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Redazione: Piazza Cavour 17 - 00193 Roma • Poste Italiane spa – Spedizione in abbonamento postale 70% - Milano Dieci storie di chi ha ripreso in mano la propria vita Nella patria della riabilitazione VIGORSO DI BUDRIO DOPO L’INFORTUNIO VOLTERRA IL MAGAZINE PER LA DISABILITÀ / AGOSTO-SETTEMBRE 2014 / NUMERO 8-9 L’officina delle protesi più grande d’Italia

SUPERABILE / AGOSTO-SETTEMBRE 2014 / NUMERO 8-9

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Dieci storie di chi ha ripreso in mano la propria vita

Nella patria della riabilitazione

VIGORSO DI BUDRIO

DOPO L’INFORTUNIO

VOLTERRA

IL MAGAZINE PER LA DISABILITÀ / AGOSTO-SETTEMBRE 2014 / NUMERO 8-9

L’officina delle protesi più grande d’Italia

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EDITORIALEdi Giovanni PauraDirettore Centrale Prestazioni Sanitarie e Reinserimento, Inail

Anche quest’anno la Relazione annuale sugli infortuni la-vorativi arriva inesorabile a ricordarci che di lavoro an-cora si muore e ci si ammala. Per fortuna i dati offrono

qualche elemento di conforto: i decessi e gli incidenti sono for-temente diminuiti nel 2013, l’ultimo anno analizzato dal rap-porto. Le morti bianche sono state 660 e gli infortuni 695mila, rispettivamente il 17 per cento e il 7 per cento in meno rispetto all’anno precedente. E, soprattutto, è calato l’indice di sinistro-sità, ovvero la percentuale degli incidenti sul numero di lavo-ratori occupati. Una buona notizia, certo, ma che non deve in ogni caso farci abbassare il livello di guardia.

Dinanzi a tali tragedie noi non restiamo a guardare. I tecnici e gli esperti dell’Inail lavorano costantemente per diffondere tra i datori di lavoro e i lavoratori quella cultura della sicurezza, che ancora stenta ad affermarsi. Non è mai troppo in-sistere sul valore della prevenzione. Purtroppo tutto questo non basta e il nostro primo mandato istituzionale rimane comunque quello di accompa-gnare i lavoratori e le loro famiglie nel lungo e faticoso percorso che segue il trauma dell’incidente. Un dovere che va oltre l’erogazione dei benefici economici indispensabili per l’infortunato e i suoi familiari. E che i nostri medici, assistenti sociali ed esperti portano avanti attraverso quella che, con un termine eloquente, definiamo presa in carico dell’individuo. Per-ché sappiamo bene che rendite, protesi e ausili da soli non sono sufficienti. E che gli infortunati di cui l’Istituto si prende cura ogni giorno ci chiedono innan-zitutto di aiutarli a elaborare nuovi percorsi esistenziali. Una sfida difficile per chi vede sgretolarsi di punto in bianco ogni certezza e per noi che ci troviamo a dover dare una risposta alla più difficile delle domande: che cosa sarà ora della mia vita?

Per questa ragione abbiamo deciso di raccontare i nostri Centri di ec-cellenza di Vigorso di Budrio e di Volterra, insieme alle storie di tanti che sono riusciti a rialzarsi dopo l’incidente. Lo abbiamo fatto attraverso un numero mono-grafico della nostra rivista conducendo prima i lettori nelle officine delle protesi e della riabilitazione, dove l’elemento vincente è la soluzione personalizzata che na-sce dalla relazione tra tecnici e pazienti. E poi raccogliendo le storie di chi ha vissuto il trauma dell’infortunio sulla propria pelle. In controtendenza rispetto al modello ormai imperante nella professione giornalistica, i nostri corrispondenti hanno la-sciato le scrivanie per incontrare direttamente le persone nelle loro case. Perché la nostra idea del giornalismo somiglia alla nostra idea di presa in carico: relazione, prossimità, comprensione delle ragioni dell’altro.

Infortuni sul lavoro. Per noi non sono numeri

Il nostro primo mandato rimane quello di accompagnare i lavoratori e le loro famiglie nel percorso che segue il trauma dell’incidente

SuperAbile INAIL 3 Agosto Settembre 2014

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SuperAbile Magazine

Anno III - numero otto-nove, agosto- settembre 2014

Direttore: Giovanni Paura

In redazione: Antonella Patete, Laura Badaracchi e Diego Marsicano

Direttore responsabile: Stefano Trasatti

Hanno collaborato: Laura Pasotti, Jacopo Storni, Michela Trigari (Redattore Sociale); Ilaria Cannella, Francesca Iardino, Monica Marini, Maria Pedroli (Inail)

Progetto grafico: Giulio Sansonetti

Editore: Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro

Redazione: SuperAbile Magazine c/o agenzia di stampa Redattore Sociale Piazza Cavour 17 - 00193 Roma E-mail: [email protected]

Stampa: Tipografia Inail Via Boncompagni 41 - 20139 Milano

Autorizzazione del Tribunale di Roma numero 45 del 13/2/2012

Un ringraziamento particolare alle assistenti sociali Inail delle Direzioni regionali e delle Sedi territoriali, che hanno collaborato alla realizzazione di questo numero.

In copertina: protesi al Centro di Vigorso di Budrio (Bologna). Foto di Riccardo Venturi

EDITORIALE3 Infortuni sul lavoro. Per noi

non sono numeri di Giovanni PauraIL REPORTAGE6 L’arte di fare le protesi.

Il miracolo di Budriodi Laura Pasotti

10 Carmine Iannece, 53 anni, Calitri (Avellino)di L.P.

16 Interfacce neurali e robotica: le nuove frontiere della ricercadi L.P.

18 Enrico Lanzone: «Diamo alle persone una prospettiva di vita»di L.P.

24 A scuola di riabilitazione. Le tecnologie di Volterra

di Jacopo Storni 26 Aziz Basraoui, 47 anni,

Mohammedia (Marocco) di J.S.28 Manuela Salis, 28 anni,

Sassari di J.S.

sommArIo

SuperAbile INAIL 4 Agosto Settembre 2014

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LA VITA DOPO L’INCIDENTE. 10 STORIE34 E a Vigorso è sbocciato l’amore.

La fortuna di Antoninodi Laura Badaracchi

36 In sella o in canoa. Continua il sogno di Brunelladi L.B.

39 Body building e manicaretti. La rinascita di Antoniodi L.B.

42 Ho aiutato tanti giovani a incontrare lo sport. Ninodi Antonella Patete

46 Come un arco ti aiuta a guarire. La missione di Willy

di A.P.48 Io non mi fermo dinanzi

a niente. L’entusiasmo di Salvodi A.P.

50 E a un certo punto ho smesso di piangere. Caterinadi A.P.

52 Dio mi ha salvato, l’Inail mi ha rimesso in piedi. Thomasdi A.P.

54 Ostia, gli albori dello sport paralimpicodi A.P.

58 Non tutti i giorni nasce un campione. La tenacia di Vittoriodi A.P.

60 Dopo 40 anni è ancora amore. L’ironia di Uber e Irenedi A.P.

L’INTERVISTA62 Angela Goggiamani Malattie professionali:

un fenomeno da non sottovalutare

di A.P.64 Margherita Caristi

Servizio sociale: dall’assistenza all’autonomia degli infortunati

di A.P. DULCIS IN FUNDO66 Strissie - I pupassi

di Adriana Farina e Massimiliano Filadoro

Quell’umanità oltre le tecnologieRealizzare un numero monografico è sempre una scelta impegnativa per una rivista che, pur con il passo lento del mensile, ha l’ambizione di seguire le infinite svolte dell’attualità. Bisogna abbandonare l’agenda per fare un tuffo nelle storie che si è scelto di approfondire. In questo numero siamo andati nei Centri di Vigorso di Budrio e di Volterra per mettere in luce quel lato umano che troppo spesso rimane in secondo piano rispetto all’eccellenza tecnologica. Perché dietro le sperimentazioni di

avanguardia nel campo delle protesi e della riabilitazione si nasconde un esercito di tecnici, operatori, scienziati sempre al servizio delle esigenze del paziente. Professionisti abituati a mettere in discussione il loro lavoro, perché sanno bene che anche l’ausilio più avveniristico non serve a nulla senza la

profonda convinzione di chi se ne servirà.Il numero ospita anche una serie di storie di infortunati sul lavoro che, con l’aiuto dell’Inail, sono riusciti a riprendere in mano la propria vita sconvolta dall’incidente. Persone di varia età e provenienza geografica e sociale che testimoniano l’infinita ricchezza dell’esperienza umana, anche dopo lo shock di ritrovarsi improvvisamente in un corpo diverso. E che a volte sono riuscite a fare della disabilità sopraggiunta un’occasione di cambiamento ed esplorazione di nuovi mondi.Lungo tutto questo viaggio ci ha accompagnato un fotografo, Riccardo Venturi, che ha immortalato nei suoi scatti il lavoro, le emozioni, l’impegno di tutti quelli che abbiamo incontrato. E che si sono prestati volentieri a raccontarci le loro esperienze. Anche quando si trattava di ripercorrere momenti difficili delle loro esistenze, andando a toccare ferite ancora aperte. A tutti loro va il nostro grazie.

SuperAbile INAIL 5 Agosto Settembre 2014

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L’arte di fare le protesi. Il miracolo di Budrio

SuperAbile INAIL 6 Agosto Settembre 2014

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IL REPORTAGE

Dalle mani cinematiche di legno degli anni Sessanta agli attuali arti robotici, ne ha fatta di strada il Centro protesi Inail di Vigorso di Budrio. Una struttura dove artigianato, ricerca, sfida, innovazione sono all’ordine del giorno. E dove al centro di tutto c’è sempre il paziente, che spesso entra demotivato e sconsolato ed esce con una speranza in più: quella di poter tornare a una vita normale. Ma Vigorso è anche un crocevia di storie dove utenti, operatori, tecnici percorrono insieme un importante tratto di strada. Alla ricerca di una soluzione unica e personalizzata, che vada bene per ogni singolo caso. Viaggio nell’officina protesica fiore all’occhiello del made in Italy

L’arte di fare le protesi. Il miracolo di Budrio

Romano, classe 1966, due volte vincitore del World Press Photo, dalla metà degli anni Novanta Riccardo Venturi si occupa soprattutto delle aree in conflitto del pianeta. In Italia ha realizzato un reportage fotografico sulle morti bianche per conto dell’Anmil. Sono suoi gli scatti di questo numero monografico.

SuperAbile INAIL 7 Agosto Settembre 2014

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SuperAbile INAIL 8 Agosto Settembre 2014

L’arte di fare Le protesi. Il mIracolo dI BudrIo

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IL REPORTAGE

Laura Pasotti

Heorhiy ha 29 anni. Di origine ucraina, da circa un decennio lavora in Italia, nell’edilizia. A Vigor-so di Budrio, in provincia di Bologna, è arrivato

solo da qualche mese. Nel giugno del 2013 è caduto da un’impalcatura a Longiano, nel forlivese. Stava taglian-do le tubature sul soffitto di un capannone per sostitu-irle, ma un pezzo si è staccato finendogli addosso e lui è precipitato da quattro metri di altezza. Lesione spinale incompleta, la diagnosi.

Heorhiy percorre uno dei corridoi del Centro prote-si Inail su una sedia a ruote. Alto, magro, silenzioso, lo sguardo basso. Si ferma davanti a un ambulatorio dove proverà i tutori che gli consentiranno di camminare di nuovo, anche se – sottolinea lui – «in modo diverso». La conseguenza della lesione spinale, infatti, è una paraple-gia. Non muove più la gamba destra, mentre la sinistra è paralizzata solo fino al ginocchio. I tutori sfruttano la funzione cinetica del corpo, dei muscoli, per farlo muo-vere. Dopo aver trascorso quattro mesi al Centro ria-bilitativo dell’ospedale di Montecatone, vicino a Imola (sempre nel Bolognese), Heorhiy o Giorgio, «il mio no-me italiano», è a Vigorso di Budrio per rimettersi in pie-di. «Sto imparando a usare i tutori, faccio fisioterapia, vado in palestra ed è finita la giornata», racconta. An-cora qualche mese – il tempo per sistemare le pratiche relative all’infortunio – e poi tornerà in Ucraina, dalla sua famiglia, dalla moglie e dai figli di quattro e sei an-ni. A chi gli chiede cosa farà una volta a casa, lui rispon-de: «Messo così, non potrò più fare niente».

La depressione e la tendenza a chiudersi in se stessi o in un atteggiamento negativo è molto diffusa – e an-che comprensibile – fra chi transita per il Centro protesi, specie tra quelli che, come Heorhiy, stanno imparan-do a convivere con un corpo diverso solo da poco tem-

SuperAbile INAIL 9 Agosto Settembre 2014

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È bastato un attimo. Un comando sbagliato. E l’autobetoniera con cui stava

lavorando nell’azienda di famiglia si è portata via tutte le dita del piede sinistro. Al Centro traumatologico ortopedico di Napoli gliele hanno riattaccate, ma

Carmine Iannece 53 anni Calitri (Avellino)

l’operazione non è riuscita e il piede è andato in necrosi. Poi un viaggio al Nord, all’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna, dove gli hanno consigliato di tagliare la gamba a metà polpaccio, anziché solo il piede, perché avrebbero potuto fare «una protesi migliore». Da allora sono passati 30 anni e Carmine Iannece,

53enne di Calitri, in provincia di Avellino, continua a tornare al Nord, destinazione Vigorso di Budrio, dove gli hanno fatto una protesi transtibiale. «Quella nuova ha un piede elettrico», racconta soddisfatto.Particolare fondamentale, perché Carmine non ha mai smesso di lavorare – «se no

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L’arte di fare Le protesi. Il mIracolo dI BudrIo

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IL REPORTAGE

po. Anche per questo motivo, alla prima visita – oltre al tecnico, al fisiatra e al consulente ortopedico per valu-tare le potenzialità della persona (anche in base all’età)

– ci sono anche uno psicologo e un’assistente sociale. La presa in carico è integrata, sia dal punto di vista moto-rio che da quello psicologico e ambientale. Al centro ci sono sempre loro, gli utenti.

La prima visita è il momento in cui il paziente rice-ve le corrette informazioni su ciò che il Centro è in gra-do di offrire. Non sempre tutto è possibile e l’obiettivo principale è non creare false aspettative. Vero è che le protesi di Vigorso di Budrio fanno degli autentici mi-racoli: consentono alle persone di ritornare al lavoro, di usare un computer, di sciare o anche (solo) di rico-minciare a camminare. Basti pensare che la struttura è il fiore all’occhiello del made in Italy, in particolare per quanto riguarda le protesi sportive: sono, infatti, diversi gli atleti presenti alle ultime edizioni delle Pa-ralimpiadi di Londra e Sochi che hanno trovato qui la protesi più adatta per la propria disciplina.

