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La resistenza disperata dei guerrieri convertiti Con i forconi e con le pentole sfidarono i terribili ninja Cammilleri in «Shimabara no ran» ricorda la strage del 1638 SAMURAI CRISTIANI ::: MARCO RESPINTI Nessuno ricorda la «Vandea giappo- nese». Bene fa, dunque, Rino Cammilleri a riesumarne le gesta in Shimabara no ran. La grande rivolta dei samurai cristiani (pp. 64, euro 6), l’ultimo nato della serie di qua- derni editi dal mensile di apologetica Il Ti- mone (tel. 02/66825206), diretto da Gian- paolo Barra. Cammilleri non è peraltro nuo- vo al tema, avendolo già proposto nel 2009 attraverso un romanzo storico avvincente e convincente, Il crocifisso del samurai (Rizzo- li). In Giappone il cristianesimo arrivò il 15 agosto 1549, portatovi da San Francesco Sa- verio (1506-1552). Privo di vera autorità cen- trale, il Paese era dilaniato da ataviche lotte tra clan. La figura dell’imperatore si divideva tra quella presunta origine divina che lo ren- deva intoccabile e il fatto di non governare affatto, marionetta nella mani dello shogun che capitanava l’esercito. La società era rigi- damente castale. Sotto i contadini, sopra i samurai. Guerrieri a tempo pieno, i samurai servivano i daimyo (signori feudali), cui lo shogun della capitale Kyoto demandava la riscossione dei tributi. Se il daimyo cadeva in disgrazia, lo stesso facevano i suoi samu- rai, che divenivano ronin (“uomini onda”) in cerca d’ingaggio. Ronin erano i samurai che perdevano tutto quando i loro daimyo morivano o erano privati dei poteri per es- sersi convertiti al cristianesimo senza abiu- rare allorché lo shogun l’ordinava. Molti si fecero contadini, venendo talora scelti co- me shoya, capivillaggio. L’iniziale favore con cui la predicazione cristiana fu permessa da certi daimyo e pure dallo shogun a cavallo dei secoli XVI e XVII portò infatti a 300mila il numero dei cristiani giapponesi, ma poi i monaci buddisti (che prendevano parte vo- lentieri alle contese politiche) ne temettero la concorrenza e per questo sobillarono i si- gnori locali. Presto il Giappone cristiano, in specie la sua capitale Nagasaki, prese allora a illuminarsi di roghi di missionari e a svet- tare di croci su cui erano inchiodati i conver- titi. I cristiani «nascosti» si concentrarono nella penisola di Shimabara, 70 km a sud di Nagasaki, nella fortezza di Hara, più un ru- dere che un castello. Lì, nel 1577, l’intera po- polazione si era convertita, daimyo com- preso, e sfidò la repressione, la quale cacciò i cristiani nelle catacombe. Ma un giorno del 1637 qualcuno parlò di miracolo: attorno a un’icona venerata nel villaggio si materializ- zò una ricca cornice. Il giorno dopo, nella piazza principale, sventolava una bandiera con al centro la Croce. Giunsero gli sbirri. Era il giorno della Solennità dell’Ascensio- ne. In dicembre altre regioni si ribellarono alla fiscalità esagerata, ma nel sud della grande isola di Kyushu ci si batteva per Deu- su, Mariya e Iesu Kirisuto. Shimabara e l’arcipelago delle piccole Amakusa fu presto sotto il controllo degli in- sorti. Contro poche migliaia di straccioni (che arrivarono a battersi con forconi e pen- tole), inquadrati da qualche centinaio di ro- nin, Tokugawa Iemitsu (1604-1651), shogun dal 1623, giunse a schierare sino a 200mila guerrieri. Una cannoniera di mercanti calvi- nisti nordirlandesi diede loro manforte con- tro i «papisti». Poi dilagò la fame. I ribelli mangiavano erba e alghe, come il generale governativo Matsudaira Nobutsuna (1596- 1662) acclarò sventrandone i cadaveri. Lo shogun scagliò loro addosso persino Miya- moto Musashi (1584-1645), il più famoso samurai di sempre, colui che ghermiva una mosca con le bacchette per il riso e con la ka- tana tagliava un chicco bollito senza sfiorare il capo del fanciullo su cui lo si poneva. E do- po di lui i micidiali ninja, assassini senza scrupoli, ma i kirishitan li sbaragliarono, polverizzandone il mito (che sopravvive so- lo nell’immaginario posticcio di certi occi- dentali). Il 13 aprile 1638 ci fu l’epilogo. Chi ripor- tava teste di ribelli veniva pagato bene. Sulla spiaggia e davanti ad Hara ne vennero im- palate 20mila. Altre migliaia finirono su tre navi inviate a Nagasaki. Con i nasi delle don- ne, invece, si riempirono ceste. Lo shogun ci rimise 70mila samurai. Fra le teste impalate dei kirishitan svettava ancora nobile nei tratti quella del capo della “crociata”. Masu- da Shiro Tokisada (1621-1638), detto Ama- kusa Shiro per i suoi natali. Quando impu- gnò la katana nel nome di Cristo a Shimaba- ra aveva 16 anni. Alle truppe e alle loro fami- glie predicava il Vangelo. Qualcuno disse di averlo veduto camminare sopra le acque. Lo chiamavano ame no tsukai, “inviato del Cie- lo”. Dopo la sua eroica sconfitta, lo shogun dichiarò il Sakoku, sigillando ermeticamen- te il Giappone a ogni straniero. Ci vollero le cannoniere statunitensi per riaprirlo, due secoli e mezzo dopo. CLAN DIVISO Un clan di samurai. Nel Giappone del XVI secolo, diviso in caste, solo i con- tadini pagavano le tasse (e chi evadeva veniva messo a morte) e vive- vano unicamente per pro- durre il cibo necessario a mantenere la piramide che li schiacciava. Su di loro i samurai avevano di- ritto di vita e di morte c d n s s r p p L n n S l s v m t c L c c p t t s l n I n f p s m è s c c n s g ( t u A r m m m l s M g s t g m m a s è z t g i è t s d t s r c c h n o a m d n N

