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Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova
Sede Consorziata: Università degli Studi di Udine
Dipartimento di Ingegneria Elettrica, Gestionale e Meccanica (DIEGM)
SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN INGEGNERIA GESTIONALE ED ESTIMO
INDIRIZZO INGEGNERIA GESTIONALE
CICLO XXIII
SISTEMI DI CONTROLLO E GESTIONE DEI RISCHISoluzioni organizzative nel settore assicurativo
Direttore della Scuola:
Coordinatore d’indirizzo:
Supervisore: Ch.mo Prof.
Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova
Università degli Studi di Udine
Ingegneria Elettrica, Gestionale e Meccanica (DIEGM)
DOTTORATO DI RICERCA IN INGEGNERIA GESTIONALE ED ESTIMO
IRIZZO INGEGNERIA GESTIONALE
SISTEMI DI CONTROLLO E GESTIONE DEI RISCHIoluzioni organizzative nel settore assicurativo
: Ch.mo Prof. Cipriano Forza
Coordinatore d’indirizzo: Ch.mo Prof. Cipriano Forza
.mo Prof. Alberto Felice De Toni
Dottorando: Lorenzo Ioan
DOTTORATO DI RICERCA IN INGEGNERIA GESTIONALE ED ESTIMO
SISTEMI DI CONTROLLO E GESTIONE DEI RISCHI oluzioni organizzative nel settore assicurativo
Lorenzo Ioan
i
ABSTRACT
The research herewith presented stems from the experience on the field in the design of risk
management and internal control systems. The recent regulatory developments in the field of
corporate governance, and especially in the financial industry, claimed the need of a greater
integration between internal control systems and risk management. As a consequence a
number of laws, regulations, directives and guidelines from different regulators, supervisory
authorities and other institutional bodies were published across the world; they all dealt with
the integration between internal control and risk management systems on a principle-based
logic leaving the organizations free to decide how to implement those principles.
Unfortunately, from a practictioner’s perspective there’s lack of sound guidance on how to
design those integrated systems. A review of the literature was then conducted in the field of
corporate governance, risk management and organizational control. The result of the
analysis showed that there’s a gap as regards the availability of a theoretical framework
encompassing the risk dimension into the design of managerial control systems. A
longitudinal single case study was then carried out between 2008 and 2011 aiming at
understanding how organizational structures and managerial control systems should be
designed or modified in order to allow also an effective management of risks. A theoretical
framework together with some propositions are proposed.
La ricerca presentata tramite questo elaborato nasce dall’esperienza maturata sul campo
nella progettazione di sistemi di controllo e gestione dei rischi. I recenti sviluppi normativi in
tema di corporate governance, specialmente nel settore finanziario, hanno invocato la
necessità di una maggiore integrazione tra i sistemi di controllo interno e la gestione dei
rischi. Come conseguenza una serie di leggi, normative, direttive e linee guida sono state
emanate dai regulator, dalle autorità di vigilanza e da altre istituzioni in tutto il mondo; queste
normative hanno affrontato il tema dell’integrazione seguendo un approccio principle-based,
lasciando le singole organizzazioni libere di decidere le modalità operative per
l’implementazione di tali principi. Purtroppo, da un punto di vista pratico si avverte la
mancanza di una guida alla progettazione di tali sistemi integrati. È stata quindi condotta una
analisi della letteratura nei filoni della corporate governance, del risk management e del
controllo organizzativo. La review ha confermato il gap circa la mancanza di un framework
teorico che contempli anche la dimensione rischio nella progettazione dei sistemi di controllo
manageriale. È stato quindi condotto un caso studio singolo longitudinale tra il 2008 e il 2011
al fine di comprendere come le strutture organizzative e i sistemi di controllo manageriale
debbano essere progettati o modificati al fine di consentire anche una efficace gestione dei
rischi. Viene quindi proposto un framework teorico assieme ad alcune proposizioni.
iii
INDICE DEI CONTENUTI
INDICE DELLE FIGURE V
INDICE DELLE TABELLE VII
INTRODUZIONE 3
Capitolo 1 L’analisi della letteratura 7
1.1 La metodologia di analisi della letteratura 7
1.2 Sintesi dei principali contributi 14
1.2.1 La corporate governance 14
1.2.2 Definizioni, teorie e percezioni di rischio 21
1.2.3 Evoluzione del risk management 31
1.2.4 Il controllo organizzativo 38
Capitolo 2 Il progetto di ricerca 53
2.1 Ambito e domande di ricerca 53
2.2 La metodologia di ricerca 61
Capitolo 3 Il caso studio 69
3.1 Il profilo dell’organizzazione oggetto di studio 69
3.2 Fase 1: implementazione del modello per la gestione del financial reporting risk 71
3.3 Fase 2: implementazione del modello per la gestione dell’operational risk 78
Capitolo 4 Risultati della ricerca 89
4.1 Evidenze dal caso studio 89
4.1.1 Un framework teorico di riferimento 89
4.1.2 Il framing del caso studio 94
4.1.3 Proposizioni teoriche derivate dal caso studio 99
4.2 Conclusioni 107
APPENDICE A. SINTESI DEI CONTENUTI DEGLI ARTICOLI ANALIZZATI 109
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
iv
APPENDICE B. SINTESI DEI CONTENUTI DELLE MONOGRAFIE ANALIZZATE 152
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 158
RINGRAZIAMENTI 169
Indice
v
INDICE DELLE FIGURE
FIGURA 1 AMBITO DELLA RICERCA ............................................................................................... 7
FIGURA 2 DISTRIBUZIONE DEGLI ARTICOLI PER AREA TEMATICA ................................................... 11
FIGURA 3 DISTRIBUZIONE DEGLI ARTICOLI PER AREA TEMATICA E PER ARGOMENTO ...................... 11
FIGURA 4 DISTRIBUZIONE TEMPORALE DEGLI ARTICOLI ............................................................... 12
FIGURA 5 DISTRIBUZIONE DELLE MONOGRAFIE PER AREA TEMATICA ............................................ 12
FIGURA 6 DISTRIBUZIONE DELLE MONOGRAFIE PER AREA TEMATICA E PER ARGOMENTO ............... 13
FIGURA 7 DISTRIBUZIONE TEMPORALE DELLE MONOGRAFIE ......................................................... 13
FIGURA 8 APPROCCI ALLA CORPORATE GOVERNANCE (ADATTATO DA: SUNDARAMURTHY E LEWIS,
2003) .............................................................................................................................. 19
FIGURA 9 STRATEGIE DI CONTROLLO. ADATTATO DA: OUCHI (1979) E EISENHARDT (1985) .......... 44
FIGURA 10 FRAMEWORK INTEGRATO DI CONTROLLO ORGANIZZATIVO. FONTE: FLAMHOLTZ ET AL.
(1985) ............................................................................................................................. 47
FIGURA 11 COSO INTERNAL CONTROL - INTEGRATED FRAMEWORK. FONTE: COSO, 1992 ......... 50
FIGURA 12 DISTRIBUZIONE DEGLI ARTICOLI PER METODOLOGIA DI RICERCA ................................. 61
FIGURA 13 DISTRIBUZIONE ARTICOLI DELL'AREA CORPORATE GOVERNANCE PER METODOLOGIA DI
RICERCA .......................................................................................................................... 62
FIGURA 14 DISTRIBUZIONE ARTICOLI DELL'AREA ORGANIZZATIVA PER METODOLOGIA DI RICERCA .. 62
FIGURA 15 DISTRIBUZIONE ARTICOLI DELL'AREA RISK MANAGEMENT PER METODOLOGIA DI RICERCA
....................................................................................................................................... 62
FIGURA 16 IL PROTOCOLLO DI RICERCA ...................................................................................... 67
FIGURA 17 LA MAPPA CONCETTUALE DEL PROGETTO DI RICERCA ................................................ 68
FIGURA 18 IL FRAMEWORK PER LA GESTIONE DEL FINANCIAL REPORTING RISK ............................. 74
FIGURA 19 ENTITÀ CHIAVE DELLA METODOLOGIA DI GESTIONE DEI RISCHI OPERATIVI .................... 85
FIGURA 20 PROCESSO LOGICO-TEMPORALE PER LA PROGETTAZIONE DI UN SISTEMA DI GESTIONE
DEI RISCHI ........................................................................................................................ 89
FIGURA 21 FRAMEWORK TEORICO PER LA PROGETTAZIONE DI SISTEMI DI CONTROLLO E GESTIONE
DEI RISCHI ........................................................................................................................ 90
FIGURA 22 L'ORIGINE DEL RISCHIO FRR .................................................................................... 92
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
vi
FIGURA 23 IDENTIFICAZIONE DEI RISCHI: SCELTE POSSIBILI ..........................................................95
FIGURA 24 CLASSIFICAZIONE DEI RISCHI: SCELTE POSSIBILI .........................................................96
FIGURA 25 MISURAZIONE DEI RISCHI: SCELTE POSSIBILI ..............................................................98
FIGURA 26 LE METODOLOGIE DI GESTIONE DEL FINANCIAL REPORTING RISK E DELL’OPERATIONAL
RISK A CONFRONTO ........................................................................................................101
Indice
vii
INDICE DELLE TABELLE
TABELLA 1 PAROLE CHIAVE PER L'ANALISI DELLA LETTERATURA .................................................... 8
TABELLA 2 DISTRIBUZIONE DEGLI ARTICOLI PER FONTE ................................................................. 9
TABELLA 3 SVILUPPO STORICO DELLA RELAZIONE TRA CONCETTI DI RISCHIO, RISPOSTE E SISTEMI DI
ATTRIBUZIONE DI RESPONSABILITÀ. ADATTAMENTO DA: SPIRA E PAGE (2003) ..................... 31
TABELLA 4 LE DOMANDE DI RICERCA .......................................................................................... 60
TABELLA 5 SOLVENCY II: RIFERIMENTI NORMATIVI PER IL SISTEMA DI GOVERNANCE E GESTIONE DEI
RISCHI ............................................................................................................................. 79
TABELLA 6 STRATEGIE DI CONTROLLO DEI RISCHI ..................................................................... 106
3
INTRODUZIONE
La crescente complessità dei mercati e l’evoluzione del contesto competitivo in cui operano
le imprese si sono manifestate recentemente anche attraverso gravi e diffusi fenomeni di
crisi d’impresa. Ad esempio, a partire dal 2001, sono fallite negli Stati Uniti la Enron, colosso
texano dell’energia, allora settima società per fatturato nel continente americano, e il gigante
delle telecomunicazioni Worldcom. Gli scandali finanziari che hanno coinvolto queste
imprese hanno avuto ripercussioni a catena attraverso il sistema finanziario portando al
fallimento anche imprese non direttamente coinvolte dagli stessi. Emblematico è stato il caso
della Kmart, azienda operante nel settore della grande distribuzione organizzata, il cui
fallimento fu dovuto al rilevante aumento delle pressioni esercitate per la riscossione dei
crediti concessi dal suo principale istituto finanziario, a sua volta duramente colpito dalla
svalutazione creditizia conseguente al fallimento della Enron. A tali episodi hanno fatto eco
in Europa altri clamorosi fallimenti come quelli delle italiane Parmalat e Cirio, delle tedesche
Kirch e Mobilcom, delle francesi Vivendi e France Telecom, delle inglesi Marconi e BrGroup
e delle olandesi KpnQwest e World Online (Giorgino e Travaglini, 2008).
Le cause di questi fallimenti sono state largamente imputate all’inefficienza e inefficacia dei
sistemi di controllo e governo aziendale. Dal punto di vista normativo, questi eventi hanno
dato impulso ad un processo di revisione della regolamentazione applicabile all’impresa con
l’obiettivo di imporre o favorire l’introduzione di adeguati sistemi di controllo e di gestione. In
particolare, nell’azione dei legislatori si può riconoscere un massiccio intervento sulla
corporate governance delle imprese richiamando l’attenzione, oltre che sul controllo, anche
sulla gestione del rischio. Inoltre, per quanto riguarda le società che si propongono sul
mercato regolamentato dei capitali, particolare enfasi è stata posta sulla correttezza delle
informazioni finanziarie rilasciate al mercato. A testimonianza di ciò, si evidenzia a livello
globale e soprattutto nel settore finanziario un’intesa attività di emanazione da parte delle
autorità di vigilanza e supervisione, degli organi di controllo delle principali Borse Valori, e di
diverse associazioni di categoria professionali, di direttive, regolamenti, linee guida e codici
di condotta in materia. Al di fuori del confine italiano, il London Stock Exchange (LSE) ha
istituito nel 1991 il Committee on the Financial Aspects or Corporate Governance, noto come
Cadbury Committee, con l’obiettivo di migliorare gli standard di reporting al pubblico e di
controllo interno sulla gestione. In Australia e Nuova Zelanda dal 1992 è stato introdotto uno
standard comune per il processo di risk management (rivisto nel 1999 e nel 2004) per
guidare le imprese private e gli enti pubblici verso un’organica gestione del rischio. Sempre
nel 1992, gli Stati Uniti hanno visto l’emanazione del “COSO Report”, pubblicato dal
Committee of Sponsoring Organizations of the Treadway Commission. Il comitato, istituito
nel 1985 con il patrocinio congiunto dell’American Institute of Chartered Accountants
(AICPA), dell’American Accounting Association (AAA), del Financial Executive Institute
(FEI), dell’Institute of Internal Auditors (IIA) e dell’Institute of Management Accountants
(IMA), aveva come obiettivo lo studio sui casi di falso in bilancio di alcune importanti società.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
4
Dallo studio emerse che una delle cause ricorrenti nei comportamenti fraudolenti erano le
inefficienze dei sistemi di controllo; da questo presupposto venne ravvisata la necessità di
elaborare un framework per guidare le organizzazioni nella strutturazione di adeguati sistemi
di controllo (D’Onza, 2008). Nel 1994 in Canada, la commissione Dey, istituita dal Toronto
Stock Exchange, ha pubblicato il Dey Report contenente raccomandazioni alle imprese
quotate di informare periodicamente gli investitori sullo stato dei sistemi di controllo interno.
Nel 1997 in Olanda è stata la volta del rapporto Peters, che tra le varie indicazioni in tema di
corporate governance, invita il management board a presentare al supervisory board un
rapporto annuale sui rischi connessi al raggiungimento degli obiettivi e all’implementazione
delle strategie, nonché sullo stato dei sistemi di controllo. Nel 1998 in Germania è entrata in
vigore la legge sul controllo della trasparenza in ambito aziendale, denominata KONTRAG,
che impone al Comitato Esecutivo l’obbligo di provvedere ad un’adeguata gestione dei
rischi, attribuendo ai componenti del consiglio di amministrazione la responsabilità per danni
subiti dall’azienda a seguito di gravi carenze nell’implementazione di sistemi di controllo. Nel
1999 nel Regno Unito, l’Institute of Chartered Accountants of England and Wales ha
pubblicato il Turnbull Report che fornisce alle imprese quotate al LSE un quadro di
riferimento per l’implementazione di un sistema di risk management. Si chiede alle imprese
una valutazione dei rischi non più limitata a quelli finanziari. Nel 2000 il LSE ha adottato il
Combined Code, un insieme di principi di corporate governance che condensano il lavoro di
precedenti comitati (Cadbury, Greenbuy, Hampel Committee) e che introducono il concetto
di efficacia del sistema di controllo interno nell’identificazione e nel controllo dei rischi
aziendali, prevedendo una sua periodica revisione e l’obbligo di regolare comunicazione in
merito agli azionisti. Nel 2002 negli Stati Uniti è stata la volta del Sarbanes-Oxley Act (cd.
SOX) il cui scopo è rafforzare la disciplina finanziaria delle imprese e conferire maggiore
affidabilità all’informativa di mercato sull’andamento delle società. La SOX richiede interventi
formali e sostanziali nell’organizzazione e nel funzionamento delle imprese, promuovendone
la trasparenza operativa e finanziaria. Nel 2004 sempre negli Stati Uniti il COSO ha
pubblicato il “COSO Enterprise Risk Management Integrated Framework”, che costituisce
un’evoluzione del precedente report del 1992 e che propone un approccio olistico alla
gestione dei rischi. Le normative precedentemente citate non costituiscono una panoramica
esaustiva ma rappresentano altresì i punti cardine dell’evoluzione regolamentare ancora in
atto, con riferimento particolare al settore finanziario. Altri documenti di riferimento, che
vengono adottati a livello nazionale, sono ad esempio i Minimum Requirements for Risk
Management (MaRisk) della tedesca Federal Financial Supervisory Authority (BaFin), o
l’Internal Control System Reference Framework della francese Autorité des marchés
financiers (AMF).
Venendo al contesto italiano, nel 1999 è stato adottato il Codice di Autodisciplina per le
società quotate (cd. Codice Preda), aggiornato nel 2006 e nel 2011 a seguito del lavoro del
Comitato per la Corporate Governance. Nel 2001 è stato approvato il Decreto Legislativo
Introduzione
5
231 che estende la responsabilità amministrativa alle società, agli enti dotati di personalità
giuridica e alle associazioni anche prive di personalità giuridica per una serie di reati,
elencati all’interno del decreto stesso e periodicamente aggiornati, che possono essere
compiuti dai soggetti legati all’organizzazione nell’interesse e a vantaggio della stessa. In
caso di manifestazione di reato, il decreto permette alle imprese che dimostrano di aver
adottato un adeguato modello di organizzazione, gestione e controllo, idoneo a prevenire la
realizzazione dei reati, di essere esenti da responsabilità. L’adozione del cosiddetto “Modello
Organizzativo 231” rimane essenzialmente facoltativa, anche se sta cominciando a diventare
un requisito necessario per l’accesso a determinati settori d’attività (ad esempio, la Regione
Lombardia, con Decreto n. 5808 dell'8 giugno 2010, ha introdotto l'obbligo di adozione del
modello di organizzazione, gestione e controllo per le imprese che intendono accreditarsi per
l'erogazione dei servizi di istruzione e formazione professionale e per l'erogazione dei servizi
per il lavoro). Seguendo il modello statunitense della SOX, nel 2005 è stata emanata in Italia
la Legge 262 (cd. “Legge sulla tutela del risparmio”), modificata nel 2006 con il Decreto
Legislativo. n. 303. Tale normativa ha istituito la nuova figura organizzativa del “Dirigente
Preposto alla redazione dei documenti contabili” (di seguito Dirigente Preposto) nelle società
quotate o emittenti titoli diffusi in mercati regolamentati aventi l’Italia come stato membro
d’origine. Al Dirigente Preposto viene affidato il compito di predisporre adeguate procedure
amministrative e contabili per la formazione del bilancio di esercizio e, ove previsto, del
bilancio consolidato e di rilasciare, congiuntamente agli organi amministrativi delegati, una
attestazione dell’adeguatezza e dell’effettiva applicazione delle procedure amministrative e
contabili, nonché della corrispondenza del bilancio d’esercizio, del bilancio consolidato, e del
bilancio semestrale abbreviato alle risultanze dei libri e delle scritture contabili e la loro
idoneità a fornire una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale,
economica e finanziaria della società. In questo scenario il controllo amministrativo e
contabile tende ad assumere un ruolo più ampio rispetto al passato, estendendo la sua
operatività dai soli processi contabili ai tutti i processi aziendali, in quanto i flussi informativi
di cui il Dirigente Preposto è chiamato a garantire la veridicità sono in primo luogo di tipo
gestionale per poi mutarsi in flussi di tipo meramente contabile.
L’excursus normativo sopra descritto mette in evidenza uno dei temi caldi che organizzazioni
in settori e paesi diversi stanno affrontando: il legame tra sistemi di controllo organizzativo,
risk management e corporate governance. Questa commistione tra discipline diverse a sua
volta evidenzia come la gestione del rischio da una logica di gestione specialistica/funzionale
debba muoversi verso una logica di gestione integrata con le scelte strategiche e di
progettazione organizzativa delle società all’interno di una adeguata governance
dell’impresa. Secondo Garzella et al. (2009) il ruolo svolto dagli organi e dai sistemi di
controllo nell’ambito della gestione dei rischi appare recentemente come una delle principali
attività del controllo interno stesso “se non addirittura la principale”. Il lavoro di ricerca
presentato per mezzo di questa tesi si colloca all’interno di questo dibattito. Nel Capitolo 1
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
6
viene presentata l’analisi della letteratura sintetizzando i principali contributi individuati e
descrivendo i gap emersi. Nel Capitolo 2 viene illustrato il progetto di ricerca delineando le
motivazioni all’origine della scelta dell’ambito di ricerca, illustrando gli obiettivi prefissati e
descrivendo le domande di ricerca e la metodologia adottata. Il Capitolo 3 introduce e
descrive il caso studio in forma narrativa per fornire il contesto entro cui si inseriscono i
risultati della ricerca. Il Capitolo 4 presenta infine le evidenze empiriche raccolte e discute i
risultati della ricerca, indicandone il contributo ed evidenziandone contemporaneamente i
limiti e i possibili sviluppi futuri.
7
CAPITOLO 1 L’ANALISI DELLA LETTERATURA
Il tema di ricerca e di conseguenza i contributi della letteratura analizzati si collocano
all’incrocio di quelli che possono essere considerati tre filoni distinti nell’ambito della ricerca
accademica e che tuttavia presentano aree di sovrapposizione: la disciplina organizzativa, e
in particolare del controllo organizzativo, quella del risk management e quella della corporate
governance.
Figura 1 Ambito della ricerca
Nei successivi paragrafi verranno presentate le modalità attraverso cui è stata condotta
l’analisi della letteratura, la sintesi dei contributi principali e infine ne verranno discussi i
risultati.
1.1 LA METODOLOGIA DI ANALISI DELLA LETTERATURA
Per condurre l’analisi della letteratura è stato utilizzato il database EBSCOhost, che fornisce
funzionalità utili alla ricerca bibliografica, quali la tracciabilità delle ricerche effettuate,
attraverso ad esempio il salvataggio delle opzioni e dei filtri adottati, e le visualizzazioni
grafiche dei risultati con la possibilità di raffinare ulteriormente la ricerca applicando appositi
filtri.
La scelta di avvalersi di una specifica banca dati è motivata anche dalla necessità, rilevata
nella letteratura, di incrementare la sistematicità, trasparenza e ripercorribilità dei lavori di
review della letteratura (Tranfield et al., 2003; Rousseau et al., 2008). Parallelamente è stato
predisposto un database su foglio di calcolo Excel per la catalogazione dei riferimenti
bibliografici e la raccolta strutturata di informazioni per ciascun contributo della letteratura
analizzato. Per ciascun articolo, in aggiunta ai dati necessari per costruire i riferimenti
bibliografici, si è tenuto traccia:
● dell’area tematica in cui si colloca il contributo;
● dell’argomento trattato dall’articolo, nel contesto dell’area tematica di riferimento;
● della tipologia dell’articolo in relazione agli obiettivi (revisione della letteratura, theory
building, theory testing oppure altro);
Letteratura di
riferimento
CORPORATE GOVERNANCE
RISK MANAGEMENT ORGANIZZAZIONE
METODOLOGIA DI RICERCA
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
8
● della metodologia di ricerca adottata dagli autori (analisi della letteratura, contributo
teoretico, caso studio singolo o multiplo, survey oppure altro) 1.
Inoltre, per ciascun articolo è stata redatta, tenendo conto degli obiettivi del presente lavoro
di ricerca, una sintesi dei principali contenuti, riportata in appendice a questo elaborato.
Al fine di individuare i contributi rilevanti nella letteratura di riferimento, sono state
identificate, e utilizzate in 48 combinazioni diverse, le 20 parole chiave riportate nella Tabella
1.
Tabella 1 Parole chiave per l'analisi della letteratura risk control organizational corporate
governance
risk
management
organizational
control system
organizational
design
agency
operational risk managerial
control
organizational
theory
theory
financial
reporting risk
managerial
control systems
theory of
organization
systems
literature state of the art design review
Le parole chiave sono state ricercate nell’intero testo dell’articolo, includendo quindi il titolo,
l’abstract e il corpo del paper. In prima battuta, al fine di limitare il numero di risultati delle
ricerche (si è avuta una media di circa 400 articoli per ciascuna delle 48 combinazioni
effettuate) è stato applicato un solo filtro relativo alla tipologia di pubblicazione: sono state
selezionate le sole pubblicazioni accademiche, categoria “scholarly” in EBSCOhost, cioè
soggette al meccanismo di peer review. Per tutti gli articoli risultanti da questa selezione è
stato analizzato l’abstract al fine di eliminare quei contributi che pur contenendo le parole
chiave non rappresentavano alternativamente articoli legati a: modelli di controllo
organizzativo; progettazione di strutture organizzative; progettazione di sistemi di controllo;
descrizione del rapporto tra corporate governance e controllo organizzativo; descrizione del
rapporto tra corporate governance e risk management; descrizione del rapporto tra risk
management e controllo organizzativo. In seconda battuta, la ricerca bibliografica è stata
integrata attraverso uno screening manuale inserendo ulteriori articoli rilevanti citati all’intero
dei contributi precedentemente selezionati tramite EBSCOhost e non già presenti negli esiti
delle ricerche effettuate nel database stesso. Parallelamente a queste attività sono stati
1 Laddove non esplicitamente indicate dagli autori, tipologia e metodologia di ricerca dei contributi sono state dedotte dalla lettura degli stessi.
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
9
selezionati alcuni contributi significativi riguardo le metodologia di ricerca, concentrandosi in
modo particolare sulla case study research e sull’action research al fine di individuare la
metodologia di ricerca più adatta agli scopi. Complessivamente sono stati analizzati 173
articoli. La lettura dell’abstract dei contributi è stata funzionale non solo alla classificazione
degli articoli precedentemente descritta ma anche per una prima valutazione degli stessi: è
stato infatti attribuito un ranking sulla base dell’inerenza all’argomento di ricerca utilizzando
una scala a cinque valori (da 1 = non inerente a 5 = totalmente inerente). Tale ranking è
servito allo scopo di definire una priorità di lettura degli stessi. Tutte le informazioni raccolte
tramite la lettura degli abstract sono state modificate, ove necessario, a seguito della lettura
completa dell’articolo. La Tabella 2 riporta l’elenco delle fonti considerate e il numero di
articoli esaminati per ciascuna fonte.
Tabella 2 Distribuzione degli articoli per fonte Fonte #
Academy of Management Review 18
Administrative Science Quarterly 16
Journal of Management studies 14
Internal Auditor 13
Accounting, Organizations & Society 12
Academy of Management Journal 10
Management Science 10
Accounting, Auditing & Accountability Journal 8
Journal of Risk Research 8
International Journal of Operations & Production Management 4
Journal of Business Ethics 4
Harvard Business Review 3
The Journal of Risk and Insurance 3
British Journal of Management 2
Human Relations 2
International Journal of Management 2
Journal of Accounting and Economics 2
Journal of Management and Governance 2
Long Range Planning 2
Management Decision 2
Strategic Management Journal 2
Accounting Review 1
American Sociological Review 1
Auditing 1
Business Horizons 1
California Management Review 1
Contemporary Accounting Research 1
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
10
Fonte #
European Management Journal 1
International Journal of Auditing 1
International Journal of Social Research Methodology 1
International Research Journal of Finance and Economics 1
ISA Forum of Sociology - Thematic Group on Sociology of Risk and Uncertainty TG04 1
Journal of Accountancy 1
Journal of Contingencies & Crisis Management 1
Journal of Information Systems 1
Journal of International Business Studies 1
Journal of Management 1
Journal of Management Development 1
Journal of Organizational Change Management 1
Management Accounting Research 1
MIS Quarterly 1
Organization Science 1
Psychological Review 1
Review of International Political Economy 1
Risk Analysis: An International Journal 1
Risk Management and Insurance Review 1
Risk Management an International Journal 1
Sloan Management Review 1
Systemic Practice and Action Research 1
Technology, Law & Insurance 1
The Academy of Management Annals 1
The American Economic Review 1
The American Political Science Review 1
The Journal of Business of the University of Chicago 1
The Review of Politics 1
Totale 173
La Figura 2 illustra la distribuzione degli articoli selezionati per ciascuna area tematica.
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
11
Figura 2 Distribuzione degli articoli per area tematica
La Figura 3 articola ulteriormente la distribuzione precedente presentando il numero di
contributi per singolo argomento all’interno dell’area tematica.
Figura 3 Distribuzione degli articoli per area tematica e per argomento
Infine, nella Figura 4 è riportata la distribuzione temporale dei paper analizzati.
Corporate Governance16%
Metodologia di ricerca9%
Organizzazione54%
Risk Management21%
23 4
75% 80% 85% 90% 95% 100%
Corporate Governance
Teorie e/o modelli di governo dell'impresa Compliance
9 3 3 1
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Metodologia di ricerca
Action Research Strategia di ricerca Case Study Research Survey research
64 18 11
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Organizzazione
Controllo organizzativo Teorie organizzative Progettazione organizzativa
23 14
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Risk Management
Governance/f ramework/processi di gestione dei rischi Teorie del rischio
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
12
Figura 4 Distribuzione temporale degli articoli
In aggiunta ai contributi della letteratura provenienti dalle riviste accademiche specializzate
sono state inoltre analizzate 35 monografie. Analogamente a quanto presentato per gli
articoli delle riviste accademiche, si riportano di seguito alcuni grafici riepilogativi delle
monografie analizzate (Figura 5, Figura 6 e Figura 7).
Figura 5 Distribuzione delle monografie per area tematica
1900-19708%
1970-19807%
1980-199014%
1990-200018%
2000-201253%
Metodologia di ricerca; 3%
Organizzazione; 80%
Risk Management;
17%
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
13
Figura 6 Distribuzione delle monografie per area tematica e per argomento
Figura 7 Distribuzione temporale delle monografie
Una sintesi dei contenuti principali delle monografie analizzate è riportata in appendice.
1
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Metodologia di ricerca
Case Study Research
13 9 5 1
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Organizzazione
Teorie organizzative Controllo organizzativo
Progettazione organizzativa Teorie e/o modelli di governo dell'impresa
5 1
75% 80% 85% 90% 95% 100%
Risk Management
Governance/f ramework/processi di gestione dei rischi Teorie del rischio
1900-19709%
1970-19803%
1980-199014%
1990-200026%
2000-201248%
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
14
1.2 SINTESI DEI PRINCIPALI CONTRIBUTI
1.2.1 La corporate governance
Il termine governance è apparso negli scritti accademici agli inizi degli anni 1970, soprattutto
tra gli studiosi di sociologia e scienze politiche (Bhimani, 2009). Sebbene ad oggi il termine
assuma sfumature di significati sensibilmente diversi a seconda dell’interesse e della
prospettiva specifica adottata dagli autori che lo utilizzano, Daily et al. (2003) definiscono la
corporate governance come la determinazione delle diverse modalità con cui le risorse
organizzative vengono messe in campo e delle diverse modalità con cui vengono risolti i
conflitti tra le miriadi di partecipanti al contesto organizzativo. Secondo gli stessi autori
l’enfasi maggiore posta nella ricerca sulla corporate governance ricade sull’efficacia dei
diversi meccanismi disponibili per proteggere gli azionisti dai comportamenti opportunistici
degli executive di una impresa. Per il Cadbury Report (1992) la corporate governance di una
impresa è semplicemente “the way in which companies are directed and controlled”
(D’Onza, 2008; Parretta, 2007), ovvero il modo in cui le organizzazioni sono dirette e
controllate. Secondo Parretta (2007) la corporate governance è l’insieme delle regole
secondo le quali le imprese sono gestite e controllate coniugando il raggiungimento degli
obiettivi strategici, l’adozione di un comportamento coerente alle aspettative e la trasparenza
nei confronti di shareholder e stakeholder. Secondo Bhimani (2009) trasparenza e senso di
responsabilità (accountability) sono termini da subito utilizzati fin dalle prime idee sviluppate
sulla governance, cui si aggiungono oggi altre parole chiave quali disclosure, efficacia ed
efficienza, capacità e continuità. In altre parole (Parretta, 2007) la governance riguarda il
modo in cui i portatori di capitale (azionisti), in primo luogo, e gli altri portatori d’interesse
(lavoratori, clienti, fornitori, ecc.), in secondo luogo, possono essere tutelati sul ritorno che
possono avere dall’impresa rispetto a quanto mettono in campo per essa (ad esempio
capitale, lavoro, conoscenze, ecc.).
Gli studi sulla governance trovano le loro origini nella cosiddetta visione contrattuale
dell’azienda. I lavori di Bearle e Means (1932) e di Coase (1937), dedicati a comprendere
come la diffusione della proprietà nelle grandi corporation statunitensi, realizzata attraverso
l’azionariato diffuso, avesse condotto alla separazione fra proprietà e controllo, hanno dato
impulso nel dibattito sulle teorie di impresa alla prospettiva del managerialismo che ha a sua
volta contribuito allo sviluppo della visione dell’azienda come soggetto legale. In particolare,
Jensen e Meckling (1976) hanno proposto la agency theory (di seguito anche teoria
dell’agenzia) come spiegazione del meccanismo attraverso cui l’impresa ad azionariato
diffuso (public company) può esistere data la separazione tra proprietà (azionisti) e controllo
e gestione dell’impresa stessa, affidata ai manager.
L’oggetto d’analisi nella teoria è la cosiddetta “relazione d’agenzia” in cui una parte,
denominata principale (principal), delega una certa attività ad un’altra parte, denominata
agente (agent), che ha il compito di svolgerla operativamente. Il principale decide quindi di
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
15
avvalersi delle competenze e delle conoscenze che l'agente possiede in merito allo
svolgimento di una determinata operazione. L'agente dal canto suo accetta di operare per
conto e nell'interesse del principale dietro un adeguato corrispettivo e avendo avuta delegata
la necessaria autorità per l’esecuzione del proprio compito.
La teoria dell’agenzia descrive questa relazione nei termini metaforici di un contratto (Jensen
e Meckling, 1976). L’obiettivo della teoria diventa quindi quello di individuare la più efficiente
forma di contratto in grado di governare la relazione d’agenzia che è soggetta al cosiddetto
“problema d’agenzia” (agency problem), ovvero al manifestarsi di obiettivi diversi tra due
parti che cooperano in presenza di una divisione del lavoro (Eisenhardt, 1989). In particolare
esso nasce quando:
● gli obiettivi del principale e dell’agente sono in conflitto tra loro;
● è difficile o costoso per il principale verificare quanto effettivamente compiuto
dall’agente.
L'argomento centrale riguarda quindi le modalità attraverso cui il principale riesce a indurre
l'agente a comportarsi come egli stesso si comporterebbe qualora avesse pari competenze
e conoscenze in merito allo svolgimento dell’attività delegata. La strutturazione del contratto
si configura quindi come la soluzione del problema della motivazione dell’agente attraverso
l’uso di pre-determinati incentivi, tali da indurre comportamenti che portano al massimo
soddisfacimento dell’interesse del principale. La teoria dell’agenzia affronta anche il
problema della condivisione del rischio (risk sharing), che sorge quando principale e agente
hanno diverse propensioni al rischio, ovvero quando le scelte sulle azioni da intraprendere
sono guidate da differenti preferenze al rischio (risk preferences) dei due soggetti. Infatti,
mentre gli azionisti (principale) sono generalmente neutrali rispetto al rischio (risk neutral),
data anche la possibilità di avvalersi della diversificazione acquistando azioni in diverse
società, i manager (agenti) sono più avversi al rischio (risk averse) per il loro bisogno di un
impiego stabile (Wiseman e Gomez-Mejia, 1998). Questo “risk differential” favorisce
l’instaurarsi di obiettivi conflittuali tra agenti e principali (Jensen e Meckling, 1976). Secondo
Eisenhardt (1989), in questo secondo aspetto la teoria dell’agenzia amplia la letteratura sulla
condivisione del rischio tra individui e gruppi, sviluppatasi in modo particolare a cura degli
economisti tra il 1960 e il 1970.
Diversi sono gli assunti base su cui si fonda la teoria. In primo luogo, viene data per
fisiologica una certa conflittualità tra i diversi obiettivi dei membri dell’organizzazione. In
secondo luogo, viene assunta una visione dell’uomo come essere opportunista guidato dal
proprio interesse egoistico, dotato di razionalità limitata e generalmente avverso al rischio.
Nello svolgere il compito per cui ha ricevuto delega dal principale, l’agente è pronto prima di
tutto a cogliere le opportunità di soddisfare i propri interessi, anche a scapito degli interessi
del suo principale, sfruttando l’asimmetria informativa che caratterizza la relazione
d’agenzia. Infatti, delegando determinate attività, il principale perde il controllo
sull’esecuzione operativa del lavoro, avendo davanti a se due possibilità per potere
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
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recuperare questo gap di conoscenza: da un lato poter osservare direttamente i
comportamenti dell’agente, dall’altro poter misurare i risultati del suo lavoro. Da questo
deriva la terza assunzione base, ovvero che l’informazione viene considerata una
commodity che si può comprare sul mercato: il principale potrà acquisire informazioni sul
comportamento dell’agente e/o sui risultati del suo lavoro ad un determinato costo (ad
esempio implementando sistemi di controllo e monitoraggio quali budget, sistemi contabili,
sistemi di valutazione, ecc.).
Secondo Eisenhardt (1989) sono riconoscibili due filoni di ricerca all’interno della teoria
dell’agenzia: un approccio positivista (positivist agency theory) e un approccio principale-
agente (principal-agent theory). Il primo è focalizzato sull’identificazione delle situazioni in cui
è più probabile che principale e agente si trovino ad avere obiettivi diversi e quindi sulla
descrizione dei meccanismi di governance che possono limitare il comportamento
opportunista dell’agente. Gli studiosi che si collocano in questo filone si sono concentrati in
modo particolare sulla relazione d’agenzia tra la proprietà (azionisti) e i top executive delle
grandi società ad azionariato diffuso (public company). In questa prospettiva Jensen e
Meckling stessi (1976) hanno indagato come la struttura del capitale dell’impresa, ivi
compresa la quota parte concessa ai manager tramite strumenti di equity ownership, sia in
grado di allineare gli interessi dei manager con quelli della proprietà; Fama (1980) ha
affrontato il tema dell’efficienza del mercato dei capitali e del lavoro come meccanismo
informativo utilizzato per controllare il comportamento opportunista dei top executive delle
imprese; Fama e Jensen (1983) hanno descritto il ruolo del consiglio di amministrazione
(board of directors o semplicemente board) come sistema informativo che gli azionisti delle
grandi imprese possono utilizzare per monitorare il comportamento opportunista degli
executive. Secondo Eisenhardt (1989), gli sforzi degli autori di questo filone di ricerca sulla
teoria dell’agenzia sono stati dedicati maggiormente a descrivere i meccanismi di
governance, con particolare focus sulla relazione tra azionisti e Chief Executive Office (di
seguito anche CEO), che a risolvere il problema dell’agenzia in sé.