Il risultato finale, però, dipende anche dalla collabo-razione da parte del paziente e dalla fiducia che ripo-ne nei tecnici, come racconta Antonio Ammaccapane, responsabile del Reparto protesi, andato in pensione il primo luglio dopo aver lavorato per 42 anni a Vigor-so di Budrio. «Siamo tecnici e non psicologi, ma dopo tanti anni un po’ di cose sulla psicologia dei pazien-ti le abbiamo imparate anche noi – afferma –: abbia-mo capito che, se si interrompe il rapporto di fiducia tra tecnico e paziente, difficilmente si arriverà a un ri-sultato ottimale». Ovvio che, se i problemi sono reali, si interpella uno psicologo per aiutare la persona a su-perare le proprie difficoltà. Con alcuni pazienti è più facile perché sono estremamente positivi, come Car-

come lo pago il mutuo?» –, è tornato a correre, fa passeggiate in montagna e, soprattutto, va ancora a ballare con la moglie Rosa. «Ci siamo conosciuti quando avevamo 13 anni e non ci siamo più lasciati – dice –. Quando ho avuto l’incidente ci eravamo appena sposati e la nostra prima figlia aveva sei mesi: ci siamo fatti forza

a vicenda». Di figli poi ne sono arrivati altri quattro. Attualmente Carmine lavora insieme a due di loro e al fratello nell’azienda di famiglia, che oggi si occupa di estrazione di marmo nel Potentino. «Non mi sono mai barricato dietro il mio handicap e ce l’ho messa tutta perché volevo tornare a essere

quello di prima», afferma. «Oggi mi sento integrato al 101%», racconta Carmine, anche se non nasconde che alla sera, quando si toglie la protesi e va a dormire, a volte mentre è a letto pensa che «se venisse a tremare la terra, tutti gli altri si salverebbero mentre io, ora che mi infilo la protesi, è già venuta giù la casa». Ma

è solo un pensiero, che non gli toglie il sorriso con cui affronta la vita. Se ne sono accorti anche a Vigorso di Budrio, tanto che quando è al Centro Inail per sostituire la protesi lo mettono in stanza con i più giovani, quelli amputati da poco, per aiutarli, tirarli su di morale e trasmettergli un po’ del suo ottimismo. [L.P.]

SuperAbile INAIL 11 Agosto Settembre 2014

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dida molto breve dida molto breve

La sua vita è cambiata il 29 dicembre 1975. Figlio di agricoltori,

quella sera Vendemiano sta combattendo con una cisterna per i liquami. Mentre la presa cardanica pompa, si allontana per dare da mangiare agli animali. Quando sente che la cisterna è piena, corre ma scivola e

finisce dentro la presa con la gamba sinistra. Il padre è ancora in campagna e lui è da solo. Lo trovano due signori arrivati per acquistare un maialino e lo portano all’Ospedale di Oderzo (Treviso), dove gli amputano la gamba sopra il ginocchio. Vendemiano ha 15 anni. «Allora lo psicologo non era un’opzione da prendere in considerazione

e ci sono voluti anni per metabolizzare l’accaduto – dice –. I miei non sapevano come comportarsi: parlavano di protesi miracolose che mi avrebbero fatto tornare come prima. Lo dicevano in buona fede e io, ragazzino, ci credevo». La prima protesi è arrivata nel 1976, a Budrio. E non era il “miracolo” che gli avevano prospettato.

Vendemiano Mazzer 54 anni San Polo di Piave (Treviso)

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L’arte di fare Le protesi. Il mIracolo dI BudrIo

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IL REPORTAGE

mine Iannece (box alle pagg. 10-11) che frequenta Vi-gorso di Budrio ormai da 30 anni. Nei giorni in cui è al Centro per sostituire la protesi (per legge ogni quat-tro anni o più spesso, se servono riparazioni), di fre-quente condivide la stanza con i nuovi amputati, per contagiarli con la sua positività. Carmine ce l’ha mes-sa tutta per tornare a essere come prima e oggi con la sua protesi transtibiale va a lavorare, a fare passeggia-te in montagna e a ballare.

Per altri, al contrario, è molto difficile accettare la nuova condizione. «Ci sono alcuni pazienti che su 365 giorni, stanno ricoverati per 200», dice Antonio. E al-lora si prova anche a scherzare, aggiunge Fausto Ca-prara, alla soglia dei 24 anni al Centro come tecnico. «È un modo per sbloccarli», afferma. Non sempre ci si riesce, ma esistono ottime protesi e, grazie ai progressi della tecnologia, le opportunità a disposizione dei pa-zienti sono in continua evoluzione.

Pasqua Caterina Guida (a fianco) ha 47 anni e da quasi 20 lavora a Vigorso di Budrio come fisioterapista. «Mi piace tantissimo la mia professione, ma soprattutto mi pia-ce quando i pazienti sono contenti», racconta. A volte capita che alcuni mostrino disinteresse o rifiutino il rapporto, «un meccanismo di difesa che attuano per il timore di non farcela – spiega Catia, come tutti la chiamano qui al Centro –. Il nostro compito è stare loro vicino, aiutarli, spronarli, ma senza assecondarli quando assumono un atteggiamento negativo». Catia è nella palestra del Centro protesi – sviluppata insie-me al laboratorio per la sperimentazione delle abilità

– dove i pazienti «vengono addestrati a camminare di nuovo». C’è chi abbozza qualche passo tenendosi ap-poggiato alle parallele e chi si misura sul tapis roulant. «Dalla sedia a ruote alla protesi, quando li rimetti in

Faceva male e non riusciva a stare in piedi. Figuriamoci camminare. C’è voluto un mese di fisioterapia per fare i primi passi, con il bastone. «Ma l’ho presa bene, perché volevo tornare a essere come prima». Quello che non sarebbe tornato come prima è il lavoro. Così Vendemiano riprende la scuola: il padre lo iscrive all’istituto agrario e, finiti gli studi, lavora in

qualche ufficio. Ma non gli piace: la terra è la sua vita ed è lì che torna. Nel frattempo le attrezzature si sono evolute e, pur con la protesi, ricomincia a lavorare. A metà degli anni Ottanta si ritrova titolare dell’azienda di famiglia, la stessa in cui lavora ancora oggi con la moglie Caterina, sposata nel 2003. Prima di allora, l’approccio con l’altro sesso

non è stato facile: «Non pensavo di poter essere attraente per una donna». Con la moglie è stato più facile: ci ha pensato sua sorella a fargliela incontrare e quando sono usciti insieme conosceva già la sua storia. Ora hanno sette ettari di vigneti a San Polo di Piave e producono prosecco doc. Vendemiano ha un ginocchio elettronico

(Genium): «La protesi mi permette di usare entrambe le braccia, andare in campagna, tornare a pranzo, uscire di nuovo e la sera cenare, toglierla, lavarla, lavare me stesso e rilassarmi. Senza, non potrei farcela – conclude –. Certo, mi manca correre o giocare a pallone: quando ero ragazzo me lo sognavo di notte, ora mi succede di meno». [L.P.]

SuperAbile INAIL 13 Agosto Settembre 2014

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Il 22 giugno 2005 Giuseppe Calò è stato investito, mentre andava al lavoro

in moto, da una macchina che non ha rispettato la precedenza. Era il giorno del suo compleanno. «Quell’incidente mi ha cambiato la vita», racconta, oggi che ha 40 anni.

Giuseppe Calò 40 anni Cesano Maderno (Monza-Brianza)

Un mese di coma, poi il risveglio. Prima e dopo quel momento c’è il vuoto. Quello che ricorda bene, però, era che non riusciva né a parlare né a camminare. E non muoveva il braccio destro. Da allora ha subìto cinque interventi, di cui uno perché il nervo frenico (che tiene il diaframma) gli schiacciava un polmone, dandogli

problemi respiratori. «Ho dovuto ricominciare a camminare, imparare di nuovo a parlare, come i bambini», dice. Suo figlio Lorenzo, all’epoca, aveva due mesi e mezzo e sono «cresciuti» insieme. Prima dell’incidente Giuseppe era responsabile del reparto di taglio e cucito in un’azienda che produceva

SuperAbile INAIL 14 Agosto Settembre 2014

L’arte di fare Le protesi. Il mIracolo dI BudrIo

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IL REPORTAGE

piedi è una rinascita», aggiunge Catia. Le scene com-moventi sono piuttosto frequenti, soprattutto se ad ac-compagnare gli infortunati c’è qualche parente.

Altri pazienti attendono il proprio turno all’ingresso del-la palestra. Uno di loro è Eugenio Stefanelli, 59enne di Lodi, che nel 1997 è rimasto coinvolto con il suo ca-mion in un maxi-tamponamento in autostrada all’al-tezza di Calenzano, vicino a Firenze. «Ci sono volute più di quattro ore per tirarmi fuori dalla cabina», ri-corda. Il radiatore del mezzo era esploso e il liquido di raffreddamento era sparso sulle sue gambe. Dopo le medicazioni al Pronto soccorso di Prato, Eugenio è stato ricoverato al Centro traumatologico dell’Ospe-dale Careggi a Firenze, dov’è rimasto per tre mesi. La gamba destra aveva subito uno schiacciamento: «I me-dici hanno provato a salvarla, ma non c’è stato nulla da fare e nel gennaio del 1998 hanno deciso per l’am-putazione sopra il ginocchio», dice. Eugenio racconta di aver reagito in modo positivo; gli piaceva cantare e, nei momenti buoni, sentivano la sua voce dagli al-tri reparti del Careggi. Ma quando la gamba gli face-va male per la sindrome dell’arto fantasma, «piangevo come un bambino».

Poi Eugenio è arrivato a Budrio, «che non sape-vo neanche che esistesse», dove ha ricevuto la prima protesi in ferro, pesantissima, «ma io ci sono andato anche a sciare», ammette. Dopo qualche anno, un gi-nocchio elettrico gli ha permesso di scendere le scale e fare le discese. Eugenio ha ricominciato a lavorare ini-zialmente come portinaio in una ditta di Lodi – «ma prima macinavo chilometri sul mio camion e non ri-uscivo a stare lì a non fare niente» –, poi in un’azien-da che fa controsoffitti a led e mobili in metallo per le macchine da caffè, dov’è impiegato tuttora.

divani; organizzava il lavoro di 20 persone. Ma dopo quel giorno non è più tornato a lavorare. «Sto a casa con mio figlio e mia moglie lavora», spiega. Cucina, ma soprattutto segue Lorenzo anche se ammette di riuscire a fare poche cose con lui. «Ma cerco di fare bene quelle poche, al meglio delle mie possibilità». Tutta la

famiglia gli è stata di grande aiuto, soprattutto il padre, in pensione. Oggi Giuseppe continua ad avere problemi alle gambe e porta un tutore in resina al braccio destro che ha subito una lesione brachiale: ha un deficit in flessione dell’avambraccio. Con il tricipite muove il braccio e l’elastico inserito nel tutore

gli permette il movimento del bicipite che, invece, non funziona. Quando si è trattato di scegliere il tutore, ha preferito uno di quelli in resina colorata. L’ha provato, si è fotografato e ha mandato lo scatto a suo figlio con il cellulare. «Mi ha detto: “Papà, sei bellissimo con quel braccio”», racconta. [L.P.]

SuperAbile INAIL 15 Agosto Settembre 2014

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Costruire un sistema innovativo impiantabile per il

controllo di protesi di mano poliarticolata, in grado di restituire la sensibilità perduta. È l’obiettivo di uno dei progetti esterni di ricerca, relativi agli arti superiori, che il Centro

Interfacce neurali e robotica: le nuove frontiere della ricerca

protesi Inail di Vigorso di Budrio sta sviluppando insieme ad alcuni partner per il triennio 2013-2016. Com’è possibile? Attraverso un sistema impiantabile di interfacce neurali. Questa la ricerca su cui il Centro è al lavoro insieme all’Università Campus biomedico di Roma: integrare un sottosistema, basato su sensori tattili di

contatto e scivolamento, e un sistema di stimolazione intraneurale in grado di dare alla persona amputata alcune forme tattili e di percezione (per esempio quella di riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio), utili sia per controllare la protesi che per prendere o manipolare oggetti. A Vigorso di

Budrio si aspettano, con questi dispositivi, di influire positivamente anche sulla sindrome dell’arto fantasma, che fa sentire dolore nella parte mancante dell’arto amputato.Inoltre il Centro sta sviluppando, in collaborazione con l’Istituto di biorobotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa,

SuperAbile INAIL 16 Agosto Settembre 2014

L’arte di fare Le protesi. Il mIracolo dI BudrIo

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IL REPORTAGE

«L’anno scorso – racconta – per la prima volta dall’incidente sono andato al mare e ho fatto il bagno». Per Eugenio è una conquista – «prima mi vergognavo»

–, ma a Budrio gli hanno fatto una copertura in silico-ne che, una volta indossata, fa sembrare la protesi una gamba vera, del colore della sua carnagione e con la peluria, da usare in spiaggia. Oggi Eugenio è consiglie-re regionale dell’Associazione nazionale mutilati e in-validi sul lavoro (Anmil) per la Lombardia, va in moto e si dice «contento di essere ancora qua».

Le stesse parole potrebbero pronunciarle i circa 11.500 pazienti – infortunati sul lavoro Inail, invali-di civili assistiti dal Servizio sanitario nazionale (dal 1984) e privati, in particolare stranieri, di qualsiasi età e con disabilità motorie anche gravi, affetti da patolo-gie congenite o acquisite e traumatiche – che ogni an-no transitano per il Centro protesi Inail di Budrio. Nel 2013 quelli trattati sono stati 11.929 (per un totale di 28.562 prestazioni), di cui circa 2mila in conto all’Asl.

La struttura di Vigorso di Budrio, a una trentina di chilo-metri dal centro di Bologna, esiste dal 1961. È in quell’an-no che il vecchio convalescenziario, comprato nel 1943 dall’Inail, diventa Centro protesi. Oggi ha 90 posti let-to accreditati e conta oltre 300 dipendenti, di cui più di 140 in produzione. In oltre 50 anni di attività, a Vi-gorso è stata mantenuta alta l’attenzione per la riabi-litazione, ma si è sviluppato sempre di più il lavoro dell’officina ortopedica per realizzare protesi e ausili all’avanguardia nel mondo.

Dalla mano cinematica in legno e dalle protesi di coscia degli anni Sessanta alle moderne mani mioelet-triche personalizzate, fino alle protesi d’anca, alle cal-zature ortopediche, agli ausili per guidare l’auto o alle protesi sportive, la struttura si è affermata nel tempo

un dito protesico funzionale, poliarticolato e sensorizzato. Le mani rappresentano una delle parti del corpo più difficili da trattare con protesi, per via dell’esiguità della parte disponibile. Questo progetto riguarderà la realizzazione di un prototipo di protesi falangea su cui poter disporre una sensorizzazione, con

particolare attenzione alle dimensioni e all’estetica. Infine il Centro protesi, insieme all’Istituto italiano di tecnologia di Genova, sta realizzando due progetti con significative potenzialità di ricadute industriali: una protesi avanzata mano-polso e un esoscheletro per la deambulazione. In particolare questo

dispositivo si rivolgerà a persone con disabilità motoria da mielolesione. Un esoscheletro, insomma, come il Re-walk realizzato in Israele e che è stato in sperimentazione a Budrio come strumento per la riabilitazione, ma più innovativo e tutto italiano: dalla progettazione alla realizzazione. [L.P.]

SuperAbile INAIL 17 Agosto Settembre 2014

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«Fare in modo che chi ha subito un infortunio possa

essere messo in condizioni di parità rispetto alle persone normodotate». È la scommessa del Centro protesi Inail di Vigorso di Budrio per i prossimi anni. Parola di Enrico Lanzone, 50 anni di Genova, dal 2011

Enrico Lanzone: «Diamo alle persone una prospettiva di vita»

e fino allo scorso giugno direttore del Centro. Come raggiungere questa parità? «Attraverso la tecnologia e l’attenzione che assicuriamo ai nostri pazienti», aggiunge.