Samurai cristiani

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Page 1: Samurai cristiani

27Sabato 9 giugno 2012CULTURA

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Ridare speranza agli anziani emiliani Sono decine e sono anziani. So-no le vittime del terremoto che hasconvolto il Mondo piccolo di Mode-na e dintorni e ha tolto loro la casa, lafamiglia, ogni certezza. Arrivano dagliistituti, ma anche dalle campagne,

dalle città, da quei paesi disfatti doveai quartieri si sono sostituite le tendo-poli. Sono arrivati in questa parte dellaBassa, dove la terra non trema e hannoritrovato un tetto, l’assistenza, le curedi cui hanno bisogno. Sono smarriti, a

volte stentano a capire dove si trovino,ma soprattutto sono soli. I parenti cheli hanno accompagnati sono tornatiindietro, con negli occhi lo sgomentodi chi ha perso tutto: «Viviamo nelletende, come facciamo con loro?».

Loro hanno nomi antichi, che san-no di dialetto: Zvanìn, Berto, Lena,Marietta. La loro storia è la piccola sto-ria della mia gente: una storia che,adesso, deve ricominciare daccapo.Sta a noi ridare ai tanti Zvanìn e alle

tante Marietta la speranza di tornare acasa, di ritrovare i propri affetti. E seora sono ospitati qui, dove la terra nontrema, domani, fra un mese, fra un an-no, dovranno riavere ciò che hannoperduto. Intanto noi parliamo con lo-ro, preghiamo con loro, mescolando inostri dialetti: oggi tutta la bella terrad’Emilia è casa. Nostra.