Il filone principale-agente si focalizza invece su una teoria generale della relazione
d’agenzia, che ad esempio si possa applicare alla relazione tra datore di lavoro e impiegato,
tra avvocato e cliente, tra compratore e acquirente (buyer-supplier), ecc. Rispetto a quello
positivista, il filone principale-agente affronta le questioni in maniera più astratta e attraverso
il linguaggio matematico ed è quindi meno accessibile agli studiosi di organizzazione
(Eisenhardt, 1989). I due approcci sono comunque da considerarsi complementari in quanto
il primo mira di fatto a identificare diverse forme di contratto per governare la relazione di
agenzia mentre il secondo è volto a determinare quale di queste è la più efficiente in un dato
contesto caratterizzato da determinate variabili (ad esempio, il grado di incertezza circa i
risultati dell’attività, l’avversione al rischio dei soggetti coinvolti, la disponibilità di
informazioni).
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
17
Sebbene la prospettiva dominante nella letteratura sulla corporate governance sia la teoria
dell’agenzia (Shleifer e Vishny, 1997; Dalton et al., 1998) vi sono anche altri fondamenti
teorici attraverso i quali gli studiosi affrontano lo studio della materia. Infatti, se da un lato la
teoria dell’agenzia deve il successo alla sua semplicità, che la rende applicabile in contesti
anche molto complessi riportando le questioni a schemi diadici (ad esempio manager e
azionisti), e alla largamente condivisa visione sulla natura dell’uomo come essere egoista ed
opportunista, dall’altro lato non permette di catturare altri aspetti rilevanti del contesto
organizzativo. Una prospettiva contemporaneamente in contrasto e a complemento della
teoria dell’agenzia è la stewardship theory. Se nella prima si afferma che le persone devono
essere controllate affinché agiscano nei migliori interessi dell’impresa, nella seconda si
afferma che le persone agiranno negli interessi dell’organizzazione anche in assenza o con
pochi controlli se sono rispettate alcune condizioni di contesto (Tosi et al., 2003). La teoria
dell’agenzia sottintende un approccio orientato al controllo mentre la stewardship theory
abbraccia un approccio orientato alla collaborazione. Entrambe suggeriscono modalità per
allineare gli interessi di manager (agenti) e azionisti (principali), tuttavia lo fanno da differenti
prospettive in particolare sul comportamento e sulla motivazione delle persone all’interno
delle organizzazioni. In questo senso è possibile riconoscere quella dualità proposta già da
McGregor (1960) nel contesto della scuola della relazioni umane attraverso la classica
Teoria X e Teoria Y. La prima teorizza l’uomo come essere pigro, passivo e non
intrinsecamente motivato a lavorare, e che deve quindi essere controllato. La teoria
dell’agenzia abbraccia questa prospettiva. La stewardship theory si fonda invece sulla Teoria
Y secondo cui l’uomo non è un essere passivo, è intrinsecamente motivato ed è capace di
assumersi responsabilità. I fautori di questa teoria non negano la possibilità di atteggiamenti
opportunistici o egoistici ma riconoscono che esistono diverse situazioni in cui gli agenti
servendo gli interessi dei propri principali perseguono anche i propri interessi personali
(Lane et al., 1998). Ad esempio, la reputazione dei top manager dipende fortemente dalle
perfomance finanziare dell’impresa per cui lavorano; pertanto, al fine di proteggere la propria
reputazione di executive esperti sono inclini ad operare per la massimizzazione degli
indicatori finanziari dell’impresa, massimizzando di fatto anche il rendimento
dell’investimento degli azionisti. In questo senso, i manager possono essere visti come degli
steward dell’impresa. L’obiettivo della stewardship theory è dunque quello di individuare le
caratteristiche del contesto lavorativo che incoraggiano i comportamenti a favore degli
interessi dell’impresa, quali ad esempio la creazione di una cultura del collettivo, la riduzione
delle distanze sociali dovute al potere (power distance) e il favorire il coinvolgimento dei
membri dell’organizzazione (Davis et al., 1997). La dualità dei due approcci è visibile anche
nel fatto che la teoria dell’agenzia si focalizza sulla motivazione estrinseca degli agenti
mentre la stewardship theory punta alla motivazione intrinseca. I meccanismi di governance
tipici della prima sono quindi il monitoraggio e il reporting, in cui il board agisce da
intermediario per gli azionisti, l’auditing e i controlli di natura contabile, le policy, i sistemi di
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
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incentivazione e remunerazione, ecc. La stewardship theory sostiene al contrario che tali
meccanismi, e in modo particolare uno stretto monitoraggio e controllo, possano essere
controproducenti in quanto inibiscono la motivazione degli steward; per questo motivo la
governance dell’impresa dovrebbe essere ottenuta prima di tutto attraverso la creazione di
un ambiente fortemente orientato al committment (Tosi et al., 2003). Per la teoria
dell’agenzia l’accento posto sul tema del controllo implica che il ruolo principale del board è
quello di essere l’ultimo presidio di monitoraggio interno con il compito di supervisionare
l’operato dell’alta direzione dell’organizzazione (Fama, 1980). In questo contesto la presenza
all’interno del consiglio di amministrazione di membri esterni all’organizzazione, quindi
slegati dall’operatività e dalla gestione quotidiana, favorisce l’oggettività (Kosnik, 1987),
mentre la separazione dei ruoli di presidente e CEO (dualità) garantisce un ulteriore livello di
verifica e di bilanciamento (Rechner e Dalton, 1991). L’accento posto sul tema della
collaborazione da parte della stewardship theory implica invece che il ruolo primario del
board debba essere di servizio, fornendo consulenza e supporto alla formulazione della
strategia (Sundaramurthy e Lewis, 2003). I legami sociali tra board e management
dell’impresa favoriscono l’instaurarsi di relazioni di fiducia che permettono ai manager di non
sentirsi soggetti a forti pressioni, evitando il ricorso a interventi di forte impatto più mirati a
catturare il consenso del board che a favorire effettivamente il buon governo dell’impresa
(Westphal, 1999). Allo stesso tempo, se è presente un clima di fiducia, i membri del board
possono esprimere le loro opinioni in via più diretta confidando nel fatto che i manager
terranno adeguatamente conto delle loro considerazioni. Dal punto di vista della
composizione, la presenza nel consiglio di amministrazione di membri interni
all’organizzazione è apprezzata per le competenze e l’expertise degli stessi riguardo le
operations dell’azienda (Baysinger et al., 1991), mentre la doppia carica di CEO e presidente
condensata in un’unica persona favorisce il principio amministrativo dell’unità del comando,
riducendo la conflittualità tra i ruoli, stabilendo una chiara linea di autorità nei processi
decisionali e rassicurando al contempo gli azionisti (Finkelstein e D’Aveni 1994). La Figura 8
riassume i due differenti approcci teorici allo studio della corporate governance.
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
19
Figura 8 Approcci alla corporate governance (Adattato da: Sundaramurthy e Lewis, 2003)
Se la teoria dell’agenzia è dunque appropriata per concettualizzare il ruolo di controllo e
monitoraggio, non è tuttavia sufficiente a spiegare anche le funzioni di risorsa, servizio e il
ruolo strategico ricoperto dal board (Daily et al., 2003). Il consiglio di amministrazione oltre
ad essere uno strumento a disposizione degli azionisti di una impresa può infatti essere
anche visto come un facilitatore dell’approvvigionamento di risorse al di fuori del confine
organizzativo, fungendo da confine tra l’ambiente esterno e l’azienda. L’accesso a queste
risorse, garantito da parte del board, rafforza il funzionamento dell’organizzazione, le
performance dell’impresa e ne favorisce quindi la sopravvivenza sul mercato (Daily et al.,
2003). In questa ottica, la corporate governance dell’impresa è analizzata secondo la
prospettiva della teoria della dipendenza dalle risorse. Ad esempio, i membri del board che
provengono dall’esterno dell’organizzazione e che sono executive presso altre imprese nel
settore finanziario possono garantire un migliore accesso al credito (Stearns e Mizruchi,
1993). Invitare nel consiglio di amministrazione un partner di uno studio associato può
garantire la possibilità di avvalersi di consulenze legali al di fuori di costosi contratti di
consulenza e direttamente all’interno degli incontri periodici del consiglio. La ricerca ha
indicato che in situazioni di crisi una grande rappresentanza all’interno del board di membri
esterni all’organizzazione aiuta nel reperimento di quelle risorse e informazioni di valore
necessarie al superamento della fase critica (Daily e Dalton, 1994).
Altre prospettive teoriche sono individuabili all’interno degli studi sulla corporate governance
(Daily et al., 2003) anche se la teoria dell’agenzia rimane prevalente. Ad esempio, vi è il
punto di vista offerto dallo studio sulle relazioni di potere che nell’ambito del dibattito sulla
governance si focalizza in modo particolare sulla relazione tra CEO e board dell’impresa.
Negli studi sulla successione dei CEO i ricercatori spesso ricorrono alle teorie sul potere per
spiegare il processo di successione stesso (si veda ad esempio Shen e Cannella, 2002).
Sebbene il board sia dal punto di vista legale l’entità con maggiore potere all’interno
CONTROLLO COLLABORAZIONE
Agency Theory
(economia e finanza)Basi teoriche
Stewardship theory
(sociologia e psicologia)
Assunzioni
IndividualismoOpportunismo
Attitudini dell’uomoCollettivismo
Collaborazione
Estrinseca Motivazione Intrinseca
Interessi in conflitto (“risk differential”)Assenza di fiducia
Relazione principale-agente (azionista-manager)
Interessi allineati (identificazione con l’impresa)Fiducia
Prescrizioni
Disciplinare e monitorare Ruolo primario del board Supporto e consulenza
Membri esterni all’impresaSeparazione tra CEO e presidente
Struttura del board
Membri interni all’impresaLegami sociali
CEO
Riduce la conflittualità degli interessi, riduce il risk differential
Proprietà del capitale da parte degli executive
Favorisce l’identificazione con l’impresa e le relazioni di lungo termine
Vincola i comportamenti opportunisticiMeccanismi di mercato per il controllo a livello corporate
Limita il coinvolgimento a livello psicologico
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
20
dell’impresa, nella relazione con il CEO esistono una serie di fattori che operano una
riduzione del suo potere. Ad esempio, il CEO può rimuovere dai propri incarichi alcuni
papabili candidati proprio prima della sua successione, esercitando quindi una certa
influenza sul processo (Cannella e Shen, 2011). Un altro fattore che può intervenire nella
relazione tra CEO e board è il momento della nomina dei consiglieri di amministrazione: i
membri entranti in carica durante il mandato di un certo CEO potrebbero sentirsi in debito
verso lo stesso e quindi essere meno portati a contrastarlo (Monks e Minow, 1991; Wade et
al., 1990). Secondo Jackson (2000) la corporate governance riflette le relazioni di potere e le
forze politiche stabilitesi tra azionisti, creditori, management e forza lavoro in un dato
contesto istituzionale e storico.
Daily et al. (2003) sottolineano comunque come i temi del controllo sugli executive e della
necessità di indipendenza della funzione di supervisione sugli stessi, esercitata dal board,
abbiano dominato la ricerca e la pratica della disciplina sulla corporate governance. Tuttavia
evidenziano anche come via sia un certa scarsità di evidenze empiriche sull’effettiva utilità di
questi approcci dal punto di vista di una prospettiva orientata all’azionista dell’impresa. Per
questo motivo suggeriscono l’utilizzo di teorie e modelli alternativi per lo studio della
disciplina al fine di poterne sfruttare tutti i potenziali. Infatti, dal punto di vista delle
implicazioni manageriali, la ricerca sulla corporate governance si è tradotta principalmente in
riforme circa la strutturazione, la composizione e l’indipendenza dei board, la separazione
delle massime cariche dell’impresa (CEO e chairman), l’imposizione di limiti di età e di
durata per le cariche di consiglieri di amministrazione, la definizione dei sistemi di
remunerazione e incentivazione del top management delle imprese. Daily et al. (2003)
propongono quindi tre direzioni per sviluppare la ricerca sulla corporate governance.
Sebbene il ruolo di supervisione del board sia un punto focale della disciplina (Johnson et
al., 1996), tanto che Jensen (1993) lo definisce l’apice del sistema di controllo interno, non è
stata ancora ad esempio rivelata una significativa relazione tra l’indipendenza del board e le
performance finanziarie dell’impresa (Dalton et al., 1998). Forse questo si spiega con
l’eccessiva attenzione verso il ruolo di controllo a scapito degli altri ruoli che il consiglio di
amministrazione può avere; Daily et al.(2003) suggeriscono pertanto, come prima direzione
per sviluppi futuri della ricerca, di focalizzarsi anche sull’assistenza che i consiglieri
forniscono all’impresa nell’essere fonti di accesso a risorse di valore e consulenti a servizio
del CEO. Per poter ampliare la visuale sulle funzioni del board è necessario però
abbracciare anche nuovi fondamenti teorici rispetto alla teoria dell’agenzia, quali ad esempio
la stewardship theory o la resource dependence theory. Un secondo filone suggerito dagli
autori riguarda invece l’attivismo degli azionisti e in particolare lo studio dei processi
attraverso i quali cercano di istituire cambiamenti nella governance dell’impresa. Infine il
terzo indirizzo di ricerca proposto riguarda il governo delle imprese in crisi, finanziaria o di
altro tipo, cercando quindi di comprendere quali sono le strutture di governance che
permettono alle imprese di riemergere da tali situazioni critiche.
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
21
Sebbene la definizione di corporate governance coincida di fatto con il modo in cui una
impresa è diretta e controllata, assumendo quindi un carattere generalista, la maggior parte
degli studi presenti nella letteratura accademica focalizza la sua attenzione sul vertice della
piramide della gerarchia organizzativa. Tuttavia, il temine corporate governance, grazie
soprattutto anche alla forte spinta normativa sviluppatasi negli ultimi decenni, viene spesso
associato nella pratica, fino quasi a farlo coincidere, con i temi del controllo interno e della
gestione dei rischi (Spira e Page, 2003; Arena et al., 2010). Come già descritto
nell’introduzione a questo lavoro, in risposta ai mutamenti degli scenari competitivi e ai
numerosi scandali finanziari degli ultimi decenni, gli organi di controllo delle principali Borse
Valori, le autorità di vigilanza, specialmente nel settore finanziario, e diverse associazioni di
categoria hanno emanato linee guida e codici di condotta in materia di corporate
governance, riservando al tema del risk management una posizione di primo piano (Giorgino
e Travaglini, 2008). Primo fra tutti, nel 1991 il London Stock Exchange (LSE) ha istituito il
“Committee on the Financial Aspects or Corporate Governance”, i cui obiettivi erano
migliorare gli standard di reporting al pubblico e di controllo interno sulla gestione delle
imprese. Il percorso logico seguito dal comitato è stato il seguente: un miglioramento della
corporate governance avrebbe garantito una elevata qualità dell’informativa esterna e quindi
il mantenimento della fiducia degli investitori con conseguente incremento delle performance
aziendali. A partire dalla sua pubblicazione nel 1992 il già citato “COSO Report”, che
individua tra le cinque componenti fondamentali di un sistema di controllo interno la
valutazione dei rischi, viene assunto come framework di riferimento in tema di governance
dalla maggior parte delle emanazioni normative e dei codici di auto-regolamentazione in
diversi paesi del mondo. Questo passaggio dichiara ufficialmente il legame fra le due
discipline. Secondo Bhimani (2009) i concetti di rischio e di governance hanno influenzato in
maniera estensiva, se non addirittura definito, molti dei modelli gestionali messi oggi in atto
dalle imprese. Lo stesso autore sostiene quindi che sia inefficace considerare il controllo
organizzativo come distintamente separato e indipendente dagli aspetti di gestione dei rischi
e di corporate governance (“It is inept to consider management control as being distinctly
separate and independent from risk management or corporate governance concerns”).
Grazie alla sua inclusione all’interno dei temi del controllo interno e della governance
d’impresa, il concetto di rischio ha quindi assunto una aspirazione più ampia e sistemica
(Power, 2007).
1.2.2 Definizioni, teorie e percezioni di rischio
Il dibattito sulla corporate governance chiama in causa il concetto di rischio come un
elemento che può oggettivamente essere identificato e valutato e quindi successivamente
strategicamente gestito; tuttavia secondo Spira e Page (2003) tale concetto è ancora troppo
mutevole e vagamente definito.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
22
Gahin (1967) evidenzia come il processo logico che qualsiasi teoria o modello di gestione
dei rischi dovrebbe seguire debba invece prevedere come punto di partenza la definizione di
come viene concepito/inteso il rischio. Se ad esempio esso viene concettualizzato come la
probabilità di incorrere in una perdita allora la misurazione del rischio si concentrerà sulla
quantificazione di questa possibilità mentre la gestione e controllo saranno dirette a
considerare i vari strumenti che minimizzano tale perdita nella maniera più efficiente
possibile. Le più ricorrenti definizioni di rischio si riferiscono ai concetti di incertezza, di
variabilità rispetto ad un fenomeno (ad esempio il rendimento di un investimento), di
possibilità di perdita o danno (hazard). Gahin (1967) mette in luce come molte di queste
definizioni facendo ricorso a dimensioni soggettive, come l’incertezza, il dubbio, la
preoccupazione, rendano difficile la misurabilità del rischio.
Wood (1964) riconosce il merito di aver per primo trattato il tema del rischio in ambito
economico a John Haynes che nel 1895 scrive:
“The word risk has acquired no technical meaning in economics, but signifies
here as elsewhere chance of damage or loss. The fortuitous element is the
distinguishing characteristic of a risk. If there is any uncertainty whether or not
the performance of a given act will produce a harmful result, the performance of
that act is the assumption of a risk.”
Allan H. Willett è invece riconosciuto come il primo studioso a trattare, nel suo classico “The
Economic Theory of Risk and Insurance” pubblicato originariamente nel 1901, il tema del
rischio e dell’assicurazione. Willett è stato anche il primo a riconoscere l’esistenza di un
problema nel distinguere il rischio dall’incertezza e che nella definizione di rischio sono
coinvolti aspetti sia di natura oggettiva sia di natura soggettiva (Wood, 1964). Knight nel suo
seminale lavoro “Risk, Uncertainty and Profit” (1921) è stato invece il primo autore a
spiegare la distinzione tra rischio e incertezza:
“To preserve the distinction [...] between the measurable uncertainty and an
unmeasurable one, we may use the term 'risk' to designate the former and the
term 'uncertainty' for the latter. The word 'risk' is ordinarily used in a loose way
to refer to any sort of uncertainty viewed from the standpoint of the unfavorable
contingency, and the term 'uncertainty' similarly with reference to the favorable
outcome; we speak of the ‘risk' of a loss, the 'uncertainty' of a gain [...] We can
also employ the terms 'objective' and 'subjective' probability to designate the
risk and uncertainty respectively, as these expressions are already in general
use with a signification akin to that propose.”
Per Knight quindi il rischio è un tipo di incertezza misurabile; in altre parole si può parlare di
rischio quando esistono sufficienti conoscenze empiriche per calcolare la probabilità dei
diversi possibili risultati di un dato fenomeno considerato. L’incertezza esiste invece quando
la scarsità di informazioni e omogeneità delle stesse impedisce la formulazione di qualsiasi
probabilità oggettiva sui possibili risultati del fenomeno (Wood, 1964). Anche Pfeffer (1956)
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
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distingue il rischio dall’incertezza: quest’ultima è uno stato mentale relativo ad uno specifico
fatto e riflette, oltre al grado di conoscenza in merito allo stesso, i sentimenti, le convinzioni
fondamentali ed i credo della persona che lo sta valutando. L’incertezza pertanto varia da
persona a persona e per ogni singolo individuo varia da momento a momento. Al contrario,
la probabilità:
“... is an objective relationship between classes of evidence, which may be
measured in terms of the limits of frequencies in some instances and in terms of
the 'weight of the evidence' in others. The probability of the occurrence of an
event is the same for everyone, given that the state of knowledge is the same.”
Il rischio è quindi da considerarsi una combinazione di eventi potenzialmente dannosi
(hazards) ed è misurabile dalla probabilità di accadimento degli stessi. L’incertezza è invece
misurata da un certo grado di “credenza” (degree of beliefs) rispetto ad un dato fenomeno.
Se l’incertezza è uno stato mentale il rischio è invece un stato del mondo reale (Pfeffer,
1956).
Wood (1964) rileva dunque che in letteratura vi sono tre approcci prevalenti alla sua
definizione: rischio come possibilità di perdita, rischio come incertezza, rischio come o
possibilità o incertezza di una perdita; tuttavia ritiene che solo la prima sia la più pertinente.
A sostegno di questa affermazione riporta questo esempio: un bambino può essere
totalmente inconsapevole del rischio di restare fulminato se inserisce le dita in una presa di
corrente; pertanto non può avere incertezze o dubbi sull’esito della sua azione in quanto non
ne conosce le possibili conseguenze. Non per questo possiamo dire che il rischio è assente
in quanto non vi è incertezza da parte del bambino. Il rischio è semplicemente sconosciuto al
bambino. Pertanto il secondo approccio alla definizione, che eguaglia il rischio all’incertezza,
non sembra adeguato. Se il rischio è invece conosciuto, ognuna delle persone che può
essere impattata dal rischio può avere diverse incertezze al suo riguardo. Ad esempio, due
persone che possiedono case confinanti tra loro e vicine ad un impianto industriale sono
soggette alla stessa probabilità che una esplosione nello stabilimento possa danneggiare le
loro abitazioni, dando ad esempio origine ad un incendio. Tuttavia ciascuna delle due
persone può avere differenti gradi di certezza o incertezza riguardo all’ammontare della
perdita potenziale (ad esempio uno dei due potrebbe aver installato un sistema anti-
incendio). La probabilità della perdita è pertanto uguale per entrambe, mentre le incertezze
circa l’ammontare della stessa variano da momento a momento e da persona a persona.
Alla luce di ciò, il secondo approccio alla definizione di rischio non è ritenuto adeguato da
Wood (1964): l’incertezza è un fattore soggettivo mentre il rischio è un fattore oggettivo del
mondo. Per quanto riguarda il terzo approccio alla definizione, l’autore sottolinea che si tratta
di un compromesso che non aggiunge chiarezza al significato di rischio.
Miller (1992) evidenzia la stessa mancanza di una definizione univoca e generalmente
accettata di rischio anche nel campo dello strategic management all’interno del quale il
termine viene per la maggior parte delle volte associato ad una non prevedibile variazione o
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
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variazione negativa (downside risk) in una variabile legata ai risultati delle attività di
business, quali i ricavi, i costi, i profitti, le quote di mercato, e così via. Misure di rischio
adottate dai ricercatori in questa disciplina sono ad esempio la varianza e la deviazione
standard di grandezze quali il return on equity (ROE) e il return on asset (ROA), la volatilità
dei rendimenti azionari, ecc. Questa concezione di rischio come non prevedibile variazione
nelle performance è ampiamente usata anche in finanza ed economia.
La teoria economica classica mette in relazione il rischio al rendimento postulando che livelli
di performance economico-finanziaria superiori vengano raggiunti se si è disposti ad
assumersi maggiori rischi (Jemison, 1987; Jergers, 1991). In sostanza si stratta del principio,
generalmente accettato nella teoria dei processi decisionali, secondo cui a parità di altre
condizioni un decisore preferisca tra più alternative quella con il massimo risultato atteso
così come a parità di risultato atteso e altre condizioni preferisca l’alternativa con il minor
rischio. La correlazione con l’attrattività di una scelta è quindi ipotizzata positiva per il
rendimento atteso e negativa per il rischio. Pertanto, tanto più rischiosa è una alternativa
tanto più alti devono essere i risultati attesi dalla stessa affinché vi sia attrattività nello
sceglierla, ovvero, nelle parole di Bowman (1980), “risk must carry its own reward”. Anche
nella teoria classica dei processi decisionali il rischio è comunemente concepito come una
variabilità nella distribuzione dei possibili risultati di un dato fenomeno, nella loro probabilità
e nei valori che soggettivamente si ritiene possano assumere (March e Shapira, 1987).
L’idea di rischio è quindi in questo contesto inglobata nella più ampia idea di scelta
condizionata dai risultati attesi delle diverse alternative.
Tuttavia diverse ricerche empiriche (ad esempio Fiegenbaum e Thomas, 1988) sembrano
smentire questo postulato della teoria economica classica, mostrando come sia spesso
rilevabile una correlazione negativa tra rendimento (return), rappresentativo del livello delle
performance e quindi dei risultati di una data attività di impresa, e il rischio, cioè la variabilità
di quel livello e quindi di quei risultati. Questo fenomeno viene etichettato come il paradosso
della relazione rischio-rendimento (risk-return paradox) ed è spiegato da Bowman (1980).
Imprese caratterizzate da alti livelli di rendimento (return) dimostrano di avere in realtà bassi
livelli di rischio, ovvero bassa variabilità nei livelli di rendimento. Bowman porta questa
spiegazione del paradosso: imprese con minori livelli di rischio e maggiori livelli di
rendimento (per l’impresa stessa) sconteranno sul mercato un prezzo delle loro azioni
maggiore riducendo pertanto il rendimento per il possessore/compratore di quelle azioni e
ripristinando il postulato della teoria economica classica. Il paradosso quindi si spiega
osservando la dimensione rischio da due prospettive diverse: quella dell’azionista e quella
dell’impresa. Bowman (1980) afferma che il concetto di rischio cattura l’incertezza, o più in
particolare, la distribuzione di probabilità associata ai risultati provenienti dall’impiego di
determinate risorse. L’aggregazione dei risultati derivanti dall’aver impegnato queste risorse
produce variabilità nei rendimenti: mentre il rischio è un concetto che può essere considerato
ex-ante, cioè prima dell’impiego delle risorse, gli effetti e l’aggregazione dei risultati possono
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
25
essere valutati solo nel tempo, cioè ex post. Secondo Bowman questo motivo spiega perché
la variabilità dei profitti sia una misura di rischio accettata nel campo dello strategic
management.
Anche Ball e Brown (1969) sottolineano come il rischio sia un concetto ex-ante che tuttavia
può essere effettivamente misurato solo ex-post. I manager devono invece trattare il rischio
come un fenomeno continuo nel tempo e per questo le loro decisioni sono influenzate sia da
esperienze “ex-post” (i cui risultati possono essere misurati contabilmente) sia da assunzioni
“ex-ante” circa le loro esperienze future (Jemison, 1987). Questo elemento aggiunge
complessità alla trattazione di un tema che già dimostra una certa variabilità di prospettive
proprio a partire dalle sue fondamenta, ovvero dalla definizione di rischio. In aggiunta a ciò,
March e Shapira (1987) riportano alcuni risultati di una ricerca riguardo il comportamento e
le attitudini dei manager rispetto al rischio all’intero dei processi decisionali. In particolare
evidenziano come:
● le persone tendono a ignorare possibili eventi che hanno probabilità di accadimento
molto basse o remote a prescindere dalle loro possibili conseguenze (impatti);
● le persone tendono a visualizzare solo alcuni risultati possibili piuttosto che la loro
intera distribuzione e misurano quindi la variabilità rispetto a questo insieme ristretto
di risultati (Alderfer e Bierman, 1970);
● le persone si trovano più a loro agio con delle caratterizzazioni verbali dei rischi
piuttosto che con quelle numeriche, anche se la traduzione delle prime nelle seconde
manifesta spesso alta variabilità e dipendenza dal contesto (Budescu e Wallsten,
1985).
Inoltre, la loro ricerca mostra in primo luogo come generalmente i manager associano il
rischio a dei risultati negativi. Ecco quindi che c’è una persistente tensione tra il rischio come
misura (ad esempio la varianza) sulla distribuzione dei possibili risultati derivanti da una
scelta e il rischio come potenziale pericolo o danno. Dalla prima prospettiva una scelta
rischiosa è quella con un’ampia gamma di risultati possibili mentre nella seconda prospettiva
è una scelta che contiene la minaccia di avere tra le sue possibilità un risultato molto scarno
(March e Shapira, 1987). In secondo luogo, per i manager il rischio non è in prima battuta un
fattore di probabilità: la magnitudo dei possibili risultati negativi è il fattore che viene
maggiormente e primariamente considerato. In terzo luogo, sebbene quando vengono usati
termini quantitativi per parlare di rischi i manager cerchino di stimarli con precisione, la
maggior parte dimostra poca propensione a ridurre il rischio ad un singolo costrutto
quantificabile. Infatti, riconoscendo che dietro ad un determinato rischio vi possono essere
diversi fattori (ad esempio finanziari, tecnico-produttivi), la maggior parte dei manager
intervistati ha dimostrato una certa difficoltà a ridurre il concetto di rischio ad un singolo
valore numerico o ad una singola distribuzione, sebbene una certa parte abbia riconosciuto
che non solo questa traduzione di un concetto multidimensionale in un singolo numero è
possibile ma è in aggiunta auspicabile (March e Shapira, 1987).
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
26
La tendenza a dare una minor importanza alla probabilità di accadimento rispetto al risultato
atteso è associabile ad un fenomeno attitudinale tipico che prende il nome di loss aversion
(Kahneman e Tversky, 1982). Per spiegare questo fenomeno è utile compiere una premessa
che riguarda la teoria del doppio processo. Numerosi studi compiuti nell’ambito delle
neuroscienze affermano che l’essere umano è dotato di due sistemi di ragionamento
coesistenti e in competizione tra loro (Attia e Hilton, 2011). Il primo sistema, “euristico”2, è
quello che ciascun individuo utilizza di default e la cui applicazione non richiede alcuno
sforzo. Si fonda su meccanismi di elaborazione automatica e rapida delle informazioni e
funziona in modalità associativa e intuitiva; ha una base affettiva e lascia ampio spazio
all’aspetto emotivo dell’esperienza individuale (gut feelings). Il secondo sistema, analitico, è
invece più lento e viene attivato in maniera controllata e volontaria richiedendo un notevole
sforzo cognitivo. È quello che consente di mettere in atto le strategie analitiche e i
ragionamenti formali imprescindibili per giungere alla razionalità dei modelli normativi. Nel
corso dell’evoluzione il primo sistema (euristico) ha permesso all’uomo di sopravvivere; man
mano che l’habitat si è fatto più complesso sono stati introdotti gli strumenti analitici
(secondo sistema) per potenziare la razionalità del suo sistema esperienziale (Attia e Hilton,
2011). Sebbene gli aspetti emotivi siano stati storicamente considerati degli ostacoli alla
razionalità3 oggi l’emotività viene considerata assolutamente necessaria al processo
decisionale, tanto che in sua assenza l’uomo non può essere razionale (Damasio, 1994).
Tuttavia, come se fosse un paradosso, pur essendo un elemento necessario alla decisione,
l’emotività può indurre all’irrazionalità (Attia e Hilton, 2011). Infatti, l’attivazione del primo
sistema a scapito del secondo porta all’utilizzo delle cosiddette “euristiche”, una sorta di
scorciatoie cognitive nel percorso del ragionamento o di “regole empiriche” (Attia e Hilton,
2011):
“in generale queste euristiche funzionano correttamente ma in alcuni casi
possono rivelarsi molto dannose per il processo decisionale determinando
l’insorgere di distorsioni nell’ambito della razionalità normativa (come per
esempio una distorsione nella stima della probabilità).”
Nell’ambito del processo decisionale in contesto di rischio e di incertezza queste euristiche
portano a dei tipici effetti di distorsione della razionalità che sono in modo particolare oggetto
di studio della finanza comportamentale. In questo campo la teoria del prospetto (prospect
theory) di Kahneman e Tversky (1979)4 ha introdotto la componente cognitiva e la
considerazione del ruolo della soggettività individuale nella stima dei guadagni, delle perdite
e delle probabilità percepite (Attia e Hilton, 2011). Nella teoria economica classica l’individuo
massimizza la propria utilità totale, che risulta dal prodotto dei risultati attesi (funzione di
2 Il termine euristica deriva dal greco e significa “metodo atto a scoprire”. 3 Platone attribuiva all’emozione un unico ruolo, cioè quello di pervertire la ragione; Cartesio stabiliva il netto dualismo tra mente e corpo; per Kant le emozioni e le passioni erano fenomeni “patologici”. 4 La teoria del prospetto è valsa a Kahneman il premio Nobel per l’economia nel 2002 (Tversky è purtroppo scomparso nel 1996).
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
27
valore) ponderati per le loro rispettive probabilità (funzione di ponderazione); le due funzioni
sono considerate indipendenti. La teoria del prospetto è invece una teoria “soggettiva” che si
pone in alternativa; asserisce ad esempio che la percezione di una perdita è molto più
intensa della percezione di un guadagno di pari valore; questa asimmetria tra la percezione
soggettiva delle perdite e dei guadagni spiega l’avversione alle perdite precedentemente
citata; la loss aversion porta a sua volta i manager a considerare meno importante la stima
della probabilità di un evento rischioso rispetto alla stima dei sui possibili effetti. La teoria del
prospetto afferma inoltre che le funzioni di valore e di ponderazione non sono affatto
indipendenti: la percezione soggettiva delle probabilità dipende dal valore affettivo che
l’individuo associa agli esiti attesi. Per questo motivo vi è la tendenza a sovraponderare le
probabilità oggettivamente basse (meccanismo di funzionamento delle lotterie a premi) e a
sottoponderare le probabilità oggettivamente elevate. Ad esempio, la prospettiva affettiva di
poter “sistemare per la vita” la propria famiglia è il meccanismo che spinge le persone a
convincersi che le probabilità di una vincita al Superenalotto siano molto maggiori di quanto
il calcolo matematico afferma. Un altro elemento centrale nella teoria del prospetto è legato
ai cosiddetti effetti di incorniciamento (framing): le prospettive rischiose vengono valutate
non tanto in termini di risultato assoluto ma in termini di variazioni dei risultati rispetto ad un
punto di riferimento (Jegers, 1991). Questo punto di riferimento è mentale e neutro, rientra in
una sfera altamente soggettiva ma diventa altresì un elemento molto importante del
processo decisionale in condizioni di rischio (Attia e Hilton, 2011). Questo aspetto concorre
anche a spiegare il paradosso del rendimento-rischio: le imprese che ottengono risultati al di
sotto di un livello soglia sono più propense al rischio, nel tentativo di risollevare le proprie
performance, mentre quelle che ottengono risultati al di sopra di un certo obiettivo sono più
avverse al rischio.
Nell’ambito della concezione del rischio come perdita o danno, Gahin (1967) propone di
definirlo come la massima perdita potenziale (maximum potential loss) di un evento
specifico; in termini statistici è rappresentata da quel valore di perdita che può essere
superato con una determinata probabilità pari a ε. Con il termine evento specifico si intende
sia un specifico singolo pericolo sia uno specifico risultato di perdita, come ad esempio le
perdite da un incendio in un edificio, i mancati profitti per la perdita di personale chiave, un
reclamo per un difetto di prodotto, ecc. La massima perdita potenziale è distinta dalla
massima perdita possibile (maximum possible loss) e dalla massima perdita probabile
(maximum probable loss). La prima infatti (massima perdita possibile) si riferisce al caso
peggiore (worst case) che si può manifestare per quanto bassa possa essere la sua
probabilità di verificarsi (valore molto piccolo ma comunque maggiore di zero). La seconda
(massima perdita probabile) si riferisce invece alla perdita che più probabilmente si
manifesterà, anche se questa maggiore probabilità di accadimento è definita in maniera
arbitraria. La massima perdita possibile costituisce quindi un tetto alla massima perdita
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
28
potenziale definita da Gahin (1967) che pur riconoscendo una certa similarità tra le due
ritiene che non possano essere oggettivamente confrontate fra loro.
Giorgino e Travaglini (2008) si avvalgono ancora dei concetti di certezza e incertezza per
definire il rischio. Affermano infatti che una decisione viene presa in condizioni di “certezza”
quando si riferisce a una situazione ambientale perfettamente nota in anticipo; il soggetto
agisce quindi in un contesto deterministico ed è in grado di applicare un modello decisionale
che, in relazione alle condizioni al contorno note, gli consente di valutare le diverse
alternative rispetto alla propria funzione obiettivo e di scegliere la migliore. Una decisione
viene invece presa in condizioni di “rischio” quando si riferisce a più situazioni ambientali,
ognuna delle quali esclude le altre; in questo caso sono note le probabilità di accadimento
dei singoli scenari, così come i risultati associabili a ciascuno di essi; il decisore utilizza
quindi un modello decisionale probabilistico e la scelta dell’alternativa dipende dai risultati
probabilistici validi per ogni coppia probabilità/risultati degli scenari. Infine, una decisione
viene presa in condizioni di “incertezza” quando esiste un numero elevato di situazioni
ambientali e non si è in grado di conoscere in anticipo né la probabilità assegnabile a
ciascuno scenario né la dimensione dei risultati potenziali; il soggetto decisore deve fare
ricorso alla propria esperienza e alla propria capacità previsionale per giungere a una
decisione. Per Giorgino e Travaglini (2008) il rischio è la distribuzione dei possibili
scostamenti dai risultati attesi per effetto di eventi di incerta manifestazione, siano essi
interni o esterni al sistema considerato.
Anche Boholm (2008) si richiama alla relazione tra rischio e incertezza affermando che il
primo serve a inquadrare la seconda attraverso una prospettiva scientifica, aiuta cioè a
tradurre un campo aperto di possibilità non prevedibili in un insieme limitato di possibili
conseguenze che possono essere valutate dall’uomo tramite un ragionamento scientifico. Il
rischio è matematicamente definibile come il prodotto della probabilità statistica di un dato
risultato in combinazione (prodotto) con l’impatto (severity) del suo effetto misurato in termini
di perdita economica (anche se altre misure sono possibili come ad esempio il numero di
casi di morte, malattia o incidenti). L’incertezza, concepita come rischio, può quindi essere
valutata, determinata, calcolata e confrontata in astratto (Boholm, 2008). Tuttavia un’altra
distinzione tra rischio e incertezza è possibile: secondo Rosa (1998) sebbene il concetto di
rischio attinga dal dominio dell’incertezza, affinché ci sia rischio deve esserci un qualche
oggetto sottoposto ad un evento che minaccia di farne perdere valore (“a value at stake”) e
per cui gli esiti di tale evento sono incerti. Il concetto di rischio è quindi una costruzione
sociale dell’individuo resa possibile dal fatto che quell’individuo attribuisce un valore
all’oggetto sottoposto al rischio. Boholm (2008) fa notare che l’idea che il rischio sia
socialmente e culturalmente costruito e che quindi varii in funzione delle strutture sociali e
dei sistemi valoriali è stata per prima sostenuta da Mary Douglas (1985, 1992) nella sua
critica alla ricerca psicologica sulla percezione del rischio. Hilgartner (1992) osserva che
nella definizione di un particolare rischio sono inclusi almeno tre elementi:
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
29
● un oggetto che si ritiene possa causare il rischio;
● un ipotetico danno (putative harm);
● un legame che definisce una certa causalità tra l’oggetto e l’ipotetico danno.
