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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN FILOSOFIA TESI DI LAUREA IN FILOSOFIA MORALE Kant la formazione dell’etica 1

Tesi Di Laurea - Paolo Bosso - Matr. 263-126

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tesi di laurea

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI

FEDERICO II

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN FILOSOFIA

TESI DI LAUREAIN

FILOSOFIA MORALE

Kant

la formazione dell’etica

Relatore Candidato

Ch.mo Prof. Paolo Bosso

Marco Ivaldo Matr. 263-126

ANNO ACCADEMICO 2010/2011

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Indice

Introduzione………………………………………………….p. 6

Parte I: scritti “precritici” e fondazionali

Gli anni ‘60

1. Principi formali e materiali: l’Indagine, p. 9 - 2. Le

Osservazioni: il nuovo ruolo del sentimento morale, p. 14 - 3. Le

Annotazioni alle Osservazioni: Socrate, Rousseau e la filosofia

analitica, p. 17 - 4. I Sogni di un visionario: il formalismo

dell’etica e il sentimento morale come riflesso, p. 23

Gli anni ‘70

5. La Dissertazione: la filosofia pratica non si “rompe”, p. 28

Gli anni ‘80

6. La Fondazione della metafisica dei costumi: la teoria morale

verso una difficile sistematizzazione, p. 32 - Excursus:

l’interesse, efficacia pratica dell’etica: il problema della

valutazione e della motivazione, p. 53

Parte II: le novità della Critica della Ragion Pratica

1. La Critica della Ragion Pratica: la sua funzione

aggregatrice e il fatto della ragione, p. 69 - Excursus: i

presupposti teorici del “fatto della ragione” nelle riflessioni

degli anni ’70, p. 84 - 1.1 Il movente, p. 86 – Excursus: il

movente come disposizione soggettiva. La questione

terminologica del sentimento morale in alcuni scritti degli anni

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’60 – ’70, p. 90 – 2. La rinuncia alla deduzione trascendentale.

Un ritorno di metodo nel solco della continuità, p. 95

Parte III: lo statuto della filosofia morale di Kant

1. Obbligazione: l’eredità di Baumgarten nella teoria morale

kantiana e la critica alle sue leggi morali, p. 97 – 2.

L’insostenibilità di un’etica pre-critica. L’evoluzione della

filosofia morale kantiana non è un figliol prodigo, p. 109 –

Conclusione: il difficile statuto dell’etica di Kant e l’ironia di

una morale non-teoretica: il punto cieco della motivazione e

l’emancipazione dall’antropologia, p. 117

3

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Desidero ringraziare il professore

Marco Ivaldo, relatore di questa tesi,

per i suoi preziosi consigli, l’aiuto e la

grande disponibilità e cortesia

dimostratemi.

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“La filosofia morale ha questa particolare sorte, di

avere, ancor più della metafisica, l’apparenza di

scienza e l’aspetto di sapere ben fondato, sebbene non

sia né l’una né l’altra cosa”

Immanuel Kant, Programma di lezioni per il semestre invernale

1765-66.

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Introduzione

Da tempo si sa che la teoria morale di Kant, quella degli

imperativi categorici, dell’obbligazione e del rispetto della

legge, non si trova per la prima volta nella Critica della Ragion

Pratica. L’interpretazione storico-evolutiva dell’etica kantiana1,

che vuole un filosofo morale a due anime influenzato da

“Hutcheson e altri” prima e dalle posizioni della

Schulphilosophie poi, non sembra più valida. A partire dagli

anni ‘50 del secolo scorso gli studi di Henrich2, seguiti

dall’imponente lavoro filologico di Schmucker3, hanno

permesso di scoprire che l’evoluzione dell’etica del filosofo di

Königsberg non segue la stessa strada dell’idealismo

trascendentale e dalla teoria della conoscenza. Dalla prima

formulazione dei concetti morali, riscontrabile a partire dal

17554 fino alla fatidica data del 17855, emergerebbe una teoria

etica già completa nei suoi concetti fondamentali. Questo non

significa che la morale degli scritti precritici ha gli stessi

contenuti delle opere fondazionali e della Critica della Ragion

Pratica. Certo è però che i concetti e i principi morali presentati

in quel periodo non subiranno modifiche sostanziali.

L’evoluzione dell’etica kantiana cosiddetta precritica, nel

periodo che va dalla metà degli anni ‘60 fino alla metà degli

anni ‘80 del XVIII secolo, va letta come un lungo tentativo di

emancipare la teoria morale dall’antropologia. Che si ritenga

1 Così com’è chiamata da GIOVANNI B. SALA in Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica. Un commento, ed. Vita e Pensiero, Milano 2009, parte I, Due interpretazioni dell’etica di Kant. Come nota Sala, è l’opera fondamentale di J. SCHMUCHER: Die Ursprünge der Ethik Kants in seinen vorkritischen Schriften und Reflexionen, 1961, a rappresentare il superamento della rigida distinzione tra un etica precritica e un’etica critica. 2 D. HENRICH, Hutcheson und Kant, in «Kant-Studien». 49 (1957). Tale testo, e le sue citazioni, sarà riportato nel corso della tesi così com’è contenuto in S. Bacin, Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, ed.Il Mulino, Napoli 2006.3 J. SCHMUCKER: Die Ursprünge der Ethik Kants in seinen vorkritischen Schriften und Reflexionen, Meisenheim 1961. Tale testo, e le sue citazioni, sarà riportato nel corso della tesi così com’è contenuto in S. Bacin, Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, ed.Il Mulino, Napoli 2006. 4 Anno di pubblicazione della Storia Generale della natura e teorie del cielo e della Nuova illustrazione dei principi della conoscenza metafisica. Generalmente, però, si ritiene che la prima trattazione articolata di etica e filosofia pratica, come nota S. BACIN in Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, ed.Il Mulino, Napoli 2006, avvenga nel periodo compreso tra il 1762-1764 grazie agli appunti di HERDER sulle lezioni del filosofo tedesco tenute in quegli anni.5 Anno di pubblicazione della Fondazione della Metafisica dei Costumi.

6

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questo tentativo riuscito o in parte fallito dipende da come si

considera il razionalismo etico che Kant formula lentamente,

con correzioni e ripetizioni, lungo un arco di quasi trent’anni. Se

si guarda l’etica kantiana come un tentativo di rendere la morale

autonoma da ogni fondazione empirica e da ogni descrizione

della “natura umana” allora tutto sommato si tratta di un

tentativo riuscito. Se invece si considera il razionalismo etico di

Kant come un tentativo radicale di purificazione dei principi

etici da qualunque senso morale, allora il suo lavoro può dirsi

fallito perché di fatto impossibile da realizzare.

La concezione di una morale che differisse da quelle in voga nel

periodo in cui il filosofo scriveva non richiedeva una rivoluzione

copernicana - come nella teoria della conoscenza - ma proprio il

contributo di quelle stesse filosofie morali a lui contemporanee,

considerate però dallo stesso autore fondamentalmente

incomplete.

Questo lavoro di tesi verterà dapprima su un’indagine storica

della morale kantiana precritica. Infine, dopo aver rintracciato i

concetti etici nelle opere di quel periodo6, ritornerò sullo status

questionis del “non-senso” di un’etica precritica, ovvero

sull’insostenibilità di un argomento che giudichi l’etica degli

anni ’60-70 sostanzialmente diversa da quella che inizia con gli

scritti degli anni ‘80.

