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Reader’s Bench Tutto il mondo dei libri su una panchina Speciale Italo Calvino Raccontare il presente In viaggio con Calvino Il giardino invisibile

Speciale Calvino

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Reader’sBench Tutto il mondo dei libri

su una panchina

Speciale Italo Calvino

Raccontare il presente

In viaggio con Calvino

Il giardino invisibile

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Circa mezzo secolo fa Italo Calvino si inter-rogava sul presente e sul futuro della forma romanzo con una serie di articoli e interventi di rara lucidità. Non solo lui, a dire il vero: era un intero arco generazionale e letterario a in-terrogarsi sulle modalità del proprio fare lette-ratura. Si trattava di un dibattito su vasta scala, grazie al quale mettere a fuoco il senso di un lavoro, quello della scrittura, sempre denso di incognite e di fraintendimenti. Le dispute alle volte degeneravano in contese personali, op-pure la smania di fare della teoria a tutti i costi annebbiava la sostanza stessa della letteratu-ra, che è un fatto estetico prima che politico o

analitico; ma c’era fermento, le idee giravano, nessuno aveva paura di esporsi. Mi ha colpito in particolare un ragionamen-to proposto da Calvino sulla letteratura indu-striale: quel genere cioè che per la prima volta entrava nelle fabbriche, poneva in risalto la vita dell’operaio come soggetto della narra-zione e non più solo e soltanto come oggetto storico della Rivoluzione industriale. Calvino la intendeva come un momento di verità nella testimonianza del presente, come se l’incur-sione della letteratura sul terreno aperto del confronto civile e della lotta per la giustizia sociale fosse il dato saliente di quell’epoca e

Raccontare il presentedi Ariberto Terragni

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di quella contemporaneità. Analizzava l’opera di Bianciardi, Ottieri, Arpino, individuava un movimento di idee che si imprimeva come un genere a sé stante. Viene da chiedersi: e ora quale genere può dir-si altrettanto connotativo nei confronti del no-stro presente? Una sola risposta non è possibi-le. Prima di tutto perché non vedo da nessuna parte un dibattito altrettanto articolato ed este-so, e poi perché non vedo una letteratura ca-pace di raccontare il presente con l’ambizione della testimonianza che vada oltre il racconto personale. Che questi fossero anni di liquefa-zione e di comportamenti personali sostanzial-mente contrapposti ai comportamenti sociali già si era capito: la forma del diario personale ha assorbito quella che in altri tempi è stato il tentativo di descrivere la società attraverso una terza persona, un alter ego che fosse al contempo l’idea dell’autore e il catalizzatore di tutte le istanze politiche e culturali che si agitavano nell’aria in quel momento. C’è da dire che forse non è corretto ostinarsi a paragonare il presente con il recente passato: gli alfabeti cambiano, così come le sensibili-tà collettive, che, specie in questi anni, hanno subito una brusca sterzata da un “noi” maga-ri un po’ presuntuoso e populista ad un “io” che però ha il respiro corto e che molto spesso non ha la forza e magari nemmeno l’attitudi-ne di assumersi troppe responsabilità. Non è detto nemmeno che una generazione letteraria debba per forza di cose individuarsi attraverso uno spirito univoco (la classe che ci ha pre-ceduto, quella, diciamo così, postmoderna, è stata la prima a confrontarsi con la frantuma-zione dell’esperienza). Ma mi rifiuto di crede-re che gli unici mezzi con i quali possiamo ad-dentrarci nel reale e nel presente siano le armi del fantasy e del genere inteso come horror o giallo; se penso a ciò che l’esistenzialismo ha rappresentato per la cultura e per il pensie-ro (e quindi, di rimando, per la letteratura) in

