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SCULTURA SHONA O ZIMBABWANA

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Page 1: SCULTURA SHONA O ZIMBABWANA

SCULTURA SHONA O ZIMBABWANAAuthor(s): Bernardo BernardiSource: Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africae l’Oriente, Anno 43, No. 1 (MARZO 1988), pp. 1-13Published by: Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO)Stable URL: http://www.jstor.org/stable/40760224 .

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SCULTURA SHONA Ο ZIMBABWANA

di Bernardo Bernardi ( * )

La mostra delia scultura shona, ehe per la prima volta viene esposta in Italia grazie alia capacita organizzativa dell'Istituto ítalo Africano, costitui- sce un awenimento degno délia più consapevole attenzione per i tanti pro- blemi d'ordine culturale ehe essa suscita. La mostra approda in Italia dopo ehe, ormai da venticinque anni, la scuola di scultura shona si è venuta im- ponendo in giro per il mondo per la qualità delle opere ehe essa ha ispira- to. Un quarto di secolo è un período ragguardevole. Costituisce di per sé un titolo notevole di successo per una scuola d'arte awiata nel 1957 e pas- sata attraverso la forte crisi segnata dapprima dalla indipendenza bianca proclamata in ribellione al governo di Londra e dalla guerra di liberazione condotta dagli Africani, e poi ancora dalla fine dei colonialismo e delia Rhodesia con la proclamazione delia repubblica di Zimbabwe. Le opere ehe qui si mostrano rivelano una consistenza di stile e una liberta d'ispira- zione ehe vanno bene al di là del condizionamento politico. Lo riconosce lo stesso Primo Ministro dello Zimbabwe, Robert Mugabe, nella prefazione al libro delTambasciatore Mor: se gli artisti hanno preceduto e accompagnato la lotta per l'indipendenza e la libertà è perché gli artisti sono sempre i pre- cursori délia storia: «If they (the artists) preceded and accompanied the strug- gle for independence and liberty, it is because the artists are always the precur- sors of history».

Vesper imento shona

La scuola di scultura shona ebbe origine per l'iniziativa del primo di- rettore della National Art Gallery di Salisbury, Frank McEwen, nel 1957.

( * ) Professore f. r. di Etnologia, Università di Roma « La Sapienza » e Direttore del Centro per la Storia dell'Arte Africana, Università Internazionale dell Arte, Firenze.

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(Salisbury era il nome delia capitale delia Rhodesia. La stessa capitale, in lingua shona, era detta Harare ed è questo il nome ehe, con la vittoria degli africani sui bianchi, ha sostitutito la denominazione coloniale). McEwen intendeva dare nuovo impulso alTantica produzione d'arte degli Shona. La sua iniziativa fu subito notata dagli studiosi d'Africa piuttosto increduli sul- la possibilita di far rivivere la produzione di un tempo le cui opere, partico- larmente nell'Africa occidentale, si andavano imponendo all'attenzione de- gli storici dell'arte per la loro varietà e singolarità formale. Effettivamente, la diver sit à del contesto sociale e culturale in cui Γ iniziativa di McEwen av- veniva, cosi come altre iniziative del genere in altri centri africani, giustifi- cava 1'incredulità dei tanti, troppo profonde essendo le mutazioni awenute nelle società tribali tradizionali.

McEwen si proponeva di agire con serietà artística, ossia con il pieno rispetto délia spontanéité e delia creatività dei singoli artisti. II suo intento era quello di reperire gli artisti locali e di offrire loro la possibilita di una formazione técnica e metodológica moderna, libera dalle troppo facili ten- tazioni di quella produzione turística e pseudoturistica ehe stava invadendo i mercati e le case d'Europa e d'America, falsificando la nozione stessa del- l'arte africana. L'espressione arte d'aeroporto, è divenuta la designazione di gergo per indicare l'insieme della produzione di oggetti offerti in vendita ai turisti. Ma il gergo, appunto, assegna a tale espressione un'accezione nega- tiva ehe annulla del tutto il valore del termine arte.

Tra i tentativi analoghi a quello di McEwen di promuovere in pro- spettiva moderna l'antica tradizione d'arte délie culture africane, aveva avu- to successo l'iniziativa dei missionário irlandese, Father Kevin Carrol, tra gli Yoruba della Nigeria. Gli Yoruba, com'è noto, sono gli eredi di una tradizione d'arte tra le più pregevoli ed ammirate di tutta l'Africa. L'esperi- mento di Carrol volto a dare continuità a tanta tradizione aveva suscitato interesse e insieme scetticismo tra gli storici dell'arte africana, scetticismo, peraltro, in gran parte, se non del tutto, annullato dai risultati ottenuti. Ce ne dà testimonianza William Fagg, l'eminente storico dell'arte africana tri- bale, nella premessa dettata per il libro in cui Father Carrol espone i suoi principi e descrive i rapporti da lui stabiliti con gli artisti.