Kant, guardando al contesto e al dibattito morale di quegli anni,

dominato da un lato dai moralisti inglesi/scozzesi (Hume e

Hutcheson in particolare) e, dall’altro, dalla Schulphilosophie,

considerava negativamente i primi per il ruolo dato al

sentimento morale, i secondi invece, con Wolff e Baumgarten

massimi rappresentanti, erano criticati per i loro principi etici

considerati vuoti e formali7, con tratti eccessivamente 6 Oltre agli appunti di Herder e le lettere di quest’ultimo a Kant presentati nel testo di S. BACIN, Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, i testi precritici che seguirò saranno quelli raccolti nel volume Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000. In particolare saranno i seguenti: Nuova illustrazione dei principi della conoscenza metafisica; Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale; Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime; Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica; La forma e i principi del mondo sensibile e intellegibile.7 Si pensi alla definizione dell’azione morale in BAUMGARTEN come «respectus et habitudo actionis liberae ad perfectionem» (Initia philosophia practicae primae § 36) criticata da Kant come astratta e formale.

7

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psicologici. Eppure entrambe le posizioni – l’inglese/scozzese in

forza della concretezza dei concetti, la tedesca grazie alla

sistematicità del metodo8 - offrono a Kant spunti di riflessione

determinanti per la formazione di un’etica del dovere costruita

attraverso una filosofia pratica soggettiva. Per il filosofo il

confronto con i pensatori morali del suo tempo ha rappresentato

una palestra nella quale ha potuto mettere alla prova i suoi

concetti morali. Un periodo nel quale matura un razionalismo

etico scevro quasi del tutto di elementi antropologici, anche se

non ancora sistematizzato.

Parte I: scritti precritici e fondazionali

8 Come osserva KUEHN in The moral dimension of Kant’s inaugural dissertation: a new prospective on the great light of 1769?, in Procedings of the English international Kant-congress, ed. by H. Robinson, Milwaukee 1995, vol. I, pp.372-92; cf. M. KUEHN, Kant, a biography, ed. Cambridge University Press, Cambridge 2001, p. 183, cit. in S. Bacin, Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, pp. 1-14; secondo Kuehn per Kant non vi era opposizione completa tra le teorie della scuola wolffiana e della linea scozzese/inglese. Anzi, negli anni ’60 il suo intento principale era quello di combinarle in una teoria nuova.

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Gli anni ’60

1. Principi formali e materiali : l’Indagine (1763)

Tralasciando i due scritti nei quali Kant accenna per la prima

volta a questioni di filosofia morale9, la prima trattazione degna

di nota sull’etica risale al periodo che va dal 1762 al 1764, anni

nei quali ritroviamo non solo gli appunti di Herder alle lezioni di

Kant sulla filosofia pratica, ma soprattutto l’importante saggio

Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e

della morale pubblicato nel 1764. Nella meditazione IV di

questo testo si affacciano, per la prima volta, in un’esposizione

non sufficientemente articolata a causa dei tempi di consegna

per il concorso dell’Accademia delle Scienze di Berlino, due

concetti morali fondamentali dell’etica kantiana:

l’obbligazione10 e il sentimento morale.

Per quanto riguarda il primo concetto qui Kant, dopo la debita

distinzione fatta nei capitoli precedenti tra metodo matematico-

sintetico e filosofico-analitico11, afferma che l’obbligazione è

quel principio che dice che «si deve fare questa o quella cosa ed

ometterne un’altra». Da qui la famosa distinzione tra necessitas

problematica e necessitas legalis, ovvero il dovere di un’azione

come mezzo o come fine (distinzione centrale nella Fondazione

della Metafisica dei Costumi per l’introduzione degli

imperativi). Solo la necessitas legalis vale come norma dato che

mi impone di fare immediatamente qualcosa senza che alcun

mezzo abbia necessità alcuna. La necessità dei fini impone

l’azione come immediatamente necessaria, non già come

9 Storia Generale della natura e teorie del cielo e Nuova illustrazione dei principi della conoscenza metafisica, entrambi pubblicati nel 1755. Questi scritti non vanno oltre meri accenni all’etica. Per esempio, nello scritto per l’abilitazione Nuova illustrazione, Kant affronta principalmente argomenti logici e gnoseologici, limitandosi verso la fine del testo ad un breve excursus sul problema dell’azione libera e indeterminata (Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, sez. II, Addizioni al problema nono, pp. 35-37). 10 Normatività nel testo.11 Secondo il filosofo le matematiche procedono per “collegamenti arbitrari” (cit. p.219) di concetti considerati come dati “secondo la [loro] rappresentazione chiara e comune” (cit. p. 221); la metafisica invece parte da concetti che “derivano il loro significato dall’uso corrente” (cit. p. 228). Il metodo matematico parte dalle definizioni, la metafisica necessariamente no, dovendo chiarire preliminarmente l’uso adatto e il significato specifico di ogni concetto.

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condizionata da un certo fine e quindi mediata da un mezzo. Da

qui Kant, ereditando la formula wolffiana12, pone il principio

formale del dovere: fa la cosa più perfetta che sia possibile per

tuo mezzo, ometti di fare ciò che per tuo mezzo è

d’impedimento alla massima perfezione possibile13. Ma per il

filosofo questo principio non è sufficiente, risulta vuoto, non

può spingere il soggetto ad agire moralmente (non a caso lo

chiama principio formale), a meno che accanto ad esso non si

ponga un principio materiale nel quale l’uomo, anziché

rappresentarsi solamente il bene, possa sentirlo. Ed è proprio il

sentimento morale il principio materiale che nel testo viene

subito dopo definito come «quella facoltà di sentire il Bene»

(p.245). La funzione materiale del sentimento morale permette a

Kant di distinguere questo sentimento da quello prettamente

estetico14.

La filosofia pratica deve essere indipendente tanto da una

fondazione teoretico-intellettuale di scuola wolffiana, quanto da

una empirica di scuola scozzese, rispecchiando invece due

esigenze: l’una descrittiva dove non basta dire “fa ciò che è in

tuo dovere” o “fa la cosa più perfetta” ma come agire

moralmente; l’altra normativa dove l’agire morale è sentito

come un dovere che viene posto necessariamente, ovvero

avvertito come un comando soggettivo.

Per Kant quindi la volontà, considerata come libera, viene spinta

dalla perfezione e dal bene, quest’ultimo sinonimo, in questo

caso, del fine. Ma si tratta di due principi, l’uno formale e l’altro

materiale, senza mediazione alcuna. Il principio formale di

perfezione è privo di contenuto e il principio materiale del bene

è del tutto indimostrabile, ovvero non ulteriormente riducibile.

L’assenza di mediazione tra questi due principi si riflette in

12 C. WOLFF, Etica Tedesca, § 12: «Fa quello che rende te e il tuo stato, o quello degli altri, più perfetto; tralascia quello che rende questo stato meno perfetto».13 cit. I. KANT, Scritti precritici, p.245.14 Così in I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena: «Nei principi metafisici dell’estetica è possibile riscontrare il sentimento a-morale nella sua diversità; e nei principi della filosofia morale, il diverso sentimento morale degli uomini secondo la diversità di sesso, età, educazione, governi, razze e climi».

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un’incertezza di fondo nel testo dell’Indagine, riassunta da Kant

verso la fine quando afferma che «i concetti fondamentali

supremi della normatività devono ancora esser determinati con

maggior sicurezza» (cit. p.246).

Obbligazione e sentimento morale, nel significato che ne dà

Kant, sono due termini risalenti a due correnti di pensiero in

voga in quel periodo. Il primo appartiene alla cosiddetta

Schulphilosophie ed ha in Alexander Gottlieb Baumgarten15 il

suo massimo rappresentante. Per Baumgarten l’obbligazione è

ciò che rende una determinazione libera moralmente necessaria

e moralmente impossibile il suo contrario16 - come si può notare,

si tratta di una formula non dissimile da quella kantiana secondo

cui l’obbligazione è ciò in base al quale “si deve fare una cosa

ed ometterne un’altra”. Il sentimento morale così come viene

presentato da Kant risale invece all’uso che ne fa la filosofia

morale di stampo scozzese, in particolare in Francis Hutcheson,

dove il sentimento viene riconosciuto come una sensibilità

connaturata al soggetto agente, legato al «piacere immediato che

si prova per delle azioni libere»17.

