo sconforto,incitavano la disperazione alla vendetta, indicavano unosfogo alla sua collera. Saltò su uno dei cammelli dellesalmerie, gli strappò la cavezza; con la lunga cordacolpiva i ritardatari con tutta la sua forza; e correva adestra e a sinistra della retroguardia, come un cane chespinge avanti il gregge.

Al tuonare della sua voce, le file si serrarono; perfinogli zoppi affrettarono il passo; a metà dell’istmol’intervallo diminuì. I primi Barbari marciavano nellapolvere dei Cartaginesi. I due eserciti si avvicinavano,stavano per entrare in contatto. Ma la porta di Malqua, laporta di Tagaste e la grande porta di Khamonspalancarono i battenti. Il quadrato punico si divise; trecolonne sprofondarono nelle porte, tumultuosamente,sotto i portici. Presto però la massa, troppo accalcata,non riuscì più ad avanzare; le picche si urtavano in aria, e

le frecce dei Barbari si schiantavano contro le mura.Sulla soglia della porta di Khamon si vide Amilcare. Si

girò e gridò ai suoi uomini di fare spazio. Scese dal suocavallo, e, pungendolo sulla groppa con la spada, lolanciò verso i Barbari.

Era uno stallone oringio, nutrito con polpette di farina,e che piegava le ginocchia per far salire il suo padrone.Perché lo scacciava? Era forse un sacrificio?

Il grande cavallo galoppava in mezzo alle lance,rovesciava gli uomini, e inciampando con le zampe nelleproprie viscere cadeva, poi si rialzava con salti furiosi; ementre i Barbari si scostavano, cercavano di fermarlo oguardavano sbalorditi, i Cartaginesi si erano ricongiunti;entrarono; l’enorme porta si richiuse dietro di lororimbombando.

Non cedette. I Barbari vi si gettarono contro; e perqualche minuto l’esercito, in tutta la sua lunghezza, fupercorso da un’oscillazione che lentamente si smorzò epoi cessò.

I Cartaginesi avevano appostato dei soldatisull’acquedotto; cominciarono a lanciare pietre, palle,travi. Spendio fece presente che non era il caso diinsistere. Andarono ad accamparsi più lontano, decisi adassediare Cartagine.

Intanto la notizia della guerra aveva superato i confinidell’impero punico; e, dalle colonne d’Ercole fin oltreCirene, i pastori ne fantasticavano custodendo le greggi,e le carovane ne parlavano la notte, al chiarore delle

e le carovane ne parlavano la notte, al chiarore dellestelle. Esistevano uomini che osavano attaccare la grandeCartagine, dominatrice dei mari, splendida come il sole eterribile come un dio! Addirittura era corsa più volte lavoce della sua caduta; e tutti ci avevano creduto, perchétutti la desideravano: le popolazioni sottomesse, i villaggitributari, le province alleate, le orde indipendenti, coloroche la esecravano per la sua tirannia, o ne invidiavano lapotenza, o ne bramavano la ricchezza. I più coraggiosi sierano presto uniti ai Mercenari. La disfatta del Macaraveva fermato tutti gli altri. Poi avevano ripreso fiducia, apoco a poco si erano fatti avanti, riavvicinati; e ora gliuomini delle regioni orientali erano tra le dune di Clupea,dall’altra parte del golfo. Appena videro i Barbari, simostrarono.

Non erano i Libici dei dintorni di Cartagine, che damolto tempo costituivano la terza armata; erano i nomadidell’altopiano di Barca, i banditi del Capo Fisco e delpromontorio di Derna, quelli del Fezzan e dellaMarmarica. Avevano attraversato il desertoabbeverandosi ai pozzi salmastri murati con ossa dicammello; gli Zuaeci, coperti di piume di struzzo, eranovenuti su quadrighe; i Garamanti, col volto coperto da unvelo nero, seduti sulle reni delle giumente dipinte; altri ingroppa ad asini, onagri, zebre, bufali; e alcuni siportavano dietro le famiglie, gli idoli, il tetto dellacapanna a forma di scialuppa. C’erano degli Ammoniticon la pelle raggrinzita dall’acqua calda delle lorofontane; dei Trogloditi, che seppelliscono ridendo i loro

morti sotto rami di alberi; e gli schifosi Ausei chemangiano le cavallette; gli Achirmachidi che mangiano lepulci, e i Gisanti, dipinti di cinabro, che mangiano lescimmie.

Tutti si erano schierati sulla riva del mare, in unalunga linea diritta. Poi avanzarono come vortici di sabbiasollevati dal vento. A metà dell’istmo la folla si fermò,perché i Mercenari, accampati davanti a loro vicino allemura, non volevano spostarsi.

Poi, dal lato dell’Ariana, apparvero gli uominidell’Occidente, il popolo dei Numidi. Infatti Narr’Havasregnava soltanto sui Massilii; e del resto, poiché latradizione consentiva loro di abbandonare un re sconfitto,si erano riuniti sulle rive dello Zaine,3 e l’avevano varcatoappena Amilcare si era allontanato. Si videro accorrereper primi tutti i cacciatori del Maletut-Baal e del Garafo,vestiti di pelli di leone, che guidavano con l’asta dellalancia i loro piccoli cavalli magri dalla lunga criniera; poivenivano i Getuli, con le corazze di pelle di serpente; poi iFarusii, con in testa alte corone di cera e resina; e iCauni, i Macari, i Tillabari, ognuno con due giavellotti euno scudo rotondo in pelle di ippopotamo.4 Si fermaronosotto le Catacombe, tra le prime pozze della laguna.

Ma quanto i Libici si furono spostati, nel luogo primaoccupato da loro si vide, come una nube rasoterra, lamoltitudine dei Negri. Ne erano venuti dall’Harushbianco, dall’Harush nero, dal deserto di Augile e perfinodalla grande regione di Agazimba, a quattro mesi di

marcia a sud dei Garamanti, e da più lontano ancora!Malgrado i gioielli di legno rosso, il sudiciume della loropelle nera li faceva sembrare delle more rotolate a lungonella polvere. Portavano brache di corteccia, tuniche dierbe secche, musi di belve sulla testa, e, ululando comelupi, agitavano sbarre guarnite di anelli e brandivano,come stendardi, code di vacca in cima a bastoni.

Poi, dietro i Numidi, i Maurusii e i Getuli, siaccalcavano gli uomini giallastri che vivono sparsi oltreTaggir nelle foreste di cedri. Dalle loro spalle pendevanofaretre di pelle di gatto, e portavano al laccio canienormi, alti come asini, e che non abbaiavano.

Infine, come se l’Africa non si fosse svuotataabbastanza, e si fosse dovuto ricorrere agli scarti dellerazze per aumentare i furori, dietro tutti gli altriavanzavano uomini dai lineamenti bestiali, chesghignazzavano come degli idioti; miserabili devastati damalattie ripugnanti, pigmei deformi, mulatti di sessoambiguo, albini i cui occhi rossi non sopportavano la lucedel sole; balbettando dei suoni incomprensibili, simettevano un dito in bocca per dire che avevano fame.

La varietà delle armi non era inferiore alla confusionedei vestiti e dei popoli. Non mancava nessuno strumentoper uccidere, dai pugnali di legno, dalle asce di pietra edai tridenti d’avorio, fino alle lunghe sciabole dentatecome seghe, sottili, fatte di una lama di rame flessibile.Maneggiavano coltellacci che si biforcavano in tanti rami,come corna di antilope, e roncole legate a una corda,

triangoli di ferro, mazze, punteruoli. Gli Etiopi delBamboto nascondevano tra i capelli piccole frecceavvelenate. Molti portavano sacchi di ciottoli. A ltri, amani vuote, digrignavano minacciosamente i denti.

Quella moltitudine si agitava incessantemente, con unasorta di moto ondoso. Dromedari imbrattati di catramecome navi deponevano a terra le donne coi figli legati alleanche. Si spargevano a terra le vettovaglie dalle ceste;camminando si calpestavano pezzi di sale, balle digomma, datteri marci, noci di cola; e talvolta, su senicoperti di sporcizia, penzolava da un esile cordone undiamante che i Satrapi avrebbero bramato, una pietraquasi favolosa e sufficiente ad acquistare un impero. Lamaggior parte di loro non sapeva neppure che cosavolesse. Li spingeva una curiosità inconsapevole; iNomadi, che non avevano mai visto una città, eranospaventati dall’ombra delle mura.

Ora l’istmo scompariva sotto gli uomini; e quella lungaestensione, dove le tende sembravano capanne in unainondazione, giungeva fino alle prime linee degli altriBarbari, tutte luccicanti di armi e dispostesimmetricamente sui due lati dell’acquedotto.

I Cartaginesi non avevano ancora superato lo spaventodell’arrivo, quando videro avanzare verso di loro, comedei mostri, come edifici – con i pennoni, le braccia, icordami, le articolazioni, i capitelli, le corazze – lemacchine d’assedio inviate dalle città tirie: sessantacarrobaliste, ottanta onagri, trenta scorpioni, cinquanta

tollenoni, dodici arieti e tre gigantesche catapulte chelanciavano massi del peso di quindici talenti. Lespingevano masse di uomini aggrappati ai lorobasamenti; a ogni passo traballavano; e giunsero cosìdavanti alle mura.

Ma ci volevano ancora molti giorni per concludere ipreparativi dell’assedio. I Mercenari, istruiti dalle lorosconfitte, non volevano rischiare in azioni inutili; e da unaparte e dall’altra non c’era fretta, perché tutti sapevanoche stava per iniziare un’azione terribile il cui risultatosarebbe stato la vittoria o lo sterminio totale.

Cartagine poteva resistere a lungo; le sue larghe muraoffrivano una serie di angoli rientranti o sporgenti,disposti in modo tale da respingere gli assalti.

Tuttavia, verso le Catacombe, ne era crollata unaparte, e nelle notti oscure si scorgevano le luci dei tuguridi Malqua. In qualche punto dominavano l’altezza deibastioni. Era là che vivevano, con i loro nuovi sposi, ledonne dei Mercenari scacciate da Mâtho. Rivedendoli, illoro cuore non si trattenne più. Da lontano agitarono lesciarpe; poi venivano, nelle tenebre, a parlare coi soldatiattraverso le fessure del muro, e una mattina il GranConsiglio venne a sapere che erano tutte fuggite. Alcuneerano passate tra le pietre; altre, più coraggiose, si eranocalate con delle corde.

Finalmente Spendio decise di attuare il suo progetto.La guerra, trattenendolo lontano, glielo aveva impedito

fino a quel momento; e da quando erano tornati davanti

a Cartagine gli sembrava che gli abitanti sospettassero lesue intenzioni. Ma ben presto ridussero il numero dellesentinelle dell’acquedotto. Gli uomini bastavano appenaper la difesa delle mura.

L’ex schiavo si esercitò per molti giorni a tirare conl’arco sui fenicotteri del lago. Poi, una sera in cuisplendeva la luna, pregò Mâtho di accendere nel cuoredella notte un grande fuoco di paglia, e in quello stessomomento i suoi uomini avrebbero dovuto gridare tuttiinsieme; e, portando con sé Zarxas, se ne andò lungo lariva del golfo in direzione di Tunisi.

A ll’altezza delle ultime arcate, puntarono dirittisull’acquedotto; il luogo era scoperto: avanzaronostrisciando fino alla base dei piloni.

Le sentinelle della piattaforma passeggiavanotranquillamente.

Divamparono alte fiamme; le trombe squillarono; isoldati di vedetta, credendo a un assalto, si precipitaronoverso Cartagine.

Era rimasto solo un uomo. Appariva nero sul fondodel cielo. La luna lo illuminava da dietro, e la sua ombrasmisurata sembrava, sulla piana, un obelisco checamminasse.

Aspettarono di averlo di fronte. Zarxas afferrò lafionda; per prudenza o per ferocia, Spendio lo trattenne.

«No, il sibilo del sasso farebbe rumore! A me!».Allora tese l’arco con tutte le sue forze, appoggiandolo

in basso sull’alluce del piede sinistro; prese la mira, e la

freccia partì.L’uomo non cadde. Scomparve.«Se fosse ferito, lo sentiremmo!», disse Spendio; e si

arrampicò svelto di piano in piano, come aveva fatto laprima volta, aiutandosi con una corda e un arpione. Poi,quando fu in alto, vicino al cadavere, lasciò ricadere lacorda. Il Balearico vi legò un piccone e un mazzuolo, etornò indietro.

Le trombe non suonavano più. Ora tutto eratranquillo. Spendio aveva sollevato una delle lastre, eraentrato nell’acqua, aveva rimesso la lastra al suo posto.

Calcolando la distanza dal numero dei passi, giunseesattamente al punto dove aveva notato, dall’esterno, unafessura obliqua; e per tre ore, fino al mattino, lavoròsenza sosta, furiosamente, respirando appena attraversogli interstizi delle lastre superiori, assalito dall’angoscia ecredendo venti volte di morire. Finalmente si udì unoscricchiolio; una pietra enorme, rimbalzando sulle arcateinferiori, ruzzolò fino a terra, e, di colpo, una cataratta,un fiume intero, precipitò dal cielo nella pianura.L’acquedotto, spezzato nel mezzo, si svuotava. Era lamorte per Cartagine, e la vittoria per i Barbari.

In un istante i Cartaginesi, svegliati, apparvero sullemura, sulle case, sui templi. I Barbari si spingevano,gridavano. Danzavano in delirio intorno alla grandecascata d’acqua e, presi da una gioia irrefrenabile,venivano a bagnarvisi la testa.

Sulla cima dell’acquedotto si vide un uomo con una

tunica bruna, a brandelli. Si sporgeva chinato a guardaresotto di sé, le mani sui fianchi, come stupito della suaopera.

Poi si rialzò. Percorse l’orizzonte con un’aria fiera chesembrava dire: «Tutto questo ora è mio!». Esplosero gliapplausi dei Barbari; i Cartaginesi, rendendosi conto deldisastro, urlavano disperati. A llora Spendio si mise acorrere sulla piattaforma da un capo all’altro e, come unauriga trionfatore ai giochi olimpici, folle d’orgoglio,alzava le braccia.

XIIIMoloch

I Barbari non avevano bisogno di un vallo di difesa versol’Africa, che apparteneva a loro. Per rendere più facilel’attacco alle mura, fu abbattuto il trinceramento checosteggiava il fossato. Poi Mâtho divise l’esercito ingrandi semicerchi, in modo da circondare meglioCartagine. Gli opliti dei Mercenari furono piazzati in primalinea; dietro di loro, i frombolieri e i cavalieri; infine lesalmerie, i carri, i cavalli; e al di là di questa moltitudine,a trecento passi dalle torri, si ergevano le macchine.

Nell’infinita varietà dei loro nomi (che cambiarono piùvolte nel corso dei secoli), potevano ricondursi a duesistemi: quelle che agivano come fionde, e le altre cheagivano come archi.

Le prime, le catapulte, si componevano di un telaioquadrato, con due montanti verticali e una barraorizzontale. Nella parte anteriore un cilindro, munito dicavi, tratteneva una grossa leva che terminava in uncucchiaio nel quale venivano posti i proiettili; la base

della leva era avvolta da una matassa di fili ritorti, equando si mollavano le corde, la leva scattava in alto,andando a sbattere contro la barra; il suo brusco arrestoaumentava la forza del lancio.

Le seconde presentavano un meccanismo piùcomplicato; al centro di una piccola colonna era fissatauna traversa, nel punto in cui finiva ad angolo retto unascanalatura; alle estremità della traversa si ergevano duepioli avvolti da torciglioni di crini; vi erano fissate dueputrelle che trattenevano i capi di una corda che venivatesa in basso fino alla scanalatura, su una piastra dibronzo. Scattando una molla, la piastra di metallo siliberava e, scivolando sulle guide, lanciava le frecce.

Le catapulte si chiamavano anche onagri, come gliasini selvatici che lanciano sassi con le zampe, e le balistesi chiamavano scorpioni a causa di un gancio fissato allapiastra di metallo che, abbassato con un pugno, facevascattare una molla.

La loro costruzione richiedeva calcoli sapienti; illegname doveva essere scelto tra le essenze più dure, egli ingranaggi erano tutti di bronzo; si armavano permezzo di leve, carrucole, argani e verricelli;1 pernirobusti variavano la direzione del tiro, si spostavano surulli, e le più grandi, trasportate pezzo per pezzo,venivano rimontate di fronte al nemico.

Spendio dispose le tre grandi catapulte ai tre angoliprincipali delle mura; davanti a ogni porta piazzò unariete, davanti a ogni torre una balista, e più indietro si

muovevano liberamente le carrobaliste. Ma bisognavaproteggerle dal fuoco degli assediati e innanzituttoriempire il fossato che li separava dalle mura.

Si portarono avanti graticci di giunchi verdi e tettoie diquercia, simili a enormi scudi che scivolassero su treruote; piccole capanne ricoperte di pelli fresche eimbottite di alghe riparavano chi lavorava; le catapulte ele baliste furono protette con reti di corde imbevutenell’aceto per renderle incombustibili. Le donne e ibambini andavano a raccogliere sassi sulla spiaggia,raccoglievano la terra con le mani e la portavano aisoldati.

Anche i Cartaginesi si preparavano.Amilcare li aveva subito rassicurati dicendo che nelle

cisterne c’era acqua per centoventitré giorni. Questaaffermazione, la sua presenza tra loro, e soprattuttoquella dello zaimf, ridavano speranza. Cartagine sirisollevò dal suo scoraggiamento; coloro che non eranodi origine cananea furono trascinati dalla passione deglialtri.

Furono armati gli schiavi, si vuotarono gli arsenali;ogni cittadino ebbe il suo posto e il suo compito.Sopravvivevano ancora milleduecento disertori; il suffetali fece tutti capitani; e i carpentieri, gli armaioli, i fabbri egli orefici furono preposti alle macchine. Malgrado lecondizioni della pace romana, i Cartaginesi ne avevanoconservate alcune. Furono riparate. Erano pratici di queilavori.

I due lati settentrionale e orientale, difesi dal mare edal golfo, erano inaccessibili. Sul tratto di mura chefronteggiava i Barbari furono issati tronchi d’albero,macine di mulino, vasi pieni di zolfo, orci pieni d’olio, efurono costruiti dei fornelli. Furono ammucchiate pietresulle piattaforme delle torri, e le case addossate aibastioni furono riempite di sabbia per rinforzarli eaumentarne lo spessore.

Assistendo a questi preparativi, i Barbari si irritarono.Vollero combattere subito. Ma i massi che misero sullecatapulte erano talmente pesanti che le leve sispezzarono; l’attacco fu rinviato.

Finalmente il tredicesimo giorno del mese di Shebat, alsorgere del sole, si udì un gran colpo contro la porta diKhamon.

Settantacinque soldati tiravano le corde assicurate allabase di una trave gigantesca, sospesa orizzontalmentecon catene a un’impalcatura; la trave terminava in unatesta di ariete, tutta di bronzo. Era stata fasciata con pellidi bue; cerchiata qua e là con anelli di ferro, era grossatre volte il corpo di un uomo, lunga centoventi cubiti, e,spinta in avanti e tirata indietro da una folla di braccianude, avanzava e rinculava con un’oscillazione regolare.

Cominciarono a muoversi anche gli arieti davanti allealtre porte. Nelle ruote cave dei timpani si videro uominiche salivano di gradino in gradino. Le pulegge, i pernicigolarono, le reti di cordame caddero a terra, e partironodi colpo scariche di pietre e di frecce; tutti i frombolieri

correvano sparpagliati. A lcuni soldati si avvicinavano albastione, nascondendo sotto gli scudi dei vasi pieni diresina; poi li lanciavano con tutta la loro forza. Questagrandinata di pietre, frecce e fuoco passava sopra leprime file e ricadeva con una parabola dietro le mura.Ma, sulla loro cima, apparvero alcune di quelle lunghegru usate per alberare le navi; ne scesero delle pinzeenormi che terminavano con due semicerchi dentatiall’interno, che afferrarono gli arieti. I soldati, aggrappatialla trave, tiravano indietro. I Cartaginesi tiravano perissarla; e la lotta durò fino a sera.

Quando i Mercenari, il giorno dopo, ripresero l’attacco,la parte superiore delle mura era interamente coperta diballe di cotone, tele, cuscini; le feritoie erano tappate dastuoie; e sul bastione tra le gru si vedeva un allineamentodi forconi e roncole in cima a bastoni. Subito cominciòuna resistenza furiosa.

Tronchi d’albero sostenuti da cavi cadevano ericadevano, con movimento alterno, sugli arieti; arpionilanciati da baliste strappavano i tetti delle capanne; edalle piattaforme delle torri si rovesciavano torrenti diciottoli e selci.

Finalmente gli arieti infransero la porta di Khamon e laporta di Tagaste. Ma i Cartaginesi avevano ammucchiatoall’interno una tale quantità di materiali che i battenti nonsi aprirono. Rimasero in piedi.

A llora furono spinte contro le mura delle trivelle chepenetrando nelle giunture dei massi le avrebbero

sconnesse. Le macchine furono manovrate meglio, e iloro inservienti divisi in squadre; erano in funzione dallamattina alla sera, senza fermarsi mai, con la monotonaprecisione del telaio di un tessitore.

Spendio non si stancava mai di dirigerle. Era lui stessoa tendere i cavi ritorti delle baliste. Perché ci fosse unaperfetta parità di tensione, si stringevano le cordebattendole ora a destra e ora a sinistra fino a quando nonrestituivano lo stesso suono. Salito sul telaio, Spendio lebatteva piano con la punta del piede, e tendeva l’orecchiocome un musicista che accordi una lira. Poi, quando laleva della catapulta scattava e la colonna della balistatremava sotto il colpo della molla, e le pietre eranoscagliate a ventaglio e le frecce a ruscelli, si sporgeva contutto il corpo e gettava le braccia al cielo, come sevolesse accompagnare il lancio. I soldati, ammirati dellasua abilità, eseguivano i suoi ordini. Lavorando inallegria, continuavano a scherzare sui nomi dellemacchine. Così le tenaglie per afferrare gli arieti sichiamavano “lupi”, e le gallerie coperte “pergole”; e loroerano “agnelli”, e si andava a vendemmiare; e mentrearmavano le macchine dicevano agli onagri: «Su, scalciabene!», e agli scorpioni: «Trafiggili fino al cuore!».Queste facezie, sempre le stesse, davano loro coraggio.

Tuttavia le macchine non riuscivano a demolire ilbastione. Era formato da due muri e riempito di terra; lemacchine abbattevano le parti superiori. Ma gli assediati,ogni volta, le rialzavano. Mâtho ordinò di costruire delletorri di legno alte quanto le torri di pietra. Gettarono nel

torri di legno alte quanto le torri di pietra. Gettarono nelfossato zolle di terra, pali, sassi e perfino carri con leruote per riempirlo più in fretta; prima che fosse pieno,l’immensa massa dei Barbari ondeggiò sulla pianura in unsolo movimento, e si abbatté sul piede delle mura, comeun mare che trabocchi.

Furono portate avanti le scale di corda, le scale dilegno e le sambuche, cioè due pali dai quali venivacalata, per mezzo di paranchi, una serie di canne dibambù che terminava con un ponte mobile. Erano tantelinee diritte appoggiate alle mura, e i Mercenari lesalivano, l’uno dietro l’altro, con le armi in pugno. Nonun Cartaginese che si mostrasse; ed erano già arrivati adue terzi del bastione. Le feritoie si aprirono vomitandofuoco e fumo come fauci di drago; la sabbia si spargeva,penetrando nei giunti delle armature; il petrolio siattaccava ai vestiti; il piombo liquido saltellava sugli elmi,bucava le carni; una pioggia di scintille schizzava suivolti, e orbite senza occhi sembravano piangere lacrimegrosse come mandorle. C’erano uomini, tutti gialli di olio,con i capelli in fiamme. Si mettevano a correre,appiccando fuoco agli altri. Li spegnevano gettando loroin faccia, da lontano, mantelli inzuppati di sangue.Alcuni, che non avevano nessuna ferita, restavanoimmobili, rigidi come pali, a bocca aperta e con le bracciaspalancate.

L’attacco si ripeté per molti giorni di seguito, perché iMercenari speravano di vincere puntando tutto sulla forzae sull’audacia. Talvolta un uomo sulle spalle di un altro

piantava un picchetto tra le pietre, e se ne serviva persalire più in alto, e ne piantava un secondo, un terzo;riparati dal cornicione delle merlature che sporgeva dallemura, a poco a poco salivano in questo modo; ma, giuntia una certa altezza, ripiombavano sempre giù. Il grandefossato traboccava; calpestati dai vivi, i feriti siammucchiavano alla rinfusa tra i cadaveri e i moribondi.In mezzo alle viscere aperte, ai cervelli sparsi e alle pozzedi sangue, i corpi calcinati formavano delle macchie nere;e braccia e gambe che sporgevano per metà da unmucchio restavano rigide e dritte come pali in un vignetoincendiato.

Poiché le scale erano insufficienti, furono impiegati itollenoni, macchine costituite da una lunga trave postatrasversalmente su un’altra, con all’estremità una grandecesta quadrangolare che era in grado di contenere trentafanti armati.

Appena fu pronta la prima, Mâtho voleva salirvi. MaSpendio lo fermò.

Alcuni uomini si curvarono su un argano; la grandetrave si alzò, si stabilizzò in una posizione orizzontale, poisi alzò quasi verticalmente e, troppo carica all’estremità,si fletteva come una canna immensa. I soldati erannoammassati nella cesta, nascosti fino al mento; sivedevano soltanto le piume degli elmi. A lla fine, quandofu a un’altezza di cinquanta cubiti, ondeggiò più volte adestra e a sinistra, poi si abbassò; e, come il braccio diun gigante che tenesse sul palmo della mano una coorte

di pigmei, depositò sul bordo delle mura la cesta piena diuomini. Saltarono in mezzo alla calca e non tornaronopiù.

Tutti gli altri tollenoni furono preparati rapidamente.Ma ce ne sarebbero voluti cento di più per prendere lacittà. Allora vennero impiegati in un modo micidiale:arcieri etiopi si appostavano nelle ceste; poi, tirate le funi,restavano sospesi in aria e lanciavano frecce avvelenate.In questo modo i cinquanta tollenoni, dominando lemerlature, circondavano Cartagine come mostruosiavvoltoi; e i Negri ridevano vedendo le guardie suibastioni che morivano tra convulsioni atroci.

Amilcare inviò degli opliti; faceva bere loro ognimattina il succo di certe erbe che li proteggeva dalveleno.