" Moite volte », scrive William Fagg, « dal 1950 - quando per la prima volta incontrai Father Kevin Carroll a Oye-Ekiti - ho concluso i miei pessimistici prono- stici riferendomi all'illuminato esperimento (di Father Carroll) come l'uni- co tentativo a me noto ehe offrisse una prospettiva seria di rinnovare la tra- dizione tribale della scultura dandole un motivo alternativo di vigore e di ispirazione. Ma in mancanza di un resoconto completo e a tutti disponibile dell'esperimento, i miei brevi riferimenti ai suoi scopi e ai suoi insuccessi

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devono essere sembrati a molti lettori un'indicazione dal valore piuttosto tenue. Ora ehe un tale resoconto si è reso disponibile, sono sorpreso e compiaciuto di riconoscere ehe non si tratta soltanto del primo contributo importante nel suo génère per gli studi missiologici, ma anche di uno degli studi più raffinati e penetranti mai compiuti nel campo delia stessa arte africana» (Fagg in Carroll 1967: ix). Si noti, per comprendere appieno le parole di William Fagg, ehe l'esperimento di Father Carroll era speeifica- mente rivolto ad una produzione di arte religiosa. Soprattutto oecorre te- ner presente la forte tradizione artigianale e d'arte degli Yoruba.

Gli Shona non posseggono un' análoga tradizione. Essi entrano nella storia, diciamo cosi, ufficiale e riconosciuta dell'arte tribale africana sotto il capitolo dell'architettura, per il grandioso complesso monumentale dell'an- tica Zimbabwe. Le imponenti costruzioni a muro seeco ci hanno lasciato poche testimonianze della vita culturale e sociale, nonché di quella artística, ehe le avevano animate. Quando, nel secolo scorso, i pionieri coloniali giunsero nel território ehe prese poi il nome Rhodesia da Cecil Rhodes, le memorie di Zimbabwe erano del tutto affievolite, se non interamente scomparse. La prima attribuzione del complesso architettonico, secondo un diffuso vizio ehe tutto negava agli Africani, fu assegnata a imprecisate genti venute d'oltre oceano. Solo le ricerche successive e il ritrovamento in altre regioni dell' Africa australe di costruzioni dalla técnica análoga, tolsero ogni dubbio sul carattere prettamente africano del grandioso monumento. Sem- bra oramai certo ehe esso fosse la sede del Mwene Mutapa, ossia del re Mutapa, dominatore di una vasta congerie di gentil1). «Oggi», scrive lo storico Terence Ranger, « con i risultati del lavoro svolto su importanti do- cumenti portoghesi, sulle tradizioni orali divenute disponibili e sui resti ar- cheologici, possiamo dire ehe ci fu certamente un regno del Mwene Muta- pa; ehe si sviluppò in ' impero

' o ' confederazione ' su un território corri- spondente in gran parte a quello ehe doveva diventare il Mashonaland con, in più, una larga area del Mozambico; ehe fu uno degli stati più solidi del- l'età del ferro africana; e ehe fu creato e in gran parte governato da popoli di lingua shona » (Ranger 1967: 6). La prospérité del regno duro finché, a quanto sembra, non si esaurirono le miniere d'oro ehe avevano nutrito un diffuso commercio a livello anche intercontinentale corne testimoniano i re- perti di cerâmica cinese trovati a Zimbabwe. Il luogo archeologico di Zim- babwe, per quelToro ehe ancora restava, fu, comunque, interamente sac- cheggiato dai primi europei, cercatori d'oro. Tra i reperti, oggi conservât!

(1) Mwene Mutapa è la scrittura corretta dell'antico re -mwene- di Zimbabwe. Esistono, tutta- via, altre trascrizioni corne Monomotapa, Munhumutapa.

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nei musei di Cape Town e di Bulawayo, ci sono alcune sculture tra le quali le più note sono quelle raffiguranti un uccello appollaiato, scolpito in pietra saponaria e divenuto, fin dalTepoca coloniale, uno dei simboli del paese ri- prodotto particolarmente nelle monete(2).

L'iniziativa di McEwen muoveva, pertanto, da premesse tradizionali ben diverse e, in un certo senso, assai più labili di quelle da cui era partito Father Carroll. Evidentemente McEwen era ispirato da una fiducia certa nella capacita creativa e artística degli Africani. E va tutto a suo mérito e credito il fatto ehe egli, incaricato di organizzare e dar vita ad una istituzio- ne culturale, quale la National Art Gallery di una città bianca corne la Sali- sbury coloniale, si sia rivolto fin dalTinizio, senza alcun pregiudizio anzi con notevolissima apertura di mente, alla popolazione africana e alla sco- perta dei suoi talenti.