Tecnologia e rapporto speciale con i pazienti. È questo il segreto del successo del Centro Inail?Direi di sì. Un “segreto” che

è nel Dna dell’Inail prima ancora che di Budrio. Qui da noi raggiunge il suo apice perché prendiamo in carico persone con seri problemi di vita a causa di un infortunio sul lavoro o di un’invalidità civile, per restituire loro l’autonomia.

Qual è il primo impatto per chi arriva da voi?Il Centro protesi appare

SuperAbile INAIL 18 Agosto Settembre 2014

L’arte di fare Le protesi. Il mIracolo dI BudrIo

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IL REPORTAGE

come Centro altamente specializzato per la ricerca e l’innovazione in campo protesico.

Ne sa qualcosa Fiorenzo Tondello (a fianco), 52enne di Bassano del Grappa (Vicenza). Dopo aver subito un’am-putazione transradiale al braccio destro a causa di un infortunio, è rientrato nella sua azienda ma non più in falegnameria. Ora si occupa dell’organizzazione del lavoro grazie a una protesi mioelettrica, azionata usando l’elettricità rilevata dal movimento dei musco-li del moncone, fabbricata a Budrio; inoltre ha inizia-to a suonare la chitarra, da autodidatta. Oggi Fiorenzo porta una “BeBionic”, mano robotica («mano Termi-nator», come scherzosamente la chiamano al Centro) e sulla quale, nonostante le “proteste” di figli e amici, indossa un guanto estetico personalizzato, in silicone. «La scelta della protesi dipende anche dall’uso che deve farne la persona – spiega Gianni Carrieri, tecnico or-topedico –. Le mani poliarticolate permettono movi-menti più fluidi, ma sono molto delicate».

Bolognese, 45 anni, Carrieri è a Budrio dal 1994 dove si occupa di lesioni transradiali, quelle sotto al gomito. In questi anni ha vissuto le evoluzioni della tecnologia e dei materiali. In particolare, racconta, è l’invaso (ovvero l’interfaccia tra il moncone e la par-te elettrica della protesi) ad aver subito grandi cam-biamenti. «Nelle protesi transradiali in cui la presa è sopra il gomito le invasature sono diventate più picco-le: abbiamo tolto la plastica dove non serviva e le ab-biamo fatte minimaliste», spiega. Se prima il moncone era chiuso dentro una specie di scafandro, ora – gra-zie ad apposite aperture – il paziente si interfaccia con il mondo esterno in modo diverso: per esempio, attra-verso fori praticati sul gomito è in grado di percepi-re le superfici su cui si appoggia. «Anche dal punto di

dida molto breve

Il traguardo più importante raggiunto dal Centro?Nel 2012 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha riconosciuto l’eccellenza e la funzione sociale di Budrio. Un riconoscimento che ha un significato molto ampio, perché lavoriamo per recuperare la disabilità. Siamo la punta di avanguardia per abbattere

le barriere tra disabili e normodotati.

Quali sono le prossime sfide in campo protesico?Abbiamo un bel pacchetto di sfide. A partire dall’esoscheletro, a cui stiamo lavorando con l’Istituto italiano di tecnologia, passando per le protesi per arto superiore insieme al Centro di ricerca

della Scuola Sant’Anna, fino ad arrivare al progetto di ricerca con il Campus biomedico di Roma, che ha l’obiettivo di realizzare protesi comandate dal cervello. [L.P.]

come una “cittadina”. Chi arriva qui come paziente si rende conto di non essere da solo, ma insieme a tanti altri e realizza che vivere significa avere relazioni. Il nostro obiettivo è sì rimetterli in piedi ma anche motivarli, dare loro una prospettiva, una passione. Qui prendiamo per mano le persone e le riportiamo alla loro esistenza.

SuperAbile INAIL 19 Agosto Settembre 2014

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Se ripensa all’incidente che 25 anni fa le è costato

l’anulare della mano destra, Rosella dice: «Il destino era lì che mi aspettava». Lavorava in una falegnameria e non le piaceva. Ogni giorno andava in fabbrica e piangeva. Oggi pensa che avrebbe dovuto cogliere i segnali davanti ai suoi occhi e

Rosella Treschi 49 anni

Pordenone

dida molto breve

andarsene prima. C’è voluto un incidente con la rifilatrice per spingerla a lasciare quel posto. «È una macchina a cui bisogna stare molto attenti – racconta –. Io la stavo pulendo, è bastato un attimo e la mano è stata trascinata dalla lama. Quando mi sono tolta i guanti, sono svenuta». All’ospedale le hanno lasciato un piccolo moncone per potervi inserire una

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L’arte di fare Le protesi. Il mIracolo dI BudrIo

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IL REPORTAGE

vista estetico sono stati apportati miglioramenti, me-diante l’uso del silicone che rende la protesi più con-fortevole», afferma.

Oltre a essere impiegato per realizzare coperture re-alistiche per le protesi, sia di arto superiore che infe-riore, il silicone è uno dei materiali utilizzati per le cosiddette protesi estetiche ad alta cosmesi. Capita, in-fatti, che i pazienti non richiedano protesi funzionali, ma cosmetiche e personalizzate in cui sono riprodot-ti i dettagli della pelle (vene, peluria, colore, unghie), come nel caso di Rosella Treschi (box a pag. 20). Eri-ka Groccia (nella pagina a fianco), tecnico ortopedi-co, ci lavora da sei anni, da quando è entrata a Budrio: «Quello delle protesi estetiche è un mondo abbastan-za nuovo», spiega. I banchi da lavoro dei tecnici impe-gnati in questo reparto assomigliano un po’ ai tavoli di esperti di make-up: tavolozze con i colori, fotografie appese, modelli. Le protesi fatte qui sono piccole ope-re d’arte, tanto che i tecnici che vi lavorano hanno tal-volta un background artistico.

Ultima tappa è il reparto ausili. Anche in questo caso si studia un programma personalizzato per il paziente. Si sceglie una sedia a ruote elettrica, se è possibile e ce n’è la necessità; si adattano le automobili per essere guidate solo con le mani; si dotano le carrozzine di ruote motrici per chi lavora in campagna e si adatta-no anche i mezzi agricoli per essere manovrati da una persona che non è più in grado di muovere le gambe o si sposta soltanto su sedia a ruote.

Anche in questo campo la tecnologia ha fatto passi da gigante. Qualche esempio? A un paziente tetraple-gico i tecnici Inail hanno fornito un “integra-mouse”, dispositivo che gli consente di comandare un compu-ter con le labbra, soffiando invece di cliccare. Nell’of-

protesi e hanno preso un pezzo di tendine da una gamba per ridarle la mobilità. Rosella, allora, aveva 25 anni e ha girato tutta l’Italia per riuscire a tornare come prima. Poi è approdata al Centro protesi di Vigorso. Erano i primi anni Novanta. E non se n’è più andata. «Volevo sentirmi normale e qui mi hanno sempre trattato come una

persona normale», dice. Ora porta una protesi estetica. Sul dito poi infila un anello, grande, per mascherare il punto in cui il moncone incontra il silicone della protesi. Periodicamente, torna a Budrio per cambiarla. «Qui – dice – hanno un atteggiamento positivo». E anche lei, dopo quell’incidente, ha cambiato vita. In meglio. Oggi, infatti,

non lavora più in segheria ma tiene corsi di yoga kundalini insieme al marito, conosciuto mentre faceva fisioterapia. « Ho perso qualcosa, ma ho acquisito una coscienza diversa – confida –. Ho capito che bisogna essere felici di quello che si ha. Ecco perché con lo yoga, insieme a mio marito, cerco di aiutare gli altri». [L.P.]

SuperAbile INAIL 21 Agosto Settembre 2014

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«Mi ritengo fortunata: per un centimetro non ho avuto

una lesione da tetraplegia». Cinzia Giurgola, fiorentina, 53 anni, è da 20 su sedia a ruote a causa di un incidente stradale che le ha provocato una lesione spinale. Era il 1994 e lei, impiegata al ministero della Difesa, viene coinvolta in un

Cinzia Giurgola 53 anni Firenze

tamponamento mentre va al lavoro. Sul momento non sembrano esserci grosse conseguenze. A distanza di qualche giorno, però, non riesce a stare in piedi. Lastre e risonanza magnetica non rivelano niente, ma lei accusa dolori alla schiena, difficoltà a muoversi, problemi respiratori. Ulteriori esami, al Meyer di Firenze, rivelano

un’emorragia spinale. Cinzia subisce un intervento per rimuoverla, e altri per stabilizzare i problemi polmonari. Ma non camminerà più. Trascorre diversi mesi in ospedale, «senza poter rivedere la mia casa, i miei vestiti e le mie scarpe». Inizia il percorso per l’autonomia, utilizzando sedie a ruote e ausili. A

Budrio arriverà dopo qualche anno, perché nel 1994 l’infortunio in itinere non è ancora riconosciuto dall’Inail. Non tornerà più nemmeno a lavorare. «Non c’erano bagni attrezzati né scivoli all’ingresso – racconta –. I dolori neurologici e le difficoltà urologiche mi avrebbero costretta a dare continue spiegazioni, perché stavo male e dovevo usare

SuperAbile INAIL 22 Agosto Settembre 2014

L’arte di fare Le protesi. Il mIracolo dI BudrIo

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IL REPORTAGE

ficina di Vigorso di Budrio hanno anche sperimentato la guida tramite joystick, che permette ai pazienti di

“mettersi al volante” rimanendo sulla sedia a ruote. Un altro esempio è la sedia Genny 2.0, autobilanciante, re-alizzata da Paolo Badano, disabile, e in dotazione an-che al Centro protesi di Budrio. Al primo impatto non sembra nemmeno una carrozzina per persone disabili, ma ricorda i segway, mezzi a due ruote in dotazione a vigili urbani e polizia ferroviaria.

Cinzia Franceschini, 42 anni, lavora a Budrio come tecnico dal 2008. Si occupa di ausili; insieme al fisio-terapista Massimiliano, sta seguendo Cinzia Giurgo-la (box a pag. 22) nell’addestramento sulla Genny 2.0. «I nostri utenti hanno grandi aspettative, ma accon-tentarli sempre non è la cosa migliore», dice. Anche la paziente ha rischiato di non poter avere Genny 2.0: è troppo leggera per manovrarla. Ma alla fine sono riusciti ad adattarla al suo peso. «Non tutti gli ausili vanno bene per ogni persona – spiega ancora France-schini –: è fondamentale fornire quello giusto in base alla patologia del singolo».

Un mix di artigianato e ricerca, in cui al primo po-sto c’è sempre il paziente: ecco cos’è il Centro prote-si Inail di Vigorso di Budrio. «Trent’anni fa la cosa più complessa era fare la protesi – racconta ancora Anto-nio Ammaccapane, neopensionato ed ex responsabile del Reparto protesi –. “Arte sanitaria” la chiamavano: si faceva tutto a mano, ma la protesi era la stessa per tutti». Ma in 50 anni materiali e tecnologie si sono evo-luti, il progetto è più complesso e la difficoltà sta nella scelta dei componenti, anche se l’invaso si fa ancora a mano. «Oggi ci sono persone che corrono e vanno alle Paralimpiadi con le protesi. Certo, è vero che sono pur sempre protesi: le gambe vere – scherza il tecnico Fau-sto Caprara – ancora non possiamo farle».

spesso il bagno: non ero pronta». Così resta a casa per crescere la sua bambina, che all’epoca aveva tre anni. Le difficoltà però sono tantissime, in primis quella di imparare a vivere con un corpo completamente diverso, poi quelle legate alle barriere architettoniche. Il suo appartamento non è più accessibile, ma trovarne uno adatto non è stato

semplice. Per cinque anni, con il marito e la figlia, è stata ospitata dai suoceri, ma anche in quell’abitazione c’erano ostacoli. «Per entrare in bagno bisognava superare un gradino e io dovevo aspettare che mio marito tornasse dal lavoro per poterci andare».Oggi Cinzia racconta di aver accettato la sua disabilità. Se dovesse decidere ora,

probabilmente farebbe una scelta diversa rispetto al lavoro: «Lotterei per farmi accettare per quella che sono». Poi però ha trovato Genny 2.0, una sedia elettrica a due ruote autobilanciante. «È una giostra bellissima: ti dà la libertà di movimento che una carrozzina manuale non può fornirti», dice soddisfatta. [L.P.]

SuperAbile INAIL 23 Agosto Settembre 2014

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A scuola di riabilitazione. Le tecnologie di Volterra

SuperAbile INAIL 24 Agosto Settembre 2014

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Al Centro di riabilitazione motoria Inail si arriva dopo un incidente in fabbrica, una caduta dalle impalcature, un infortunio lungo il tragitto casa-lavoro. Ma la struttura non è una fucina di disperazione. Bensì un laboratorio di speranza dove la rassegnazione può trasformarsi in voglia di vivere. Grazie a una tecnologia di ultima generazione in continuo aggiornamento e, soprattutto, a operatori che conoscono l’importanza della relazione tra personale sanitario e pazienti. E a volte accade il miracolo. Che non è tornare a camminare, ma comprendere e accettare la nuova condizione. Imparando a dare importanza ai valori fondamentali della vita

SuperAbile INAIL 25 Agosto Settembre 2014

IL REPORTAGE

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«All’ospedale volevo buttarmi dal balcone, ma poi un giovane infermiere mi ha

aiutato a cambiare idea». Ha lo sguardo adombrato Aziz Basraoui, marocchino di 47 anni. Fa quasi impressione la sua gamba malmessa. Sotto la pelle è stato trapiantato il muscolo della

Aziz Basraoui 47 anni Mohammedia (Marocco)

spalla, una protuberanza visibile e ingombrante, ma forse è l’unico modo perché Aziz possa tornare a camminare. Per adesso non se ne parla e per stare in piedi deve utilizzare le stampelle. Il suo pensiero è inamovibile da quel terribile 25 gennaio 2012, quando un grande masso di marmo gli cadde sulla gamba. Rimase

incastrato per lunghi minuti, i colleghi chiamarono i soccorsi, lui perdeva sangue, tanto sangue. Amava il suo mestiere Aziz, ma adesso non potrà più tornare a lavorare. «Soltanto io posso sapere quello che ho passato. Non potete capire. Un incidente di questo genere ti sconvolge la vita. Per sempre».

SuperAbile INAIL 26 Agosto Settembre 2014

A scuolA di riAbilitAzione. LE TEcNOLOGIE dI VOLTErraA scuolA di riAbilitAzione. LE TEcNOLOGIE dI VOLTErra

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Jacopo Storni

«Adesso come faccio a spiegare ai miei figli che il padre sarà zoppo per tutta la vita?». È una domanda che non smette di tormentarlo, vor-

rebbe trovare una risposta ma la risposta non c’è. L’i-stinto sarebbe quello di rassegnarsi a un’esistenza da invalido, ma lui non molla: «In fondo c’è chi sta peggio, basta sapersi accettare». Francesco Furfari cammina appoggiandosi al girello, vacilla ma resiste, segue tena-cemente gli esercizi di fisioterapia e legge libri. Legge più che può, divora un volume a settimana, s’immer-ge nelle vite degli altri, in spazi onirici che lo fanno sognare. Vive lontano dalla famiglia ormai da alcuni mesi, giorno e notte in mezzo ad altre persone con di-sabilità, esattamente come lui, diventate invalide da un giorno all’altro, da un secondo all’altro, tutte vittime di gravi incidenti sul lavoro.