Una sera, particolarmente buia, imbarcò i suoi soldatimigliori su chiatte e zattere e, voltando a destra delporto, andò a sbarcare alla Tenia. Poi avanzarono finoalle prime linee dei Barbari e, attaccandoli sul fianco,fecero una grande carneficina. Talvolta, di notte, dall’altodelle mura venivano calati, appesi alle corde, uomini checon le torce appiccavano il fuoco alle attrezzature deiMercenari, e poi risalivano.

Mâtho si accaniva; ogni ostacolo aumentava la suacollera; giungeva a compiere cose terribili e stravaganti.Convocò Salammbô, mentalmente, a un incontro; poi laattese. Lei non venne; lo prese come un nuovotradimento; a questo punto la odiava. Avesse anche visto

il suo cadavere, probabilmente avrebbe tirato diritto.Raddoppiò gli avamposti, piantò delle forche sotto lemura, nascose trappole nel terreno, e ordinò ai Libici diportargli un’intera foresta di legname per darle fuoco ebruciare Cartagine, come se fosse una tana di volpi.

Spendio si ostinava nell’assedio. Cercava di inventaremacchine terribili, come non ne erano state costruite mai.

Gli altri Barbari, accampati in lontananza sull’istmo,erano stupiti di tanta lentezza; mormoravano; si decise dilasciarli fare.

Allora costoro si precipitarono con i coltellacci e igiavellotti, a colpire le porte. Ma non avendo corazzevenivano feriti facilmente, i Cartaginesi ne massacraronoun grande numero; e i Mercenari se ne rallegrarono,senza dubbio gelosi dei propri diritti di saccheggio. Nenacquero litigi, risse tra loro. Poi, essendo devastata lacampagna, assai presto ci si azzuffò per i viveri. Siscoraggiavano. Orde numerose se ne andarono. Ma lamassa era tale che non ci se ne accorse.

I migliori tentarono di scavare dei cunicoli; il terreno,mal sostenuto, franò. Ricominciarono in altri punti;Amilcare indovinava sempre la direzione degli scavi,accostando l’orecchio a uno scudo di bronzo. Scavò a suavolta dei cunicoli sotto il percorso delle torri di legno;così, quando le spinsero avanti, sprofondarono nellebuche.

Alla fine tutti riconobbero che la città era imprendibile,finché non si fosse alzato all’altezza delle mura un

terrapieno che permettesse di combattere allo stessolivello; la parte superiore sarebbe stata lastricata in mododa potervi muovere le macchine. Allora Cartagine nonavrebbe più potuto resistere.

La città cominciava a soffrire la sete. L’acqua, cheall’inizio dell’assedio costava due kesitah il bath, oracostava uno shekel d’argento; anche le provviste di carnee di grano si stavano esaurendo; si temeva la fame; giàqualcuno parlava di bocche inutili, e questo spaventavatutti.

Dalla piazza di Khamon fino al tempio di Melkarth icadaveri ingombravano le strade; e siccome si era allafine dell’estate, grosse mosche nere tormentavano icombattenti. I vecchi trasportavano i feriti, e i devoticelebravano i funerali fittizi di parenti e amici, mortilontano in guerra. Statue di cera con capelli e vestitierano distese attraverso le porte. Si struggevano al caloredei ceri che ardevano intorno; la pittura colava sullespalle, e le lacrime scorrevano sui volti dei vivi, chesalmodiavano lugubri canti. Intanto la folla correva;passavano gruppi di armati; i capitani gridavano ordini, esi udivano senza tregua i colpi degli arieti che siabbattevano sui bastioni.

La temperatura aumentò talmente che i corpi,gonfiandosi, non entravano più nelle bare. Venivanobruciati nei cortili. Ma i fuochi, in quei luoghi stretti,incendiavano i muri vicini e lunghe fiamme si

sprigionavano di colpo dalle case, come zampilli disangue da un’arteria; così Moloch possedeva Cartagine;stringeva in pugno i bastioni, correva per le strade,divorava perfino i cadaveri.

Uomini che in segno di disperazione indossavanomantelli di stracci, si piazzarono agli angoli dei crocicchi.Inveivano contro gli Anziani, contro Amilcare,predicavano al popolo la rovina totale e lo incitavano adistruggere tutto, e a permettersi tutto. I più pericolosierano i bevitori di giusquiamo;2 durante le loro crisicredevano di essere bestie feroci e saltavano addosso aipassanti, e li sbranavano. Intorno a loro si formavanoassembramenti; e ci si dimenticava della difesa diCartagine. Il suffeta pensò di pagarne altri chesostenessero la sua politica.

Per trattenere in città il genio degli dèi, i loro simulacrierano stati coperti di catene. Furono posti veli neri suiPateci e cilici intorno agli altari; si tentava di provocarel’orgoglio e la gelosia dei Baal cantando al loro orecchio:«Ti fai vincere! Gli altri sono forse più forti? Fatti vedere!Aiutaci! A ltrimenti i popoli diranno: “Ma dove sono finiti iloro dèi?”».

Un’ansia continua agitava i collegi dei pontefici.Soprattutto quelli della Rabbetna avevano paura, perchéil recupero dello zaimf non era servito. Restavano chiusinel terzo recinto, inespugnabile come una fortezza. Unosolo tra loro si arrischiava a uscire, il gran sacerdoteShahabarim.

Andava da Salammbô. Ma restava in silenzio a fissarla,oppure era prodigo di parole e i rimproveri che le facevaerano più duri che mai.

Per una contraddizione incomprensibile, nonperdonava alla giovane di aver eseguito i suoi ordini;Shahabarim aveva intuito tutto, e l’ossessione diquell’idea ravvivava la gelosia della sua impotenza.Mâtho, a sentire lui, assediava Cartagine per riprendere lozaimf; e rovesciava imprecazioni e scherni su quelBarbaro che pretendeva di possedere delle cose sacre.Tuttavia non era questo che il sacerdote voleva dire.

Ma ormai Salammbô non aveva più paura di lui. Nonsentiva più le angosce che aveva sofferto in altri tempi.Provava una strana tranquillità. Il suo sguardo, menoincerto, brillava di una fiamma limpida.

Intanto il pitone si era ammalato di nuovo; e, poichéSalammbô, al contrario, sembrava guarire, la vecchiaTaanach se ne rallegrava, convinta che il serpente,deperendo, prendesse su di sé il languore della suapadrona.

Una mattina lo trovò dietro il letto di pelle di bue, tuttoarrotolato su se stesso, più freddo del marmo, con latesta che spariva sotto un brulichio di vermi. Alle suegrida, giunse Salammbô. Rivoltò più volte il serpente conla punta del sandalo, e la schiava rimase stupita di tantainsensibilità.

La figlia di Amilcare non prolungava più i suoi digiunicon il fervore di un tempo. Passava le sue giornate sulla

terrazza, i gomiti appoggiati alla balaustrata, divertendosia guardare davanti a sé. La sommità delle mura in fondoalla città disegnava sul cielo una serie di zigzag ineguali,e le lance delle sentinelle formavano tutt’intorno un orlodi spighe. Al di là, tra le torri, vedeva le manovre deiBarbari; nei giorni di tregua dell’assedio poteva perfinodistinguere le loro occupazioni. Riparavano le armi, siungevano i capelli, oppure si lavavano in mare le bracciainsanguinate; le tende erano chiuse; le bestie da somamangiavano; e, in lontananza, le falci dei carri allineati asemicerchio sembravano una scimitarra d’argento distesaai piedi dei monti. Le tornavano alla memoria i discorsi diShahabarim. Aspettava il suo fidanzato Narr’Havas.Malgrado l’odiasse, avrebbe voluto rivedere Mâtho. Ditutti i Cartaginesi, era forse lei l’unica persona che nonavrebbe avuto paura di parlare con lui.

Spesso suo padre veniva a trovarla. Si sedevaansimando sui cuscini, e la guardava con un’aria quasiintenerita, come se in quella vista trovasse un sollievoalle sue fatiche. Talvolta le faceva domande sul suoviaggio al campo dei mercenari. Giunse a chiederle se percaso qualcuno non l’avesse spinta a quell’impresa; e conun cenno della testa Salammbô rispondeva di no, tantoera fiera di aver salvato lo zaimf.

Ma il suffeta riportava sempre il discorso su Mâtho,con il pretesto delle informazioni militari. Non riusciva acapire cosa avesse fatto in quelle ore passate nella suatenda. In effetti, Salammbô non parlava di Giscone;perché, avendo le parole in se stesse un potere reale, le

perché, avendo le parole in se stesse un potere reale, lemaledizioni che venivano riferite a qualcuno potevanoricadere su di lui; e non parlava neppure del suo impulsoa uccidere, perché temeva di essere biasimata per nonavervi ceduto. Diceva che lo shalishim sembravafuribondo, che aveva gridato a lungo, e poi si eraaddormentato. Salammbô non raccontava di più, forseper vergogna, oppure per un eccesso di candore che nonle faceva dare alcuna importanza ai baci del soldato. Tuttiquesti avvenimenti, del resto, fluttuavano nella sua mentemalinconici e confusi come il ricordo di un sognoopprimente; né avrebbe saputo in quale modo e conquali parole esprimerlo.

Una sera che se ne stavano così, l’uno di fronteall’altra, arrivò Taanach trafelata. Nel cortile era arrivatoun vecchio con un bambino, che voleva vedere il suffeta.

Amilcare impallidì, poi rispose agitato:«Fallo salire!».Entrò Iddibal, senza inchinarsi. Teneva per mano un

ragazzino coperto con un mantello di pelo di caprone; esubito alzando il cappuccio che gli nascondeva il volto:

«Eccolo, padrone! Prendilo!».Il suffeta e lo schiavo si appartarono in un angolo della

stanza.Il bambino era rimasto in piedi nel mezzo e, con uno

sguardo più attento che stupito, osservava il soffitto, imobili, le file di perle sui drappi di porpora, e quellamaestosa fanciulla che si chinava su di lui.

Poteva avere dieci anni, e non era più alto di una

spada romana. I capelli ricciuti ombreggiavano la frontebombata. Sembrava che le sue pupille fossero alla ricercadi spazi aperti. Le narici del naso sottile palpitavano conforza; da tutta la sua persona emanava l’indefinibilesplendore di coloro che sono destinati alle grandiimprese. Quando si fu tolto il mantello troppo pesante,restò vestito di una pelle di lince intorno alla vita; e i suoipiccoli piedi nudi, bianchi di polvere, poggiavano decisisu l pavimento. Ma sicuramente intuì che si trattava dicose importanti, perché restava immobile, con una manodietro la schiena, il mento sul petto, un dito in bocca.

Infine Amilcare chiamò con un cenno Salammbô, e ledisse a bassa voce:

«Lo terrai con te, intendimi bene! Nessuno, neppuredella casa, deve sapere della sua esistenza!».

Poi, dietro la porta, chiese di nuovo a Iddibal se erasicuro che nessuno li avesse visti.

«Nessuno!», rispose lo schiavo. «Le strade eranovuote».

Poiché la guerra coinvolgeva tutte le province, avevatemuto per il figlio del suo padrone. Allora, non sapendodove nasconderlo, era venuto lungo la costa con unascialuppa: da tre giorni Iddibal bordeggiava nel golfo,scrutando i bastioni. Finalmente quella sera, poiché idintorni di Khamon sembravano deserti, e l’ingresso delporto era libero, aveva varcato in fretta il passaggiosbarcando vicino all’arsenale.

Pochi giorni dopo, i Barbari piazzarono di fronte al

porto un’immensa zattera per impedire ai Cartaginesi diuscire. Intanto rialzavano le torri di legno, e nello stessotempo il terrapieno cresceva in altezza.

Essendo così interrotte le comunicazioni con l’esterno,cominciò una carestia insopportabile.

Furono uccisi tutti i cani, tutti i muli, tutti gli asini, e iquindici elefanti che il suffeta aveva riportato. I leoni deltempio di Moloch erano diventati furiosi, e gli ierodulinon osavano più avvicinarli. Prima li nutrirono con iBarbari feriti; poi gettarono loro dei cadaveri ancoratiepidi; ma i leoni li rifiutarono, e morirono tutti. Nelcrepuscolo, c’era gente che vagava lungo le vecchie muraa cogliere tra le pietre erbe e fiori che facevano bollire nelvino; il vino costava meno dell’acqua. Altri strisciavanofino agli avamposti nemici, entravano nelle tende arubare del cibo; i Barbari, sbalorditi, a volte li lasciavanotornare indietro. E giunse il giorno in cui gli Anzianidecisero di sgozzare, in gran segreto, i cavalli di Eshmun.Erano animali sacri, le cui criniere venivano intrecciatecon nastri d’oro dagli stessi pontefici; raffiguravanosimbolicamente il movimento del sole, l’idea del fuoconella sua forma più alta. Le loro carni, tagliate in partieguali, furono nascoste dietro l’altare. Poi, ogni sera, colpretesto di qualche rito, gli Anziani salivano al tempio, ebanchettavano di nascosto; e si portavano via sotto latunica un pezzo per i loro figli. Nei quartieri deserti,lontano dalle mura, gli abitanti meno miserabili si eranobarricati in casa per paura degli altri.

Le pietre delle catapulte e le demolizioni ordinate perla difesa avevano riempito le strade di mucchi di macerie.Nei momenti più tranquilli, improvvisamente masse dipopolo si precipitavano urlando; e dall’alto dell’Acropoligli incendi sembravano stracci di porpora sparsi sulleterrazze e piegati dal vento.

Le tre grandi catapulte, malgrado tutti i nuovi lavori,non si fermavano mai. Le loro devastazioni eranostraordinarie; così la testa di un uomo andò a rimbalzaresul frontone dei Sissizi; nella via di Kinisdo, una donnache partoriva rimase schiacciata sotto un blocco dimarmo, e il bambino con il letto fu trascinato fino alcrocevia di Cinasin dove fu ritrovata la coperta.

La cosa più fastidiosa erano i proiettili dei frombolieri.Cadevano sui tetti, nei giardini e in mezzo ai cortili,mentre la gente mangiava seduta davanti a un magropasto, col cuore gonfio di sospiri. Quei proiettili atrociportavano incise delle lettere che si imprimevano nellecarni; e sui cadaveri si leggevano ingiurie come maiale,sciacallo, pidocchio, e talvolta facezie: prendi questo!oppure: me lo sono meritato.

Quella parte del bastione che dall’angolo del portoarrivava all’altezza delle cisterne fu sfondata. Allora gliabitanti di Malqua si trovarono chiusi tra la vecchia cintamuraria di Birsa, alle spalle, e i Barbari di fronte. Ma siera troppo impegnati a rinforzare e alzare il più possibilele mura, per occuparsi di loro; morirono tutti, e sebbenefossero generalmente odiati, questa scelta di Amilcare

suscitò un grande orrore.L’indomani il suffeta aprì i depositi sotterranei nei quali

conservava del grano; i suoi intendenti lo distribuirono alpopolo. Per tre giorni ci si ingozzò.

La sete divenne sempre più insopportabile; econtinuavano ad avere davanti agli occhi la lunga cascatadi acqua limpida che precipitava dall’acquedotto. Sotto iraggi del sole, saliva dal fondo un vapore sottile, accantoa un arcobaleno, e un ruscelletto, serpeggiando sullaspiaggia, si riversava nel golfo.

Amilcare non si scoraggiava. Contava su unavvenimento, su qualcosa di decisivo, di straordinario.

I suoi schiavi strapparono le lastre d’argento deltempio di Melkarth, trassero a terra dal porto quattrolunghe navi, con degli argani, le trainarono fin sotto iMappali, e il muro che dava sulla marina fu abbattuto;così partirono per le Gallie per assoldarvi, a qualsiasiprezzo, dei Mercenari. Intanto Amilcare era desolato dinon poter comunicare con il re dei Numidi; sapeva che sitrovava dietro i Barbari, pronto ad attaccarli. MaNarr’Havas, troppo debole, non osava rischiare da solo; eil suffeta fece rialzare il bastione di dodici palmi,ammassare nell’Acropoli tutto il materiale degli arsenali,e riparare le macchine ancora una volta.

Per la torsione delle catapulte, venivano di solito usati itendini tolti dal collo dei tori o dai garretti dei cervi. Ma aCartagine non c’erano né cervi né tori. Amilcare chieseagli Anziani i capelli delle loro donne; tutte li

sacrificarono; ma la quantità non era sufficiente. Neimagazzini dei Sissizi c’erano milleduecento schiave nubili,di quelle destinate alla prostituzione in Grecia e in Italia,e i loro capelli, resi elastici dall’uso degli unguenti, eranoperfetti per le macchine da guerra. Ma la perditaeconomica, in seguito, sarebbe stata eccessiva. Dunque sidecise di scegliere le più belle capigliature tra le mogli deiplebei. Senza curarsi affatto delle necessità della patria,esse si misero a urlare come disperate quando arrivaronoi servitori dei Cento con le forbici in mano.

Intanto i Barbari erano presi da un furore crescente. Lisi vedeva da lontano mentre toglievano il grasso ai mortiper oliare le macchine, oppure strappavano loro leunghie e le cucivano una all’altra per farsene corazze.Pensarono di mettere nelle catapulte dei vasi pieni diserpenti portati dai Negri; i vasi di argilla si frantumavanosulle pietre, i serpenti correvano dappertutto, pullulavanoed erano talmente numerosi che sembravano uscirenaturalmente dai muri. Poi i Barbari, insoddisfatti dellaloro invenzione, la perfezionarono; lanciavano ogni sortadi immondizie, escrementi umani, pezzi di carogne,cadaveri. Riapparve la peste. Ai Cartaginesi cadevano identi di bocca e le gengive erano scolorite come quelledei cammelli dopo un viaggio troppo lungo.

Le macchine furono montate sul terrapieno benchénon raggiungesse ancora dappertutto l’altezza delbastione. Ora davanti alle ventitré torri delle fortificazionine sorgevano altre ventitré di legno. Tutti i tollenonierano stati rimontati, e in mezzo, un po’ indietro, si

erano stati rimontati, e in mezzo, un po’ indietro, sivedeva la formidabile elepoli di Demetrio Poliorcete,3 cheSpendio era riuscito a ricostruire. Piramidale come il farodi Alessandria, era alta centotrenta cubiti e larga ventitré,con nove piani che si restringevano verso la cima ederano difesi da lastre di bronzo, con numerose porte epieni di soldati; sulla piattaforma superiore si ergeva unacatapulta fiancheggiata da due baliste.

Allora Amilcare fece piantare delle croci per chi avesseparlato di arrendersi; anche le donne furono inquadrate.Si dormiva per strada, e si stava in attesa pieni diangoscia.

Poi una mattina, poco prima del sorgere del sole (erail settimo giorno del mese di Nissam),4 udirono ungrande grido lanciato da tutti i Barbari insieme; le trombedal tubo di piombo squillavano, i grandi corni paflagonimuggivano come tori. Tutti balzarono in piedi e corseroal bastione.

Una foresta di lance, di picche e di spade si drizzavaalla sua base. Scattò contro le mura, le scale siagganciarono; e negli spazi delle merlature apparveroteste di Barbari.

Travi sostenute da lunghe file di uomini battevanocontro le porte; e nei punti in cui mancava il terrapieno iMercenari, per demolire il muro, arrivavano in coortiserrate: la prima linea accovacciata, la seconda colginocchio piegato, e le altre rialzandosi progressivamentefino alle ultime che restavano in piedi; mentre altrove,per salire sulle mura, i più alti avanzavano in testa, i più

bassi in coda, e tutti, col braccio sinistro, tenevano gliscudi sopra gli elmi, così accostati che sembravano uninsieme di grandi tartarughe. I proiettili scivolavano suquelle masse oblique.

I Cartaginesi gettavano macine da mulino, pestelli,tini, barili, letti, ogni cosa che fosse pesante e in grado diuccidere. Alcuni si appostavano dietro i merli con unarete da pescatore, e quando il Barbaro arrivava si trovavapreso tra le maglie e si dibatteva come un pesce.Demolivano loro stessi i merli; blocchi di muro crollavanosollevando un gran polverone; e poiché le catapultetiravano le une contro le altre, i loro proiettili siscontravano e scoppiavano in mille pezzi che ricadevanosui combattenti come una grande pioggia.

Presto le due masse formarono una sola grande catenadi corpi umani; traboccava negli intervalli del terrapienoe, un po’ più sottile alle due estremità, continuava arotolare su se stessa senza mai avanzare. Si afferravanol’un l’altro, stesi bocconi come lottatori. Si facevano apezzi. Le donne urlavano sporgendosi dai merli. Letiravano per le vesti, e il candore dei loro fianchi scopertiall’improvviso splendeva tra le braccia dei Negri che viaffondavano i pugnali. Spesso i cadaveri, troppo pigiati inmezzo alla calca, non cadevano per terra; sorretti dallespalle dei loro compagni, continuavano ad avanzare perqualche minuto, in piedi e con gli occhi sbarrati. A lcuni,con le tempie trapassate da un giavellotto, dondolavanola testa come orsi. Bocche che si erano aperte per gridarerestavano spalancate; mani mozzate schizzavano via.

restavano spalancate; mani mozzate schizzavano via.Quel giorno ci furono dei gran colpi; coloro chesopravvissero ne parlarono a lungo.

Intanto dalla cima delle torri di legno e delle torri dipietra piovevano frecce. I tollenoni muovevanorapidamente le loro lunghe antenne; e siccome i Barbariavevano saccheggiato sotto le Catacombe il vecchiocimitero degli autoctoni, lanciavano sui Cartaginesi pietretombali. Talvolta sotto il peso delle ceste troppo cariche icavi si spezzavano, e masse di uomini precipitavanodall’alto con le braccia alzate.

Fino a metà del giorno, i veterani degli opliti si eranoaccaniti contro la Tenia per penetrare nel porto edistruggere la flotta. Amilcare fece accendere sul tetto diKhamon un fuoco di paglia umida; quel fumo,accecandoli, li fece piegare a sinistra, e così andarono adaccrescere l’orribile calca che sconvolgeva Malqua. Alcunisintagmi, formati da uomini robusti, sceltiappositamente, avevano sfondato tre porte. Altisbarramenti, fatti di tavole irte di chiodi, li fermarono;una quarta cedé facilmente; vi si precipitarono di corsa, erotolarono in un fosso dove erano state nascoste delletrappole. All’angolo sud-est Autarito e i suoi uominiabbatterono il bastione la cui spaccatura era stata tappatacon mattoni. Dietro, il terreno era in pendio; lo salironoin fretta. Ma in alto trovarono un secondo muro, fatto dipietre e di lunghe travi disposte orizzontalmente e che sialternavano come le caselle di una scacchiera. Era unatecnica gallica che il suffeta aveva adattato alle esigenze

della situazione; i Galli credettero di trovarsi davanti auna città del loro paese. Attaccarono fiaccamente efurono respinti.

Dalla via di Khamon fino al mercato delle erbe tutto ilcammino di ronda era ormai nelle mani dei Barbari, e iSanniti finivano i moribondi a colpi di spiedo; oppure,con un piede sul muro, contemplavano in basso, sotto diloro, le rovine fumanti, e in lontananza la battaglia chericominciava.

I frombolieri, sparsi più indietro, continuavano atirare. Ma, a forza di usarle, le ritorte delle fiondeacarnane si erano spezzate, e molti, come pastori,lanciavano i sassi con le mani; altri ancora lanciavanopalle di piombo col manico di uno staffile. Zarxas, lespalle coperte dai lunghi capelli neri, si spostavadappertutto trascinando i Balearici. Aveva due tascapaniappesi ai fianchi; vi affondava continuamente la manosinistra, e il braccio destro roteava come la ruota di uncarro.

Inizialmente Mâtho si era astenuto dai combattimenti,per meglio comandare tutti i Barbari. Lo si era visto sullariva del golfo con i Mercenari, vicino alla laguna con iNumidi, sulle rive del lago tra i Negri, e dal fondo dellapianura spingeva contro le mura le masse di soldati checontinuavano ad arrivare. A poco a poco si erariavvicinato; l’odore del sangue, lo spettacolo del carnaioe lo strepitìo delle trombe avevano finito per farglisobbalzare il cuore. Allora era rientrato nella sua tenda e,

gettando la corazza, si era messo la pelle di leone, piùcomoda per la battaglia. Il muso si adattava alla sua testae gli incorniciava il volto con un cerchio di zanne; le duezampe anteriori si incrociavano sul petto, e quelleposteriori giungevano con gli artigli fin sotto le ginocchia.

Aveva conservato il robusto cinturone nel qualeluccicava un’ascia a doppio taglio, e brandendo a duemani la grande spada si era precipitato attraverso labreccia, con impeto. Come un potatore che taglia i ramidei salici, e cerca di tagliarne il più possibile perguadagnare di più, avanzava falciando intorno a sé iCartaginesi. Quelli che tentavano di prenderlo di fianco, liabbatteva con l’elsa della spada; quando lo attaccavanofrontalmente, li infilzava; se fuggivano, li tagliava in due.Due uomini contemporaneamente gli saltarono sullespalle; indietreggiò con un balzo contro una porta e lischiacciò. La sua spada si abbassava, si rialzava. Andò inpezzi contro lo spigolo di un muro. Allora impugnò lapesante ascia, e avanti e indietro sventrava i Cartaginesicome un gregge di pecore. Si facevano sempre più daparte, e così arrivò tutto solo davanti alla seconda cinta,ai piedi dell’Acropoli. I materiali lanciati dall’altoingombravano i gradini e traboccavano dal muro. Mâtho,in mezzo alle macerie, si voltò per chiamare i suoicompagni.

Scorse i loro cimieri sparsi nella folla; venivanosommersi, stavano per perire; si gettò verso di loro;allora l’ampia corona di pennacchi rossi si rinserrò; siriunirono, gli si strinsero intorno. Ma dalle strade laterali

riunirono, gli si strinsero intorno. Ma dalle strade lateralistava arrivando una folla enorme. Fu preso per i fianchi,sollevato e trasportato fuori dal bastione, in un puntodove il terrapieno era alto.

Mâtho gridò un ordine: tutti gli scudi si alzarono sopragli elmi; vi saltò sopra, per aggrapparsi a qualchesporgenza e rientrare dentro Cartagine; e, brandendo laterribile ascia, correva sugli scudi simili a onde di bronzo,come un dio marino che corra sui flutti agitando iltridente.

Intanto un uomo vestito di bianco camminava sulciglio del bastione, impassibile e indifferente alla morteche lo circondava. Talvolta portava la mano destra sugliocchi per riconoscere qualcuno. Mâtho si trovò a passaresotto di lui. Subito le pupille dell’uomo fiammeggiarono,il suo volto livido si contrasse; e alzando le magre bracciagli gridò delle ingiurie.