Corne ho detto, l'iniziativa e le esperimentazioni di McEwen furono subito seguite con attenzione dagli studiosi dell'arte africana, come aweni- va del resto con gli esperimenti del génère sia di Father Carroll in Africa Occidentale sia nel Congo belga, attualmente Zaire. Citerò Frank Willet, lo storico dell'arte africana. Nel suo testo del 1971, una delle migliori introdu- zioni alia storia delTarte africana, Frank Willet dedica un'intera pagina al- l'opera di McEwen. La citerò interamente perché in essa Frank Willet, non solo dà conto delia scuola istituita da McEwen, ma esprime un giudizio cri- tico ehe può essere d'aiuto alla discussione e alla valutazione, se non alla comprensione, dell'attuale mostra:

« Nuove forme di arte, prettamente africane, stanno già emergendo in varie parti delT Africa, dove sono stati impiantati centri sperimentali nei quali gli abitanti, normalmente privi di formazione artística, possono trova- re il materiale e l'opportunita di esprimersi. Un primo centro del génère fu istituito nel 1957 a Salisbury, nella Rhodesia, da Frank McEwen, allora di- rettore della National Art Gallery. Quando egli decise di mettere a disposi- zione dei frequentatori della galleria del materiale per dipingere, non vi era alcuna tradizione locale viva di scultura o pittura. Di qui si sviluppò rapi- damente un centro dal quale presero 1'awio una settantina di artisti di tutta la Rhodesia. McEwen afferma ehe il suo método non intende istruire gli artisti, ma vuole, con la simpatia e Tincoraggiamento, portarli a esprimere il loro 'spirito artístico'. Molti di questi artisti si sono dedicati alia scultura su pietra dura, finemente levigata e lucidata a olio. L'uso di un materiale

(2) Sul complesso archeologico di Zimbabwe si veda l'opera di PETER GARLAKE, Great Zimbab- we, London: Thames & Hudson, 1973. Sui rapporti commerciali intercontinentali si veda Io studio di TEOBALDO FlLESl, Le relazioni della Cina con Γ Africa nel Medio-Evo. Milano. A. Giuffré, 1975. 2a ed.

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cosi difficile da trattare ha impedito la produzione in massa, evitando Γ- 'arte da aeroporto' (un termine coniato da McEwen), idêntica dovunque, in Africa o altrove. Si deve però dire ehe la lentezza delia produzione non è necessariamente una virtù, se il prodotto finito présenta le stesse qualité delTarte da aeroporto. Questo tipo di arte è liscia e lucente, si intona con Γ arredamento dei salotti europei: alcune opere delia scuola di Salisbury hanno Io stesso aspetto esteriore unito a una certa ingenuità di impost azio- ne ehe per alcuni acquirenti, inconsciamente mecenati, passa per 'vera- mente africana'. Altri lavori sono, invece, di ottima qualità; né ci si po- trebbe aspettare ehe Io siano tutti. McEwen insiste nell'affermare ehe gli artisti sono liberi di esprimere le loro idee, senza alcuna influenza da parte sua. Non c'è dubbio, però, ehe si influenzano a vicenda e vi sono opere di autori assai simili tra loro. In realtà, se non si fossero influenzati a vicenda non avrebbero mai dato luogo a una 'scuola'. Eppure, la varietà dei loro lavori è comunque notevole, specialmente quando adoperano la pietra te- nera. La scuola di Salisbury esiste ormai da oltre un decennio, ma i suoi clienti sono stati finora i bianchi. Ora ehe McEwen si è ritirato e non vive più a Salisbury, bisogna aspettare per vedere fino a ehe punto la

' scuola '

sarà vitale e saprà formarsi una clientela africana. Non c'è dubbio ehe Tini- ziativa di McEwen di ' creare nuovi artisti nel deserto culturale delia Rho- desia', come si esprime Beier, mérita di avère successo» (Willet 1978: 134-35).

Le esposizioni dei lavori délia scuola, non più di Salisbury bensi di Harare, susseguitesi negli anni dopo il 1971, anno di pubblicazione dell'e- dizione originale inglese del libro di Willett, cosi come la mostra attuale nella sede dell'Istituto ítalo Africano, costituiscono una risposta positiva ad alcune delle attese espresse dallo stesso Willett. Restano aperte tutte le que- stioni critiche di valut azione. Prima, tuttavia, di addentrarci in esse è bene precisare il significato delTetnonimo Shona e Ia sua legittimità in rapporto alia scuola di Harare.