Nonostante l’incertezza di fondo del testo e l’esposizione non

esauriente, da questa prima lettura dell’Indagine possiamo trarre

due importanti conclusioni. In primo luogo che la morale

kantiana, pur essendo in una fase inaugurale, ha già un’identità

specifica, un taglio concettuale e un’impostazione che non

subirà modifiche sostanziali: un’etica del dovere, della norma18,

con l’obbligazione come concetto fondante. In secondo luogo

che un’etica così concepita è incompleta, ha ancora molta strada

da fare sotto l’aspetto teorico. Poiché il fine o il bene non sono

15 In A. G. BAUMGARTEN, Initia philosophiae praticae primae e in Ethica philosophica.16 cit. S. BACIN, Il senso dell’etica, Kant e la costruzione di una teoria morale, cit., p.15.17 Appunti di Herder alle lezioni di filosofia pratica di Kant, cit. da S.BACIN, ibidem.18 Seguo qui la classica distinzione kantiana tra etica antica “della vita buona” ed etica moderna del “dovere”. Come scrive C. Schwaiger in La Filosofia Pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico, Alfredo Guida Editore, Napoli 1999, a cura di G. Cacciatore, V. Gessa-Kurotschke, H. Poser, M. Sanna: «Ernst Tugendhat ha una volta sintetizzato la fondamentale svolta della ‘via antiqua’ alla ‘via moderna’ con questa incisiva formulazione: “La problematica dell’etica antica era: cosa voglio davvero per me; quella dell’etica moderna è: cosa devo fare in rapporto agli altri”». All’etica antica corrisponde un etica del desiderio, in quella moderna un etica del dovere.

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contenuti nella regola della perfezione – perché, secondo Kant,

dice sostanzialmente che l’agire morale è agire moralmente - è

necessario porre accanto a questo principio formale un principio

materiale che mi avverta che sto agendo moralmente. Questo

principio è il sentimento morale, a sua volta indimostrabile

perché immediatamente sentito.

La quarta meditazione mette in scena due termini molto diversi

tra loro che si rifanno a un’idea di filosofia pratica fondata su

presupposti differenti. Quella di scuola appartiene alle

cosiddette etiche intellettualistiche e Kant ne eredita

l’impostazione partendo dai manuali di Baumgarten. Quella

cosiddetta “scozzese” che, invece, segue le esigenze di una

Popularphilosophie da cui il filosofo prende spunto a partire

dalle riflessioni di Hutcheson.

Secondo Kant, la causa principale «riguardo i difetti della

filosofia pratica» (cit. p.246) risiede proprio nell’incompletezza

di queste due influenti teorie etiche. A Baumgarten Kant

imputava l’astrattezza di un concetto – l’obbligazione – che

sembrava quasi essere indifferente a un soggetto come referente,

a Hutcheson un sentimento morale “egoistico”19. Egli sa bene

che la soluzione non sta nell’unione di due filosofie così diverse,

né in medias res. Tutt’al più entrambe riflettono per Kant una

doppia esigenza nella costruzione di una teoria etica: teorico-

sistematica nei tedeschi e teleologica negli scozzesi. Per Kant

l’obbligazione, per quanto sia un concetto chiaro, non è stato

ancora inquadrato in un’elaborazione teorica sufficiente, e il

sentimento gode al momento solo di “belle osservazioni” di

natura antropologica. Resta il problema di come mediare questi

due concetti da cui derivano la forma e la materia dei principi

morali. In realtà vedremo come Kant non seguirà la strada della

mediazione. Definirà meglio cos’è il sentimento morale,

19 Su questa critica la riflessione di S. BACIN nel Senso dell’etica rende giustizia alle teorie di Hutcheson. In realtà, osserva Bacin, la critica di Kant al filosofo scozzese non è fondata poiché quest’ultimo ha sempre contestato chiaramente la riduzione dei moventi dell’azione all’interesse privato. Secondo Bacin la giustificazione a questo fraintendimento da parte di Kant, visto che è molto probabile che avesse letto i testi di Hutcheson, risiede nel suo impegno a costruire una teoria morale che non si fondi su impulsi non morali, ovvero da un lato sul mero sentimento senza un supporto razionale e, dall’altro, su un dovere astratto a cui manca una motivazione materiale.

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emancipandolo sempre più dall’antropologia, ma la strada che

seguirà lo porterà verso una concezione del dovere che valga

esso stesso come principio materiale.

2. Le Osservazioni : il nuovo ruolo del sentimento morale

(1764)

La seconda sezione delle Osservazioni sul sentimento del bello e

del sublime20 contiene una nuova caratterizzazione del

20 L’edizione di riferimento per questo testo sarà I. KANT, Scritti precritici, cit.

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sentimento morale, determinante in vista degli scritti

fondazionali e nella formulazione del secondo imperativo

categorico.

Nel carattere morale dell’uomo Kant vede il bello nelle “buone

qualità morali” (p.301) e il sublime nella virtù. Ora è proprio il

discorso sulla “vera virtù” (p.303) a dare al sentimento morale

una svolta decisiva:

«La vera virtù […] può essere inculcata solo in base

a principi i quali, quanto più sono generali, tanto più

la rendono sublime e nobile. Tali principi non sono

regole speculative, ma consistono nella

consapevolezza di un sentimento che abita in ogni

cuore umano […]. Credo di riassumere tutto quanto,

se dico che si tratta del sentimento della bellezza e

dignità della natura umana»21.

Quel “sentimento del bene non riducibile ad altro”22 che si trova

nell’Indagine è ora diventato una qualità specifica: non è

soltanto semplice, ma universale. In questo modo il fondamento

materiale dell’obbligazione riceve una nuova determinazione,

nella direzione che troverà una felice espressione nella seconda

formula dell’imperativo categorico: l’uomo quale fine in se

stesso23.

Si tratta di una piccola “svolta” che coinvolge non solo il

sentimento ma il metodo dell’indagine filosofica, in direzione di

una filosofia pratica soggettiva24. L’etica baumgartiana -

fondamentale nella formulazione del principio di obbligazione

su cui si basa l’agire morale kantiano – lasciava poco spazio al

soggetto. Anzi, era prettamente oggettiva25. Il «moralmente 21 cit. I. KANT, Scritti precritici, ibid., p. 303.22 cit. Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, in Scritti precritici, cit., p.245.23 Così nella Fondazione della Metafisica dei Costumi, ed. Laterza, Bari 2009, p. 91: «agisci in modo da trattare l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo».24 Per l’approfondimento di questo termine, rimando al testo di S.BACIN, ibidem, pp.51-66.25 Cf. BAUMGARTEN, Inizia, § 36: «moralitas actionibus tribuitur, vel quatenus spectantur, ut per se bonae malaeve, obiectiva (…) vel quatenus bonae malaeve sunt, propter arbitrium alicuius liberum, subiectiva».

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possibile» di Baumgarten26, in cui l’obbligazione esercita il suo

comando, va distinto per Kant in un senso oggettivo - ciò che è

lecito - e in un senso soggettivo - ciò che rientra nella facoltà

pratica degli esseri che agiscono27. Il limite di Baumgarten, e in

generale nella filosofia di scuola tedesca, era quello di

mantenersi all’interno di una dimensione oggettiva, con il

risultato di avere a che fare solo con principi formali astratti.