Mâtho non le udì; ma si sentì penetrare nel cuore unosguardo così crudele e furioso che gli sfuggì un ruggito.Lanciò contro di lui la lunga ascia; alcuni uomini sigettarono addosso a Shahabarim; e Mâtho, nonvedendolo più, si lasciò cadere all’indietro, esausto.

Si avvicinava un cigolio spaventoso, accompagnato daun ritmo di voci roche che cantavano in cadenza.

Era la grande elepoli, circondata da una folla di soldati.La tiravano a due mani, la trainavano con le corde e laspingevano con le spalle, perché la pendenza dallapianura al terrapieno, pur essendo molto dolce, eraimpraticabile per macchine di tale peso. Eppure aveva

otto ruote cerchiate di ferro, e fin dal mattino venivaavanti in quel modo, lentamente, simile a una montagnache si sollevasse sopra un’altra. Poi dalla sua base uscì unariete immenso; sui tre lati che guardavano la città leporte si abbatterono, e all’interno apparvero, comecolonne di ferro, soldati corazzati. Se ne vedevano alcuniche salivano e scendevano lungo le due scale cheattraversavano i piani. A ltri aspettavano, per lanciarsi,che gli arpioni delle porte si agganciassero alle mura; inmezzo alla piattaforma superiore i verricelli delle balisteroteavano, e la grande leva della catapulta si abbassava.

In quel momento Amilcare si trovava in piedi sul tettodi Melkarth. Aveva valutato che l’elepoli sarebbe venutadirettamente verso di lui, contro il punto più invulnerabiledelle mura, e per questo sguarnito di sentinelle. Datempo i suoi schiavi portavano otri sul cammino dironda, dove avevano costruito con l’argilla due murettitrasversali che formavano una specie di bacino. L’acquacolava impercettibilmente sulla terrazza e Amilcare, cosastrana, non sembrava preoccuparsene.

Ma quando l’elepoli fu a circa trenta passi, ordinò disistemare delle tavole sopra le strade, tra le case, dallecisterne fino al bastione; e gente in fila si passava dimano in mano anfore ed elmi pieni d’acqua, chevuotavano continuamente. I Cartaginesi tuttavia siindignavano per quell’acqua sprecata. L’ariete demoliva ilmuro; all’improvviso sgorgò una fontana tra le pietresconnesse. Allora quella montagna di bronzo, di novepiani e che conteneva e impegnava più di tremila soldati,

piani e che conteneva e impegnava più di tremila soldati,cominciò a oscillare lentamente come una nave. L’acqua,infatti, infiltrandosi nel terrapieno, aveva fatto cedere ilterreno; le ruote si impantanarono; al primo piano, tratende di cuoio, apparve la testa di Spendio che soffiavafuriosamente in un corno d’avorio. La grande macchina,come sollevata convulsamente, avanzò di circa diecipassi; ma il terreno si infradiciava sempre di più, il fangoarrivava agli assi delle ruote e l’elepoli si fermòinclinandosi paurosamente su un lato. La catapulta rotolòfino al bordo della piattaforma; e, trascinata dal pesodella leva, cadde fracassando sotto di sé i piani inferiori. Isoldati, in piedi sulle porte, scivolarono nell’abisso,oppure si aggrappavano alle estremità delle lunghe travi,e con il loro peso aumentavano l’inclinazione dell’elepoliche si smembrava scricchiolando in tutte le sue giunture.

Gli altri Barbari si precipitarono in soccorso dei lorocompagni. Si accalcavano fitti. I Cartaginesi scesero dalbastione e, assalendoli alle spalle, li uccisero comevollero. Ma accorsero i carri falcati. Galoppavano intornoa quella moltitudine, che fu costretta a risalire il muro;giunse la notte; a poco a poco i Barbari si ritirarono.

Nella pianura non si vedeva altro che una specie dinero formicolio, tra il golfo bluastro e la laguna tuttabianca; e il lago, dove era colato sangue, si stendeva piùlontano come una grande palude purpurea.

Ora il terrapieno era talmente pieno di cadaveri chepoteva sembrare costruito con corpi umani. In mezzo siergeva l’elepoli coperta di armature; e, di tanto in tanto,

se ne staccavano dei frammenti enormi, come pietre diuna piramide che crolli. Sulle mura si vedevano larghestrisce prodotte dai rivoli di piombo fuso. Qua e làbruciava una torre di legno abbattuta; e le caseapparivano vagamente, come i gradini di un anfiteatro inrovina. Si levavano dense nuvole di fumo, trascinandoscintille che si perdevano nel cielo nero.

Intanto i Cartaginesi, divorati dalla sete, si eranoprecipitati verso le cisterne. Ne ruppero le porte. Sulfondo si stendeva una pozza melmosa.

Che fare ora? Del resto, i Barbari erano innumerevolie, passata la stanchezza, avrebbero ricominciato.

Il popolo, per tutta la notte, deliberò diviso in gruppi,agli angoli delle strade. Gli uni dicevano che bisognavamandare via le donne, i malati e i vecchi; altri proposerodi lasciare la città per andare a stabilirsi lontano, in unacolonia. Però mancavano le navi, e il sole spuntò senzache fosse stato deciso qualcosa.

Quel giorno non si combatté, perché tutti erano sfiniti.Quelli che dormivano sembravano cadaveri.

A llora i Cartaginesi, riflettendo sulla causa dei lorodisastri, si ricordarono di non aver mandato in Fenicial’offerta annuale dovuta al Melkarth di Tiro; e furonopresi da un terrore immenso. Gli dèi, indignati con laRepubblica, avrebbero sicuramente portato fino in fondola loro vendetta.

Li consideravano dei padroni crudeli, che si placavano

con le suppliche e che si lasciavano corrompere a forza didoni. Ma tutti erano deboli al confronto di Moloch ildivoratore. L’esistenza, la carne stessa degli uomini gliappartenevano; così, per salvarla, i Cartaginesi avevanol’usanza di offrirgliene una porzione che placasse il suofurore. Si bruciavano i bambini sulla fronte oppure sullanuca con batuffoli di lana; e poiché questo modo disoddisfare il Baal procurava molto denaro ai sacerdoti,questi non mancavano mai di raccomandarlo come il piùfacile e il meno doloroso.

Ma questa volta si trattava della Repubblica stessa.Ora, poiché a ogni guadagno deve corrispondere unaqualche perdita, e ogni transazione si svolge secondo ilbisogno del più debole e l’esigenza del più forte, nonc’era dolore che non fosse eccessivo per il dio dalmomento che si compiaceva delle sofferenze più orribili eche ora tutti erano nelle sue mani. Dunque era necessariosoddisfarlo completamente. Gli esempi provavano che inquel modo si costringeva il flagello a scomparire. Delresto erano convinti che un sacrificio col fuoco avrebbepurificato Cartagine. La ferocia del popolo ne era giàallettata. E poi la scelta doveva cadere esclusivamentesulle grandi famiglie.

Gli Anziani si riunirono. La seduta fu lunga. Partecipòanche Annone. Poiché non poteva più sedersi, rimasesdraiato accanto alla porta, seminascosto dalle frangedelle grandi tende; e quando il pontefice di Moloch chiesese acconsentivano a consegnare i loro figli, la sua voceesplose di colpo nell’ombra come il ruggito di un Genio

esplose di colpo nell’ombra come il ruggito di un Genionel fondo di una caverna.

Rimpiangeva, disse, di non avere nessuno da offriredel proprio sangue; e fissava Amilcare, di fronte a lui sullato opposto della sala. Il suffeta fu talmente turbato daquello sguardo che abbassò gli occhi. Tutti approvarono,uno dopo l’altro, con un cenno della testa; e secondo ilrito dovette rispondere al gran sacerdote: «Così sia».Allora gli Anziani decretarono il sacrificio con unaperifrasi tradizionale, perché ci sono cose più difficili adirsi che a farsi.

La decisione fu conosciuta quasi immediatamente aCartagine; echeggiarono lamenti. Ovunque si udivanogridare le donne; i loro sposi le consolavano oppure leingiuriavano e le rimproveravano.

Ma tre ore dopo si diffuse una notizia ancora piùstraordinaria: il suffeta aveva trovato delle sorgentid’acqua ai piedi della scogliera. Vi si precipitarono. Sulfondo di alcune buche scavate nella sabbia si vedevadell’acqua; e già qualcuno, steso ventre a terra, beveva.

Neppure Amilcare sapeva se ciò era accaduto suconsiglio degli dèi o piuttosto per il vago ricordo di unarivelazione che gli aveva fatto una volta suo padre; ma,lasciati gli Anziani, era sceso sulla spiaggia e con i suoiservi si era messo a scavare nella sabbia.

Distribuì vestiti, calzature, vino e tutto il grano cherestava nei suoi depositi. Fece perfino entrare la folla nelsuo palazzo, e aprì le cucine, i magazzini e tutte le stanzetranne quella di Salammbô. Annunciò che stavano

arrivando seimila Mercenari galli e che il re di Macedoniamandava soldati.

Ma già al secondo giorno le sorgenti cominciarono ascemare; la sera del terzo erano completamente asciutte.Allora il decreto degli Anziani fu di nuovo su tutte lelabbra, e i sacerdoti di Moloch iniziarono la loro opera.

Uomini vestiti di nero si presentarono nelle case. Moltile abbandonavano prima col pretesto di un impegno, o diuna leccornia da andare a comperare; i servitori diMoloch arrivavano e prendevano i fanciulli. A ltri,inebetiti, li consegnavano con le loro mani. Poi liportavano nel tempio di Tanit, dove le sacerdotesseavevano il compito di nutrirli e farli divertire fino algiorno solenne.

Arrivarono all’improvviso da Amilcare e lo trovarononei giardini:

«Barca! Veniamo per la cosa che sai... tuo figlio!».Aggiunsero che alcune persone l’avevano incontrato

una sera dell’altra luna, in mezzo ai Mappali, condotto permano da un vecchio.

Amilcare si sentì soffocare. Ma assai presto,rendendosi conto che era inutile negare, cedette; li feceentrare nel fondaco. Alcuni schiavi accorsi a un suocenno ne sorvegliavano i dintorni.

Entrò nella stanza di Salammbô con l’aria perduta. Conuna mano afferrò Annibale, con l’altra strappò il cordonedi una veste, gli legò i piedi, le mani, gli infilò un capo inbocca come bavaglio, e lo nascose sotto il letto di pelle di

bue facendo scendere fino al pavimento una grandecoperta.

Passeggiò su e giù per la stanza; alzava le braccia,girava su se stesso, si mordeva le labbra. Poi restòimmobile con le pupille fisse e ansimando come se stesseper morire.

Batté tre volte le mani. Apparve Giddenem.«Ascolta!», disse. «Vai a prendere tra gli schiavi un

bambino maschio tra gli otto e i nove anni con i capellineri e la fronte bombata! Portalo! In fretta!».

Giddenem tornò dopo poco con un fanciullo.Era un povero bambino, magro e insieme gonfio; la

sua pelle sembrava grigiastra come lo straccio infetto cheportava alla vita; ritraeva la testa tra le spalle, e con ildorso della mano si stropicciava gli occhi pieni dimosche.

Com’era possibile confonderlo con Annibale? Emancava il tempo per sceglierne un altro! Amilcareguardava Giddenem; aveva voglia di strangolarlo.«Vattene!», gridò; l’intendente degli schiavi fuggì via.

Dunque era arrivata, la sciagura che temeva da tempo;e cercava spasmodicamente di trovare una maniera, unmodo per sfuggirla.

Improvvisamente udì la voce di Abdalonim dietro laporta. Chiedevano del suffeta. I servitori di Molochstavano perdendo la pazienza.

Amilcare trattenne un grido, come se fosse statobruciato da un ferro rovente; e ricominciò a camminare

per la stanza come un folle. Poi si accasciò sul bordodella balaustrata e, con i gomiti sulle ginocchia, sistringeva la fronte tra i pugni.

La vasca di porfido conteneva ancora un po’ d’acqualimpida per le abluzioni di Salammbô. Malgrado la suaripugnanza e il suo orgoglio, il suffeta vi immerse ilragazzo e, come un mercante di schiavi, si mise a lavarloe a strofinarlo con gli strigili e la terra rossa. Poi presedalle nicchie della parete due quadrati di porpora, glienepose uno sul petto, l’altro sul dorso, e li unì sulleclavicole con due fibbie di diamanti. Gli versò unprofumo sulla testa; gli mise intorno al collo una collanadi elettro, lo calzò con sandali dai tacchi di perle, i sandalidi sua figlia! Ma non sopportava più la vergogna e l’ansia;Salammbô, che faceva di tutto per aiutarlo, era pallidaquanto lui. Il fanciullo sorrideva, abbagliato da tantosplendore, e, preso coraggio, cominciava a battere lemani e a saltare quando Amilcare lo portò via.

Lo teneva per un braccio, forte, come se avesse pauradi perderlo; e il bambino, al quale faceva male,piagnucolava correndogli accanto.

All’altezza dell’ergastolo, sotto una palma, si alzò unavoce, una voce lamentosa e implorante. Mormorava:«Padrone! Oh! Padrone!».

Amilcare si girò e vide al suo fianco un uomo diaspetto sordido, uno di quei miserabili che gli vivevano incasa alla giornata.

«Cosa vuoi?», chiese il suffeta.

Lo schiavo, che tremava orribilmente, balbettò:«Sono suo padre!».Amilcare continuava a camminare; l’altro lo seguiva, la

schiena curva, le gambe piegate, la testa in avanti. Il suoviso era stravolto da un’angoscia indicibile, e i singhiozziche tratteneva lo soffocavano, tale era il desiderio diinterrogarlo e insieme di gridargli: «Grazia!».

Finalmente osò toccarlo con un dito, sul gomito,leggermente.

«Ma tu lo vuoi...?».Non ebbe la forza di terminare, e Amilcare si fermò,

meravigliato di tanto dolore.Non aveva mai pensato (tale era l’abisso che li

separava l’uno dall’altro) che tra loro potesse esserciqualcosa in comune. Questo solo fatto gli sembrò unasorta di oltraggio e quasi un’usurpazione dei suoiprivilegi. Rispose con uno sguardo più freddo e più durodella mannaia di un boia; lo schiavo svenne cadendonella polvere ai suoi piedi. Amilcare lo scavalcò.

I tre uomini vestiti di nero lo attendevano nella grandesala, in piedi contro il disco di pietra. Subito Amilcare sistracciò le vesti, rotolandosi sul pavimento e lanciandoacute grida:

«Ah, povero piccolo Annibale! Oh, figlio mio! Miaconsolazione! Mia speranza! Vita mia! Uccidete anche me!Portatemi via! Sventura! Sventura!». Si lacerava il voltocon le unghie, si strappava i capelli e urlava come leprefiche ai funerali. «Portatelo via! Soffro troppo!

Andatevene! Uccidetemi con lui». I servitori di Moloch sistupivano che il cuore di Amilcare fosse così fragile. Neerano quasi inteneriti.

Si udì uno scalpiccìo di piedi nudi e un ansimareaffannoso, simile al respiro di una bestia feroce che si stiaavvicinando; e all’ingresso della terza galleria, tra glistipiti d’avorio, apparve un uomo, pallido, terribile, con lebraccia aperte; gridò:

«Il mio bambino!».Amilcare, con un salto, si era precipitato sullo schiavo;

coprendogli la bocca con le mani, gridava più forte di lui:«È il vecchio che l’ha allevato! Lo chiama suo figlio!

Impazzirà! Basta! Basta!».E, spingendo per le spalle i tre sacerdoti e la loro

vittima, uscì con loro chiudendosi dietro la porta con ungran calcio.

Amilcare tese l’orecchio per qualche minuto, temendodi vederli ritornare. Poi pensò di disfarsi dello schiavo peressere sicuro che non parlasse; ma il pericolo non erascomparso del tutto, e quella morte, se avesse irritato glidèi, avrebbe potuto ritorcersi contro suo figlio. A llora,cambiando idea, gli fece inviare attraverso Taanach lecose migliori della cucina: un quarto di capro, fave econserve di melograne. Lo schiavo, che non mangiava damolto tempo, vi si avventò; e intanto gli cadevano lelacrime sul piatto.

Amilcare, rientrato nella stanza di Salammbô, sciolsele corde di Annibale. Il bambino, esasperato, gli morse a

sangue una mano. Lo allontanò con una carezza.Per farlo stare tranquillo, Salammbô provò a

spaventarlo con Lamia, un’orchessa di Cirene.«E dov’è?», chiese Annibale.Gli raccontarono che sarebbero venuti i briganti per

portarlo in prigione.«Vengano pure», replicò, «e io li ucciderò!».Allora Amilcare gli disse la spaventosa verità. Ma lui si

adirò contro il padre, sostenendo che avrebbe potutoannientare il popolo intero, visto che era il padrone diCartagine.

Infine, vinto dalla stanchezza e dalla collera, siaddormentò. Agitato, parlava sognando, con la schienaappoggiata a un cuscino scarlatto; la testa eraleggermente rovesciata all’indietro, e aveva un braccinoalzato, diritto in un gesto imperioso.

A notte fonda, Amilcare lo sollevò adagio e scesesenza torcia la scalinata delle galee. Passando per ilfondaco, prese una cesta d’uva e una caraffa d’acquapura; il bambino si svegliò davanti alla statua di A lete,nel sotterraneo delle pietre preziose; e sorrideva, comel’altro, tra le braccia del padre, alla vista di tutti queiluccichii che lo circondavano.

Ora Amilcare era sicuro che non avrebbero potutoprendergli suo figlio. Era un luogo impenetrabile, checomunicava con la spiaggia attraverso un sotterraneo chelui solo conosceva, e guardandosi intorno respiròprofondamente. Poi depose il bambino su uno sgabello,

accanto a degli scudi d’oro.Nessuno in quel momento lo vedeva; non aveva

bisogno di stare in guardia; allora si sfogò. Come unamadre che ritrovi il primogenito perduto, si gettò sulfiglio; se lo stringeva al petto, rideva e piangeva, lochiamava con i nomi più dolci, lo copriva di baci; ilpiccolo Annibale, intimorito da quella tenerezzaeccessiva, ora taceva.

Amilcare tornò indietro in punta di piedi, tastando imuri intorno a sé; e arrivò nella grande sala, doveentrava la luce della luna attraverso una fessura dellacupola; nel mezzo, lo schiavo, sazio, dormiva disteso sulpavimento di marmo. Lo guardò, e fu preso da un sensodi pietà. Con la punta del coturno gli fece scivolare untappeto sotto la testa. Poi rialzò gli occhi e guardò Tanit,la cui esile falce brillava nel cielo, e si sentì più forte deiBaal e pieno di disprezzo per loro.

I preparativi del sacrificio erano già iniziati.Nel tempio di Moloch fu abbattuto un tratto di muro

per farne uscire il dio di bronzo, senza toccare le ceneridell’altare. Poi, quando spuntò il sole, gli ieroduli lospinsero verso la piazza di Khamon.

Andava all’indietro, scivolando su dei cilindri; le suespalle superavano l’altezza delle mura; appena lovedevano apparire da lontano, i Cartaginesi si davano allafuga, perché non si poteva contemplare impunemente ilBaal quando non era nell’esercizio della sua collera.

Un odore di aromi si sparse per le strade. Tutti itempli si erano aperti contemporaneamente; ne uscivanotabernacoli montati su carri o su lettighe portate daipontefici. A i loro angoli ondeggiavano grandi pennacchidi piume, e dai culmini aguzzi, che sorreggevano sfere dicristallo, d’oro, d’argento o di rame, si irradiavano lampidi luce.

Erano i Baalim cananei, sdoppiamenti del Baalsupremo, che tornavano verso il loro principio, perumiliarsi davanti alla sua forza e annientarsi davanti alsuo splendore.

Il padiglione di Melkarth, di porpora fine, riparava unafiamma alimentata a petrolio; su quello di Khamon, colorgiacinto, si ergeva un fallo d’avorio, cinto da un cerchiodi pietre preziose; tra le tende di Eshmun, blu comel’etere, un pitone addormentato disegnava un cerchio conla coda; e gli dèi Pateci, portati in braccio dai lorosacerdoti, sembravano grandi bambini in fasce, i cuitalloni sfioravano il terreno.

Poi venivano tutte le forme inferiori della divinità:Baal-Samin, dio degli spazi celesti; Baal-Peor, dio deimonti sacri; Baal-Zeboub, dio della corruzione; e poi glidèi dei paesi vicini e delle razze affini: lo Iarbal dellaLibia, l’Adrammelech della Caldea, il Kijun dei Siriani;Derceto, dal viso di vergine, strisciava sulle pinne, e ilcadavere di Tammuz era trainato sopra un catafalco, tratorce e capigliature recise. Per asservire al Sole i re delfirmamento e impedire che i loro influssi particolari

interferissero con il suo, si brandivano lunghe perticheche avevano in cima stelle di metallo variamentecolorate; e vi erano rappresentati tutti, dal nero Nebo,genio di Mercurio, al ripugnante Rhaab, che è lacostellazione del Coccodrillo. Gli abaddir, pietre cadutedalla luna, roteavano in fionde di fili d’argento; isacerdoti di Cerere portavano canestri colmi di piccolipani che riproducevano la forma del sesso femminile;altri portavano i loro feticci, i loro amuleti; riapparveroidoli dimenticati; e si erano perfino presi alle navi isimboli mistici, come se Cartagine avesse volutoraccogliersi tutta in un pensiero di morte e didesolazione.

Davanti a ogni tabernacolo, un uomo teneva inequilibrio sulla testa un grande vaso in cui fumaval’incenso. Qua e là fluttuavano nuvole, e tra quei densivapori si distinguevano i paramenti, i ciondoli e i ricamidei padiglioni sacri. Avanzavano lentamente a causa delloro enorme peso. Talvolta gli assi dei carri siincastravano tra i muri delle vie; allora i devoti neapprofittavano per toccare i Baalim con le vesti, che poiavrebbero conservato come cose sante.

La statua di bronzo continuava ad avanzare verso lapiazza di Khamon. I Ricchi, che portavano scettri con ilpomo di smeraldo, partirono dal fondo di Megara; gliAnziani, con in testa diademi, si erano riuniti in Kinisdo, egli amministratori delle finanze, i governatori delleprovince, i mercanti, i soldati, i marinai e lo stuolonumeroso degli addetti ai funerali, ognuno con le insegne

numeroso degli addetti ai funerali, ognuno con le insegnedella propria magistratura o gli strumenti del mestiere, sidirigevano verso i tabernacoli che scendevanodall’Acropoli, tra i collegi dei pontefici.

Per deferenza nei confronti di Moloch, avevanoindossato i loro gioielli più splendidi. Diamantiscintillavano sulle vesti nere; ma gli anelli troppo larghiscivolavano dalle mani smagrite, e niente era più lugubredi quella folla silenziosa, dove gli orecchini sbattevanocontro i volti smunti, e le auree tiare cingevano fronticorrugate da una disperazione atroce.

Finalmente il Baal giunse nel mezzo della piazza. I suoipontefici alzarono, con delle grate, un recinto per tenerelontana la folla, e restarono ai suoi piedi, intorno a lui.

I sacerdoti di Khamon, in vesti di lana fulva, sischierarono davanti al loro tempio, sotto le colonne delportico; quelli di Eshmun, con i loro mantelli di lino,collane a testa di upupa e tiare a punta, si disposero suigradini dell’Acropoli; i sacerdoti di Melkarth, in tunicheviola, occuparono il lato occidentale; i sacerdoti degliabadir, stretti in fasce di stoffe frigie, occuparono quelloorientale; e sul lato meridionale furono disposti, insiemecon i negromanti tutti coperti di tatuaggi, i pubbliciurlatori dai mantelli rattoppati, gli assistenti dei Pateci egli Yidonim che, per conoscere il futuro, si mettevano inbocca un osso di morto. I sacerdoti di Cerere, in vestiblu, si erano fermati, prudentemente, nella via di Satheb,e salmodiavano a bassa voce un tesmoforio5 in dialettomegarese.

Di tanto in tanto, giungevano file di uominicompletamente nudi, che si tenevano l’un l’altro per lespalle con le braccia aperte. Emettevano dal profondo delpetto un suono rauco e cavernoso; le loro pupille, fissesul colosso, brillavano nella polvere, e tutti insiemedondolavano il corpo a intervalli eguali, come spinti daun unico movimento. Erano talmente furiosi che, perristabilire l’ordine, a colpi di bastone gli ieroduli li fecerosdraiare sul ventre, con il volto appoggiato alle grate dibronzo.

Fu allora che dal fondo della piazza avanzò un uomovestito di bianco. Attraversò lentamente la folla, e tuttiriconobbero un sacerdote di Tanit, il gran sacerdoteShahabarim. Ci furono urla di scherno, perché quelgiorno il potere del principio virile dominava ognicoscienza, e la dea era dimenticata a tal punto che nonera stata notata l’assenza dei suoi pontefici. Ma lameraviglia aumentò quando lo si vide aprire, nel recinto,una delle porte riservate a chi sarebbe entrato per offrirele vittime. I sacerdoti di Moloch, credendo che volesseoltraggiare il loro dio, con grandi gesti cercarono diallontanarlo. Nutriti con le carni degli olocausti, vestiti diporpora come dei re, e con in testa una triplice corona,schernivano quel pallido eunuco dal corpo macerato, erisate di collera scuotevano sui loro petti le nere barbeacconciate come raggi di sole.

Shahabarim, senza rispondere, continuava ad avanzaree, attraversando passo dopo passo l’intero recinto, giunsesotto le gambe del colosso, poi lo toccò dai due lati con

sotto le gambe del colosso, poi lo toccò dai due lati conle braccia alzate, secondo una formula solenne diadorazione. Da troppo tempo la Rabbet lo tormentava; eper disperazione, o forse per mancanza di un dio chesoddisfacesse compiutamente il suo pensiero, decideva discegliere quella divinità.

Dalla folla, spaventata da quell’atto di apostasia, salìun lungo mormorio. Sentivano spezzarsi l’ultimo legameche univa le loro anime a una divinità clemente.

Ma Shahabarim, a causa della sua mutilazione, nonpoteva partecipare al culto di Baal. Gli uomini colmantello rosso lo fecero uscire dal recinto; poi, quandofu al di fuori, si avvicinò a tutti i collegi, uno dopo l’altro;quindi il sacerdote, ormai senza dio, scomparve nellafolla che al suo passaggio si scostava.

Intanto un fuoco di aloe, di cedro e di alloro ardeva trale gambe del colosso. Le sue lunghe ali immergevano lapunta tra le fiamme; gli unguenti con cui era statostrofinato colavano come sudore sulle membra di bronzo.Intorno alla pietra rotonda su cui posava i piedi, ifanciulli, avvolti in veli neri, formavano un cerchioimmobile; e le sue braccia smisuratamente lungheabbassavano le palme fino a loro, come per coglierequella corona e portarla in cielo.