termini di definizione della dignità umana, di analisi dei comportamenti e di denuncia aper-ta del conformismo e dell’alienazione, mi pare impossibile che in un momento critico come quello attuale le chiavi di lettura siano così po-che e così inadeguate. Come se ci fosse una paura di fondo, una reticenza che impedisse di affondare la lama nella ricostruzione del reale. E’ come se la letteratura, più di qualsiasi altra arte, si facesse troppe remore a diventare uno specchio della crisi.E’ possibile esprimersi in questi termini solo circa le proposte editoriali, ovviamente. Del sommerso, vero, grande genere nel genere di questi anni, si sa poco, e quel poco è affidato alle torbide, ingarbugliate, sgan-gherate trame del self – publishing, dove l’illusione di avere una voce ha preso il posto della voce stessa, in un cortocircuito (un si-mulacro) che dan-neggia la letteratura ed esalta il Potere. Non so se Calvino avrebbe individuato in questa sfasatura una coincidenza a dir poco sospetta, lui che non aveva mai smes-so di interrogarsi sui perché del proprio ruolo. Ma sono questioni che spettano solo e soltan-to ai contemporanei, ai viventi, anche se non capto in giro una grande voglia di misurarsi con i significati sempre più intraducibili che i tempi ci sottopongono, e non per la fregola di etichettare tutto e tutti, ma per curiositas, pura e semplice indagine che penso sia ancora il primo dovere di uno scrittore.

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Viaggiare con l’immaginazione: ecco cosa si-gnifica cimentarsi nella lettura di Le città invi-sibili di Italo Calvino. Il libro è stato pubbli-cato nel 1972 ed è uno dei lavori, insieme a Il castello dei destini incrociati (1969) e Se una notte di inverno un viaggiatore (1979), che ap-partiene al periodo combinatorio in cui Calvi-no ha sperimentato le potenzialità della parola scritta e del suo potere narrativo ed evocativo. Non si può considerare Le città invisibili una

storia tradizionale con un inizio, uno svolgi-mento e una fine, in quanto Calvino propone al lettore un dialogo quasi ininterrotto tra i due unici personaggi: l’esploratore veneziano Mar-co Polo e l’imperatore dei Tartari Kublai Kan. Il contenuto principale delle conversazioni è la descrizione al malinconico e sfiduciato sovra-no delle città del suo immenso impero ormai prossimo alla rovina. Il libro si divide in nove capitoli aperti e chiusi

In viaggo con Calvinodi Chiara Silva

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dalla cornice metanarrativa in cui Marco Polo e Kublai Kan procedono nel loro discorso e nelle loro riflessioni ad alta voce. Nel corso della narrazione vengono descritti l’aspetto globale e le peculiarità specifiche di 55 città oniriche che portano nomi femminili dal sapo-re vetusto. Ciascuna città, in base ai suoi trat-ti distintivi, fa capo a uno degli undici gruppi ideati dall’autore per classificare la natura dei luoghi visitati da Marco Polo. Quest’intreccia-to gioco combinatorio aiuta a conferire equili-brio e geometria all’opera.Nel suo resoconto Marco Polo è come un fiume in piena che cer-ca di plasmare con le parole non solo la fisionomia ma anche lo spirito di ogni città davanti agli occhi avidi di notizie ma incre-duli di Kublai Kan. Il sovrano però fatica a fidarsi completa-mente delle parole del venezia-no, più volte mette in dubbio la sua testimonianza e si domanda quanto di vero ci sia nei suoi rac-conti oppure se lo stia semplice-mente ingannando con sciocche favole pur di celargli l’inarresta-bile declino del regno. Effettivamente, Marco Polo non parla apertamente della realtà drammati-ca dell’impero. Ciò nonostante non cerca di nasconderla ma anzi prova a renderla ancora più manifesta al Gran Kan aprendogli gli oc-chi sugli ultimi residui di splendore dell’impe-ro, segni di un passato glorioso ormai lontano. L’esploratore afferma anche che le città de-scritte non hanno un esatto riscontro nella re-altà, non perché siano frutto di immaginazione o menzogna, ma perché lui ricorda e racconta ciò che la città ha lasciato nel suo animo: le descrizioni delle città rispondono quindi solo alle immagini mentali di come lui stesso ha vi-sto e percepito le città.