Secondo Boholm e Corvellec (2011) l’analisi di Hilgartner è un vero e proprio framework per
comprendere il rischio come fenomeno sociale, ovvero per comprendere il perché qualcosa
viene definito o non definito come un rischio. In sostanza si tratta riformulare la domanda da
“Cos’è un rischio?” a “Come comprendono le persone che qualcosa è un rischio?”. Boholm e
Corvellec (2011) propongono quindi una teoria relazionale del rischio (relational theory of
risk) che stabilisce una “relazione di rischio” (relationship of risk) tra una possibile oggetto di
rischio (risk object) e un possibile oggetto a rischio (object at risk). La relazione di rischio
stabilisce quindi che in una maniera causale e contingente l’oggetto di rischio viene
considerato, in qualche modo e in certe circostanze, una minaccia per un oggetto a rischio.
La valutazione riguardo al fatto che un evento (risk object) possa avere o non avere
conseguenze negative su un oggetto a rischio assume significato solo nel momento in cui si
è prima attribuito, esplicitamente o no, una certa forma di valore a quell’oggetto (Corvellec,
2010). Concetti quali danno, pericolo e conseguenze avverse sono tutti necessari per la
costruzione di ciò che è il rischio, e tutti questi concetti, più o meno esplicitamente,
presuppongo il concetto di valore: per ribadirlo in parole semplici, affinché un oggetto sia
considerabile a rischio gli deve essere stato assegnato un certo valore (Boholm e Corvellec,
2011). Gli oggetti di rischio (risk object) richiamano in qualche modo i pericoli, nel senso che
si riferiscono a qualcosa che è identificato come potenzialmente dannoso; possono essere
fenomeni naturali, manufatti, comportamenti; la classificazione nella categoria “oggetti di
rischio” dipende da condizioni di possibilità all’interno del mondo naturale e sociale (Boholm
e Corvellec, 2011). La relazione di rischio tra l’oggetto di rischio e l’oggetto a rischio viene
attribuita da uno osservatore esterno: riflette pertanto la sua conoscenza e comprensione dei
due elementi messi in relazione. È una relazione causale socialmente costruita anche se ciò
non significa che essa manca di corrispondenza con la realtà del mondo esterno ma
piuttosto che stabilisce degli stati potenziali che gli oggetti possono assumere. Il rischio è
una proposizione riguardo ad un cambiamento che può avvenire ma che non
necessariamente avviene. Infine, i tre elementi (risk object, object at risk, relationship of risk)
non sono definiti uno alla volta ma in maniera simultanea per essere assemblati a costituire il
costrutto del rischio (Boholm e Corvellec, 2011).
L’excursus effettuato evidenzia quanto affermato da Jemison (1987): “risk is an elusive
concept with many interpretations”. La stessa varietà rinvenibile nella definizione del
concetto di rischio è rintracciabile anche nella caratterizzazione delle diverse tipologie di
rischi. Giorgino e Travaglini (2008) riportano alcuni esempi di classificazione dei rischi. Vi
sono ad esempio i rischi dinamici contrapposti a quelli statici: I primi derivano dal
cambiamento del contesto economico e dipendono sia dall’evoluzione delle variabili esterne
– economia, concorrenti sul mercato, ecc. – sia dalle decisioni interne del management
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
30
(Forestieri, 2005). Sono difficilmente prevedibili e generano una potenziale perdita di profitti.
I rischi statici invece occorrono a prescindere dall’evoluzione del contesto competitivo in cui
opera l’impresa dipendendo esclusivamente da fattori interni. Sono prevedibili e si verificano
con una certa regolarità: pertanto sono adatti al trasferimento sul mercato assicurativo.
Un’altra classificazione proposta divide i rischi sistematici (o non diversificabili) dai rischi
diversificabili (Cattaneo e Caprio, 1999). Nei rischi sistematici rientrano le principali variabili
macroeconomiche e/o finanziarie, l’andamento dei tassi d’interesse, l’inflazione, ecc. Spesso
le fonti di rischio sistematico sono “sintetizzate” nel cosiddetto rischio di mercato. Tali rischi
non possono essere eliminati o ridotti attraverso la diversificazione. I rischi diversificabili
possono essere invece ridotti o eliminati attraverso la diversificazione, che consiste
nell’assumere un’esposizione a diverse variabili aleatorie non perfettamente correlate tra
loro al fine di ridurre la variabilità complessiva attraverso la compensazione dei rischi
(Williams et al., 1995). Vi sono poi i rischi puri e quelli speculativi. I primi sono quelli per cui
le conseguenze sono solo di tipo negativo. Tali rischi sono indipendenti dai processi
decisionali, ovvero possiedono un carattere di imprevedibilità eccezionale avvenendo
all’interno di un processo la cui articolazione è nota e portando conseguenze dannose
(Petroni, 1996). I rischi puri si prestano ad essere gestiti mediante il procedimento
assicurativo. I rischi speculativi presuppongono invece la consapevolezza del management
nel sostenere un rischio che può potenzialmente dare origine a un utile (upside risk) ma che
alternativamente potrebbe comportare anche una perdita (downside risk). I rischi speculativi
sono quindi dipendenti dai processi decisionali e possono rappresentare alternativamente
una opportunità o un danno; per questo motivo sono difficilmente assicurabili. Giorgino e
Travaglini (2008) distinguono anche tra rischi core e non core. I primi sono rischi connaturati
al tipo di attività svolta che non possono essere trasferiti e che se gestiti adeguatamente
possono generare extra-rendimenti. Sono gestibili tramite scelte strategiche, organizzative,
ecc. I secondi sono rischi ai quali l’impresa si espone come conseguenza dell’attività svolta e
che possono essere gestiti come i rischi puri o attraverso strumenti di copertura finanziaria e
trasferimento assicurativo. Il framework del COSO (1992) parla invece di rischi inerenti
(inherent risk) e rischi residui; i primi riguardano un’impresa in assenza di qualsiasi azione di
management che possa alterare il loro impatto e la loro probabilità di accadimento; i secondi
interessano in via residuale l’impresa dopo che il management ha intrapreso le opportune
azioni di mitigazione dei rischi inerenti. In altre parole, i rischi residui sono quelli non
governati da azioni di risk management, per volontà del management o per
inconsapevolezza da parte dello stesso circa la loro esistenza, o rischi che permangono, in
misura ridotta, anche dopo che le opportune azioni di gestione sono state intraprese.
Nella pratica aziendale le tipologie o categorie di rischio che si possono incontrare,
sfogliando ad esempio le pagine delle relazioni sulla corporate governance o avendo
l’opportunità di esaminare la documentazione interna (policy, linee guida, ecc.) di una
società dotata di una sistema di gestione dei rischi, sono ancora più numerose. Si parla
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
31
infatti di rischi strategici, rischi di business, rischi finanziari, rischio di mercato, rischio di
credito, rischio di controparte, rischio di cambio, rischio di tasso, rischio di liquidità, rischio di
contagio (contagion risk), rischio di concentrazione, rischio reputazionale, rischio operativo,
rischio amministrativo-contabile (financial reporting risk), rischio di compliance, rischio
normativo, rischio legislativo, rischio giurisprudenziale, ecc. Nonostante le diverse
prospettive circa la definizione di rischio e le diverse “tassonomie” dei rischi, la disciplina del
risk management ha subito un notevole sviluppo nel tempo divenendo un tema
particolarmente dibattuto negli ultimi anni in modo particolare nel settore finanziario e per le
imprese quotate sui mercati regolamentati.
1.2.3 Evoluzione del risk management
Spira e Page (2003) propongono una schematizzazione dell’evoluzione del concetto di
rischio nel corso degli anni (si veda la Tabella 3) riconoscendo tre epoche principali: quella
pre-moderna, quella moderna e quella della “risk society”, proposta dal sociologo Beck
(2000). Alle tre epoche corrispondono anche tre diverse modalità di risposta e gestione del
rischio.
Tabella 3 Sviluppo storico della relazione tra concetti di rischio, risposte e sistemi di attribuzione di responsabilità. Adattamento da: Spira e Page (2003)
Concettualizzazione
del rischio Risposte al rischio
Sistemi di attribuzione di responsabilità
Pre-moderna Fato Superstizione Peccato
Accettazione Colpevolizzazione
Espiazione Punizione Vendetta Retribuzione
Moderna Calcolabile Quantificabile
Prevenzione Protezione
Compensazione (ad es. finanziaria)
“Risk society” (Beck, 2000)
Manageable
Controllo e regolazione attraverso sistemi fondati sul giudizio di esperti Sistemi di risposta e rinuncia alla colpevolizzazione
Aggiustamenti ai sistemi Controllo esteso
Nell’epoca pre-moderna il concetto di rischio era prevalentemente legato agli eventi naturali,
che essendo fuori dal controllo dell’uomo venivano percepiti semplicemente come atti del
fato o degli dei. La risposta al rischio non poteva quindi che essere l’accettazione o la
colpevolizzazione, attraverso una sorta di senso morale basato sul concetto di peccato per
cui doveva essere pagata una pena per l’espiazione (Spira e Page, 2003). Con il XVII secolo
il rischio ha cominciato ad essere associato ai risultati inattesi dell’azione umana.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
32
Successivamente, gli avanzamenti nella scienza e nella tecnologia hanno cominciato ad
offrire protezione contro alcune tipologie di rischi da un lato ma ne hanno create di nuove
dall’altro. Questo ha dato impulso alla necessità di nuovi processi per la risposta e gestione
del rischio. Sembra che già nel 1738 il matematico Bernoulli propose di utilizzare la media
geometrica come misura di rischio e diede origine al concetto di diversificazione come
strumento per la minimizzazione dello stesso (Verbano e Venturini, 2011). Nell’epoca
moderna il rischio diventa quindi qualcosa di misurabile e quantificabile ed è pertanto
possibile agire su di esso tramite tecniche di prevenzione e protezione; inoltre, grazie alla
“calcolabilità” è possibile anche stabilire sistemi di compensazione, quali ad esempio le
assicurazioni. Il passaggio alla visione del rischio come qualcosa di gestibile ha portato alla
necessità di sviluppare sistemi di attribuzione delle responsabilità (accountability) dei rischi
stessi (Spira e Page, 2003). Power (2007) afferma ad esempio che oggi le organizzazioni
devono dimostrare davanti ai propri stakeholder la loro capacità di gestire i rischi per potersi
legittimare e qualificare come soggetti responsabili. Beck (1998) osserva come in presenza
di una aspettativa per cui il rischio è gestibile i sistemi di attribuzione delle responsabilità
devono essere in grado di dimostrare che i rischi sono gestiti sia ex-ante sia post-hoc la
manifestazione degli stessi in forma di eventi avversi. Dal momento che le conseguenze
avverse degli eventi sono spesso il risultato di complesse catene di eventi e circostanze
diventa più difficile ricorrere al meccanismo di colpevolizzazione individuale, come avveniva
in epoca pre-moderna. Tuttavia, dal momento che un capro-espiatorio è comunque
necessario, il sistema di risk management si erige a questo ruolo, essendo un bersaglio più
facile rispetto ad un singolo colpevole difficilmente individuabile. Infatti, il sistema di gestione
dei rischi se da un lato fornisce un senso di sicurezza alle organizzazioni consente dall’altro,
attraverso la diffusione delle responsabilità, di creare una certa immunità per gli individui
rispetto alla colpevolezza circa gli eventi avversi che possono accadere (Spira e Page,
2003).
Le origini seminali del risk management come funzione aziendale all’interno delle imprese
possono essere ricondotte invece a Henri Fayol (Giorgino e Travaglini, 2008; Verbano e
Venturini, 2011) che nel suo “Administration industrielle et generale” (1931) individuando le
sei funzioni principali, la cui somma rappresenta quella che oggi chiameremmo la
governance dell’impresa, include la funzione di sicurezza, dedita alla protezione dei beni e
delle persone all’interno dell’organizzazione. Gli anni tra il 1955 e il 1960 hanno visto i primi
sviluppi del risk management negli Stati Uniti tramite l’adozione di tecniche per la riduzione
dei costi assicurativi (Mehr e Hedges, 1963). È in questo periodo che viene pubblicato il
primo articolo in cui il termine risk management compare in maniera esplicita (Giorgino e
Travaglini, 2008): Gallagher (1956) sulla Harvard Business Review evidenzia come il
compito di analizzare gli incidenti e le perdite che avvengono in una azienda, così come il
compito di affrontare le diverse tipologie di rischi che danno origine ad esse, era stato
generalmente e fino ad allora spacchettato all’interno delle organizzazioni tra i broker
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
33
assicurativi, gli amministrativi e contabili dell’impresa, gli ingegneri responsabili della
sicurezza, e così via. Questa frammentazione ha avuto come conseguenza che certe
tipologie di rischi fossero sovra-stimate e sovra-monitorate mentre altre fossero sotto-stimate
e poco controllate, rendendo di fatto impossibile implementare robuste soluzioni di gestione.
Nel suo articolo Gallagher elenca quindi alcuni principi per poter implementare un
programma di risk management effettivamente realizzabile, proponendo di fatto la creazione
di una nuova figura organizzativa, il risk manager, a cui affidare la gestione della totalità dei
rischi a cui è esposta un’impresa. Il decennio 1960-1970 ha visto ancora un incremento del
numero di articoli relativi alla gestione dei rischi, in modo particolare nel Journal of Risk and
Insurance, e la pubblicazione dei primi manuali con la declinazione del processo di gestione
dei rischi nelle tre classiche fasi di identificazione, valutazione e trattamento (Mehr e
Hedges, 1963). Tra il 1980 e il 1990 si è passati da un approccio alla gestione dei rischi
principalmente fondato sulle tecniche di trasferimento a terze parti (ad esempio, il contratto
assicurativo) ad un approccio orientato maggiormente alla gestione della volatilità del
business e dei risultati economici, focalizzandosi maggiormente sull’ottimizzazione delle
performance dell’impresa (Doherty, 2000; Lam 2004). Questo graduale cambiamento di
prospettiva ha portato alla moderna concezione di risk management il cui obiettivo è la
creazione di valore per l’impresa attraverso un approccio integrato e proattivo alla gestione
dei rischi (Verbano e Venturini, 2011). Infatti, a partire dal 2000 si è iniziato a parlare di risk
management integrato, di Enterprise Risk Management (di seguito anche ERM), di
approccio olistico, volendo sottolineare il superamento di una logica di gestione dei rischi
tipicamente funzionale a favore di una prospettiva che abbraccia le scelte strategiche ed
organizzative delle società nel rispetto dei principi di una adeguata governance dell’impresa
(Giorgino e Travaglini, 2008). D’Onza (2008) conferma che la gestione dei rischi a cui è
esposta l’impresa nell’esercizio delle sue attività di business rappresenta un elemento
centrale delle politiche orientate alla salvaguardia del valore. L’autore definisce l’ERM come:
“una filosofia direzionale che considera la gestione integrata dei rischi un
elemento chiave per favorire il raggiungimento degli obiettivi aziendali ai vari
livelli della struttura organizzativa.”
De Loach (2000) propone invece questa definizione:
“a structured and disciplined approach that aligns strategy, processes, people,
technology, and knowledge with the pure pose of evaluating and managing the
threats and opportunities that the enterprise faces as it creates value.”
Kleffner et al. (2003), in una survey di indagine sull’utilizzo dell’ERM in un campione di
imprese canadesi, hanno proposto agli intervistati la seguente definizione:
“ERM is the management of operational and financial risks simultaneously in
order to maximize the cost-effectiveness of risk management within the
constraints of the organization’s tolerance for risk.”
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
34
Tuttavia, alla domanda del questionario che richiedeva di indicare la propria concezione di
ERM la maggior parte dei rispondenti lo ha considerato e definito più semplicemente come
una valutazione del rischio (risk assessment) estesa a livello dell’intera organizzazione.
Arena et al. (2010) concordano nel considerare l’ERM come il culmine dell’esplosione del
risk management avuta a partire dal 1990, definendolo un approccio olistico alla valutazione
dei rischi che una organizzazione affronta. Riconoscono inoltre che la definizione proposta
dal “COSO Enterprise Risk Management Integrated Framework” del 2004 è quella cui ci si
riferisce più spesso nel campo dell’ERM:
“is a process, effected by an entity’s board of directors, management and other
personnel, applied in strategy setting and across the enterprise, designed to
identify potential events that may affect the entity, and manage risk to be within
its risk appetite, to provide reasonable assurance regarding the achievement of
entity objectives.”
La connotazione olistica dell’ERM trova la sua giustificazione nella natura sistemica
intrinseca dei processi organizzativi e decisionali nelle imprese, tanto che secondo Forestieri
(1996) in questa visione il risk management potrebbe finire per coincidere con la funzione di
general management. In ogni caso, la complessità dei processi produttivi nelle aziende
contemporanee è tale da rendere debole un approccio parziale, secondo una logica a silos,
alla gestione dei rischi. La funzione di risk management nasce quindi in un contesto molto
tecnico-operativo, come quello della gestione dei rapporti con le assicurazioni, per poi
estendersi ad aree come l’analisi del rischio e le tecniche di controllo fisico, toccando aspetti
ingegneristici, economici, fino agli strumenti di controllo finanziario, e infine organizzativi
(Forestieri, 1996). Nonostante il consenso sulla necessità di operare una integrazione nella
gestione dei rischi, Verbano e Venturini (2011) osservano che, specialmente negli ultimi
dieci anni, alla proliferazione di definizioni di diverse tipologie di rischio è corrisposta anche
la proliferazione di tecniche, metodi di gestione, e di approcci sviluppati specificamente per
un ampio spettro di campi di applicazione, ognuno dei quali è spesso basato su contesti
culturali che divergono fortemente da quelli degli altri. Arena et al. (2010) sostengono ad
esempio che l’ERM può assumere significati differenti in organizzazioni diverse, e a volte
all’interno della stessa impresa in tempi successivi. Knight (2003) individua ben 60
framework di risk management. Giorgino e Travaglini (2008) riconoscono che i principali
sono:
● Risk Management Standard: redatto inizialmente nel 2002 dall’Institute of Risk
Management (IRM), The Association of Insurance and Risk Managers (AIRMIC), The
National Forum for Risk Management in the Public Sector (ALARM) e poi ripreso dalla
Federazione delle Associazioni Europee di Risk Management (FERMA) nel 2003;
● COSO Enterprise Risk Management Framework, proposto nel 2004 dal Committee of
Sponsoring Organizations (COSO) della Treadway Commission negli USA;
● Australia/New Zealand Risk Management Standard del 1999;
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
35
● Japanese Risk Management Standard del 2001 (Japanese Standards Association);
● Canadian Risk Management Framework del 1997 (Canadian Standards Association).
L’obiettivo dei framework, al di la delle loro singolo specificità, è in generale quello di definire
un approccio metodologico che consenta uno svolgimento coerente e controllato delle
attività di tutte le fasi del processo di gestione dei rischi.
Secondo Forestieri (1996) e Petroni (1996) il risk management si sviluppa principalmente
attorno a quattro principali filoni o approcci diversi: tradizionalista o assicurativo, globale, che
coincide con l’ERM, tecnologico e finanziario. Verbano e Venturini (2011) individuano ben 9
indirizzi o filoni di ricerca contraddistinti da specifiche caratteristiche. Lo Strategic Risk
Management ha l’obiettivo di identificare e valutare i rischi di natura strategica che possono
essere considerati degli ostacoli verso il raggiungimento degli obiettivi economico-finanziari
ed operativi dell’organizzazione. Questa attività di identificazione è tipicamente
responsabilità del top management dell’impresa; i rischi strategici dipendono sia dalle
dinamiche dei fattori esterni (ad esempio un cambiamento nel mercato in cui l’azienda
compete) sia da fattori interni all’organizzazione (ad esempio le scelte di posizionamento sul
mercato). Petroni (1996) ritiene che il risk management sia parte sostanziale del più
generale approccio alla pianificazione d’impresa: l’analisi dei rischi costituisce quindi un
momento fondamentale nelle valutazioni relative alle decisioni strategiche. Per questo
motivo, soprattutto le imprese technology-intensive prevedono, dal punto di vista
organizzativo, una collocazione di una specifica funzione di gestione dei rischi in staff alla
pianificazione e controllo dell’impresa. Il Financial Risk Management riguarda invece le
pratiche di creazione del valore economico in una impresa attraverso l’utilizzo di
metodologie, tecniche e strumenti finanziari per gestire l’esposizione ai rischi. Coincide con il
filone finanziario precedentemente menzionato. Trae le sue origini dalla cosiddetta scuola di
Harvard che nell’ambito delle teorie di impresa assume una interpretazione dell’azienda
essenzialmente come struttura finanziaria (Petroni, 1996). Secondo questa visione ogni
evento aziendale può diminuire o aumentare il valore dell’impresa in quanto può influire sulla
dinamica dei suoi flussi finanziari. In tal senso le azioni di risk management tendono a ridurre
l’incidenza negativa degli eventi dannosi che possono produrre una interruzione o una
riduzione dei flussi finanziari attesi. Se viene garantita maggiore certezza nei flussi finanziari
allora il mercato dei capitali riconoscerà un risk premium che costituisce un aggiustamento
del valore del capitale dell’impresa in relazione alle condizioni di maggiore o minore
rischiosità della sua gestione (Petroni, 1996). Un terzo filone è quello del già citato
Enterprise Risk Management. Verbano e Venturini (2011) evidenziano come questo filone
abbia trovato sviluppo soprattutto nella letteratura manageriale e sottolineano come sia
possibile individuare una certa sovrapposizione con lo Strategic Risk Management in quanto
entrambe trovano nello strategic management il loro fondamento teorico. L’Insurance Risk
Management coincide invece con il filone tradizionalista o assicurativo precedentemente
citato: si occupa quindi di tutti quei rischi che sono assicurabili, analizzando la storia degli
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
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eventi dannosi già accaduti al fine di comprendere quali siano le migliori strategie
assicurative per il futuro. Il Project Risk Management è invece dedicato alla gestione dei
rischi all’interno dei progetti nel loro intero ciclo di vita. Secondo il Project Management
Institute (1996) la gestione dei rischi di progetto è una della nove attività principali della
funzione di project management. Il filone dell’Engineering Risk Management si occupa
invece dell’individuazione e gestione dei rischi all’interno della progettazione ed utilizzo dei
sistemi ingegneristici (ad esempio nel settore dell’energia nucleare o in quello aerospaziale).
Corrisponde di fatto al filone tecnologico individuato da Forestieri (1996) e Petroni (1996). Il
Supply Chain Risk Management riguarda la collaborazione tra i diversi attori all’interno di
una supply chain al fine di implementare un processo integrato di gestione dei rischi
derivanti dalle attività logistiche. Il Disaster Risk Management si occupa dei rischi di natura
catastrofica che possono coinvolgere ad esempio determinate aree geografiche; è per
questo motivo strettamente legato alle politiche normative volte a mitigare gli effetti di
eventuali disastri quali terremoti, inondazioni, ecc. Infine, il Clinical Risk Management è
focalizzato sulla gestione dei rischi nel settore sanitario-ospedaliero e dell’healthcare in
generale; questo filone trova tra i suoi principali fondamenti la teoria della human reliability
ed ha l’obiettivo di comprendere quali sono le condizioni contestuali che aumentano la
probabilità di accadimento di errori umani che possono portare a conseguenze dannose per i
pazienti. Per ulteriori approfondimenti sulle diverse anime del risk management si rimanda
all’articolo di Verbano e Venturini (2011).
A prescindere dalla prospettiva adottata tra i diversi filoni precedentemente menzionati e a
prescindere dai diversi framework che vengono proposti, il processo di gestione dei rischi
generalmente si articola in tre o quattro fasi principali. Forestieri (1996) e Petroni (1996) ne
individuano ad esempio tre: identificazione, valutazione e gestione/trattamento. Per Giorgino
e Travaglini (2008) il processo ne conta invece quattro: definizione degli obiettivi, analisi e
valutazione dei rischi (risk assessment), trattamento dei rischi, monitoraggio. Le tecniche e
gli strumenti impiegati in ciascuna delle fasi variano invece a seconda del contesto. Per la
fase di identificazione possono ad esempio essere utilizzati:
● liste di controllo (checklist);
● documenti contabili;
● flow chart dei processi aziendali;
● matrici di rischio (risk matrix) o mappe dei rischi (risk map);
● Failure Mode and Effect Analysis (FMEA);
● Fault Tree Analysis (FTA);
● Hazard and Operability Study (HAZOP).
Per quanto riguarda la fase di valutazione Petroni (1996) distingue tra le tecniche statistiche,
quali ad esempio le distribuzioni di probabilità su serie storiche, e le tecniche soggettive,
come le valutazioni qualitative su scale di Likert o simili (assessment). Infine, per quanto
attiene alla fase di gestione o trattamento del rischio, è possibile distinguere tra tecniche di
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
37
controllo e di finanziamento (Forestieri, 1996). Le tecniche di controllo agiscono direttamente
sulle determinanti, cioè sulle cause, del rischio. Le tecniche di finanziamento agiscono sugli
effetti, cioè sulle conseguenze economico-finanziarie successive al manifestarsi dell’evento
dannoso. All’interno delle tecniche di controllo, si può distinguere ulteriormente tra quelle di
prevenzione, che vanno a ridurre la probabilità di accadimento dell’evento rischioso, e quelle
di protezione, che cercano di mitigare l’impatto in caso di accadimento. Oppure, si può
parlare di tecniche di controllo fisico, procedurali o psicologiche quando per ridurre la
probabilità di accadimento degli eventi dannosi si ricorre rispettivamente a impianti e/o
congegni fisici, procedure e regole per indirizzare i comportamenti delle persone, o
diffusione di una cultura di gestione dei rischi all’interno dell’intera organizzazione,
principalmente attraverso la formazione. Le tecniche di finanziamento del rischio possono
essere classificate a seconda del soggetto economico su cui l’impatto dell’evento rischioso
ha luogo: si parla di tecniche di trasferimento quando l’impatto è su un soggetto terzo (ad
esempio la compagnia assicurativa, i fornitori/clienti), mentre si parla di tecniche di ritenzione
quando l’azienda, attraverso una pianificazione finanziaria, preventiva eventuali perdite e
accantona le riserve necessarie per affrontarle qualora accadano (accantonamenti contabili,
aperture di linee di credito contingenti, ecc.). Le tecniche di trasferimento sono anche
definite tecniche di copertura e sono molteplici (Giorgino e Travaglini, 2008): spaziano dai
contratti assicurativi, agli strumenti finanziari derivati fino a strumenti di gestione definiti
come Alternative Risk Transfer (ART). Knight (2005) individua invece cinque strategie di
trattamento del rischio. Alle strategie di risk reduction, risk transfer e risk retention cui
corrispondono le già citate tecniche di prevenzione/protezione e le tecniche di finanziamento
precedentemente illustrate, si aggiungono: la risk avoidance, ovvero cercare di evitare il
rischio, ad esempio rinunciando a svolgere una determinata attività, e la strategia di risk
sharing che prevede la condivisione dei rischi con altri soggetti (ad esempio le joint venture).
A prescindere da quali framework di gestione dei rischi vengano adottati e a prescindere da
quali tecniche specifiche vengano utilizzate per le diverse fasi o componenti degli stessi, i
processi e gli strumenti prescritti devono integrarsi nella struttura e nei sistemi di controllo
organizzativi dell’impresa. Simons (1999) sottolinea infatti che se i manager comprendono
molto bene la relazione tra rischio e rendimento spesso difettano nella consapevolezza dei
rischi cui si espongono. Assumersi rischi non è un problema in sé quanto ignorarne le
possibili conseguenze: se non si è consapevoli della natura dei rischi e del loro potenziale
impatto allora non possono essere prese le necessarie contromisure per evitarne le
conseguenze dannose. Solo conoscendo dove questi rischi risiedono nell’organizzazione e
che livello raggiungono, è possibile agire in tale senso. Il risk management si pone pertanto
in questi termini anche come un problema di controllo.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
38
1.2.4 Il controllo organizzativo
La normativa vigente a livello nazionale e internazionale attribuisce al tema del controllo un
ruolo strategico per la corretta governance dell’impresa, assegnando, come già anticipato,
una notevole importanza anche alla gestione dei rischi cui la stessa è o può essere
soggetta. Tutte le organizzazioni, a prescindere dal settore di appartenenza, si trovano a
dover fronteggiare la necessità di indirizzare gli sforzi delle persone da esse impiegate verso
il raggiungimento degli obiettivi stabili (Flamholtz, 1996b). Tradizionalmente le aziende
utilizzano una serie di strumenti quali budget, misure contabili, regole e procedure operative
standard, job description, ecc. per avere controllo sui comportamenti degli individui. Presi
insieme questi strumenti sono parte di un sistema invisibile ma pervasivo che si può definire
sistema di controllo organizzativo (Flamholtz, 1996b). Chenhall (2003) evidenzia come in
letteratura vengano utilizzati diversi termini, spesso in maniera intercambiabile fra loro, in
riferimento a questo tema: ad esempio management accounting, management accounting
systems, management control system e organizational control. Per Anthony et al. (2004) il
management accounting (contabilità direzionale) è il processo che fornisce gran parte delle
informazioni utilizzate dal management per pianificare, porre in atto e controllare le attività di
una organizzazione; ci si riferisce a pratiche quali il budgeting e il product costing; con
management accounting systems si intende l’uso sistematico di queste pratiche per il
raggiungimento degli obiettivi organizzativi (Chenhall, 2003). Il termine management control
system è ancora più ampio in quanto oltre ai management accounting systems include
anche altre tipologie di controlli, come quelli personali o di natura sociale (clan control). Per
Anthony et al. (2004) il management control (controllo direzionale) è il processo attraverso il
quale si influenza il comportamento dei membri dell’organizzazione allo scopo di
implementare efficacemente ed efficientemente le strategie aziendali; la capacità di orientare
i comportamenti si affida a tutta la strumentazione organizzativa, come ad esempio i
contratti, i sistemi di sanzione e di incentivazione, il reporting, la definizione delle
responsabilità, i sistemi di coordinamento, ecc. (Anthony et al., 2004). Per questo motivo si
parla spesso di organizational control (controllo organizzativo) che è un termine ancora più
generale (si veda ad esempio: D’Onza, 2008) anche se a volte viene usato per riferirsi solo a
quei controlli specifici costruiti all’interno delle attività e dei processi, come ad esempio il
controllo statistico di qualità (Chenhall, 2003). Un altro termine spesso utilizzato, che ha
origine nella letteratura di matrice contabile ma che è diventato parte anche del gergo della
corporate governance e del risk management, è quello di sistema di controllo interno
(internal control system), inteso come il processo messo in atto dal board, dal management
e da altro personale dell’organizzazione e progettato per fornire una ragionevole sicurezza
riguardo il raggiungimento dell’efficacia ed efficienza delle operations, l’affidabilità del
reporting di natura finanziaria, la compliance alle leggi e normative applicabili (COSO, 1992,
2004).
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
39
Diversi sono stati i contributi per spiegare il fenomeno del controllo organizzativo tanto che
Flamholtz et al. (1985) sostengono che in letteratura sono rinvenibili tante definizioni di
controllo quanti sono i teorici che lo studiano. Per Fayol (1931) il controllo riguarda la verifica
di conformità delle azioni ai piani fissati dall’organizzazione; è pertanto una funzione
successiva all’azione volta a correggere i comportamenti che hanno deviato dalle linee di
indirizzo stabilite. Per Arrow (1964) è invece una funzione che precede l’azione e guida i
comportamenti attraverso regole operative e enforcement rules per massimizzare l’efficienza
organizzativa (si veda anche: Perrow, 1977). Altri autori fanno coincidere il controllo con i
concetti di potere e influenza (ad esempio: Etzioni, 1965; Tannenbaum, 1968). Per Etzioni
(1965) è una distribuzione di mezzi utilizzati dall’organizzazione per ottenere le performance
di cui ha bisogno e per controllare che le quantità e le qualità di tali performance siano in
accordo con le specifiche dettate dall’organizzazione stessa. Tannenbaum (1968) lo
definisce come qualsiasi processo in cui una persona, un gruppo di persone o una
organizzazione determinano, cioè influiscono con intenzionalità sui comportamenti che una
persona, un gruppo o l’organizzazione intera assumeranno in futuro. In questa prospettiva il
controllo deriva da una legittimazione d’autorità per cui le persone volontariamente decidono
di seguire, entro certi limiti, definiti dalla cosiddetta “zona di indifferenza” (si veda: Barnard,
1938), le direttive di un individuo che occupa una posizione gerarchica superiore (Blau e
Scott, 1962). Altri autori eguagliano invece il controllo alla struttura organizzativa (ad
esempio: Weber, 1947; Blau e Scott, 1962; Otley e Berry, 1980). Tannenbaum (1968) lo
ritiene un correlato inevitabile dell’organizzazione. Reeves e Woodward (1970) suggeriscono
di analizzare i sistemi di controllo lungo due dimensioni, che richiamano ancora aspetti di
progettazione organizzativa: agli estremi della prima dimensione troviamo il carattere
personale o meccanicistico del sistema; agli estremi della seconda dimensione troviamo
l’unitarietà o la frammentarietà del sistema. La prima dimensione specifica se il controllo è
esercitato direttamente da una persona su un’altra oppure se sono utilizzati meccanismi
impersonali come ad esempio la contabilità industriale o le procedure. La seconda
dimensione esprime invece il ricorso ad un sistema integrato e unico a livello di intera
organizzazione oppure l’utilizzo di sistemi separati e non collegati tra loro per ciascuna sotto-
unità organizzativa. Ouchi (1977) afferma che esiste una distinzione tra la struttura di una
organizzazione e i suoi meccanismi di controllo; anche Flamholtz et al. (1985), sebbene
riconoscano che per certi aspetti la definizione della struttura organizzativa è una risposta al
problema del controllo, non la ritengono di per se un meccanismo di controllo; la
considerano invece un elemento di contesto che può influenzare l’efficacia del controllo
attraverso dimensioni quali lo span of control, il grado di specializzazione o differenziazione,
il grado di centralizzazione o decentralizzazione, il grado di formalizzazione e
standardizzazione, ecc. (si veda anche: Flamholtz, 1996a). Per Eisenhardt (1985) il pensiero
organizzativo si focalizza spesso sulle soluzioni di tipo strutturale come il modello a matrice,
la decentralizzazione e la struttura divisionale; tuttavia il tema del controllo, con gli strumenti
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
40
tipici quali i sistemi di ricompensa e quelli informativi, è altrettanto importante nella
progettazione delle organizzazioni. Das (1989) a sua volta evidenzia che il controllo è
necessariamente un tema centrale nel dibattito organizzativo in quanto l’organizzazione
stessa implica il controllo, aiutando a limitare i comportamenti idiosincratici e a mantenerli
conformi al piano razionale dell’organizzazione stessa. Anche Chenhall (2003) evidenzia
come sia importante che i sistemi di controllo organizzativo siano coerenti con l’intento della
struttura organizzativa e ritiene sia quindi utile analizzarli attraverso attributi tipicamente ad
essa assegnati, ponendosi domande quali “Sono sistemi meccanici o organici?”,
“Favoriscono la differenziazione o spingono verso l’integrazione?”, ecc. Per Jones (2007) la
relazione tra struttura organizzativa e controllo è molto forte: solo quando un individuo
comprende chiaramente le responsabilità del proprio ruolo, e sa che cosa può pretendere il
suo superiore, si crea il controllo, ovvero la possibilità di coordinare e motivare le persone
affinché lavorino nell’interesse dell’organizzazione.
Per definire il controllo si può ricorrere anche ai concetti di flussi informativi (Galbraith,
1973), poteri sociali (Storey, 1983), e persino di mito nel contesto di un ambiente
istituzionale (Meyer e Rowan, 1977). Vi sono poi ricercatori che analizzano il controllo come
un processo cibernetico e un meccanismo di feedback (Weiner, 1954; Beer, 1959;
Thompson, 1967; Reeves e Woodward, 1970; Ouchi e Maguire, 1975; Ouchi, 1979, 1980),
cui si può eventualmente aggiungere la prospettiva della teoria della dipendenza dalle
risorse (Green e Welsh, 1988). Il controllo organizzativo (management control) è per Lebas
e Weigenstein (1986) il processo attraverso il quale una organizzazione assicura che le sue
sotto-unità agiscano in maniera coordinata e cooperativa affinché le risorse vengano
ottenute e ottimamente allocate al fine di raggiungere gli obiettivi aziendali. Tramite il
controllo organizzativo il comportamento e le performance delle persone vengono
canalizzate in modo da rendere certe azioni desiderabili e più probabili e allo stesso tempo
cercando di eliminare quelle non desiderabili. Pennings e Woiceshyn (1987) definiscono il
controllo semplicemente come “the regularity of behaviour in organization”. Dermer (1988)
non considera il controllo un sistema cibernetico ma lo associa ad ogni fonte di stabilità e
cambiamento all’interno dell’organizzazione: in questo senso non è una prerogativa
esclusiva del management ma risiede anche in tutte quelle attività “autonome” che vengono
svolte nell’organizzazione e che le danno un ordine basato sui principi e sui valori che
sottostanno ai comportamenti delle persone che le mettono in atto. Per Cortesi et al. (2009)
il controllo ha l’obiettivo di ridurre il problema dell’agenzia derivante dalla separazione tra
proprietà e controllo e non è un concetto che ha valore in se ma piuttosto nel risultato finale
dell’interazione di un certo numero di elementi, anche strutturali, quali le funzioni
organizzative, le regole formali e i comportamenti informali, i processi, e tutti gli elementi che
formano le basi di un sistema sviluppato per limitare i rischi operativi all’interno di una area
ideale pre-definita.
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
41
Pur non essendoci una definizione univoca e ampiamente condivisa del concetto di controllo
- effetto dell’adozione di approcci differenti e a volte divergenti al suo studio - Flamholtz et al.