I Ricchi, gli Anziani, le donne, la folla intera, siaccalcavano dietro ai sacerdoti e sulle terrazze delle case.Le grandi stelle dipinte non roteavano più; i tabernacolierano posati a terra; e i fumi degli incensieri salivanoverticalmente, come alberi giganteschi che dispiegassero

nell’azzurro del cielo i loro rami bluastri.Molti svennero; altri, immobili, diventavano come

pietrificati nella loro estasi. Un’angoscia infinitaopprimeva i petti. Gli ultimi clamori si spegnevano unodopo l’altro, e il popolo di Cartagine ansimava, assortonel desiderio del suo terrore.

Finalmente il gran sacerdote di Moloch passò la manosinistra sotto i veli dei fanciulli, e dalla fronte di ognunostrappò una ciocca di capelli che gettò sulle fiamme.Allora gli uomini col mantello rosso intonarono l’innosacro. «Gloria a te, Sole! Re delle due zone, creatore chegenera se stesso, Padre e Madre, Padre e Figlio, dio edea, dea e dio!». E la loro voce si perse nell’esplosionedegli strumenti che suonavano tutti insieme, persoffocare le grida delle vittime. Gli sheminith a ottocorde, i kinnor, che ne avevano dieci, e i nebal, che neavevano dodici, stridevano, fischiavano, tuonavano.Enormi otri irti di canne producevano un acutosciabordìo; i tamburi, percossi con tutta la forza dellebraccia, risuonavano di colpi sordi e rapidi; e, malgradogli squilli delle trombe, i salsalim6 schioccavano come alidi cavallette.

Gli ieroduli aprirono, con un lungo gancio, i settescomparti sovrapposti sul corpo del Baal. Nel più alto fuintrodotta della farina; nel secondo, due tortore; nelterzo, una scimmia; nel quarto, un ariete; nel quinto, unapecora; e siccome non c’erano buoi per il sesto, vigettarono una pelle conciata presa nel santuario. Il

settimo scomparto restava vuoto.Prima di procedere, bisognava provare le braccia del

dio. Delle catenelle sottili che partivano dalle dita,raggiungevano le spalle e ridiscendevano lungo il dorso,dove alcuni uomini, tirandole, facevano salire finoall’altezza dei gomiti le due mani aperte che,avvicinandosi, si portavano sul ventre; le mani simossero più volte di seguito, con piccoli movimentibruschi. Poi gli strumenti tacquero. Il fuoco sibilava.

I pontefici di Moloch passeggiavano sulla grandepietra, osservando la folla.

Serviva un sacrificio individuale, un’oblazione del tuttovolontaria che trascinasse le altre. Ma nessuno fino a quelmomento si era fatto avanti, e i sette percorsi cheandavano dal recinto al colosso erano completamentevuoti. A llora, per incoraggiare il popolo, i sacerdotiestrassero dalle loro cinture dei punteruoli con i quali sisfregiavano il viso. Furono fatti entrare nel recinto idevoti, rimasti fuori sdraiati per terra. Fu gettato loro unammasso di orribile ferraglia e ognuno scelse la propriatortura. Si infilavano spiedi nei seni; si trapassavano leguance; si misero corone di spine sulla testa; poi,allacciati per le braccia, formarono intorno al cerchio deifanciulli un altro cerchio più grande che si stringeva e siallargava. Giungevano fino al recinto, si gettavanoindietro e ricominciavano, attirando la folla con lavertigine di quel movimento pieno di sangue e di grida.

A poco a poco, alcuni entrarono nel recinto;

lanciavano nel fuoco perle, vasi d’oro, coppe, torce; tuttele loro ricchezze; le offerte diventavano sempre piùsplendide e si moltiplicavano. Finalmente un uomo chebarcollava, un uomo pallido e terrorizzato, spinse avantiun bambino; poi si vide tra le mani del colosso unfagotto nero che sprofondò nell’apertura tenebrosa. Isacerdoti si chinarono sul bordo della grande pietra, e sialzò un nuovo canto a celebrare le gioie della morte e lerinascite dell’eternità.

Salivano lentamente, e siccome il fumo che si alzavaformava alti vortici, da lontano sembrava che sparisserodentro una nube. Nessuno di loro si muoveva. Eranolegati ai polsi e alle caviglie, e il velo scuro impediva lorodi vedere, e di essere riconosciuti.

Amilcare, col mantello rosso come i sacerdoti diMoloch, stava vicino al Baal, in piedi presso l’alluce delsuo piede destro. Quando venne portato ilquattordicesimo bambino, tutti poterono notare il suogesto di orrore. Ma subito, riprendendo il suo contegno,incrociò le braccia e guardò a terra. Dall’altra parte dellastatua il Gran Pontefice restava immobile come lui.Piegando la testa cinta da una mitra assira, si guardavasul petto la piastra d’oro coperta di pietre fatifiche, sullequali il riflesso della fiamma produceva bagliori iridati.Era pallido, smarrito. Amilcare chinava la fronte; ederano entrambi così vicini al rogo che gli orli dei mantelli,sollevandosi, di tanto in tanto ne sfioravano le fiamme.

Le braccia di bronzo si muovevano più in fretta. Non si

fermavano più. Ogni volta che vi posavano un bambino, isacerdoti di Moloch stendevano la mano su di lui, perscaricare su di lui i delitti del popolo, e gridavano: «Nonsono uomini, ma buoi!», e la folla intorno ripeteva:«Buoi! Buoi!». I devoti gridavano: «Signore! Mangia!», e isacerdoti di Proserpina, conformandosi per paura alleesigenze di Cartagine, borbottavano la formula eleusina:«Versa la pioggia, genera!».

Le vittime, appena sull’orlo dell’apertura,scomparivano come una goccia d’acqua sopra una piastraarroventata, e saliva una fumata bianca nel bagliorescarlatto.

Tuttavia l’appetito del dio non si placava. Ne volevaancora. Per dargliene di più, gliene ammucchiavano sullemani, legandole con una grossa catena. All’inizio alcunidevoti avevano voluto contarle, per vedere se il loronumero corrispondeva ai giorni dell’anno solare; ma nevennero aggiunte altre, ed era impossibile distinguerlenel movimento vorticoso delle orribili braccia. Tutto ciòdurò a lungo, senza sosta fino a sera. Poi le pareti internedivennero più scure. Allora si videro carni chebruciavano. Alcuni addirittura credettero di riconoscerecapelli, membra, corpi interi.

Scese la notte; nubi si addensarono sopra la testa delBaal. Il rogo, ormai senza fiamme, era una piramide dicarboni che gli arrivava alle ginocchia; completamenterosso come un gigante coperto di sangue, con la testarovesciata, sembrava vacillare sotto il peso della sua

ebbrezza.A mano a mano che i sacerdoti si affrettavano, la

frenesia del popolo cresceva; diminuendo il numero dellevittime, gli uni gridavano di risparmiarle, gli altri che neoccorrevano ancora. Sembrava che le mura gremite digente crollassero sotto le grida di spavento e di misticavoluttà. Poi i fedeli invasero il recinto trascinandosi dietroi figli avvinghiati, e li picchiavano perché lasciassero lapresa, per poi consegnarli agli uomini rossi. I suonatoritalvolta si interrompevano sfiniti; allora si udivano legrida delle madri e lo sfrigolìo del grasso che colava suicarboni. I bevitori di giusquiamo, camminavano a quattrozampe intorno al colosso e ruggivano come tigri, gliYidonim vaticinavano, i devoti cantavano con le labbraspaccate; il recinto era stato abbattuto, tutti volevanopartecipare al sacrificio; e i padri dei bambini morti inpassato gettavano nel fuoco le loro effigi, i loro giocattoli,le loro ossa conservate. Alcuni, armati di coltelli, siprecipitarono sugli altri. Ci si sgozzò a vicenda. Gliieroduli raccolsero in vassoi di bronzo le ceneri cadute sulbordo della pietra, e le gettarono in aria affinché ilsacrificio si spargesse sulla città e raggiungesse la regionedelle stelle.

Il grande clamore e tutta quella luce avevano attirato iBarbari ai piedi delle mura; aggrappati, per vederemeglio, ai rottami dell’elepoli, guardavano inorriditi.

XIVLa gola dell’Ascia

I Cartaginesi non erano ancora rientrati nelle loro caseche le nuvole si addensarono; chi alzava la testa verso ilcolosso sentì grosse gocce sulla fronte, e cominciò apiovere.

Piovve tutta la notte, a dirotto e a torrenti; il tuonorimbombava; era la voce di Moloch; aveva sconfittoTanit, che, ora fecondata, dall’alto del cielo apriva il suogrande seno. Di tanto in tanto, in una schiarita luminosa,la si vedeva distesa su cuscini di nubi; poi le tenebre sirichiudevano come se, ancora troppo stanca, volesseriaddormentarsi; i Cartaginesi, che credevano che l’acquafosse generata dalla luna, gridavano per aiutarla nella suafatica.

La pioggia scrosciava sulle terrazze e traboccavaformando laghi nei cortili, cascate sulle scale, vortici agliangoli di ogni edificio; ai muri sembravano appesi tenuiveli biancastri, e i tetti dei templi, lavati, brillavano neri albagliore dei lampi. Per mille sentieri scendevano torrenti

dall’Acropoli; crollavano case all’improvviso; e travi,calcinacci, mobili, passavano trascinati dai ruscelli checorrevano impetuosi sui lastricati.

Avevano messo fuori dalle case anfore, bricchi, teli;ma le torce si spegnevano; presero tizzoni dal rogo eelBaal, e i Cartaginesi, per bere, rovesciavano la testaindietro e spalancavano la bocca. Altri, sul bordo dellepozzanghere melmose, vi immergevano le braccia finoalle ascelle e ingurgitavano acqua fino a vomitarla comebufali. A poco a poco si diffondeva la frescura; tuttiinspiravano voluttuosamente l’aria umida muovendo tuttele membra, e nella felicità di quell’ebbrezza sorse benpresto un’immensa speranza. Tutte le miserie furonodimenticate. Ancora una volta la patria rinasceva.

Sentivano come il bisogno di scaricare su altri l’eccessodi furore che non erano riusciti a rivolgere contro sestessi. Un tale sacrificio non doveva essere inutile;benché non provassero alcun rimorso, tutti si sentivanotravolti da quella frenesia che nasce dalla complicità indelitti irreparabili.

L’uragano si era abbattuto sui Barbari rifugiati nelleloro tende mal chiuse; e ancora tutti intirizziti il giornodopo, sguazzavano nel fango alla ricerca di munizioni earmi, rovinate, perdute.

Amilcare andò di persona a trovare Annone; e, grazieai pieni poteri, gli affidò il comando. Il vecchio suffetaesitò per qualche minuto tra il rancore e la brama dipotere. Poi accettò.

Quindi Amilcare fece uscire una galea armata di unacatapulta a prua e a poppa. La piazzò nel golfo davantialla grande zattera; poi imbarcò sui vascelli disponibili lesue truppe migliori. Dunque fuggiva; e puntando a nordscomparve nella nebbia.

Ma tre giorni dopo (stava per ricominciare l’attacco)giunse al campo, con grande tumulto, gente della costalibica. Barca era entrato nel loro territorio. Dappertuttoaveva requisito viveri, stava occupando il paese.

Allora i Barbari si indignarono, come se li avessetraditi. Quelli che si annoiavano di più all’assedio,soprattutto i Galli, non esitarono a lasciare le mura percercare di raggiungerlo. Spendio voleva ricostruirel’elepoli. Mâtho si era tracciato una linea ideale dalla suatenda fino a Megara, e aveva giurato di seguirla; nessunodei loro uomini si mosse. Ma gli altri, comandati daAutarito, se ne andarono abbandonando il trattooccidentale del bastione. L’incuria era tale che non sipensò neppure a rimpiazzarli.

Narr’Havas li spiava da lontano, sulle montagne.Durante la notte fece passare tutti i suoi sul lato esternodella laguna, lungo la riva del mare, ed entrò aCartagine.

Si presentò come un salvatore, con seimila uomini,ognuno dei quali portava farina sotto il mantello, equaranta elefanti carichi di foraggio e di carne secca. Glisi affollarono intorno, e gli davano dei nomi. L’arrivo diun simile soccorso non rallegrava i Cartaginesi quanto la

vista di quei forti animali consacrati al Baal; era un pegnodel suo affetto, una prova che finalmente avrebbe presoparte alla guerra, in loro difesa.

Narr’Havas ricevette i complimenti degli Anziani. Poisalì verso il palazzo di Salammbô.

Non l’aveva più rivista dal giorno in cui, nella tenda diAmilcare, tra i cinque eserciti, aveva sentito la suamanina fredda e morbida dentro la sua; dopo ilfidanzamento, subito era ripartita per Cartagine. Il suoamore, distratto da altre ambizioni, si era riacceso, e oracontava di godersi i suoi diritti, di sposarla, di possederla.

Salammbô non capiva in che modo quel giovaneavrebbe potuto diventare il suo padrone! Sebbene ognigiorno chiedesse a Tanit la morte di Mâtho, il suo orroreper il Libico stava diminuendo. Sentiva confusamente chel’odio con cui l’aveva perseguitata aveva qualcosa direligioso, e avrebbe voluto vedere nella persona diNarr’Havas almeno un riflesso di quella violenza cheancora la soggiogava. Desiderava conoscerlo meglio,eppure la sua presenza l’avrebbe imbarazzata. Gli fecerispondere che non poteva riceverlo.

Del resto, Amilcare aveva proibito alla sua gente di farentrare da lei il re dei Numidi; rinviando alla fine dellaguerra quella ricompensa, sperava di preservarsi la suafedeltà; e Narr’Havas, per timore del suffeta, si ritirò.

Ma con i Cento si mostrò altezzoso. Cambiò le lorodisposizioni. Pretese privilegi per i suoi uomini e li piazzònelle postazioni importanti; così i Barbari spalancarono

gli occhi vedendo i Numidi sulle torri.La sorpresa dei Cartaginesi fu ancora più grande

quando arrivarono, su una vecchia trireme punica,quattrocento dei loro che erano stati fatti prigionieridurante la guerra di Sicilia. Infatti Amilcare avevasegretamente rinviato ai Quiriti gli equipaggi dei vascellilatini catturati prima della defezione delle città tirie;adesso Roma ricambiava il favore restituendo a Cartaginei suoi prigionieri. Inoltre Roma respinse gli approcci deiMercenari in Sardegna, né volle riconoscere come sudditigli abitanti di Utica.

Gerone,1 che governava a Siracusa, seguì l’esempio diRoma. Per conservare i suoi stessi Stati gli eraindispensabile un equilibrio tra i due popoli; avevadunque interesse alla salvezza dei Cananei, e si dichiaròloro amico invitando a Cartagine milleduecento buoi ecinquantamila nebel2 di frumento di qualità.

Ma una ragione più profonda spingeva a soccorrereCartagine: era chiaro che se i Mercenari avessero vinto,tutti, dal soldato allo sguattero, sarebbero insorti enessun governo, nessuna grande famiglia avrebbe potutoresistere.

Intanto Amilcare batteva le campagne orientali.Respinse i Galli, e tutti i Barbari si trovarono comeassediati a loro volta.

Allora cominciò a logorarli. Arrivava, si ritirava e,ripetendo ogni volta la stessa manovra, a poco a pocoriuscì ad allontanarli dai loro accampamenti. Spendio fu

costretto a seguirli; anche Mâtho, alla fine, cedette.Ma non andò oltre Tunisi, e si rinchiuse tra le sue

mura. Quell’ostinazione era molto saggia; infatti benpresto si vide Narr’Havas che usciva dalla porta diKhamon con i suoi elefanti e i suoi soldati; Amilcare lochiamava. Ma già gli altri Barbari si aggiravano per leprovince alla ricerca del suffeta.

Amilcare aveva ricevuto a Clipea tremila Galli. Fecearrivare cavalli dalla Cirenaica, armature dal Bruzio, ericominciò la guerra.

Mai il suo genio si era dimostrato così impetuoso efertile. Per cinque lune se li trascinò dietro. Aveva unameta dove voleva condurli.

A ll’inizio i Barbari avevano tentato di accerchiarlo conpiccoli distaccamenti; riusciva sempre a sfuggire. Il loroesercito era di circa quarantamila uomini, e molte volteprovarono la soddisfazione di vedere i Cartaginesiindietreggiare.

Ciò che più li tormentava, erano i cavalieri diNarr’Havas. Spesso, nelle ore più calde, quandoavanzavano nella pianura sonnecchiando sotto il pesodelle armi, improvvisamente si alzava all’orizzonte unadensa linea di polvere; si udivano cavalli al galoppo, e dauna nube piena di pupille fiammeggianti si scatenava unapioggia di frecce. I Numidi, coperti di mantelli bianchi,lanciavano alte grida, alzavano le braccia stringendo tra leginocchia gli stalloni impennati, li facevano voltare

bruscamente, poi sparivano. Avevano sempre a una certadistanza, sui dromedari, scorte di giavellotti, eritornavano più terribili di prima, urlando come lupi efuggendo come avvoltoi. I Barbari che si trovavano nellefile esterne cadevano uno dopo l’altro, e andava avanticosì fino a sera, quando si cercava di riparare tra lemontagne.

Sebbene fossero pericolose per gli elefanti, Amilcare visi addentrò. Seguì la lunga catena che si estende dalpromontorio Ermeo fino alla cima dello Zaguan.Credevano che fosse un espediente per nasconderel’insufficienza delle sue truppe. Ma la continua incertezzain cui li teneva finiva per esasperarli più di qualunquesconfitta. Tuttavia non si scoraggiarono, e continuaronoad andargli dietro.

Finalmente una sera, tra la Montagna d’Argento e laMontagna di Piombo, in mezzo a grandi rocce,all’ingresso di una gola, sorpresero un drappello di veliti;l’intero esercito era sicuramente poco più avanti, perchési udivano rumori di marcia accompagnati da squilli ditrombe; subito i Cartaginesi fuggirono dentro la gola, chesboccava in una piana a forma di lama di ascia,circondata da alti dirupi. Per raggiungere i veliti, i Barbarivi si gettarono dentro; in fondo, tra buoi chegaloppavano, altri Cartaginesi correvanotumultuosamente. Videro un uomo col mantello rosso,era il suffeta, e tutti se lo indicavano gridando; furonotravolti dal furore e dalla gioia. Molti, per pigrizia oprudenza, erano rimasti all’ingresso della gola. Ma uno

prudenza, erano rimasti all’ingresso della gola. Ma unosquadrone di cavalleria, sbucando da un bosco, a colpi dipicca e di spada li spinse verso gli altri; e presto tutti iBarbari si trovarono in basso, nella piana.

Poi quella grande massa di uomini, dopo averondeggiato per un po’, rimase immobile; non trovavanonessuna via d’uscita.

Quelli che erano più vicini alla gola tornarono indietro;ma il passaggio era scomparso. Gridarono a quelli chestavano avanti di proseguire; sbattevano contro lamontagna, e da lontano inveivano contro i loro compagniche non sapevano ritrovare la strada.

In effetti, appena i Barbari erano scesi nella piana,alcuni uomini nascosti dietro le rocce le avevano sollevatecon dei pali, facendole precipitare; e poiché il pendio eraripido, quei blocchi enormi, rotolando alla rinfusa,avevano ostruito completamente lo stretto passaggio.

Dal lato opposto della piana c’era un lungo corridoio,qua e là rotto da crepacci, che conduceva a una forra inpendio e questa saliva verso l’altopiano dove stavaschierato l’esercito punico. Lungo le pareti a picco diquesto corridoio erano state preparate delle scale; così iveliti, protetti dalle tortuosità dei crepacci, poteronoafferrarle e risalire prima di essere raggiunti. Molti diloro, che erano giunti fino alla base della forra, furonotirati su con delle corde perché in quel punto il terrenoera simile alle sabbie mobili e talmente inclinato che eraimpossibile risalirlo, anche procedendo carponi. I Barbarivi giunsero quasi subito. Ma una saracinesca alta

quaranta cubiti e della forma esatta del passaggio siabbatté all’improvviso davanti a loro, come un bastionecaduto dal cielo.

Dunque, la tattica del suffeta aveva funzionato.Nessuno tra i Mercenari conosceva la montagna, e quelliche marciavano in testa alle colonne si erano trascinatidietro tutti gli altri. I macigni, più stretti alla base, eranostati precipitati facilmente, e mentre tutti correvano,l’esercito punico aveva alzato grandi grida in lontananzacome se si trovasse in pericolo. Amilcare, è vero, potevaperdere i suoi veliti, e in effetti ne rimase solo la metà.Ma ne avrebbe sacrificati venti volte di più per il successodi una simile impresa.

Fino al mattino i Barbari si spinsero in file serrate daun capo all’altro della piana. Con le mani tastavano lamontagna, per scoprire un passaggio.

Finalmente fu giorno; e videro ovunque, tutt’intorno,una grande muraglia bianca tagliata a picco. E nessunavia di scampo, nessuna speranza! Le due uscite naturalidel passaggio erano chiuse dalla saracinesca e dalla franadi rocce.

Allora tutti si guardarono senza parlare. Siaccasciarono, sentendo un brivido di ghiaccio nellaschiena, e sulle palpebre una pesantezza estenuante.

Si rialzarono, avventandosi contro le rocce. Ma le piùbasse, schiacciate dal peso delle altre, erano inamovibili.Tentarono di aggrapparvisi per raggiungere la cima; laforma panciuta dei grossi massi impediva ogni presa.

Tentarono di scavare il terreno ai due lati della frana: iloro strumenti si spezzarono. Con i pali delle tende feceroun grande fuoco; ma il fuoco non poteva bruciare lamontagna.

Tornarono alla saracinesca; era irta di lunghi chio di,grossi come pioli, aguzzi come gli aculei di unporcospino, e più fitti delle setole di una spazzola. Matanta era la rabbia, che vi si avventarono contro. I primivi rimasero infilzati fino alla spina dorsale, i secondiscivolarono all’indietro, e tutti caddero lasciando appesi aquegli orribili uncini brandelli di carne umana ecapigliature insanguinate.

Quando lo scoraggiamento si fu un po’ placato,guardarono quanto restava di viveri. I Mercenari, le cuisalmerie erano andate perdute, ne avevano appena perdue giorni; e tutti gli altri ne erano sprovvisti, perchéaspettavano un convoglio promesso dai villaggi del sud.

C’erano tuttavia, qua e là, dei tori, quelli che iCartaginesi avevano lasciato nella gola per attirarvi iBarbari. Li uccisero a colpi di lancia; se li mangiarono, econ lo stomaco pieno i pensieri furono meno lugubri.

L’indomani sgozzarono tutti i muli, una quarantinacirca, poi ne raschiarono le pelli, fecero bollire le budella,pestarono le ossa, e ancora non avevano perso lasperanza; l’esercito di Tunisi, che senza dubbio era statoinformato, stava arrivando.

Ma la sera del quinto giorno la fame aumentò;rosicchiarono le cinghie delle spade e le piccole spugne

che orlavano internamente gli elmi.Quei quarantamila uomini erano ammassati nella

specie d’ippodromo che la montagna formava intorno aloro. Alcuni restavano davanti alla saracinesca o alla basedella frana; gli altri erano sparsi confusamente per lapiana. I forti si evitavano, e i pavidi si affiancavano aicoraggiosi, che tuttavia non potevano salvarli.

I cadaveri dei veliti, a causa della loro putrefazione,erano stati sotterrati in fretta; dove si trovassero le fosse,non si vedeva più.

Tutti i Barbari languivano, sdraiati a terra. Ogni tanto,tra le loro file, passava un veterano; e allora urlavanomaledizioni contro i Cartaginesi, contro Amilcare, econtro Mâtho, anche se quel disastro non era colpa sua;ma credevano che le loro sofferenze sarebbero stateminori se le avessero condivise anche con lui. Poigemevano, e alcuni piangevano sommessamente, comebambini.

Andavano dai capitani e li supplicavano di dar loroqualcosa che alleviasse le sofferenze. Ma quelli nonrispondevano oppure, infuriati, raccoglievano una pietrae gliela gettavano in faccia.

Parecchi conservavano gelosamente, nascosta dentrouna buca, una riserva di cibo, qualche pugno di datteri,un po’ di farina; e ne mangiavano di notte, con la testasotto il mantello. Chi aveva una spada la tenevasguainata in mano; i più diffidenti restavano in piedi,addossati alla parete della montagna.

Accusavano i loro capi e li minacciavano. Autarito nontemeva di farsi vedere. Con l’ostinazione del Barbaro chenon si lascia scoraggiare da niente, venti volte al giornosi spingeva fino in fondo alla gola, ai piedi della frana,sperando ogni volta di poterli trovare spostati; edondolando le grandi spalle coperte di pellicce, ricordavaai suoi compagni un orso che esca dalla sua caverna aprimavera, per vedere se le nevi si sono sciolte.

Spendio, con intorno i suoi Greci, stava nascosto in uncrepaccio; poiché aveva paura, aveva fatto spargere lavoce che era morto.

Ormai erano di una magrezza ripugnante; la loro pellesi macchiava di chiazze bluastre. La sera del nono giorno,tre Iberici morirono.

I loro compagni, spaventati, lasciarono quel luogo. Lispogliarono; e quei corpi nudi e bianchi restarono sullasabbia, al sole.

Allora alcuni Garamanti cominciarono a girarelentamente intorno. Erano uomini abituati a vivere nellasolitudine del deserto e non rispettavano alcun dio. Allafine il più anziano del gruppo fece un segno, e chinandosisui cadaveri ne staccarono coi coltelli alcune strisce dicarne; poi, accovacciati sui talloni, le mangiarono. Glialtri guardavano da lontano; ci furono grida di orrore;molti però, nel profondo dell’anima, invidiavano il lorocoraggio.

Nel mezzo della notte alcuni di questi si avvicinaronoe, dissimulando il loro desiderio, ne chiedevano un

pezzettino, soltanto per provare, dicevano.Sopraggiunsero altri più arditi; il loro numero aumentò;presto divennero una folla. Ma quasi tutti, sentendoquella carne fredda sulle labbra, lasciavano ricadere lamano; altri, al contrario, la divoravano con voluttà.

Per farsi trascinare dall’esempio, si incitavano l’unl’altro. Chi all’inizio si era rifiutato, andava a vedere iGaramanti e non tornava più indietro. Facevano cuocere ipezzi di carne sulla brace, dopo averli infilzati sulla puntadella spada; li salavano con la polvere e si disputavano ipezzi migliori. Quando non restò più niente dei trecadaveri, gli occhi percorsero tutta la piana per trovarnealtri.