Chi sono gli Shona

La popolazione delT attuale Zimbabwe viene normalmente distinta in due gruppi etnici, gli Shona e gli Ndebele, abitanti rispettivamente a nord nel Mashonaland e a sud nel Matabelelend. La dicotomia étnica ha finito di affermarsi a causa anche delia divaricazione tra i due partiti politici, usciti vittoriosi dalla guerra anticoloniale ehe ha portato gli Africani ai po- tere: Io ZANU {Zimbabwe African National Union) e Io ZAPU {Zimbabwe African People Union). Lo ZANU è formato soprattutto dagli Shona ed è

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oggi al potere con il Primo Ministro Robert Mugabe; Io ZAPU è formato soprattutto dagli Ndebele e si trova all'opposizione.

Ma chi sono, in realtà, gli Shona? Bisogna riconoscere ehe il termine, in quanto etnonimo, ha avuto una sua fortuna e si è affermato nelTuso cor- rente, al quale non è facile resistere. Ma il termine è oggi messo in discus- sione dagli studiosi come una parola e un concetto costruiti artificiosamen- te. Tutto si è awerato attraverso 1'opera dei centri missionari, cattolici e protestanti, e in particolare attraverso Ia trascrizione dei dialetti locali e l'e- laborazione delle grammatiche. Per effetto di un tale procedimento non so- lo i dialetti hanno ricevuto un loro riconoscimento, ma si sono costruite le identità delle singole etnie. « In molti luoghi i ragazzi le cui famiglie parla- vano tutt'altra lingua in casa, nelle scuole di missione ricevettero un'istru- zione in sindebele. Per essi il sindebele divenne la lingua delia storia e delia cultura. Ε nello stesso modo Io sviluppo linguistico delle missioni e dello st ato furono determinanti nel creare un senso eventuale di identità shona. Ε poiché 1'esistenza di dialetti separati, ognuno con la propria ortografia, divenne un ostacolo costoso per l'interscambio générale, ecco sorgere un movimento per definire uno 'Standard Shona' (quale lingua comune). Anche se contrastata dagli intellettuali più anziani, la nuova lingua scritta venne usata da un'altra generazione di innovatori quale strumento per creare una cultura 'Shona' e una storia 'Shona'... Negli ultimi vent'anni la generazione più recente di intellettuali, tutti ormai accademici universita- ri, ci ha dato mille anni di storia ' Shona ', di imperi

' Shona ', e cosi di se- guito. Anch'io ho preso parte a tale lavorïo e non me ne pento, poiché fu un contributo di orgoglio e di solidarietà. Ma ebbe i suoi pericoli. La ma- niera con cui abbiamo riunito un po' tutto presentandolo come c Shona ', ha fatto apparire ciò ehe si lasciava fuori come straniero e alieno. Cosi gli ' Ndebele ' figurano molto spesso assai più stranieri di quanto non siano in realtà, perché abbiamo fatto dei loro predecessori Rozwi parte integrante delle 'glorie Shona'... Forse una storiografia veramente unificante dello Zimbabwe dovrà essere una storiografia in cui queste ampie unità - '

gli Shona ', 'gli Ndebele ',

' i Manyika ', ' i Karanga

' e il resto - saranno smantellate» (Ranger 1985: 16).

Terence Ranger, 1'autore dei passo ora riportato, è tra i più autorevoli storici dello Zimbabwe, già titolare delia cattedra di storia moderna a Man- chester e ora a Oxford. I suoi intenti di chiarificazione e i suoi ripensa- menti non sono atteggiamenti opportunistic! dettati dalle mutate condizio- ni politiche dello Zimbabwe, bensi sono il risultato di studi oggettivamente fondati su valutazioni critiche dei dati storici. Le sue riserve odierne ridu- cono owiamente il peso delTenfasi corporativa ehe si è venuto attribuendo

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Β. Bernardi, Scultura shona ο zimbabwana TAVOLA I

Fig. 1 - John Takawira, Uccello zimbabwano

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Β. Bernardi, Scultura shona ο zimbabwana TAVOLA II

Fig. 2 - Norbert Shammyarira, Testa di re

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ai due raggruppamenti etnici, gli Shona e gli Ndebele. Com'è noto, la lotta política degli ultimi anni, dopo la fase unitária delia guerriglia contro il co- lonialismo bianco, s'è svolta tutta alTinterno delT antagonismo étnico dei due gruppi e dei partiti ehe li rappresentavano (3). Le ricerche degli storici come Ranger portano implícito in sé l'intento di intaccare il cristallizzarsi délie antinomie etniche artificiose e recenti. Che tale intento possa effetti- vamente riflettersi sulla realtà viva delia situazione política è dimostrato dallo sviluppo recentissimo di cui giunge notizia mentre batto sulla tastiera queste righe. La notizia riguarda la fusione dei due partiti rivali, Io ZANU e lo ZAPU, in un unico partito - lo ZANU - e l'accordo dei due leader rivali, Mugabe e Nkomo. Ciò dovrebbe portare, in spe, al superamento del- la dicotomia étnica tra Shona e Ndebele.