Mondo piccolo di EGIDIO BANDINI

L’INATTUALE

La resistenza disperatadei guerrieri convertitiCon i forconi e con le pentole sfidarono i terribili ninjaCammilleri in «Shimabara no ran» ricorda la strage del 1638

SAMURAI CRISTIANI

::: MARCO RESPINTI

Nessuno ricorda la «Vandea giappo-nese». Bene fa, dunque, Rino Cammilleri ariesumarne le gesta in Shimabara no ran.La grande rivolta dei samurai cristiani(pp.64, euro 6), l’ultimo nato della serie di qua-derni editi dal mensile di apologetica Il Ti-mone (tel. 02/66825206), diretto da Gian-paolo Barra. Cammilleri non è peraltro nuo-vo al tema, avendolo già proposto nel 2009attraverso un romanzo storico avvincente econvincente, Il crocifisso del samurai(Rizzo -li).

In Giappone il cristianesimo arrivò il 15agosto 1549,portatovi da SanFrancesco Sa-verio (1506-1552). Privo di vera autorità cen-trale, il Paese era dilaniato da ataviche lottetra clan. La figura dell’imperatore si dividevatra quella presunta origine divina che lo ren-deva intoccabile e il fatto di non governareaffatto, marionetta nella mani dello shogunche capitanava l’esercito. Lasocietàerarigi-damente castale. Sotto i contadini, sopra isamurai. Guerrieri a tempo pieno, i samuraiservivano i daimyo (signori feudali), cui loshogun della capitale Kyoto demandava lariscossione dei tributi. Se il daimyo cadevain disgrazia, lo stesso facevano i suoi samu-rai, che divenivano ronin (“uomini onda”)in cerca d’ingaggio. Ronin erano i samuraiche perdevano tutto quando i loro daimyomorivano o erano privati dei poteri per es-sersi convertiti al cristianesimo senza abiu-rare allorché lo shogun l’ordinava. Molti sifecero contadini, venendo talora scelti co-me shoya, capivillaggio. L’iniziale favore con

cui la predicazione cristiana fu permessa dacerti daimyo e pure dallo shogun a cavallodei secoli XVI e XVII portò infatti a 300mila ilnumero dei cristiani giapponesi, ma poi imonaci buddisti (che prendevano parte vo-lentieri alle contese politiche) ne temetterola concorrenza e per questo sobillarono i si-gnori locali. Presto il Giappone cristiano, inspecie la sua capitale Nagasaki, prese alloraa illuminarsi di roghi di missionari e a svet-tare di croci su cui erano inchiodati i conver-titi.

I cristiani «nascosti» si concentrarononella penisola di Shimabara, 70 km a sud diNagasaki, nella fortezza di Hara, più un ru-dere che un castello. Lì, nel 1577, l’intera po-polazione si era convertita, daimyo com -preso, e sfidò la repressione, la quale cacciò icristiani nelle catacombe. Ma un giorno del1637 qualcuno parlò di miracolo: attorno aun’icona venerata nel villaggio si materializ-zò una ricca cornice. Il giorno dopo, nellapiazza principale, sventolava una bandieracon al centro la Croce. Giunsero gli sbirri.Era il giorno della Solennità dell’Ascensio -ne. In dicembre altre regioni si ribellaronoalla fiscalità esagerata, ma nel sud dellagrande isola di Kyushu ci si batteva per Deu -su,Mariyae Iesu Kirisuto.

Shimabara e l’arcipelago delle piccoleAmakusa fu presto sotto il controllo degli in-sorti. Contro poche migliaia di straccioni(che arrivarono a battersi con forconi e pen-tole), inquadrati da qualche centinaio di ro -nin, Tokugawa Iemitsu (1604-1651), shogundal 1623, giunse a schierare sino a 200milaguerrieri. Una cannoniera di mercanti calvi-

nisti nordirlandesi diede loro manforte con-tro i «papisti». Poi dilagò la fame. I ribellimangiavano erba e alghe, come il generalegovernativo Matsudaira Nobutsuna (1596-1662) acclarò sventrandone i cadaveri. Loshogun scagliò loro addosso persino Miya-moto Musashi (1584-1645), il più famososamurai di sempre, colui che ghermiva unamosca con le bacchette per il riso e con la ka -tanatagliava un chicco bollito senza sfiorareil capo del fanciullo su cui lo si poneva. E do-po di lui i micidiali ninja, assassini senzascrupoli, ma i kirishitan li sbaragliarono,polverizzandone il mito (che sopravvive so-lo nell’immaginario posticcio di certi occi-dentali).