(1985) ritengono che si possa esaminare la letteratura adottando tre punti di vista prevalenti:
sociologico, amministrativo o psicologico. Il primo si focalizza sull’intera organizzazione
come unità di analisi utilizzando un approccio di tipo macro; è rappresentato principalmente
dai lavori di Weber (1947) e Thompson (1967). Nel secondo l’analisi si sposta a livello delle
funzioni aziendali per giungere poi a livello dell’individuo nel terzo, dove si analizza il
comportamento della persona in relazione agli obiettivi di gruppo o dell’organizzazione intera
(Flamholtz et al., 1985). Nella prospettiva sociologica il controllo si ottiene tramite
meccanismi strutturali di regole, policy, gerarchie di autorità (Arrow, 1964; Blau e Scott,
1962; Perrow, 1977; Weber, 1947) o tramite unità di coordinamento (Thompson, 1967).
Nella prospettiva amministrativa, i meccanismi di controllo più citati sono i piani strategici, i
sistemi di misurazione dei risultati, la supervisione, i sistemi di valutazione e feedback
(Davis, 1940; Koontz, 1959; Urwick, 1928). Infine, nella prospettiva psicologica ci si affida di
più alla definizione e comunicazione di obiettivi e standard, alla progettazione di sistemi di
ricompensa di natura intrinseca ed estrinseca, all’influenza interpersonale ed ai feedback
(Lawler, 1976; Tannenbaum, 1968). Das (1989) propone anche una prospettiva evolutiva sul
tema, avvalendosi del concetto di ciclo organizzativo proposto da Weick (1979), composto
dalle tre fasi di enactment, retention e selection5. D’Onza (2008) ritiene che vi siano due
approcci principali all’analisi del controllo organizzativo: quello strutturalista, che si focalizza
sugli strumenti del controllo e sugli aspetti di informazione e comunicazione, e quello
comportamentista, più orientato all’analisi degli aspetti organizzativi e alla componente
umana e sociale. In una recente revisione della letteratura sui sistemi di controllo, Chenhall
(2003) evidenzia alcuni temi rilevanti affrontati dai ricercatori: la funzione informativa di tali
sistemi; il grado di utilizzo nelle imprese; l’importanza del loro supporto ai processi
decisionali di natura operativa, l’importanza del controllo nei processi di sviluppo prodotto; la
misurazione del grado di soddisfazione rispetto a tali sistemi. Cortesi et al. (2009)
aggiungono altri elementi all’elenco dei temi maggiormente citati all’interno del dibattito
accademico: la relazione tra controllo e corporate governance; la relazione tra etica e
controllo; l’indipendenza ed i profili professionali dei revisori esterni (auditors); la qualità dei
controlli effettuati dai revisori; i principi contabili e di controllo; gli aspetti forensic legati al
problema del controllo; il fallimento dei sistemi di controllo in relazione ai più recenti scandali
finanziari (ad esempio Enron, Parmalat). Inoltre, sebbene la definizione di sistema di
controllo organizzativo (management control system) si sia evoluta negli anni, spostando il
5 La prima fase (enactment) consiste nell’avere a disposizione dei dati grezzi (raw data) da osservare (seconda fase: selection) e a cui attribuire un significato (terza fase: retention). Das (1989) sostiene che questo ciclo nel caso del processo di controllo sia applicabile a più livelli, non solo a quello individuale, e assuma una natura gerarchica data la prevalenza della fase di retention che guida e indirizza le altre due. La fase di retention fornisce la sintassi e le regole per il funzionamento del ciclo di controllo; in altre parole fornisce una mappa delle possibili cause che permette di dare una chiave di lettura da utilizzare nelle attività relative alle altre due componenti del ciclo.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
42
suo focus dalla fornitura di dati di natura strettamente finanziaria, quantitativa e formale - a
supporto dei processi decisionali del management - alla fornitura di informazioni più in
generale (ad esempio dati relativi ai mercati, ai concorrenti, ai clienti, alle dimensioni non
finanziarie dei processi produttivi, ecc.), convenzionalmente i sistemi di controllo sono
percepiti prevalentemente come strumenti passivi che forniscono informazioni ex post
(Chenhall, 2003).
La diversità di prospettive adottate dai ricercatori mette in discussione l’idea che possa
esistere un solo sistema di controllo all’interno dell’organizzazione: sembra al contrario che
nelle organizzazioni esista un patchwork di sistemi di controllo spesso incompatibili tra loro
(Das, 1989). Una maggiore convergenza si può invece riscontrare nelle logiche di
progettazione dei sistemi di controllo. Ouchi (1979, 1980) è stato uno dei primi ricercatori a
porsi il problema di come dovrebbero essere progettati i sistemi di controllo individuando tre
meccanismi o forme di controllo fondamentali che sono concettualmente distinte ma che
nella pratica aziendale sono spesso utilizzate congiuntamente. Il primo meccanismo viene
definito market control ed è considerato il più efficiente6: in un mercato perfetto il prezzo
veicola tutte le informazioni necessarie ai processi decisionali. In un contesto organizzativo,
l’impresa potrebbe quindi remunerare ciascun impiegato in proporzione al suo contributo
così che chi produce poco viene pagato meno e tutti i pagamenti essendo proporzionali a
quanto erogato sono equi. Un tale meccanismo risolve il problema dell’incongruenza tra gli
obiettivi individuali e dell’azienda: una remunerazione proporzionale alla produttività
agirebbe da forza di allineamento dei comportamenti dei membri dell’organizzazione verso
l’ìnteresse della stessa. Certamente questa condizione di “mercato perfetto” è solo ideale,
tanto che se veramente esistesse un tale mercato senza frizioni a detta di Coase (1937) non
ci sarebbe bisogno di organizzazioni formali per il governo delle transazioni (Ouchi, 1979).
Inoltre, in molte attività è spesso difficile isolare il contributo del singolo individuo allo
svolgimento del processo produttivo. Per questi motivi si rende necessaria anche una
seconda forma di controllo definita bureaucratic control (o bureaucracy control): la
supervisione e sorveglianza diretta costituiscono il cuore di questo meccanismo, assieme
alla definizione delle regole per lo svolgimento dei compiti e alla definizione degli standard
relativi agli output da ottenere (Ouchi, 1979). A differenza del prezzo in un mercato perfetto,
le regole costituiscono sempre un set parziale di informazioni: non è infatti possibile
prevedere in anticipo ogni possibile situazione rendendo l’incompletezza un tratto fisiologico
delle procedure. Il controllo avviene generalmente attraverso l’osservazione dello
svolgimento di una attività, l’assegnazione di un valore alla stessa e la comparazione con lo
6 La ricerca di Ouchi nasce dall’osservazione di due dipartimenti/funzioni all’interno di una organizzazione (acquisti e magazzino) e dalla constatazione che il dimensionamento del primo era decisamente inferiore al secondo nonostante il volume più elevato delle attività svolte. La ragione di ciò viene individuata dall’autore nella prevalenza di un meccanismo di controlo di tipo market che viene quindi considerato più efficiente rispetto alle altre forme. Per ulteriori approfondimenti si veda Ouchi (1979).
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
43
standard definito all’interno della procedura. Il presupposto alla base di questa forma di
controllo è la possibilità di definire senza ambiguità le regole e gli standard. Se ciò non è
possibile, ad esempio per la complessità delle attività svolte, si può ricorrere ad una terza
forma di controllo definita clan control che si fonda su meccanismi sociali quali la
condivisione di valori e di una visione comune (Ouchi, 1979). Il market control richiede che
esista dal punto di vista sociale una forma di reciprocità per cui se un soggetto tenta di
imbrogliare un altro (ad esempio falsando il prezzo), una volta scoperto verrà punito da tutto
il sistema e non solo dalla vittima dell’imbroglio; nel bureaucratic control in aggiunta vi deve
essere accordo sulla legittimazione dell’autorità conferita ai manager affinché i membri
dell’organizzazione accettino la loro supervisione rinunciando a parte della propria
autonomia; il clan control richiede ancora in aggiunta che vi sia forte accordo su un ampio
spettro di valori e principi e alto commitment dei membri dell’organizzazione al rispetto agli
stessi (Ouchi, 1979). Dal punto di vista dei requisiti di natura sociale quest’ultima forma di
controllo è quella che ne richiede di maggiori. Anche per quanto riguarda i requisiti di natura
informativa le tre forme di controllo si differenziano notevolmente tra di loro. Il market control
richiede che venga creato e mantenuto all’interno dell’organizzazione un sistema informativo
esplicito. In un vero mercato i prezzi si formano attraverso un meccanismo d’asta per cui
l’apparato amministrativo è ridotto (Ouchi, 1979). Nelle organizzazioni è necessario invece
creare, sopportandone i relativi costi, sistemi contabili che permettano di avere dei numeri
interni che fungano da “prezzi” (ad esempio i transfer price): in questo modo i responsabili
delle varie divisioni/dipartimenti possono massimizzare il proprio profitto avvalendosi dei
migliori prezzi per i servizi forniti dalle altre divisioni/dipartimenti dell’azienda. Tuttavia solo
raramente è possibile per le organizzazioni arrivare a determinare transfer price perfetti, a
causa della interdipendenza tecnologica e dell’incertezza (Ouchi, 1979). Si rende pertanto
necessario creare un insieme di regole, sia sui comportamenti sia sui livelli di output. Come
già sottolineato, queste regole difficilmente possono contemplare tutte le possibili situazioni
reali, per cui devono essere stabiliti dei livelli gerarchici di autorità tali per cui
l’organizzazione possa definire procedure per certi aspetti incomplete sapendo che, nel caso
si verifichino situazioni non previste dalle stesse, saranno i superiori a decretare e
specificare i doveri dei subordinati in tali situazioni. In questo modo l’organizzazione può
affrontare il futuro un passo alla volta piuttosto che doverlo anticipare completamente in ogni
suo possibile scenario (Ouchi, 1979). Nel clan control i sistemi informativi sono di fatto
sostituiti dal sistema dei valori e delle norme sociali che contraddistinguono l’organizzazione
considerata; l’informazione è in questo caso contenuta nei rituali, nelle storie e nelle
cerimonie che caratterizzano il contesto sociale dell’azienda; questa forma di controllo
richiede pertanto una certa stabilità dei membri dell’organizzazione in quanto tali rituali e
norme richiedono un certo tempo per essere assimilati (Ouchi, 1979). Prendendo quindi atto
delle differenti caratteristiche e requisiti di ciascuna forma di controllo, il problema della
progettazione del sistema di controllo diventa quello di capire per ciascuna organizzazione,
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
44
divisione/dipartimento, unità o singolo task le caratteristiche di natura sociale e informativa e
comprendere quale forma di controllo tra mercato, burocrazia e clan dovrebbe essere
maggiormente enfatizzata dal sistema (Ouchi, 1979). Inoltre, a parte il caso del clan control,
la capacità di misurare gli output e i comportamenti, che sono rilevanti per l’ottenimento delle
performance desiderate, è un elemento critico nelle decisioni di progettazione (Ouchi, 1979).
A tal proposito, già nel 1975, Ouchi e Maguire hanno evidenziato l’esistenza di due strategie
fondamentali di controllo: l’output based control, volto a misurare gli output delle attività, e il
behaviour based control, volto a misurare i comportamenti messi in atto nello svolgimento
delle attività e basato fondamentalmente sulla sorveglianza personale. Infatti, il fatto che il
controllo non sia altro che un processo di monitoraggio, di comparazione rispetto ad uno
standard e di scelta di adeguate ricompense e/o azioni correttive, suggerisce l’adozione di
uno schema interpretativo molto semplice: i fenomeni che possono essere osservati,
monitorati e misurati nel lavoro delle risorse umane e tecnologiche sono sostanzialmente i
comportamenti e i risultati che derivano dagli stessi (Ouchi, 1977).
Ouchi e Maguire (1975) affermano che il behavioral control: si fonda su meccanismi di tipo
feed-forward in quanto prevede la comunicazione dei risultati attesi in anticipo modificando
quindi i comportamenti messi in atto dalle persone dal momento che le ricompense o le
punizioni sono chiaramente legate al soddisfacimento delle aspettative dichiarate. In tal
senso si può ritenerlo un controllo sugli input. Il controllo sugli output si fonda invece su
meccanismi di feedback più tradizionali attivati da misure impersonali come gli scostamenti
dallo standard, l’efficienza (rapporto tra input e output), ecc. Ouchi e Maguire (1975)
affermano che le strategie di controllo sugli input e sugli output non sono alternative fra loro
ma complementari. Per Eisenhardt (1985) la valutazione delle performance enfatizza
l’aspetto informativo del controllo. Secondo Ouchi (1977, 1979) la scelta tra queste due
strategie dipende dalla conoscenza del processo di trasformazione (task programmability) e
dalla possibilità di misurare i risultati (Figura 9).
Figura 9 Strategie di controllo. Adattato da: Ouchi (1979) e Eisenhardt (1985)
PROGRAMMABILITÀ DELL’ATTIVITÀ
Perfetta Imperfetta
MISURABILITÀ DELL’OUTPUT
Alta
Controllo sui comportamenti(behavior) o sui
risultati (outcome)
Controllo sui risultati(outcome)
Bassa
Controllo sui comportamenti
(behavior)
Socializzazione,controllo “clan”
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
45
Se le attività possono essere programmate con precisione e nel dettaglio allora i
comportamenti delle persone possono essere definiti esplicitamente e quindi essere
prontamente misurabili; di conseguenza si può ottenere controllo dalla valutazione delle
performance in termini di comportamenti messi in atto (Eisenhardt, 1985). Se la
programmabilità delle attività diminuisce, i comportamenti sono più difficilmente prevedibili e
quindi misurabili; tuttavia se si possono definire chiaramente gli obiettivi dell’attività allora è
possibile ottenere controllo misurando gli scostamenti dei risultati ottenuti dagli obiettivi
prefissati (Eisenhardt, 1985). La scelta tra controlli basati sui comportamenti o sui risultati
(behavior o output control) dipende quindi dal trade-off tra il costo della misurazione dei
comportamenti e il costo della misurazione dei risultati. Inoltre, nel secondo caso bisogna
anche tenere presente che la ricompensa accordata all’individuo può dipendere anche da
eventi fuori dal suo controllo (ad esempio, a causa di fattori contingenti, nonostante uno
scarso impegno i risultati possono essere molto buoni, o viceversa a fronte di un impegno
molto buono i risultati possono essere scarsi). La struttura organizzativa influenza l’utilizzo di
una forma di controllo piuttosto che l’altra (Ouchi, 1977): ad esempio la volontà di avvalersi
delle economie derivanti dalla specializzazione porta a strutture organizzative più
differenziate e quindi a maggiori problemi nella misurazione e valutazione delle performance.
Aumentando la differenziazione strutturale, definendo ad esempio delle sotto-unità
organizzative molto specializzate e quindi molto differenti tra loro, accresce il bisogno di
misure di performance esprimibili attraverso grandezze quantitative per poter dare
l’impressione di comparabilità e uniformità di significato tra sotto-unità organizzative che
svolgono attività qualitativamente molto differenti tra loro (Ouchi, 1977). Viceversa, una forte
omogeneità nelle attività diminuisce la complessità della struttura organizzativa e quindi
riduce il bisogno di misure concentrate sugli output. In alternativa, se l’attività non è né
programmabile né ha risultati facilmente misurabili, la tecnica di controllo diventa quella di
minimizzare la divergenze di preferenze tra le persone, attraverso meccanismi di natura
sociale (clan control); in altre parole i membri collaborano nel raggiungere gli obiettivi
aziendali perché li hanno capiti e interiorizzati attraverso la condivisione di valori e di una
vision comune (Eisenhardt, 1985). Si enfatizza in questo caso l’adozione di policy per la
selezione, formazione e per garantire la coesione sociale delle risorse umane. Un contesto
particolare in cui si può vedere all’opera il clan control è quello dei team auto-gestiti (self-
management team) dove alcuni autori hanno coniato il termine concertive control: le norme
sociali stabilite e condivise all’interno di questi team diventano dei razionali del controllo così
forti da portare Barker (1993) a sostenere che questa forma di controllo, in contrasto con le
aspettative, rafforza la “gabbia di ferro” (iron cage) stabilita dal controllo burocratico di
stampo weberiano.
Lebas e Weigenstein (1986) concordano sul fatto che la prima decisione che deve affrontare
un’organizzazione per progettare un sistema di controllo è stabilire se il controllo debba
essere diretto in maniera prevalente sugli input, creando un controllo ex-ante, oppure sugli
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
46
output, creando un controllo ex-post. Inoltre, ispirandosi al contributo di Hofstede (1980)7,
ritengono che si dovrebbe tenere conto anche di aspetti culturali: ad esempio un sistema di
controllo fortemente basato su regole e procedure è più facilmente accettato in presenza di
una cultura che ammette un’ampia power distance, cioè che accetta le gerarchie derivanti da
una distribuzione di potere non equamente ripartita all’interno del sistema. Oppure, in una
organizzazione dove esiste una cultura fortemente avversa all’incertezza, un sistema di
controllo normativo che specifica i comportamenti nel dettaglio sarà più adatto.
La diversità di prospettive e di punti di vista adottabili non favorisce l’integrazione tra
concettualizzazioni divergenti e non rende agevole l’individuazione di un unico schema di
analisi del controllo (D’Onza, 2008). Flamholtz et al. (1985) evidenziano come, nella
costruzione dei framework operativi o teorici, gli studiosi, partendo dall’identificazione dalla
strategia/forma/meccanismo di controllo prevalente o fondante, generalmente si focalizzano
su un solo livello di analisi (ad esempio l’individuo o il gruppo) o su una sola
strategia/forma/meccanismo formale di controllo; la conseguenza è che le proposte risultanti
spesso sono parziali. Inoltre, lo sviluppo di tali modelli o framework è generalmente più
veloce dello sviluppo degli strumenti per la misurazione delle variabili e dei processi chiave
che sottostanno agli stessi (Flamholtz et al., 1985). Tuttavia, una teoria univoca sul controllo,
vista l’utilità che avrebbe nell’assistere i manager alla progettazione di sistemi di controllo
che possano aumentare l’efficacia organizzativa, intesa come la capacità di soddisfare gli
obiettivi multipli della stessa, dovrebbe rivestire un ruolo importante nella letteratura
organizzativa. Il framework di riferimento proposto da Flamholtz et al. (1985) si muove in
questa direzione: l’obiettivo è cogliere le diverse sfaccettature del controllo organizzativo ed
essere a supporto di chi progetta sistemi di controllo. Tale schematizzazione si fonda in
primo luogo sulla definizione di controllo organizzativo come il tentativo di aumentare la
probabilità che individui e gruppi si comporteranno in modo tale da condurre al
raggiungimento degli obiettivi organizzativi; si tratta pertanto di un processo volto a
influenzare il comportamento delle persone che sono membri di una organizzazione formale
(Flamholtz et al., 1985). Questa concezione sottintende alcuni aspetti chiave (Flamholtz,
1996a): il controllo è orientato a consentire il raggiungimento degli scopi dell’organizzazione
e presuppone un certo grado di divergenza tra obiettivi individuali e organizzativi all’interno
dell’impresa; è un processo continuo che deve adattarsi alla mutevolezza degli obiettivi nel
tempo; infine ha natura probabilistica in quanto è volto a massimizzare la probabilità che i
membri dell’organizzazione adottino certi comportamenti. Il sistema di controllo raccoglie
pertanto quelle tecniche e quei processi necessari per il raggiungimento di coerenza tra gli
7 Hofstede sostiene che le teorie manageriali non sono universali e che la loro applicabilità dipende fortemente dal contesto culturale. In particolare individua quattro dimensioni principali per misurare la cultura: (1) il grado di accettabilità di una distribuzione di potere non equamente ripartita all’interno della società, dell’esistenza di privilegi e di autorità personale assoluta (power distance); (2) l’avversione all’incertezza; (3) la propensione all’individualismo (io) rispetto al collettivismo (noi); (4) il grado di femminilità o mascolinità.
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
47
obiettivi e può essere progettato ad ogni livello di influenza (Flamholtz et al., 1985), agendo
ad esempio su individui, piccoli gruppi, unità organizzative e sull’organizzazione nella sua
interezza. Il framework integrato di controllo organizzativo (Figura 10) proposta da Flamholtz
et al. (1985) è di natura cibernetica e si fonda sulla logica del sistema aperto.
Figura 10 Framework integrato di controllo organizzativo. Fonte: Flamholtz et al. (1985)
All’interno del framework si può distinguere un sistema core costituito da tutti gli elementi
che hanno una influenza diretta sul comportamento degli individui: la pianificazione (1.0), la
misurazione (2.0) dei risultati (outcomes) delle attività (operational sub system), il sistema di
feedback (3.0) e quello di valutazione e ricompensa (4.0). L’ambiente esterno, la cultura e la
struttura organizzativa sono invece visti come elementi che hanno un’influenza indiretta e
vengono pertanto definiti come fattori di contesto del controllo (control context factor).
L’influenza di tali fattori può essere vista sia nei termini di un ulteriore livello di controllo sia
sull’efficacia complessiva del sistema core. Quest’ultimo è fondato sui concetti cibernetici di
definizione degli obiettivi, misurazione e comparazione, valutazione e feedback per le azioni
correttive (Wiener, 1954). Il sistema di pianificazione (1.0) prevede la definizione degli
obiettivi e degli standard in ogni area chiave dell’organizzazione. è una forma di controllo ex-
ante ed è il principale meccanismo per ottenere coerenza tra gli obiettivi dell’organizzazione
e quelli dei singoli individui che la compongono (Flamholtz et al., 1985). Il sistema di
misurazione (2.0) comprende in generale tutti i sistemi gestionali e in particolare tutti i
sistemi informativi relativi ad esempio alle operations, alla logistica, all’amministrazione, al
budget, alla gestione delle risorse umane, ecc. Analizzando il sistema di misurazione
secondo una prospettiva psico-tecnica (Flamholtz, 1979, 1996a) si possono distinguere due
effetti principali della misurazione: gli effetti del processo o atto di misurazione sul fenomeno
misurato e gli effetti degli output della misurazione, cioè gli effetti prodotti dai numeri
4.0 Evaluation-Reward
ExtrinsicIntrinsic
Operational subsystem
Work behaviors
Outcomes
PerformanceAttitudes
2.0 Measurement
Information process
1.0 Planning
Goals standards
3.0 Feedback
Organizational structure
Organizational culture
External environment
Control context
Core control system
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
48
(risultati) ottenuti dalla misurazione. Nel primo caso si parla di “funzione di processo” della
misurazione, che si configura quindi come una forma di controllo ex-ante (Flamholtz et al.,
1985): Nella sua funzione di processo la misurazione svolge quattro sotto-funzioni
fondamentali (Flamholtz, 1996a):
● sotto-funzione di criterio (criterion function): la misurazione fornisce uno o più criteri
operativi per guidare le decisioni;
● sotto-funzione catalizzatrice (catalytic function): la misurazione determina l’esame
sistematico dei parametri sottostanti alla misurazione stessa e quindi funge da
catalizzatore per produrre una pianificazione sistematica;
● sotto-funzione di ambiente (set function): la misurazione può influenzare la capacità di
percezione dell’ambiente circostante da parte degli individui fornendo un set di
informazioni sullo stesso;
● sotto-funzione motivazionale (motivational function): strettamente collegata alla
funzione di ambiente, consiste nell’influenzare il comportamento a prescindere dai
risultati ma per il semplice atto della misurazione; lo stesso processo di misurazione,
richiamando l’attenzione delle persone sulle aree oggetto di misurazione (attention
focusing property), agisce come strumento di controllo sui loro comportamenti. In
sostanza il solo dichiarare che verrà rilevata la percentuale di scarti a fine linea di
produzione, o che verrà monitorata l’incidenza dei reclami rispetto ai prodotti venduti o
ai contratti emessi motiverà le persone a concentrare i loro sforzi su questi elementi
nel tentativo di minimizzare queste grandezze, cioè di aumentare la qualità dei
processi.
Concentrandosi sugli effetti prodotti dai risultati della misurazione si parla invece di “funzione
di output”, ovvero di una funzione informativa che si configura quindi come una forma di
controllo prevalentemente ex-post (Flamholtz et al., 1985). Il sistema di misurazione è in
questo caso sostanzialmente un fornitore di dati e informazioni per definire le opportune
azioni correttive (sotto-funzione di feedback) e quindi per supportare il processo decisionale
(sotto-funzione decisionale).
Il sistema di feedback (3.0) riguarda la comparazione dei risultati della misurazione rispetto
agli obiettivi e standard prefissati e funge da input (Flamholtz et al., 1985, 1996a):
● per il sistema di pianificazione (1.0) al fine di portare gli opportuni aggiustamenti agli
obiettivi;
● per l’operational subsytem fornendo indicazioni per la correzione dei comportamenti
(feeback correttivo);
● per il sistema di valutazione e ricompense (4.0) allo scopo di fornire una base per la
valutazione delle performance, l’amministrazione delle ricompense (feedback
valutativo) di natura sia estrinseca sia intrinseca.
Nella progettazione di un sistema di controllo, così come nella sua valutazione, tre domande
dovrebbero essere poste (Flamholtz, 1996b):
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
49
● in che misura il sistema cerca di controllare tutti gli obiettivi e gli aspetti rilevanti delle
performance dell’azienda?
● in che misura il sistema conduce ai comportamenti prefissati e desiderati?
● in che misura conduce persistentemente ai quei comportamenti?
In altre parole il sistema può essere valutato sulla base di tre dimensioni: la rilevanza, la
validità e l’affidabilità comportamentale (Flamholtz, 1996b). La prima (behavioral relevance)
misura la capacità del sistema di controllo di identificare tutti i comportamenti od obiettivi
rilevanti richiesti dall’organizzazione; se non fossero identificati tutti il sistema non sarebbe in
grado di indirizzare correttamente il comportamento delle persone. La seconda (behavioral
validity) misura la capacità del sistema di condurre ai comportamenti e agli obiettivi target.
La terza (behavioral reliability) misura invece la capacità del sistema di controllo di riprodurre
nel tempo gli stessi comportamenti, a prescindere dal fatto che siano quelli prefissati e
desiderati.
Un altro framework di controllo è quello proposto da Simons (1995), che prevede una
rappresentazione tramite quattro componenti o leve d’azione (levers of control): il sistema
dei valori (belief system), il sistema dei limiti (boundary system), il sistema diagnostico
(diagnostic system) ed il sistema interattivo (interactive system). I manager possono agire
sulle quattro leve per controllare il percorso che porta l’organizzazione al raggiungimento dei
suoi obiettivi strategici (Simons, 1999; D’Onza 2008). Il sistema dei valori è considerato “the
explicit set of organizational definitions that senior managers communicate formally and
reinforce systematically to provide basic values, purpose, and direction for the organization”
(Simons, 1995). In altre parole è il sistema attraverso il quale vengono comunicati i valori
chiave (core values) che ispirano e motivano i membri dell’organizzazione a cercare,
esplorare, creare ed espandere i propri sforzi e le proprie iniziative nell’intraprendere le
azioni pertinenti agli obiettivi e alla strategia complessiva (Widener, 2007). Queste azioni,
specialmente in ambienti dinamici e turbolenti, devono essere comunque limitate per evitare
l’assunzione di atteggiamenti troppo rischiosi: tale restrizione è fornita dal sistema dei limiti
che agisce in spinta contrapposta a quella esercitata dal sistema dei valori (Widener, 2007).
Il boundary system definisce il dominio all’interno del quale le azioni e i comportamenti sono
accettabili (Simons, 1995) e permette quindi di delimitare lo spazio delle possibilità dei
membri dell’organizzazione. Lo strumento rappresentativo del sistema dei valori è costituto
dal documento che raccoglie la vision, la mission e i valori stessi dell’organizzazione; un
esempio di strumento del sistema dei limiti è invece il codice di condotta (code of conduct). Il
sistema diagnostico ha l’obiettivo di allineare i comportamenti dei membri
dell’organizzazione al raggiungimento degli obiettivi (Widener, 2007) e di verificare
l’avanzamento della strategia deliberata (D’Onza, 2008). Il sistema permette di effettuare il
benchmark rispetto agli standard e ai target prefissati; in maniera analoga al sistema dei
limiti, agisce come vincolo sui comportamenti delle risorse. Il sistema interattivo adotta
invece una visione prospettica (forward-looking) e si fonda sul dialogo frequente e attivo tra i
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
50
top manager (Widener, 2007): è finalizzato a valutare le tendenze in atto nello scenario
competitivo per far fronte alle incertezze strategiche (D’Onza, 2008). Simons (1999) lo
considera un facilitatore dell’apprendimento organizzativo; dal momento che il sistema
interattivo spinge i membri dell’organizzazione a cercare e intraprendere comportamenti che
possono dar luogo ad una strategia emergente, esso viene visto come un sistema di double-
loop learning (Widener, 2007). Il levers of control framework serve quindi da guida alla
progettazione del sistema di controllo in quanto i manager devono tener conto di tutte e
quattro le componenti per ottenere un sistema efficace che facilita le performance
organizzative (Simons, 1999).
Un ulteriore framework legato al tema del controllo, molto citato soprattutto nella letteratura
dei practictioner, è il COSO Internal Control - Integrated Framework (di seguito COSO
Framework) pubblicato nel 1992; è suddiviso in cinque componenti principali come
rappresentato in Figura 11.
Figura 11 COSO Internal Control - Integrated Framework. Fonte: COSO, 1992
I componenti sono strettamente correlati fra loro e affinché il sistema di controllo funzioni in
maniera efficace devono essere tutti presi in considerazione (Amudo e Inanga, 2009). Il
primo componente è l’ambiente di controllo (control environment) che determina il livello di
sensibilità dei membri dell’organizzazione alla necessità del controllo; costituisce la base su
cui poggiano tutti gli altri componenti (PricewaterhouseCoopers, 2004) in quanto definisce il
contesto organizzativo in cui il controllo esercita la sua azione (D’Onza, 2008). Fattori che
influenzano l’ambiente di controllo sono ad esempio l’integrità, i valori etici, lo stile di
leadership adottato dal management, le competenze delle risorse umane, le modalità di
delega delle responsabilità, ecc. La struttura organizzativa è un elemento molto importante
dell’ambiente di controllo (Parretta, 2007; D’Onza, 2008). Il secondo componente è la
valutazione del rischio di origine sia interna sia esterna all’impresa. In altre parole, si tratta di
individuare e analizzare i fattori che possono pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi e
INFORMAZIONI E COMUNICAZIONE
ATTIVITÀ DI CONTROLLO
VALUTAZIONE DEL RISCHIO
AMBIENTE DI CONTROLLO
MONITORAGGIO
Unità A
Unità B
Processo 1
Processo 2
Capitolo 1 L’analisi della letteratura
51
quindi di intraprendere le opportune misure di gestione (PricewaterhouseCoopers, 2004). Le
attività di controllo costituiscono il terzo componente; si possono definire come l’insieme
delle politiche e delle procedure che assicurano che le direttive del management vengano
applicate e attuate a tutti i livelli organizzativi. Il quarto componente del COSO Framework è
costituito dalle informazioni e dalla comunicazione: le informazioni sono necessarie per i
processi decisionali; i sistemi informativi devono rilevare e rendere disponibili dati relativi agli
aspetti operativi, economico-finanziari, e al rispetto degli obblighi normativi e legali. È
importante inoltre che esistano comunicazioni efficaci in senso bidirezionale sia
verticalmente sia orizzontalmente all’interno dell’organizzazione (PricewaterhouseCoopers,
2004). Infine, il quinto componente è costituito dal monitoraggio che si concretizza in tutte le
attività di supervisione periodica o continua sul sistema di controllo. Questi cinque
componenti sono trasversali alle tre aree riportate nella faccia superiore del cubo
rappresentato in Figura 11, che sono a loro volta collegate ai tre obiettivi del sistema di
controllo interno (COSO, 1992): garantire l’efficacia e l’efficienza delle operations,
l’affidabilità dell’informativa finanziaria ed il rispetto della normativa vigente ed applicabile
all’organizzazione. Inoltre, sono applicabili all’interno dell’organizzazione a diversi livelli di
profondità, ovvero considerando unità organizzative come le divisioni, i dipartimenti o
funzioni, i processi aziendali o le singole attività all’interno dei processi (come evidenziato
dalla faccia laterale del cubo rappresentato in Figura 11). Essendo stato sviluppato per
essere applicabile ad ogni tipo di organizzazione le indicazioni fornite dal COSO Framework
sono di alto livello (Ramos, 2004): l’obiettivo del framework non è quindi quello di fornire
indicazioni pratiche sulla strutturazione del sistema di controllo e tantomeno stabilire
esattamente le modalità di valutazione della sua efficacia8.
I framework sopra citati rappresentano in sostanza una mappa concettuale all’interno della
quale dovrebbero trovare posto, in una combinazione strutturata, un insieme di tecniche e
strumenti che permettono il controllo all’interno dell’organizzazione; sono compresi ad
esempio aspetti “hard” come i controlli di natura contabile (ad esempio le riconciliazioni
bancarie, gli inventari, ecc.), misure quali la segregazione dei ruoli (segregation of duties) o
le policy autorizzative (Maijoor, 2000), i charter (ad esempio i regolamenti o funzionigrammi
dei vari organi dell’impresa), le procedure, istruzioni e manuali operativi (De Pooter, 2008).
Allo stesso tempo vengono considerati anche aspetti più “soft” come ad esempio la cultura
organizzativa, la comunicazione, lo stile di management. Viene infine richiamato, a volte solo
in maniera implicita, anche il ruolo che la struttura organizzativa recita sia come strumento di
controllo stesso sia come fattore di contesto che abilita il controllo. Il tema dell’integrazione
tra sistemi di controllo, ivi compresa le gestione dei rischi, e la struttura organizzativa, per
8 Amudo e Inanga (2009) rilevano come il COSO Framework non consideri l’Information Technology (IT) come uno dei maggiori componenti del sistema di controllo; tuttavia altre istituzioni hanno sviluppato framework specifici per l’ambito IT, come ad esempio il Control Objectives for Information and Related Technology (Cobit), che nella pratica aziendale vengono spesso adottati come riferimento a complemento di quanto sancito all’interno del COSO Framework.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
52
quanto sia un aspetto fortemente auspicato da quasi tutti gli studiosi della materia, risulta
tuttavia un terreno meno battuto dall’attività di ricerca.
53
CAPITOLO 2 IL PROGETTO DI RICERCA
2.1 AMBITO E DOMANDE DI RICERCA
L’interesse nei confronti dell’ambito di ricerca scelto è nato a partire dall’esperienza condotta
sul campo grazie all’esercizio, per quasi tre anni, della professione di consulente presso una
member firm di un network globale (una delle cosiddette “Big Four” della consulenza) e si è
rafforzato nel corso dell’ultimo anno in seguito al passaggio nel dipartimento di gestione dei
rischi di una grande corporation. Avendo preso parte a progetti a carattere organizzativo
nell’ambito della gestione dei rischi e della compliance si è sviluppata nel dottorando quella
che French (2009) definisce la “notion in the practitioner’s mind” circa la necessità di un
cambiamento nelle prassi della pratica aziendale. La progettazione e implementazione di
sistemi di controllo che siano anche sistemi di gestione dei rischi, per quanto auspicata e
indirizzata da diverse normative nazionali e sovranazionali, da linee guida emanate da
autorità di vigilanza e controllo, istituzioni di categoria e associazioni professionali, è a
parere del dottorando non ancora adeguatamente supportata da contributi di ricerca teorici e
pratici che affrontino più direttamente il tema dell’integrazione dei suddetti sistemi all’interno
della struttura organizzativa dell’impresa. Sotto il profilo organizzativo, l’implementazione di
tali sistemi richiede di stabilire in primo luogo le responsabilità e i compiti delle diverse
funzioni che possono essere coinvolte nei processi di controllo e gestione del rischio,
nonché la predisposizione di canali di comunicazione e di reporting che permettano alle
diverse funzioni di svolgere le attività loro assegnate. Si tratta in altre parole di definire
strutture, ruoli e processi organizzativi.
La rilevanza dell’ambito di ricerca, individuabile all’incrocio tra il filone organizzativo e quello
del risk management, è testimoniata dalla pressione normativa esercitata negli ultimi
decenni a livello globale sulla corporate governance delle imprese (si veda l’introduzione a
questo lavoro per un excursus sintetico delle principali disposizioni emanate a partire dagli
anni 1980-1990). Le organizzazioni devono oggi, ancor più di prima, affrontare la sfida
rappresentata dalla progettazione di efficaci ed efficienti sistemi di controllo che permettano
la creazione di valore per l’impresa e i suoi stakeholder anche attraverso una adeguata
gestione dei rischi. Il contesto competitivo fortemente turbolento e i recenti fenomeni di crisi
dovuti ad alcuni noti scandali finanziari hanno fatto si che elementi tipicamente interni
all’impresa, come ad esempio il sistema di controllo, cominciassero ad assumere sempre
maggiore valenza pubblica. I soggetti che si collocano all’esterno dell’azienda hanno
esigenze informative e conoscitive non più soltanto legate al bilancio di esercizio, il primo
strumento di comunicazione verso l’esterno dell’andamento economico dell’impresa, ma
anche all’adeguatezza complessiva del modello di governance, con elementi di sempre
maggior dettaglio riguardo ai sistemi di controllo e gestione dei rischi (Garzella et al., 2009).
Se il controllo organizzativo è da sempre stato considerato una delle principali funzioni
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
54
manageriali (Maguire, 1999) - già Fayol (1931) lo faceva rientrare tra le cinque attività che
caratterizzano la funzione amministrativa (administrative function) – è stata l’evoluzione
normativa a portare all’abbandono della concezione del risk management come funzione
circoscritta di natura prettamente tecnica, ampliando la gamma di attività ad essa
riconducibili e delle competenze necessarie al loro svolgimento (Giorgino e Travaglini,
2008). Gallagher (1956) sottolinea come l’abbattimento dei rischi coinvolge qualsiasi
dipartimento o funzione organizzativa; per questo il compito primario di ogni risk manager è
quello di ottenere collaborazione e accordo da tutti i manager di linea per analizzare i rischi e
prendere le adeguate misure di gestione. Se da un lato questa ricerca di cooperazione
richiede una certa forma di decentramento dall’altro è anche necessario mantenere un certo
controllo centralizzato: le decisioni finali per definire pratiche standard di abbattimento del
rischio dovrebbero essere lasciate ad un gruppo qualificato di esperti dediti all’emanazione
di policy e procedure. Inoltre, può essere che lasciare questa autorità finale nelle mani di un
comitato possa contribuire ad una maggiore accettazione delle indicazioni fornite. Come
conseguenza, l’attribuzione della responsabilità della funzione di risk management ha
cominciato ad essere spostata a livelli sempre più elevati nelle gerarchie dell’impresa
(Kendall, 1998), con la costituzione in alcuni casi di specifici comitati all’interno dei board e
anche del ruolo di Chief Risk Officer (CRO), il quale riunisce sotto il suo coordinamento le
attività di gestione di tutte le tipologie di rischi. La gestione dei rischi è diventata così uno
degli elementi cardine della governance complessiva dell’impresa. In base all’ultima
definizione fornita dall’Associazione Italiana Internal Auditors, riconosciuta come sezione
italiana dell’Institute of Internal Auditors, leader mondiale per gli standard, la certificazione, la
ricerca e la formazione per la professione di Internal Auditor, e in base alle comuni
interpretazioni, la gestione dei rischi è una delle tre componenti maggiormente citate circa il
ruolo e gli obiettivi del sistema di controllo interno (Garzella et al., 2009), assieme
all’accuratezza e correttezza delle informazioni e dei documenti prodotti, e all’efficacia e
l’efficienza con cui vengono condotte le operations. Secondo D’Onza (2008) la gestione del
rischio appare in molti casi come la principale attività del controllo interno. Nel contesto
internazionale, il COSO Framework (1992) considera la valutazione dei rischi come uno dei
cinque componenti del controllo. Nell’evoluzione successiva, completata dalla pubblicazione
nel 2004 dell’Enterprise Risk Management Framework (di seguito anche COSO ERM
Framework), si cambia sensibilmente prospettiva in quanto le attività di controllo vengono
considerate tra le azioni di risposta al rischio in ottica di prevenzione o di mitigazione.