L’integrazione dell’impostazione di scuola con le letture di

Hutcheson e dei filosofi inglesi (Hume e Locke) permettono a

Kant di fare un passo oltre le tautologie del razionalismo etico

tedesco, concretizzando la teoria morale in forza di una

scomposizione del sentimento28: non ci si domanda più perché

gli uomini agiscono moralmente, ma quali sono le ragioni, le

appetizioni che spingono il soggetto ad agire in forza dei propri

motivi. Il sentimento in Kant ha una concezione ubiqua: da un

lato è legato alla sensibilità che ci porta a distinguere piacere e

dispiacere, dall’altro questa stessa distinzione porta a

determinarsi liberamente per il bene e per il male. Come

chiarirà ulteriormente Kant nelle Annotazioni alle osservazioni:

«Il sentimento di piacere o dispiacere può riguardare

o ciò rispetto a cui siamo passivi, o noi stessi,

considerati come un principio attivo in base alla

libertà del bene o del male. Quest’ultimo è il

sentimento morale»29.

Il sentimento morale non va confuso, quindi, con gli altri

sentimenti perché è tale che dà origine a principi che, in quanto

tali, sono universali. Il nuovo ruolo del sentimento nella

moralità rispecchia l’esigenza di un’indagine che tenga ben

presente la distinzione tra ciò che è soggettivo – la realtà

26 Così come citato da S.BACIN, ibid., p. 54, cf. BAUMGARTEN, Inizia (§ 10).27 Così in S. BACIN, ibid., p.54. Il testo di riferimento in cui Kant parla del moralmente possibile sono le lezioni di metafisica contenute negli appunti di Herder, Metaphysik Herder.28 Così in S.BACIN, ibid., p.55. 29 cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena, p. 164.

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dell’oggetto nella conoscenza che se ne ha - e ciò che è

oggettivo – le proprietà della cosa -, tra metodo analitico e

sintetico, filosofico e matematico.

3. Le Annotazioni alle Osservazioni : Socrate, Rousseau e la

filosofia analitica

Prima di analizzare le novità contenute nelle Annotazioni alle

Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, sarebbe

utile affrontare, in via preliminare, due argomenti largamente

dibattuti: la concezione della filosofia che Kant matura nel corso

della prima metà degli anni ’60 e il rapporto tra il filosofo di

Königsberg e Jean-Jacques Rousseau.

16

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L’importanza e l’ammirazione che Kant nutre per il filosofo

francese è innegabile. Basti tener conto delle stesse Annotazioni

quando afferma:

«la prima impressione che un lettore competente

[…] riceve dagli scritti di J.J.Rousseau, è che costui

sia uno scrittore dotato di una straordinaria

perspicacia di spirito»30.

Famosa è la nota dei biografi di Kant che raccontano di come il

filosofo tedesco fu talmente preso dalla lettura dell’Emile e del

Contrat Social da portarlo a rinunciare all’usuale passeggiata

pomeridiana.

Più spinosa è invece la questione a proposito dell’influsso che il

filosofo francese ebbe sul filosofo tedesco. Anche qui, come

nella storia dell’interpretazione dell’etica kantiana, verso la fine

degli anni ’50 del secolo scorso l’influsso del moralismo

rousseauiano su Kant è stato ridimensionato. Prima di questo

periodo si riteneva che nella formulazione dei primi principi

etici kantiani la figura di Rousseau, attraverso il suo pensiero

politico e i personaggi dei suoi romanzi, fosse determinante.

Con il lavoro di Schmucker invece avviene il cambio di

prospettiva quando quest’ultimo conclude che “ai grandi

rappresentanti dell’Illuminismo tedesco, Wolff e Crusius, va

attribuita un’importanza essenzialmente maggiore per lo

sviluppo dell’etica kantiana di quanto abitualmente non si faccia

e, viceversa, l’influsso dei moralisti britannici, e in un certo

senso anche di Rousseau, è stato corrispondentemente esagerato

dalla maggior parte degli interpreti”31. D’altronde è lo stesso

Kant, in un’annotazione molto nota32, a sottolineare la differenza

30 Cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena, p. 63.31 J. Schmucker, Die Ursprunge der Ethik Kants, 21 s., così come tradotto nel testo di G.B. Sala, Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica. Un commento, cit., pp. 29-30.32 «Rousseau. Procede sinteticamente e comincia dall’uomo allo stato di natura; io procedo analiticamente e comincio dall’uomo costumato», cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena.

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tra sé e il filosofo di Ginevra. Da Rousseau Kant riceve un forte

impulso alla ricerca morale partendo da elementi concreti, anti-

intellettuali, senza “esperimenti mentali” di sorta. Una spinta a

una riflessione etica non puramente epistemologica ma a partire

dal “vivente”. Come sintetizza degnamente Cassirer33, Kant non

prende concetti e argomenti da Rousseau ma un “movimento del

pensiero”.

La differenza sostanziale tra i due autori la troviamo

nell’impostazione metodologica della ricerca morale. Se

entrambi partono dall’uomo, per Kant si tratta dell’uomo

civilizzato e il problema morale rientra nell’ottica di ciò che

contrasta con quanto è effettivamente presente in natura, mentre

Rousseau parte dall’uomo allo stato di natura e la riflessione

morale prende una piega genealogica34. Proprio la preferenza in

ambito morale dell’uomo civilizzato rispetto all’uomo allo stato

di natura35 rispecchia quella che è una delle caratteristiche della

morale kantiana: l’universalità. L’uomo allo stato di natura è un

uomo solo, soffre di solipsismo morale36, quello civilizzato è

non solo reale ma si presenta in quanto tale in relazione agli altri

uomini. Tutta l’autenticità della coerenza della volontà con se

stessa – la volontà pura, quella che nel contraddire se stessa

contraddice la volontà di tutti - si ritrova in questa

considerazione “civica” dell’uomo.

Questa differenza di metodo viene maturata da Kant proprio

intorno alla prima metà degli anni ’60 del XVIII secolo, quando

inizia a concepire un metodo filosofico sempre più lontano da

elementi antropologico-empirici e più vicino a una concezione

33 «Secondo Cassirer, la peculiarità del pensiero di Rousseau fu quella di non costituire una “salda e compiuta dottrina”, bensì “un movimento sempre rinnovatesi del pensiero”» cit. S. BACIN, Il senso dell’etica, Kant e la costruzione di una teoria morale, cit. da E. Cassirer, Rousseau, Kant, Goethe, ed. Donzelli, Roma 1999, a cura di G. Raio.34 Su questa interpretazione S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., p.35.35 Così nelle Annotazioni, ibid., p. 35: «Si distingua accuratamente tra un uomo buono per natura e uno buono secondo la morale. Il primo non ha bisogno di domare gli istinti mal orientati perché i suoi sono naturali e buoni […]. Il secondo è 1. solo un uomo costumato e 2. dotato di morale. Nel primo caso, l’uomo ha molte gioie fantastiche alle quali, per restare buono, oppone un’idea che non può mai diventare intuitiva. Il secondo è un uomo morale che, portando la sua moralità al di là dello stato di natura, l’estende fino all’oggetto del suo desiderio e della sua fede».36 «La disposizione ad agire in base a una volontà singola è solipsismo morale; quella ad agire in base a una volontà generale è giustizia morale». Cit. I. KANT, Annotazioni, ibid., p. 164.

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razionale e “socratica”. Scrive il filosofo in una lettera a

Lambert datata 1765:

«Per diversi anni ho rivolto le mie riflessioni

filosofiche in tutte le direzioni immaginabili e, dopo

aver mutato molte volte opinione, cercando sempre

le fonti dell’errore e della corretta intelligenza del

modo di procedere, sono finalmente giunto al punto

di considerarmi sicuro del metodo che si deve

osservare, qualora ci si voglia sottrarre a

quell’illusione di sapere la quale fa sì che ad ogni

momento si creda di essere giunti alla soluzione»37.