Il 13 aprile 1638 ci fu l’epilogo. Chi ripor-tava teste di ribelli veniva pagato bene. Sullaspiaggia e davanti ad Hara ne vennero im-palate 20mila. Altre migliaia finirono su trenavi inviate a Nagasaki. Con i nasi delle don-ne, invece, si riempirono ceste. Lo shogun cirimise 70mila samurai. Fra le teste impalatedei kirishitan svettava ancora nobile neitratti quella del capo della “crociata”. Masu-da Shiro Tokisada (1621-1638), detto Ama-kusa Shiro per i suoi natali. Quando impu-gnò la katananel nome di Cristo a Shimaba-ra aveva 16 anni.Alle truppe e alle loro fami-glie predicava il Vangelo. Qualcuno disse diaverlo veduto camminare sopra le acque. Lochiamavano ame no tsukai,“inviato del Cie-lo”. Dopo la sua eroica sconfitta, lo shogundichiarò il Sakoku, sigillando ermeticamen-te il Giappone a ogni straniero. Ci vollero lecannoniere statunitensi per riaprirlo, duesecoli e mezzo dopo.

CLAN DIVISO

Un clan di samurai. NelGiappone del XVI secolo,diviso in caste, solo i con-tadini pagavano le tasse(e chi evadeva venivamesso a morte) e vive-vano unicamente per pro-durre il cibo necessario amantenere la piramideche li schiacciava. Su diloro i samurai avevano di-ritto di vita e di morte

di FRANCO G. FREDA

Ci sarà qualcuno pronto aconsiderare con onestà l’appellodi Marcello Veneziani per la rige-nerazione di ciò che, ovviamentesemplificando, chiamiamo «de-stra»? Il suo scritto non manca diragionevolezza. Il momento èperfetto per chi volesse - cito ap-punto Veneziani - «fare sul serio».L’occasione d’oro. Non c’è piùniente di decoroso, in giro. Danessuna parte e di nessun colore.Squagliati gli uomini, squalificatele organizzazioni. Restano solo,sospese a mezz’aria, una rabbiavibrante e una nostalgia vaghissi-ma. E una disperazione che nontrova di meglio che pisciare co-caina e psicofarmaci nei fiumi.L’Arno, il Tevere, pure il mitologi-co Po portano i segni delle pastic-che che la gente ingurgita a rafficaper tirare avanti. Ma twittandotwittando non è che si faccia mol-ta strada - lo sanno tutti. Rove-sciando bile sul web, come petro-liere ebbre e devastate. La finzio-ne rischia di sostituirsi alla realtà.Il mentire a sé stessi all’azione. Fi-nirà che gli uomini diventerannofantasmi, preda a loro volta deipropri fantasmi,spettri all’ennesi -ma potenza, e nonè la guerra metafi-sica dell’«oltre»cantata ne Gli in-cendiati di Anto-nio Moresco. Quasi smuore piano,goccia a goccia(prostaticamen -te...); ogni giornouna diminuzione.A «destra», ma pu-re a «sinistra» - però quelli nonmeritano che ci diamo la pena dimortificarci per loro, tanto hannomentito per decenni e celebratola sguaiata gioia di avercela fatta asopravvivere malgrado tutto.Malgrado, cioè, la resa del buon-gusto e dell’equilibrio etico allascaltrezza più selvaggia, al risen-timento più meschino. E, pergiunta, senza fare praticamentemai «sul serio». Ma non ci curia-mo di Tersite, bruttoecattivo.