D’Onza (2008) spiega l’apparente contraddizione: i documenti del COSO esaminano due
realtà, il controllo interno e il risk management, che pur essendo in stretta relazione tra loro,
rimangono concettualmente diverse. Nel COSO Framework l’accento è posto sul controllo
interno: l’individuazione dell’insieme degli eventi che possono pregiudicare il raggiungimento
degli obiettivi organizzativi (cioè i rischi) è propedeutica alla progettazione di controlli in
un’ottica di valutazione costi-benefici; in altri termini, sebbene la progettazione e il
Capitolo 2 Il progetto di ricerca
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funzionamento dei controlli rappresentino un impiego di risorse, la loro assenza,
comportando una esposizione dell’azienda ai rischi, potrebbe comportare un costo di gran
lunga superiore. Nel caso del COSO ERM Framework il focus è posto invece sulla gestione
dei rischi e le attività di controllo sono quindi considerate una delle alternative per il presidio
dell’accadimento di eventi rischiosi. In sostanza, si tratta di due facce della stessa medaglia.
Spostando il focus sul contesto italiano, l’ammodernamento del sistema di corporate
governance è iniziato con la pubblicazione del Testo Unico della Finanza (D.Lgs. n.58/1998),
abbreviato in “T.U.F.” e noto anche come “Decreto Draghi”, anticipata dalla comunicazione
CONSOB del 20 Febbraio 1997 (DAC/RM/97001574) intitolata “Raccomandazioni in materia
di controlli societari”; è stato poi completato dal D.Lgs. n. 6/2003, noto come “Riforma del
diritto societario” che ha contribuito all’allineamento della materia alle best practice
internazionali (PricewaterhouseCoopers, 2004). Il processo ha portato ad avere oggi una
articolazione della normativa che vede: l’emanazione primaria da parte del legislatore, la
normazione secondaria delle Autorità di vigilanza e controllo, l’auto-regolamentazione del
gestore del mercato (ad esempio Borsa Italiana) e infine l’autonomia societaria. Queste
emanazioni normative hanno formalizzato il riconoscimento della centralità del sistema di
controllo interno nel processo di governo aziendale attribuendogli esplicitamente il fine di
garantire la conformità degli atti di gestione all’oggetto sociale, la salvaguardia del
patrimonio e l’attendibilità dei dati contabili (si veda: Anthony et al., 2004). Secondo Garzella
et al. (2009) il termine “controllo interno” appare per la prima volta nella legislazione italiana
proprio nel T.U.F. che all’art. 149 indica la vigilanza sull’adeguatezza del sistema di controllo
interno tra i doveri del collegio sindacale. Prima della riforma del diritto societario del 2003,
l’unico riferimento del codice civile al tema del controllo era rinvenibile nel vecchio art. 2403,
in cui si individuavano i doveri del collegio sindacale che “deve controllare l’amministrazione
della società” (Garzella et al., 2009). Nella nuova formulazione, successiva al D.Lgs.
n.6/2003, con il termine controllo si fa riferimento ad un’attività e una funzione che coinvolge
tutti gli organi istituiti nei sistemi di amministrazione e di controllo previsti dal nuovo art. 2380
del codice civile. Il board ha il compito di controllare le attività svolte dal management in
nome e per conto della proprietà o degli azionisti. Il collegio ha una funzione di vigilanza che
comprende il controllo sul rispetto delle norme e dei principi di una corretta
amministrazione9, la valutazione dell’adeguatezza della struttura organizzativa, oltre al
dovere di comunicare alla CONSOB eventuali anomalie riscontrate nell’esercizio delle
attività di controllo e vigilanza. Il controllo contabile è invece prevalentemente affidato alle
società di revisione esterne ed ha lo scopo di verificare l’attendibilità dei dati e delle
informazioni aziendali rispetto ai principi contabili generalmente accettati. Un’altra tappa
fondamentale nell’evoluzione della corporate governance in Italia è stata la prima
9 Nel modello monistico e dualistico tale compito spetta rispettivamente al comitato di controllo sulla gestione, istituito all’interno del consiglio di amministrazione, e al consiglio di sorveglianza (supervisory board).
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
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pubblicazione del codice di autodisciplina di Borsa Italiana, noto come “Codice Preda” e
avvenuta nel 2002. Già in questa versione, rivista poi nel 2006 e nel 2011, il sistema di
controllo interno e la gestione dei rischi trovano una dichiarata collocazione alla base dei
meccanismi di corporate governance (PricewaterhouseCoopers, 2004; Giorgino e Travaglini,
2008). Nella sua ultima release, il codice di autodisciplina affida al consiglio di
amministrazione, nel più ampio compito di perseguire la creazione di valore per gli azionisti
in un orizzonte di medio-lungo periodo (Art. 1, Principio 1.P.1.), il ruolo di esaminare e
approvare i piani strategici, industriali e finanziari, definire il sistema di governo societario e
definire la natura e il livello di rischio compatibile con gli obiettivi strategici (Art 1., Criterio
Applicativo 1.C.1.). Quest’ultimo aspetto viene reso esplicito già all’interno dell’articolo 1
proprio nell’ultima pubblicazione del codice, rispetto a quanto riportato nella precedente
versione del 2006. Inoltre, all’Articolo 7 “Sistema di controllo interno e gestione dei rischi”,
che sostituisce il precedente Articolo 8 “Sistema di controllo interno”, si raccomanda
attraverso il Principio 7.P.1.:
Ogni emittente si dota di un sistema di controllo interno e di gestione dei rischi
costituito dall’insieme delle regole, delle procedure e delle strutture
organizzative volte a consentire l’identificazione, la misurazione, la gestione e il
monitoraggio dei principali rischi. Tale sistema è integrato nei più generali
assetti organizzativi e di governo societario adottati dall’emittente e tiene in
adeguata considerazione i modelli di riferimento e le best practices esistenti in
ambito nazionale e internazionale.(Borsa Italiana, 2011)
Il consiglio di amministrazione svolge un ruolo di indirizzo e di valutazione dell’adeguatezza
di tale sistema (Art. 7, Principio 7.P.3.) e individua un comitato controllo e rischi, composto
da amministratori indipendenti o in alternativa da amministratori non esecutivi in
maggioranza indipendenti, che ha funzione consultiva e di supporto al consiglio di
amministrazione (Art. 7, Principio 7.P.4.). La responsabilità dell’identificazione dei rischi
aziendali e della progettazione e gestione del sistema di controllo e gestione dei rischi è
affidata agli amministratori esecutivi. Oltre a quelli finanziari ed operativi, devono essere
considerati i rischi legati al rispetto delle leggi e delle normative applicabili.
Emerge quindi che i codici di corporate governance emanati a livello globale pongono molta
attenzione al tema della gestione dei rischi nella convinzione che tanto migliore è il risk
management dell’impresa tanto maggiori saranno le probabilità di raggiungere gli obiettivi di
business e quindi di soddisfare tutti gli stakeholder. De Pooter (2008) evidenzia tuttavia
come un focus troppo centrato sui rischi possa fare perdere di vista l’importanza del tema
dei controlli: infatti, molto spesso la causa alla radice del manifestarsi degli eventi dannosi
risiede proprio nelle cosiddette control deficiencies. Secondo l’autore l’enfasi dovrebbe
pertanto essere posta in primo luogo sull’adeguatezza ed efficacia dei sistemi di controllo: il
management deve porre in essere controlli non solo per mitigare i rischi, rispondendo quindi
alla domanda “What could go wrong?”, ma anche e soprattutto per far si che gli obiettivi
Capitolo 2 Il progetto di ricerca
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vengano raggiunti, rispondendo quindi alla domanda “What should go right?”. I controlli,
servendo ad allineare i comportamenti delle persone agli interessi dell’organizzazione,
impattano direttamente sulla qualità dei processi aziendali stabilendone l’affidabilità e quindi
il livello di variabilità dei risultati, ovvero il livello di rischio (De Pooter, 2008). Garzella et al.
(2009) riassumono chiaramente questo aspetto indicando i tre principali impatti del sistema
di controllo all’interno del processo di creazione del valore per l’impresa:
● influenza la capacità di comprendere e leggere gli andamenti del business, la validità
delle decisioni e l’adeguatezza delle azioni, agendo quindi positivamente sui flussi
economico-finanziari prospettici;
● riduce la rischiosità di tali flussi in “modo diretto” perché rende il management
consapevole degli elementi di rischiosità della gestione e in grado di agire per il suo
contenimento;
● agisce sulla rischiosità dell’azienda in “modo indiretto” poiché riducendo la rischiosità
percepita dagli stakeholder favorisce il rapporto di fiducia e rende maggiormente
stabili le relazioni degli stessi con l’azienda.
Giorgino e Travaglini (2008) vedono inoltre diversi benefici nell’integrazione tra sistema di
gestione dei rischi e sistemi di controllo:
● migliore capacità di identificare livelli di tolleranza al rischio consistenti con gli obiettivi
aziendali;
● migliore identificazione delle opportunità;
● razionalizzazione delle risorse e migliore allocazione del capitale in base ai rischi di
ciascuna area di business all’interno dell’impresa;
● riduzione degli eventi imprevisti e quindi dei relativi costi o perdite;
● maggiore affidabilità delle informazioni finanziarie;
● conformità alle leggi e normative.
L’attenzione posta dal legislatore e dai vari organismi di vigilanza e regolamentazione verso i
controlli ha spinto le aziende ad individuare una pluralità di soggetti e a costituire una
molteplicità di organi volti ad organizzare una serie di processi ed attività necessarie
all’espletamento delle loro funzioni di controllo: tuttavia in molti casi l’aumento delle strutture
del controllo non è riuscito ad assicurare l’efficacia e l’efficienza del sistema nel suo
complesso (Garzella et al., 2009). Ad esempio Kleffner et al. (2003) in una survey condotta
su un campione di imprese canadesi evidenzia come uno dei maggiori deterrenti per
l’integrazione dei sistemi di gestione dei rischi sia proprio una struttura organizzativa non
adeguata, ponendo quindi l’accento sull’aspetto organizzativo dei sistemi di controllo e
gestione dei rischi. Giorgino e Travaglini (2008) concordano sottolineando come l’incisività
dell’azione del risk manager dipenda molto dal tipo di struttura aziendale. Il risk manager per
la natura del suo stesso ruolo agisce trasversalmente nell’ambito dell’organizzazione
aziendale per cui ad esempio il grado di accentramento/decentramento della struttura
impatta necessariamente sulle caratteristiche che dovranno assumere i processi e le attività
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
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da implementare per la gestione dei rischi. La forte attenzione dedicata al risk management
da accademici, istituzioni, autorità di vigilanza, consulenti e organizzazioni internazionali se
da un lato ha favorito lo sviluppo della disciplina dall’altro ha comportato la crescita di
molteplici traduzioni del concetto di rischio fornendo diverse ricette per gestirlo (Scheytt et
al., 2006). La circolazione di tali varianti di risk management generico ha creato pressioni di
isomorfismo tra le organizzazioni per conformarsi a uno o l’altro di questi modelli, pur
nell’invocazione da parte di molti studiosi di adottare un punto di vista multidisciplinare e
sistemico nell’analisi della materia (Pennings e Woiceshyn, 1987; Storey, 1985).
Dall’analisi della letteratura condotta dal dottorando (si rimanda al Capitolo 1 per gli
approfondimenti) emerge che nel campo della corporate governance i contributi sono più
focalizzati sull’analisi delle relazioni tra le configurazioni di governance adottate dalle
imprese e le relative performance, misurate principalmente attraverso indicatori di natura
finanziaria (ad esempio il return on equity, il return on investment, ecc.) In questi studi la
chiave di lettura prevalente è quella dell’agency theory dove il principal è rappresentato dagli
azionisti e l’agente è costituito dal board e dal top management dell’organizzazione. Tuttavia
i sistemi di controllo studiati secondo la prospettiva della teoria dell’agenzia sono
generalmente collocati ad un alto livello gerarchico, riguardando spesso esclusivamente il
board della società (composizione dei comitati, remunerazione degli executive, ecc.). I
controlli di livello più operativo, per quanto raccomandati dalle best practice, sono
difficilmente presi in considerazione negli studi che si affidano alla teoria dell’agenzia; la
governance dell’impresa si deve tuttavia articolare anche ai livelli più operativi, andando a
interessare ad esempio i sistemi di controllo e di gestione dei rischi attivi in tutti i processi
aziendali (i cosiddetti controlli di linea o di primo livello). Sebbene la letteratura analizzata
all’interno di questo filone non abbia fornito contributi specificamente dedicati al tema della
progettazione complessiva dei sistemi di controllo e gestione dei rischi, è stata utile nel
fornire alcuni concetti teorici volti a contestualizzare il problema del controllo in generale, e
quindi significativi per comprendere anche il problema del controllo/gestione dei rischi.
La letteratura sul controllo organizzativo è sicuramente più ricca di indicazioni legate a
considerazioni di progettazione organizzativa dei sistemi, oltre ai contributi volti ad
analizzare l’efficacia dei vari meccanismi di controllo adottati dalle imprese. Tuttavia la
connessione e integrazione con il tema della gestione dei rischi non è sviluppata al punto
tale da includere il concetto di controllo del rischio tra i driver di progettazione. A parere del
dottorando questo aspetto è un elemento di interesse che dovrebbe essere preso in
considerazione dall’attività di ricerca, tenendo in conto, in modo particolare in fase di
progettazione, del rapporto tra la struttura organizzativa e i sistemi di controllo e gestione dei
rischi. Dal momento che i sistemi di controllo sono multi-dimensione e il contesto in cui
vengono utilizzati è in continua evoluzione, anche secondo Chenhall (2003) esiste la
necessità di nuovi studi che affrontino nuove tematiche come gli sviluppi nello strategic risk
management, nelle global operations, ecc. Infatti, secondo Maijoor (2000) il concetto di
Capitolo 2 Il progetto di ricerca
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controllo (interno) è stato studiato secondo tre prospettive principali: quella dei revisori
esterni, quella organizzativa, e quella economica. Nel primo caso il focus è sui controlli di
natura contabile, generalmente in relazione a specifiche tipologie di transazioni o cicli di
attività (ad esempio il ciclo passivo). Nella prospettiva organizzativa il focus si sposta a livello
di dipartimento o divisione aziendale, studiandone in particolare l’efficacia ed efficienza.
Nella prospettiva economica l’approccio dominante è quello della teoria dell’agenzia e il
focus principale è nella relazione tra i fornitori esterni di capitale dell’azienda e i manager
interni alla stessa; gli studi in questo filone cercano di determinare l’efficienza economica
delle varie forme di controllo per la soluzione del problema d’agenzia (è evidente qui il punto
di contatto con l’ambito di competenza della corporate governance precedentemente
analizzato). Maijoor (2000) suggerisce pertanto di sviluppare la ricerca sui sistemi di
controllo interno almeno in quattro direzioni: la determinazione dei fattori che contribuiscono
ad accrescere la richiesta di controllo interno; la relazione tra il controllo interno e altri
sistemi di controllo; gli effetti del controllo interno sulle performance dell’organizzazione; la
richiesta di reporting sul controllo interno. Il secondo degli indirizzi di ricerca sopra proposti
implica prendere in considerazione il tema dell’integrazione tra diversi sistemi di controllo,
ovvero quello della progettazione dei diversi sistemi aziendali tra cui quelli che permettono il
controllo organizzativo e la gestione dei rischi. Su questo aspetto a parere del dottorando è
rilevabile uno dei principali gap presenti nella letteratura analizzata. Garzella et al. (2009)
osservano infatti che la molteplicità di strutture dei sistemi di controllo rinvenibili nelle
aziende se da un lato dipende dalla necessità di adattamento al contesto specifico
dell’impresa considerata dall’altro è anche una conseguenza dell’assenza di indicazioni,
all’interno delle normative, linee guida e codici sopra citati, circa le modalità di strutturazione
del sistema di controllo e gestione dei rischi. Si osserva quindi un certo isomorfismo a livello
dei modelli di riferimento adottati dalle imprese che si traduce però in una notevole diversità
dei modelli operativi poi effettivamente impiegati, anche in società comparabili fra loro (ad
esempio per dimensione, per settore, ecc.)10. L’attività di ricerca del dottorando si è
focalizzata quindi sugli aspetti di progettazione dei sistemi di controllo e gestione dei rischi
con l’obiettivo di identificare le risposte alle domande di ricerca riportate in Tabella 4.
10 Le società di consulenza giocano un ruolo rilevante in questo aspetto: da un lato sono portatrici di standard tra le diverse imprese clienti, proponendo modelli consolidati e ispirati alle best practice internazionali; dall’altro lato sono co-autrici, assieme alle aziende clienti, delle deviazioni o interpretazioni rispetto ai contenuti dei modelli di riferimento, conducendo a quella diversità di esiti nonostante un punto di partenza in molti casi comune. A parere del dottorando queste deviazioni di percorso sono più spesso guidate da specifiche situazioni contingenti che da un approccio strutturato di adattamento al contesto organizzativo in esame.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
60
Tabella 4 Le domande di ricerca D1 Come devono essere definite le strutture organizzative necessarie per la gestione
dei rischi in un’organizzazione?
D2 Come devono essere modificati i sistemi di controllo per contemplare la gestione dei
rischi in un’organizzazione?
Con la prima domanda di ricerca il dottorando si è posto l’obiettivo di esplorare le logiche e i
driver che sottostanno alle decisioni manageriali circa l’impostazione di strutture e ruoli
all’interno dell’organizzazione al fine di consentire la gestione dei rischi; con la seconda
domanda di ricerca l’attività di esplorazione si estende ai processi e agli strumenti di
controllo e in particolare a capire le logiche e i driver di progettazione degli stessi in ottica di
integrazione della gestione dei rischi. Il lavoro di ricerca si colloca pertanto in linea con
quanto osservato da Spira e Page (2003) riguardo al crescente bisogno di una nuova
definizione della relazione tra corporate governance e sistemi di controllo dando un senso al
risk management che vada oltre il suo profilo tradizionalmente tecnico. Infine, la scelta
dell’ambito di ricerca, oltre ad essere motivata dalla rilevanza del tema per le aziende, è
stata anche sostenuta dalla possibilità di avvalersi di sinergie tra l’attività professionale e
l’attività di ricerca. Il contributo atteso dal lavoro di ricerca è di tipo incrementale (Eden e
Huxham, 1996) alla teoria sul controllo organizzativo, includendo la gestione dei rischi come
dimensione di analisi; inoltre, comprendendo le logiche e le implicazioni delle scelte di
progettazione dei sistemi di controllo e gestione dei rischi un ulteriore contributo atteso è lo
sviluppo di indicazioni di natura pratico-operativa (Westbrook, 1995) utili ai manager che si
occupano della tematica.
Capitolo 2 Il progetto di ricerca
61
2.2 LA METODOLOGIA DI RICERCA
Il lavoro di ricerca si è concretizzato nella conduzione di un caso studio. I casi studio
enfatizzano “il ricco e reale contesto in cui i fenomeni accadono” (Eisenhardt e Graebner,
2007) e sono adattati per trovare risposte a domande del tipo “come?” e “perché?”
(Meredith, 1998; Voss et al., 2002; Yin, 2003), in particolare in aree dove la ricerca non è
ancora sviluppata (Eisenhardt e Graebner, 2007). Inoltre il caso studio è la metodologia più
adatta in situazioni dove il ricercatore ha poco controllo sugli eventi e quando l’attenzione è
posta su un fenomeno contemporaneo in un contesto di vita reale (Yin, 2003). Dall’analisi
della letteratura11 è emerso che complessivamente i lavori di ricerca condotti tramite caso
studio ammontano al 24% del totale perimetro di analisi (Figura 12), di cui poco più della
metà (14%) attraverso un caso studio singolo. Emerge inoltre che circa il 45% dei lavori
analizzati costituiscono dei contributi di natura teorica, ovvero non sviluppati a partire da
evidenze empiriche raccolte da fonti primarie (Scandurra e Ethlyn, 2000).
Figura 12 Distribuzione degli articoli per metodologia di ricerca
Nell’area della corporate governance la percentuale di contributi di natura teorica cresce al
58% mentre si riducono al 16% i casi studio (Figura 13). Nell’area organizzativa, e in
particolare nella letteratura sul controllo organizzativo, la percentuale di contributi di natura
teorica si attesta al 45%, mentre salgono al 26% i casi studio (Figura 14). Infine, nell’area del
risk management i contributi di natura prettamente teorica scendono al 35% mentre quelli
riconducibili a casi studio ammontano al 24%.
11 Come anticipato nel paragrafo 1.1 (“La metodologia di analisi della letteratura”) per ogni contributo analizzato è stata tenuta traccia della metodologia di ricerca adottata (dove non esplicitamente dichiarata dagli autori è stata dedotta dalla lettura dell’articolo).
Interview2% Literature
Analysis13%
Multiple Case Study10%
Single Case study14%
Survey16%
Theoretical paper45%
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
62
Figura 13 Distribuzione articoli dell'area corporate governance per metodologia di ricerca
Figura 14 Distribuzione articoli dell'area organizzativa per metodologia di ricerca
Figura 15 Distribuzione articoli dell'area risk management per metodologia di ricerca
Interview4% Literature
Analysis11%
Multiple Case Study8%
Single Case study8%
Survey11%
Theoretical paper58%
Interview3% Literature
Analysis13%
Multiple Case Study11%
Single Case study15%
Survey13%
Theoretical paper45%
Literature Analysis
14%
Multiple Case Study8%
Single Case study16%
Survey27%
Theoretical paper35%
Capitolo 2 Il progetto di ricerca
63
Pertanto, la scelta del caso studio come metodologia di ricerca oltre a risultare adeguata agli
obiettivi e alle domande di ricerca individuate, si configura congrua anche rispetto al
possibile contributo fornito alla letteratura nell’ambito individuato.
In particolare, è stato effettuato un caso studio singolo longitudinale (Yin, 2003). Tale scelta
è stata in primis motivata dalla rappresentatività del caso selezionato (cfr. Tabella 4).
L’impresa oggetto di studio sta infatti attraversando una fase di cambiamento organizzativo
nell’ambito dei sistemi di controllo interno e del risk management, derivante dall’evoluzione
della normativa applicabile alla stessa. In secondo luogo, l’organizzazione è caratterizzata
da una elevata complessità determinata dalla presenza su scala globale, dalla diversità dei
business in cui opera e dalla dimensione significativa (tra i 50.000 e i 100.000 dipendenti
complessivamente). In terzo luogo, è stato possibile distinguere all’interno dello sviluppo del
caso studio due fasi consequenziali ma interdipendenti tra loro e che consentono quindi una
analisi comparata delle tematiche analizzate. Infine, la scelta del caso studio è anche
determinata dall’opportunità di accesso; le tematiche oggetto di studio sono infatti
considerate price sensitive – l’impresa è quotata su un mercato regolamentato - e l’accesso
alla documentazione interna sarebbe stato quindi molto difficile12. Si ritiene opportuno
precisare fin da questo momento che proprio per questioni di riservatezza dei dati le
informazioni derivate dalle fonti non possono essere diffuse e/o pubblicate se non in forma
anonima, elaborata ed aggregata. Non sarà quindi fatto riferimento diretto ed esplicito alle
persone coinvolte nel caso studio se non attraverso l’utilizzo di pseudonimi per garantire
l’anonimato. Inoltre, non saranno riportate citazioni dirette o testuali estrapolate dalla
documentazione interna dell’organizzazione analizzata dal dottorando; verranno altresì
utilizzati i concetti generali sottostanti a tali evidenze empiriche al fine di poter formulare le
considerazioni necessarie allo sviluppo della ricerca. Certamente, questa limitazione circa la
divulgabilità dei dati (intesi in senso stretto, ovvero così come rappresentati nelle fonti
utilizzate dal dottorando) rappresenta un punto di attenzione, di cui vi è piena
consapevolezza, in relazione alla rigorosità del lavoro di ricerca in termini di ripercorribilità
secondo quanto espresso nella recente letteratura (Voss et al., 2002; Scandurra e Ethlyn,
2000; Yin, 2003; Eisenhardt e Graebner, 2007; Gibbert et al., 2008). Il dottorando si è
tuttavia impegnato a fornire in questo elaborato, nel rispetto della riservatezza dei dati che è
tenuto ad osservare, tutti gli elementi ritenuti a suo parere necessari e utili alla valutazione
del lavoro di ricerca da parte di soggetti esterni rispetto al caso studio.
Il caso studio si è svolto nel periodo dal 2008 al 2011 presso la capogruppo di un gruppo
finanziario (di seguito nominata “Finanza SpA”) che opera principalmente nel settore
assicurativo, pur essendo presente anche in altri settori come ad esempio quello bancario e
immobiliare. I 26 mesi di osservazione diretta/partecipata costituiscono la fonte prevalente di
12 Il dottorando ha avuto accesso alla documentazione vincolato da forme di tutela della privacy regolate contrattualmente, come nel caso ad esempio dei contratti di fornitura di servizi professionali di consulenza.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
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dati primari a cui si aggiungono tutti i dati e le informazioni derivanti dall’analisi della
documentazione e dei verbali d’archivio - categorie proposte da Yin (2003) – attraverso
l’accesso a:
● manuali metodologici ed operativi;
● regolamenti interni, circolari, linee guida, policy e procedure aziendali;
● specifiche presentazioni e materiali informativi predisposti a supporto di riunioni e
workshop;
● e-mail scambiate con gli attori del caso studio riguardo a tematiche rilevanti per
l’oggetto della ricerca;
● verbali di riunioni.
Si precisa che alla redazione di parte della documentazione sopra elencata ha partecipato
personalmente anche il dottorando. L’osservazione diretta/partecipata13 è stata integrata da
frequenti momenti di discussione e condivisione informale avuti con gli informatori chiave
(key informant) all’interno del caso studio. L’attività di ricerca svolta dal dottorando presenta
molte caratteristiche tipiche anche dell’action research. Tale metodologia per alcuni autori
rientra infatti nella famiglia delle case study research ed è particolarmente adatta per finalità
di theory building (Westbrook, 1995). L’elemento che maggiormente accomuna l’attività di
ricerca svolta dal dottorando con l’action research è proprio la partecipazione diretta alle
attività dell’organizzazione14; un importante vantaggio derivante da questo aspetto è la
possibilità di lavorare a stretto contatto con i manager dell’azienda su tematiche di loro
interesse permettendo quindi di aumentare la comprensione dei fenomeni studiati (Eden e
Huxham, 1996; Coughlan e Coghlan, 2002; French, 2009). Inoltre, il rapporto di confidenza
che si può instaurare tra il ricercatore e gli informatori fa si che il primo non venga percepito
dai secondi come un soggetto esterno, evitando così la possibilità che le informazioni
vengano manipolate dagli informatori perché il ricercatore viene percepito come una
potenziale minaccia (Westbrook, 1995). Un altro elemento che accomuna l’attività del
dottorando con la metodologia dell’action research è l’esistenza di due progetti paralleli
(Coghlan e Brannick, 2001), ovvero quello che vede il ricercatore impegnato assieme
all’organizzazione (core project) e quello di ricerca in senso stretto (thesis project), che può
condurre ad esempio ad una tesi di dottorato (Perry e Zuber-Skerritt, 1994). Il progetto core
si svolge e si svolgerebbe a prescindere dal fatto che sia oggetto di studio del secondo
progetto parallelo di ricerca. È quindi importante sottolineare, anche per il presente lavoro di
ricerca, che non esiste una relazione tra il successo del progetto core e il successo del
progetto di ricerca; in altre parole gli esiti del primo progetto potrebbero essere l’oggetto di
13 L’osservazione diretta/partecipata è frutto del coinvolgimento del dottorando nei diversi progetti avviati dall’organizzazione oggetto di studio; concretamente si fa riferimento a tutti gli incontri di condivisione, le sessioni di formazione, i brainstorming e i workshop effettuati durante lo svolgimento dei progetti. 14 Alcuni autori parlano infatti di participatory action research (si veda ad esempio: Eden e Huxham, 1996; Cassell e Johnson, 2006).
Capitolo 2 Il progetto di ricerca
65
studio del secondo ma non le determinati dei risultati dello stesso (Coughlan e Coghlan,
2002). Tuttavia, nonostante la duplice posizione del dottorando come practitioner e
ricercatore e le comunanze sopra elencate, il lavoro di ricerca non può configurarsi come
action research in quanto non presenta l’elemento cardine di questa metodologia di ricerca,
ovvero la natura ciclica e iterativa costituita dalle fasi di identificazione e diagnosi del
problema (context e scope), pianificazione delle azioni da intraprendere (plan), intervento
per l’implementazione dei piani (act), osservazione delle conseguenze (observe) e
valutazione dei risultati per l’apprendimento (reflect) e la pianificazione degli interventi
successivi (Coughlan e Coghlan, 2002; Cassell e Johnson, 2006; French, 2009).
L’unità di analisi considerata è l’organizzazione in quanto i fenomeni e le variabili oggetto di
studio si riferiscono alla stessa nella sua interezza; inoltre, essendo Finanza SpA la
capogruppo di un gruppo di imprese, le decisioni e le soluzioni intraprese dalla stessa non
solo impattano ma in parte anche dipendono dalle altre organizzazioni del gruppo; pertanto è
importante sottolineare che l’unità di analisi è rappresentata dall’organizzazione nel suo
complesso, anche in qualità di capogruppo che emana direttive e linee guida per le altre
società del gruppo. Gli informatori chiave del caso studio sono stati sette, di cui quattro sono
attualmente membri dell’organizzazione oggetto di studio mentre gli altri tre sono consulenti
che hanno collaborato per almeno un anno ai progetti di Finanza SpA nell’ambito di
interesse della ricerca. I quattro informatori appartenenti all’impresa del caso studio fanno
parte della stessa unità organizzativa e ai fini dell’introduzione dei loro profili saranno
individuati dai seguenti pseudonimi: Mary, Berry, Pit e Bob. Mary è formalmente
responsabile dell’unità organizzativa, che conta complessivamente circa 15 membri e fa
parte del dipartimento di gestione dei rischi di Finanza SpA, la cui responsabilità spetta al
Chief Risk Officer di gruppo e che è composto da circa 40 persone. Berry, Pit e Bob hanno
responsabilità in specifiche aree di competenza e rispondono gerarchicamente a Mary. Bob
e Pit sono entrati a far parte di Finanza SpA rispettivamente nel corso del 2010 e del 2011;
in precedenza hanno maturato un’esperienza complessivamente di sette e otto anni prima
nel campo della revisione contabile e poi della consulenza presso una grande società del
settore, prestando i loro servizi professionali anche a Finanza SpA e ad alcune società del
gruppo (entrambe nel periodo dal 2008 al 2010). Berry fa parte di Finanza SpA da circa dieci
anni e prima di entrare a far parte del team di Mary ha maturato esperienze nel campo della
revisione intera e del controllo di gestione. Infine, Mary ha iniziato la sua carriera
professionale presso un altro player del settore e una volta entrata nel gruppo di Finanza
SpA si è occupata di un importante progetto nell’area del bilancio consolidato prima di
assumere la responsabilità dell’unità organizzativa di cui è oggi a capo. Per quanto riguarda
gli altri tre informatori chiave, sempre ai fini dell’introduzione dei loro profili, saranno
identificati dai seguenti pseudonimi: Konrad, René e Jean. Konrad prima di dedicarsi alla
consulenza e alla formazione ha occupato posizioni dirigenziali nel settore bancario
principalmente nell’ambito contabile e della finanza; collabora con l’unità di Mary dal 2008 e
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
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ha una carriera professionale ultra ventennale. René ha effettuato un percorso professionale
interamente nella consulenza raggiungendo una posizione dirigenziale; oltre alle
competenze maturate nell’ambito della gestione dei rischi e della compliance alla normativa
nel settore finanziario, è uno dei principali referenti della società in cui lavora per quanto
riguarda le tematiche di controllo di gestione; ha collaborato con l’unità di Mary dal 2006 al
2009 e ha una carriera professionale ultra decennale. Jean, dopo un’esperienza condotta
all’estero nel settore bancario, è entrato a far parte della società di consulenza presso la
quale oggi occupa una posizione dirigenziale con responsabilità sulla line of business
assicurativa; ha iniziato a collaborare con l’unità di Mary dal 2010 e ha una carriera
professionale ultra ventennale. Konrad e René lavorano per la stessa società di consulenza
mentre Jean svolge la sua professione presso una società concorrente. Bob e Pit sono stati
colleghi di Konrad e René, lavorando assieme nei progetti svolti per Finanza SpA, e in
particolare assieme all’unità organizzativa guidata da Mary. Nel corso dei 26 mesi di
osservazione diretta e partecipata il dottorando ha avuto modo di avvalersi anche di altri
informatori in quanto vi sono stati diversi momenti di condivisione con i membri di altre
funzioni e dipartimenti di Finanza SpA e delle altre società del gruppo, sia italiane sia estere.
Pertanto il caso studio è stato arricchito anche dei contributi di altri attori coinvolti nel
processo di cambiamento organizzativo affrontato da Finanza SpA. Per quanto riguarda il
dottorando, ha maturato un anno di esperienza nel campo della ricerca accademica prima di
intraprendere la professione di consulente, che ha condotto per quasi tre anni. Dal 2008 al
2011 ha prestato servizio per Finanza SpA come consulente15 – dal 2008 al 2009 sotto la
direzione di René, dal 2009 al 2010 sotto la direzione di Konrad e Bob, dal 2010 al 2011
sotto la direzione di Pit – e dal 2011 è dipendente della società stessa presso l’unità
organizzativa diretta da Mary.
La Figura 16 rappresenta il protocollo di ricerca definito dal dottorando.
15 Nel corso di questo periodo il dottorando ha maturato esperienze anche presso altri clienti occupandosi di differenti tipologie progettuali (ad esempio supporto alla redazione di piani industriali nel settore bancario e verifica dei sistemi di controllo dei costi).
Capitolo 2 Il progetto di ricerca
67
Figura 16 Il protocollo di ricerca
Come già anticipato, all’interno del caso studio è possibile distinguere due fasi sequenziali
ma interdipendenti fra loro. La prima riguarda l’implementazione del modello per la gestione
del cosiddetto financial reporting risk: Finanza SpA ha investito risorse dedicate in un
progetto di adeguamento del proprio sistema di controllo interno per adempiere ai requisiti
normativi della Legge 262/05 (cosiddetta “Legge sulla tutela del risparmio”). La seconda fase
riguarda l’implementazione del modello di gestione dei rischi operativi; anche in questo caso
Finanza SpA ha investito risorse dedicate in un progetto di rafforzamento del sistema
esistente in coerenza con i requisiti dettati dalla direttiva europea 2009/138/CE nota come
“Solvency II” (si rimanda al 0per ulteriori dettagli). All’interno delle due fasi del caso studio
sono stati affrontati diversi problemi di natura pratico-operativa per rispondere
adeguatamente alle richieste normative e per essere allineati con il contesto e gli obiettivi
strategici dell’organizzazione. Per analizzare tali problemi in maniera strutturata, il
dottorando ha sviluppato in primo luogo una mappa concettuale (Figura 17) sottostante
all’attività di ricerca e utile a rappresentare le variabili chiave considerate e le relazioni fra
esse, in accordo con le indicazioni di Miles e Huberman (1994).
ANALISI LETTERATURA
Implementazione del modello per la gestione del Financial
Reporting Risk CASO STUDIO
Implementazione del modello per la gestione dell’Operational
Risk
Mappa concettuale
Framing del caso studio
Analisi dei dati e delle evidenze empiriche
Implicazioni teoriche e manageriali
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
68
Figura 17 La mappa concettuale del progetto di ricerca
La mappa concettuale è stata utile per organizzare i dati raccolti durante la conduzione del
caso studio e classificarli entro gli ambiti di competenza per la successiva analisi finalizzata
alla derivazione delle evidenze empiriche e delle implicazioni teoriche e manageriali. Infatti,
la conduzione dei casi studio avviene secondo un processo iterativo tra i dati raccolti, la
teoria emergente, composta da proposizioni dedotte dalle evidenze empiriche, e la
letteratura di riferimento (Eisenhardt e Graebner, 2007). La mappa concettuale è stata
disegnata a partire dai risultati dell’analisi della letteratura e in relazione all’esperienza
condotta sul campo dal dottorando.
Il dottorando ha sviluppato successivamente uno schema per il framing del caso studio. Tale
schema è stato utilizzato per inquadrare gli specifici problemi pratico-operativi affrontati da
Finanza SpA nelle due fasi (ad esempio scelta di accentramento/decentramento delle attività
di risk assessment), attraverso:
● la descrizione del contesto (ad esempio società nel gruppo con strutture organizzative
diverse, in business diversi, soggette a normative specifiche diverse, ecc.);
● il trade-off imposto (ad esempio maggiore controllo versus maggiore fit al contesto
locale);
● la soluzione adottata (ad esempio risk assessment decentralizzato supportato da
cataloghi rischi standard);
● la leva di progettazione organizzativa interessata (ad esempio la formalizzazione dei
comportamenti) facendo riferimento alle aree e criteri di progettazione organizzativi
definiti in letteratura (si veda ad esempio: Mintzberg, 1980; Jones, 2007; De Toni et
al., 2011).
Le evidenze empiriche così strutturate sono state analizzate ed utilizzate per derivare i
risultati della ricerca.