Ritroviamo qui tutta la terminologia dei dialoghi socratici:

l’opinione, l’errore, l’illusione di sapere. E’ il metodo

dell’analisi – opposto al metodo sintetico di Rousseau – e

dell’attenzione38. Alla deduzione astratta di un uomo impossibile

da trovare quale è quello allo stato di natura, Kant predilige

l’indagine dei concetti morali così come gli uomini in quanto

tali li possiedono. Una concezione maieutica della riflessione

filosofica – a cominciare dalla distinzione tra metodo

matematico e filosofico che ritroviamo nell’Indagine - che non

poteva non avere ripercussioni sulla concezione della morale. La

figura di Socrate richiama l’esigenza di un’indagine e di una

teoria dell’agire senza elementi sovrannaturali. In questo modo

si rende possibile la concezione di una riflessione morale che si

basa sulla coscienza comune senza per questo essere mera

antropologia39. L’antropologia morale non è sufficiente a

37 I. KANT, Epistolario filosofico 1761-1800, tr. it. di O. Meo, ed. Il Melangolo, Genova 1990, Briefwechsel, 41. Un altro esempio di riflessione “socratica” la ritroviamo nelle Annotazioni, ibid., p. 55: «Non posso rendere nessuno migliore se non attraverso quel poco di bene che è in lui; non voglio rendere nessuno più assennato se non sfruttando quel resto di intelligenza che è in lui». Ancora a p. 50: «Non posso mai convincere un altro uomo se non attraverso i suoi stessi pensieri». C’è però da sottolineare come entrambe le riflessioni siano attinenti alla concezione kantiana della natura morale dell’uomo più che all’arte maieutica. Infatti le due riflessioni seguono idealmente l’affermazione precedente a p. 45: «La differenza tra una morale falsa e una sana è che la prima cerca soltanto rimedi contro il male, mentre la seconda provvede a che non ci siano affatto cause del male». 38 Termine adoperato da M. T. Catena nell’introduzione alle Annotazioni, ibid., p. 15. 39 Per l’approfondimento dell’approccio “socratico” di Kant si veda S. BACIN, ibid., pp. 39-42, 94-96.

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fondare una teoria dell’azione che sia insieme universale e

necessaria. Certo, considera l’agire all’interno di una

dimensione soggettiva, ma rinuncia a ogni normatività. Ciò che

emerge dalle considerazioni sparse delle Annotazioni è una

filosofia analitica e pragmatica insieme, nel suo doppio compito

di un’analisi delle passioni e delle “rappresentazioni oscure”

dell’umano e di individuazione di una regola, di una norma cui

conformare ciò che si è osservato.

L’emancipazione della teoria morale di Kant dall’antropologia,

ma soprattutto dall’estetica, inizia in queste pagine. Un

cammino che non si concluderà mai, in coerenza con la sua

stessa concezione della filosofia che non parte dalle definizioni

ma distingue i concetti senza mai contrapporli.

L’esigenza di emancipare la morale da una fondazione

antropologica ci porta alle novità contenute nelle Annotazioni. In

questo testo le considerazioni più importanti in ambito morale le

troviamo nella parte iniziale - già analizzata in precedenza a

proposito del rapporto con Rousseau e dell’approccio socratico,

note incluse - e nella parte finale. Qui, nella parte conclusiva, vi

è una nuova caratterizzazione della volontà. Essa non è più

fondata sul doppio registro materiale-formale che abbiamo visto

contenuto nel concetto di obbligazione così come presentato

nell’Indagine, ma è in sé essa stessa sufficiente a sostenere la

propria necessità. Scrive Kant:

«Un’azione, osservata secondo la volontà generale

degli uomini è, dal punto di vista esterno,

moralmente impossibile (illecita) se si contraddice in

se stessa»40.

E più avanti:

40 cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ibid., pp.179.

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«Infatti, fintanto che qualcosa dipende interamente

dalla volontà di qualcuno, allora sarà impossibile

che egli stesso si contraddica (oggettivamente) […].

La volontà degli uomini invece si contraddirebbe se

essi volessero ciò che, secondo la volontà generale,

aborriscono. In caso di conflitto, la volontà generale

prevale sulla volontà del singolo»41.

Il sostegno materiale del sentimento morale non c’è più, è

sufficiente la coerenza della volontà con se stessa42. Il

sentimento morale ha sempre l’importante ruolo di suscitare

piacere o dispiacere per ciò che si fa, ma non funge più da

principio materiale dell’azione. Se la volontà privata è in

accordo, o meglio è essa stessa un tutt’uno con la volontà

comune, allora è buona.

«La bontà oggettiva di un’azione libera […] o, detto

in altri termini, la sua necessità oggettiva, può essere

sia condizionata sia categorica. La prima è la bontà

di un’azione come mezzo, la seconda, come fine

[…]. Una buona azione libera condizionata non è

pertanto categoricamente necessaria: ad esempio, la

mia generosità è utile ad altri bisognosi, si deve

quindi essere generosi. Per niente. Ma se qualcuno

vuole essere utile agli altri, allora, che sia generoso!

Se invece l’azione nata da una generosità sincera, è

non solamente utile agli altri, ma buona in sé, allora

è un dovere»43.

Qui è contenuta tutta la forza del razionalismo kantiano.

L’antropologia non può da sola valutare la bontà di un’azione

basata com’è sull’osservazione empirica: mi accorgo che “la

41 cit. I. KANT, ibid., p. 179-180.42 Così come la definisce GIOVANNI B. SALA in Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica. Un commento, cit., p. 49. 43 cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ibid., p. 167-168.

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mia generosità è utile agli altri, quindi sono generoso”; semmai

è il contrario, è la stessa volontà a determinare l’agire pratico: se

voglio “essere utile agli altri, allora, che sia generoso!”44.

Queste annotazioni finali, oltre a segnalare l’influsso di

Rousseau nella terminologia (vedi “volontà generale”) e

l’origine della prima formulazione dell’imperativo categorico45,

segnano un’importante passo in avanti della teoria etica:

l’universalizzabilità delle nostre azioni in base al principio

formale e insieme materiale della volontà.

4. I Sogni di un visionario : il formalismo dell’etica e il

sentimento morale come riflesso (1766)

Sebbene questo scritto si occupi quasi per intero della

“visionaria” questione sulla presunta comunione della nostra

anima con il mondo immateriale degli spiriti, nondimeno sono

presenti importanti osservazioni che rafforzano e pongono in

maniera estremamente chiara i concetti di obbligazione e

sentimento morale. Questo testo potrebbe essere considerato

come una sorta di preambolo all’impostazione critica46 della

44 cfr., ibid., p. 167-168.45 «Agisci soltanto secondo quella massima per mezzo della quale puoi insieme volere che essa divenga una legge universale». Cit. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, ed. Laterza, Bari 2009, p. 75.46 «La metafisica […] dà due vantaggi. Il primo è questo: soddisfare i compiti proposti dall’animo desioso di sapere, scrutando con la ragione le proprietà più recondite delle cose […]. L’altro vantaggio è più conforme alla natura dell’intelletto umano e consiste in ciò: conoscere se il compito è anche determinato per ciò che si può sapere, e qual

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filosofia kantiana che troverà non a caso quattro anni dopo il suo

manifesto nella Dissertazione.

E’ curioso il modo in cui procede il testo. L’argomento, il

credere o non credere al mondo immateriale degli spiriti, è

alquanto poco “filosofico”. Dissertare su tali questioni è

rischioso, a maggior ragione se a farlo è un amante della

saggezza. Chi tra questi, si domanda Kant, non ha mai «pur una

volta fatto la più ingenua figura che si possa mai

immaginare?»47. Kant, giudicando in fallo la classica

impostazione “accademica”48, sembra quasi sfruttare tale tema

da trampolino di lancio per importanti considerazioni di natura

morale. Nel secondo capitolo del testo troviamo, condensate in

tre pagine, quello che ci interessa.