Comunque sia, le osservazioni di Ranger costituiscono una prima e autorevole risposta all' interrogativo chi siano gli Shona. Si tratta, dunque, di una formazione étnica recente. Gli Zezuru, i Korekore, i Manyika sono le principali etnie ehe si riconoscono sotto quell5 etnonimo (4). Ma sappia- mo ehe la loro identità, più ehe su una precisa ascendenza étnica, si basa sulTinterpretazione consolidata dai missionari presenti nel loro território ehe attribuirono alie diversità dialettali un valore distinto di lingua e di identificazione étnica. È in tal senso ehe Ranger parla addirittura di « in- venzione» dei tribalismo Shona (Ranger 1985).

Resta, tuttavia, il fatto ehe gli etnonimi Shona e Ndebele sono entrati nel linguaggio corrente oramai da un secolo, consolidando un uso sorto dapprima nella Rhodesia coloniale e continuato poi, almeno fino ad ora, nello Zimbabwe indipendente. Ed ecco, cosi, Ia denominazione delia mo- stra come «Scultura Shona». Edotti, peraltro, dei significato relativo del- Tetnonimo, non si attribuirà alla voce Shona un valore di esattezza etnoló- gica. II suo uso non può ehe essere genericamente indicativo. Che cosi sia, se ne trova conferma nella monografia delTAmbasciatore F. Mor ehe « si accompagna » alla mostra quasi come un catalogo: « nella mostra appaiono quasi tutte le opere raffigurate nel libro » (Mor 1987: 10). E se ne ha con- ferma nella storia stessa delia mostra. DalT elenco délie esposizioni posto in appendice al libro di Mor si nota, dal 1980 in poi, la sostituzione del termi-

(3) Per uno sguardo complessivo sulla situazione política dell' Africa attuale si veda GlAN PAOLO Calchi Novati, L 'Africa, Roma, Editori Riuniti, 1987.

(4) George F. JVlurdock (1959:375) enumera sei principali etnie sotto la denominazione òhona Cluster: 1) Karanga, 2) Korekore, 3) Manyika, 4) Ndau, 5) Tawara, 6) Zezuru. Ognuna di tali etnie in- clude, tuttavia, altri raggruppamenti con etnonimi propri, per cui il complesso Shona risulta, al fine, di ben 34 gruppi etnici.

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ne « Shona » con il termine « Zimbabwe » come denominazione della mostra stessa: la scultura shona diventa la scultura zimbabwana. Certo, il mutamento della denominazione riflette il senso nazionalistico suscitato dall'adozione della nuova designazione Zimbabwe in luogo delTantica Rho- desia, ma esso implica una maggiore oggettività e si inserisce nel processo tipico della formazione della nuova identità étnica in termini, appunto, zimbabwani. Nell' appendice del libro di Mor vi è pure un secondo elenco dei «principali scultori». Ora, dei 188 scultori elencati quelli dichiarati Shona sono poço più di un terzo; gli altri sono Ndebele e di altre etnie fuo- ri dello Zimbabwe. Nella mostra esposta a Roma, presso TIstituto Italo- Africano, fígurano 29 scultori con 130 opere e tra essi vi sono alcuni non- Shona: Ndebele, Chewa, Yao, un Angolano. In definitiva, appare evidente ehe, nonostante Ia denominazione tribale, non si tratta di una mostra triba- le, né di una scultura tribale. È importante rendersi conto di questo perché è su taie dato ehe si potrà evitare la confusione possibile tra Tarte africana tradizionale, detta anche tribale, e la produzione d'arte rappresentata dalla scultura zimbabwana. Ed ecco perché ha senso insistere sul significato et- nologicamente relativo del termine shona, perché, in ogni caso, non si trat- ta tanto di una produzione étnica, nel senso specifico della parola, quanto di una scuola moderna, non certo tribale, semmai interetnica o, più pro- priamente, zimbabwana.