Qui, al Centro riabilitazione motoria Inail di Volter-ra, in provincia di Pisa, Francesco è uno dei più eruditi. Si capisce da quel libro di Ian McEwan sempre in mano, dal giornale che si fa recapitare tutti i giorni dai volon-tari della Croce Rossa, da come parla e dal lavoro che fa, anzi, che faceva prima dell’incidente, quel fatale ac-quaplaning in auto, un martedì mattina come tanti al-tri, che gli ha cambiato la vita per sempre.

Ricercatore informatico al Cnr di Pisa, è patito di computer e sta lavorando ad alcuni sensori applicati al corpo umano per indagare gli stili di vita degli italiani: «Sarà una ricerca rivoluzionaria». Si trova un po’ a di-sagio dentro questi corridoi, dove passeggiano drammi e disperazioni, dove fisioterapisti e psicologi alleviano traumi e dolori, con passione e con fatica. E con amore, tanto che quando i pazienti lasciano il Centro è diffi-cile staccarsi dopo un lungo periodo d’intimità: «Ci si affeziona e nascono amicizie che vanno oltre la riabili-

Prima dell’infortunio faceva trekking e arrampicate, adesso è impossibile. L’unica rinascita potrebbe essere l’amore della moglie, da cui però è separato ma che non ha mai smesso di amare. In un paio d’anni ha perso prima la famiglia, poi l’uso della gamba. Hanno avuto due figli, Andrea e Francesca, il suo orgoglio. Il primo è un

baby talento di hockey su ghiaccio: «Andavo a vederlo giocare tutte le domeniche, è un piccolo campione, sono mesi che non vado a fare il tifo per lui. Mi manca da morire». La figlia gli ha regalato un piccolo braccialetto che porta al polso: «Me l’ha dato il giorno che sono entrato qui, non me lo toglierò mai».

Non smette di sperare e qualche volta si sforza di sorridere. Ma quella ferita non gli dà tregua: i dolori lancinanti si susseguono, di giorno e di notte. «Se resto nella stessa posizione per più di 20 minuti, comincio a urlare di dolore. Fino a quando non prendo l’antidolorifico». Notti insonni quelle di Aziz, sormontate

da rabbia e disperazione. Pensa ai suoi figli, pensa a sua moglie, pensa ai suoi amici: «Questa situazione mi emargina». Non svanisce mai il ricordo di una vita normale. Adesso però non contempla più l’idea del suicidio: «Nelle ultime settimane sono molto più sereno, anche se sono consapevole che la mia vita non sarà più la stessa». [J.S.]

SuperAbile INAIL 27 Agosto Settembre 2014

IL REPORTAGE

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«Se rimango così, non riuscirò ad accettarmi». I

suoi dolci occhi stonano con quel braccio paralizzato, la mano ferita e i movimenti quasi impossibili. Il grazioso volto di Manuela Salis, sarda di 28 anni, racconta tutto. C’è la disperazione di una vita cambiata all’improvviso e la speranza flebile che alberga

nella fisioterapia quotidiana. «A volte mi sento positiva perché noto dei leggeri passi avanti». Ma al momento i miglioramenti sono troppo pochi per tornare a sorridere. «Non mi sembra vero di avere un braccio in queste condizioni». Ogni volta è un nodo alla gola, un tuffo al cuore di chi si ostina a combattere una battaglia che non potrà mai

vincere. «Quando mi sveglio spero sia stato soltanto un incubo». Ma un incubo non è: quell’incidente in auto è successo davvero. Era il giorno del suo compleanno. Lei però non ricorda niente, soltanto il sorpasso di un’altra macchina. Poi il buio, le immagini di quei momenti nel cono d’ombra della memoria. «Mi sono risvegliata in ospedale». E

il trasferimento al Centro specializzato di Monza dove le hanno ricostruito i nervi, recuperati soltanto al 50 per cento.Le viene quasi naturale alzare il braccio, ma quel braccio non si muove e a lei sembra impossibile che sia proprio il suo. «Non mi accetto, non mi accetto», continua a ripetere come un mantra. Lei è così

Manuela Salis 28 anni Sassari

SuperAbile INAIL 28 Agosto Settembre 2014

A scuolA di riAbilitAzione. LE TEcNOLOGIE dI VOLTErraA scuolA di riAbilitAzione. LE TEcNOLOGIE dI VOLTErra

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tazione», raccontano Ornella Pierini e Annamaria Ti-relli, due fisioterapiste del Centro: «Non trattiamo gli infortunati come pazienti, ma come persone». Fattore decisivo, che stimola gli ospiti e accelera i tempi della riabilitazione.

Secondo gli operatori è decisivo guardare la pro-pria disabilità a viso aperto: «Molti evitano di entrare nell’argomento, ma questo non porta benefici a lun-go termine – spiega lo psicologo del Centro, Vincenzo Pantaleo –. È proprio attraverso il ricordo che si of-fre al paziente la possibilità di rielaborare l’incidente e l’invalidità». E a volte succede il miracolo. Accade che, racconta Pantaleo, «le persone capiscano i veri valori della vita ed escano dal Centro Inail più felici di pri-ma, nonostante l’invalidità che in alcuni casi dovran-no portarsi dietro per sempre e nonostante il lavoro che talvolta sono costretti ad abbandonare».

A Volterra si arriva in seguito a un infortunio sul lavo-ro: incidenti stradali, in fabbrica, nei campi o nei cantieri. Il destino è il nemico di ognuno di loro, li ha travolti all’improvviso. Ma questa struttura immersa nel cuore della cittadina toscana non è una fucina di disperazio-ne. È semmai un laboratorio di speranza, che trasfor-ma la rassegnazione in voglia di vivere. È il frutto del lavoro di 16 infermieri, 7 operatori sanitari, 13 fisiote-rapisti, 5 medici. Braccia umili e instancabili, suppor-tate da braccia meccaniche dell’ultima tecnologia. C’è la macchina isocinetica che valuta la forza negli arti, la macchina Multi join system che rafforza la muscolatu-ra e l’innovativa Bte che analizza i movimenti. Tra letti e macchinari, si spera e si vive. Pranzo e cena in mensa, notte nelle stanze per due pazienti, ognuna con un pro-prio bagno e un proprio televisore. E poi la palestra, la piscina comunale e la sala lettura. Un microcosmo do-

giovane, eppure ha già due figli. Vivono a Sassari e le mancano da morire. Parla sempre di loro per esorcizzare la sofferenza. Fuma e naviga sull’iPad per ingannare il tempo. Ha la mano destra immobilizzata: «Sto imparando a usare la sinistra». A volte sembrano battaglie contro i mulini a vento. Mezz’ora di tempo per scrivere due frasi. Una

lotta quotidiana. Prima dell’incidente faceva l’infermiera. Giorno e notte a consolare i pazienti, gli anziani, i malati. «Ma quando capita a te, credimi, diventa tutta un’altra cosa». Cerca di fare tesoro dei consigli che dava ai suoi pazienti quando tutto sembrava perduto, ma è durissima. E spesso lo sconforto ha il sopravvento. «Crisi di

pianto ed esaurimento nervoso», mormora Manuela, con la voce rotta dalla commozione. Indossa una felpa avvolgente con sopra scritto “Manu”. Ci sono poche consolazioni, tranne la vera amicizia nata con Anna Cira, la sua compagna di stanza: «Qui nascono vere relazioni umane, quando sei fragile cadono le barriere reciproche». [J.S.]

SuperAbile INAIL 29 Agosto Settembre 2014

IL REPORTAGE

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A scuolA di riAbilitAzione. LE TEcNOLOGIE dI VOLTErraA scuolA di riAbilitAzione. LE TEcNOLOGIE dI VOLTErra

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ve vivono quotidianamente 23 pazienti fissi e 23 semi-residenziali, provenienti da tutta la Toscana e da altre regioni dell’Italia centrale. Trascorrono il tempo fra at-trezzi e tapis roulant, leggono libri e ascoltano musica sparata dagli mp3. Parlano tra di loro, si scoprono fra-gili e allo stesso tempo tenaci. Nascono amicizie vere. Nessuno sembra volersi rassegnare.

«Possiamo sempre migliorare, basta volerlo», dice Anna Cira De Falco, maestra elementare scivolata in classe durante una lezione. Spalla e ginocchio grave-mente contusi. Leggero rossetto sulle labbra e palpebre truccate, cerca di vivere come se tutto fosse normale: «Voglio andare avanti come prima, per non soccombe-re. Ogni mattina, quando mi alzo, mi guardo allo spec-chio e mi dico che è tutto ok».

Il Centro Inail di Volterra è nato nel 1999 su impul-so di Rosy Bindi, a quel tempo ministro della Sani-tà. Direttore del Centro è Andrea Borghi, arrivato qui dopo un concorso pubblico per infermieri nel 1998, a cui è seguito un concorso interno grazie al quale è di-ventato coordinatore degli infermieri: «A Volterra c’è l’eccellenza della riabilitazione motoria: siamo co-stantemente aggiornati sulle ultime tecniche in cam-po riabilitativo e in campo assistenziale e diamo molta importanza alla relazione umana tra paziente e infer-miere».

SuperAbile INAIL 31 Agosto Settembre 2014

IL REPORTAGE

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La vita dopo l’incidente. Dieci storie

SuperAbile INAIL 32 Agosto Settembre 2014

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Si fa presto a dire riabilitazione. Eppure ci possono volere mesi, addirittura anni, per rielaborare il trauma dopo un incidente sul lavoro. Percorsi lunghi, complessi, fatti di svolte improvvise e passi indietro. Ma anche di tenacia, inventiva, sperimentazione. Perché ricominciare tutto da capo non è semplice. Lo sanno bene le assistenti sociali e i membri delle varie équipe multidisciplinari dell’Inail, sparsi su tutto il territorio nazionale. Che hanno il compito delicato di accompagnare gli infortunati nella ricerca di nuove strade. Spesso molto diverse da quelle precedenti, ma non per questo meno ricche e interessanti. Con bilanci esistenziali non di rado in attivo. Perché sono in molti ad affermare: «Le cose sono andate diversamente da come mi aspettavo, ma oggi la mia vita non è peggiore di tante altre»

La vita dopo l’incidente. Dieci storie

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memoria di Antonino torna in-dietro a undici anni fa: arrivano i vigili del fuoco, poi l’elisoccor-so che lo trasporta in ospeda-le a Reggio Emilia. «Mi hanno fatto firmare e hanno amputa-to la gamba», dice impassibi-le, con un filo di voce. A 33 anni si ritrova da solo in quella stan-za, con un arto in meno; i paren-ti arrivano in serata, il tempo di prendere un volo da Catania e di raggiungerlo in terapia intensiva, dove poteva entrare una persona alla volta. «Gli amici e i colleghi mi sono stati vicini – confida –. Ammetto di essermi scoraggiato all’inizio, poi ho reagito: se non mi davo una mossa io, chi pote-va scuotermi? Se capitano certe cose, ce le dobbiamo prendere», dice con semplicità.

Antonino è un uomo concre-to, di poche parole. Ma si illumi-na quando inizia a raccontare la seconda parte della storia: per-ché la sua voglia di vivere lo ha trascinato in una strada che non avrebbe mai immaginato di in-traprendere. Il moncone della gamba dà problemi se indossa la protesi, quindi viene trasporta-to a Parma per una plastica, poi torna in Sicilia e nel marzo del 2004 approda al Centro protesi Inail di Vigorso di Budrio, do-

Laura Badaracchi

«Mi è crollato il mondo addosso». La ricorda così, quella giorna-

ta drammatica dell’incidente a Guastalla, in provincia di Reg-gio Emilia, mentre contribui-va alla costruzione di un porto fluviale sul Po. Alto un metro e 85, Antonino Caschetto guida-va un muletto per fare l’ennesi-ma gettata di calcestruzzo e il terreno disconnesso ne ha pro-vocato il ribaltamento: «Per cir-ca mezz’ora sono rimasto sotto il mezzo, ma non ho mai perso conoscenza. Sentivo una gran-de pesantezza alla gamba de-stra, più che dolore; mi rendevo conto che qualcosa non andava». Era un sabato mattina, il 27 set-tembre del 2003. «Una bella gior-nata, poco dopo le sette», ricorda Antonino, che fin da adolescen-te faceva il carpentiere e aiutava a costruire l’ossatura delle case.

Aveva appena sei anni quan-do, nel 1976, tornò in Sicilia con la sua famiglia dalla Germa-nia, dov’era nato. I suoi genito-ri cercavano un futuro per lui ad Acquedolci, in provincia di Messina. Poi di nuovo in viag-gio verso l’Emilia Romagna per un’occupazione stabile o, quan-tomeno, non occasionale. La

E a Vigorso è sbocciato l’amore. La fortuna di Antonino

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La vita dopo L’incidente. dieci storie

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ve rimane oltre due mesi. «Pian piano con la protesi ho comin-ciato a muovere i primi passi: so-no i più importanti, se li sbagli continuerai a fare lo stesso erro-re per il resto della vita. La sera ero stanco, ma l’indomani ri-partivo: fisioterapia, ginnastica, prove ed esercizi di deambula-zione». A settembre dello stesso anno torna al Centro e, a parte altri infortunati con cui ha stret-to amicizia, una sera – tra offi-cine, ascensori, sala da pranzo e bar – incontra Antonella Bof-fa. Che quei luoghi li conosceva molto meglio di lui: «Una vetera-na», scherza. Amputata a Bolo-gna per un osteosarcoma nel ’77, quando aveva solo nove anni, a undici viene portata dai genitori a Vigorso di Budrio per impara-re a portare la protesi alla gamba come «invalida civile».

Carattere sanguigno, Antonella provava tanta rabbia, «un senti-mento che a volte mi assale an-cora. E quando ho conosciuto Antonino ero arrabbiata: dopo due o tre anni, la Asl mi concede di sostituire la protesi per usura, ma c’è sempre qualcosa che non va durante le varie prove».

Prima di incontrare Antonel-la, era noto fra i suoi amici come

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Essere un’atleta nella speciali-tà equestre del dressage pa-ralimpico, indossando la

prima protesi di gamba costruita appositamente per cavalcare in tutte le discipline, non le basta-va. Così Brunella Roscetti, sep-pure innamorata del suo cavallo diciassettenne Don Castello, so-prannominato “Principe”, qual-che volta lo “tradisce” per salire sulla canoa e allenarsi in para-rowing, il canottaggio paralim-pico che in questi ultimi mesi sta raccogliendo nuovi adepti in tut-ta Italia grazie all’entusiasmo del coach Dario Naccari.