Tra le forze che muovono il cuore umano, scrive Kant49, ce ne

sono alcune che non si riferiscono, come mezzi, all’interesse

personale, come un fine interno dell’uomo, ma pongono il loro

moto fuori di noi. Cosicché sorge un conflitto tra vantaggio

proprio e vantaggio comune. Questa tendenza fondamentale

dell’uomo si manifesta nell’ambito della conoscenza

nell’esigenza di conformare il nostro giudizio a quello altrui.

Ancor più importante e “plausibile” però, secondo il filosofo

tedesco, è osservare questa tendenza nella volontà, dove una

potenza segreta ci spinge a indirizzare la nostra intenzione al

benessere altrui.

«Non è adunque soltanto in noi il punto in cui

concorrono le linee direttive dei nostri impulsi, ma

vi sono anche, fuori di noi, nell’altrui volere, forze

che muovono noi. Da ciò nascono gli stimoli morali

che spesso ci trascinano contro quanto richiede

rapporto ha la quistione con i concetti dell’esperienza, sui quali devono sempre poggiare tutti i nostri giudizi. In quanto la metafisica è scienza dei limiti della ragione umana». Cit. I. KANT, Scritti precritici, cit., p. 399.47 cit. I. KANT, ibid., p. 349.48 «Siccome il non credere, senza ragione, nulla del molto che vien raccontato con una qualche apparenza di verità, è un pregiudizio altrettanto sciocco quanto il creder, senza esame, tutto ciò che la voce comune dice, così l’autore di questo scritto, per evitare il primo pregiudizio, si lasciò trascinare dalla parte del secondo». Cit. I.KANT, ibid., p. 350.49 I. KANT, ibid., p.365.

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l’interesse personale in modo che manifestano la

loro realtà la forte legge del dovere»50.

E’, come dirà qualche rigo dopo, la “regola del volere

universale”. L’”unità morale” delle nature pensanti viene qui

considerata a tutti gli effetti, per la prima volta, come una legge:

la volontà è una forza normativa determinata dalla dipendenza

della volontà privata da quella comune, che diventa così volontà

universale. Il fatto che Kant più avanti respinga l’ipotesi

secondo cui questa volontà universale è l’effetto dell’unità delle

anime degli uomini o delle sostanze spirituali51, non fa che

rafforzare razionalmente piuttosto che indebolire la regola del

volere universale. Ciò che è contenuto nelle annotazioni finali

delle Osservazioni52 a proposito della volontà riceve qui la sua

più sintetica espressione. Eliminando ogni residuo metafisico

(sinonimo in questo caso di “visionario” e “soprannaturale”)

quello che resta è l’autentica dimensione razionale, o meglio

formale, della volontà: la legge morale quale legge della volontà

universale. L’etica approda così a tutti gli effetti nel formalismo.

Che fine ha fatto il sentimento morale? Se la legge morale è,

ridondantemente, secondo la forma la volontà universale e

secondo la materia l’accordo della volontà con se stessa – in

pratica si parla della stessa cosa – sembra che il sentimento di

piacere e dispiacere non abbia peso nel valorizzare l’azione.

Eppure le cose non stanno così. Anzi, qui il sentimento morale

riceve una sistemazione tale che, per quanto sia sempre stata

ritenuta problematica dallo stesso filosofo all’interno

dell’impianto sistematico e formale dell’etica, non subirà più

altre modifiche sostanziali. Subito dopo aver esposto la regola

del volere universale, infatti, il filosofo afferma:

50 cit. I. KANT, ibid., p. 366. 51 Quando Kant conclude il capitolo secondo citando il cocchiere di Tycho Brahe: «Buon signore, voi vi intenderete certo del cielo, ma qui, sulla terra, voi siete un pazzo». Cit. I. KANT, ibid., p. 373. 52 Rimando al mio testo, pp.15-17.

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«Se questa costrizione del volere universale […] la

si vuol chiamare sentimento morale, si parla di essa

soltanto come fenomeno di ciò che in noi avviene,

senza stabilirne le cause […]. Non dovrebbe esser

possibile rappresentarsi tal fenomeno in modo che il

sentimento morale sia questo sentir la dipendenza

del volere singolo dal volere universale?»53.

Le novità sono due. In primo luogo che il sentimento morale è la

manifestazione di qualcosa, ovvero un fenomeno, non più un

principio. In secondo luogo che questo fenomeno è una sorta di

riflesso della volontà. Inoltre, essendo il sentimento qui in gioco

legato ad un agire in conformità con la volontà di tutti gli altri

uomini, ed essendo la “singolarità propria in lotta con l’utilità

universale”, è chiaro che viene avvertito in primo luogo come

una costrizione. E quattro anni dopo in una Reflexion troviamo:

«La teoria del sentimento morale è più una ipotesi

per spiegare il fenomeno dell’approvazione che

accordiamo ad alcuni tipi di azioni, piuttosto che una

dottrina che debba stabilire massime e principi primi

che valgano oggettivamente su come si debba

apprezzare o respingere, fare o non fare qualcosa»54.

Il sentimento – o senso - morale non stabilisce più un principio

materiale dell’agire ma accompagna l’azione approvando ciò

che si è scelto di fare.

Seppur in poche pagine, all’interno di considerazioni dallo

scarso sapore speculativo e sistematico, questo testo ci presenta,

in un modo che potremmo dire definitivo, due concetti cardine

53 cit. I. KANT, ibid., p. 367.54 cit. Reflexion 6626, XIX 116-17; 1769-70. Le Reflexionen sono – com’è noto - appunti manoscritti compresi nei volumi XIV-XIX dell’edizione dell’Accademia delle Scienze di Berlino, Berlin-New York 1900. La citazione è stata presa in S. BACIN, Il senso dell’etica, cit., pp. 75-76.

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della teoria etica kantiana, quello fondante dell’obbligazione e

quello più problematico del sentimento morale.

Dopo i Sogni di un visionario la riflessione etica di Kant ebbe il

suo secondo periodo di silenzio (dopo quello del 1759-1762)55

che, escludendo alcune pagine della Dissertazione, terminerà

circa dieci anni dopo. E non è un caso. In questo periodo il

filosofo inizia a considerare insufficiente una concezione

dell’etica che impiegasse la nozione di senso morale56. Non

soltanto perché il sentimento morale non garantisce

l’universalità delle nozioni di bene e male, ma soprattutto perché

manca di un’efficacia reale57. Non basta dire che le cognizioni

morali sono accessibili a tutti, ma anche come possano

consolidarsi. Questa nuova consapevolezza rispecchia l’esigenza

teorica di Kant – probabilmente sotto la spinta delle letture dei

romanzi di Rousseau – di non accontentarsi della tendenza

comune delle filosofie morali a lui contemporanee che

consideravano l’insegnamento morale come la coltivazione di

passioni buone che fungessero da contrappeso a quelle cattive58.

La via morale per le azioni buone è soggettivamente universale,

ma essa deve basarsi su principi che fungano da fine, non da

mezzo. Comincia a farsi strada, insomma, l’idea di un’etica

sotto lo sguardo della metafisica che lo porterà fino alla

Fondazione della metafisica dei costumi. Ma prima del 1785 c’è

un’altra data, spartiacque per la teoria della conoscenza: il 1770.

55 Così come riferisce S. BACIN, cit., p. 67.56 Sulle considerazioni di Kant sul ruolo del senso morale formulate in questo periodo mi rifaccio all’opera di S. BACIN, cit., pp.67-75.57 Cfr. S. BACIN, cit. p. 72. Qui Bacin cita gli appunti critici di Kant alle Lezioni di morale di Christian Fürchtegott Gellert in Anthr. Friedländer, XXV 629; cf. già in Anthr. Collins XXV 206; Anthr. Parow, XXV 406: «compiere ogni bene per bontà di cuore, e non in base a principi», dove la «bontà di cuore» è un «orientamento della volontà che deriva dall’istinto, e non da principi», priva di qualsiasi regola.58 Come afferma S. BACIN in ibidem, p. 73, tali erano le posizioni di Spinoza, Descartes, Hume e degli illuministi francesi.