Corne già accennato, sappiamo esattamente le origini di taie scuola, dovuta alTintelligente iniziativa di Frank McEwen, e sappiamo la data della sua prima istituzione nel 1957. Ma próprio nelTessere una produzione di scuola, e di scuola moderna, sta il significato e il valore singolare della mo- stra e di tutta la cosiddetta scultura shona. Tra gli scultori ehe espongono vi sono alcuni degli artisti tra i primissimi di quelli per cui Tincontro e l'ini- ziativa di McEwen furono determinanti. Tra essi si segnala John Takawira, sia perché si distingue per la sua produzione personale, sia perché la sua attività ha rappresentato un esempio e un modello per la sua famiglia tanto ehe, attorno a lui e dopo di lui, si sono dati alla scultura i suoi fratelli, Ber- nard e Lazarus, il suo figlio, Boniface, e un altro della sua parentela, Ge- rald. Un tale fatto, ossia la diffusione del modello d'arte rappresentato dalla « scuola » attraverso Tinsegnamento diretto e personale dei suoi primi adepti, è un altro degli aspetti ehe occorre tener presente per valutare ap- pieno il significato storico della scuola di Harare. Nata per iniziativa e sti- molo non africani, essa si è andata individualizzando e consolidando per Topera spontanea degli africani, divenuti essi stessi maestri non solo per la matéria della loro propria produzione ma anche per la guida e lo stimolo trasmessi ai più giovani studiosi.

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Varie zimbabwana

Dopo tali premesse, penso necessário considerare in maniera critica il significato delia scultura zimbabwana nella prospettiva delia storia deli' arte africana.

Una prima considerazione va nuovamente registrata e riguarda Ia mancanza di una tradizione di scultura propriamente shona nelT âmbito dell'arte tradizionale africana. Le sculture delTuccello appollaiato ritrovate tra i reperti dell'antica Zimbabwe restano pezzi unici senza corrispondenza nella produzione d'arte degli Shona. Dell'arte tribale shona si hanno soltan- to lavori, diciamo cosi, minori, quali gli eleganti poggiateste con rilievi geo- metrici scolpiti nelTintreccio dei supporto. In una scultura di John Takawi- ra riconosciamo un'interpretazione personale e nuova delTantico uccello zimbabwano, rip rodo tta nel libro di F. Mor ai numero 22 délie raffigura- zioni in bianco e nero corrispondente alla pagina 38, dal titolo «Uccello zimbabwano» (v. fig. 1).

L'iniziativa di Frank McEwen sostenuta dalla volontà di offrire un'opportunità ai giovani artisti shona è fondamentale per una valutazione critica delia loro opera. McEwen operava all' interno delia National Art Gallery di Salisbury (ora Harare), ma era sua intenzione di rispettare la spontaneità e l'originalità dei singoli artisti ehe andava scop rendo. Per quanto onesta fosse tale sua intenzione, Ia sua iniziativa e 1'istituzione da lui diretta agivano da tramite effettivo e si ponevano quasi come filtro tra il mondo dell'arte occidentale e i giovani africani quasi completamente estra- nei e, in ogni caso, non direitamente legati ad una tradizione d'arte tribale. Si awerò, in tal modo, un fenómeno storico di singolare natura, direita- mente inverso a quello ehe conosciamo nei rapporti tra l'arte africana e Γ arte occidentale.

Il valore storico dell'incontro dell'arte africana con l'arte occidentale è ormai un dato acquisito. Nella storia dell'arte moderna occidentale esso rappresenta un fattore determinante di nuove correnti e di nuovi moduli di espressione formale. Con l'iniziativa di McEwen e con il consolidarsi sotto il suo stimolo di una scuola d'arte, di Salisbury prima, di Harare ora, è l'ar- te occidentale ehe determina alTinterno di una cultura africana un nuovo corso e nuovi moduli, stimolando gli artisti africani.

Nel 1984 il Museum of Modem Art di New York si fece promotore di un'imponente mostra di oggetti d'arte, in parte di provenienza africana e oceânica, in parte di provenienza occidentale. L'intento era quello di por- re in evidenza « le affinità » esistenti tra l'arte tribale e Tarte moderna. Per l'occasione vennero pubblicati due volumi curati dal direttore delia mostra,

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William Rubin, sotto il titolo « Primitivism » in 20th Century Art. Affinity of the Tribal and the Modern. I due volumi, riccamente document ati presen- tano le illustrazioni accostate in maniera attenta per dare rilievo aile affinità e, talvolta, alia palese dipendenza delle opere dei grandi maestri delTarte moderna occidentale dalle opere degli ignoti maestri tribali, africani e ocea- nici. NelTintroduzione ai volumi, William Rubin propone una sintesi di consumata perizia e di profonda introspezione del rapporto storico svilup- patosi tra Tarte tribale, particolarmente quella africana, e Tarte moderna. Ai collaboratori, ognuno studioso del próprio campo, Rubin affida il discorso sui singoli artisti o sui singoli paesi. Ezio Bassani redige il capitolo riguar- dante Tltalia, Italian Painting (in Rubin 1984: 405-415) (5). La vastità del- Topera e Toriginalità dei contributi fanno dei due volumi un punto di rife- rimento obbligatorio per la storia dell' arte moderna. Nello scritto di Rubin vi è un passo ehe mi sembra pertinente al nostro discorso: « Relativamente agli artisti moderni ehe ammirarono e collezionarono oggetti tribali, consi- dero certamente assiomatico ehe molti dei più importanti e più profondi influssi dellW nègre sulla loro opera siano quelli ehe noi non conosciamo e ehe non potremo mai conoscere» (Rubin 1984: 18). Rubin cita una di- chiarazione di Picasso assai significativa: « Le sculture af ricane appese nei miei studio sono più testimoni ehe modelli». Ma, commenta Rubin, « scelti dapprima per la loro affinità con gli intenti delT artista, una volta nello stu- dio, gli oggetti tribali assumevano un ruolo duale ed esercitavano una loro influenza» (Rubin 1984: 17).