«Sono nata a Roma e cresciu-ta con i cavalli, per i quali nutro una grande passione», racconta Brunella, 46 anni, che nel 2006 ha subito l’amputazione del-la gamba sinistra in seguito al morbo di Buerger, una forma di vasculite che colpisce le ar-terie piccole e medie; la patolo-gia degenerativa ostruisce i vasi sanguigni, portando alla necro-si dei tessuti. Dopo aver inse-gnato trekking presso il circolo ippico Valle Scurella di Formel-lo e lavorato per 22 anni come responsabile del settore arri-vi nel deposito farmaceutico di una grande azienda, per la tren-tottenne è arrivata la diagnosi

In sella o in canoa. Continua il sogno di Brunella

infausta. «Dopo la rabbia, co-minciano i problemi pratici che esigono razionalità e quindi, pa-radossalmente, aiutano a reagi-re. La disabilità acquisita cambia anche il carattere», racconta. Lei la forza l’ha trovata anche al-la filiale del Centro protesi Inail di Roma: «Medici, tecnici, inge-gneri mi hanno aiutato a trovare la migliore soluzione possibile. Chiedevo non solo di poter cam-minare e guidare, ritrovando l’autonomia, ma anche di caval-care nuovamente. Per farlo mi serviva una protesi diversa da quella che uso quotidianamente, adatta ai movimenti da compie-re in sella. Così posso utilizzare entrambe le gambe per equili-brarmi e indirizzare il cavallo con l’aiuto di redini e bacino». Grazie alle competenze dell’in-gegner Gennaro Verni e del tec-nico ortopedico Franco Mele viene studiata dall’Inail una pro-tesi con uno speciale invaso. Un ginocchio e una caviglia ad hoc per montare a cavallo, “indossa-ti” dall’atleta sui campi di gara in Italia e all’estero, continua-mente adattata a lei anche grazie al lavoro delle fisioterapiste: «Ho trovato un’altra famiglia; per lo-ro niente era un problema, mi assicuravano che ce l’avrei fatta».

un “latin lover” single e senza nessuna voglia di avviare una relazione stabile. Ma la donna potentina – anche lei single con-vinta, fino ad allora – fa breccia nel cuore di Antonino, chiama-to a un lungo e paziente corteg-giamento prima di conquistarla. «Ero diffidente – ammette lei –. Pensavo volesse un’avventura che sarebbe finita una volta tor-nati a casa, lui in Sicilia e io in Basilicata». E invece, dopo innu-merevoli telefonate e sms, «ho ripreso la patente e sono venuto in macchina a trovarla a Poten-za. Dopo un anno, mi sono tra-sferito nella sua città, abbiamo convissuto e poi ci siamo spo-sati», dice Antonino, guardan-dola fisso negli occhi. «Mi ha colpito la sua generosità e dol-cezza: è molto rassicurante, non puoi non amarlo. Ha creduto in noi prima che ci credessi io. Ma siamo molto diversi: lui è casa-lingo e a me piace viaggiare», ri-batte Antonella, che lo “trascina” in giro per il mondo. «Lei mi ha dato l’input per costruire una fa-miglia insieme, una casa: la vita è andata avanti. Antonella dice che ci hanno regalato la vita per incontrarci. Io dico che aver per-so una gamba è stato il prezzo che ho dovuto pagare per cono-scerla e va bene così».

Da qualche anno Antonino ha un ginocchio elettronico; in-sieme vanno a Vigorso di Budrio per i controlli e la manutenzione di entrambe le protesi: «Affron-tiamo sempre in due questo per-corso».

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Dal giorno in cui risale a ca-vallo, Brunella non si ferma più: fonda l’associazione Ragaz-za in gamba per «aiutare a pra-ticare l’equitazione chi si trova in difficoltà a causa della disa-bilità». Poi inizia a partecipa-re a spettacoli equestri e a gare di monta western nella discipli-na sportiva del reining (letteral-mente, «lavorare di redini»), di cui nel 2010 diventa campiones-sa regionale con i normodotati. Successivamente arriva sul gra-dino più alto del podio regionale nel dressage paralimpico, gara in cui cavallo e cavaliere compiono figure armoniose in uno spazio rettangolare. E nel 2012 conqui-sta nuovamente il titolo regiona-le, fino all’argento vinto lo scorso anno ai Campionati italiani di para-dressage.

Al circolo ippico Casale San Nicola, dove Brunella si allena, si respira aria buona e sereni-tà. “Don” dimostra il suo affetto verso la padrona, trangugiando golosamente le zollette di zuc-chero che lei nasconde nella sua mano: «Con le persone disabili il cavallo stringe un legame parti-colare, ascolta le loro esitazioni e le sostiene. È un animale straor-dinario».

Brunella alterna le stampelle a una carrozzina a motore: anche la gamba destra è compromessa dalla malattia e non può sforzar-la se non per brevi spostamen-ti. «Non posso stare né troppo seduta, né troppo in piedi», ag-giunge. Ogni tre mesi deve fare il day hospital, ma tutto questo non la blocca, anzi. Nel 2013 co-

nosce Dario Naccari, tecnico della Nazionale di para-rowing, neonata sezione della Federazio-ne italiana canottaggio presie-duta da Giuseppe Abbagnale. Si rivolge ancora all’Inail che – gra-zie al tecnico Gianluca Migliore – la sostiene nella messa a pun-to di una protesi particolare «per bilanciare la barca» e nel genna-io scorso a Brindisi vince l’oro al Campionato italiano indoor con remo ergometro. «Una scommes-sa con me stessa – dice –. Biso-gna essere prima campioni nella vita, poi sul campo. Il mio obiet-tivo è che un maggior numero di persone disabili possano acce-dere alle discipline sportive che amano. Perché anche quando c’è una disabilità – che ognuno deve gestirsi e non può far pesare ad altri – niente è perduto». [L.B.]

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Body building e manicaretti.La rinascita di Antonio

O stenta con fierezza il suo fisico asciutto e va ogni giorno in palestra, di buon

mattino, per rassodare i musco-li. Poi torna a casa e cucina per tutta la famiglia. Anche se ha un braccio in meno, proprio il sini-stro, lui che era mancino. Pur avendo attraversato il tunnel della depressione, Antonio Lan-zetta può dire con sicurezza di aver ritrovato la voglia di vivere,

dopo quell’incidente sul lavo-ro successo dieci anni fa, che si è portato via prima la sua mano e poi via via l’arto, fin quasi alla spalla, a causa di una setticemia. Operaio in un’industria conser-viera di pomodori, viene investi-to alla mano e all’addome da un getto d’acqua bollente – tempe-ratura: 125 gradi – a causa dello scoppio di una valvola malfun-zionante. Accanto a lui, sempre

e comunque, la moglie Ange-la: un concentrato di tenacia e coraggio. Non ha mai mollato, anche quando il marito si è ri-fugiato in comportamenti auto-distruttivi e compulsivi, come la bulimia e l’alcolismo. Anche se c’erano due bambini da cresce-re, Nunzio e Alessio. La protesi? «Il moncone è troppo corto, co-sì è difficile portarla a causa del bretellaggio pesante. Preferisco

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mincia a fare volontariato, orga-nizzando laboratori artistici e di cucina per i ragazzi che parteci-pano ai campiscuola dell’Age (Associazione genitori) di Stria-no. Ha scoperto infatti una nuo-va passione, anzi due: oltre ai fornelli, la realizzazione di mo-saici con semi di cereali incollati e dipinti. «I bambini mi chia-mavano “maestro” e alla fine dell’esperienza mi hanno scrit-to bigliettini affettuosi: li con-servo tutti gelosamente. Uno di loro ha voluto dirmi “Grazie di esistere”, un altro ha aggiunto: “Anche se hai i tuoi grandi pro-blemi”», racconta. E la sua ca-parbietà si scioglie ancora una volta in commozione se pensa all’amico Francesco Falco e al professor Giovanni Boccia, che gli hanno fatto assaporare la possibilità di ricominciare una vita sociale, dalla partecipazione alle partite del Napoli allo stadio alle pedalate ecologiche in bici-cletta, fino alle mostre delle sue opere artigianali di cui va tan-to orgoglioso. «Sono riuscito a mettere un altro tassello per il completamento del puzzle della mia vita: nessun obiettivo è ir-raggiungibile, grazie a tutti i ve-ri amici che mi danno la carica», riferisce Antonio. Il suo entusia-smo contagioso non si spegne e lo sguardo da “scugnizzo” si ri-accende quando gioca con i suoi figli. Perché «la vita non finisce con l’invalidità». [L.B.]

mo pezzo me l’hanno amputa-to nel giugno del 2007», ricorda Antonio, che nel Centro Inail di Vigorso di Budrio ha trovato «il top dell’umanità e dell’assisten-za, psicologica e fisica».

«Se non ci fosse stata la fede, non so come avrei fatto – confi-da Angela –. Quando gli hanno amputato il braccio, ho scoper-to di aspettare il nostro secon-do figlio. E ho detto ad Antonio: “Gesù ti sta togliendo un pezzo, ma te ne sta dando uno miglio-re». Eppure la nascita di Alessio non basta a far uscire il marito dal buco nero della depressione: inerte sul letto o sul divano da-vanti alla tv, mangia continua-mente fino a pesare 163 chili. «Lei è stata molto forte e perse-verante, mi ha martellato in ma-niera propositiva e mi ha messo davanti a un out-out: o mi scuo-tevo, o se ne sarebbe andata con i bambini. Non lo avrebbe mai fatto, ma l’ha detto per farmi re-agire». Antonio inizia una dieta, una terapia psicologica e ripren-de l’attività fisica; in cinque anni, anche grazie al bypass ga-strico, dimagrisce gradualmen-te e raggiunge quota 77 chili: un risultato incredibile. «L’ho fatto per amore della mia famiglia», scandisce sottovoce con gli oc-chi lucidi.

La palestra diventa la sua se-conda casa, l’alcool un lontano ricordo. Non solo: Antonio co-

stare senza e ho imparato a scri-vere con la destra, anzi a fare di tutto», dice Antonio.

Due anni fa, la svolta: gra-zie alla vicinanza del personale Inail, nella Sede di Nola/Ca-stellammare di Stabia, e all’as-sistente sociale del Comune Angelo Perrotta, Antonio co-mincia faticosamente il suo percorso di rinascita a Striano, sempre in provincia di Napoli, non lontano dal paese di Sarno, nel Salernitano – tristemente noto per la frana della monta-gna che il 5 maggio 1998 seppellì nel fango 137 persone – dov’è na-to quasi 40 anni fa. Quando era un ventenne pieno di entusia-smo, ha conosciuto Angela: «Ci siamo fidanzati quasi per scom-messa e stiamo insieme da due decenni». Sposati dal 2000, met-tono su famiglia e tutto sembra scorrere per il verso giusto. Poi arriva l’infortunio, alle 7 del primo settembre 2004, e l’atmo-sfera serena si trasforma in un incubo doloroso. «All’ospeda-le, tutti si preoccupavano della pancia e nessuno pensava al-la mano. Me l’hanno fasciata, si è formata una fistola. Sono sta-to nella camera iperbarica, dove ho perso l’udito all’orecchio si-nistro; ho fatto cinque interven-ti alla mano ma non è servito a nulla. Alla fine mi hanno ampu-tato la mano il primo marzo del 2006, ma l’infezione era salita e ho perso anche il braccio. L’ulti-

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Antonella Patete

È una storia che comincia male e finisce bene quella di Nino Lisotta, siciliano di Carini in

provincia di Palermo, oggi cam-pione di tiro con l’arco, in grado con la sua forza e il suo corag-gio di indicare la strada a tanti giovani infortunati sul lavoro e non solo, che possono supera-re il trauma attraverso lo sport. Tutto ha inizio nel 2002, quan-

do Nino esce come ogni matti-na per andare a lavorare e resta sulla strada, vittima di un inci-dente di cui non ha nessuna col-pa. Ha 37 anni, un impiego come guardia giurata, una moglie e una figlia piccola, il cui pensie-ro e il cui amore rischiarerà an-che i momenti più bui. Quelli successivi all’incidente, quando sente che il mondo gli è caduto addosso e non riesce ad abituar-

Ho aiutato tanti giovani a incontrare lo sport. Le medaglie più belle di Nino

si alla vita in sedia a ruote. «Mi ha aiutato tanto la famiglia, so-prattutto la vicinanza della mia bambina», dice.

Poi un incontro fortunato, di quelli che ti cambiano ancora una volta il corso dell’esisten-za. Avviene nel Centro di riabi-litazione “Villa delle ginestre”, a Palermo: «Ho conosciuto Wil-ly Fuchsova, allenatore di tiro con l’arco per il Comitato italia-no paralimpico. Ha detto che mi avrebbe aiutato a ricomincia-re. Per me è stato un padre, uno psicologo, un fratello». Viene da un anno duro, Nino: si muove senza certezze in un quotidia-no che non sembra promettergli più niente di buono. Per questo afferra l’arco che Willy gli tende, incredulo che in quell’attrezzo possa nascondersi la chiave di volta di un destino che sembra averlo condannato. Invece le co-se vanno diversamente.

Così oggi, insieme ai tanti suc-cessi sportivi e medaglie, ti rac-conta soprattutto di quella riscossa personale che gli ha permesso di ripartire da zero, e di aiutare tanti altri con il suo esempio. Perché c’è Nino Lisotta, il campione che ha partecipato a tre Mondiali e una Paralimpia-

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collega. «Mi hanno tampona-to da dietro, dopo l’urto non ri-uscivo a muovere le gambe: ho capito subito che era successo qualcosa di grave».

Da lì il giro degli ospedali: prima Palermo, poi Messina, in-fine la riabilitazione a “Villa del-le ginestre”. «Ma il momento più brutto è arrivato tre mesi dopo, quando mi hanno detto che non

puto dare i consigli giusti per tornare a fare le cose di tutti i giorni e all’Inail che lo ha con-cretamente sostenuto nello sfor-zo di reinventarsi un progetto esistenziale e di recuperare l’au-tonomia. Una ventata di fortuna dopo l’accanirsi della malasorte. Perché quella maledetta matti-na del 2002 neanche ci doveva andare a lavorare. Sostituiva un

de, quella di Pechino nel 2008. E c’è Nino che incontra gli studen-ti delle scuole, ha tanti amici in sedia a ruote e, soprattutto, inco-raggia i giovani che arrivano al Centro “Villa delle ginestre” do-po un infortunio a rimettersi in gioco attraverso l’attività sporti-va. «Abbiamo scritto una pagina della storia paralimpica a Paler-mo – spiega –. Sono orgoglioso dei tanti ragazzi che siamo riu-sciti a catapultare nello sport, ti-randoli fuori dalle case. In pochi anni siamo passati da 89 a 1.000 iscritti al Cip regionale».

Non si stanca mai di raccontare quanto lo sport abbia portato una ventata positiva nella sua vita. Come quella volta che vinse una medaglia d’oro in un confron-to con Oscar De Pellegrin, stella del tiro con l’arco paralimpico e portabandiera italiano ai Giochi di Londra 2012.

«Quel giorno mia figlia ha portato a scuola il ritaglio di giornale. Per dire che il suo pa-pà non è un handicappato, ma un campione». E tutto questo lo deve a Willy, che lo ha estratto a mani nude dalla melma della depressione. Ma la sua gratitu-dine va anche ai tanti amici in sedia a ruote che gli hanno sa-

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do difficile sono riuscito a tor-nare in gara». Per la seconda volta è stato il suo arco a salvar-lo. E anche in questo caso c’era Willy a rassicurarlo e a incorag-giarlo. «Da subito questo sport mi è entrato dentro. A ottobre 2004 la prima gara regionale e due anni dopo la partecipazione al campionato italiano. A volte mi ritengo fortunato, perché grazie alla mia disabilità sono diventato una persona impor-tante. Rappresento la Naziona-le italiana nel mondo e sono tra gli otto arcieri paralimpici più forti d’Italia». Nel frattempo le sue giornate trascorrono ricche di impegni: si allena ogni gior-no tre ore, è consigliere del Cip regionale, referente del Comitato italiano paralimpico per sport e disabilità, ma fa anche attività di volontariato a “Villa delle gine-stre”, dove trasmette innanzitut-to la sua fiducia incrollabile nel valore rivoluzionario dello sport. Ogni volta che un giovane scom-mette sulla pratica sportiva per superare il trauma dell’infortu-nio, per Nino è come una me-daglia appuntata sul petto. Una freccia scoccata verso il futuro, dall’esito imprevisto. Simbolo della vittoria sul destino e della vita ritrovata.