VALUTAZIONI E RICOMPENSE
OPERATIONS
PERFOMANCE E RISULTATI EFFETTIVI
MISURAZIONE E CONTROLLO
RISCHI
PERFOMANCE E RISULTATI DESIDERATI
TOLLERANZA E APPETITO AL RISCHIO
AMBIENTE(contesto, normativa,
ecc.)
STRATEGIA(business plan, budget,
ecc.)
ORGANIZZAZ.NE(struttura, processi,
cultura/comportamenti)
PROFILO DI RISCHIO
ContestoOrganizzazioneControllo organizzativoGestione dei rischi
69
CAPITOLO 3 IL CASO STUDIO
3.1 IL PROFILO DELL’ORGANIZZAZIONE OGGETTO DI STUDIO
L’obiettivo di questo paragrafo è di fornire sinteticamente alcuni elementi di contesto, riferiti
alla struttura dell’organizzazione oggetto del caso studio, ritenuti utili ai fini della
comprensione della parte rimanente dell’elaborato; le informazioni qui contenute non sono
quindi da intendersi come esaustive delle tematiche e degli aspetti cui si riferiscono. La
ricerca è stata svolta nel periodo dal 2008 al 2011 presso la capogruppo di un gruppo
finanziario (come già anticipato per ragioni di riservatezza dei dati verrà di seguito nominata
“Finanza SpA”). Il gruppo opera su scala globale contando una presenza in oltre 50 paesi e
oltre 70 milioni di clienti. Il business principale di riferimento è quello assicurativo anche se,
in analogia ad altri gruppi simili, vi è una diversificazione anche in altri settori (ad esempio:
bancario, prodotti finanziari in generale, immobiliare). Nell’ambito assicurativo il gruppo
opera sia nel business life (ad esempio: assicurazioni sulla vita, prodotti previdenziali) sia in
quello non-life (ad esempio: assicurazioni sulla responsabilità civile, sulla proprietà, ecc.),
servendo clienti che spaziano dal segmento retail a quello corporate secondo un approccio
multi-brand e attraverso diverse tipologie di canali distributivi. Infine, il gruppo impiega quasi
100.000 dipendenti, che salgono a circa 200.000 contando anche la rete distributiva di
proprietà. Finanza SpA ha una lunga storia nel mercato assicurativo ed è cresciuta negli
ultimi decenni principalmente tramite acquisizioni. Il gruppo è organizzato in aree
geografiche affidate al coordinamento di specifiche società che intermediano le relazioni tra
la capogruppo e le controllate, per quanto il contatto diretto tra le due è sempre possibile.
Finanza SpA è strutturata prevalentemente secondo un modello gerarchico funzionale.
Infine, all’interno del gruppo sono presenti società di servizi – secondo il concetto degli
shared service – cui sono affidati in outsourcing alcuni processi ed attività delle altre società
del gruppo (ad esempio: per l’area informatica e amministrativa). Infine, operando il gruppo
in diversi paesi le società appartenenti allo stesso, oltre alle indicazioni provenienti dalla
capogruppo, sono sottoposte da un lato a regimi normativi comuni, di natura sovranazionale,
e dall’altro a regolamentazioni locali specifiche, di natura nazionale.
Come già anticipato nel paragrafo 2.2, Finanza SpA sta attraversando una fase di
cambiamento organizzativo, che interessa anche le altre società del gruppo, nell’ambito dei
sistemi di controllo interno e gestione dei rischi, derivante dall’evoluzione della normativa
applicabile alla stessa. La rilevanza di tali aspetti per le imprese assicuratrici è rimarcata da
una peculiarità non riscontrabile in altri settori, ovvero la cosiddetta inversione del ciclo
economico: ad un esborso certo ed anticipato del cliente (premio assicurativo) corrisponde
un esborso aleatorio e posticipato da parte dell’azienda. In altre parole, un’impresa
assicuratrice si trova nella situazione di avere costi caratteristici incerti a fronte di ricavi
caratteristici certi: se la fornitura di copertura è garantita (prestazione assicurativa) non lo è
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
70
altrettanto l’ammontare del risarcimento (Parretta, 2007). L’impresa assicuratrice lega
fondamentalmente la sua esistenza al fatto che i costi effettivi non siano superiori a quanto
stimato; infatti, se così fosse, l’impresa sarebbe esposta al cosiddetto problema del going
concern (Parretta, 2007) in quanto i ricavi legati ai quei costi sono stati già incassati e non
sono quindi modificabili (ad esempio tramite un rialzo dei prezzi). Per quanto riguarda i costi
che potrebbero derivare dai risarcimenti pagati agli assicurati esistono specifiche tecniche
attuariali per determinare il corretto ammontare del premio assicurativo. Tuttavia, l’inversione
del ciclo ha impatti anche sui costi di gestione e generali, che non dipendono direttamente
dai fenomeni sottostanti al contratto assicurativo (ad esempio il verificarsi di un incidente);
questi devono essere stimati a priori in quanto non possono essere ribaltati sul cliente in una
fase successiva, ma devono essere “caricati” sul premio puro della polizza al momento della
sua emissione, quindi contestualmente all’avvio del servizio di copertura. Questi costi
derivano dalla normale operatività dell’azienda; pertanto, quanto più l’impresa si espone ai
rischi derivanti dall’operatività (rischi operativi) tanto più alta è la variabilità potenziale di
questi costi in senso negativo (incremento dei costi, cioè diminuzione dei ricavi), con le
relative conseguenze dal punto di vista economico-finanziario, e nei casi più gravi anche
patrimoniale. Inoltre, la grande disponibilità finanziaria delle imprese di assicurazione, che le
rende tra i più importanti investitori nel mercato, e la funzione sociale che svolgono (ad
esempio nel caso della previdenza) portano con se una ulteriore esigenza di controllo
esterno (ad esempio da parte delle autorità di vigilanza) che necessariamente si riflette
internamente all’impresa che deve quindi agire sui propri sistemi di controllo. La solidità
economica e patrimoniale dell’impresa assicurativa – indicata dal margine di solvibilità - è
quindi un elemento di attenzione per molti stakeholder e deve essere quindi garantita nel
continuo. La valutazione dei rischi a cui è esposta l’impresa assicuratrice è necessaria per
poter definire l’adeguatezza della valutazione di solvibilità dell’impresa di assicurazione. Per
le imprese assicurative che sono capogruppo di un gruppo di imprese questo tipo di
valutazioni deve riguardare tutto il perimetro di consolidamento, ovvero l’insieme di tutte le
società del gruppo che concorrono alla formazione del bilancio consolidato della
capogruppo.
Nei prossimi paragrafi verrà fornita una sintetica descrizione narrativa delle due fasi del caso
studio riguardanti i due progetti di implementazione del modello per la gestione del financial
reporting risk e dell’operational risk; l’obiettivo di questi paragrafi è fornire al lettore una
panoramica relativa a questi due progetti ritenuti necessari alla comprensione delle evidenze
empiriche e dei risultati della ricerca presentati successivamente.
Capitolo 3 Il caso studio
71
3.2 FASE 1: IMPLEMENTAZIONE DEL MODELLO PER LA GESTIONE DEL FINANCIAL
REPORTING RISK
Nel contesto di alcuni noti scandali finanziari avvenuti a partire dal 2000, che hanno portato
importanti e note imprese americane ed europee al fallimento (un elenco delle principali è
fornito nell’introduzione a questo elaborato), la fiducia degli investitori e dei risparmiatori è
stata fortemente erosa dando un ulteriore sviluppo alla normativa e regolamentazione
vigente, con particolare riferimento alle società quotate e alle imprese del settore finanziario.
Negli Stati Uniti nel 2002 è stata la volta del Sarbanes-Oxley Act (cosiddetta SOX) seguito in
Italia nel 2005 dalla Legge 262 “Disposizioni per la tutela del Risparmio e la disciplina dei
mercati finanziari” (cosiddetta “Legge sulla tutela del risparmio”), modificata nel 2006 con il
Decreto Legislativo n. 303. La Legge 262, affronta ad ampio spettro le tematiche relative al
corretto funzionamento del sistema finanziario, spaziando tra i temi della corporate
governance, del falso in bilancio, della disciplina delle società estere, ecc. In particolare, in
riferimento alla redazione dei documenti contabili societari, ha apportato alcune modifiche al
Testo Unico della Finanza (Decreto Legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998, di seguito anche
T.U.F.) introducendo la figura del “dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili
societari” (di seguito “Dirigente Preposto”) nelle società soggette a tale normativa (Sezione
VI-bis T.U.F., art. 154-bis). Il Decreto Legislativo n. 195 del 6 novembre 2007, che ha dato
attuazione alla Direttiva europea 2004/109/CE (cosiddetta “Direttiva Transparency”) avente
ad oggetto l’armonizzazione di alcuni obblighi di diffusione di informazioni sugli emittenti i cui
valori mobiliari sono ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato, ha modificato
l’art. 154-bis e introdotto l’art. 154-ter del T.U.F. (Sezione VI-bis) che complessivamente
disciplinano gli aspetti relativi all’affidabilità dei documenti contabili e ai contenuti e termini di
pubblicazione delle relazioni finanziare. Al Dirigente Preposto viene affidato il compito di
predisporre adeguate procedure amministrative e contabili per la formazione del bilancio di
esercizio e, ove previsto, del bilancio consolidato, di assicurarne l’adeguatezza e l’effettiva
applicazione e di assicurare l’aderenza dell’informativa finanziaria alla reale situazione
patrimoniale, economica e finanziaria della società. Inoltre, il Dirigente Preposto deve
rilasciare un’attestazione, congiuntamente all’Amministratore Delegato competente per la
materia contabile, che certifica:
● l’adeguatezza e l’effettiva applicazione delle procedure amministrative e contabili;
● la conformità dei documenti ai principi contabili internazionali (IAS/IFRS), la
corrispondenza degli stessi alle risultanze dei libri e delle scritture contabili, l’idoneità
a fornire una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale,
economica e finanziaria dell’impresa e, ove presenti, delle società controllate e
consolidate;
● che la relazione sulla gestione comprende un’analisi attendibile dell’andamento e del
risultato di gestione, della situazione dell’impresa e del gruppo, e dei principali rischi e
incertezze cui entrambe sono esposti;
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
72
● che la relazione intermedia sulla gestione contiene un’analisi attendibile dei riferimenti
agli eventi importanti che si sono verificati nei primi sei mesi dell’esercizio e alla loro
incidenza sul bilancio semestrale abbreviato, unitamente a una descrizione dei
principali rischi e incertezze per i sei mesi restanti dell’esercizio, nonché un’analisi
attendibile delle informazioni sulle operazioni rilevanti con parti correlate.
La Legge 262 non fornisce indicazioni più precise sugli aspetti organizzativi che le società
interessate devono implementare al fine di essere adempienti alle disposizioni normative.
Per questo motivo diverse associazioni di categoria e associazioni professionali (ad
esempio: Confindustria, Associazione Nazionale Direttori Amministrativi Finanziari, ecc.)
hanno emanato linee guida per l’adeguamento dei sistemi di controllo ai requisiti della legge.
Le raccomandazioni contenute in questi documenti si fondano sul framework proposto dal
COSO (1992), che è stato il punto di riferimento anche del Sarbanes-Oxley Act americano.
In questo scenario e sotto l’egida del COSO, il controllo amministrativo e contabile - materia
tipicamente di pertinenza dei revisori esterni - ha cominciato ad assumere un ruolo più
ampio rispetto al passato, estendendo la sua operatività dai soli processi contabili a tutti i
processi aziendali, in quanto i flussi informativi di cui il Dirigente Preposto è chiamato a
garantire la veridicità sono contabili ed extracontabili, cioè sia quantitativi sia qualitativi
(D’Onza, 2008).
Finanza SpA ha deciso, a partire dal 2006, di avvalersi del supporto di una società di
consulenza per l’adeguamento del proprio sistema di controllo interno ai nuovi requisiti
normativi in materia di financial reporting, la cui entrata in vigore richiedeva che il primo
bilancio ad essere accompagnato dall’attestazione, di cui si è parlato in precedenza, fosse
quello annuale del 2007. È stato nominato ufficialmente all’interno dell’organizzazione il
Dirigente Preposto, ruolo inizialmente affidato ad un dirigente all’interno dell’area dedicata
alla redazione del bilancio consolidato16 ed è stato avviato un progetto specifico coordinato
operativamente da Mary, per quanto riguarda Finanza SpA, e René, per quanto riguarda la
società di consulenza (si veda il paragrafo 2.2 per la descrizione dei profili anonimi che
verranno citati all’interno dell’elaborato). La società di consulenza ancora ad oggi sta
supportando Finanza SpA per quanto riguarda lo svolgimento di alcune attività relative alla
gestione del financial reporting risk. Il ricorso ai consulenti è stato guidato dalla possibilità di
avvalersi del loro bagaglio di esperienze acquisite in progetti analoghi (ad esempio progetti
di adeguamento al Sarbanes-Oxley Act) condotti presso altre realtà finanziarie comparabili a
Finanza SpA. Infatti, come già anticipato in precedenza, né le normative né i framework
come il COSO forniscono indicazioni di dettaglio circa le misure organizzative da adottare
per essere conformi alle disposizioni emanate, seguendo un approccio principle based che
16 Successivamente il ruolo di Dirigente Preposto è stato assunto dal Chief Financial Officer del gruppo; questo cambiamento dal punto di vista della ricerca effettuata dal dottorando non ha avuto impatti significativi (per quanto riguarda il progetto di implementazione del modello di gestione del financial reporting risk l’effetto è stato quello di accrescere il committment da parte degli attori coinvolti).
Capitolo 3 Il caso studio
73
lascia il compito di definire i modelli operativi ed attuativi alle singole entità coinvolte17. Il
modello operativo per la gestione del financial reporting risk è stato quindi definito da
Finanza SpA con il supporto della società di consulenza. Tale attività si è concretizzata nel
tempo attraverso una prima fase strettamente progettuale, che ha visto l’adozione di una
definizione di financial reporting risk, la stesura di un framework di riferimento per inquadrare
le attività necessarie al presidio del suddetto rischio, l’avvio dell’implementazione del
framework presso alcune delle società del gruppo, ed una successiva fase che ha segnato
l’avvio del modello nel continuo attraverso la pubblicazione di un manuale metodologico,
corredato da istruzioni operative, e nell’emanazione di un regolamento per le attività del
Dirigente Preposto, corredato dalle direttive per le società controllate. Parallelamente, per
supportare le attività previste dal framework e dalla metodologia, sono stati sviluppati
strumenti informatici a supporto, in un primo momento basati su applicazioni di office
automation e successivamente evoluti verso un applicativo IT sviluppato in-house.
La definizione di financial reporting risk (di seguito anche FRR per brevità) adottata da
Finanza SpA è la seguente:
il financial reporting risk è il rischio di errata contabilizzazione del dato generato
da una transazione aziendale che comporti una non veritiera e corretta
rappresentazione della situazione patrimoniale, economica e finanziaria della
società nel bilancio d’esercizio, nel bilancio consolidato, nonché di ogni altra
comunicazione di carattere finanziario18
Il modello di gestione dell’FRR prevede tre elementi cardine: i controlli interni a livello
societario, i controlli interni a livello di processo e i controlli sull’Information Technology (IT). I
controlli interni a livello societario fanno riferimento a tutti gli strumenti che permettono di
creare un contesto aziendale adeguato alla riduzione dei comportamenti che possono
generare rischi per l’impresa; si tratta in sostanza della componente “ambiente di controllo”
del COSO Framework (1992). La valutazione dei controlli a livello societario viene effettuata
tramite apposite checklist o questionari volti ad indagare l’esistenza di tali strumenti
all’interno della società (ad esempio i codici etici e di condotta, le procedure di delega ed
assegnazione della responsabilità, ecc.). Per quanto riguarda invece i controlli interni a
livello di processo lo schema di riferimento adottato è rappresentato in Figura 18 ed è
suddiviso in cinque fasi principali che ricalcano molto da vicino il processo standard di risk
management.
17 Il compito di verificare la conformità dei modelli adottati dalle imprese ai principi e ai requisiti espressi dalla normativa è affidato alle autorità di vigilanza e controllo. 18 Una prima definizione recitava “rischi collegati a specifici eventi o transazioni che potrebbero generare un errore materiale sui dati contabili da cui origina l’informativa finanziaria e di bilancio”.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
74
Figura 18 Il framework per la gestione del financial reporting risk
La prima fase di scoping ha l’obiettivo di identificare le aree di intervento; sono state definite
precise regole, fondate sui concetti di materialità del bilancio19, per individuare quali società
all’interno del perimetro di consolidamento di Finanza SpA coinvolgere nell’attività di
gestione e monitoraggio del financial reporting risk e ulteriori criteri per selezionare all’interno
di queste società i processi aziendali da analizzare20. La seconda e terza fase rientrano nella
“valutazione di adeguatezza” del modello per il monitoraggio dell’FRR e consiste
nell’identificare all’interno dei processi precedentemente selezionati tutti i rischi specifici che
rientrano nella categoria FRR e i controlli esistenti a presidio degli stessi. Il risk assessment
consiste sia nella valutazione qualitativa del rischio specifico, guidata da alcune regole e
parametri “indicatori”, sia nella valutazione della capacità dei controlli di presidiare (“coprire”
nel gergo aziendale) i relativi rischi. Dalla valutazione di adeguatezza possono emergere dei
gap per i quali è necessario ricorrere a delle azioni correttive, distinte in azioni di natura
sostanziale, come ad esempio la modifica di alcune attività di controllo esistenti o
l’inserimento di nuovi controlli, e azioni di natura formale, volte a migliorare alcuni aspetti di
formalizzazione delle attività di controllo. La quinta fase è rappresentata dall’effettuare dei
test sui controlli precedentemente identificati per verificare che siano efficaci ed effettivi,
ovvero che siano in grado di soddisfare l’obiettivo di copertura dei rischi FRR e che vengano
poi effettivamente eseguiti ed eseguiti così come previsto dalle procedure. Anche dagli esisti
dell’attività di verifica dell’efficacia può emerge la necessità di implementare delle azioni
correttive. La fase di scoping è un processo periodico con cadenza almeno annuale; può
essere svolto ad hoc nel caso ad esempio di variazioni significative nella struttura del
perimetro di consolidamento di Finanza SpA. La fase di valutazione di adeguatezza ha una
19 Per il concetto di materialità si faccia riferimento al Auditing Standard n. 5 del Public Company Accounting Oversight Board (PCAOB) e all’International Standard on Auditing “Materiality in Planning and Performing an Audit” (ISA 320). 20 Per ogni società rientrante nel perimetro di intervento vengono analizzati, per la loro natura strettamente legata al financial reporting risk, tutti i processi aziendali dedicati alla produzione dei bilancio di esercizio e, ove presente, del bilancio consolidato, nonché tutti i processi dedicati alla produzione dell’informativa contabile e finanziaria che le società controllate forniscono alla capogruppo.
Processo di risk management
VALUTAZIONE DEI RISCHI
IDENTIFICAZIONE DEI RISCHI
TRATTAMENTO DEI RISCHI
MONITORAGGIO
STUDIO CONTESTO & OBIETTIVI
RISK
ASSESSMENT
RISK ASSESSMENT
AZIONI CORRETTIVE
VERIFICA D’EFFICACIA
SCOPING
MAPPATURA RISCHI E CONTROLLI
1
2
3
4
5
VALUTA
ZIONE
ADEGUATEZZA
Framework financial reporting risk
Capitolo 3 Il caso studio
75
periodicità minima maggiore (tre anni) salvo il fatto che è compito delle società mantenere
sempre aggiornati i processi rientranti nel perimetro FRR; ciò significa che in assenza di
variazioni negli stessi la valutazione di adeguatezza deve essere svolta ogni tre anni mentre
in caso di eventuali modifiche di natura sostanziale deve essere nuovamente effettuata ad
ogni variazione nel processo che possa modificare l’esistente esposizione ai rischi di natura
FRR. La fase relativa alle azioni correttive non ha una sua periodicità in quanto viene attivata
dalla rilevazione dei gap a seguito delle fasi di valutazione di adeguatezza e di verifica di
efficacia. Ogni azione correttiva definita ha tuttavia un suo ciclo di vita che si conclude una
volta che l’intervento è stato portato a termine e sono stati aggiornati tutti i documenti e le
procedure impattate; il compito di implementare le azioni correttive spetta alle singole
società mentre l’unità organizzativa di Mary presso Finanza SpA svolge un monitoraggio
costante sulle stesse in tutto il perimetro FRR, oltre ad attività di quality assurance volte a
verificare la qualità dei dati ricevuti dalle controllate e il rispetto delle indicazioni
metodologiche fornite. Anche la fase di verifica di efficacia ha natura periodica con
frequenza almeno semestrale, in quanto gli esiti dei test sono funzionali all’attestazione che
il Dirigente Preposto deve rilasciare congiuntamente alla pubblicazione del bilancio di
esercizio e del bilancio consolidato annuale e semestrale. Per quanto riguarda i controlli
relativi all’Information Technology, seguono una logica simile a quella vista per i controlli a
livello di processo, in un segmento specifico rappresentato da tutti i sistemi IT hardware e
software e seguendo modelli di riferimento dedicati (ad es. il Cobit, l’ITIL, ecc.).
Come anticipato, la prima fase del progetto ha visto il roll-out del modello sopra descritto
nelle società controllate rientranti nel perimetro anche attraverso il supporto della società di
consulenza. È stata definita una struttura progettuale suddivisa in team di lavoro dedicati alle
singole società e composti da almeno un referente di Finanza SpA, dai consulenti e dai
referenti delle singole società controllate. Sono stati redatti documenti a supporto delle
attività per garantire una omogenea interpretazione ed applicazione della metodologia
definita da parte di tutti i team di lavoro e quindi in tutte le società interessate. Inoltre, sono
stati sviluppati dei tool informatici per la raccolta e la gestione centralizzata dei dati presso
Finanza SpA. In particolare, per la rilevazione dei rischi e dei controlli, e la loro successiva
valutazione di adeguatezza e verifica di efficacia, è stata adottata una cosiddetta matrice
rischi-controlli strutturata per raccogliere tutte le informazioni necessarie per ciascuna coppia
rischio e controllo individuata. Alcune informazioni da inserire all’interno di questa matrice
sono guidate attraverso appositi menù di compilazione mentre altre informazioni sono
inseribili come campi di testo liberi. In particolare, sebbene la codifica dei rischi specifici
rilevati debba essere univoca all’interno di ogni processo analizzato per ogni società, la loro
descrizione è lasciata libera, prevedendo, seppur non in via obbligatoria, l’associazione del
rischio specifico ad una data classe di rischio a scelta tra un elenco standard uguale per
tutto il gruppo. L’identificazione dei rischi avviene attraverso l’esame della documentazione
relativa al processo aziendale considerato; in particolare vengono presi in esame il
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
76
diagramma di flusso (flow chart), che descrive la sequenzialità delle fasi e delle attività che
compongono il processo, e il narrative del processo, che costituisce una descrizione più
discorsiva e dettagliata delle attività rappresentate nei diagrammi di flusso. Nelle società in
cui parte di questi documenti sono già disponibili21 si procede alla verifica di conformità dei
contenuti rispetto ai requisiti minimi necessari per l’espletamento della metodologia FRR;
eventuali gap informativi vengono colmati tramite interviste con i referenti del processo
considerato. In caso di assenza totale dei documenti si procede alla cosiddetta mappatura
del processo che parte dalle interviste con i referenti (anche chiamati process owner) e si
conclude con la loro validazione dei deliverable prodotti, ovvero del diagramma di flusso, del
narrative e della matrice rischi-controlli associati al processo. Gli eventuali gap e azioni
correttive vengono tracciate sempre all’interno della matrice rischi-controlli tramite appositi
campi dedicati. La verifica di efficacia dei controlli viene invece svolta da un soggetto terzo
indipendente, tipicamente la revisione interna della società, o tramite il supporto di società di
consulenza. Per quanto riguarda le società di servizi interne al gruppo (principio degli shared
service), rientrano nel perimetro di intervento del modello per la gestione FRR per quanto
attiene tutti quei processi che le altre società coinvolte dovrebbero analizzare secondo i
risultati del processo di scoping e che sono stati loro affidati in outsourcing.
Il passaggio dalla gestione progettuale a quella a regime è stato contraddistinto prima dalla
pubblicazione del manuale metodologico ed operativo per la conduzione delle attività
necessarie al monitoraggio del financial reporting risk contestualmente al passaggio dagli
strumenti di supporto basati su tool di office automation ad un applicativo IT web-based
sviluppato in-house; in secondo luogo l’avvio a regime del modello è stato contrassegnato
dall’emanazione del regolamento del Dirigente Preposto e delle direttive per le società
controllate. Il regolamento definisce i compiti del Dirigente Preposto e dell’unità organizzativa
che lo supporta oltre a definire i rapporti con gli altri organi e le altre funzioni aziendali (ad
esempio: i comitati di controllo, l’organismo di vigilanza ex lege 231/2001, la revisione
interna, l’investor relations, ecc.). Inoltre, il regolamento, per il tramite delle direttive alle
società controllate, richiede alle stesse di adottare un modello di gestione del financial
reporting risk che sia coerente con quello della capogruppo, e in particolare di:
● identificare un soggetto responsabile garante dell’adozione del modello presso la
società (denominato “referente FRR”); nel caso di società che avessero già un loro
Dirigente Preposto (perché sottoposte alla Legge 262 anche come entità singole) il
referente coincide con esso, altrimenti viene suggerito a titolo esemplificativo di
individuare il referente tra i livelli alti del management aziendale (ad esempio il
Direttore Generale o il Chief Executive Officer);
21 All’avvio del progetto di adeguamento del sistema di controllo interno ai requisiti della Legge 262/05, Finanza SpA era dotata non solo di un applicativo IT per la rappresentazione dei processi aziendali ma disponeva anche di un manuale contenente indicazioni operative per il disegno dei diagrammi di flusso tramite il suddetto applicativo; la gestione di questi strumenti era affidata alla revisione interna.
Capitolo 3 Il caso studio
77
● istituire un presidio operativo locale permanente responsabile all’interno della società
di tutte le attività previste dal modello di gestione FRR e di tutti i flussi informativi
relativi al FRR verso la capogruppo.
Le direttive non forniscono indicazioni precise sui criteri organizzativi per l’istituzione dei
presidi operativi locali (ad esempio: collocazione e rapporti gerarchici, dimensionamento,
competenze specifiche, ecc.) lasciando alle società controllate l’autonomia di calibrare il
presidio alla complessità della loro realtà aziendale. Infine, a completamento delle attività
previste dal modello e sopra elencate è stato istituito un sistema di attestazioni a cascata
attraverso cui le società controllate garantiscono alla capogruppo che i dati economico-
finanziari comunicati sono attendibili e veritieri. I dati e i risultati delle attività previste dal
modello vengono periodicamente sottoposti all’attenzione non solo del Dirigente Preposto
ma anche di uno specifico comitato istituito all’interno del consiglio di amministrazione con
competenze di supervisione e consulenza sul controllo interno della società.
Una volta entrate a regime il modello, Finanza SpA oltre ad occuparsi delle attività on-going
ha lanciato specifici progetti per l’estensione del perimetro di analisi e per il refinement e
miglioramento delle metodologie e degli strumenti impiegati.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
78
3.3 FASE 2: IMPLEMENTAZIONE DEL MODELLO PER LA GESTIONE DELL’OPERATIONAL
RISK
Il margine di solvibilità è in parole semplici un ammontare di risorse finanziarie che
un’impresa di assicurazione è obbligata a mantenere disponibili, cioè facilmente liquidabili,
per far fronte ad eventi imprevedibili. Requisiti normativi circa il margine di solvibilità esistono
già dal 1970. Negli anni 1990, con l’emanazione della terza generazione di direttive per il
mercato assicurativo, l’Unione Europea si rese conto della necessità di una revisione delle
regole per la determinazione del margine di solvibilità che è poi sfociata nella riforma del
2002 nota come “Solvency I”. Nel corso dei lavori per la produzione della direttiva Solvency I
divenne chiaro che era necessario spingere oltre la revisione del sistema assicurativo per
tenere conto degli sviluppi recenti del mercato e delle tecniche finanziarie e di risk
management. Fu per questo lanciato il progetto “Solvency II”22 sfociato nella Direttiva
2009/138/CE “in materia di accesso ed esercizio delle attività di assicurazione e
riassicurazione (solvibilità II)” del 25 Novembre 200923. Uno degli obiettivi del progetto
“Solvency II” è anche quello di favorire una sempre maggiore convergenza della normativa a
livello internazionale ed intersettoriale, così da garantire un level playing field che consenta a
tutti i competitori di operare in condizioni regolamentari equivalenti (Cappiello, 2008).
L’emanazione normativa in ambito finanziario della Comunità Europea segue il processo
Lamfalussy che prevede quattro livelli successivi, dall’adozione della direttiva a livello
europeo (livello 1) al monitoraggio del recepimento della stessa da parte degli Stati membri
attraverso la propria legislazione nazionale (livello 4), passando per il livello 2 e livello 3 dove
le autorità di vigilanza competenti a livello europeo e nazionale propongono le misure
implementative con maggiore dettaglio tecnico rispetto ai principi sanciti dalla direttiva. Al
data della sua pubblicazione, l’entrata in vigore del nuovo regime Solvency II era prevista
per il 2012. Al momento della stesura di questo elaborato è in discussione presso la
Commissione Europea una bozza di una nuova direttiva, denominata “Omnibus II”, che potrà
e probabilmente modificherà alcuni aspetti della Direttiva Solvency II; pertanto si configura
una concreta possibilità di slittamento dell’entrata in vigore del nuovo regime di solvibilità,
posticipando peraltro anche quelle misure di livello 2 e livello 3 che conterranno indicazioni
più dettagliate e operative rispetto ai principi della direttiva.
Come intuibile dalla premessa sopra riportata, la Direttiva Solvency II va a intervenire su
diverse aree all’interno di una impresa di assicurazione o riassicurazione; verranno di
seguito presi in esame i soli principi che sono di interesse per il lavoro di ricerca. Gli articoli
dal 41 al 50 (Titolo I, Capo IV, Sez. 2) contengono indicazioni riguardo il sistema di
governance e il sistema di controllo e gestione dei rischi di cui l’impresa assicurativa deve
22 Il progetto Solvency II rappresenta per molti practitioner la trasposizione in ambito assicurativo degli obiettivi e delle finalità del progetto Basilea II per il settore bancario. 23 Pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 17 Dicembre 2009.
Capitolo 3 Il caso studio
79
dotarsi. La Tabella 5 riporta i principali riferimenti normativi contenuti nella direttiva e di
interesse per il caso studio.
Tabella 5 Solvency II: riferimenti normativi per il sistema di governance e gestione dei rischi Art. Par. Descrizione
Sistema di governance
41 1 Le imprese devono dotarsi di un sistema efficace di governance che
comprenda quanto meno una struttura organizzativa trasparente
adeguata, con una chiara ripartizione e un’appropriata operazione delle
responsabilità ed un sistema efficace per garantire la trasmissione delle
informazioni. Il sistema di governance è soggetto ad un riesame interno
periodico.
41 2 Il sistema di governance è proporzionato alla natura, portata e alla
complessità delle operazioni dell’impresa.
41 3 Le imprese dispongono di politiche scritte in relazione quanto meno alla
gestione del rischio, al controllo interno, all’audit interno e, laddove
rilevante, all’esternalizzazione. Le imprese garantiscono che le politiche
sono attuate. Tali politiche sono riesaminate per lo meno una volta
all’anno, sono soggette all’approvazione preliminare dell’organo
amministrativo, direttivo o di vigilanza e sono adattate in vista di qualsiasi
variazione significativa del sistema o del settore interessato.
41 4 Le imprese devono garantire la continuità e la regolarità dello svolgimento
delle loro attività.
Gestione dei rischi
44 1 Le imprese dispongono di un sistema efficace di gestione dei rischi
che comprende strategie, processi e procedure necessarie per
individuare, misurare, monitorare, gestire e segnalare, su base
continuativa, i rischi a livello individuale ed aggregato ai quali sono o
potrebbero essere esposte e le relative interdipendenze. Tale sistema
è efficace e integrato nella struttura organizzativa e nei processi
decisionali dell’impresa.
44 2 Il sistema copre i rischi da includere nel calcolo del requisito patrimoniale
di solvibilità di cui all’art. 101 par. 4, nonché i rischi che sono
completamente o parzialmente esclusi da tale calcolo.
44 4 Le imprese prevedono una funzione di gestione dei rischi strutturata in
modo da facilitare l’attuazione del sistema di gestione dei rischi.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
80
Art. Par. Descrizione
44 5 Per le imprese che adottano un modello interno parziale o completo
(approvato secondo gli artt. 112 e 113) la funzione di gestione dei rischi
assolve ai seguenti compiti aggiuntivi: costruire e applicare il modello
interno, testarlo e convalidarlo, documentarlo – comprese eventuali
modifiche successive -, analizzarne il funzionamento e produrre relazioni
sintetiche in materia, informare l’organo amministrativo, direttivo o di
vigilanza.
Valutazione interna del rischio e della solvibilità (ORSA – Own Risk Solvency
Assessment)
45 1 L’impresa procede alla valutazione interna del rischio e della solvibilità
tenendo conto per lo meno: a) del fabbisogno di solvibilità globale tenuto
conto del profilo di rischio specifico, dei limiti di tolleranza del rischio
approvati e della strategia operative dell’impresa; b) l’osservanza continua
dei requisiti patrimoniali (capo VI, sez. 4 e 5) e dei requisiti riguardanti le
riserve tecniche (capo VI, sez. 2); c) la misura in cui il profilo di rischio si
discosta dalle ipotesi per il calcolo del requisito patrimoniale (cfr art. 101).
45 2 L’impresa mette in atto processi ai fini del par. 1 lettera a) per individuare
e valutare correttamente i rischi e dimostra i metodi utilizzati in tale
valutazione.
45 4 La valutazione interna del rischio e della solvibilità è parte integrante
della strategia operativa.
45 5 La valutazione deve essere ri-eseguita dopo ogni variazione significativa
del profilo di rischio della compagnia.
45 7 La valutazione interna del rischio e della solvibilità non serve ai fini del
calcolo del requisito patrimoniale. Il requisito patrimoniale di solvibilità
è adeguato soltanto a norma dell’art. 37, degli artt. da 231 a 233 e dell’art.
238.
Controllo interno
46 1 L’impresa dispone di un sistema di controllo interno efficace che
include almeno procedure amministrative e contabili, un quadro di
controllo interno, disposizioni di segnalazione adeguate a tutti i livelli
dell’impresa ed una funzione di conformità.
Capitolo 3 Il caso studio
81
Art. Par. Descrizione
46 2 La funzione di conformità include la consulenza all’organo amministrativo,
direttivo o di vigilanza in merito al rispetto delle disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative adottate in applicazione della presente
direttiva; inoltre valuta l’impatto di qualsiasi variazione del quadro
giuridico sulle operazioni dell’impresa interessata nonché l’identificazione
e la valutazione del rischio di mancata conformità.
Requisito patrimoniale di solvibilità
101 2 Il requisito patrimoniale di solvibilità è calcolato in base al presupposto
della continuità aziendale dell’impresa.
101 3 È calibrato in modo da garantire che siano presi in considerazione tutti i
rischi quantificabili; esso copre l’attività esistente nonché le nuove attività
che si prevede vengano iscritte nel corso dei dodici mesi successivi; per
quanto riguarda l’attività esistente esso copre esclusivamente le perdite
inattese. Il requisito patrimoniale di solvibilità corrisponde al valore a
rischio dei fondi propri di base dell’impresa di assicurazione o di
riassicurazione soggetto ad un livello di confidenza del 99,5 % su un
periodo di un anno.
101 4 Il requisito copre quanto meno i seguenti rischi: a) sottoscrizione per
l’assicurazione non-vita; b) sottoscrizione per l’assicurazione vita; c)
sottoscrizione per l’assicurazione malattia; d) mercato; e) credito; f)
operativo: il rischio operativo include i rischi giuridici ma non i rischi
derivanti da decisioni strategiche e i rischi di reputazione.
A completamento degli articoli riportati nella Tabella 5 si riportano di seguito alcune
definizioni contenute nell’art. 13 (Titolo I, Capo I, Sez. 3) della direttiva. In particolare, al par.
29 si afferma che il sistema di governance comprende la funzione di gestione del rischio
(risk management), la funzione di verifica della conformità (funzione di compliance), la
funzione di audit interno e la funzione attuariale; al par. 33 viene invece fornita la definizione
di rischio operativo, ovvero “il rischio di perdite derivanti dall’inadeguatezza o dalla
disfunzione di procedure interne, risorse umane o sistemi, oppure da eventi esogeni”.
Emerge quindi il concetto per cui la corretta determinazione del margine di solvibilità di una
impresa di assicurazione dipende da una corretta governance dei rischi a cui la stessa è o
potenzialmente può essere esposta.
È opportuno sottolineare che per quanto riguarda il contesto assicurativo italiano, alcuni
aspetti relativi al controllo interno e alla gestione dei rischi erano già stati normati dal
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
82
Regolamento ISVAP24 n. 20 del 26 Marzo 2008. In particolare l’art. 4 del regolamento
definisce gli obiettivi del sistema dei controlli interni (par. 1), definendolo (par. 2) come
l’insieme delle regole, delle procedure e delle strutture organizzative volte ad assicurare il
corretto funzionamento ed il buon andamento dell’impresa e a garantire, con un ragionevole
margine di sicurezza:
● l’efficienza e l’efficacia dei processi aziendali;
● l’adeguato controllo dei rischi;
● l’attendibilità e l’integrità delle informazioni contabili e gestionali;
● la salvaguardia del patrimonio;
● la conformità dell’attività dell’impresa alla normativa vigente, alle direttive e alle
procedure aziendali.
Inoltre, il Capo IV del Regolamento ISVAP n. 20 è interamente dedicato alla gestione dei
rischi. L’art. 18 stabilisce gli obiettivi del sistema di gestione dei rischi, che deve essere
proporzionato alle dimensioni, alla natura e alla complessità dell’attività esercitata e deve
consentire l’identificazione, la valutazione e il controllo dei rischi maggiormente significativi,
ovvero “i rischi le cui conseguenze possono minare la solvibilità dell’impresa o costituire un
serio ostacolo alla realizzazione degli obiettivi aziendali” (art. 18, par. 1). Il par. 2 dell’art. 18
stabilisce inoltre che le imprese provvedono a catalogare almeno certe tipologie di rischi, tra
cui il rischio operativo (lettera f) definito come:
“il rischio di perdite derivanti da inefficienze di persone, processi e sistemi,
inclusi quelli utilizzati per la vendita a distanza, o da eventi esterni, quali la frode
o l’attività dei fornitori di servizi”.