La problemática suscitata dalla scultura zimbabwana costituisce un parallelo inverso delia problemática connessa al fenómeno storico del « pri- mitivismo moderno ». Gli scultori zimbabwani sono il prodotto selezionato di una metodologia scolastica occidentale impiantata in terra d'Africa. Che da tale implanto si sia sviluppata una scuola d'arte e di scultura con carat - teristiche proprie e autonome, una scuola moderna di arte africana, è un fatto di primaria importanza storica.

A chi osservi le opere degli scultori zimbabwani appare evidente Taf- finità delle loro forme con forme caratteristiche delTarte moderna « primi- tivista » occidentale. Al momento non siamo in grado di segnare con acco- stamenti oggettivi, quali quelli operati nella mostra di New York tra Tarte tribale e Tarte moderna europea, se tra le opere degli scultori zimbabwani esista una dipendenza diretta con alcune delle opere dei maestri del primi- tivismo moderno: è uno studio, peraltro, che potrebbe concepirsi ed essere

(5) Bassani accentra la sua attenzione sulla pittura di Carra.

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fatto. Sappiamo ehe il lavoro degli scultori zimbabwani è stato determinate) dall'incontro e dallo stimolo derivato da maestri occidentali. Oltre alle affi- nità evidenti, forse non potremo mai conoscere, come afferma William Ru- bin degli artisti occidentali, quali siano stati i più profondi e i più impor- tanti influssi vissuti e assimilati dagli scultori zimbabwani attraverso l'in- contro e il contatto con maestri occidentali. Alcune delle sculture zimbab- wane mostrano un apparente legame formale con certe opere dell'arte tri- bale africana, arte, quest'ultima, aliena alla tradizione culturale zimbabwa- na. Affiora cosî la convinzione ehe la conoscenza dell'arte tribale africana nella sua più vasta tradizione sia giunta agli artisti zimbabwani per via indi- retta, attraverso la scuola importata dall'occidente. Se cosï è, il fenómeno evidenzia in maniera significativa 1'intreccio dei rapporti acculturativi tra le società africane e altre società, segnando un punto di ritorno di un influsso partito dapprima dall'Africa verso l'Europa ed ora dall'Europa ritornato al- Γ Africa. La scultura zimbabwana non si raccorda, infatti, se non indiretta- mente, all'arte africana tribale: essa stessa non è arte tribale, anche se è e resta, né potrebbe essere diversamente, arte africana. Di conseguenza, l'ac- costamento critico alla scultura zimbabwana richiede una consapevolezza delia peculiarità del contesto culturale dentro cui essa affiora e si afferma, un contesto moderno dove l'antica cultura è radicalmente mutata e si basa su relazioni e strutture del tutto diverse da quelle tribali. Né, parimenti, ci si può accostare alla scultura zimbabwana corne se si traitasse di una pro- duzione d'arte direitamente continuativa dell'arte africana tribale. I criteri di valut azione mutano.

In taie prospettiva la scultura zimbabwana assume un'importanza sin- golare. Essa intende essere una produzione d'arte ehe si colloca, in maniera propria e autónoma, nel processo di sviluppo dell'arte moderna. Di tale in- tento gli scultori zimbabwani si rivelano consapevoli, né più né meno degli altri artisti africani e degli artisti di tutti i continenti. Nella nota introdutti- va delia traduzione italiana dei volume di Frank Willett sulTarte Africana, curata da chi scrive, osservavo: « I giovani africani, di fronte alio sviluppo moderno dell' Africa, si sentono protagonisti. Non vogliono tagliarsi fuori dal dialogo e dal confronto con gli artisti delle altri parti dei mondo (cosi come awiene negli altri campi, dalla letteratura alia política, dali' economia alia religione), ma intendono parteciparvi con piena autonomia e originalità di contributo. Essi non rinnegano Ia tradizione antica dell' Africa, anzi se ne sentono i continuatori diretti,ma non pedissequi . È chiaro che la loro ope- ra è un tentativo dinâmico di esprimere Ia realtà africana quale essi vivono e sentono. Si tratta di movimenti vivi, di esperimentazioni in corso, dove, come awiene altrove nelTarte contemporânea, non ci si può attendere che

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tutto sia alTaltezza del capolavoro, ma dove si deve riconoscere il terreno adatto perché il capolavoro nasca» (Bernardi in Willett 1978: xxiii-xxiv). Mi sembra ehe osservazioni del génère si attaglino appieno agli scultori zimbabwani.