Ma non avevano dei Cartaginesi, venti prigionieri fattidurante l’ultimo scontro e che nessuno, finora, avevanotato? Sparirono; del resto, era una vendetta. Poi,siccome bisognava vivere, siccome avevano preso gustoa quel cibo, siccome si moriva, sgozzarono i portatorid’acqua, i palafrenieri, tutti i servi dei Mercenari. Ognigiorno ne uccidevano qualcuno. Alcuni mangiavanomolto, si rimettevano in forze e non erano più tristi.

Assai presto questa risorsa venne a mancare. Allorapassarono ai feriti e ai malati. Poiché non potevanoguarire, tanto valeva liberarli dalle loro pene; e, appenaun uomo vacillava, tutti gridavano che ormai era perdutoe doveva servire agli altri. Per accelerare la loro morte,ricorrevano ad astuzie; gli rubavano l’ultimo resto dellaloro immonda razione; li calpestavano, come per sbaglio;

gli agonizzanti, per farsi credere ancora in forze,cercavano di stendere le braccia, di sollevarsi, di ridere.Alcuni che erano svenuti rinvenivano al contatto di unalama dentata che gli segava un arto; e inoltre si uccidevaper ferocia, senza necessità, per sfogare il proprio furore.

Il quattordicesimo giorno, una nebbia greve e tiepida,come accade talvolta in quelle regioni alla finedell’inverno, si abbatté sull’esercito. Quel cambiamento ditemperatura provocò numerose morti, e la putrefazionesi sviluppava con spaventosa rapidità in quel caldo umidotrattenuto dalle pareti della montagna. L’acquerugiola chesi deponeva sui cadaveri, infradiciandoli, trasformòpresto l’intera piana in una vasta putredine. Vaporibiancastri fluttuavano nell’aria; pizzicavano le narici,penetravano nella pelle, annebbiavano gli occhi; e iBarbari credevano di intravedere le esalazioni deimorenti, le anime dei loro compagni. Un disgustoimmenso li vinse. Non volevano più mangiarne,preferivano morire.

Due giorni dopo, il cielo tornò sereno e la fame liriprese. Talvolta avevano l’impressione che glistrappassero lo stomaco con le tenaglie. A llora sirotolavano in preda alle convulsioni, si riempivano labocca di terra, si mordevano le braccia e scoppiavano aridere freneticamente.

La sete li tormentava ancora di più, perché nonavevano una sola goccia d’acqua; dal nono giorno gli otrierano completamente asciutti. Per ingannare la sete, si

appoggiavano sulla lingua le scaglie metalliche deicinturoni, le impugnature d’avorio e le lame delle spade.Vecchi conduttori di carovane si comprimevano il ventrecon delle corde. Altri succhiavano un sasso. Bevevanourina raffreddata negli elmi di bronzo.

E ancora aspettavano l’esercito di Tunisi! Il troppotempo che impiegava ad arrivare dimostrava, secondo leloro congetture, che l’arrivo era ormai vicino. Del restoMâtho, che era un valoroso, non li avrebbe abbandonati.«Sarà qui domani!», si dicevano; e l’indomani passava.

All’inizio avevano pregato, fatto voti, praticato ognisorta di incantesimi. Ma ora provavano soltanto odio perle loro divinità e, per vendicarsi, cercavano di noncrederci più.

Gli uomini di carattere violento perirono per primi; gliAfricani resistettero meglio dei Galli. Zarxas, tra iBalearici, restava lungo disteso, i capelli su un braccio,inerte. Spendio trovò una pianta dalle larghe foglie, pienedi un succo abbondante, e dopo aver detto agli altri cheera velenosa, se ne nutriva.

Erano troppo deboli per abbattere a colpi di pietra icorvi in volo. Talvolta, quando un gipeto se ne stavaappollaiato su un cadavere e già da un pezzo lo stavadilaniando, un uomo si metteva a strisciare verso di luicon un giavellotto in bocca. Si appoggiava su una manoe, presa la mira, lanciava l’arma. L’uccello dalle bianchepenne, molestato dal rumore, si interrompeva, siguardava intorno con aria tranquilla, come un cormorano

su uno scoglio, poi riaffondava il suo schifoso beccogiallo; e l’uomo disperato ricadeva bocconi nella polvere.Alcuni riuscivano a trovare dei camaleonti, dei serpenti.Ma quello che li faceva vivere, era l’amore della vita.Concentravano la loro mente su quest’unica idea, e siaggrappavano all’esistenza con uno sforzo di volontà chela prolungava.

I più stoici se ne stavano gli uni accanto agli altri,seduti in circolo, in mezzo alla piana, qua e là, tra imorti; e, avvolti nei mantelli, si abbandonavano insilenzio alla loro tristezza.

Quelli che erano nati nelle città ricordavano le stradepiene di rumori, e le taverne, i teatri, i bagni, le botteghedei barbieri dove si ascoltano delle storie. Altririvedevano le campagne al tramonto, quando le spighegialle ondeggiano e i grandi buoi risalgono le colline conil vomere dell’aratro sul collo. I viaggiatori pensavano allecisterne, i cacciatori alle foreste, i veterani alle battaglie;e, nella sonnolenza che li stordiva, i pensieri cozzavanotra loro con l’impeto e la lucidità dei sogni. Di colpovenivano colti da allucinazioni; cercavano una porta nellaparete della montagna, per fuggire, volevano passarviattraverso. Altri, credendo di navigare in mezzo a unatempesta, ordinavano una manovra oppure si ritraevanospaventati vedendo, tra le nubi, battaglioni punici. E c’erachi credeva di essere a un festino, e cantava.

Molti, per una strana mania, ripetevano la stessaparola o rifacevano sempre lo stesso gesto. Poi, quando

rialzavano la testa e si guardavano, scoppiavano insinghiozzi vedendo l’orribile strazio dei loro volti. A lcuninon soffrivano più, e per passare il tempo siraccontavano i pericoli ai quali erano sfuggiti.

A tutti era chiaro che la morte era imminente. Quantevolte avevano tentato di aprirsi un passaggio! Quanto aimplorare al vincitore le condizioni di resa, comepotevano? Non sapevano neppure dove si trovasseAmilcare.

Il vento soffiava dalla parte della forra. Faceva colarela sabbia dall’alto della saracinesca, continuamente; e imantelli e le capigliature dei Barbari ne erano ricoperti,come se la terra, salendo di livello, volesse seppellirli.Non accadeva niente; l’eterna montagna, ogni mattina,sembrava loro ancora più alta.

A volte passavano stormi di uccelli a volo spiegato nelcielo azzurro, liberi. I Barbari chiudevano gli occhi pernon vederli.

A ll’inizio sentivano un ronzio negli orecchi, le unghie siannerivano, il freddo prendeva il petto, si sdraiavano suun fianco e si spegnevano senza un grido.

Al diciannovesimo giorno erano morti duemila Asiatici,millecinquecento dell’Arcipelago, ottomila della Libia, iMercenari più giovani e alcune tribù al completo; in tuttoventimila soldati, la metà dell’esercito.

Autarito, che ormai non aveva più di cinquanta Galli,stava per farsi uccidere, per farla finita, quando, in cimaalla montagna, proprio di fronte, credette di vedere un

uomo. Quell’uomo, per l’altezza a cui si trovava, nonsembrava più grande di un nano. Tuttavia Autarito riuscìa vedere che portava al braccio sinistro uno scudo aforma di trifoglio. Gridò: «Un Cartaginese!». E tutti, nellapianura, davanti alla saracinesca e sotto la frana, subito sialzarono. Il soldato camminava sul bordo del precipizio;dal basso i Barbari lo guardavano.

Spendio raccolse un teschio di bue; poi, avendocomposto un diadema con due cinture, lo piantò sullecorna in cima a una pertica, a testimonianza di intenzionipacifiche. Il Cartaginese scomparve. Restarono in attesa.

Finalmente la sera, come una pietra che si fossestaccata dalla parete, all’improvviso cadde dall’alto unbalteo. Fatto di cuoio rosso e ricamato, con tre stelle didiamanti, portava impresso al centro il marchio del GranConsiglio: un cavallo sotto una palma. Era la risposta diAmilcare, il salvacondotto che inviava.

Non avevano più nulla da temere; qualsiasicambiamento avrebbe significato la fine dei loro mali.Furono presi da una gioia smisurata; si abbracciavano,piangevano. Spendio, Autarito e Zarxas, quattro Italioti,un Negro e due Spartani si offrirono come ambasciatori.Li accettarono subito. Ma non sapevano per quale viaandarsene.

Ma si udì uno scricchiolio sopra la frana; e il macignopiù alto, dopo aver oscillato su se stesso, precipitò fino inbasso. In effetti, se dalla parte dei Barbari le rocce eranoinamovibili, perché sarebbe stato necessario farle risalire

su un piano obliquo (e inoltre erano incastrate nellastretta gola), dall’altra parte invece bastava spingerle perfarle precipitare. I Cartaginesi le spinsero e, alle primeluci dell’alba, scendevano verso la piana come i gradini diun’immensa scala in rovina.

I Barbari non riuscivano ancora a salirli. Calarono dellescale; tutti vi si gettarono. La scarica di una catapulta lirespinse; soltanto i Dieci poterono passare.

Camminavano tra i Clinabari, con una manoappoggiata alla groppa dei cavalli per reggersi in piedi.

Passato il primo momento di gioia, cominciavano apreoccuparsi. Le condizioni di Amilcare potevano esserecrudeli. Ma Spendio li rassicurava.

«Parlerò io!».E si vantava di sapere cosa bisognava dire per salvare

l’esercito.Dietro ogni cespuglio erano appostate sentinelle. A lla

vista del balteo che Spendio portava su una spalla, siinchinavano.

Quando arrivarono al campo punico, la folla si strinseintorno a loro; avevano l’impressione di sentire bisbigli erisa soffocate. La porta di una tenda si aprì.

In fondo c’era Amilcare, seduto su uno sgabello,accanto a un tavolo sul quale luccicava una spadasguainata. Gli stavano intorno, in piedi, alcuni capitani.

Vedendo entrare quegli uomini, ebbe un gesto direpulsione, poi si sporse per osservarli meglio.

Avevano le pupille straordinariamente dilatate, e un

grande cerchio nero intorno agli occhi, che si prolungavafin sotto gli orecchi; i nasi bluastri sporgevano tra leguance scavate, solcate da rughe profonde; la pelle delcorpo, troppo ampia per i loro muscoli, spariva sotto unapolvere color ardesia; le labbra erano incollate ai dentigialli; emanavano un odore infetto; si sarebbero dettidelle tombe dischiuse, dei sepolcri viventi.

In mezzo alla tenda, sopra una stuoia dove i capitanistavano per sedersi c’era un piatto di zucche fumanti. IBarbari le fissavano tremando in tutto il corpo, e glivenivano le lacrime agli occhi. Ma si trattennero.

Amilcare si voltò per parlare a qualcuno. Allora sigettarono tutti a terra, bocconi, sul piatto. I loro voltiaffondavano nel grasso, e il rumore che facevanotrangugiando il cibo si mescolava ai loro singhiozzi digioia. Più per stupore che per pietà, sicuramente, li silasciò finire il piatto. Poi, quando si furono rialzati,Amilcare, con un gesto, ordinò all’uomo che portava ilbalteo di parlare. Spendio aveva paura; balbettava.

Amilcare, ascoltandolo, faceva girare intorno a un ditoun grosso anello d’oro, quello che aveva impresso sulbalteo il sigillo di Cartagine. Lo lasciò cadere a terra:Spendio si precipitò a raccoglierlo; in presenza del suopadrone, lo riprendevano le sue abitudini di schiavo. Glialtri fremettero, indignati di tanta bassezza. Ma il Grecoalzò la voce, e ricordando i crimini di Annone, che sapevaessere il nemico di Barca, cercando di impietosirlo con ladescrizione delle loro sciagure e i ricordi della loro

dedizione, parlò a lungo, in modo rapido, insidioso,perfino violento; alla fine dimenticava se stesso,trascinato dall’impeto del discorso.

Amilcare rispose che accettava le scuse. Dunque sistava per concludere la pace, e questa volta sarebbe statadefinitiva! Ma esigeva che gli venissero consegnati dieciMercenari a sua scelta, senza armi e senza tunica.

Non si aspettavano una tale clemenza; Spendioesclamò:

«Oh! venti, se vuoi, padrone!».«No! dieci mi bastano», rispose calmo Amilcare.Li fecero uscire dalla tenda perché potessero

deliberare. Appena furono soli, Autarito protestò per icompagni sacrificati, e Zarxas disse a Spendio:

«Perché non l’hai ucciso? La sua spada era là, accantoa te!».

«Lui!», disse Spendio; e ripeté più volte «Lui! Lui!»,come se la cosa fosse stata impossibile e Amilcareimmortale.

Erano talmente esausti che si stesero a terra, suldorso, non sapendo cosa decidere.

Spendio li esortava a cedere. Finalmenteacconsentirono, e rientrarono.

Allora il suffeta mise la sua mano tra le mani dei dieciBarbari, uno dopo l’altro, stringendone i pollici; poi se lasfregò sulla veste perché la loro pelle vischiosa,toccandola, dava un’impressione di ruvido e di molle, unformicolìo untuoso che faceva rabbrividire. Poi disse loro:

«Voi siete tutti i capi dei Barbari, vero? E avete giuratoper loro?»

«Sì», risposero.«Senza costrizione, dal profondo del cuore, con

l’intenzione di mantenere le vostre promesse?».Gli assicurarono che sarebbero tornati dagli altri per

farle rispettare.«Ebbene», continuò il suffeta, «sulla base dell’accordo

stabilito tra me, Barca, e gli ambasciatori dei Mercenari,siete voi quelli che scelgo, e vi trattengo!».

Spendio cadde svenuto sulla stuoia. I Barbari, comeabbandonandolo, si strinsero gli uni agli altri; e non ci fuuna parola, né un lamento.

I loro compagni, che li aspettavano, non vedendolitornare pensarono di essere stati traditi. Gli ambasciatori,senza alcun dubbio, si erano venduti al suffeta.

Attesero ancora due giorni; poi, la mattina del terzo,decisero. Con corde, picche e frecce disposte come piolitra strisce di tela, riuscirono a scalare le rocce; elasciando indietro i più deboli, circa tremila, si misero inmarcia per raggiungere l’esercito di Tunisi.

Sopra la gola si stendeva una prateria disseminata diarbusti; i Barbari ne divorarono i germogli. Poi trovaronoun campo di fave; e tutto scomparve come se ci fossepassata una nube di cavallette. Tre ore dopo giunsero aun secondo altopiano, circondato di colline verdi.

Tra le ondulazioni di quei monticelli, brillavanodistanziati dei covoni color argento; i Barbari, abbagliati

dal sole, vedevano confusamente, al di sotto, grandimasse nere che li sorreggevano. Si alzarono come sefossero sbocciate. Erano le lance nelle torri, sopra elefantispaventosamente armati.

Oltre allo spiedo del pettorale, alle punte d’acciaio incima alle zanne, alle lastre di bronzo che coprivano ifianchi, e ai pugnali applicati alle ginocchiere, avevano incima alle proboscidi un anello di cuoio in cui era infilato ilmanico di un grosso coltellaccio; partiti nello stessomomento dal fondo della piana, avanzavano sui due lati,parallelamente.

Un terrore indicibile gelò i Barbari. Non tentarononeppure di fuggire. Erano già accerchiati.

Gli elefanti entrarono in quella massa di uomini: e glisperoni dei loro pettorali la dividevano, le zanneacuminate la rivoltavano come vomeri di aratro;tagliavano, troncavano, segavano con le falci delleproboscidi; le torri, piene di falariche, sembravanovulcani in marcia; non si vedeva altro che un grandeammasso in cui le carni umane formavano macchiebianche, le corazze di bronzo placche grigie, il sanguerazzi rossi. Il più furioso era guidato da un Numidacoronato da un diadema di piume. Lanciava giavellotticon una velocità spaventosa, e intanto lanciava,regolarmente, un lungo fischio acuto; i grossi animali,docili come cani, durante il massacro volgevano unocchio dalla sua parte.

Il cerchio si stringeva a poco a poco; i Barbari,

indeboliti, non resistevano; presto gli elefanti furono nelcentro della piana. Mancava loro lo spazio; siammucchiavano impennandosi, con le zanne checozzavano. Improvvisamente Narr’Havas li calmò, evoltando la schiena se ne tornarono al trotto verso lecolline.

Intanto due sintagmi si erano rifugiati, sulla destra, inun avvallamento del terreno, avevano gettato le armi e,tutti in ginocchio verso le tende puniche, alzavano lebraccia implorando la grazia.

Legarono loro le gambe e le mani; poi, quando furonostesi a terra gli uni accanto agli altri, ricondussero glielefanti.

I toraci scricchiolavano come casse che venganospezzate; ogni loro passo ne stritolava due; i grossi piediaffondavano nei corpi con un movimento delle anche cheli faceva sembrare zoppi. Continuavano, e andarono finoin fondo.

La piana tornò a essere immobile. Scese la notte.Amilcare si compiaceva allo spettacolo della suavendetta; ma d’un tratto trasalì.

Vedeva, e tutti vedevano a seicento passi da lì, sullacima di un poggio, ancora altri Barbari! In effetti,quattrocento dei più validi, Mercenari etruschi, libici espartani, fin dall’inizio avevano preso posizione sullealture, e fino a quel momento vi erano rimasti indecisi.Dopo il massacro dei loro compagni, decisero di passareattraverso i Cartaginesi; e già scendevano in colonne

serrate, in un modo meraviglioso e formidabile.Subito fu mandato loro incontro un araldo. Il suffeta

aveva bisogno di soldati; e li accoglieva senza condizioni,tanto ammirava il loro valore. Potevano anche, aggiunsel’uomo di Cartagine, avvicinarsi un po’, in un luogo cheindicò loro, dove avrebbero trovato dei viveri.

I Barbari vi accorsero e passarono la notte a mangiare.Allora i Cartaginesi esplosero in proteste contro laparzialità del suffeta nei confronti dei Mercenari.

Amilcare cedette a quelle espressioni di un odioinsaziabile, oppure si trattò di raffinata perfidia?L’indomani si presentò di persona senza spada, a testanuda, con una scorta di Clinabari, e dichiarò loro cheavendo troppa gente da nutrire non intendeva tenerli consé. Tuttavia, siccome gli servivano uomini e non sapevacome scegliere i migliori, avrebbero combattuto aoltranza; poi avrebbe arruolato i vincitori nella suaguardia del corpo. Quella morte ne valeva un’altra; eallora, facendo spostare i suoi soldati (perché glistendardi punici nascondevano ai Mercenari l’orizzonte),mostrò loro i centonovantadue elefanti di Narr’Havasschierati in una sola linea diritta e le cui proboscidibrandivano grandi coltelli, simili a braccia di giganti chetenessero delle scuri sulle loro teste.

I Barbari si guardarono in silenzio. Non era la morte afarli impallidire, ma l’orribile costrizione cui erano ridotti.

La vita in comune aveva fatto nascere amicizieprofonde tra quegli uomini. Per la maggior parte di loro

l’accampamento sostituiva la patria; vivendo senzafamiglia, trasferivano su un compagno il loro bisogno diaffetto, e si addormentavano fianco a fianco, sotto lostesso mantello, al chiarore delle stelle. Poi, in quelperpetuo vagabondare attraverso ogni sorta di paesi, diuccisioni e avventure, erano sorti strani amori, unionioscene serie come matrimoni, in cui il più forte difendevail più giovane in battaglia, lo aiutava a superare precipizi,gli asciugava sulla fronte il sudore delle febbri, rubavaper lui del cibo; e l’altro, fanciullo raccolto sul ciglio diuna strada, poi diventato Mercenario, contraccambiavaquella devozione con mille attenzioni delicate ecompiacenze di sposa.

Si scambiarono le collane e gli orecchini, regali che sierano fatti in altri tempi, dopo un grande pericolo, neimomenti di ebbrezza. Tutti chiedevano di morire,nessuno voleva colpire. Qua e là si udiva un giovane direa un altro con la barba grigia: «No! No, tu sei il più forte!Tu ci vendicherai, uccidimi!». E l’uomo rispondeva: «Homeno anni da vivere! Colpisci al cuore, e non pensarcipiù!». I fratelli si guardavano stringendosi le mani, el’amante diceva addio per sempre all’amante, in piedi,piangendo sulla sua spalla.

Si tolsero le corazze affinché la punta delle spadepenetrasse più in fretta. Allora apparvero le cicatrici delleferite che avevano riportato combattendo per Cartagine;sembravano iscrizioni su colonne.

Si disposero in quattro file eguali alla maniera dei

gladiatori, e iniziarono con timide schermaglie. Alcuni sierano bendati gli occhi, e le loro spade si muovevano inaria, lentamente, come bastoni di ciechi. I Cartaginesi simisero a urlare, e gridavano che erano dei vigliacchi. IBarbari si rianimarono, e presto il combattimento fugenerale, irruente, terribile.

Talvolta due uomini si fermavano, pieni di sangue,cadevano l’uno tra le braccia dell’altro e morivanobaciandosi. Nessuno indietreggiava. Si gettavano sullelame tese. Il loro delirio era così furioso che i Cartaginesi,da lontano, avevano paura.

Alla fine si fermarono. Dai loro petti usciva unansimare rauco, e si vedevano le loro pupille tra i lunghicapelli che pendevano come se fossero usciti da unbagno di porpora. Molti giravano su se stessi,velocemente, come pantere ferite in fronte. Altrirestavano immobili a guardare un cadavere steso ai loropiedi; poi, all’improvviso, si laceravano il volto con leunghie, afferravano la spada a due mani e se laconfiggevano nel ventre.

Ne rimanevano ancora sessanta. Chiesero da bere. Gligridarono di gettare le spade; e quando le ebberogettate, gli portarono dell’acqua.

Mentre stavano bevendo, con la faccia affondata neivasi, sessanta Cartaginesi, saltandogli addosso, li ucciseroa stilettate nella schiena.

Amilcare aveva agito così per soddisfare gli istinti delsuo esercito e, con questo tradimento, legarlo di più alla

sua persona.Dunque la guerra era finita; almeno lo credeva; Mâtho

non avrebbe resistito; impaziente, il suffeta ordinò dipartire immediatamente.

Gli esploratori vennero a dirgli che era stato avvistatoun convoglio che andava verso la Montagna di Piombo.Amilcare non se ne curò. Una volta annientati iMercenari, i Nomadi non avrebbero dato più fastidio.L’importante era prendere Tunisi. Vi si diresse a marceforzate.

Aveva inviato Narr’Havas a Cartagine, a portare lanotizia della vittoria; e il re dei Numidi, fiero del propriosuccesso, si presentò a Salammbô.

Lo accolse nei suoi giardini, sotto un grande sicomoro,tra cuscini di cuoio giallo, con Taanach al suo fianco.Aveva il volto coperto da una sciarpa bianca che,passandole sulla bocca e sulla fronte, lasciava vederesoltanto gli occhi; ma le sue labbra brillavano nellatrasparenza del tessuto come le gemme che leadornavano le dita, perché Salammbô teneva le maniavvolte nella sciarpa, e per tutto il tempo che parlarononon fece un gesto.

Narr’Havas le annunciò la disfatta dei Barbari.Salammbô lo ringraziò con una benedizione per i servigiche aveva reso a suo padre. Allora si mise a raccontarlele vicende della campagna.

Le colombe, sulle palme intorno a loro, tubavanodolcemente, e altri uccelli svolazzavano tra le piante:

galeoli con il collare, quaglie di Tartesso e faraonepuniche. Il giardino, da molto tempo incolto, si erariempito di vegetazione; le coloquintidi si arrampicavanosui rami delle cassie, le asclepie avevano invaso i campidi rose, piante di ogni specie si intrecciavano, formavanopergolati; e i raggi del sole, che scendevano obliqui,disegnavano qua e là, come nei boschi, l’ombra di unafoglia sul terreno. Gli animali domestici, ridiventatiselvatici, fuggivano al minimo rumore. A volte si vedevauna gazzella che si trascinava dietro, attaccate ai piccolizoccoli neri, le penne sparse di un pavone. I rumori dellacittà, in lontananza, si perdevano nel mormorio dei flutti.Il cielo era di un azzurro profondo; sul mare non c’erauna sola vela.

Narr’Havas non parlava più; Salammbô, senzarispondergli, lo guardava. Indossava una veste di lino,con fiori dipinti e frange d’oro in basso; due frecced’argento gli fermavano i capelli intrecciati sopra gliorecchi; si appoggiava con la mano destra all’asta di unapicca, adorna di anelli di elettro e ciuffi di pelo.

Mentre lo guardava, una folla di pensieri occupava lasua mente. Quel giovane dalla voce dolce e dal corpofemmineo attraeva i suoi occhi per la grazia delportamento, e quasi le sembrava una sorella maggioreinviata dai Baal per proteggerla. Ripensò a Mâtho; nonresisté al desiderio di sapere cosa gli fosse accaduto.

Narr’Havas rispose che i Cartaginesi stavano avanzando verso Tunisi per catturarlo. A mano a mano che le

esponeva le loro probabilità di successo e la debolezza diMâtho, Salammbô sembrava rallegrarsi, piena disperanza. Le tremavano le labbra, il petto ansimava. Equando lui le promise che l’avrebbe ucciso con le suemani, lei gridò: «Sì, uccidilo! È necessario!».

Il Numida rispose che desiderava ardentemente quellamorte perché, una volta finita la guerra, sarebbe statosuo sposo.

Salammbô trasalì, e abbassò la testa.Ma Narr’Havas, continuando, paragonò i propri

desideri a fiori che languono dopo la pioggia, aviaggiatori sperduti che attendono l’alba. E inoltre le disseche era più bella della luna, migliore del vento delmattino e del viso dell’ospite. Per lei avrebbe fatto veniredal paese dei Neri cose mai viste a Cartagine, e le stanzedella loro casa sarebbero state cosparse di polvere d’oro.

Scendeva la sera, c’era un forte sapore di aromibalsamici. Si guardarono a lungo in silenzio, e gli occhi diSalammbô, tra i lunghi drappeggi, sembravano due stellenello squarcio di una nuvola. Prima che il sole fossetramontato, si ritirò.