Nell’elenco delle categorie di rischio di cui il sistema deve occuparsi vi è anche il rischio di
non conformità alle norme (art. 18, par. 2, lettera h), definito come:
“il rischio di incorrere in sanzioni giudiziarie o amministrative, subire perdite o
danni reputazionali in conseguenza della mancata osservanza di leggi,
regolamenti o provvedimenti della Autorità di vigilanza ovvero di norme di
autoregolamentazione, quali statuti, codici di condotta o codici di autodisciplina;
rischio derivante da modifiche sfavorevoli del quadro normativo o degli
orientamenti giurisprudenziali”.
L’art. 19 norma invece l’attività di individuazione e valutazione dei rischi che deve essere
continuativa, adeguatamente documentata e riferita ai rischi interni ed esterni, esistenti e
prospettici cui sono esposti tutti i processi operativi o le aree funzionali dell’organizzazione.
Le imprese devono essere in grado di comprendere natura, origine ed effetti, in termini sia di
perdite sia di opportunità, dei rischi individuati, fornendone una valutazione qualitativa e, per
i rischi quantificabili, adottando metodologie di misurazione che, ove appropriato, siano in
24 L’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private di Interesse Collettivo (ISVAP) è l’autorità di vigilanza per il mercato assicurativo italiano e ha potere di emanare disposizioni cui le imprese assicuratrici devono adeguarsi.
Capitolo 3 Il caso studio
83
grado di determinare la massima perdita potenziale derivante. L’art. 21 definisce invece i
compiti della funzione di risk management specificando che per quanto riguarda la
collocazione organizzativa viene lasciata autonomia decisionale alle singole imprese nel
rispetto del principio di separatezza tra funzioni operative e di controllo (art. 21, par. 2) e
garantendo un riporto diretto all’organo amministrativo dell’impresa. Il Capo V del
Regolamento ISVAP n. 20, richiede invece alle imprese di assicurazione di istituire
formalmente una funzione di compliance il cui compito (artt. 22 e 23) è di valutare che
l’organizzazione e le procedure interne siano adeguate a prevenire il rischio di non
conformità così come definito all’art. 18. La funzione di compliance identifica in via
continuativa le norme applicabili all’impresa, valuta il loro impatto sui processi e le procedure
aziendali (art. 23, par. 3, lettera a) e l’adeguatezza e l’efficacia delle misure adottate per la
prevenzione del rischio di non conformità (lettera b). Deve essere garantita la separatezza
della funzione di compliance dalle funzioni operative e dalle altre funzioni di controllo, ivi
compresa la revisione interna (art. 23 par. 6 e 8). Infine, il Capo VI contiene le disposizioni
per i gruppi assicurativi, e in particolare l’art. 27 sancisce che la capogruppo deve dotare il
gruppo di un sistema di controlli interni idoneo ad effettuare il controllo sia a livello di gruppo
sia a livello di ogni singolo componente dello stesso (par. 1); inoltre, la capogruppo deve
stabilire procedure idonee a garantire in modo accentrato l’identificazione, la misurazione, la
gestione e il controllo dei rischi a livello di gruppo (par. 2, lettera g).
Nel corso del 2007 Finanza SpA aveva già avviato alcune attività progettuali volte alla
definizione del framework metodologico per la gestione dei rischi operativi. In particolare,
tramite tavoli di lavoro in collaborazione con i dipartimenti di revisione interna delle principali
società controllate estere, era stata avviata la definizione di un catalogo dei rischi operativi
comune per una classificazione omogenea degli stessi a livello di gruppo25. Inoltre, l’obiettivo
era stabilire comuni criteri di valutazione qualitativa dei rischi e una reportistica standard. La
dimensione di analisi scelta per l’identificazione e la valutazione dei rischi era il processo
aziendale; pertanto era stata anche definita una cosiddetta “alberatura dei processi”, ovvero
uno schema di classificazione standard dei processi aziendali26. Infine, la metodologia
prevedeva due approcci all’analisi dei rischi, definiti “top down” e “bottom up”. Il primo si
concretizzava nell’esecuzione di meeting con i risk owner27 delle società con l’obiettivo di
identificare e valutare i principali rischi operativi per l’organizzazione e di predisporre
eventuali azioni di mitigazione. Il secondo si concretizzava in una analisi di maggior dettaglio
svolta a livello di singolo processo aziendale. In entrambe i casi la valutazione dei rischi si
25 Il catalogo definito era strutturato su tre livelli di cui i primi due comuni a tutto il gruppo e il terzo personalizzabile a livello di ogni singola società. 26 Tale alberatura era strutturata su quattro livelli, di cui i primi due vincolati e comuni a tutto il gruppo e gli altri due personalizzabili a livello di ogni singola società. 27 Con il termine risk owner si identificano i responsabili delle aree operative cui spetta la responsabilità della generazione/assunzione, e quindi poi della mitigazione/controllo, di determinati rischi nell’ambito dello svolgimento delle attività di propria competenza. In ultima istanza, il risk owner il più delle volte coincide con la funzione/dipartimento o con il suo responsabile.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
84
configura come un’auto-valutazione da parte dei risk owner. Al fine di supportarli in questa
attività era stata istituita la figura dell’analista, ovvero una persona da selezionare all’interno
di ciascuna area operativa con il compito di mappare i processi aziendali valutandone rischi
e controlli per sottoporli alla successiva validazione da parte del risk owner. La gestione dei
rischi operativi secondo questa metodologia è quindi essenzialmente delegata alle singole
aree operative, chiamate a identificare i rischi, a valutarli in relazione agli obiettivi prefissati e
a definire iniziative di mitigazione per i rischi che ne possano compromettere il
conseguimento.
Nel secondo semestre del 2010, la responsabilità circa la definizione delle metodologie per
la gestione dei rischi operativi e il monitoraggio dell’implementazione di tali metodologie
all’interno del gruppo è stata assegnata all’unità organizzativa di Mary - fino a quel momento
dedicata esclusivamente a supportare le attività del Dirigente Preposto ex lege 262/05 - con
l’obiettivo di rafforzare i presidi già esistenti attraverso le sinergie con le attività svolte anche
nell’ambito del financial reporting risk. Contestualmente è stata assegnata all’unità anche la
responsabilità circa la definizione delle metodologie per la mappatura dei processi
aziendali28. È stata quindi avviata nell’ultimo trimestre del 2010 una specifica iniziativa
progettuale avvalendosi del supporto di una società di consulenza, diversa da quella
utilizzata per la definizione e l’implementazione del modello di gestione del financial
reporting risk. Tale iniziativa rientra nel più ampio progetto di adeguamento alla normativa
Solvency II che vede coinvolte diverse unità organizzative di Finanza SpA, nonché le sue
principali controllate italiane ed estere.
L’obiettivo di questa iniziativa, oltre al rafforzamento dei presidi e delle metodologie vigenti in
materia di rischi operativi, è stato anche quello di garantire una maggiore integrazione con
l’ambito dei rischi FRR e di compliance. È opportuno precisare che all’inizio del 2011 è stata
effettuata una ri-organizzazione interna che ha comportato lo spostamento dell’unità
organizzativa affidata alla responsabilità di Mary all’interno del dipartimento di gestione dei
rischi di Finanza SpA29, guidato dal Chief Risk Officer del gruppo (di seguito anche CRO).
L’attività progettuale è ancora in corso e al momento della stesura del presente elaborato si
è concretizzata in una prima fase di analisi as-is delle metodologie e delle attività relative ai
rischi operativi vigenti presso le principali società del gruppo, in una seconda fase di
definizione della policy e della metodologia di gestione dei rischi operativi – entrambe già
rilasciate presso le società del gruppo – e in una terza fase di roll-out – avviata e ancora in
corso - per l’avvio a regime dei processi previsti dalla policy e dalla metodologia. La policy
definisce i principi per l’individuazione, la valutazione e la gestione dei rischi operativi,
esistenti e potenziali, definendo le entità chiave della metodologia e descrivendo
28 Nel corso del 2011 sono state affidate all’unità organizzativa di Mary anche altre responsabilità relative al Business Continuity Management che non rientrano tuttavia nell’interesse di questo lavoro di ricerca. 29 L’unità organizzativa mantiene il riporto funzionale al Dirigente Preposto per quanto riguarda le tematiche relative al financial reporting risk.
Capitolo 3 Il caso studio
85
sinteticamente le fasi principali del processo di gestione. Inoltre sancisce i doveri informativi
nei confronti dell’alta direzione di Finanza SpA. Tale policy rientra all’interno di una gerarchia
di politiche definite da Finanza SpA per quanto attiene il sistema di controllo e gestione dei
rischi, ed è pertanto redatta in coerenza con quanto stabilito dalle stesse. La definizione di
rischio operativo adottata da Finanza SpA, e quindi dal gruppo, è la seguente:
Il rischio operativo è definito come il rischio di perdite derivanti dalla
inadeguatezza o dalla disfunzione di processi, risorse umane e sistemi interni,
oppure da eventi esogeni. Rientrano in questa categoria anche il compliance
risk e il financial reporting risk.
La metodologia è stata sviluppata attorno ad un set di entità chiave, in relazione tra di loro,
prevedendo per ciascuna di esse un catalogo per la loro classificazione omogenea a livello
di gruppo. Il focus principale è la manifestazione di un evento che possa comportare come
effetto una perdita di natura economica (ad esempio un risarcimento) o gestionale (ad
esempio i tempi di recupero per il ripristino dei sistemi, le ore di lavoro straordinarie, ecc.). A
monte dell’evento vi sono le cause all’origine dello stesso, che possono essere presidiate
attraverso gli strumenti di gestione di cui si dota l’impresa. Cause e strumenti vengono
collegati ai cosiddetti “fattori di rischio” che sono, come da definizione sopra riportata, le
risorse umane, i processi ed i sistemi, intesi come infrastrutture e applicazioni di Information
Technology (IT). Infine, eventi, effetti, cause e strumenti di gestione vengono “localizzati”
rispetto alle unità organizzative o ai processi aziendali. A tale fine, oltre all’utilizzo degli
organigrammi aziendali, è stato sviluppato uno schema di classificazione dei processi
aziendali per le imprese assicurative, da utilizzare a livello di gruppo e organizzato secondo
una logica di catena del valore, distinguendo quindi tra processi strategici, di business e di
supporto. La Figura 19 rappresenta le entità chiave e le loro relazioni.
Figura 19 Entità chiave della metodologia di gestione dei rischi operativi
Un esempio può aiutare a chiarire meglio le relazioni: l’evento può essere l’errato
inserimento dei dati a sistema per la liquidazione di un sinistro; l’effetto (in questo caso
economico) può essere il risarcimento richiesto dal cliente, ad esempio per il
mancato/errato/ritardato pagamento del sinistro. L’evento si manifesta all’interno del
EVENTOSTRUMENTO DIGESTIONE
CAUSA EFFETTO
Unità org./processo aziendale
Unità org./processo aziendale
Unità org./processo aziendale
Unità org./processo aziendale
Fattore di rischio
Fattore di rischio
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
86
processo di liquidazione dei sinistri mentre l’effetto viene registrato dall’ufficio reclami. La
causa all’origine dell’evento può essere l’assenza di opportuni controlli e verifiche sulla
correttezza dei dati inseriti da parte dell’applicativo informatico utilizzato; in questo caso la
causa è relativa al fattore di rischio sistemi IT ed è “localizzata” nell’unità organizzativa
responsabile della gestione di quello specifico applicativo informatico. Lo strumento di
gestione collegato a questa causa è la procedura di sviluppo software; è sempre relativo al
fattore di rischio sistemi IT ma “localizzato” nell’unità organizzativa che si occupa dello
sviluppo e implementazione degli applicativi. La causa all’origine dell’evento sopra
menzionato potrebbe però anche essere una inadeguata formazione del personale:
l’operatore addetto all’operazione potrebbe ad esempio non possedere le conoscenze
necessarie per l’utilizzo corretto dell’applicativo. In questo caso il fattore di rischio
diventerebbero le risorse umane e necessariamente cambierebbe anche lo strumento di
gestione adatto a presidiare questa causa, che sarebbe ad esempio lo sviluppo di adeguati
piani di formazione del personale.
L’identificazione e valutazione dei rischi si concretizza quindi nella rilevazione degli eventi
accaduti o che potenzialmente potrebbero accadere e dei loro effetti. Nel primo caso si tratta
di registrare eventi e relative perdite effettive al fine di alimentare un database storico delle
perdite (tale processo prende tipicamente il nome di loss data collection); nel secondo caso
si tratta di ottenere delle stime, da parte dei risk owner, circa la probabilità di accadimento
degli eventi e il loro impatto. Inoltre, l’identificazione dei rischi riguarda sia quelli esistenti,
ovvero quelli a cui l’impresa è esposta nella sua situazione attuale, sia quelli prospettici,
ovvero quelli a cui potenzialmente potrà essere esposta in un’ottica forward looking (tenendo
quindi conto di possibili evoluzioni future nei modelli operativi, nei modelli di business, ecc.).
La nuova metodologia definita da Finanza SpA prevede due approcci all’identificazione e
valutazione dei rischi, ancora definiti “top down” e “bottom up”, per certi versi simili a quelli
esistenti prima del 2010 ma con alcune differenze a livello più tecnico-operativo. Entrambe
gli approcci richiedono una stima dell’esposizione ai rischi operativi in un orizzonte
temporale di un anno raccogliendo informazioni di natura sia qualitativa sia quantitativa: il
top down adotta come unità di analisi l’intera organizzazione e richiede le informazioni ad un
livello di dettaglio più basso del bottom up, dove l’unità di analisi diventa il processo
aziendale. I due approcci sono stati studiati al fine di rendere confrontabili i risultati ricavati
da entrambe le valutazioni e al fine di raccogliere un set di dati che possa poi essere
eventualmente utilizzato per il calcolo del requisito patrimoniale di capitale relativo alla
componente dei rischi operativi30.
30 La direttiva Solvency II prevede due modalità per il calcolo del solvency capital requirement (SCR): l’utilizzo di una formula standard, che è fondata su un approccio a fattori ed è quindi parametrizzata rispetto ad alcune grandezze significative per l’impresa di assicurazione, oppure l’adozione di un modello interno di calcolo. È consentito anche un modello interno parziale, ovvero che prevede l’adozione della formula standard per alcune tipologie di rischi. Finanza SpA al momento della stesura
Capitolo 3 Il caso studio
87
Il roll-out del processo di top down assessment è già stato avviato nell’ultimo trimestre del
2011 e sono in corso di valutazione gli esiti dello stesso. L’avvio del roll-out del processo di
bottom-up assessment è previsto nei primi mesi del 2012; e già stato invece condotto un
pilota per testare questo approccio in un’area operativa di Finanza SpA. L’attività di
identificazione e valutazione dei rischi è propedeutica alla fase di gestione, ovvero di scelta
della migliore strategia di trattamento del rischio (ritenzione, mitigazione, trasferimento), e
alla fase di reporting, che prevede l’analisi dei dati e la comunicazione dei risultati agli organi
competenti. Al momento della stesura di questo elaborato Finanza SpA sta completando lo
sviluppo di specifiche linee guida dedicate ad entrambe questi aspetti. Quanto descritto
finora corrisponde alla gestione reattiva dei rischi operativi: a fronte dell’individuazione del
rischio (effettivamente accaduto o stimato/potenziale) vengono intraprese misure di gestione
appropriate.
La metodologia definita da Finanza SpA prevede inoltre anche una gestione proattiva che si
concretizza nella definizione, in collaborazione con le funzioni aziendali competenti in
materia, di modelli di riferimento per la gestione dei fattori di rischio, ovvero per la gestione
delle risorse umane, dei processi e dei sistemi IT. Si tratta di una gestione pro-attiva perché
agisce a prescindere dal fatto che vengano identificati e valutati dei rischi specifici e nella
consapevolezza che una corretta gestione dei suddetti fattori di rischio comporta
necessariamente una riduzione dell’esposizione dei rischi operativi. I modelli di riferimento,
che al momento della stesura di questo elaborato sono in fase di completamento, consistono
nella definizione di un set minimo di strumenti e processi, non derivanti necessariamente
dall’ambito del risk management, che le imprese del gruppo dovrebbero adottare in
riferimento alle risorse umane, ai processi e ai sistemi IT (ad esempio: le procedure di
valutazione delle performance, gli organigrammi e le job description per la formalizzazione
dei ruoli e delle responsabilità, i piani di formazione, ecc.). Per quanto la categoria “rischio
operativo” abbia cominciato ad essere utilizzata in maniera diffusa nell’ambito finanziario
solo a partire dagli anni 1990 a seguito della prima proposta della direttiva Basilea II nel
settore bancario (Power, 2005), la necessità di gestire i rischi derivanti dalle operations è
sicuramente molto più antica e trova le sue origini nell’industria manifatturiera caratterizzata
da attività ad alto rischio, come quella del settore dell’energia, del chimico, ecc. (Blunden e
Thirlwell, 2010). La gestione dei rischi operativi è pertanto strettamente legata alla buona
gestione delle operations ed è quindi naturale che si avvalga anche di strumenti che
nascono al di fuori del risk management.
Infine, l’unità organizzativa di Mary è stata anche impegnata in un processo di software
selection volto ad identificare la migliore soluzione IT per la gestione integrata dei rischi e
di questo elaborato ha deciso di adottare un modello interno parziale che vede l’utilizzo della formula standard per il calcolo del capital charge relativo ai rischi operativi.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
88
per la mappatura e gestione dei processi aziendali31; al momento della stesura di questo
elaborato la soluzione è stata scelta ed è in corso di implementazione. Conclusa questa
sintetica rassegna narrativa dei principali avvenimenti avvenuti nel corso del caso studio,
proposta al fine di comprendere il contesto generale in cui è avvenuto, si procederà nel
prossimo capitolo ad esaminare le evidenze empiriche e i risultati del lavoro di ricerca.
31 In questa fase, l’unità organizzativa si è fatta anche portatrice delle esigenze di altre unità organizzative di Finanza SpA, come ad esempio la revisione interna e la funzione di compliance, raccogliendo anche i requisiti funzionali necessari affinché lo strumento IT selezionato potesse essere usato anche per le finalità delle altre unità.
89
CAPITOLO 4 RISULTATI DELLA RICERCA
4.1 EVIDENZE DAL CASO STUDIO
In questo paragrafo verranno presentati i principali risultati del lavoro di ricerca facendo
riferimento alle evidenze empiriche emerse durante la conduzione del caso studio.
4.1.1 Un framework teorico di riferimento
La partecipazione diretta alle attività svolte nei progetti di Finanza SpA, descritti nei paragrafi
3.2 e 3.3, ha permesso di osservare anche le criticità di natura organizzativa che sottostanno
alle definizione ed implementazione di un sistema di controllo e gestione dei rischi. In
entrambe le fasi del caso studio è stato seguito dagli attori coinvolti un processo logico-
temporale composto da quattro step principali.
Figura 20 Processo logico-temporale per la progettazione di un sistema di gestione dei rischi
In primo luogo si è proceduto all’analisi del contesto, prendendo in esame la normativa
applicabile e le best practice esistenti in materia. Il supporto delle società di consulenza in
queste attività ha permesso di condividere esperienze vissute presso altri clienti che per
dimensione e complessità fossero comparabili a Finanza SpA. In secondo luogo si è
proceduto ad adottare una definizione della tipologia di rischio considerato e per cui si stava
definendo il sistema di gestione. In terzo luogo si è proceduto a definire la metodologia
relativa all’identificazione, valutazione, misurazione, gestione e monitoraggio del rischio per
passare infine alla sua implementazione all’interno dell’organizzazione. Le prime tre fasi di
questo processo costituiscono anche momenti sostanzialmente sequenziali nel tempo,
mentre l’ultima fase si intreccia con la penultima seguendo una logica più iterativa. Il ricorso
a progetti pilota è spesso effettuato proprio per “testare” la feasibility delle soluzioni
progettate nella terza fase. La quarta fase implica l’entrata a regime dei processi e degli
strumenti previsti dalla metodologia e quindi richiede necessariamente che vengano definiti
ruoli e responsabilità circa le attività da svolgere nonché appropriati flussi comunicativi e
informativi tra i diversi attori coinvolti. Inoltre, gli strumenti e le tecniche definite all’interno
1. ANALISI DEL CONTESTO
2. DEFINIZIONE DEL RISCHIO
3. PROGETTAZIONE METODOLOGIA
4. IMPLEMENTAZIONE ORGANIZZATIVA
tempo
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
90
della metodologia di gestione dei rischi devono anche integrarsi o almeno affiancarsi agli
strumenti gestionali già in uso all’interno dell’organizzazione, sia per adeguamento alle
indicazioni normative (si faccia riferimento ad esempio al Regolamento ISVAP n. 20 o alla
Direttiva Solvency II sinteticamente presentati nel paragrafo 3.3) sia per ragioni di efficienza
operativa (ad esempio, le attività di controllo e monitoraggio del rischio devono quanto più
possibile evitare la sovrapposizione con altre attività di controllo già esistenti). Il caso studio
ha quindi messo in evidenza come nella definizione ed implementazione di un sistema per la
gestione dei rischi gli aspetti prettamente tecnici legati al risk management sono confinati
prevalentemente all’interno delle prime tre fasi del processo descritto alla Figura 20. A
partire dal terzo e soprattutto nel quarto step la gestione dei rischi si configura come un
problema di controllo organizzativo: si tratta quindi di progettare e mettere in funzione
meccanismi per modificare i comportamenti delle persone affinché venga ridotta
complessivamente l’esposizione al rischio per l’azienda. L’analisi della letteratura (si veda il
Capitolo 1 ha evidenziato come il tema del rischio non venga frequentemente considerato
dagli studiosi del controllo organizzativo nel dibattito sulla progettazione degli stessi. Il
dottorando ha pertanto fatto leva sull’esperienza condotta sul campo per sviluppare un
framework teorico di controllo organizzativo (Figura 21) che costituisce un’estensione di
quello proposto da Flamholtz et al. (1985) e successivamente revisionato da Flamholtz
(1996).
Figura 21 Framework teorico per la progettazione di sistemi di controllo e gestione dei rischi
Nella Figura 21 gli elementi tratteggiati o evidenziati in grassetto rappresentano
l’ampliamento del framework proposto in letteratura per tenere conto anche della
componente rischio. Come è stato illustrato nel Capitolo 1 l’obiettivo del controllo
organizzativo è di guidare i membri dell’organizzazione verso gli obiettivi stabiliti, cercando di
aumentare la probabilità che i loro comportamenti permettano il raggiungimento degli stessi.
Per questo motivo le imprese istituiscono sistemi formali di pianificazione che hanno il
compito di definire e poi comunicare i target strategici ed operativi, che a loro volta
5. Sistema di valutazione e ricompensa
5-1 Valutazione performance5-2 Sistema di ricompense5-3 Valutazioni risk-based
2. OperationsRisultati
Decisioni e azioni
Ricompense
3. Sistema di misurazione
3-1 Sistema di contabilità3-2 Sistema informativo3-3 Risk assessment
4-1 Feedback correttivo
4-2 Feedback valutativo
1. Sistema di pianificazione
1-1 Obiettivi strategici1-2 Target operativi1-3 Strategia di rischio (appetito, tolleranza, limiti)
Azioni correttive
Rischi
VariazioneGenerazione
Identificazione e valutazione
Fattori esterni
Generazione
Elementi principali del caso studioGli elementi tratteggiati o evidenziati in grassetto rappresentano l’ampliamento
del framework originale. Elementi secondari del caso studio
Capitolo 4 Risultati della ricerca
91
influenzano i work behaviors, ovvero quanto avviene all’interno delle operations dell’azienda,
intese in senso ampio come tutti i processi aziendali che concorrono alla
produzione/erogazione dei prodotti/servizi. I risultati, ovvero le performance
dell’organizzazione, dipendono dalle decisioni e dalle azioni che vengono intraprese
all’interno di questi processi e costituiscono il dato di input dei sistemi di misurazione che le
imprese istituiscono al fine di verificare le prestazioni effettive per poi confrontarle con
quanto pianificato. Il sistema di misurazione fornisce le informazioni necessarie per dare
avvio ai feedback di tipo correttivo, volti a modificare direttamente i comportamenti dei
membri dell’organizzazione, o di tipo valutativo, che vanno ad alimentare il sistema di
valutazione e ricompensa. Quest’ultimo apporta le correzioni agli obiettivi pianificati (se
necessarie) e distribuisce le ricompense ai membri dell’organizzazione, che costituiscono un
ulteriore momento di influenza sui comportamenti. In questo schema non trova un suo
esplicito spazio il concetto di rischio. In un certo senso è implicitamente considerato
all’interno della componente “risultati”, in quanto in letteratura (si rimanda ancora al Capitolo
1 il rischio è spesso inteso e misurato come la variabilità dei rendimenti/risultati. Tuttavia
rischio e rendimento/risultato sono due dimensioni differenti delle performance organizzative
e secondo Jemison (1987) i ricercatori dovrebbero considerarle come tali e separatamente
nello studio dei processi e delle performance.
L’esperienza condotta all’interno del caso studio evidenzia l’importanza di considerare
esplicitamente il rischio come una delle variabili da sottoporre al controllo al fine di garantire
il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Ad esempio, un messaggio ricorrente del CRO di
Finanza SpA è che essere sempre più a supporto dei processi decisionali delle altre funzioni
aziendali, ed in particolare delle aree operative che si occupano in maniera diretta del
business dell’azienda, deve essere uno degli obiettivi principali di un dipartimento di gestione
dei rischi. Inoltre, la policy, approvata dal consiglio di amministrazione di Finanza SpA e
all’interno della quale sono definiti i principi e le regole a cui le società del gruppo devono
attenersi nello sviluppo dei propri sistemi di risk management, afferma che:
● “tutti i fattori di rischio presenti nell’attività di business caratteristica” devono essere
presi in considerazione nei processi decisionali da parte del management;
● l’implementazione dei principi e delle regole è affidata al top management di ogni
società e si concretizza nella diffusione della policy a tutte le unità operative e nella
redazione di linee guida operative in materia di gestione dei rischi;
● il dipartimento di gestione dei rischi di ogni società supervisiona l’interno sistema di
gestione dei rischi al fine di supportare le unità operative, il top management e il
consiglio di amministrazione.
A parere del dottorando, supportato dalle evidenze raccolte sul campo, diventa quindi
importante esplicitare la componente rischio all’interno di un framework teorico che possa
guidare i manager ad una più efficace progettazione dei sistemi di controllo e gestione dei
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
92
rischi. È importante trovare quindi la collocazione dell’elemento rischio rispetto alle altre
componenti del sistema di controllo.
Nel corso della prima fase del caso studio (legata all’ambito del financial reporting risk) è
stato possibile osservare la concezione di rischio, che ha guidato poi la definizione della
metodologia di gestione dello stesso, schematizzata in Figura 22.
Figura 22 L'origine del rischio FRR
Il financial reporting risk32 può essere generato a partire da attività, definite “generiche”, di un
processo aziendale, laddove vi sia la possibilità che avvenga una errata contabilizzazione a
bilancio dei dati gestiti o derivanti da quella attività. Per questo motivo è necessario
all’interno del processo inserire ulteriori attività, definite “di controllo”, il cui compito è
presidiare che le informazioni alimentanti la contabilità siano correttamente gestite; l’insieme
di queste attività di controllo costituiscono le procedure amministrativo-contabili richieste
dalla normativa (Legge 262/05). Per quanto riguarda invece la seconda fase del caso studio,
l’origine del rischio operativo è esplicitata già nella definizione stessa: “il rischio di incorrere
in perdite derivanti dalla inadeguatezza o dalla disfunzione di processi, risorse umane e
sistemi interni, oppure da eventi esogeni”. Inoltre, all’interno del documento di metodologia di
gestione dei rischi operativi definito dall’unità organizzativa di Mary e in sede di
presentazione della stessa alle altre funzioni aziendali e alle altre società del gruppo, si è
sempre fatto riferimento al rischio operativo come una “conseguenza delle attività svolte”,
ovvero un rischio “puro e non speculativo” e che “non rispetta la logica rischio-rendimento”.
Alla luce di queste evidenze si è ritenuto opportuno, come rappresentato in Figura 21 (pag.
90), rappresentare l’elemento rischio come un oggetto che può essere generato a partire
dalle operations o a partire da fattori esterni, e che ha impatto sui risultati e sulle
performance dell’organizzazione. Questo impatto è esprimibile nei termini di una variazione,
che nel caso dei rischi puri può essere intesa solo in senso negativo, ovvero come perdita.
Affinché possano essere gestiti, i rischi devono essere prima di tutto identificati e
valutati/misurati. I risultati di questa attività di risk assessment, affinché possano essere
fruibili all’interno dei processi decisionali, devono essere inseriti all’interno del sistema di
misurazione (elemento 3-3 in Figura 21) per essere possibilmente integrati con altri sistemi 32 Se ne riporta per comodità la definizione fornita nel paragrafo 3.2: “il financial reporting risk è il rischio di errata contabilizzazione del dato generato da una transazione aziendale che comporti una non veritiera e corretta rappresentazione della situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società nel bilancio d’esercizio, nel bilancio consolidato, nonché di ogni altra comunicazione di carattere finanziario”.
PROCESSO ATTIVITÀ RISCHIO (FRR)
generiche
di controllo mitigazione di
generazione di
Capitolo 4 Risultati della ricerca
93
esistenti, come ad esempio quello contabile. Infatti, i rischi potendosi configurare come
perdita (effettiva o potenziale) hanno necessariamente un impatto prima sul conto
economico dell’impresa e in secondo luogo potrebbero averlo anche sul patrimonio della
stessa. La misurazione dei rischi può avere due finalità: da un lato può agire da correttivo dei
comportamenti, e quindi delle azioni e decisioni, retroagendo direttamente sulla componente
operations (elemento 2 nella Figura 21); oppure possono fungere da dato di input all’interno
del sistema di valutazione delle performance e di gestione delle ricompense (elemento 5
nella Figura 21), che a sua volta retro-agisce sul sistema di pianificazione (elemento 1), per
la ridefinizione (se necessario) dei target, e sulle operations (elemento 2), ovvero sui
comportamenti dei membri dell’organizzazione. La necessità di integrazione con altri sistemi
di misurazione è stata riscontrata anche in fase di selezione dell’applicativo a supporto delle
attività di gestione del rischio operativo (si veda il paragrafo 3.3); infatti nei documenti di
request for information e request for proposal, nonché nelle successive fasi di negoziazione,
è stato fatta esplicita richiesta a tutti i vendor in gara di illustrare ed eventualmente
dimostrare (ad esempio attraverso certificazioni) le capacità del proprio prodotto di
interfacciarsi anche con altri sistemi terzi, come ad esempio gli ERP in utilizzo presso il
gruppo. L’importanza dell’integrazione con altri sistemi di misurazione è emersa anche in
fase di discussione all’interno del team di lavoro dell’unità organizzativa di Mary in merito alle
metriche da utilizzare per la valutazione dei rischi. Essendo infatti la metodologia applicabile
all’intero gruppo, ovvero a imprese di dimensioni, strutture ed età diverse (ciclo di vita), oltre
che operanti anche in business differenti, le metriche di valutazione dei rischi, se da un lato
devono essere omogenee ai fini poi dell’aggregazione dei dati, dall’altro devono anche poter
essere scalabili per essere significative all’interno del contesto specifico di ogni impresa
considerata. Diventa quindi necessario legare le metriche di valutazione del rischio a
grandezze (ad esempio attraverso relazioni di proporzionalità) comuni a tutte le società del
gruppo e scalabili rispetto alle caratteristiche delle stesse; l’individuazione di queste
grandezze di riferimento (proxy) deve essere guidata anche dalla loro rappresentatività
rispetto alla categoria di rischio considerato. Ad esempio, nel caso del rischio operativo,
variabili tipicamente prese come riferimento nelle best practice sono i costi operativi33, in
quanto ritenuti indicativi della dimensione operativa dell’azienda e quindi dell’esposizione
della stessa ai rischi di natura operativa (ipotizzando una correlazione positiva tra queste
due grandezze). Infine, le evidenze dal caso studio mettono in luce come la componente
rischio entri nel sistema di pianificazione come un elemento dotato di una propria dignità
(elemento 1-3 nella Figura 21): Finanza SpA ha infatti formalizzato un framework, articolato
su più livelli a cascata, per la definizione di una strategia del rischio, attraverso la quale,
partendo da indicazioni qualitative circa l’orientamento che l’impresa intende avere rispetto
al rischio, in coerenza con gli obiettivi strategici di business, vengono declinati a cascata il
33 Informazione derivata dai benchmark e dalle esperienze condotte dalla società di consulenza.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
94
risk appetite e la risk tolerance per arrivare a definire dei limiti operativi più specifici circa
l’assunzione dei rischi. Se da un lato è vero che il rischio non può essere pianificato in senso
stretto, ovvero espresso sotto forma di desiderata o target verso cui tendere così come
avviene per i risultati e le performance (quali ad esempio i ricavi, il margine operativo, ecc.),
è pur vero che si possono stabilire dei “margini di accettabilità” del rischio anche se per molti
aspetti è una conseguenza inevitabile delle attività d’impresa. Inoltre, questi margini di
tolleranza sono stabiliti in coerenza con gli obiettivi strategico-operativi dell’organizzazione e
quindi servono a garantire che gli stessi non vengano compromessi dallo svolgimento delle
attività. Per questo motivo il dottorando ritiene importante che anche questa componente
trovi il suo esplicito spazio all’interno del framework teorico riportato in Figura 21. Inoltre,
così come gli obiettivi di business servono da punto di riferimento per la comparazione dei
risultati ottenuti e quindi per la valutazione delle performance, così gli obiettivi stabiliti dalla
strategia di rischio svolgono una funzione analoga in termini di valutazione dei
comportamenti in merito alla gestione del rischio. Il framework teorico così definito è stato
utile anche al framing dei dati ricavati dal caso studio al fine di derivare ulteriori risultati della
ricerca.
4.1.2 Il framing del caso studio
Dato lo stato di avanzamento delle attività progettuali al momento della stesura del presente
elaborato, si è ritenuto opportuno focalizzare l’attenzione su alcune evidenze empiriche più
specifiche derivanti dalla definizione metodologica dei soli processi di identificazione e
misurazione dei rischi così come definiti nelle due fasi del caso studio. Infatti, per quanto
riguarda il progetto di implementazione del modello di gestione dei rischi operativi, la
definizione metodologica dei processi di gestione e monitoraggio del rischio non è ancora
completata e non risulta quindi avere le stesse caratteristiche di stabilità della metodologia
per la gestione del financial reporting risk. Pertanto, un confronto tra gli esiti delle due fasi
del caso studio anche su questi aspetti non sembrava rigoroso.
Partendo dall’osservazione diretta e partecipata, confrontando le evidenze rilevate con la
documentazione prodotta (valutando anche le evoluzioni intermedie dalla prima stesura alla
versione finale) e confrontandosi con i key informant, il dottorando ha identificato tre
significativi momenti decisionali nella definizione delle due metodologie di identificazione e
valutazione dei rischi. Le scelte effettuate in questi ambiti, nelle due fasi del caso studio,
hanno avuto implicazioni organizzative nella successiva fase di implementazione dei
processi e degli strumenti previsti dalle suddette metodologie. La Figura 23 illustra il primo
momento decisionale riguardante il processo di identificazione dei rischi: la scelta tra un
approccio centralizzato e uno decentralizzato.
Capitolo 4 Risultati della ricerca
95
Figura 23 Identificazione dei rischi: scelte possibili
Il processo di identificazione dei rischi deve garantire che tutti i principali eventi rischiosi
vengano individuati affinché se ne possa valutare gli impatti e si possa quindi intraprendere
le opportune contromisure. Allo stesso tempo tale processo implica l’impiego di risorse. Il
trade-off che si configura è quindi quello tra la garanzia della completezza della rilevazione
versus il costo della rilevazione stessa. Un approccio decentralizzato può garantire maggiore
completezza in quanto l’attività di identificazione è delegata laddove esistono le conoscenze
specifiche delle attività svolte, potendone quindi capire con maggiore profondità le
implicazioni in termini di rischio. Tuttavia un approccio decentralizzato significa aumentare le
mansioni e i compiti delle diverse unità organizzative; inoltre potrebbe significare anche la
necessità di creare nuove competenze (ad esempio di risk management) presso quelle unità
organizzative. L’avvalersi di un approccio centralizzato, ad esempio affidando il compito
dell’identificazione dei rischi nei vari processi aziendali ad una delle funzioni di staff (ad
esempio alla funzione di gestione dei rischi), permette di sfruttare le competenze già
esistenti nell’organizzazione ma potrebbe comportare una riduzione della completezza della
rilevazione dei rischi in quanto le persone impiegate per l’attività potrebbero non avere
conoscenze sufficienti riguardo i processi che stanno analizzando. Inoltre, nel caso di una
capogruppo come Finanza SpA, che detta le linee guida per tutto il gruppo, vi è la necessità
di prendere in considerazione anche il fatto che non tutte le società controllate possono
essere strutturate in modo tale da avere dipartimenti o funzioni specializzate sulla gestione
dei rischi. La scelta di un approccio piuttosto che l’altro impatta inoltre sul coordinamento del
lavoro: nella caso della decentralizzazione bisognerà infatti istituire adeguati flussi
comunicativi e informativi tra le persone che rilevano i rischi e la funzione centrale che
aggrega i risultati delle rilevazioni e li rende disponibili all’interno dell’azienda (ad esempio al
top management, ai manager di linea, alle altre funzioni di controllo, ecc.). Nel caso del
PROBLEMATECNICO-OPERATIVO Identificazione rischi
TRADE-OFF CONTESTO SCELTE POSSIBILIAREA
ORGANIZZATIVASOLUZIONEADOTTATA
�Completezza rilevazione vs. Costo rilevazione�Creazione competenze specializzate vs. Utilizzo competenze esistenti
�Multi business�Diversità strutture organizzative(specializzazione, dimensionamento, ecc.)
�Unità organizzativa dedicata (centralizzazione)�Delega attività (decentralizzazione)
�Struttura�Coordinamentodel lavoro
�Un presidio organizzativo per ogni società (Financial Reporting Risk)�Risk Owner identificati a livello di prima linea manageriale (Operational Risk)
Framework teorico
2. Operations RisultatiRischi
3. Sistema di
misurazione
Fattori esterni
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
96
financial reporting risk Finanza SpA ha deciso di richiedere l’istituzione di un presidio locale34
presso ogni società coinvolta nel perimetro di intervento con il compito di coordinare le
attività necessarie per la gestione dell’FRR e di effettuare attività di quality assurance; è
stato infatti necessario creare delle competenze specifiche affinché potessero essere
soddisfatti tutti i requisiti metodologici per il raggiungimento di un elevato livello di qualità dei
dati e dell’informativa necessaria al Dirigente Preposto ai fini della produzione delle
attestazioni in accompagnamento al bilancio. Nel caso dell’operational risk invece non viene
richiesta l’istituzione di unità specifiche in quanto la raccolta dei dati e delle informazioni
avviene direttamente tramite i responsabili delle aree operative, seppur con il supporto della
funzione di gestione dei rischi (sia a livello di gruppo sia a livello di singola società).