Cosi stando le cose, il giudizio critico, una volta riconosciuta l'esisten- za e la consistenza di una scuola, non può restare genérico a livello, appun- to, di scuola, bensi deve approfondirsi nella analisi e nella valutazione dei singoli artisti e delle loro singole opere. Ed ecco una delle differenze, per quanto relativa, non priva di significato, tra Tarte tribale e Tattuale scultura zimbabwana: délia prima ci sfuggono i connotati storici dei singoli artisti e operatori, degli scultori zimbabwani sappiamo e nome e storia. In tal senso le osservazioni di Frank Willett, riportate più sopra, con le quali invitava a distinguere opera da opera, suonano chiarificatrici. Anche se il materiale di lavoro prediletto dagli scultori zimbabwani, la pietra dura levigata finemen- te e lucidata ad olio, impone all' artista una lavorazione lenta e severa quäle non si ritrova nella produzione spicciola dell'arte turística d'aeroporto, non tutto, rileva Willett, è di ottima qualità: alcune opere « si intonano con l'ar- redamento dei salotti europei », anziehe adeguarsi alle esigenze di dignità delTarte.

In altre parole, Taccostamento critico verso Tarte africana moderna, sia essa zimbabwana o di qualsiasi altra provenienza, implica un giudizio sulle singole opere e sui signoli scultori con i criteri propri delia critica d'ar- te. Che tra gli scultori zimbabwani vi siano artisti degni del massimo rispet- to e ehe tra le loro opere si riconosca Tottima qualità dell'arte, sono motivi perentori per assegnare alla scuola di Harare e ai suoi artisti un posto di ri- lievo nella storia dell'arte moderna delT Africa odierna.

Bernardo Bernardi

RlFERIMENTC BIBLIOGRAFICI

BERNARDI, B., Nota introduttiva alla traduzione italiana in F. Willett «Arte Africana» Torino, Einaudi, 1978. DD. xxi-xxiv.

CARROLL, KEVIN, Yoruba Religious Carving. Pagan & Christian Sculpture in Nigeria and Dahomey. Lon-

don, Geoffrey Chapman Limited, 1967. FAGG, WILLIAM, Foretvord in Kevin Carrol, Yoruba Religious Carving. Pagan & Christian Sculpture in Ni-

geria and Dahomey. London, Geoffrey Chapman Limited, 1967. pp. ix-x. MOR, F., La scultura Shona. Milano, Amoldo Mondadori; Roma, De Luca Editore, 1987. MURDOCK, G. P., Africa. Its Peoples an their Culture History, New York, McGraw-Hill Book Company.

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RANGER, TERENCE, Revolt in Southern Rhodesia. Evanston, Northwestern University Press, 1967. RANGER, Terence O., The invention of tribalism in Zimbabwe. Harare, Mambo Press, 1985. RUBIN, WILLIAM (ed.), « Primitivism » in 20th Century Art. New York Museum of Modern Art, 1984. 2

vols. WlLLETT, FRANK, African Art. An Introduction. London, Thames & Hudson, 1971. - , Arte Africana. Torino, Einaudi, 1978.

SUMMARY

What was termed as Shona Sculpture is now better defined as Zimbabwan sculptur on account of the interethnic affiliation of the artists who are at its origin. These sculptors are the selected product of a Western scholastic methodology imported into Africa. The art expressed by Zimbabwan sculp- tors is not tribal art; it is an art pertaining to the broad process of development of modern art. The evaluation, therefore, must be made on the basis of the criteria of art criticism. Zimbabwan sculptors show themselves quite conscious of this reality as any other artists both from Africa and from other continents.

RESUME

L' ainsi dénommée sculpture shona est plus précisemment considérée comme sculpture zimbab- wéenne pour le caractère interethnique des sculpteurs qui en sont les auteurs. Ces sculptures sont le produit sélectionné d'une méthodologie scolastique occidentale implantée en terre d'Afrique. L'art ex- primé par les sculpteurs zimbabwéens n'est pas un art tribal mais bien un art qui se place dans le pro- cessus de développement de l'art moderne. En conséquence il doit être jugé selon les critères de la criti- que de l'art moderne. Les sculpteurs zimbabwéens sont conscients de cette réalité comme les autres ar- tistes africains et les artistes de tous continents.

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