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Gli anni ’70

5. La Dissertazione : la filosofia pratica non si “rompe” (1770)

Con La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile59 si

inaugura la nuova impostazione critica della filosofia kantiana,

caratterizzata dalla revisione del concetto di rappresentazione.

Alla differenza graduale tra conoscenza sensibile e intellettuale

– la prima confusa, la seconda chiara - della dottrina liebniziano-

wolffiana Kant contrappone nel § 7 una distinzione “originaria”.

Confusi possono essere anche i concetti dell’intelletto e chiari

quelli sensibili, la differenza sta nel fatto che nel primo caso la

59 L’edizione di riferimento che adopererò sarà quella contenuta in I. KANT, Scritti precritici, cit., pp. 419-461.

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conoscenza è intellettuale, al di fuori del campo dell’esperienza,

e l’oggetto con cui si ha a che fare è noumenico, nel secondo

caso invece, essendo la conoscenza legata all’esperienza, si ha a

che fare con apparenze, fenomeni. Alla base di tale distinzione

vi è un duplice uso dell’intelletto stesso: reale o logico60.

La considerazione che ci interessa la troviamo sempre nel § 7

quando Kant afferma che i concetti morali appartengono alla

conoscenza intellettuale, e quindi vengono «conosciuti non per

via di esperienze ma per opera del puro intelletto come tale»61.

Si tratta di un’affermazione capitale per lo sviluppo della teoria

morale ma, se teniamo presente l’analisi fatta in precedenza

nelle Annotazioni e nei Sogni di un visionario sul ruolo primario

assegnato al concetto di volontà, non si tratta di una novità.

La Dissertazione rappresenta il momento in cui Kant pone la

filosofia della conoscenza sotto una nuova luce. Lo stesso

filosofo, come ben si sa, riconosce a tal punto le novità

teoretiche contenute in questo scritto da richiedere all’editore

Tieftrunk nel 1797 di non includere le pubblicazioni precedenti

la Dissertazione nella raccolta dei propri scritti minori. La

Dissertazione è un nuovo inizio critico, ma si cade in errore se si

pensa che questa “rottura” coinvolga anche la filosofia pratica.

Certo, l’affermazione secondo cui i concetti morali sono concetti

puri dell’intelletto al di fuori dell’esperienza segna una

riconsiderazione profonda del ruolo del senso morale all’interno

dell’impianto teorico dell’etica, ma già le affermazioni degli

anni precedenti sulla regola della volontà universale e le

considerazioni sul sentimento come riflesso della perfezione

della volontà andavano in questa direzione. Mancava il carattere

specifico dell’oggetto della conoscenza morale – noumenico

60 I. KANT, ibid.: «La cognizione sensoriale ha dunque una materia […] ed una forma, per la quale le rappresentazioni sono dette sensitive, anche se questa forma sia trovata senza sensazione alcuna. Per quanto riguarda invece gli elementi intellettuali occorre innanzi tutto porre bene in rilievo che l’uso dell’intelletto […] è duplice: in forza del primo uso, che è l’USO REALE, vengono dati i concetti stessi sia delle cose che delle relazioni; in forza invece del secondo uso – che è l’uso LOGICO – i concetti dati – non importa donde – vengono solamente subordinati tra loro […] e vengono correlati tra loro secondo il principio di contraddizione» (p. 429). L’errore di Wolff, secondo Kant, consiste nel «fatto di ritenere meramente logico il discriminante tra fatti sensitivi e fatti intellettuali» finendo per abolire completamente «l’istituzione antica nobilissima di distinguere tra la natura specifica dei fenomeni e dei noumeni».61 I. KANT, ibid., p. 431.

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appunto – ma la razionalizzazione dell’etica era già in atto da

tempo. Scrive Kant:

«Il fine dei concetti intellettuali è duplice: il primo è

quello elenctico […]. Il secondo fine è quello

dogmatico, per cui i princìpi generali dell’intelletto

puro […] danno luogo ad un modello, concepibile

unicamente mediante l’intelletto puro […], che è la

PERFEZIONE dei NOUMENI. Questa perfezione poi è

tale o in senso teoretico o in senso pratico. Nel

primo caso è l’ente sommo, DIO; nel secondo senso è

la PERFEZIONE MORALE. La filosofia morale

pertanto, in quanto fornisce i primi principi del

discernimento, non si conosce se non mediante il

puro intelletto e appartiene di per sé alla filosofia

pura»62.

Giunti a questo punto, l’evoluzione della teoria morale kantiana

potrebbe somigliare a una parabola: l’incompletezza delle teorie

morali del suo tempo spinge Kant a fondare inizialmente i

principi morali sul doppio registro formale/materiale,

coadiuvando le esigenze teoriche della Schulphilosophie tedesca

con quelle più efficaci della filosofia popolare britannica; infine,

insoddisfatto per il ruolo assegnato al senso morale

nell’impianto teorico, il filosofo “ritorna” ad una posizione

formale assegnando alla facoltà dell’intelletto il campo specifico

per la formulazione dei concetti morali. In realtà le cose non

stanno così. In primo luogo perché il suo punto di partenza non è

mai stato formale nel senso di intellettuale: Kant ha sempre

considerato fin dall’inizio incompleto e vuoto il concetto di

perfezione della volontà così come veniva presentato dalle

filosofie di scuola. In secondo luogo perché è l’intelletto stesso,

in questo caso la ragione, ad avere un compito specifico che lo

62 I. KANT, ibid., p. 432.

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discosta da ogni deriva “intellettualistica”. In una tradizione

terminologica risalente almeno a Hobbes, la ragione viene intesa

come il nome di una facoltà di calcolo. Fredda, prudente, logica.

Il modo in cui Kant la intende invece è sensibilmente differente.

La ragione è naturalmente dotata di concetti puri, ma tali

concetti non sono inclusi all’interno di categorie esclusivamente

logiche, sono compresi in essi anche i criteri del bene e del

male. La facoltà della ragione non sceglie solo i mezzi più

idonei a conseguire un certo fine, calcolando i vantaggi e gli

svantaggi, ma valuta i criteri in base al quale scegliamo di agire

in un modo piuttosto che in un altro. Questi criteri non sono

chiari, altrimenti sarebbe sufficiente una loro deduzione sulla

base di un’inferenza logico-formale. Il passo iniziale di Kant fu

allora, nella prima metà degli anni ’60, di cercare una facoltà

sensibile in base alla quale la valutazione di un’azione potesse

avere una sua efficacia, formulando così inizialmente il concetto

di sentimento morale sulla base delle osservazioni formulate da

Hutcheson. Successivamente, con le note alle Osservazioni, gli

accenni dei Sogni di un visionario e la preliminare

sistematizzazione della Dissertazione, le qualità morali non sono

più concepite come determinazioni della sensibilità ma come

idee dell’intelletto o della ragione ancora oscure alla coscienza.

I principi morali devono avere carattere intellettuale, ma senza

risultare tautologici ed estrinseci come in Wolff e Baumgarten –

il primo con il concetto di perfezione, il secondo con quello di

obbligazione – né eccessivamente intrinseci ed empirici come si

ritrovano nelle dottrine sentimentalistiche britanniche. Qual è

allora il nucleo più caratteristico della morale che Kant

concepisce sul finire degli anni ’60? Esso sarà nel compito di

realizzare ciò che è buono sulla base del fatto che «la bontà di

ogni azione stia nell’azione stessa [corsivo mio]», ovvero «nel

compiacimento o nel dispiacere da parte della sola ragione

[corsivo mio] per un’azione libera»63. E’ l’uso corretto della

63 cit. Prakt. Phil Powalski, XXV 109-110, così come citato da S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., p. 85.