Passando, invece, tornandoalla «destra»: come ha potuto tra-sformarsi nella pappa viscida cheè oggi? Perché una ragione essen-ziale ci dev’essere e non è soltan-to la captivitas diaboli, la caro-gnaggine di certi suoi esponenti,invero piuttosto accentuata. Nonè la nostalgia segreta del missinotipo: l’ambizione di essere lui esolo lui il Duce - quindi l’indivi -dualismo. Quello ha trovato ilterreno fertile per esprimersi,sennò non avrebbe vegetato cosìrigoglioso. Il vero problema èche, per essere restituiti alla cir-colazione (monetaria?), i missinihanno rinnegato tutto. E così so-no diventati niente. Cos’è Fini,oggi? La fine assoluta. Hanno piùattrattiva i pettegolezzi sui suoimaneggi e disavventure familiaridei suoi programmi politici. E Fi-ni è l’emblema di un mondo.Non a caso se l’erano scelto per

capo. Incredibile quello che èsuccesso alla «destra». Farsi scip-pare dalla «sinistra» un tesoro disecoli, di millenni, maturato per-fino nella vastità solenne di eregeologiche. Parliamoci chiaro:tutto quello che il genere umanoha fatto di meglio lo deve all’al -chimia di una volontà ordinata eamica del vero più che dell’op -portunismo. Alla tensione all’or -dine, alla perfezione, che è il car-dine del pensiero di una «destra»illuminata e luminosa. Alla sele-zione severa, implacabile, delbello contro il brutto. Tuttoquanto. Le colonne doriche, gliesametri di Virgilio (puro ritmo:cioè ordine, cioè rito). Gli ende-casillabi di Dante, i boccoli bion-di della Venere di Botticelli. Cosane possono sapere, capire, indo-vinare di Dante, di Virgilio, diBotticelli esseri che, non troppotempo fa, usavano termini come«padronato», formule come«masse popolari»?

E la «destra»se li è fatti fregare,il suo tesoro e il suo giusto orgo-glio, solo perché quelli avevanovinto la guerra più recente. Pro-

babilmente per loshock. Per un in-comprensibilecomplesso di infe-riorità. Per la sma-nia vigliacca di far-si accettare. Per es-sere «al passo coitempi», anchequando i tempizoppicavano e in-ciampavano. For-se perché non sisono neppure ac-

corti che Virgilio, Dante, Botticel-li erano i propri paradigmi, il pro-prio miglior Io.

La «destra» doveva stare, nonmutare, non correre ad adeguar-si. Doveva continuare a contem-plare le proprie idee. Anche sen-za parole: certo. Pontificalmente.Doveva essere, non convincere.«Mostrare, non dimostrare». Ef-fondere la propria autorevolezzacon la serenità di chi sa respinge-re il dialogo, la dialettica, quandole sue premesse siano truffaldine.E fissare il proprio firmamento,precisarne la fisionomia, ricono-scerne i canoni, raccontarne,senza volerlo a tutti i costi abbas-sare, implebeire.

Entrare nell’agone politico im-bracciando questa massima per-fetta: «La politica dovrebbe esse-re la scienza che definisce le con-dizioni sociali più propizie allapercezione del valore e alla rea-lizzazione di esso». Questo è il ve-ro compito, la vera maieutica, lavera ragion d’essere della cosid-detta «destra»: capire che cosaabbia valore, quindi che cosa siail valore, capire come aprirgli lastrada per la sua vittoria sul mon-do. Non è facile, ma è l’unica me-raviglia che possiamo offrire allastoria. Le altre sette sono già pol-vere, tranne l’ultima, la piramidedi Cheope, irrimediabilmentecontaminata.

mrespinti
Casella di testo
Libero [Libero quotidiano], anno XLVII, n. 137, Milano 09-06-2012, p. 27 www.marcorespinti.org ❧ [email protected]