Oggi l’arciere di Palermo è un uomo nuovo. Ha rifiutato il la-voro in ufficio perché si senti-va «mortificato» e ha investito tutte le sue energie nello sport. Dopo una dolorosa separazio-ne dalla moglie, vive solo e ha una nuova compagna che prati-ca anche lei il tiro con l’arco. «Il 2013 è stato un anno fantastico

– dice –. Al termine di un perio-

avrei più camminato». Come se non bastasse, il ritorno a casa è stato drammatico. «Abitavo al primo piano senza ascensore, era come stare agli arresti do-miciliari». Poi l’acquisto di una casa più adeguata nel 2006, al piano terra e senza barriere ar-chitettoniche, dove Nino, tra alti e bassi, ha ricostruito una nuo-va vita.

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Come un arco ti aiuta a guarire. La missione di Willy

sero un’alleanza fatta di amici-zia e continui traguardi sportivi. «All’epoca Nino era molto de-presso, non credeva che sarebbe potuto diventare un campione – racconta l’allenatore –. Quando finisci in carrozzina perdi tut-to: gli amici, i parenti, la casa in cui non riesci più a vivere. Ti re-stano solo la mamma e il papà, gli unici che non ti abbandona-no mai. È lo sport che ha rimes-so in moto tutto».

Freccia dopo freccia, il rappor-to tra i due è diventato qualcosa di veramente speciale. Per Willy, Nino è più di un amico, quasi un fratello. «Abbiamo un rapporto che va al di là dell’arco. Ci vedia-mo fuori, la sera, il week-end. Ci aiutiamo tutte le volte che pos-siamo». Quando nei mesi scorsi l’allenatore ha avuto seri proble-mi di salute, è stato lui, Lisotta a stargli vicino, a fargli sentire forte la sua presenza anche se non riusciva a essergli accanto fisicamente. «Non poteva rag-giungermi perché nel mio con-dominio non c’è l’ascensore», confida l’allenatore.

Allenatore nazionale di tiro con l’arco e commissario tecnico degli Azzurri pa-

ralimpici, Willy Fuchsova tra-scorre molto del suo tempo all’interno del presidio ospeda-liero palermitano di “Villa del-le ginestre”, dove i pazienti in sedia a ruote per via di un inci-dente possono praticare – oltre al tiro con l’arco – la scherma e il tennis tavolo. Ed è stato anche, e soprattutto, grazie a lui che Nino Lisotta (vedi pagg. 42-45) e tanti altri hanno ritrovato l’e-nergia positiva per costruirsi un nuovo futuro.

Nel ruolo volontario di re-sponsabile della riabilitazione sportiva della struttura, Wil-ly incontra ogni anno decine di giovani. E proprio così ha cono-sciuto per la prima volta l’arcie-re palermitano. Poteva essere uno come tanti, invece quell’in-contro fortuito si rivelò specia-le per entrambi. Forse perché Willy credeva con tutto se stes-so nella forza strepitosa del-lo sport, forse perché Nino non era un tipo facile, ma si intesero nel profondo e col tempo strin-

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Si ritiene uno fortunato, Wil-ly Fuchsova. Magari non navi-ga nell’oro come gli allenatori di calcio, ma vive del lavoro che ha scelto tanti anni fa quando è uscito dalla Nazionale italiana di tiro con l’arco. Da allora la scom-messa è stata quella di far cono-scere una disciplina considerata ancora elitaria e, da 16 anni a questa parte, anche di diffonder-la tra chi ha subito un infortu-nio. Perché è stato oltre tre lustri fa che ha messo per la prima vol-ta piede a “Villa delle ginestre”, chiamato dal responsabile sani-tario dell’epoca: arrivava dalla Svizzera, dove il tiro con l’arco veniva usato in funzione riabi-litativa. «A quei tempi l’unico spazio disponibile era la camera mortuaria – sorride oggi –. Ma io ho subito detto sì, perché mi sembrava un’occasione da co-gliere al volo».

Un giorno da quelle parti pas-sò un ragazzo di nome Salvatore che aveva subito una grave le-sione vertebrale durante una gi-ta a Stromboli. Scivolando da uno scoglio era diventato tetra-

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Io, disabile, non mi fermo dinanzi a niente. L’entusiasmo di Salvo

plegico. «La sua aspirazione era tirare con l’arco – ricorda l’alle-natore –. Il suo fisioterapista era contrario, perché temeva che si potesse illudere. Ma io non ve-devo ostacoli insormontabili». Così, giorno dopo giorno, con l’aiuto di ausili autoprodotti, Salvatore è riuscito a sostenere l’arco e a tirare. «Oggi è un inge-gnere informatico: ha un lavoro, una ragazza e la patente. Ma tut-to è ripartito in quel momento, anche se oggi ha posato l’arco. Lo sport – assicura – raggiunge delle aree del nostro cervello do-ve né la medicina né la fisiotera-pia possono arrivare».

Attualmente Fuchsova sta al-lenando la squadra italiana per le Paralimpiadi di Rio de Janei-ro 2016, ma a Palermo non ha un campo di tiro con l’arco do-ve preparare gli atleti. «Ci al-leniamo nelle campagne come banditi, eppure ho tre siciliani in Nazionale». A “Villa delle gi-nestre”, invece, segue 15 giovani con disabilità, di cui sei assistiti Inail. Un traguardo non da po-co per il responsabile tecnico pa-ralimpico della Fitarco e per uno sport di così antiche origini. Che in Sicilia presenta una poten-zialità ancora tutta da scoprire. [A.P.]

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I nfortunato Inail, ex mara-toneta e da un anno fan sfe-gatato dell’handbike, Salvo

Campanella è pieno di vita, di passione, di entusiasmo sfre-nato: 40 anni, una moglie, due figli, è vivo per miracolo. Il 2 lu-glio del 2012 è precipitato da set-te metri di altezza a causa della rottura del piantone di sicurez-za della gru, nel cantiere dove lavorava. «Facevo l’imperme-abilizzatore – racconta –. Ero uno di quelli che mettono le guaine in galleria. Sono caduto con tutta la cesta». Un vero mi-racolo, insomma, di cui Salvo non finisce mai di gioire. «Co-sa ho provato dopo l’incidente? Mi sono fatto una risata. Intan-to sono rimasto vivo, e poi pote-va andare peggio».

Non dimenticherà mai, in-fatti, quei momenti. Prima, durante e dopo è rimasto per-fettamente vigile e cosciente: il cestello che cade a precipizio e si ferma a 50 centimetri da terra, bloccato dai tubi dell’alta pres-sione «che hanno un carico di rottura pari a 1.500 chili contro i 3mila del cestello fermo, sen-za contare l’accelerazione di gra-vità. Che significa un totale di 6mila chili complessivi».

Non sorprende, dunque, che si ritenga fortunato. «Quando ho toccato terra non sentivo più le gambe – ricorda –. Non mi so-no fatto niente, dicevo tra me e me, perché non avvertivo dolo-re. Ma ero già paraplegico». La

consapevolezza però arriva già nel tragitto in ambulanza verso l’ospedale. E così Salvo chiama la moglie e le dice: «Ho avuto un incidente sul lavoro, mi so-no fatto male alla schiena, non mi funzionano le gambe, la ma-ratona di New York me la vado a fare in handbike».

Il resto della storia è una corsa sfrenata verso la libertà: 18 gior-ni dopo l’incidente Salvo vie-ne trasferito all’Unità spinale di Palermo e, alla fine del me-se, comincia la riabilitazione a “Villa delle ginestre”, dove si ferma ancora un paio di me-si. «E poi scappo da qui e vado a cercare una handbike di se-conda mano – continua –. In-contro Stefano Rametta e Luigi Palì e cominciamo a correre in-sieme. A settembre del 2013 ven-go convocato dalla Federazione ciclistica italiana, che mi nomi-na unico responsabile regionale del settore paralimpico».

E il bilancio di questa espe-rienza di vita? «Il mio scopo principale non è diventare fa-moso – risponde Salvo –, ma quello di fare da esempio. Per tirare fuori dalle prigioni do-mestiche altri ragazzi disabili dimostrando, con i fatti e non con le parole, che l’handicap sta solo nella tua testa e non nel tuo corpo. Come ha giustamente scritto mio nipote nella sua te-si di laurea – conclude –: la di-sabilità è uno status mentale del normodotato». [A.P.]

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E a un certo punto ho smesso di piangere. L’ospitalità siciliana nella cucina di Caterina

Sono passati più di sette anni dal giorno della «disgrazia». E solo da qualche tempo Ca-

terina Randazzo ha imparato a farci i conti con quella sua nuova vita che non aveva messo in pre-ventivo. Le viene ancora da pian-gere a pensarci, ma si tira su al pensiero di quante cose riesce a fare ogni giorno per vivere in maniera normale nella sua casa di Montelepre, a 20 minuti d’au-to da Palermo.

Aveva 51 anni quel 19 giugno del 2007, quando cadde salendo le scale della clinica privata dove lavorava come ausiliare. Era una giornata come un’altra e faceva caldo. Forse l’afa, forse un calo di pressione, fatto sta che Caterina si accasciò proprio quando non avrebbe dovuto. Sbattendo la schiena. Magari un’altra persona avrebbe capito, quando si risve-gliò con le gambe rigide e come di legno. Ma non lei, che non ave-va nessuna intenzione di rasse-gnarsi. «Ci ho messo due anni a rendermi conto – ricorda –. Due anni per abituarmi all’idea di ri-trovarmi in sedia a rotelle. Gli al-tri me lo facevano capire in tutti i modi, ero io che non volevo ac-cettarlo». Non ricorda Caterina il momento in cui tutto è divenuto buio intorno a sé, sa solo che a un

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a due operazioni. E lì ho imparato a diventare più autonoma». Però che non avrebbe più cammina-to non lo voleva proprio accetta-re. «Cominciai a capire qualcosa qualche mese dopo all’Unità di riabilitazione di Sciacca – prose-gue –. C’era un ragazzo che ave-va subìto un incidente due mesi prima. Era giovane, si era appena sposato, e cominciava a muove-re qualche passo». A quella vista Caterina interrogava i suoi fami-liari: «Perché non mi avete por-tato qui prima?», chiedeva. Non le andava giù l’idea di aver perso del tempo prezioso, magari an-che l’opportunità di tornare in piedi. Allo stesso tempo inizia-vano ad affacciarsi i primi dubbi. «Fu la moglie del medico a par-lare chiaro», ricorda. L’affrontò a viso aperto e le disse: «Cateri-na, rassegnati. Piangi se vuoi, ma piangi una volta per tutte». E lei reagì arrabbiandosi, e gridando.

Tornò a casa desolata, andò a vi-vere nella bella abitazione in cam-pagna che affaccia sul golfo di Palermo e cercò di nascondere il suo stato d’animo ai familiari. Continuava a vivere in quell’ap-partamento al piano terra ed evitava di farsi vedere in sedia a ruote in giro per Montelepre. Nel pieno della disperazione, però, cominciava a farsi strada il desi-derio di ritornare alla sua vecchia vita. Le mancavano la sua casa e le sue occupazioni, riemerge-va in nuove forme quello spirito combattivo che dopo l’incidente le aveva impedito di rassegnarsi all’idea di non poter più cammi-nare. «All’inizio andavo al cen-tro commerciale con mia sorella,

certo punto si è trovata per terra a domandarsi cosa le fosse suc-cesso. «Non muovevo le gambe, ma non sapevo che se la schiena si rompe non è possibile tornare a camminare».

Si ricorda però dei tanti ospe-dali che ha girato come un’a-nima in pena. Prima correndo d’urgenza al “Civico” di Paler-mo, poi nelle varie cliniche per i diversi cicli di riabilitazione. Che Caterina ha iniziato tre me-si dopo l’incidente presso il pre-sidio ospedaliero di “Villa Sofia”, sempre nel capoluogo sicilia-no. «Ricordo quelle lacrime che scendevano da sole, senza voler-si fermare. E se ci penso mi vie-ne da piangere anche ora – dice

–. Ho dovuto impormelo e dir-mi: basta, ora non piango più». Per fortuna non era sola: nel mo-mento del bisogno e della massi-ma disperazione la famiglia ha fatto cerchio intorno a lei. «C’e-rano proprio tutti: il marito, le sorelle, le cognate. Quando c’e-ra bisogno di restare la notte con me non si sono mai tirati indie-tro, non mi hanno abbandonata». E soprattutto c’erano i figli Giu-seppe, Gioacchino e Giulia, che si sono assunti compiti e responsa-bilità che non avevano mai avuto in precedenza.

Ma Caterina non si dava pa-ce. Cercava e sperava, sperava e cercava. Forse poteva trovare un nuovo centro, una nuova terapia o un medico che esprimesse un parere inedito. E mentre cerca-va senza sosta, imparava, senza neppure accorgersene, ad affron-tare la sua nuova condizione. «Partii per l’Istituto di Monteca-tone, a Imola, dove fui sottoposta

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Dio mi ha salvato, l’Inail mi ha rimesso in piedi. La seconda vita di Thomas

mi distraevo facendo la spesa. Poi cominciai a fare tutto quello che potevo fare, e dove non arri-vavo mi fermavo». Presto torna-rono nella casa in paese, al primo piano, collegata alla strada da una lunga scala. La quotidiani-tà non era facile. Intervenne l’I-nail, dotando l’appartamento di una piattaforma elevatrice che permetteva a Caterina di entra-re e uscire comodamente di ca-sa. Attraverso il Centro protesi di Vigorso di Budrio ha ottenuto la patente speciale e poi, sempre grazie all’Istituto, è riuscita ad adeguare la cucina alle soprag-giunte necessità. Con il top cot-tura e il lavello adattati e i pensili a elevazioni elettrica, Caterina ha ripreso a preparare da mangiare per la famiglia e la sua cucina è tornata a essere il cuore pulsante della casa. È qui che nei giorni di festa si riuniscono tutti: il marito, i figli, le nuore. Ed è qui che Ca-terina torna a sentirsi pienamen-te a suo agio, dopo la tensione di un’intervista che la costringe an-cora una volta a fare i conti con gli ultimi anni della sua vita.

Tolto di mezzo il taccuino, si rilassano anche i figli e le nuore che facevano capolino inquieti mentre lei raccontava la sua sto-ria. Sul tavolo compaiono gli al-bum delle loro recenti nozze e le paste buonissime portate a casa dal marito Vincenzo. È la ma-nifestazione più sincera dell’o-spitalità siciliana, il momento più atteso del pomeriggio. Hai la sensazione che il peggio sia pas-sato, davanti la famiglia, l’affetto dei figli, la ritrovata quotidianità della vita domestica. [A.P.]

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La vita dopo L’incidente. dieci storie

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Ama ridere, andare in giro, trascorrere il tempo con gli amici, Thomas Free-

man. Trentanove anni, liberiano di Monrovia, è arrivato in Italia nel 2002 attraversando il Medi-terraneo a bordo di un barco-ne per fuggire dalla guerra che dal 2000 al 2004 ha devastato il suo Paese. Ma la sua gamba si-nistra l’ha persa in Italia a causa di quello che oggi definisce uno «stranissimo» infortunio sul la-voro. Di quelli che ti lasciano a lottare tra la vita e la morte, e ti cambiano per sempre il corso dell’esistenza. Giunto a Palermo con un permesso di soggiorno come richiedente asilo politico, grazie alla sua straordinaria vo-glia di vivere Thomas è riuscito rapidamente a integrarsi nel tes-suto economico e sociale cittadi-no: tanti amici italiani e africani, una fidanzata siciliana e soprat-tutto un lavoro come meccanico e gruista all’interno di un’offi-cina. Fino a quando, un lunedì sera del 2003, andando a pren-dere un’automobile da demolire è rimasto vittima dell’inciden-te che gli è costato quasi la vita. «La macchina è caduta dalla gru e io sono stato schiacciato sotto il suo peso – ricorda –. Mi sono svegliato dopo due mesi di coma e quando ho visto che mi man-cava una gamba l’ho presa mol-to male. È stata la mia fidanzata Loredana a firmare per l’ampu-tazione».