La figura Figura 24 rappresenta un secondo momento decisionale significativo e relativo alla
scelta dei metodi di classificazione dei rischi, potendo scegliere fra un approccio
centralizzato/decentralizzato ed una classificazione ex-ante/ex-post.
Figura 24 Classificazione dei rischi: scelte possibili
La classificazione dei rischi deve affrontare il trade-off tra l’uniformità dei dati raccolti e
l’adattabilità degli schemi di classificazione al contesto. Inoltre deve consentire
contemporaneamente la tracciabilità delle informazioni nel tempo (storicità dei dati) e la
capacità di adeguarsi ai cambiamenti (ad esempio variazioni nella normativa). Per quanto
riguarda l’uniformità versus l’adattabilità si tratta in sostanza di scegliere tra una
centralizzazione del processo di classificazione o una sua decentralizzazione. Nel primo
caso si ricorre a cataloghi standard definiti a tavolino (sulla base dell’esperienza, delle best
practice e delle indicazioni normative, se esistenti) ed eventualmente modificati/aggiornati in
34 Non necessariamente nella forma di nuova funzione aziendale ma comunque come formale unità anche all’interno di dipartimenti o funzioni già esistenti (tipicamente l’area amministrativa-contabile o della finanza, in alcuni casi anche nell’area processi).
PROBLEMATECNICO-OPERATIVO Classificazione dei rischi
TRADE-OFF CONTESTO SCELTE POSSIBILIAREA
ORGANIZZATIVASOLUZIONEADOTTATA
�Uniformità dati raccolti vs. Adattabilità ai diversi contesti�Tracciabilità delle informazioni vs. Adeguamento ai cambiamenti
�Multi business�Multi normativo (variabilità geografica dei requisiti)
�Centralizzazione vs. decentralizzazione�Classificazione ex-ante vs. classificazione ex-post
�Sistemi di controllo�Processi decisionali
�Da libera classificazione a catalogo standard (Financial ReportingRisk)�Modelli standard per la classificazione dei dati (Operational Risk)
Framework teorico
2. Operations RisultatiRischi
3. Sistema di
misurazione
Fattori esterni
Capitolo 4 Risultati della ricerca
97
corso d’opera. Tipicamente i cataloghi vengono strutturati in livelli gerarchici con crescente
livello di dettaglio (o decrescente livello di aggregazione) imponendo l’adozione obbligatoria
di un certo numero di livelli e lasciando facoltativa la classificazione, secondo lo schema pre-
definito, dei rischi specifici, quelli descritti con maggior livello di dettaglio. Nel caso dell’FRR
l’approccio iniziale è stato quello decentralizzato: ogni società è stata lasciata libera di
identificare i propri rischi specifici di natura FRR potendo poi collegare il rischio specifico ad
un certo numero (circa 10) di classi di rischio. Le classi di rischio avevano una funzione
guida per aiutare la successiva valutazione dell’impatto del rischio. Al momento della stesura
di questo elaborato è in corso di adozione un catalogo standard dei rischi FRR al fine di
ottenere una base dati più uniforme per l’analisi dei dati aggregati. Per quanto riguarda
invece l’operational risk è stato da subito adottato un approccio centralizzato con la
definizione da parte dell’unità organizzativa di Mary di un set di cataloghi standard non solo
per la classificazione degli eventi di perdita operativa ma anche per la classificazione degli
effetti, delle cause e degli strumenti organizzativi a presidio delle stesse. La definizione di
cataloghi standard deve però tenere conto della loro applicabilità ai diversi contesti in cui
devono essere utilizzati; ad esempio, nel caso di una capogruppo che emana linee guida per
tutte le società del gruppo che operano in settori di business anche diversi, è necessario che
i cataloghi non siano troppo specifici per poter essere applicabili a più contesti ma allo
stesso tempo nemmeno troppo generici per perdere la loro efficacia di utilizzo. Una
classificazione ex-ante richiede che le strutture organizzative (o le società) facciano proprie
le terminologie definite all’interno dei cataloghi, favorendo quindi la creazione di un
linguaggio comune e quindi di maggiore omogeneità e uniformità dei dati raccolti. Una
classificazione ex-post consiste invece in una riconduzione successiva dei rischi individuati
alle categorie definite centralmente. Per quanto riguarda l’operational risk Finanza SpA ha
scelto un approccio di classificazione ex-ante mentre per quanto riguarda l’FRR l’approccio
adottato è quello di una riconduzione successiva35. Tra gli strumenti di classificazione dei
rischi è possibile far rientrare anche tutti gli strumenti impiegati per dare una collocazione dei
rischi identificati all’interno dell’organizzazione. A tal fine possono essere impiegati ad
esempio gli organigrammi, le mappe o le alberature dei processi aziendali. Gli organigrammi
sono fortemente firm-specific mentre le alberature dei processi possono essere
standardizzate anche tra più società del medesimo gruppo. L’omogeneità di classificazione
dei processi aziendali facilità le attività di comparazione circa i risultati del risk assessment,
in quanto permette di confrontare fra loro processi simili appartenenti a società diverse
aiutando quindi a verificare la completezza della rilevazione dei rischi e a costruire
benchmark per l’individuazione di best practice e per la formalizzazione di lesson learnt. Nel
caso della definizione di alberature o mappe dei processi il trade-off da affrontare è sempre
35 Questo approccio è motivato dal fatto che inizialmente non vi era una classificazione dei rischi secondo un catalogo standard pertanto nel tempo è stata accumulata una base dati che non può essere persa.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
98
rappresentato dall’esigenza di uniformità versus l’adattabilità ai contesti specifici (inclusi gli
eventuali requisiti normativi imposti alle società). Per il financial reporting risk è stata
sviluppata nel tempo (quindi non inizialmente) una alberatura standard dei processi
tipicamente oggetto di analisi per il rischio FRR. Per l’operational risk è stata fin da subito
sviluppata una cosiddetta catena del valore, che rappresenta uno schema di classificazione,
ma anche una guida per il disegno, dei processi aziendali36. Le due alberature sono state poi
“matchate” fra loro per consentire una reportistica comune.
La Figura 25 rappresenta infine il terzo momento decisionale significativo e relativo alla
scelta dei metodi di misurazione dei rischi, potendo scegliere fra metriche puramente
qualitative, puramente quantitative o miste.
Figura 25 Misurazione dei rischi: scelte possibili
Nella scelta delle metriche di misurazione dei rischi vi sono diversi trade-off da affrontare. In
primo luogo un sistema di controllo e gestione dei rischi dovrebbe il più possibile garantire
l’uniformità delle metriche adottate; infatti, se agli errori di stima che fisiologicamente
vengono compiuti in sede di identificazione e valutazione dei rischi si dovessero aggiungere
gli errori derivanti dall’aggregazione di misure effettuate secondo metriche e logiche
differenti, la qualità dei processi di gestione del rischio ne risentirebbe notevolmente.
Tuttavia la facilità di aggregazione dei dati normalmente è in trade-off con il fit della metrica
rispetto al tipo di rischio misurato. La metrica di valutazione che “fitta” il rischio di credito può
essere ad esempio la classe di rating della controparte, che sicuramente non è una metrica
applicabile al rischio operativo di errato inserimento dei dati a sistema. Infine, un terzo trade
off è rappresentato dalla pertinenza versus la facilità di misurazione. Ad esempio, la
36 Al momento della stesura di questo elaborato la catena del valore è sviluppata soltanto per i processi delle società assicurative. Sono in corso di definizione le catene del valore anche per le società operanti in altri business.
PROBLEMATECNICO-OPERATIVO Misurazione dei rischi
TRADE-OFF CONTESTO SCELTE POSSIBILIAREA
ORGANIZZATIVASOLUZIONEADOTTATA
�Uniformità vs. Significatività metriche�Pertinenza vs. Facilità misurazione�Facilità di aggregazione vs. fit delle metriche
�Multi business
�Variabilità competenze di gestione dei rischi�Variabilità posizionamenti competitivi
�Metriche puramente qualitative�Metriche puramente quantitative�Metriche miste
� Sistemi di controllo
�Valutazione qualitativa legata a parametri “oggettivi” (Financial Reporting Risk)�Valutazione quali-quantitativa(Operational Risk)
Framework teorico
2. Operations RisultatiRischi
3. Sistema di
misurazione
Fattori esterni
Capitolo 4 Risultati della ricerca
99
misurazione di un rischio operativo viene tipicamente effettuata attraverso la stima della
perdita potenziale generata da un dato evento; la perdita potrebbe essere valutata al netto di
eventuali recuperi assicurativi e magari al netto delle franchigie; la misura in questo caso è
sicuramente pertinente rispetto alla categoria di rischio considerato tuttavia richiede di
conoscere esattamente l’entità dei recuperi e delle franchigie per ogni tipologia di evento
specifico coperto da assicurazione; in questo caso la facilità di misurazione dipende
ovviamente dalle caratteristiche degli altri strumenti di misurazione controllo (ad esempio la
contabilità) e dalla capacità di integrazione con il sistema di misurazione dei rischi.
Generalmente le metriche qualitative sono di più facile applicazione sebbene presentino
problemi di aggregazione dei dati, soprattutto quando le scale di valutazione non sono ad
esempio omogenee fra loro. Per quanto riguarda il financial reporting risk Finanza SpA ha
adottato una scala di valutazione puramente qualitativa guidata da parametri oggettivi37. Nel
caso dell’operational risk la valutazione è invece sostanzialmente quantitativa, anche se
veicolata attraverso scale di valutazione anche qualitative (la “rischiosità” degli eventi viene
valutata secondo una scala qualitativa – ad esempio alto, medio, basso – tuttavia ad ogni
score è associata una classe di perdita, ovvero un intervallo entro il quale si colloca la
perdita monetaria che si stima possa essere generata dall’evento – ad esempio tra 100 e
1.000 €). Avendo sinteticamente descritto le principali evidenze empiriche del caso studio
verranno ora presentate le derivazioni teoriche risultanti dall’attività di ricerca.
4.1.3 Proposizioni teoriche derivate dal caso studio
I rischi sono per loro natura intrinseci alle attività aziendali; inoltre assumono connotazioni
diverse a seconda del punto di vista da cui vengono osservati. Ad esempio quando
compiamo una scelta di investimento in un prodotto finanziario siamo consapevoli che
l’investimento potrà generalmente avere sia un esito profittevole sia un esito negativo,
portandoci ad una perdita; in questo caso si parla di rischio speculativo. Se invece,
all’interno di un processo produttivo, stiamo trasportando da un punto A ad un punto B un
semilavorato siamo esposti ad esempio al rischio di danneggiamento dello stesso a causa di
un urto, il che comporterebbe necessariamente soltanto un effetto negativo. In questo caso
si parla di rischio puro. In questi due esempi la discriminante per la classificazione
dell’evento come rischio puro o speculativo risiede nella natura degli esiti – negativo/positivo
o negativo soltanto - e nella possibilità di effettuare una scelta circa l’assunzione del rischio
stesso. Nel caso dell’investimento nel prodotto finanziario è possibile rinunciare ad
effettuarlo, se ad esempio lo si reputa troppo rischioso. Nel caso dello stabilimento
produttivo, sarebbe difficile rinunciare al trasporto del semilavorato se si vuole effettivamente
completare il processo produttivo; si potranno studiare soluzioni di logistica interna che 37 Nella metodologia FRR ogni rischio specifico viene associato ad una attività del processo e la misurazione del rischio dipende dalle caratteristiche dell’attività (modalità di esecuzione – automatica/manuale – frequenza di esecuzione, ecc.) e dalla significatività, in termini di contribuzione alle voci di bilancio, del processo in cui è collocata l’attività.
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
100
minimizzano la probabilità di accadimento, oppure adottare meccanismi che riducano
l’impatto nel caso di caduta del materiale, ma la possibilità di danneggiamento è
intrinsecamente legata al fatto che il semilavorato viene trasportato; pertanto anche in
presenza di misure di prevenzione e protezione esiste un rischio residuo che potrebbe
essere eliminato solo in assenza dell’attività di trasporto, cioè rinunciando a completare il
processo produttivo. E nella scelta di investimento di cui sopra, se il prodotto finanziario
fosse ad esempio un’azione di capitale di una società, l’esito negativo, cioè la perdita,
potrebbe essere determinato dal fatto che la società emittente vada in default. In questo
caso diremmo allora che ci siamo esposti al rischio di credito; la determinante della
classificazione del rischio in questa categoria non è più la possibilità di effettuare una scelta
ma è in qualche modo legata alla causa dell’esito dell’evento (il fallimento della società). Se
avessimo investito il 90% del nostra liquidità disponibile in quella stessa società diremmo
invece che siamo esposti al rischio di concentrazione, in quanto l’aver “concentrato” la
maggior parte della nostra disponibilità finanziaria su un singolo soggetto ci espone al rischio
di perderla tutta in caso di default dello stesso. Un evento come l’incendio può essere visto
come un rischio derivante da un determinato processo produttivo, ad esempio in una
azienda del settore chimico; in tal caso sarebbe classificato come rischio operativo.
L’incendio può essere tuttavia classificato anche come rischio catastrofico, se prendiamo in
considerazione ampie aree verdi sottoposte a periodi di siccità e forte caldo. Molti altri sono
gli esempi che possono essere portati all’attenzione per far capire come la categorizzazione
del rischio sia una attività fortemente dipendente dal punto di vista adottato. Miller (1992) fa
notare che molto spesso il termine rischio viene ad esempio utilizzato per riferirsi a fattori
esterni o interni che sono in relazione con l’esposizione dell’impresa al rischio: in tale senso
il termine rischio si riferisce alle fonti (o fattori) di rischio; quando ad esempio si parla di
“rischio politico” o “rischio competitivo” si intende dire che variazioni nel contesto politico di
un paese o nel settore competitivo possono aumentare l’esposizione al rischio per una
organizzazione. Per questo motivo l’adozione di una definizione per una specifica categoria
di rischio è un passo fondamentale e necessario alla progettazione della metodologia per la
sua gestione. Ed è un momento in cui si possono determinare non solo le scelte di natura
tecnico-operativa nell’ambito della definizione dei processi di gestione del rischio ma anche i
conseguenti aspetti di natura organizzativa, come la definizione delle strutture e degli
strumenti di controllo. Il caso studio ha permesso di mettere infatti in evidenza come uno
stesso gruppo di lavoro38 all’interno di uno stesso contesto abbia intrapreso scelte
metodologiche ed organizzative diverse per il trattamento di due categorie di rischi che
appartengono in ultima istanza alla stessa famiglia. Infatti, il financial reporting risk è
ricompreso nella categoria degli operational risk nella mappa dei rischi di Finanza SpA. La
38 Si richiama all’attenzione il fatto che nelle due fasi del caso studio i key informant sono rimasti i medesimi con l’unica differenza che Bob, Pit e il dottorando nella prima fase ricoprivano il ruolo di consulenti mentre nella seconda fase hanno agito in qualità dipendenti di Finanza SpA e dell’unità organizzativa di Mary.
Capitolo 4 Risultati della ricerca
101
vicinanza tra le due tipologie di rischio era già nota durante il progetto oggetto della prima
fase del caso studio. Ad esempio l’errato inserimento dei parametri per il calcolo del premio
assicurativo, evento che può accadere nel processo di emissione di una polizza, è sia un
rischio operativo sia un rischio FRR per quanto attiene le due metodologie definite da
Finanza SpA. È un rischio operativo in quanto può portare ad una perdita economica (ad
esempio, in aggregato, i premi incassati non sono sufficienti a coprire i costi dei risarcimenti
per i sinistri denunciati); è un rischio FRR in quanto può comportare una non corretta
rappresentazione in bilancio della reale situazione economico-finanziaria dell’impresa39. Per
quanto l’evento sia lo stesso, le due metodologie prevedono modalità diverse per
concettualizzarlo (Figura 26).
Figura 26 Le metodologie di gestione del financial reporting risk e dell’operational risk a confronto
La Figura 26 vuole mettere anche in evidenza le parole chiave contenute nelle definizioni
delle due tipologie di rischio perché si ritiene, sulla base delle evidenze, che la spiegazione
delle differenze di “trattamento” di uno stesso evento da parte delle due metodologie sia di
fatto guidata dalla differente definizione di rischio adottata nelle due metodologie. Il financial
reporting risk è definito da Finanza SpA come “il rischio di errata contabilizzazione del dato
generato da una transazione aziendale che comporti una non veritiera e corretta
rappresentazione della situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società nel
bilancio d’esercizio, nel bilancio consolidato, nonché di ogni altra comunicazione di carattere
finanziario” (in corsivo le parole chiave). Adottando la prospettiva della teoria relazionale del
rischio proposta da Boholm e Corvellec (2011)40, nel caso dell’FRR l’oggetto a rischio (object
at risk) è il documento di bilancio mentre l’oggetto di rischio (risk object) è ogni attività che
fornisce un dato che confluisce all’interno del documento di bilancio; la relazione di rischio
(relationship of risk) è data dal fatto che l’oggetto di rischio possa fornire dati non corretti che
vanno a compromettere la veridicità dell’oggetto a rischio, cioè il bilancio. In questo caso
39 La metodologia FRR prevede la valutazione dell’impatto dei rischi FRR nei termini della violazione delle asserzioni di bilancio (financial assertion), ovvero delle caratteristiche che un bilancio dovrebbe avere per poter essere considerato privo di errori materiali (per un trattamento dettaglio delle asserzioni di bilancio si rimanda agli auditing standard del PCAOB, e in particolare all’auditing standard n.5). 40 Si rimanda al Capitolo 1 per maggiori dettagli.
Errata contabilizzazione, Transazione, Bilancio, Comunicazione finanziaria
Perdite, Disfunzione, Processi, Risorse, Sistemi, Eventi esogeni
FINANCIAL REPORTING RISK OPERATIONAL RISK
Non corretta acquisizione della base dati ai fini della valutazione
Esempio
Errato inserimento
dei parametri
necessari per il
calcolo del premio
EVENTO
CAUSA
STRUMENTI DI GESTIONE
EFFETTO
RISCHIO
IMPATTO
ATTIVITÀFATTORE DI RISCHIO
CONTROLLO
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
102
quindi, il valore a rischio (value at stake) è la veridicità del bilancio; infatti la Legge 262/05
prevede, in caso di violazione della normativa, non solo sanzioni amministrative ma anche
penali per il Dirigente Preposto. L’attenzione della metodologia FRR è quindi focalizzata su
tutte le transazioni all’interno dei processi che comportano flussi informativi che vanno ad
alimentare i processi contabili e di redazione della documentazione di bilancio, nonché di
ogni altra comunicazione a carattere finanziario. La rilevazione del rischio viene quindi fatta
a livello di singola attività e una volta individuato il rischio diventa necessario capire se
esistono controlli atti a mitigare il rischio preventivamente (ad esempio evitando che venga
commesso l’errore nell’inserimento dei dati) o successivamente (ad esempio verificando la
coerenza tra gli importi dei premi incassati e i valori assicurati nei contratti). Non è
importante per la metodologia FRR stabilire l’esatta causa dell’evento quanto capire se c’è la
possibilità di “accorgersi” che l’evento è accaduto e quindi di poter intervenire con le
opportune azioni.
La definizione di rischio operativo adottata da Finanza SpA mette invece l’accento sul
concetto di “perdita” derivante da una “disfunzione” che può avvenire a causa delle risorse
umane, dei processi o dei sistemi IT. Nella metodologia di gestione dell’operational risk
l’errato inserimento dei parametri per il calcolo del premio assicurativo è inquadrato come
evento di perdita operativa il cui effetto può essere una perdita di natura economica (ad
esempio il cliente può effettuare un reclamo e richiedere un rimborso). Una volta individuata
la possibilità di manifestazione dell’evento e una volta stimato il suo effetto potenziale per
adempiere alla metodologia diventa necessario individuare la causa che può essere
all’origine dell’evento e i possibili strumenti di gestione per presidiare la causa o le cause
individuate. Cause e strumenti di gestione sono collegati ad uno dei tre fattori di rischio. Ad
esempio l’errato inserimento può essere causato dall’inadeguata preparazione dell’addetto
all’operazione di emissione della polizza (la causa diventa la mancata formazione del
personale e lo strumento di gestione è la definizione dei piani di formazione, entrambe
collegati al fattore di rischio “risorse umane”) e dalla mancanza di controlli di coerenza dei
dati inseriti all’interno dell’applicativo (la causa diventa l’errata progettazione dell’applicativo
e lo strumento di gestione è la definizione dei requisiti funzionali del sistema, entrambe
collegati al fattore di rischio “sistemi IT”). Adottando la prospettiva della teoria relazionale del
rischio proposta da Boholm e Corvellec (2011), nel caso dell’operational risk l’oggetto a
rischio (object at risk) è una performance/risultato (ad esempio il margine operativo), mentre
l’oggetto di rischio (risk object) è ogni attività/evento che può contribuire a determinare quella
performance/risultato; la relazione di rischio (relationship of risk) è data dal fatto che
l’oggetto di rischio possa erodere il valore dell’oggetto a rischio, cioè comportare una
diminuzione della performance/risultato. In questo caso quindi il valore a rischio (value at
stake) è di natura strettamente monetaria. Dalle evidenze sopra descritte è quindi possibile
osservare che:
Capitolo 4 Risultati della ricerca
103
1a. La definizione (concezione) di rischio determina le componenti della
metodologia di identificazione, valutazione, misurazione, monitoraggio e
gestione del rischio.
Inoltre, come è stato descritto nei paragrafi 3.2, 3.3, e con maggior dettaglio anche nel
paragrafo 4.1.2, le due metodologie oltre a differire dal punto di vista più strettamente
tecnico-operativo hanno comportato anche diverse implicazioni di natura organizzativa.
Pertanto è possibile anche osservare che:
1b Le componenti della metodologia di identificazione, valutazione,
misurazione, monitoraggio e gestione del rischio determinano le strutture
organizzative ed i sistemi di controllo volti a presidiare il rischio.
Dalla combinazione delle due osservazioni 1a e 1b è quindi possibile formulare la seguente
proposizione teorica:
1. La definizione (concezione) di rischio determina le strutture organizzative ed i
sistemi di controllo volti a presidiare il rischio.
Tale risultato circa l’importanza della definizione, cioè concezione, del rischio risulta
coerente con l’importanza dei risk rationalities individuata da Arena et al. (2010). Questa
proposizione ha notevoli implicazioni manageriali in quanto invita i practitioner impegnati
nella progettazione di sistemi di controllo e gestione dei rischi a riflettere sulle conseguenze
tenico-operative ed organizzative delle differenti possibili interpretazioni e concettualizzazioni
del rischio. Inoltre invita anche a riflettere sul fatto che una reale gestione integrata dei rischi
è forse possibile solo in presenza di una concezione univoca del concetto di rischio in tutte le
sue possibili manifestazioni particolari.
All’interno della due fasi del caso studio, successivamente all’adozione della definizione di
rischio, si è proceduto a definire la metodologia in senso stretto, stabilendo i processi, le
metriche, le tecniche e gli strumenti di identificazione, valutazione, gestione e monitoraggio
della categoria di rischio considerata. Nello sviluppo di queste attività, oltre a quanto
evidenziato anche al paragrafo 4.1.2, è emersa la necessità per una organizzazione come
Finanza SpA, capogruppo di un gruppo di imprese, di adottare quanto più possibile un
linguaggio comune nelle attività di gestione dei rischi sia al proprio interno sia a livello di
gruppo. Come evidenziano Giorgino e Travaglini (2008), per favorire l’efficacia del processo
di risk management ogni rischio dovrebbe essere definito e individuato allo stesso modo,
facendo possibilmente riferimento al medesimo insieme di cause. La mancata
standardizzazione spinge infatti ogni gruppo di lavoro ad adottare una propria codifica degli
eventi rilevanti; solamente avendo a disposizione un linguaggio comune sarà possibile
consolidare a livello aziendale tutti i fattori di rischio individuati nelle attività e nei processi e
condurre così un monitoraggio e una gestione integrata degli stessi in modo efficiente ed
efficace. In Finanza SpA sono stati quindi sviluppati strumenti quali i cataloghi dei
rischi/eventi, delle cause, degli effetti, degli strumenti di gestione, le alberature dei processi,
nonché sono in corso di sviluppo modelli gestionali di riferimento per il presidio dei fattori di
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
104
rischio risorse umane, processi e sistemi IT in ottica di riduzione dell’esposizione ai rischi.
L’uniformità e omogeneità dei dati da raccogliere e aggregare per una gestione integrata dei
rischi a livello di gruppo spinge verso l’adozione, quanto più possibile, di visioni comuni sulla
concettualizzazione dei rischi non solo tra le funzioni aziendali ma anche tra le società del
gruppo. Pertanto è possibile anche osservare che:
2a. La gestione integrata dei rischi spinge l’organizzazione verso
l’omogeneizzazione dei processi e delle procedure aziendali.
L’esperienza condotta all’interno delle due fasi del caso studio ha permesso anche di
evidenziare, come è ragionevole aspettarsi, che la metabolizzazione delle metodologie
definite da Finanza SpA, per quanto sviluppate il più possibile tenendo conto del contesto
complessivo della società e del gruppo di cui è a capo, è avvenuta più facilmente nelle altre
unità organizzative/società maggiormente affini alla capogruppo in termini di procedure,
processi, linguaggi, modelli, ecc. adottati. Pertanto è possibile anche osservare che:
2b. Il livello di omogeneità e di formalizzazione dei processi e delle procedure
aziendali facilita la gestione integrata dei rischi.
Dalla combinazione delle due osservazioni 2a e 2b è quindi possibile formulare la seguente
proposizione teorica:
2. Il livello di omogeneità e di formalizzazione dei processi e delle procedure
aziendali sono determinanti del livello di integrazione della gestione dei rischi.
Questa proposizione invita i manager impegnati nella progettazione di sistemi di controllo e
gestione dei rischi a valutare il grado di diversità esistente, in termine di processi, procedure,
linguaggi, modelli, ecc. all’interno del perimetro di applicazione degli stessi, nella
consapevolezza che tanto maggiore è la distanza tra i requisiti organizzativi definiti più o
meno esplicitamente dalle metodologie e tecniche di gestione dei rischi e la reale situazione
organizzativa dell’impresa considerata, tanto maggiori saranno le difficoltà implementative
della metodologia. Ad esempio, se la metodologia di individuazione e valutazione dei rischi
prevede di utilizzare il processo aziendale come unità di analisi ma l’azienda è strutturata
secondo il tipico modello funzionale ci troveremo in una situazione in cui: la visione delle
persone è fondata su una concezione dell’azienda organizzata per dipartimenti affiancati, i
cui confini sono formalmente stabiliti da documenti quali gli organigrammi, i funzionigrammi o
job description, ecc.; la metodologia di gestione del rischio richiede invece di avere una
visione trasversale che trascende i confini definiti dall’organizzazione formale. In questa
situazione, diventa critico riuscire a stabilire la contribuzione di ogni singola unità
organizzativa al processo analizzato nella valutazione dei rischi, degli effetti e delle cause
alla loro origine. Questo disallineamento è ancora più evidente se ad esempio la struttura del
sistema di controllo di gestione è organizzata per centri di costo che corrispondono alle unità
organizzative; in questo caso tutti i parametri di costo e di ricavo sono riportati alla singola
unità organizzativa per cui una valutazione degli impatti dei rischi fatta a livello di processo
Capitolo 4 Risultati della ricerca
105
pone il problema del “ribaltamento” del valore dell’impatto complessivo del rischio
considerato sulle singole unità organizzative o centri di costo.
Il caso studio ha permesso anche di riflettere su due ulteriori aspetti critici nella gestione dei
rischi: la capacità di riuscire a stabilire ex-ante, cioè prima che il rischio si manifesti
attraverso l’accadimento di un evento, il suo impatto e le relazioni causali tra il rischio e i
processi/attività aziendali. Potremmo definire la prima proprietà come la misurabilità del
rischio e la seconda come la relazionabilità (causale) del rischio. È stato infatti possibile
osservare che:
3a La capacità di poter stabilire ex-ante, in termini di ragionevole certezza,
l’impatto che un evento di rischio può avere qualora si manifesti (misurabilità del
rischio), permette di poter stabilire quali rischi possano essere governati
attraverso la definizione di target (ad es. limiti operativi).
Ad esempio, nel caso del rischio di credito è possibile prevedere con ragionevole certezza
l’entità della svalutazione del credito in caso ad esempio di downgrade del rating di una data
controparte. Potendo quindi misurare ex-ante il possibile impatto di un evento rischioso di
questa natura è anche possibile stabilire dei limiti operativi per limitare l’esposizione al
rischio di credito, stabilendo un mix di titoli in portafoglio in funzione della classe di rating (ad
esempio: non più del X% del portafoglio investito in titoli BBB). Non è possibile applicare un
ragionamento simile in caso di un tipico rischio operativo come le cause con il personale;
non è infatti sensato cercare regole per stabilire un mix di risorse per cluster o tipologia al
fine di minimizzare l’esposizione al rischio di essere citati in giudizio da un proprio
dipendente ad esempio per pratiche di mobbing. In primo luogo perché anche se riuscissimo
a definire un tale mix potremmo al massimo ridurre la probabilità di accadimento dell’evento
ma non tanto riuscire a imporre un limite all’impatto economico dello stesso, che ovviamente
dipenderà dagli esiti del processo. In secondo luogo significherebbe formulare l’assunzione
circa l’esistenza di una relazione causale tra il manifestarsi dell’evento e il mix di risorse
assunte. La relazionabilità del rischio, intesa come capacità di poter costruire ex-ante i nessi
causali con i processi/attività che lo causano, è un altro aspetto critico nella gestione dei
rischi che, dalle evidenze del caso studio, è possibile associare alle strategie di presidio del
rischio. È stato infatti possibile osservare che:
3b. La capacità di poter stabilire ex-ante le relazioni causali tra i processi e le
attività aziendali e gli eventi di rischio permette di poter stabilire quali rischi
possano essere governanti attraverso modelli gestionali o procedure
organizzative.
Ad esempio, nel caso dell’FRR l’esistenza all’interno di un processo di uno scambio di dati
tra due applicativi porta automaticamente a individuare un rischio di errato trasferimento dei
dati tra sistemi; la relazionabilità di questo rischio specifico è alta ed è pertanto possibile
stabilire a tavolino un adeguato presidio di tale rischio, come ad esempio una procedura
manuale o automatizzata di riconciliazione dei dati pre- e post-trasferimento. Basandosi sulle
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
106
evidenze del caso studio e sull’analisi della letteratura, sono stati messi in relazione tra loro i
concetti di strategia di controllo output based e behavior based proposti da Ouchi e Maguire
(1975), e i concetti di misurabilità e relazionabilità causale del rischio sopra menzionati
(Tabella 6). È quindi possibile formulare la seguente proposizione teorica:
3. La misurabilità e la relazionabilità (causale) del rischio, intese come capacità
di stabilire ex-ante rispettivamente l’impatto del rischio e le relazioni causali con
i processi/attività aziendali, sono determinanti delle strategie di controllo più
appropriate da utilizzare.
Tabella 6 Strategie di controllo dei rischi
relazionabilità del rischio
Alta Bassa
misurabilità del
rischio
Alta
Strategia di controllo
output based
(ad es. limiti operativi, key
risk indicator)
Strategia di controllo
behavior based
(ad es. modelli gestionali di
riferimento) Bassa
Strategia di controllo
behavior based
(ad es. procedure e controlli)
Laddove la misurabilità e la relazionabilità sono alte si può ricorrere a strategie basate sulla
valutazione di risultati (di una misurazione) stabilendo soglie operative o key risk indicator da
monitorare al fine di mantenere l’esposizione al rischio entro i limiti di accettabilità stabiliti.
Laddove la relazionabilità è alta ma la misurabilità è bassa si può intervenire con procedure
o controlli specifici volti mitigare la possibilità di accadimento dell’evento rischioso. Infine,
quando la relazionabilità è bassa è più opportuno ricorrere a modelli gestionali di riferimento
che stabiliscano principi generali nonché l’esistenza di processi e strumenti che hanno per
effetto anche la riduzione dell’esposizione ai rischi.
Capitolo 4 Risultati della ricerca
107
4.2 CONCLUSIONI
Il lavoro di ricerca ha permesso di evidenziare come, per progettare sistemi di controllo che
siano al contempo anche sistemi di gestione dei rischi, sia necessario definire la natura dei
rischi in relazione al problema del controllo organizzativo. Anche i rischi, come le
performance, sono, almeno in parte, dipendenti dai processi aziendali (i rischi derivano infatti
anche da fattori esterni); tuttavia il loro carattere intrinseco, dinamico e sistemico rende la
relazione di dipendenza difficilmente ipotizzabile a priori, in quanto il rischio stesso è
associato ad una imprevedibilità eccezionale all’interno di un processo noto e conosciuto.
Pertanto si è ritenuto opportuno, partendo dalla letteratura sul controllo organizzativo,
ampliare la prospettiva adottata dai ricercatori definendo un framework teorico che contempli
sia gli aspetti tipici della progettazione di un sistema di controllo organizzativo sia quelli di un
sistema di gestione dei rischi.
Inoltre, i risultati della ricerca hanno evidenziato come la definizione (concezione) di rischio
adottata dall’organizzazione possa essere in ultima istanza una determinante delle strutture
organizzative e dei sistemi di controllo volti a presidiare il rischio stesso (proposizione teorica
n.1). La concezione di rischio, espressa tramite la sua definizione così come viene ad
esempio formalizzata nella documentazione ufficiale dell’organizzazione, funge quindi da
catalizzatore verso quegli elementi specifici che in primo luogo vanno a caratterizzare le
metodologie di individuazione, misurazione e gestione del rischio e in secondo luogo le
strutture e i sistemi di controllo da esse demandati. Dalla ricerca è emerso anche che la
gestione integrata dei rischi e il grado di omogeneità di procedure e processi all’interno
dell’organizzazione sono elementi fortemente interrelati (proposizione teorica n. 2). La
gestione integrata dei rischi richiede e spinge verso l’omogeneità dei processi e delle
procedure che a loro volta favoriscono la prima. Diventa quindi importante in fase di
progettazione di un sistema di controllo e gestione dei rischi analizzare la situazione
organizzativa dell’impresa al fine di comprendere come definire una metodologia di gestione
dei rischi allineata alla struttura organizzativa oppure come modificare quest’ultima per
favorire una più efficace gestione dei rischi all’interno dell’impresa. Infine, la ricerca ha
permesso di mettere in relazione due proprietà dei rischi - la misurabilità, intesa come
capacità di prevedere ex-ante, con una ragionevole certezza, l’entità della magnitudo del
rischio, e la relazionabilità (causale) del rischio, intesa come capacità di definire ex-ante le
relazioni causali tra i processi/attività aziendali e i rischi – con le strategie di di controllo più
appropriate da utilizzare (behavior o output based). Solo laddove la misurabilità e la
relazionabilità del rischio sono elevate è opportuno avvalersi di forme di controllo basate sui
risultati, quali la definizione di target e limiti operativi all’assunzione di rischio oppure la
definizione di key risk indicator. Nelle altre situazioni, le forme di controllo basate sui
comportamenti, quali modelli di gestione o procedure e specifici controlli organizzativi, sono
più adeguate agli obiettivi. Complessivamente, l’esperienza condotta attraverso il caso
studio ha permesso di evidenziare la rilevanza degli aspetti di natura organizzativa di cui si
Sistemi di controllo e gestione dei rischi. Soluzioni organizzative nel settore assicurativo.
108
dovrebbe tenere conto fin dalla fase di progettazione della metodologia di gestione dei rischi,
che in apparenza risulta una questione meramente tecnica e specifica del risk management.
Viene quindi confermate la necessità espressa da Spira e Page (2003) circa una
ridefinizione delle relazione tra sistemi di controllo, risk management e corporate
governance.
Il contributo fornito dalla ricerca si colloca propria in questa direzione ed è prima di tutto di
tipo teorico. A partire dall’analisi della letteratura e dalle evidenze del caso studio è stato
proposto l’ampliamento di un framework di riferimento per la letteratura del controllo
organizzativo introducendo il concetto di rischio come elemento distinto e importante per la
progettazione di adeguati sistemi di controllo. In aggiunta sono state derivate anche alcune
proposizioni teoriche orientate a comprendere le relazione esistente tra l’ambito strettamente
organizzativo e quello del risk management e in particolare a come devono essere definite le
strutture organizzative e come devono essere modificati i sistemi di controllo al fine di
consentire una efficace gestione dei rischi. Le proposizioni teoriche hanno anche
implicazioni di natura manageriale per quanto tramite questo lavoro di ricerca non siano stati
sviluppati specifici strumenti a supporto della progettazione dei sistemi di controllo.
Dal momento che la ricerca è stata condotta tramite un singolo caso studio una possibile e
auspicabile direzione di ricerca futura è di applicare lo stesso framework teorico anche ad
altri casi aziendali al fine di rafforzare od eventualmente ridefinire le deduzioni e le
proposizioni teoriche presentate in questo elaborato. L’ampliamento del campione di
imprese analizzate potrebbe inoltre ridurre la possibilità di bias di cui potrebbe soffrire il
presente lavoro di ricerca; infatti, per quanto la triangolazione dei dati sia stata perseguita
con costanza, attraverso una approfondita analisi documentale (policy, manuali, e-mail, ecc.)
e un continuo confronto con i key informant del caso studio, l’osservazione diretta e
partecipata è stata condotta in tutto l’arco temporale del caso studio dallo stesso ricercatore,
che risultava inoltre coinvolto nei processi decisionali dell’organizzazione oggetto di studio.
Infine, un ulteriore indirizzo di ricerca potrebbe essere quello di definire specifici strumenti
manageriali a supporto dei processi decisionali inerenti la progettazione dei sistemi di
controllo e gestione dei rischi.
109
APPENDICE A. SINTESI DEI C
ONTENUTI DEGLI ARTICOLI ANALIZZATI
Autori
Anno
Titolo
Fonte
Vol
N°
Pag.
Area
Argomento
Sintesi contenuti principali
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30
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APPENDICE B. SINTESI DEI C
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