Quando partì, gli Anziani si sentirono sollevati da unagrande inquietudine. Il popolo l’aveva accolto conacclamazioni ancora più entusiaste della prima volta. SeAmilcare e il re dei Numidi avessero trionfato da soli suiMercenari, sarebbe stato impossibile resistergli. Perciòdecisero, per indebolire Barca, di far partecipare allaliberazione della Repubblica colui che più amavano, il

vecchio Annone.Costui si portò immediatamente nelle province

occidentali, per vendicarsi negli stessi luoghi che avevanoassistito alla sua vergogna. Ma gli abitanti e i Barbarierano morti, nascosti o fuggiti. A llora la sua collera siriversò sulla campagna. Bruciò le rovine delle rovine, nonlasciò un solo albero, non un filo d’erba; i bambini e gliinfermi che incontravano, li suppliziavano; le donne ledava ai suoi soldati perché le stuprassero prima disgozzarle; le più belle venivano gettate nella sua lettiga,perché la sua atroce malattia lo infiammava di voglieimpetuose, che soddisfaceva con tutto il furore di unuomo disperato.

Spesso, sulla sommità delle colline, si vedevano tendenere abbattersi come rovesciate dal vento, e grandi dischidal bordo luccicante, che venivano riconosciuti per ruotedi carri, girando e cigolando lamentosamente, a poco apoco sprofondavano nelle valli. Le tribù, che avevanoabbandonato l’assedio di Cartagine, erravano così per leprovince, in attesa di un’occasione, di una vittoria deiMercenari per ritornare. Ma, sia per terrore che per fame,ripresero tutte la via dei loro paesi, e sparirono.

Amilcare non fu affatto geloso dei successi di Annone.Tuttavia aveva fretta di farla finita; gli ordinò di puntaresu Tunisi; e Annone, che amava la sua patria, nel giornostabilito si trovò sotto le mura della città.

Per la propria difesa, Tunisi disponeva dellapopolazione autoctona, di dodicimila Mercenari, poi di

tutti i Mangiatori-di-cose-immonde, perché come Mâthoerano inchiodati all’orizzonte di Cartagine, e la plebe e loshalishim contemplavano da lontano le sue alte mura,sognando voluttà infinite al loro interno. In questaconvergenza di odi, la resistenza fu organizzatarapidamente. Presero degli otri per farne elmi, tagliaronotutte le palme dei giardini per farne lance, scavaronocisterne, e, quanto ai viveri, pescavano sulle rive del lagogrossi pesci bianchi, che si nutrivano di cadaveri e diimmondizia. I bastioni, mantenuti in uno stato disastrosodalla gelosia di Cartagine, erano talmente deboli che sipotevano abbattere a spallate. Mâtho ne chiuse i buchicon le pietre delle case. Era l’ultima lotta; non speravapiù niente, ma diceva a se stesso che la fortuna eramutevole.

I Cartaginesi, avvicinandosi, notarono sui bastioni unuomo che oltrepassava i merli dalla cintura in su. Lefrecce che gli volavano intorno non sembravanospaventarlo più di uno stormo di rondini. Nessuna,stranamente, lo colpì.

Amilcare si accampò sul lato meridionale; Narr’Havas,alla sua destra, occupava la piana di Rhades, Annone lariva del lago; e i tre generali dovevano tenere le rispettiveposizioni per poi attaccare la cinta muraria tutti nellostesso momento.

Ma Amilcare volle innanzitutto mostrare ai Mercenariche li avrebbe puniti come schiavi. Fece crocifiggere idieci ambasciatori, gli uni accanto agli altri, su una

collina, di fronte alla città.A quella vista, gli assediati abbandonarono i bastioni.Mâtho si era detto che se fosse riuscito a passare tra le

mura e le tende di Narr’Havas abbastanza rapidamenteperché i Numidi non avessero il tempo di uscirne,sarebbe piombato alle spalle della fanteria cartaginese,che si sarebbe venuta a trovare tra la sua divisione e idifensori della città. Si lanciò fuori con i suoi veterani.

Narr’Havas lo vide; attraversò la spiaggia del lago eandò ad avvertire Annone di inviare uomini in soccorsodi Amilcare. Pensava che Barca fosse troppo debole perresistere ai Mercenari? Era una perfidia o unasciocchezza? Nessuno poté mai saperlo.

Annone, per il desiderio di umiliare il rivale, non esitò.Gridò di suonare le trombe, e tutto il suo esercito siprecipitò sui Barbari. Ma questi si volsero indietro ecorsero diritti sui Cartaginesi, travolgendoli ecalpestandoli; respingendoli in questo modo, giunseroalla tenda di Annone, che in quel momento eracircondato da trenta Cartaginesi, i più illustri degliAnziani.

Sembrò stupefatto della loro audacia; chiamò i suoicapitani. Ma già l’avevano afferrato alla gola, coprendolodi insulti. La folla si accalcava, e quelli che gli avevanomesso le mani addosso facevano fatica a tenerlo. Intantocercava di sussurrare a questo o a quello: «Ti darò tuttoquello che vorrai! Sono ricco! Salvami!». Lo tiravano;nonostante il suo peso, non toccava più terra coi piedi.

Trascinavano via anche gli Anziani. Il suo terroreaumentò. «Mi avete battuto! Sono vostro prigioniero! Vipago il riscatto! Ascoltatemi, amici!». E, trascinato datutte quelle spalle che lo stringevano ai fianchi, ripeteva:«Che volete fare? Cosa volete? Non mi oppongo, comevedete! Sono sempre stato buono!».

Accanto all’ingresso della tenda c’era una crocegigantesca. I Barbari urlavano: «Qui! Qui!». Ma Annonealzò la sua voce ancora di più; e in nome dei loro dèi liscongiurò di condurlo dallo shalishim, perché dovevaconfidargli una cosa da cui dipendeva la loro salvezza.

Si fermarono, perché alcuni sostenevano che erameglio chiamare Mâtho. Andarono a cercarlo.

Annone cadde sull’erba; e intorno a sé vedeva altrecroci ancora, come se lo strumento di supplizio che loaspettava si fosse nel frattempo moltiplicato, e si sforzavadi convincersi che si sbagliava, che ce n’era una sola, eche addirittura non ce n’era neppure una. Lo rimisero inpiedi.

«Parla!», disse Mâtho.Annone offrì di consegnargli Amilcare; quindi

sarebbero entrati a Cartagine, dove entrambi sarebberostati re.

Mâtho si allontanò, facendo segno agli altri diaffrettarsi. Era un’astuzia, pensava, per guadagnaretempo.

Il Barbaro si ingannava; Annone si trovava in una diquelle situazioni estreme in cui non si valuta più nulla, e

d’altra parte odiava talmente Amilcare che per la piùpiccola speranza di salvezza lo avrebbe sacrificato contutti i suoi soldati.

Gli Anziani languivano a terra, alla base delle trentacroci; già gli avevano passato delle corde sotto le ascelle.Allora il vecchio suffeta, comprendendo che era giunto ilmomento di morire, pianse.

Gli strapparono di dosso ciò che gli restava degli abiti,e apparve l’orrore del suo corpo. Quella massa informeera coperta di ulcere; il grasso delle gambe glinascondeva le unghie dei piedi; dalle dita penzolavanobrandelli verdastri; e le lacrime che scorrevano tra iforuncoli delle guance davano al suo viso un aspettospaventosamente triste, perché sembravano piùabbondanti che su qualunque volto umano. La bendaregale, mezza disfatta, si trascinava nella polvere insiemecon i capelli bianchi.

Pensarono di non avere corde sufficientemente robusteper issarlo in cima alla croce, e allora ce lo inchiodaronosopra prima di alzarla, alla maniera punica. Ma con ildolore si risvegliò il suo orgoglio. Si mise a coprirli diingiurie. Sbavava e si contorceva, come un mostromarino che venga scannato su una spiaggia, e predicevaai Barbari una fine più orribile della sua e che sarebbestato vendicato.

E lo era. Dall’altro lato della città, da dove si alzavanolingue di fuoco e colonne di fumo, gli ambasciatori deiMercenari agonizzavano.

Alcuni che erano svenuti rinvenivano per il fresco delvento; ma restavano col mento sul petto, e i loro corpiscendevano un po’ malgrado i chiodi conficcati nellebraccia, più in alto della testa; dai talloni e dalle manicadevano grosse gocce di sangue, lentamente, come dairami di un albero cadono i frutti maturi, e Cartagine, ilgolfo, le montagne e le pianure, tutto sembrava girareintorno a loro, come una ruota immensa; talvolta unanube di polvere che saliva da terra li avvolgeva nei suoivortici; erano bruciati da una sete orribile, la lingua siattorcigliava in bocca, e si sentivano colare addosso unsudore glaciale, mentre la loro anima se ne andava.

E intanto intravedevano, a una distanza indefinita,strade, soldati in marcia, ondeggiare di spade; e iltumulto della battaglia giungeva soffocato, come ilrumore del mare a dei naufraghi che muoiano suipennoni di una nave. Gli Italioti, più robusti degli altri,gridavano ancora; i Lacedemoni, gli occhi chiusi,tacevano; Zarxas, un tempo così vigoroso, penzolavacome una canna spezzata; l’Etiope, accanto a lui, aveva latesta rovesciata indietro sopra i bracci della croce;Autarito, immobile, roteava gli occhi; la sua lungacapigliatura, impigliata in una fessura del legno, era rittasopra la fronte, e il suo rantolo sembrava piuttosto unruggito di collera. Quanto a Spendio, gli era venuto unostrano coraggio; ora disprezzava la vita, con la certezza diun affrancamento quasi immediato ed eterno, eattendeva la morte, impassibile.

Nella loro agonia, talvolta sussultavano a un frusciare

Nella loro agonia, talvolta sussultavano a un frusciaredi penne vicino alla bocca. Ombre di grandi aliondeggiavano intorno a loro, e si udiva gracchiare; esiccome la croce di Spendio era la più alta, fu sulla suache si abbatté il primo avvoltoio. Allora volse il viso versoAutarito e gli disse lentamente, con un sorrisoindefinibile:

«Ti ricordi i leoni sulla strada di Sicca?»«Erano nostri fratelli!», rispose il Gallo spirando.Intanto il suffeta aveva aperto una breccia nel muro di

cinta, ed era arrivato alla cittadella. Un’improvvisa rafficadi vento dissipò il fumo, scoprendo l’orizzonte fino allemura di Cartagine; credette perfino di vedere della genteche stava a guardare sulla piattaforma di Eshmun; poi,riavvicinando lo sguardo, vide a sinistra, sulla riva dellago, trenta croci smisurate.

In effetti, per renderle più terrificanti, le avevanocostruite con i pali delle tende uniti tra loro; e i trentacadaveri degli Anziani apparivano altissimi nel cielo. Suiloro petti si scorgevano strane farfalle bianche; erano lepenne delle frecce che gli avevano tirato dal basso.

Sulla cima della più grande luccicava un largo nastrodorato; penzolava sulla spalla, e da quel lato mancava ilbraccio; Amilcare fece fatica a riconoscere Annone. Lesue ossa spugnose non avevano resistito alla trazione delcorpo sui chiodi, pezzi di membra si erano staccati, esulla croce restavano soltanto lembi informi, simili a queiresti di animali che si vedono inchiodati sulle porte deicacciatori.

Il suffeta non aveva potuto sapere nulla: la città,davanti a lui, nascondeva tutto ciò che accadeva dietro; ei capitani inviati successivamente ai due generali nonerano ricomparsi. A llora, arrivarono dei fuggiaschi, cheraccontarono la disfatta; e l’esercito punico si fermò.Quella catastrofe che veniva a cadere nel bel mezzo dellaloro vittoria, li riempiva di stupore. Non udivano più gliordini di Amilcare.

Mâtho ne approfittava per proseguire le suedevastazioni tra i Numidi.

Messo a soqquadro l’accampamento di Annone, si eragettato su di loro. Uscirono gli elefanti. Ma i Mercenari,con dei tizzoni strappati dai muri, avanzarono nella pianaagitando le fiamme, e i grossi animali, spaventati,corsero a precipitarsi nel golfo, dove si uccisero l’unl’altro dibattendosi, e annegarono sotto il peso dellecorazze. Già Narr’Havas aveva lanciato la sua cavalleria;tutti si gettarono faccia a terra; poi, quando i cavallifurono a tre passi da loro, gli balzavano sotto il ventre elo squarciavano con un colpo di pugnale, e quando Barcaarrivò la metà dei Numidi era morta.

I Mercenari, esausti, non potevano resistere alle suetruppe. Ripiegarono in buon ordine fino alla Montagnadelle Acque Calde. Il suffeta ebbe l’accortezza di noninseguirli. Si spostò verso le foci del Macar.

Tunisi gli apparteneva; ma non era altro che unammasso di macerie fumanti. Le rovine si riversavanoattraverso le brecce delle mura fino in mezzo alla piana;

in fondo, tra le rive del golfo, i cadaveri degli elefanti,sospinti dalla brezza, si urtavano, come un arcipelago dirocce nere che galleggiasse sull’acqua.

Narr’Havas, per sostenere la guerra, aveva svuotato lesue foreste, aveva preso gli elefanti giovani e quellivecchi, i maschi e le femmine, e la forza militare del suoregno non si risollevò mai più. Il popolo, che li avevavisti perire da lontano, ne rimase desolato; c’eranouomini che si lamentavano per le strade chiamandoli pernome, come amici defunti: «Ah! L’Invincibile! La Vittoria!Il Micidiale! La Rondine!». Il primo giorno, addirittura, neparlarono più che dei cittadini morti. Ma l’indomanividero le tende dei Mercenari sulla Montagna delle AcqueCalde. Allora la disperazione fu così profonda che moltagente, soprattutto donne, si gettarono a testa in giùdall’alto dell’Acropoli.

Si ignoravano i piani di Amilcare. Se ne stava chiusonella sua tenda, tenendo con sé soltanto un ragazzo, enessuno mangiava con loro, neppure Narr’Havas.Tuttavia gli dimostrava un riguardo eccezionale dopo ladisfatta di Annone; ma il re dei Numidi era troppointeressato a diventare suo figlio per non diffidarne.

Quest’inerzia mascherava abili manovre. Con ognisorta di artifici, Amilcare attirò dalla sua parte i capi deivillaggi; e i Mercenari furono scacciati, respinti, braccaticome belve feroci. Appena entravano in un bosco,intorno a loro gli alberi s’incendiavano; quando bevevano

a una sorgente, era avvelenata; venivano murate lecaverne dove si nascondevano a dormire. Le popolazioniche fino a quel momento li avevano difesi, i loro vecchicomplici, ora li perseguitavano; e sempre, in quellebande, riconoscevano qualche armatura cartaginese.

Molti avevano il volto mangiato da rossi eczemi; glierano venuti, pensavano, toccando Annone. Altriimmaginavano che gli fossero venuti per aver mangiato ipesci di Salammbô, e, neppure sfiorati dal pentimento,fantasticavano su sacrilegi ancora più abominevoliaffinché l’umiliazione degli dèi punici fosse ancoramaggiore. Avrebbero voluto sterminarli.

Si trascinarono così per tre mesi lungo la costaorientale, poi dietro la montagna di Sellum e fino alleprime sabbie del deserto. Cercavano un luogo doverifugiarsi, uno qualsiasi. Solo Utica e Ippozarito non liavevano traditi; ma Amilcare accerchiava le due città. Poirisalirono verso nord, a caso, senza neppure conoscere lestrade. A forza di privazioni, la loro mente era alterata.

Ormai il loro unico sentimento era una crescenteesasperazione; e un giorno si ritrovarono nelle gole delCobus, di nuovo davanti a Cartagine!

Allora gli scontri si moltiplicarono. Restavano incondizioni di parità; ma gli uni e gli altri erano talmentesfiniti che desideravano, invece di quelle scaramucce, unagrande battaglia, a patto che fosse veramente l’ultima.

Mâtho aveva voglia di andare a proporla lui stesso alsuffeta. Uno dei suoi Libici si offrì di farlo. Tutti,

vedendolo partire, erano convinti che non sarebberitornato.

Tornò la sera stessa.Amilcare accettò la loro sfida. Si sarebbero incontrati

l’indomani all’alba, nella piana di Rhades.I Mercenari vollero sapere se avesse detto altro, e il

Libico aggiunse:«Poiché restavo fermo davanti a lui, mi chiese cosa

aspettassi; gli risposi: “Di essere ucciso!”». AlloraAmilcare aveva detto: «No! Vattene! Accadrà domani,insieme con gli altri».

Questa generosità stupì i Barbari; alcuni ne rimaseroatterriti, e Mâtho rimpianse che il messo non fosse statoucciso.

Gli rimanevano ancora tremila Africani, milleduecentoGreci, millecinquecento Campani, duecento Iberici,quattrocento Etruschi, cinquecento Sanniti, quaranta Gallie un gruppo di Naffur, banditi nomadi incontrati nellaregione dei datteri: in tutto eranosettemiladuecentodiciannove soldati, ma neppure unsintagma completo. Avevano tappato i buchi dellecorazze con scapole di quadrupedi e sostituito i coturni dibronzo con sandali di stracci. Piastre di rame e di ferroappesantivano le loro vesti; le cotte di magliapenzolavano a brandelli e si vedevano cicatrici, come filipurpurei, tra i peli delle braccia e dei volti.

Tornavano loro in mente tutte le ire dei compagni

morti, e ciò accresceva il loro vigore; percepivanoconfusamente di essere i servitori di un dio presente neicuori degli oppressi, e quasi i pontefici della vendettauniversale! Poi il dolore di un’enorme ingiustizia esoprattutto la vista di Cartagine all’orizzonte li facevainfuriare. Giurarono di combattere gli uni per gli altri finoalla morte.

Uccisero le bestie da soma e mangiarono più chepoterono, per acquistare forza; poi dormirono. Alcunipregarono, rivolti verso costellazioni diverse.

I Cartaginesi giunsero nella pianura prima di loro.Sfregarono con olio i bordi degli scudi perché le frecce viscivolassero più facilmente; i fanti, che portavano lunghecapigliature, per prudenza se le tagliarono sulla fronte; eAmilcare, dopo l’ora quinta, fece rovesciare tutte legamelle sapendo che è uno svantaggio combattere con lostomaco troppo pieno. Aveva un esercito diquattordicimila uomini, quasi il doppio di quello barbaro.Eppure non aveva mai provato un’inquietudine simile; sefosse stato sconfitto, sarebbe stata la fine dellaRepubblica, e lui sarebbe morto crocifisso; se inveceavesse vinto, attraverso i Pirenei, le Gallie e le Alpiavrebbe raggiunto l’Italia, e l’impero dei Barca sarebbediventato eterno.

Quella notte si alzò venti volte, per controllare tutto, dipersona, fino ai minimi dettagli. Quanto ai Cartaginesi,erano esasperati dal terrore in cui avevano vissuto pertanto tempo.

Narr’Havas dubitava della fedeltà dei Numidi. Delresto, i Barbari potevano vincerli. L’aveva preso unastrana spossatezza; beveva in ogni momento grandicoppe d’acqua.

Ma un uomo che non conosceva aprì la sua tenda edepose a terra una corona di salgemma, ornata di disegniieratici fatti con zolfo e di losanghe di madreperla;talvolta si inviava al fidanzato la corona di matrimonio;era una prova d’amore, una specie di invito.

Eppure la figlia di Amilcare non provava affetto perNarr’Havas.

Il ricordo di Mâtho la turbava in un modoinsopportabile; le sembrava che la morte di quell’uomoavrebbe liberato la sua mente, come quando, per guarireda un morso di vipera, la si schiaccia sulla ferita. Il re deiNumidi ormai dipendeva da lei; attendeva impaziente lenozze, e poiché avrebbero seguito la vittoria, Salammbôgli inviava quel dono per incitare il suo coraggio. Allorale sue angosce sparirono, e non pensò più ad altro chealla gioia di possedere una donna così bella.

La stessa visione assalì Mâtho; ma lui la respinsesubito, e quell’amore cui non voleva pensare lo riversòsui compagni d’arme. Li amava come parti di se stesso,del suo odio, e così si sentiva rinfrancato, più forte; gliapparve chiaro tutto quello che bisognava fare. Se a voltegli sfuggivano dei sospiri, è perché pensava a Spendio.Schierò i Barbari in sei file eguali. Dispose al centro gliEtruschi, legati tra loro con una catena di bronzo; gli

arcieri e i frombolieri stavano più indietro, e sulle due alidistribuì dei Naffur, montati su cammelli a pelo raso,coperti di piume di struzzo.

Il suffeta schierò i Cartaginesi in un ordine simile.All’esterno della fanteria, accanto ai veliti, piazzò iClinabari, e, più in là, i Numidi; quando sorse il giornoerano schierati in questo modo gli uni davanti agli altri.Tutti, da lontano, si scrutavano con occhi feroci. A ll’inizioci fu qualche incertezza. Finalmente i due eserciti simossero.

I Barbari avanzavano lentamente, per risparmiare ilfiato, battendo i piedi sul terreno; il centro dell’esercitopunico formava una curva convessa. Poi risuonò ilfragore di un urto terribile, simile allo schianto di dueflotte che si abbordino. La prima linea dei Barbari si erasubito aperta e gli arcieri e i frombolieri, nascosti dietrogli altri, lanciavano i loro proiettili, le frecce, i giavellotti.Intanto la curva dei Cartaginesi a poco a poco siappiattiva, poi divenne completamente diritta, quindi sifletté; allora le due sezioni dei veliti si avvicinaronoparallelamente come i due bracci di un compasso che sirichiuda. I Barbari, accaniti contro la falange,penetravano nella sua apertura; rischiavano di perdersi.Mâtho li fermò, e mentre le ali cartaginesi continuavanoad avanzare, fece scorrere all’esterno le tre file interne delproprio schieramento; in fretta oltrepassarono i fianchi, eil suo esercito apparve schierato su una lunghezza trevolte maggiore.

Ma i Barbari piazzati alle due estremità erano i piùdeboli, soprattutto quelli dell’ala sinistra che avevanoesaurito le frecce nelle faretre, e lo squadrone dei veliti,che finalmente gli era addosso, ne faceva grande strage.

Mâtho li fece arretrare. All’ala destra c’erano iCampani, armati di asce; la spinse contro l’ala sinistra deiCartaginesi; il centro attaccava il nemico, e quelli che sitrovavano all’altra estremità, fuori pericolo, tenevanosotto controllo i veliti.

A llora Amilcare divise i suoi cavalieri in squadroni, viinserì degli opliti e li lanciò contro i Mercenari.

Quelle masse a forma di cuneo presentavano unafronte di cavalli, mentre i fianchi erano irti di lance. Per iBarbari era impossibile resistere; soltanto i fanti greciavevano armature di bronzo; tutti gli altri, coltellacci incima a pertiche, falci prese nelle fattorie, spade fabbricatecol cerchione di una ruota; le lame troppo fragili sitorcevano a ogni colpo, e mentre i Barbari cercavano diraddrizzarle sotto i talloni, i Cartaginesi, da destra e dasinistra, li massacravano comodamente.

Ma gli Etruschi, legati alle loro catene, non sispostavano; quelli che erano morti, non potendo cadere,facevano argine con i loro cadaveri; e quella grossa lineadi bronzo di volta in volta si allentava e si rinserrava,flessibile come un serpente, incrollabile come un muro.Dietro, i Barbari si riorganizzavano, riprendevano fiatoper un attimo; poi ripartivano, impugnando i tronconidelle loro armi.

Molti già non ne avevano più, e si gettavano addossoai Cartaginesi mordendoli al volto come cani. I Galli, perorgoglio, si tolsero i saghi; mostravano da lontano igrandi corpi bianchissimi; per spaventare il nemico, siallargavano le ferite con le mani. In mezzo ai sintagmipunici non si udiva più la voce di chi gridava gli ordini;gli stendardi ripetevano i segnali al di sopra della polvere,e ognuno si muoveva trascinato dall’ondeggiare dellagrande massa in cui era immerso.

Amilcare ordinò ai Numidi di avanzare. Ma i Naffur siprecipitarono incontro a loro.

Vestiti di ampi mantelli neri, con un ciuffo di capelli incima al cranio e uno scudo di pelle di rinoceronte,maneggiavano una lama senza manico legata a unacorda; e i loro cammelli, irti di piume, lanciavano lunghigemiti rauchi. Le lame colpivano con precisione, poitornavano indietro con un colpo secco, portando con séun membro reciso. Le bestie infuriate galoppavano tra isintagmi; alcune, che avevano le gambe spezzate,saltellavano come struzzi feriti.

L’intera fanteria punica attaccò i Barbari; li divise. Iloro manipoli volteggiavano, distanziati gli uni dagli altri.Le armi dei Cartaginesi, lucentissime, li accerchiavanocome corone d’oro; un formicolio incessante si agitavanel mezzo, e il sole, che batteva a picco, posava sullapunta delle spade bianchi bagliori volteggianti. Intantofile di Clinabari restavano sul terreno; i Mercenaristrappavano loro le armature, le indossavano, poi

tornavano a combattere. Più volte i Cartaginesi, tratti ininganno, finirono in mezzo a loro. Si immobilizzavanoinebetiti, oppure indietreggiavano, e le grida di trionfoche si alzavano da lontano sembravano sospingerli comerelitti in un mare in tempesta. Amilcare si disperava;tutto minacciava di crollare sotto il genio di Mâtho el’invincibile coraggio dei Mercenari!

Ma un grande rullare di tamburi esplose all’orizzonte.Era una folla di vecchi, di malati, di ragazzi quindicenni eanche di donne che, non resistendo più all’angoscia,erano usciti da Cartagine e, per mettersi sotto laprotezione di qualcosa che apparisse formidabile,avevano preso nei giardini di Amilcare l’unico elefanteche ormai restava alla Repubblica, quello con laproboscide mozzata.

Allora sembrò ai Cartaginesi che la Patria,abbandonando le proprie mura, venisse a ordinare dimorire per lei. La loro furia raddoppiò, e i Numidi sitrascinarono dietro tutti gli altri.

I Barbari, in mezzo alla piana, si erano addossati a unacollinetta. Non avevano alcuna probabilità di vincere, eneppure di sopravvivere; ma erano i migliori, i piùintrepidi e i più forti.

La gente di Cartagine cominciò a lanciare, al di sopradei Numidi, spiedi, lardatoi, martelli; quelli di cui iconsoli avevano avuto paura, morivano sotto i bastonilanciati dalle donne; la plebaglia punica sterminava iMercenari.

Si erano rifugiati sulla cima della collina. Il loro cerchiosi restringeva a ogni nuova breccia; per due voltetentarono di scendere, ma subito venendo respinti; e iCartaginesi stendevano le braccia alla rinfusa;allungavano le picche tra le gambe dei loro compagni efrugavano a caso davanti a sé. Scivolavano sul sangue; lapendenza troppo ripida del terreno faceva rotolare inbasso i cadaveri. L’elefante che cercava di salire sullacollina ne aveva fino al ventre; sembrava che vi siadagiasse sopra con voluttà; e la sua proboscidescorciata, larga in cima, si alzava di tanto in tanto simile aun’enorme sanguisuga.