Si sentiva disperato Tho-mas: dopo essere scampato al-la guerra e al deserto della Libia,

dopo aver visto i suoi compa-gni di viaggio morire a bordo di una carretta del mare men-tre solcava furtiva il Mediterra-neo, non gli sembrava possibile che il peggio dovesse arrivare in Italia. Proprio quando gli pare-va di aver ritrovato tutto (o qua-si): l’amicizia, il lavoro e l’amore. «Non accettavo la situazione – prosegue –. Sono stato sempre un tipo molto attivo, ero dispe-rato. Fino a che non ho incon-trato l’Inail, che mi ha restituito la speranza: “Dio ti ha aiutato, noi ti rimetteremo in piedi”, mi hanno detto». Poco tempo dopo a Vigorso di Budrio è arrivata la protesi che oggi gli permette di camminare, guidare lo scooter e insegnare kick-boxing.

Oggi che la sua vita è riparti-ta, Thomas ancora si sente ferito dal comportamento del suo da-tore di lavoro, con cui è entra-to in causa per una complicata faccenda di risarcimenti e dirit-ti negati. Per il resto prova a gio-strarsi in una complicata vita familiare, fatta di tre figli di cui uno ancora in Ghana con la zia e gli altri due a Pordenone con la madre ed ex compagna. Ma so-prattutto Thomas ha tanti amici, che non lo lasciano mai solo. «A Palermo mi trovo bene – con-clude –. Parlo quattro lingue e aiuto tante persone africane, so-prattutto a trattare con i loro da-tori di lavoro. Il mio sogno per il futuro? Aprire un’attività di im-port ed export, che unisca l’Afri-ca all’Italia». [A.P.]

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Ostia, gli albori dello sport paralimpico

to all’Inail – afferma il maestro Vittorio Loi, schermidore d’ec-cezione, cinque Giochi come at-leta e altrettanti come tecnico della Nazionale azzurra –. L’I-stituto ci ha permesso di prati-care lo sport, tornando a essere persone come le altre. Grazie al-la pratica sportiva abbiamo gi-rato l’Italia e il resto del mondo, recuperando tutto quanto pen-savamo di aver perso».

«Il dottor Maglio è stato un pioniere e forse lo sarebbe an-cora oggi: quello dello sport-terapia è infatti un concetto estremamente moderno», di-chiara David Fletzer direttore dell’Unità operativa complessa (Uoc) Centro spinale del Cen-tro paraplegici di Ostia (Cpo), in capo alla Asl Roma D. Il Cpo è nato nel 1957 come la prima struttura italiana dedicata alla cura delle persone con lesione midollare per iniziativa dell’I-nail e dal 1978 è sotto l’egida del Servizio sanitario nazionale e regionale. «Ma noi continuiamo a credere nel valore della prati-ca sportiva: ancora oggi si eser-cita la scherma, il tiro con l’arco, il tennis tavolo e il calcio balilla. Inoltre abbiamo un medico e un fisioterapista completamente dedicati alla sport-terapia. È im-

O ggi è ancora possibile in-contrarli il martedì mat-tina, specie se il tempo è

bello, sotto i porticati che fron-teggiano la stazione “Stella po-lare”, a Ostia, patria dello sport paralimpico italiano e non so-lo. Le vecchie glorie dei Giochi per disabili si danno appunta-mento dinanzi alla sede dell’A-scip, l’Associazione sportiva culturale italiana paraplegici, nata nel 1975 per promuovere il grande valore dello sport co-me strumento di riabilitazione e reinserimento nella società.

Approdati giovanissimi al Centro per paraplegici (Cpo) dell’Inail diretto dal professor Antonio Maglio, pioniere ita-liano della sport-terapia, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso si trasferirono a Ostia, alle porte di Roma, per rimettere in moto le proprie vite.

Erano operai, agricoltori, pa-stori provenienti da varie regioni italiane che il neuropsichiatra Maglio riuscì a coinvolgere in un progetto rivoluzionario. Fi-no a farne campioni nazionali e mondiali nelle diverse disci-pline: scherma, nuoto, tennis tavolo, tiro con l’arco, per dir-ne solo alcune. «Dobbiamo tut-

pressionante il valore terapeuti-co dello sport: a volte l’attività sportiva permette di conserva-re l’autonomia e, nel tempo, di allungare la vita». Un concetto, quest’ultimo, di cui era profon-damente convinto il dottor Ma-glio, che nel 1960 organizzò a Roma la prima vera Paralimpia-de della storia.

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La vita dopo L’incidente. dieci storie

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Negli anni successivi alla se-conda guerra mondiale Maglio aveva avuto modo di apprezzare l’operato del neurologo tedesco Ludwing Guttmann, il promo-tore dei Giochi di Stoke Man-deville, che si tennero per la prima volta alle porte di Londra del 1948. Fuggito in Inghilterra dopo l’inizio delle persecuzio-

ni naziste degli ebrei, il neuro-logo fu messo a capo dell’Unità spinale dove venivano ricovera-ti i reduci di guerra che avevano subito lesioni midollari. E subi-to si rese conto che per guarire le ferite non solo fisiche riporta-te sul campo di battaglia occor-reva aiutare i soldati a tornare a una vita normale. Obiettivo che

Guttmann raggiunse attraverso l’esercizio fisico e l’organizza-zione dei Giochi di Stoke Man-deville.

Questa straordinaria intu-izione fu ripresa da Maglio qualche anno dopo e servì a re-stituire la speranza a tanti che consideravano la propria vita fi-nita. E che a Ostia ritrovarono

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uno scopo, una socialità, una fa-miglia. Come Aroldo Ruschioni, classe 1932, che approdò sul li-torale romano nel 1957, all’età di 25 anni. Originario di Macerata, era rimasto infortunato mentre lavorava come elettromeccani-co tornitore nella ditta del pa-dre. «Non avevo mai praticato sport prima – racconta oggi –. Ma qui a Ostia ti sentivi quasi obbligato a sperimentarti nelle varie discipline. Le soddisfazio-ni e le medaglie sono arrivate in un secondo momento».

Oggi Aroldo è il più anziano del gruppo di Ostia e l’unico ad aver preso parte alla Paralimpia-de romana, da cui riportò un oro, un argento e un bronzo, ri-spettivamente nel tennis tavolo doppio, nella sciabola a squa-dra e nel dorso. Erano però solo le prime medaglie di una lunga carriera internazionale, culmi-nata con il ruolo di tedoforo al-le Olimpiadi invernali di Torino 2006, dove ebbe l’onore di por-tare la fiaccola cerimoniale.

Olver Venturi, invece, è un simpatico signore di quasi 70 anni, molti dei quali trascorsi a Ostia dove arrivò per la prima volta l’8 giugno del 1961, redu-ce da un incidente sul lavoro mentre assemblava le cassette di frutta. Aveva appena 16 anni e mezzo quando giunse al Cpo direttamente da Lugo di Roma-gna, in provincia di Ravenna, dove era nato e cresciuto. «Dopo

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lA vitA dopo l’incidente. dIEcI sTOrIE

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settimana dopo lo trasferirono a Iglesias, dove rimase sei mesi. «Gli altri se ne andavano e io re-stavo sempre là – afferma –. Poi sono arrivato a Ostia e mi sono un po’ tranquillizzato, perché vedevo che c’era anche chi stava peggio di me».

Nelle corsie del Cpo France-sco incontrò il dottor Maglio. Gli domandò se avesse mai pra-ticato qualche disciplina e lui ri-spose che gli piacevano il calcio e la pesca sportiva. «Qui potrai fare sport», sentenziò il medico. E così cominciò un’avventura imprevista e fulminante, come arciere e nuotatore: nel 1961 era a Stoke Mandeville e tre anni dopo alle Olimpiadi di Tokio, da cui tornò a casa con un oro stile libero, un argento rana e una fi-danzata giapponese. Che lo rag-giunse in Italia alla fine di tre lunghi anni di fitta corrispon-denza epistolare per sposarlo e restare con lui per oltre un de-cennio, fino a quando un «brut-to male» non se la portò via.

Per fortuna c’era il percorso che Antonio Maglio aveva in-dicato e che ha accompagnato la sua esistenza anche nei mo-menti più bui. Regalandogli la partecipazione a quattro diver-se Olimpiadi, di cui l’ultima a Toronto nel 1976. «Ho avuto la possibilità di viaggiare, andare ovunque, conoscere il mondo – tira le somme oggi –. Senza lo sport la mia vita non sarebbe stata la stessa». [A.P.]

le prime cure al Centro trauma-tologico di Bologna, l’alternati-va era tra Vigorso di Budrio e Ostia – ricorda –. Ma al Centro protesi non c’era posto e così mi hanno mandato qui: ed è stato un bene perché ho conosciuto mia moglie, che all’epoca faceva l’infermiera». Insieme all’amo-re Olver conobbe lo sport e, do-po poco più di un anno, era già a Stoke Mandeville dove si gua-dagnò la prima medaglia d’oro nella scherma a squadre. Non male per uno come lui, che ap-pena qualche mese prima aveva dovuto rimettere in discussione un’intera esistenza. E che oggi vanta la partecipazione a cinque Olimpiadi e il titolo di campio-ne italiano di tennis tavolo per undici anni. «Attualmente inse-gno ping pong al Cpo due volte a settimana, il martedì e il giove-dì», dice. Dedica le sue energie a quelli che arrivano, provan-do a spiegare loro, con l’esempio concreto, che se qualcosa è fini-to per sempre qualcos’altro può ancora cominciare.

Una lezione che anche France-sco Deiana ha dovuto imparare sul-la propria pelle, quando nel 1960 giunse a Ostia dalla sua Sarde-gna. Aveva 27 anni e fino a quel momento aveva fatto il pastore: viveva a Olbia, in provincia di Sassari, ed era caduto dalla bici-cletta mentre trasportava il latte al deposito. Lo portarono di cor-sa all’ospedale cittadino e una

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Non tutti i giorni nasce un campione. La tenacia di Vittorio

È stato imbattibile Vittorio Loi con la sua spada. Rapi-do, agile, determinato. Non

c’era nessuno o quasi che potes-se tenergli testa. Perché attra-verso quella spada che gli era piovuta tra le mani un po’ per caso si riprendeva la vita che pensava di aver perso. Quan-do arrivò al Centro paraplegici di Ostia era distrutto nel cor-po e, soprattutto, nello spirito. Era nato a Nurri, in provincia di Nuoro, nel 1942 e non aveva ancora compiuto 20 anni quel 9 settembre del 1961 quando cad-de dal camion mentre carica-va la legna. Faceva l’agricoltore, ma voleva cambiare vita e due giorni dopo sarebbe partito per la Germania, dove la sua richie-sta di lavoro era stata accolta da una fabbrica. Le cose andarono diversamente. «Eravamo zappa-tori – dice –. Pensavo che tutto fosse finito».

Nei momenti di disperazione che seguirono l’incidente prese in considerazione tutto, anche l’i-dea di farla finita. A Ostia l’in-contro con il dottor Maglio fu decisivo. «Parlavano di fare sport, a me sembravano matti», dice oggi, col senno di poi. Ma quella proposta lentamente si

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La vita dopo L’incidente. dieci storie

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a tutti, in piedi o in sedia a ruo-te: non ci sono distinzioni. «Ma la vera sfida è da seduti – spiega

–. In piedi hai più vie di fuga, in carrozzina non puoi arretrare». E il suo contributo resterà nel-la storia di questa disciplina pa-ralimpica. Perché oltre a essere un maestro e un campione, Vit-torio ha progettato le pedane di scherma conosciute nel mondo come “italiane”, che consentono maggiore autonomia allo scher-midore attraverso un sistema di ancoraggio che non fa perdere l’equilibrio.

Oggi Vittorio ha 72 anni, ma quello che può dare allo sport paralimpico è ancora tanto. È membro della Commissione in-ternazionale per la scherma in carrozzina (Iwfc), organo tecni-co della Federazione internazio-nale di sport disabili nella quale ricopre il ruolo di responsabile per il regolamento e per il ma-teriale dal 1981. Ma ama anco-ra venire al Cpo per insegnare scherma due mattine a settima-na, il martedì e giovedì. In quel Centro dove la sua vicenda di uomo e di atleta ha avuto inizio e dove altri campioni possono nascere. Con la forza dell’esem-pio, della volontà e della speran-za. [A.P.]

nel 1968 vince due ori e due ar-genti nel fioretto e spada a squa-dre. Nel 1972 a Heidelberg porta a casa tre ori e nel 1974 a Toron-to un argento e due bronzi. Ma è anche campione mondiale di scherma dal 1962 al 1974 e cam-pione italiano dal 1974 al 1979.

Le ultime medaglie arriva-no nel 1980 ad Arnhem, in Olan-da, dove conquista un bronzo nell’individuale a sciabola e un argento nel fioretto a squadra. Da quel momento Loi abbando-na l’agonismo, ma non la pas-sione per la spada. Nello stesso anno, infatti, consegue il bre-vetto di istruttore e il diploma di maestro di scherma all’Ac-cademia nazionale di Napoli e dodici mesi dopo diventa tec-nico della Nazionale italiana di scherma disabili. Può insegnare

insinuò in lui, fino ad assumere la forma vaga di una speranza. Nel frattempo nacque l’amicizia con Francesco Deiana, sardo co-me lui, che era arrivato a Ostia l’anno precedente e con cui a partire dal 1965 condivise un appartamento. «Francesco era come un fratello, chiacchiera-vamo a lungo e lui mi racconta-va le sue imprese sportive. A me pareva impossibile». Gli sem-brava tutto troppo difficile, ma quel modo di affrontare la vita lo affascinava. «Mi sono butta-to sulla scherma e ce l’ho fatta: sono diventato imbattibile. Ave-vo l’istinto di vincere. Ho parte-cipato a cinque Olimpiadi come atleta e a cinque come tecnico della Nazionale di scherma di-sabili. Ho perso il conto delle medaglie». La prima Olimpiade è a Tokio nel 1964, poi a Tel Aviv

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Dopo 40 anni è ancora amore. L’ironia di Uber e Irene

Lei è affilata, intelligente, in-cisiva. Lui bonario, ironico, incline a prendere la vita co-

sì come viene. Se questa è la re-altà o l’apparenza poco importa, fatto sta che i coniugi Uber Sa-la e Irene Monaco insieme sono una spasso. Una vita l’una accan-to all’altro all’insegna dell’amore e dello sport. E di un dialogo irri-dente e serrato, che vince la noia e consolida la tolleranza recipro-ca, pane quotidiano per una cop-pia di lunga data.