Al sovrano, e al lettore con lui, vengono rispar-miati i dettagli dei viaggi e degli spostamenti di Marco Polo, perchè ciò che conta davvero sono solo le descrizioni della città che si sus-seguono quasi senza interruzione. In questo modo Calvino è come se calasse il suo lettore proprio nel bel mezzo di ogni città mentre nel-la sua mente si affollano immagini impalpabili di città sospese nel cielo o scavate sotto terra. Infatti, ciò che rimane alla fine di ogni descri-zione è solo un’idea confusa della città, come se si fossero viste tante fotografie senza avere

il tempo di fissarle nella memoria. Le parole di Marco Polo prendono vita fino a quando dura il discorso, perché quando il suono della paro-la si disperde resta solo un’imma-gine vaga e poco nitida della città. Probabilmente è questa sensazio-ne di incertezza che acuisce nel Gran Kan quel tormento interiore misto ad attaccamento al presente.Nel finale prevale l’angoscia di Kublai Kan che non vede l’utilità del viaggio se poi l’ultimo appro-do inevitabile è la città infernale dai cui è impossibile scampare. Marco Polo corregge quest’affer-mazione e sostiene che già nello

stesso presente si può vivere nell’inferno, per sfuggirgli è necessario far fiorire intorno a noi ciò che non riteniamo sia l’inferno.

Letture consigliate:CALVINO, ITALO: Le città invisibili. Mon-dadori, 224 pagine, 9,00 €.ZINATO, EMANUELE: Conoscere i romanzi di Calvino. Rusconi, 160 pagine, 8,26 €.

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“Il nuovo giardiniere era un ragazzo coi ca-pelli lunghi e una crocetta di stoffa in testa per tenerli fermi.”

Così appare, per la prima volta, il quindicen-ne Libereso Guglielmi ad Italo Calvino. All’e-poca del loro incontro lo scrittore aveva solo due anni in più di quello che diventerà il primo collaboratore del padre. Italo, grazie a quel ra-gazzone, con quello strano nome in esperanto, si libererà di un destino già segnato.

Voleva fare il giornalista, Italo, magari lo scrit-

tore e non certo indossare i guanti da giardino, le forbici e andare alla scoperta di piante e va-rietà provenienti da tutto il mondo.

Una decisione che dividerà la famiglia, tra scienza e letteratura, e che vede proprio in Li-bereso la continuità in ciascun versante.

Sarà proprio lui non solo a portare avanti il giardino di Villa Meridianama diventerà anche protagonista di un racconto di Italo, Un pome-riggio Adamo, in cui impersona uno spirito li-bero e creativo in barba a Maria Nunziata, il

Il giardino invisibile

di Clara Raimondi

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suo alter ego nel racconto, che invece rappre-senta la tradizione.Scrittore lui stesso in Libereso, il giardiniere di Calvino (Gem edizioni, 208 pagg, 16.00 euro) racconterà della sua collaborazione con il professor Mario Calvino e dell’amicizia con Italo così vera e spontanea che ognuno di loro, come abbiamo visto, cadrà nello scritto dell’altro.

I personaggi del Barone Rampante, secondo Libereso, prendono vita proprio da loro due e da un gruppo di amici che gironzolava nei pressi della villa.

Oggi, lo studioso, classe 1925, vive e lavora ancora nel giardino che fu dei Calvino, scrive manuali e libri di ricette con l’uso delle erbe spontanee e rappresenta, a livello mondiale, uno dei massimi esperti di botanica.

Nel paradiso tropicale a ridosso della città, tra alberi di avocado, laghetti pieni di ninfee, é possibile ancora vederlo aggirarsi con il capo sempre chino, alla ricerca delle piante spontanee, quasi sempre dimenticate, che racchiudono poteri e gusti sorprendenti.

Nel suo taccuino sono contenu-ti i ritratti di ogni singolo ospi-te di questa oasi, quasi come in un album di famiglia dove Li-bereso riconosce ogni forma e caratteristica.

Un bagaglio immenso di cui non sembra affatto geloso ma che, anzi, ha ancora voglia di condividere con il mondo, in attesa che si ricordi dell’impor-tanza del rispetto per la natura.

In libreria:

Il giardino segreto dei Calvino di Paola For-neris e Loretta Marchi, De Ferrari, 144 pagg, 20.00 euro

Oltre il giardino. Le ricette di Libereso Gu-glielmi, Socialmente, 80 pagg, 10.00 euro