Poi tutti si fermarono. I Cartaginesi, digrignando identi, scrutavano la cima della collina dove i Barbariresistevano ancora.

Finalmente si gettarono avanti di colpo, e la mischiaricominciò. Spesso i Mercenari li lasciavano avvicinaregridando che si volevano arrendere; poi, sghignazzandoorribilmente, si uccidevano; e a mano a mano che i morticadevano, gli altri salivano sui loro corpi per difendersi.Era una specie di piramide che cresceva a poco a poco.

Presto non ne restarono che cinquanta, poi venti, poitre, poi due soltanto, un Sannita armato di un’ascia, eMâtho che aveva ancora la sua spada.

Il Sannita, piegato sulle gambe, vibrava l’asciaalternativamente a destra e a sinistra avvertendo Mâthodei colpi che gli stavano arrivando addosso: «Di qui,capo! Di là! Abbassati!».

Mâtho aveva perduto gli spallacci, l’elmo, la corazza;era completamente nudo, più livido di un morto, i capelliritti, la bava agli angoli della bocca, e la sua spadaroteava così veloce che gli disegnava un’aureola intorno.Una pietra la spezzò vicino all’elsa; il Sannita era statoucciso e la folla dei Cartaginesi si stringeva; lo toccavano.Allora alzò al cielo le mani vuote, poi chiuse gli occhi e,aprendo le braccia, come uno che si getti in mare dall’altodi un promontorio, si gettò sulle picche, che siscostarono. Più volte si gettò contro i Cartaginesi. Masempre costoro indietreggiavano, voltando le armi.

Urtò con un piede una spada. Mâtho fece perafferrarla. Si sentì legare i polsi e le ginocchia, e cadde.

Era Narr’Havas che già da qualche tempo lo seguivapasso passo con una di quelle grandi reti per catturare lebelve feroci, e approfittando dell’attimo in cui si erachinato, gliela aveva gettata addosso.

Poi lo legarono sul dorso dell’elefante, con le quattromembra in croce; e tutti quelli che non erano feriti,scortandolo, si precipitarono in gran tumulto versoCartagine.

La notizia della vittoria vi era già arrivata, in modoinspiegabile, fin dalla terza ora della notte; la clessidra diKhamon aveva versato la quinta quando giunsero aMalqua; allora Mâtho aprì gli occhi. C’erano così tante lucisulle case che la città sembrava tutta in fiamme.

Un clamore immenso giungeva vagamente fino a lui;e, sdraiato sul dorso, guardava le stelle. Poi una porta si

richiuse, e fu avvolto dalle tenebre.L’indomani, alla stessa ora, l’ultimo degli uomini

rimasti nella gola dell’Ascia spirava.Il giorno in cui erano partiti i loro compagni, gli Zuaeci

che ritornavano avevano fatto franare le rocce, e per unpo’ li avevano nutriti.

I Barbari si aspettavano sempre di veder apparireMâtho, e non volevano lasciare la montagna perscoraggiamento, per debolezza, per quell’ostinazione deimalati che si rifiutano di cambiare posto; alla fine,esaurite le provviste, gli Zuaeci se ne andarono. Si sapevache non erano più di milletrecento e non ci fu bisogno,per farla finita con loro, di impiegare dei soldati.

Le belve feroci, soprattutto i leoni, in quei tre anni diguerra si erano moltiplicate. Narr’Havas aveva fatto unagrande battuta di leoni; poi, legata qua e là una capra aun paletto, aveva inseguito gli animali spingendoli versola gola dell’Ascia; e ora tutti vivevano lì dentro, quandogiunse l’inviato degli Anziani a vedere cosa restasse deiBarbari.

La distesa della pianura era disseminata di leoni e dicadaveri; e i morti si confondevano con le vesti e learmature. A quasi tutti mancava il volto o un braccio;alcuni sembravano ancora intatti; altri eranocompletamente rinsecchiti, e crani polverosi riempivanogli elmi; piedi scarnificati sbucavano dalle cnemidi, alcunischeletri conservavano i loro mantelli; ossa ripulite dalsole formavano macchie luminose nella sabbia.

I leoni riposavano, con il petto adagiato sul suolo e lezampe anteriori allungate, sbattendo le palpebre per laluce del sole esaltata dal riverbero delle rocce bianche.Altri, seduti sulle zampe posteriori, guardavano fissodavanti a sé; oppure, quasi nascosti nelle folte criniere,dormivano arrotolati, e tutti avevano un’aria sazia,stanca, annoiata. Erano immobili come la montagna ecome i morti. Scendeva la notte; larghe fasce rossestriavano il cielo a occidente.

Da uno di quei cumuli che punteggiavanoirregolarmente la pianura si alzò qualcosa di piùindefinito di uno spettro. Allora un leone si mosse,disegnando con la sua forma mostruosa un’ombra nerasullo sfondo purpureo del cielo; quando fu vicinoall’uomo, lo gettò a terra con una sola zampata.

Poi gli si distese sopra e con la punta delle zanne,lentamente, gli estraeva le viscere.

Poi spalancò le fauci e per alcuni minuti emise unlungo ruggito, che l’eco della montagna andò ripetendofinché non si perse nel silenzio.

Improvvisamente dall’alto rotolarono giù dei sassolini.Si udì un fruscìo di passi veloci, e sia dal lato dellasaracinesca che da quello della gola apparvero dei musiaguzzi, delle orecchie diritte; brillarono pupille selvagge.Erano gli sciacalli che arrivavano, per mangiare gliavanzi.

Il Cartaginese, che osservava sporgendosi dalprecipizio, se ne andò.

XVMâtho

Cartagine era in preda alla gioia, una gioia profonda,universale, smisurata, frenetica; le brecce nelle muraerano state chiuse, le statue degli dèi ridipinte, rami dimirto erano sparsi per le strade, nei crocevia fumaval’incenso, e la folla dalle vesti variopinte riempiva leterrazze come aiuole di fiori sbocciati.

Il continuo brusio delle voci era sovrastato dal gridodei portatori d’acqua che innaffiavano il selciato dellestrade; schiavi di Amilcare offrivano in suo nome orzoabbrustolito e pezzi di carne cruda; tutti parlavano traloro; si abbracciavano piangendo; le città tirie eranocadute, i Nomadi dispersi, tutti i Barbari annientati.L’Acropoli spariva sotto velari colorati; i rostri delletriremi, allineati lungo la banchina esterna del molo,luccicavano come una diga di diamanti; ovunque siavvertiva l’ordine ristabilito, una nuova vita chericominciava, una grande gioia diffusa: era il giorno delmatrimonio di Salammbô con il re dei Numidi.

Sulla terrazza del tempio di Khamon, tre lunghi tavolicarichi di vasellame d’oro attendevano i sacerdoti, gliAnziani e i Ricchi, e ce n’era un quarto, più in alto, perAmilcare, Narr’Havas e lei; infatti, poiché Salammbôaveva salvato la Patria recuperando il velo, il popoloconsiderava le sue nozze una festa nazionale, e aspettava,giù in piazza, di vederla apparire.

Ma un altro desiderio, più acre, provocava la suaimpazienza; in occasione della cerimonia era statapromessa la morte di Mâtho.

Prima era stato proposto di scorticarlo vivo, di colarglidel piombo fuso nelle viscere, di farlo morire di fame;ma sarebbe stato meglio legarlo a un albero, e poi unascimmia, dietro di lui, lo avrebbe percosso sul cranio conuna pietra; aveva offeso Tanit, e sarebbero stati icinocefali di Tanit a vendicarla. Per altri sarebbe statomeglio portarlo in giro su un dromedario, dopo avergliinfilato in più punti del corpo stoppini di lino imbevutid’olio; e pregustavano la gioia di veder girare per lestrade il grande animale con in groppa quell’uomo, acontorcersi tra le fiamme come un candelabro agitato dalvento.

Ma quali cittadini sarebbero stati incaricati del suosupplizio? E perché deludere tutti gli altri? Era preferibileun genere di morte alla quale partecipasse la città intera,e che tutte le mani, tutte le armi, tutte le cose diCartagine, fino al selciato delle strade e ai flutti del golfo,potessero dilaniarlo, schiacciarlo, annientarlo. Allora gli

Anziani decisero di farlo andare senza scorta dalla suaprigione alla piazza di Khamon, con le braccia legatedietro la schiena; era proibito colpirlo al cuore, perchévivesse più a lungo, bucargli gli occhi perché potessevedere fino alla fine la sua tortura, lanciare qualsiasi cosacontro di lui e toccarlo con più di tre dita per volta.

Benché non dovesse comparire prima della fine delgiorno, ogni tanto qualcuno credeva di vederlo arrivare, ela folla si precipitava verso l’Acropoli, le strade sisvuotavano, per poi tornare indietro con un lungomormorio. C’erano alcuni che fino dalla vigilia stavanofermi nello stesso posto, e da lontano si chiamavanomostrandosi le unghie che avevano fatto crescere perconficcarle meglio nella carne di Mâtho. Altri andavanoavanti e indietro agitati; alcuni erano pallidi come sefossero in attesa della propria esecuzione.

Improvvisamente, dietro i Mappali, grandi ventagli dipiume si alzarono sopra le teste. Era Salammbô cheusciva dal suo palazzo; si udì un lungo sospiro disollievo.

Ma il corteo ci mise molto ad arrivare; avanzavalentamente.

Per primi sfilarono i sacerdoti dei Pateci, poi quelli diEshmun, quelli di Melkarth e poi tutti gli altri collegi, conle stesse insegne e nello stesso ordine che avevanoosservato il giorno del sacrificio. I pontefici di Molochsfilarono a testa bassa, e la folla, per una sorta dirimorso, si apriva al loro passaggio. Ma i sacerdoti della

Rabbet avanzavano con passo fiero, e tutti reggevano inmano la lira; li seguivano le sacerdotesse con vestitrasparenti gialle o nere, e lanciavano grida di uccellicontorcendosi come vipere; oppure, al suono dei flauti,volteggiavano per imitare la danza delle stelle, e le lorovesti leggere spargevano per le strade effluvi di saporiinebrianti. Insieme con le donne venivano applauditi iKedeshim dalle palpebre dipinte, che simboleggiavanol’ermafroditismo della dea; profumati e vestiti come ledonne, somigliavano loro nonostante i seni piatti e leanche più strette. Del resto, quel giorno, il principiofemminile dominava e confondeva tutto: una misticalascivia si diffondeva nell’aria greve; già le fiaccolecominciavano ad accendersi in fondo ai boschi sacri; nellanotte vi si sarebbe svolta una prostituzione generale; trenavi avevano portato cortigiane dalla Sicilia, e ne eranoarrivate dal deserto.

I collegi, a mano a mano che arrivavano, sischieravano nei cortili del tempio, sulle gallerie esterne esulle doppie scalinate che salivano lungo le mura perricongiungersi in alto. File di vesti bianche apparivano trai colonnati, e l’architettura si popolava di statue umane,immobili come statue di pietra.

Poi giunsero gli amministratori delle finanze, igovernatori delle province e tutti i Ricchi. Ci fu un grandetumulto nella piazza. La folla vi si riversava dalle stradevicine; gli ieroduli la respingevano a colpi di bastone; e inmezzo agli Anziani, incoronati di tiare d’oro, su unalettiga sormontata da un baldacchino di porpora, apparve

lettiga sormontata da un baldacchino di porpora, apparveSalammbô.

Allora si alzò un grido immenso; i cembali e i crotalisuonarono più forte, i tamburi rimbombavano, e ilgrande baldacchino di porpora scomparve tra i duepiloni.1

Riapparve al primo piano. Salammbô vi camminavasotto, lentamente; poi attraversò la terrazza per andare asedersi in fondo, su una specie di trono intagliato in unguscio di tartaruga. Le misero sotto i piedi uno sgabellod’avorio a tre gradini; sul bordo del primo stavanoinginocchiati due bambini negri, e Salammbô di tanto intanto appoggiava sopra le loro teste le braccia cariche dipesanti anelli.

Dalle caviglie alle anche era avvolta in una rete amaglie strette che imitavano le scaglie di un pesce eluccicavano come madreperla; una fascia blu che lestringeva la vita lasciava vedere i seni attraverso duescollature a forma di mezzaluna; due pendenti dicarbonchio nascondevano i capezzoli. Avevaun’acconciatura fatta di piume di pavone costellate dipietre preziose; un ampio mantello, bianco come la neve,le ricadeva dietro le spalle; coi gomiti stretti ai fianchi e leginocchia unite, con bracciali di diamanti intorno allaparte più alta delle braccia, se ne stava eretta, inatteggiamento ieratico.

Su due sedili più bassi sedevano suo padre e il suosposo. Narr’Havas, vestito di una zimarra color croco,portava la sua corona di salgemma da cui uscivano due

trecce di capelli ritorte come le corna di Ammone; eAmilcare, in tunica viola ricamata a pampini d’oro, tenevaal fianco la spada di battaglia.

Nello spazio compreso tra i tavoli, il pitone del tempiodi Eshmun, sdraiato per terra tra pozze di olio rosa,mordendosi la coda descriveva un grande cerchio nero.Al centro del cerchio c’era una colonna di rame chereggeva un uovo di cristallo; e poiché il sole vi battevasopra, i raggi si riflettevano in ogni direzione.

Dietro Salammbô erano schierati i sacerdoti di Tanit investi di lino; gli Anziani, alla sua destra, formavano conle loro tiare una grande linea d’oro, e dall’altro lato iRicchi, con i loro scettri di smeraldo, una grande lineaverde, mentre in fondo, dove erano schierati i sacerdotidi Moloch nei loro mantelli rossi, sembrava che ci fosseuna muraglia di porpora. Gli altri collegi occupavano leterrazze inferiori. La moltitudine affollava le strade erisaliva in lunghe file, attraverso i tetti delle case, fino allasommità dell’Acropoli. Così, avendo il popolo ai suoipiedi, il firmamento sopra la testa, e intorno a sél’immensità del mare, il golfo, le montagne e la vistadelle province, Salammbô, rilucente, si confondeva conTanit e sembrava il genio stesso di Cartagine,l’incarnazione della sua anima.

Il festino doveva durare tutta la notte, e i lampadari amolte braccia sorgevano come alberi dai tappeti di lanadipinta che ricoprivano le tavole basse. Grandi ampolle dielettro, anfore di vetro blu, cucchiai di tartaruga e piccoli

pani rotondi si stipavano tra le doppie serie di piatti daibordi di perle; grappoli d’uva con le foglie eranoarrotolati come tirsi intorno a ceppi d’avorio; blocchi dineve si scioglievano lentamente su vassoi di ebano, elimoni, melograne, zucche e cocomeri erano ammucchiatisu vassoi d’argento; cinghiali con la bocca spalancatagiacevano in letti di spezie; lepri, ancora con il loro pelo,sembravano saltare tra i fiori; composizioni di carniriempivano conchiglie; i dolci avevano forme simboliche;quando si scoprivano i vassoi, delle colombe si alzavanoin volo.

Intanto gli schiavi, con le maniche delle tunicherimboccate, si muovevano in punta di piedi; di tanto intanto le lire intonavano un inno, oppure si alzava un corodi voci. Il rumoreggiare della folla, continuo come ilrumore del mare, fluttuava vagamente intorno al festinoe sembrava cullarlo in un’armonia più ampia; qualcuno siricordava del banchetto dei Mercenari; ci si lasciavaandare a sogni di felicità; il sole cominciava a tramontare,e la falce della luna già sorgeva dall’altra parte del cielo.

Ma Salammbô, come se qualcuno l’avesse chiamata,girò la testa; il popolo, che la guardava, seguì ladirezione dei suoi occhi.

Sulla cima dell’Acropoli, la porta della cella scavatanella roccia ai piedi del tempio si era aperta; e dentroquel buco nero, sulla soglia, c’era un uomo in piedi.

Ne uscì piegato in due, con l’aria spaventata dellebestie feroci rimesse all’improvviso in libertà.

La luce lo abbagliava; per un po’ rimase immobile.Tutti l’avevano riconosciuto e trattenevano il fiato.

Il corpo di quella vittima aveva per loro un significatoparticolare, quasi religioso. Si sporgevano per vederlo,soprattutto le donne. Ardevano dal desiderio di vederecolui che aveva fatto morire i loro figli e i loro sposi; edal fondo della loro anima, loro malgrado, saliva unacuriosità infame, il desiderio di conoscerlocompletamente, e quel desiderio misto a rimorso finivaper accrescere il loro odio.

Finalmente avanzò; allora lo stupore della sorpresasvanì. Si alzò una selva di braccia, e non lo si vide più.

La scalinata dell’Acropoli aveva sessanta gradini. Liscese come rotolando in un torrente dall’alto di unamontagna; lo si vide rimbalzare tre volte, poi, giunto inbasso, ricadde sui talloni.

Gli sanguinavano le spalle, il petto ansimavaconvulsamente; e per liberarsi delle catene compieva talisforzi che le braccia incrociate sulle reni nude sigonfiavano come spire di serpente.

Dal punto dove si trovava gli si aprivano davantiparecchie vie. In ciascuna di esse e su entrambi i lati sistendeva da un capo all’altro un triplice ordine di catenedi bronzo, fissate all’ombelico degli dèi Pateci; la folla eraaddossata alle case e, nel mezzo, alcuni servitori degliAnziani si aggiravano brandendo degli scudisci.

Uno di loro gli dette un forte spintone; Mâtho si mise acamminare.

Allungavano le braccia sopra le catene, gridando chegli era stato lasciato un corridoio troppo largo; e luiavanzava, palpato, punzecchiato, straziato da tutte quelledita; quando era giunto in fondo a una via, ne apparivaun’altra; più volte si gettò di fianco per morderli; maquelli si scostavano in fretta, le catene lo trattenevano, ela folla scoppiava a ridere.

Un bambino gli lacerò un orecchio; una ragazza, cheaveva nascosto nella manica la punta di un fuso, gli tagliòuna guancia; gli strappavano ciuffi di capelli, lembi dicarne; altri, con dei bastoni che avevano in cima unaspugna imbevuta di sozzure, gliela sfregavano in faccia.Dal lato destro del collo zampillò un fiotto di sangue:subito iniziò il delirio. Quest’ultimo Barbarorappresentava per loro tutti i Barbari, l’intero esercito; sivendicavano su di lui dei loro disastri, dei loro terrori, deiloro obbrobri. La rabbia del popolo cresceva propriomentre si placava; le catene troppo tese si curvavano,stavano per spezzarsi; non sentivano più le frustate concui gli schiavi volevano spingerli indietro; altri siaggrappavano alle sporgenze delle case; ogni aperturanei muri era gremita di teste; e il male che nonriuscivano a fargli, glielo urlavano.

Erano ingiurie atroci, immonde, con incoraggiamentiironici e imprecazioni; e poiché non erano soddisfattidelle sue attuali sofferenze, gliene annunciavano altreancora più terribili per l’eternità.

Quegli urli, quegli ululati, riempivano Cartagine, con

stupida ripetitività. Spesso una sola sillaba,un’intonazione rauca, profonda, frenetica, veniva ripetutaper qualche minuto da tutto il popolo. I muri vibravanodalle fondamenta alla cima e a Mâtho sembrava che ledue pareti della via gli venissero addosso e losollevassero, come due braccia immense che l’avrebberosoffocato per aria.

Tuttavia si ricordava di aver provato, un tempo,qualcosa di simile. Era la stessa folla sulle terrazze, glistessi sguardi, la stessa collera; ma allora camminavalibero, tutti si scostavano, un dio lo proteggeva; e quelricordo, che a poco a poco si precisava, gli procurava unatristezza opprimente. Davanti ai suoi occhi passavanoombre; la città intera turbinava nella sua testa, il sanguescorreva da una ferita al fianco, si sentiva morire; leginocchia si piegarono, e si accasciò lentamente sulselciato.

Allora qualcuno andò a prendere, nel peristilio deltempio di Melkarth, la sbarra di un tripode arroventatasui carboni e, facendola passare sotto la catena più bassa,gliela appoggiò sulla piaga. Si vide la carne fumare; leurla del popolo soffocarono la sua voce: era di nuovo inpiedi.

Sei passi più in là, e cadde una terza, una quarta volta;ogni volta un nuovo supplizio lo faceva rialzare. Glispruzzavano addosso, con dei tubi, gocce di oliobollente; gli spargevano cocci di vetro sotto i piedi; malui continuava a camminare. All’angolo della via di Sateb

si appoggiò al muro, sotto la tettoia di una bottega, enon si mosse più.

Gli schiavi del Consiglio lo colpirono con gli scudisci dicuoio d’ippopotamo, con una tale furia e così a lungo chele frange delle loro tuniche erano fradice di sudore.Mâtho sembrava insensibile; improvvisamente, preso loslancio, si mise a correre a caso, facendo con le labbra ilrumore di chi trema per il gran freddo. Così percorse lavia di Budes, la via di Sepo, attraversò il Mercato delleErbe e giunse sulla piazza di Khamon.

Ora apparteneva ai sacerdoti; gli schiavi avevano fattoarretrare la folla; c’era più spazio. Mâtho si guardòintorno, e i suoi occhi incontrarono Salammbô.

Fin dal primo passo che Mâtho aveva mosso,Salammbô si era alzata; poi, involontariamente, a manoa mano che si avvicinava, si era spinta fino al bordo delparapetto; e presto, mentre ogni cosa esternascompariva, non vide nient’altro che Mâtho. Nella suaanima era sceso il silenzio, uno di quegli abissi in cui ilmondo intero svanisce sotto la pressione di un solopensiero, di un ricordo, di uno sguardo. Quell’uomo checamminava verso di lei, l’attraeva.

Non aveva più, tranne gli occhi, un aspetto umano;era una lunga forma completamente rossa; le sue catenespezzate penzolavano lungo le cosce, ma non sidistinguevano dai tendini dei polsi messi a nudo; la boccaera spalancata; dalle sue orbite uscivano due fiamme chesembravano salirgli fino ai capelli; e lo sventurato

continuava a camminare!Giunse ai piedi della terrazza. Salammbô si sporgeva

dal parapetto; quelle pupille terrificanti la guardavano, eall’improvviso si rese conto di quanto Mâtho avevasofferto per lei. Benché agonizzasse, lo rivedeva nella suatenda, in ginocchio mentre le cingeva la vita con lebraccia e balbettava parole dolci; ora aveva sete dirisentirle, di udirle; ora non voleva che lui morisse! Inquel momento Mâtho ebbe un grande sussulto;Salammbô trattenne un grido. Mâtho cadde riverso e nonsi mosse più.

Salammbô, semisvenuta, fu ricondotta sul suo tronodai sacerdoti che le si stringevano intorno. Sirallegravano con lei: era opera sua. Tutti battevano lemani e saltavano gridando il suo nome.

Un uomo si gettò sul cadavere. Anche se era senzabarba, aveva sulle spalle il mantello dei sacerdoti diMoloch, e alla cintura quella specie di coltello che servivaa tagliare a pezzi le carni consacrate, con l’impugnaturache terminava in una spatola d’oro. Con un solo colpoaprì il petto di Mâtho, poi gli strappò il cuore, lo mise sulcucchiaio, e Shahabarim, alzando il braccio, lo offrì alSole.

Il sole scendeva dietro i flutti; i suoi raggi giungevanocome lunghe frecce sul cuore tutto rosso. L’astro siimmergeva nel mare a mano a mano che i battitidiminuivano; all’ultimo palpito, scomparve.

Allora, dal golfo fino alla laguna e dall’istmo fino al

faro, in ogni strada, su ogni cosa e su ogni tempio, fu unsolo grido: ogni tanto si interrompeva, poi ricominciava;gli edifici ne tremavano; Cartagine era in preda allospasmo di una gioia titanica e di una speranza senzaconfini.

Narr’Havas, ebbro di orgoglio, cinse con il bracciosinistro la vita di Salammbô in segno di possesso; e, conla destra, afferrata una patera d’oro, bevve al genio diCartagine.

Salammbô si alzò in piedi con il suo sposo, con unacoppa in mano, per bere a sua volta. Ma ricadde indietro,con la testa rovesciata sulla spalliera del trono, livida,irrigidita, le labbra socchiuse, e i suoi capelli scioltisfioravano il pavimento.

Così morì la figlia di Amilcare, colpevole di averviolato il manto di Tanit.

Note

I. IL FESTINO

1. battaglia di Erice: i Mercenari che Amilcare Barca «avevacomandato in Sicilia» celebrano il terzo anniversario della battaglia concui i Cartaginesi avevano sconfitto i Romani sul monte Erice nel 244a.C. A quella vittoria era seguita, nel marzo del 241 a.C. la pesantesconfitta nella battaglia navale delle isole Egadi, a opera del consoleGaio Lutazio Catulo, che aveva costretto i Cartaginesi a lasciaredefinitivamente la Sicilia. Per la costruzione dello scenario storico diSalammbô, Flaubert segue, fin dall’inizio del romanzo, i capitoli 65-88del primo libro delle Storie di Polibio.

2. Il Consiglio: è il Consiglio dei Cento Anziani, il senato diCartagine; secondo Flaubert, si riunisce nel tempio di Moloch. Da nonconfondersi con il Gran Consiglio, assemblea generale dei Ricchi, che siriunisce nel tempio di Eshmun.

3. tempio di Eshmun: al dio fenicio Eshmun, corrispondente algreco Asclepio e al latino Esculapio, è dedicato, secondo Appiano, iltempio più sontuoso di Cartagine, sulla sommità dell’Acropoli.

4. garo: salsa prelibata a base di pesci marinati.5. Tamrapanni: corruzione dell’antico nome (Tampraparni)

dell’isola di Ceylon.6. assafetida: pianta ombrellifera asiatica da cui si ricava una

gomma resinosa che ha l’odore dell’aglio.7. Bruzio: i Latini chiamavano Brutii gli abitanti dell’attuale Calabria.

8. Giscone: suffeta cartaginese di cui parla ampiamente Polibio (iltermine suffeta, con il significato di ‘giudice’, tanto in fenicio che inebraico, indica la carica dei due supremi magistrati di Cartagine e dialtre città puniche).

9. Lutazio: il console romano Gaio Lutazio Catulo, vincitore dellabattaglia delle isole Egadi nel marzo del 241 a.C.

10. Baal-Eshmun: l’epiteto Baal, che significa ‘signore’, ‘dio’,precede frequentemente i nomi delle divinità fenicie. Usatoindipendentemente, non come epiteto, indica, in Salammbô, il dioMoloch.