Vivono in una villa alle porte di Ostia, fatta di ampi spazi ac-cessibili e di pareti tappezzate di coppe e medaglie. Che parla-no da sole della loro storia e del-la loro comune passione. Perché, come dice Irene, «noi ci siamo conosciuti nello sport». E nello sport hanno imparato ad amar-si e ad apprezzarsi, per poi unire i loro destini in un matrimonio solido come l’impegno sporti-vo che ha contrassegnato le lo-ro esistenze. Lei è nata nel 1940, lui sei anni dopo, nel 1946. Lei è un’invalida civile, lui un in-fortunato sul lavoro, arrivato a Ostia a 18 anni a causa di una caduta da un’impalcatura. «La-voravo in cantiere come elettro-meccanico. Sono finito sotto a un montacarichi. Pensavo che la

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La vita dopo L’incidente. dieci storie

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di medaglie. «Ho tenuto a lungo il record nel lancio del disco – ri-corda –. Uber mi ha introdotto nel mondo del tiro con l’arco, che mi ha riservato grandi soddisfa-zioni. Ho gareggiato anche con i normodotati. Poi sono passata al compound, un tipo di arco molto usato nei Giochi olimpici».

Nel 1999 Irene ha smesso di praticare sport, mentre Uber ha continuato ancora per un po’. Di quella lunga fase della loro vita in comune non restano però solo i tanti riconoscimenti che rivesto-no le pareti di casa Sala. Rimane anche la sensazione di aver co-struito un patrimonio di espe-rienze condivise che cementano un’unione durata quasi mezzo secolo. E che rimane forte anche oggi che la loro vita risente de-gli acciacchi dell’età. Da quando Uber non guida più, trascorro-no tanto tempo nel loro giardi-no pianeggiante e pieno di fiori. La sera, specie d’inverno, guar-dano lo sport in tv: anche quel-lo paralimpico, ma non solo. E così, anche se le cose cambiano, loro continuano a volersi bene. «Lo sport ci ha dato un motivo di spensieratezza», dice Uber. Sua moglie lo guarda di sottecchi, e questa volta lo sguardo tradisce affetto piuttosto che ironia. [A.P.]

storia fosse finita lì, e invece...». Irene era figlia di un dirigente Inail, è nata a Roma, ma i suoi arrivavano dalla Sicilia. «A cin-que anni e mezzo ho contratto la poliomielite, fino al 2000 ho camminato con il tutore, poi so-no passata alla carrozzina. Nel 1963 ho cominciato con lo sport, praticando nel tempo undici di-scipline diverse». Uber, invece, ha scelto il tiro con l’arco. «Si provava di tutto prima di sce-gliere. Ho sperimentato anche il nuoto, ma alla fine sono diven-tato un arciere». Un arciere che, dopo essersi messo alla prova nelle varie competizioni nazio-nali e internazionali, è diventato prima allenatore e poi commis-sario tecnico della Nazionale pa-ralimpica.

Irene sembrava tagliata per la competizione e ancora oggi pun-zecchia Uber: «Tiravamo in-sieme di scherma, ma vincevo sempre io». Lavorava e si allena-va: aveva un impiego presso l’a-zienda dei telefoni di Stato, ma soprattutto amava le sfide con se stessa. Tiro con l’arco, atletica leggera, scherma, tennis tavolo e nuoto sono state solo alcune del-le sue passioni. Che a fine carrie-ra le hanno regalato una trentina

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«Non esiste lavoro il quale, per le condizioni in cui si effet-tua, non possa essere causa

di danno alla salute», scriveva nel di-ciassettesimo secolo Bernardino Ra-mazzini, il padre della medicina del lavoro. E infatti non solo gli infortu-ni ma anche le malattie professionali colpiscono i lavoratori: un fenomeno che non sempre emerge nella sua evi-denza, ma che può condizionare forte-mente la vita di chi ne rimane vittima. La dottoressa Angela Goggiamani at-tualmente è responsabile della Sovrin-tendenza sanitaria centrale dell’Inail e da oltre 30 anni è impegnata sui temi della medicina del lavoro, in qualità di medico presso l’Istituto. Le abbia-mo chiesto di aiutarci a fare luce su un aspetto che, in forma lieve o grave, mi-naccia tutti i lavoratori.

Partiamo dai numeri: qual è oggi la si-tuazione delle malattie professionali nel nostro Paese?

Nel 2013 le denunce sono state circa 51.900, vale a dire circa 5.500 in più ri-spetto al 2012. Ma se si guarda al 2009 sono aumentate di poco più del 47%. Inoltre il medesimo lavoratore può essere colpito da più malattie profes-sionali, per cui abbiamo circa 39.300

“ammalati”. Tuttavia, il fenomeno po-trebbe essere sottostimato per mol-ti motivi, tra cui il fatto che – viste

Malattie professionali: un fenomeno da non sottovalutare In aumento le denunce per le patologie di origine lavorativa: oggi sono oltre 50mila, il doppio di cinque anni fa. Un’emergenza “nascosta”, che può condizionare fortemente la vita dei lavoratori

le problematiche della crisi del mon-do del lavoro – i lavoratori potrebbero evitare di denunciare l’insorgere della patologia per paura di perdere la pro-pria occupazione.

Questo il presente. Ma cosa accadeva in passato?

Nel periodo dell’accellerazione dell’industrializzazione post-belli-ca, quindi a partire dagli anni Cin-quanta, l’Italia ha vissuto delle vere e proprie epidemie di malattie profes-sionali quali, per esempio, le silicosi, le emopatie benzoliche, le ipoacusie da rumore e il saturnismo, ovvero una patologia causata dall’esposizione al piombo. Negli anni Settanta, dunque, si contavano circa 80mila denunce l’anno, effetto di azioni di prevenzio-ne non sufficientemente efficaci. Suc-cessivamente il quadro è cambiato per l’intervento di nuovi fattori: da un la-to, una maggiore prevenzione in ambi-to industriale; dall’altro, la riduzione del confine tra la “fabbrica” e l’am-biente esterno. Ciò significa che l’au-mento dei rischi extralavorativi, cioè legati agli stili di vita, ha prodotto una riduzione del confine tra il rischio dell’ambiente di lavoro e il rischio dell’ambiente di vita, producendo una sorta di sommatoria degli effetti di tali fattori sulla salute dei lavorato-ri. In questo senso, il caso dell’amian-

to è emblematico: non si tratta più di un problema legato solo alle patolo-gie professionali a esso correlate, ma è diventato un’emergenza ambientale. Dopo averne vietato l’estrazione, l’u-tilizzo e la commercializzazione agli inizi degli anni Novanta, a tutt’oggi rimane il problema dello smaltimen-to, con ricadute anche sulla salute dei non lavoratori.

Quali sono le patologie maggiormen-te invalidanti?

Sono sicuramente i tumori prima causa di morte per malattia professio-nale nei lavoratori, ma anche alcune patologie respiratorie per la loro ingra-vescente evoluzione. Esistono, tuttavia, delle malattie all’apparenza “poco in-validanti”, ma in realtà con notevoli ripercussioni rispetto all’attività svol-ta dal lavoratore. Pensiamo a un mu-ratore con un’ernia discale: non si tratta di una patologia di per sé gene-ralmente grave sotto il profilo clinico, ma questo lavoratore certamente avrà grandi difficoltà a espletare i compiti che normalmente è chiamato a svol-gere. Occorre, dunque, invertire l’ot-tica e modificare l’ambiente di lavoro non solo per prevenire il “danno”, ma per adattarlo in maniera tale da per-mettere il proseguimento dell’attività lavorativa a chi è portatore di una di-sabilità.

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l’intervistA. aNGELa GOGGIamaNI

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Vengono riconosciute anche patolo-gie come lo stress e l’ansia?

Le malattie professionali di natura psichica sono giunte alla nostra osser-vazione alla fine degli anni Novanta: il caso ben noto riguardava alcuni lavo-ratori dell’Ilva sui quali venne operato un vero e proprio “mobbing strategi-co”, al fine di portarli all’estromissio-ne dalla azienda. A partire da questi primi casi l’Inail ha intrapreso uno studio approfondito su come l’orga-nizzazione del lavoro possa incidere sul benessere psicofisico dei lavoratori. Tuttavia, dopo un periodo di boom, at-tualmente questo tipo di denunce so-no circa 500 all’anno, con percentuali

di indennizzo mediamente di poco inferiori al 10%. Ciò accade perché l’I-stituto non riesce a trovare degli ele-menti oggettivi di prova sull’esistenza di un rischio lavorativo per il ricono-scimento della patologia. Si spera che la valutazione dello stress lavoro-cor-relato negli ambienti di lavoro, così come previsto dalla attuale normati-va, sia uno strumento valido per pre-venire tali malattie.

Esistono malattie invalidanti che col-piscono in primo luogo le lavoratrici?

La prima cosa da dire è che meno di un terzo delle malattie professionali denunciate riguardano il genere fem-minile. Se poi andiamo a guardare la

tipologia di malattie professionali a cui le donne sono più frequentemente esposte, scopriamo che nella stragran-de maggioranza dei casi (oltre l’85%) sono malattie osteoarticolari e musco-lo-tendinee, come tendiniti, sindromi del tunnel carpale, patologie dei di-schi intervertebrali. Quindi si tratta di malattie che possono non essere di per sé particolarmente invalidanti, ma che possono comunque avere una for-te ripercussione non solo nella vita la-vorativa, ma anche in quella sociale e familiare, visto che l’universo femmi-nile costituisce un “capitale umano” che si spende per la cura dei bambi-ni, degli anziani e della casa. Va ricor-dato però che anche le donne vengono colpite da malattie estremamente gra-vi: pensiamo per esempio alle vittime dell’amianto dell’industria tessile.

Ci sono delle malattie emergenti che possono essere sottovalutate?

Il caso dell’amianto ci ha insegna-to che qualsiasi sostanza o qualsiasi nuova tecnologia deve essere attenta-mente esaminata anche prima di es-sere impiegata. Oggi si parla molto di nanotecnologie e si studiano attenta-mente le ripercussioni che potrebbero avere sulla salute. È questa la lezione che abbiamo appreso.

Si parla molto di reinserimento lavo-rativo dopo l’infortunio. E dopo la malat-tia professionale?

Dal punto di vista sanitario e nor-mativo, infortuni sul lavoro e pato-logie professionali sono sullo stesso piano. In realtà anche per queste ma-lattie esiste un problema di ritorno al lavoro: bisogna fare in modo che il ri-entro avvenga cercando di rimuovere i fattori che hanno causato la patologia e operando ogni intervento possibile nell’adattamento dell’ambiente con azioni riguardanti anche l’organizza-zione del lavoro.

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O ltre 100 figure su tutto il ter-ritorio nazionale, età media 45 anni, prevalentemente don-

ne senza l’esclusione di alcuni uomi-ni, ma soprattutto con un obiettivo preciso: aiutare gli infortunati sul lavoro a elaborare nuovi progetti esistenziali, ritornando per quanto possibile alle loro abitudini di vita e di lavoro. È questo l’identikit de-gli assistenti sociali dell’Inail, figu-re chiave nel processo riabilitativo delle persone che hanno subito un incidente sul luogo di lavoro. Abbiamo chiesto a Margherita Cari-sti, assistente sociale presso la Dire-zione Centrale Prestazioni Sanitarie e Reinserimento, di spiegarci il ruo-lo, i compiti, le sfide di questa pro-fessione.

Come funziona il servizio sociale dell’Inail?

Attualmente gli assistenti socia-li sono 112 a fronte dei 139 previsti. L’Istituto sta provvedendo, infatti, all’assunzione delle figure mancan-ti sulla base delle graduatorie anco-ra attive dopo l’ultimo concorso. Si tratta di figure collocate soprattutto nelle diverse Sedi territoriali dell’I-nail, nelle Direzioni regionali, nella Direzione Centrale Prestazioni Sa-nitarie e Reinserimento e presso il Centro protesi di Vigorso di Budrio e la sua filiale di Roma.

Servizio sociale: dall’assistenza all’autonomia degli infortunatiFigure centrali nel processo di reinserimento sociale e lavorativo, gli assistenti sociali dell’Inail svolgono un ruolo di prima linea nella presa in carico. Con una consapevolezza precisa: viene prima il progetto di vita, poi l’ausilio

anche sulla base di una diversa pro-spettiva culturale che riguarda la disabilità e che ha modificato sensi-bilmente approcci, strumenti e mo-dalità. Oggi la questione della tutela e dell’esigibilità dei diritti ha sosti-tuito l’approccio di tipo assistenzia-le, che un tempo caratterizzava in modo prevalente il sistema di wel-fare. Lo stesso Regolamento per l’e-rogazione agli invalidi del lavoro di dispositivi tecnici e di interventi per il reinserimento nella vita di relazio-ne, emanato nel 2011, promuove il ri-torno della persona nei propri ruoli sociali. E questo ritorno deve esse-re attivo. Quindi non ci si limita più ad assistere l’infortunato, ma

Com’è cambiato negli anni il ruolo dell’assistente sociale?

Si è modificato notevolmente non solo in conformità all’evoluzione delle normative di riferimento, ma

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l’intervistA. marGhErITa carIsTI

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si vuol fare in modo che la persona possa gestire autonomamente la pro-pria vita e progettarla secondo i pro-pri desideri.

Un passaggio dall’assistenzialismo all’autonomia, in altre parole...

Sì, perché se prima le modalità di risposta erano soprattutto di natura economica e assistenziale, oggi pre-vale un’ottica di erogazione di servi-zi ed elaborazione di progetti per la persona. È un lavoro che va costru-ito dal basso e che deve nascere sia da una concertazione territoriale, sia da una volontà condivisa all’interno dell’équipe multidisciplinare com-posta dall’assistente sociale, dal di-rigente medico e dal responsabile dell’area lavoratori.

A parte la relazione con gli assistiti, esiste un rapporto con gli enti locali, le strutture sanitarie e le organizzazioni di promozione sociale dei territori?

Il rapporto col territorio fa par-te del lavoro dell’assistente sociale, che si occupa della persona all’inter-no del suo contesto di appartenen-za. Questo rapporto si concretizza soprattutto nella realizzazione di progetti comuni e, in particolar mo-do, nelle azioni per il reinserimen-to sociale e lavorativo. Per esempio, esistono raccordi con i Comuni lad-dove sono necessari interventi di so-stegno e di assistenza domiciliare e

di un’occupazione più idonea. An-che con il Terzo settore, che spesso è convenzionato con le Regioni, esi-stono relazioni di grande interesse e ricchezza.

Quali sono le problematiche princi-pali con cui si confronta il servizio so-ciale?

L’infortunio sul lavoro è un even-to improvviso e traumatico, che piomba nelle vite delle persone spez-zando le loro attività quotidiane e i loro progetti per il futuro. Si tratta di un trauma sia per il diretto inte-ressato che per la sua famiglia. Non a caso il nuovo Regolamento, attual-mente in fase di revisione, amplia ai familiari la platea dei destinatari degli interventi di sostegno. Inoltre all’erogazione degli ausili e delle pro-tesi, tradizionalmente di competen-za dell’Istituto, sono state aggiunte azioni di supporto e sostegno all’au-tonomia e al reinserimento nel con-testo familiare, sociale e lavorativo. Un altro aspetto fondamentale è poi il rapporto di fiducia con l’assisten-

te sociale, che spesso diventa il pun-to di riferimento sia degli utenti che dei familiari. E questo è un motore importantissimo: una relazione fidu-ciaria aumenta notevolmente le pos-sibilità di realizzare nel concreto un progetto di autonomia e di reinseri-mento sociale e lavorativo. [A.P.]

altri servizi necessari alla persona e al suo nucleo familiare ma non di competenza Inail. Inoltre importan-ti sinergie sono state stipulate con le Province per quanto riguarda la pre-disposizione di tutti quegli inter-venti mirati a permettere la ricerca

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dulcis in fundo

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