11. Spendio: personaggio delle Storie di Polibio.12. battaglia delle Eginuse: probabilmente si tratta della battaglia

delle isole Egadi. Fa parte delle Egadi l’isola di Aegusa (Favignana).13. Khamon: dio del Sole, inteso come principio fecondatore.

Anche Moloch è dio del Sole, ma inteso come principio distruttore.14. Tutti discendevano … la dea: la dea è Tanit, la principale

divinità di Cartagine, personificazione della Luna. Flaubert le attribuiscecaratteristiche e leggende riferite ad altre divinità delle religionimediorientali, in particolare ad Atargatis, venerata nel tempio diIerapoli, in Siria; di questa divinità si diceva che fosse nata da un uovocaduto dal cielo. Vicino al tempio di Ierapoli, informa l’anonimo autoredi un trattato De dea Syria noto a Flaubert, esisteva un piccolo lago incui venivano allevati pesci sacri alla dea, dalle pinne ornate di oro epietre preziose.

15. Salammbô: nome di una dea venerata dai Fenici nelle colonieiberiche, assimilabile a Tanit; è il risultato della contrazione di salam‘pace’ e baal ‘divinità’, con il significato di ‘pace divina’. Polibio parla diuna figlia di Amilcare promessa in sposa a Naravas, il più antico redella dinastia numida; la circostanza viene ripresa da Flaubert. Per ilresto, il personaggio di Salammbô è una creazione dello scrittore.

16. Siv! … Shebar!: nomi di mesi, di origine mesopotamica, cheFlaubert ha tratto dal calendario ebraico.

17. malòbatro: olio aromatico estratto da una pianta diffusa inIndia e in Siria; ne parla un’altra fonte familiare a Flaubert, la Storia

naturale di Plinio il Vecchio.18. Ecatompilo: città di cui parlano Polibio e Diodoro Siculo,

probabilmente da identificarsi con l’odierna Tebessa, in Algeria, sulconfine con la Tunisia.

19. suffeta: per il significato di questo termine si veda la nota 8.20. Melkarth: dio fenicio, assimilabile all’Eracle greco. Flaubert ne

fa il progenitore della famiglia dei Barca, di cui in realtà Amilcare è ilprimo personaggio storicamente conosciuto.

21. Narr’Havas: personaggio delle Storie di Polibio, dove apparecon nome di Naravas.

22. Mâtho: anche questo è un personaggio delle Storie di Polibio,completamente reinventato da Flaubert.

23. promontorio Ermeo: la penisola che delimita a oriente il golfodi Tunisi.

24. i cavalli di Eshmun: probabile invenzione di Flaubert, ispirata almito greco del carro del Sole.

25. Mappali: zona di Cartagine estesa tra i quartieri di Megara e diMalqua, popolata di capanne e di tombe. Con il termine mapalia, diorigine punica, gli scrittori latini indicano le capanne africane in genere.

26. Moloch: è il dio fenicio della forza maschile e del Sole. NellaBibbia indica un idolo al quale alcuni popoli cananei immolavano vittimeumane.

II. A SICCA

1. Sicca: città a sud-ovest di Cartagine, tra Naraggara e Zama,chiamata Sicca Venerea dai Romani; è l’odierna città tunisina di el-Kef.

2. opliti: soldati di fanteria con armatura pesante.3. sarisse: lance lunghe e pesanti.4. le alte case … di bitume: dell’usanza di imbrattare di bitume le

pareti delle case di Cartagine, per proteggerle dalle intemperie, parlaPlinio il Vecchio nella Storia naturale.

5. i lupanari di Malqua: il popolare quartiere di Malqua, checirconda la città antica e parte della nuova, è immaginato da Flaubert

come una sorta di Suburra romana.6. silfio: pianta aromatica, usata per salse raffinate.7. tempio di Ammon: celebre santuario situato in un’oasi del

deserto libico, oggi denominata Siwah. Il culto di Ammon, originariodella città di Tebe, si era poi diffuso in Egitto e in altre regioni africane.

8. Garamanti: con questo nome Greci e Latini indicavano unapopolazione nomade dell’interno dell’Africa, stanziale in alcuni periodinelle oasi della Phazania (Fezzan).

9. tetrarca: comandante di quattro compagnie di fanteria o diquattro squadroni di cavalleria.

10. medimni: misura greca di capacità.11. crotali: strumenti simili alle nacchere.12. Venere Cartaginese: Tanit.13. galbano, seseli: essenze di piante.14. i sette Cabiri: divinità sotterranee fenicie.15. astragali: dadi.16. Annone: personaggio delle Storie di Polibio.17. Santippo: lo stratega spartano che, al servizio di Cartagine, nel

255 a.C. aveva sconfitto e catturato Attilio Regolo.18. siclo: da siclus, traduzione di shekel, moneta orientale diffusa

in Fenicia.19. Zarxas: personaggio delle Storie di Polibio.20. dèi Pateci: gli dèi Penati di Cartagine.21. giacinto: varietà della porpora, di colore violetto.22. di Commageno … tritata: squisitezza siriana, descritta da Plinio

il Vecchio nella Storia naturale.

III. SALAMMBÔ

1. O Rabbetna! … Tanit!: Rabbetna e Baalet sono forme femminilidi Rabbet (‘signore’) e Baal (‘dio’), riferiti a Tanit.

2. Anaitis! … Tiratha!: nomi ed epiteti di dee, di varia origine, cheFlaubert considera sinonimi di Tanit.

3. Getulia Darizia: regione abitata dai Getuli, popolazione nomade,

situata tra il Gran Deserto e la catena dell’Atlante.4. nebal: strumento simile all’arpa, come è spiegato poco più

avanti.5. il paese dell’ambra … di Melkarth: i paesi costieri del mar

Baltico, oltre le colonne d’Ercole.6. Baal ermafroditi: le divinità fenicie, per Flaubert, sono

ermafrodite; contengono cioè sia il principio maschile che quellofemminile, prevalendo ora l’uno (il principio femminile in Tanit), oral’altro (il principio maschile in Moloch).

IV. SOTTO LE MURA DI CARTAGINE

1. Genio di Cartagine: Tanit.2. Dionisio, Pirro, Agatocle: Dionisio il Vecchio (432-367 a.C.),

tiranno di Siracusa dal 406, fino alla morte difese dai Cartaginesi lacittà e la civiltà greca. Pirro (319-272 a.C.), re dell’Epiro, chiamato inaiuto dai Siracusani assediati dai Cartaginesi, in poco tempo liberòl’intera Sicilia, lasciando ai Cartaginesi soltanto Lilibeo (Marsala).Agatocle (ca. 360-289 a.C.), Siracusano, nel 316 si impadronì delpotere con un colpo di stato; assediato dai Cartaginesi, lasciò la cittàcon poche navi e portò la guerra nel territorio di Cartagine,devastandolo per quattro anni.

3. Tenia: la striscia di terra che separa la laguna di Tunisi dalmare.

4. Ippozarito: è l’Hippo-Dyarrhytus dei Latini, l’odierna Biserta.5. Ricordatevi … galea marcia: dell’Isola delle Ossa parla Diodoro; i

Cartaginesi avrebbero sbarcato su un’isola deserta alcuni Mercenari,facendoli morire di fame e di sete, per evitare di pagarli. Delcomandante mercenario Santippo, la cui morte sarebbe stataprovocata dai Cartaginesi per invidia della sua gloria, parla Appiano.

6. falariche: pesanti giavellotti con testa metallica munita dimateriale incendiario.

7. il pianeta di Shabar: la Luna.8. nopale: arbusto della famiglia delle cactacee su cui vive la

cocciniglia.

V. TANIT

1. il corpo … di mammelle: Flaubert si ispira alla celebre statuadella Artemide di Efeso.

2. cembali: strumenti a percussione, simili ai moderni “piatti”.3. il berretto dei Cabiri: un berretto di forma conica; i Cabiri sono

divinità fenicie.4. la caverna di Adrumeto: si credeva che da una caverna di

Adrumeto, l’odierna città di Susa, in Tunisia, si accedesse al regnodegli inferi.

5. Gurzil … ti bruci!: Gurzil e Matisma sono divinità libiche; l’Altro,colui che non si può nominare è Moloch.

VI. ANNONE

1. Arcagato, figlio di Agatocle: il padre (si veda la nota 2, cap. IV)gli aveva lasciato il comando dell’esercito d’Africa al suo ritorno inSicilia, nel 306 a.C.; Arcagato, tuttavia, fu rapidamente sconfitto daiCartaginesi, quindi ucciso dai propri soldati.

2. shalishim: termine biblico che significa ‘guerriero scelto’.3. Tolomeo: Tolomeo III Evergete, sul trono d’Egitto dal 246 a.C.4. il saio di pelle di foca: cappotto di pelo, aperto davanti, tipico dei

soldati nordici, in particolare dei Galli.5. uri: l’uro è il progenitore del bue domestico.6. carrobaliste, onagri: carri sormontati da grosse balestre

(carrobaliste) e asini selvatici (onagri).7. scorpioni: macchine da guerra simili a catapulte e balestre.8. galbano e storace: il galbano è una gommaresina ottenuta dal

succo di piante orientali; lo storace è un balsamo ricavato dallacorteccia di una pianta, anch’essa asiatica.

VII. AMILCARE BARCA

1. abadir: pietra rituale. Nella mitologia greca, con questo nome èindicata la pietra che Rea, moglie di Cronos, presentò fasciata come unbambino al marito, che l’inghiottì, per evitare di essere spodestato infuturo.

2. Chiedilo … di Eraclea: assunto il comando della flotta nel 247a.C., Amilcare aveva attaccato e devastato le coste della MagnaGrecia.

3. Cepione: il console Gaio Servilio Cepione nel 253 a.C. avevacompiuto numerose incursioni sulle coste africane.

4. zeret: misura ebraica.5. Tammuz: nel calendario ebraico il mese di luglio.6. Shebat: nel calendario ebraico il mese di febbraio.7. Cassiteridi: le isole Britanniche; il Mare Tenebroso è l’Atlantico.8. Rispose … degli Aromi: Timiamata, centro commerciale fenicio

sulla costa della Mauritania; Eziongaber, porto sul Mar Rosso in fondoal golfo di Aqaba; il promontorio degli Aromi, all’estremo orientedell’Africa, corrisponde all’odierno capo Guardafui.

9. dell’Harush Nero … scimmie: Harush Nero è un rilievo collinare aoriente del Fezzan; gli Ataranti sono una popolazione dell’interno, dicui parla Erodoto; del paese delle grandi scimmie, forse il Gabon, parlaAnnone.

10. Fazzania: è il Fezzan, la Phazania dei Latini.11. cavalli oringi: cavalli selvatici dal manto zebrato.12. cab: unità di misura palestinese (come, poco sopra, gommor).13. beka: moneta palestinese (come le successive, kesitah, kikar,

mina).14. Annaba: villaggio della costa algerina.15. biglione: lega metallica a bassa percentuale d’argento.16. Erano … sandastri: le callaidi corrispondono, forse, ai turchesi;

i glossopetri sono denti fossili di pescecane; dei tiani e dei sandastrinon conosciamo la corrispondenza (il repertorio è attinto da Plinio e daTeofrasto).

17. ceraunie: pietre che gli antichi credevano precipitate dal cielo

in seguito allo scoppio di un fulmine.18. corni di Ammone: ammoniti (fossili caratterizzati da una

conchiglia a spirale).19. algummin … terra di Lemno: l’algummin era forse un legno

pregiato; la lausonia è l’henné; la terra di Lemno, un’argillaastringente, usata per la cura della pelle.

20. mirobolano, bdellio: il mirobolano è un’essenza per unguenti; ilbdellio è una gommaresina ricavata dalla pianta omonima.

21. filipendula: pianta con piccoli fiori a grappolo, bianchi o rosa.22. metopio: albero da cui si estrae un’essenza medicamentosa.23. bàccara: nome antiquato del nardo selvatico, una pianta

odorosa da cui si ricavano alcune specie di lavanda.24. elettro: ambra gialla per monili e ornamenti.25. bezoar: concrezioni nell’intestino dei ruminanti, usate come

contravveleno.26. nardo: lavanda.27. psaga: unguento egiziano.28. morbo sacro: l’epilessia, considerata dagli antichi una sorta di

invasamento divino.

VIII. LA BATTAGLIA DEL MACAR

1. Clinabari: cavalieri scelti.2. Macar: fiume della Tunisia (Polibio).3. Capo dell’Uva: promontorio a oriente di Ippozarito.4. Tibby: il Tebet ebraico, che corrisponde al mese di gennaio.5. veliti: fanti armati alla leggera.

IX. IN CAMPAGNA

1. Thuccaber: città a ovest di Tunisi, sulla riva sinistra dellaMegerda; le città nominate successivamente si trovano nella partesettentrionale della Tunisia.

2. durante l’assedio di Siracusa: nell’assedio del 395 a.C., il

generale cartaginese Imilcone profanò i templi di Demetra e diPersefone; l’oltraggio fu punito da un’epidemia che devastò l’esercitopunico, costringendo Imilcone alla resa; allora, in segno di espiazione,furono erette a Cartagine due statue in onore delle dee offese.

3. k’kommer … betza: unità di misura palestinesi ed ellenistiche.4. Elul: settembre.

X. IL SERPENTE

1. tempio di Afaka: tempio siriano, dedicato al culto di Astarte,identificata dai Greci in Afrodite.

2. adianto: capelvenere.3. le faceva … mandragore: le proprietà sedative della mandragora

erano note fin dall’antichità.4. baaras: pianta sconosciuta.5. sandracca: resina.6. bematisti: misuratori di distanza.7. strobo e cardamomo: lo strobo è il pino, o la pigna; il

cardamomo è una pianta erbacea i cui semi, ricchi di oli essenziali,sono usati come spezie.

8. kinnor: strumento musicale ebraico, a corde, simile alla lira.9. del paese dei Seri: della Cina.

XI. NELLA TENDA

1. Ho visto … Regolo: Agatocle era sbarcato in Africa nel 309 a.C. eAttilio Regolo nel 256.

XII. L’ACQUEDOTTO

1. Nasamoni: popolazione della grande Sirti, di cui parla Erodoto.2. quarantatré … primavera sacra: rito sacrificale di Roma, che

consisteva nel dedicare agli dèi ciò che era nato in una primavera,uomini e animali.

3. Zaine: fiume che segnava il confine tra il territorio di Cartagine ela Numidia dei Massilii.

4. Si videro … di ippopotamo: il Maletut e il Garafo sono areemontagnose dell’Atlante. Farusii, Cauni, Tillabari: altri nomi dipopolazioni che Flaubert ha trovato in Strabone e in Plinio.

XIII. MOLOCH

1. verricelli: piccoli argani.2. giusquiamo: pianta erbacea da cui si estrae un succo

antispasmodico e sedativo.3. la formidabile … Poliorcete: Demetrio i di Macedonia (336-283

a.C.), soprannominato Poliorcete (‘assediatore di città’) per la suagrande esperienza militare, aveva impiegato macchine d’assedio di suainvenzione, come la formidabile elepoli (‘prendi-città’) descritta daFlaubert.

4. Nissam: ‘aprile’ nel calendario ebraico.5. tesmoforio: inno sacro; tesmoforie erano in Grecia le feste

dedicate a Demetra, durante le quali venivano nascosti sottoterra certioggetti, perché la dea li fecondasse.

6. salsalim: strumento musicale ebraico simile forse al sistro.

XIV. LA GOLA DELL’ASCIA

1. Gerone: Gerone II di Siracusa, al potere dal 239 a.C.2. nebel: unità di misura palestinese e siriaca.

XV. MÂTHO

1. piloni: le due torri che delimitano la porta di accesso al cortiledavanti al tempio; si tratta in realtà di una porta turrita, tipicadell’architettura dei templi egizi.

Dizionario essenzialedel luoghi, delle divinità,

dei popoli e dei personaggi minori

Nella sua severa recensione a Salammbô, pubblicata neldicembre 1862 sul «Constitutionnel», Sainte-Beuve avevalamentato, tra l’altro, «la mancanza di un lessico» cheaiutasse il lettore a districarsi nella selva dei terminitecnici, ricercati da Flaubert nei trattati di archeologia enei classici latini e greci, che affollano le pagine delromanzo. Nella sua lettera di risposta alle critiche diSainte-Beuve, Flaubert aveva respinto anche quest’accusadi pedante oscurità:

«Ecco un rimprovero che trovo assolutamenteingiusto. Avrei potuto asfissiare il lettore con vocabolitecnici. A l contrario, ho avuto cura di tradurre tutto infrancese. Non ho usato un solo termine speciale senzafarlo seguire subito dalla sua spiegazione. Fannoeccezione i nomi di monete, di misure e di mesi che ilsenso della frase indica. O forse che quando leggendo viimbattete in kreutzer, iarda, piastra o penny , ciò vi

imbattete in kreutzer, iarda, piastra o penny , ciò viimpedisce di capire? Che avreste detto allora se Moloch loavessi chiamato Melek, Annibale Han-Baal, CartagineKarthadda, e se, anziché dire che gli schiavi del mulinoportavano la museruola, avessi scritto la pausicapa?Quanto ai nomi di profumi e di pietre preziose, sonostato ovviamente costretto ad accettare quelli che sitrovano nelle opere di Teofrasto, di Plinio e di Ateneo.Per le piante ho usato i nomi latini convenzionali, invecedi quelli arabi o fenici».

In effetti i vocaboli “tecnici” che Flaubert propone allettore di Salammbô sono innanzitutto repertiarcheologici, vocaboli di una civiltà perduta. Hanno unproprio significato e nello stesso tempo un colore.Servono a indicare ma anche a produrre effetti diaccumulazione e di spaesamento esotico. Sono, in sintesi,creazione d’arte e svolgono una funzione precisa nellostile dell’opera. Per questo ha ragione Flaubert aprotestare contro la pretesa di Sainte-Beuve di spiegarescolasticamente ogni termine inconsueto o “tecnico”.

È anche vero, tuttavia, che nel massimo rispetto dellapoetica di Flaubert e della sua bella indignazione neiconfronti di chi ha visto in Salammbô soltanto unromanzo storico fallito, può essere di aiuto al lettore unpiccolo strumento mnemonico che raccolga in pochepagine i principali nomi di luoghi, popoli, divinità epersonaggi minori, peraltro già incontrati nelle note altesto. Una sorta di piccolo dizionario storico-geografico,per orientarsi nel tempo e nello spazio di singolari

paesaggi d’arte.L. B.

ACQUE CALDE zona collinare e montuosa a sud diCartagine.

ADRUMETO l’odierna città di Susa, in Tunisia.AFAKA, TEMPIO DI santuario siriano, dedicato al culto di

Astarte.AGATOCLE condottiero siracusano (ca. 360-289 a.C.).AMMON, TEMPIO DI celebre santuario situato in un’oasi del

deserto libico, oggi denominata Siwah. Il culto diAmmon, originario della città di Tebe, si era poidiffuso in Egitto e in altre regioni africane.

ANAITIS appellativo di Tanit.ANNABA villaggio situato sulla costa algerina.ANNONE suffeta cartaginese.APTUKNOS dio libico.ARCAGATO figlio di Agatocle, nel 306 a.C. fu sconfitto dai

Cartaginesi e ucciso dai propri soldati.AROMI, PROMONTORIO DEGLI all’estremo oriente dell’Africa,

corrisponde all’odierno capo Guardafui.ASTARTE divinità fenicia, il cui culto deriva probabilmente

da quello dell’Ishtar babilonese. Qui è appellativo diTanit.

ASTORETH deformazione biblica del nome di Astarte.Appellativo della dea Tanit.

ATARANTI popolazione dell’interno dell’Africa.ATHARA deformazione aramaica del nome di Astarte.

Appellativo della dea Tanit.AUTARITO comandante gallico dei Mercenari.

BAAL epiteto di origine ebraica con il significato di‘signore’ e successivamente ‘dio’; precede i nomi dinumerose divinità fenicie. Usato indipendentemente,non come epiteto, in Salammbô indica Moloch.

BAALET forma femminile di Baal, appellativo di Tanit.BAMBOTO fiume africano, forse identificabile con il

Senegal.BIRSA il primo insediamento di Cartagine, che ne

costituisce il centro.BISACENIA regione dell’Africa settentrionale.BRUZIO l’attuale Calabria.

CABIRI divinità fenicie, in origine di carattere marino; illoro culto si trasferì poi in Grecia.

CANTABRI popolazione della penisola iberica.CASSITERIDI nome greco delle isole Britanniche.CAUNI popolazione della Mauritania.CEPIONE il console Gaio Servilio Cepione che nel 253 a.C.

aveva compiuto numerose incursioni sulle costeafricane.

CIRTA città della Numidia.CLINABARI soldati scelti assiri.CLIPEA località del promontorio Ermeo, forse iden

tificabile con l’odierna Kelibia.

DEMETRIO POLIORCETE Demetrio I di Macedonia (336-283a.C.); fu soprannominato Poliorcete (‘assediatore’) perle sua grande esperienza militare.

DERCETO divinità della Palestina meridionale. Qui è

appellativo di Tanit.DIONISIO Dionisio il Vecchio (432-367 a.C.), tiranno di

Siracusa dal 406.DREPANO città sulla costa occidentale della Sicilia.

ECATOMPILO città di cui parlano Polibio e Diodoro Siculo,probabilmente da identificarsi con l’odierna Tebessa, inAlgeria, sul confine con la Tunisia.

EFESO città dell’Asia Minore; vi sorgeva il tempio diArtemide.

EGINUSE probabile sinonimo delle isole Egadi, di cui faparte l’isola di Aegusa (Favignana).

ELATHIA città sul mar Rosso.ELISSA appellativo di Didone in Virgilio, con il significato

di ‘gioconda’; Didone-Elissa sarebbe un’incarnazione diTanit-Astarte. Dunque, appellativo di Tanit.

ERACLEA città della Magna Grecia, devastata da Amilcarenel 247 a.C.

ERICE città della Sicilia. Sul monte Erice i Cartaginesiavevano sconfitto i Romani nel 244 a.C.

ERMEO, PROMONTORIO l’odierno capo Bon, nella penisolache delimita a oriente il golfo di Tunisi.

ESHMUN dio fenicio; corrisponde al greco Asclepio e allatino Esculapio.

ESTII popolazione della Bitinia.EZIONGABER porto sul mar Rosso, nel golfo di Aqaba.

FARUSII popolazione della Mauritania.FAZZANIA il Fezzan.

GARAFO zona montagnosa dell’Atlante.GARAMANTI popolo nomade dell’interno dell’Africa,

stanziale in alcuni periodi nelle oasi del Fezzan.GERONE Gerone II di Siracusa, al potere dal 239 a.C.GETULIA DARIZIA regione abitata dalla popolazione nomade

dei Getuli, situata tra il Gran Deserto e la catenadell’Atlante.

GISANTI popolazione dell’Africa settentrionale.GISCONE suffeta cartaginese.GRANDI SCIMMIE, PAESE DELLE forse il Gabon.GURZIL divinità libica.

HARUSH Nero rilievo collinare a oriente del Fezzan.

INGRII gli ungheresi.IPPONA città dell’Africa settentrionale, nei dintorni

dell’odierna Annaba.IPPOZARITO l’Hyppo-Dyarrhytus dei latini, l’odierna Biserta.

KHAMON dio fenicio del Sole, inteso come principiofecondatore.

LEPTIS probabilmente la città di Leptis Minus, traAdrumeto e Tapso.

LUTAZIO Caio Lutazio Catulo, console romano, vincitoredei Cartaginesi nella battaglia navale delle isole Egadi,nel 241 a.C.

MACAR il più grande fiume della Tunisia, l’odiernoMegerda.

MACARI popolazione della Mauritania.

MAGDALA città dell’Egitto.MALETUT zona montagnosa dell’Atlante.MALQUA quartiere popolare di Cartagine, una sorta di

Suburra romana.MAPHUG città della Siria.MAPPALI zona di Cartagine estesa tra i quartieri di Megara

e di Malqua, popolata di capanne e di tombe.MASSILII popolazione della Numidia.MATISMA divinità libica.MAURUSII popolazione della Mauritania.MEGARA quartiere periferico di Cartagine, all’interno della

cinta muraria più recente.MELKARTH dio fenicio, assimilabile all’Eracle greco.

Flaubert ne fa il progenitore della famiglia dei Barca.METAPONTO città della Magna Grecia, nel golfo di Taranto.MOLOCH dio fenicio del Sole, inteso come principio

distruttore.

NABATEI popolazione semita dell’odierna Giordania.NASAMONI popolazione della Grande Sirti.

PATECI, dèi i Penati di Cartagine, protettori delle case edelle navi.

PIRRO re dell’Epiro, vissuto dal 319 al 272 a.C.PSILLI popolazione della Libia.

RABBETNA forma femminile di Rabbet (‘signore’),appellativo di Tanit.

SANTIPPO lo stratega spartano che al servizio di Cartagine,

nel 255 a.C., aveva sconfitto Attilio Regolo.SERI, IL PAESE DEI la Cina.SHESBAR probabilmente la città etiope di Saba.SICCA città a sud-ovest di Cartagine, tra Naraggara e

Zama; corrisponde all’odierna città tunisina di el-Kef.SISSIZI il luogo dove si riuniscono le consorterie dei

commercianti di Cartagine.TAGGIR regione del Sahara.TAMRAPANNI l’antica Ceylon.TANIT la principale divinità di Cartagine, personificazione

della Luna.TARTESSO termine fenicio e poi greco per indicare

l’odierna Andalusia.TEBESSA città della Numidia.TENIA la lingua di terra che separa la laguna di Tunisi dal

mare.THUCCABER città ad ovest di Tunisi, sulla riva sinistra della

Megerda.TILLABARI popolazione della Mauritania.TIMIAMATA centro commerciale fenicio sulla costa della

Mauritania.TIRATHA appellativo di Tanit.TOLOMEO Tolomeo III Evergete, re di Egitto dal 246 a.C.

UTICA città della Tunisia, a trenta chilometri da Tunisisulla strada di Biserta.

UVA, CAPO DELL’ promontorio a oriente di Ippozarito.

ZAINE fiume che segnava il confine tra il territorio di

Cartagine e la Numidia dei Massilii.ZARXAS comandante balearico dei Mercenari.ZUAECI tribù libica.

Indice

Introduzione di Lanfranco Binni

SALAMMBÔ

I. Il festinoII. A SiccaIII SalammbôIV Sotto le mura di CartagineV TanitVI AnnoneVII Amilcare BarcaVIII La battaglia del MacarIX In campagnaX Il serpenteXI Nella tendaXII L’acquedottoXIII MolochXIV La gola dell’Ascia

XV Mâtho

Note

Dizionario essenziale dei luoghi, delle divinità,dei popoli e dei personaggi minori