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ragione a dare valore morale ad un’azione. Resta da capire quale

sia questo uso corretto. Più avanti Kant gli darà un nome

specifico – interesse – senza mai chiarirlo a sufficienza.

L’indagine morale ha carattere concettuale, ma al di fuori di

dimensioni estranee a quelle della prassi (volontà perfetta,

volontà di Dio, volontà fisiologica).

«La filosofia pratica non è pratica quanto alla forma,

bensì quanto all’oggetto, e tale oggetto sono le

azioni libere e il comportamento libero»64.

Si badi bene come in questi appunti ai corsi di Kant tenuti tra il

1777 e il 1781 le azioni sono considerate tali in quanto libere,

ovvero scelte sulla base di un corretto uso della ragione - che si

potrebbe a questo punto chiamare “ragione pratica” ma sarebbe

filologicamente scorretto. La teoria morale di Kant giunge così

ad un traguardo importante, sforzando di emanciparsi da una

dimensione puramente antropologica, mantenendosi però

all’interno di un soggetto morale che, eliminata la sensibilità,

non ricorra al calcolo astratto, a una norma esterna o alla volontà

divina.

Gli anni ‘80

6. La Fondazione della metafisica dei costumi : la teoria morale

verso una difficile sistematizzazione (1785)

Abbiamo visto come con la regola della volontà universale

l’obbligazione trova il suo principio “forte”, rendendosi

autonomo da ogni fisiologia delle sensazioni65 quale è quella che

si ritrova in una morale fondata sul sentimento. Questo significa

che, mantenendosi all’interno di un’indagine descrittiva e

soggettiva, la teoria morale kantiana parte dalla coscienza

64 cit. Moralphilosophie Collins, XXVII 243; Ethik Kaehler, così come citato da S. BACIN, ibid., p.86.65 Termine utilizzato da S. BACIN, Il senso dell’etica, cit., pp. 55-61, per descrivere l’impostazione “britannica” della filosofia morale.

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morale comunemente intesa e la analizza nei suoi contenuti

strutturali anziché contingenti, allontanando la necessità di

fondare i suoi principi su base empirica.

Possiamo così stabilire dei punti di approdo della filosofia

morale di Kant:

1) La dottrina dell’obbligazione come regola del volere

universale.

2) La legge morale come la forma con la quale si esprime

l’universalità della massima. Non una regola pratica,

altrimenti fondata sulla semplice esperienza, ma un

fondamento a priori che ha il suo luogo di origine nella

ragione.

3) Il sentimento morale come riflesso della perfezione della

volontà e come costrizione di fronte al conflitto tra volontà

singola e volontà “generale”.

La Fondazione della metafisica dei costumi66 è sempre stata

considerata un’opera “improvvisa”. Basti pensare alla prima

sezione dove, senza premesse, viene stabilito il punto di

partenza dell’indagine: la volontà buona. Questa impressione è

dovuta al fatto che con quest’opera la filosofia morale di Kant

esce dai seminari universitari e si presenta al pubblico colto. Ma,

per chi ha seguito l’evoluzione del pensiero morale kantiano,

essa non è nient’altro che il risultato di un naturale percorso di

indagine che arrivato a questo punto è spinto da un’ulteriore

esigenza: quella sistematica.

«Ogni filosofia, in quanto poggi su fondamenti di

esperienza, si può chiamare empirica; quella, invece,

che tragga le sue dottrine esclusivamente da principî

a priori, si può chiamarla filosofia pura.

Quest’ultima, se è semplicemente formale, si chiama

66 L’edizione di riferimento di questo testo sarà I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, ed. Laterza, Bari 2009.

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logica; se invece è limitata a certi oggetti

dell’intelletto, si chiama metafisica»67.

In questa distinzione, seguendo le conseguenze della

Dissertazione, Kant adopera un termine – metafisica - di uso

comune all’epoca ma in un significato ben preciso, decisamente

differente da come è stato adoperato nei Sogni di un visionario.

Il debutto dell’espressione ‘metafisica dei costumi’ così come lo

intende il filosofo la troviamo in una sua lettera a Lambert del 2

settembre 1770, in accompagnamento a una copia della

Dissertazione68. Per metafisica il filosofo non intende altro che

la filosofia pura, fondata su presupposti non empirici ma a

priori. Infatti, nella stessa prefazione della Fondazione, Kant

distingue tra metafisica della natura – che trova la sua

sistematizzazione nella Critica della Ragion Pura – e una

metafisica dei costumi, ovvero la filosofia morale vera e propria.

La Fondazione non è il momento sistematico vero e proprio

della filosofia morale kantiana - quello avverrà, si sa, con la

Critica della Ragion Pratica e ancor di più nella Metafisica dei

costumi - ma, come precisa lo stesso Kant nella prefazione

all’opera, è il momento in cui la ricerca morale, stabiliti i suoi

concetti primi, assume un taglio ben definito, quello verso «la

ricerca e la definizione del supremo principio della moralità»69.

L’emancipazione della teoria morale kantiana dall’antropologia

avviene definitivamente in queste pagine, ed è lo stesso Kant a

rendere esplicito questo momento. Come si legge nella

prefazione:

«Ognuno deve ammettere che una legge, quando sia

morale, ossia quando debba valere come fondamento

67 cit. I. KANT, ibid., p.5.68 Così come accennato da S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., p. 141.69 cit. I. KANT, ibid., p.13.

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di una obbligazione, non possa non comportare

necessità assoluta; deve ammettere che il comando

‘tu non devi mentire’ non valga, ad esempio, solo

per gli uomini, ma che altri esseri razionali [corsivo

mio] non dovrebbero voltar loro le spalle di fronte

ad esso […]; deve ammettere che perciò il

fondamento dell’obbligazione qui non deve essere

cercato nella natura dell’uomo o nelle circostanze in

cui egli si trova nel mondo, bensì a priori in concetti

della ragione pura»70.

E qualche rigo dopo:

«Tutta la filosofia morale riposa interamente sulla

sua parte pura e, applicata all’uomo, non trae il

minimo elemento dalla conoscenza di quest’ultimo

(antropologia)».

Non è più l’uomo e le sua “natura” ad essere oggetto di indagine

morale ma la ragione, e non la sua ma quella di ogni essere

razionale. E’ chiaro che la filosofia morale si rivolge in

definitiva all’uomo, non ha altro scopo se non quello di definire

cosa sia l’agire morale per l’uomo. Ma stabilire come punto di

partenza non il soggetto come uomo ma tutti gli “esseri

razionali” permette a Kant di inserire l’agire all’interno di un

rapporto di necessitazione71, allontanando la teoria dalle

esigenze di scuola tedesca e britannica, rispettivamente

dall’obbligazione quale norma astratta ed estrinseca fondata

sulla perfezione, e dal sentimento morale quale principio

materiale empirico dell’azione. E’ l’alternativa alla filosofia

morale quale philosophia practica universalis, una delle

70 cit. I. KANT, ibid., p. 7.71 Come chiarirà più avanti lo stesso Kant: «[…] se non si vuole contestare alla moralità ogni verità […], non si può non mettere in dubbio che la sua legge abbia un significato tanto ampio da dover valere non solo per gli uomini, ma per ogni essere razionale in generale, non semplicemente sotto le condizioni contingenti e con eccezioni, ma in modo assolutamente necessario». cit. I. KANT, ibid., p. 47.

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innovazioni più personali del maestro Wolff. Questa, come

spiega Kant72, non prende in esame la volontà pura, ma il volere

in generale, con la conseguenza di avere a che fare con una

dottrina pratica condotta però su basi psicologiche e

antropologiche.

Se l’indagine sulla struttura della ‘coscienza morale comune’

non si riconduce alla natura umana ma alla ragione - “sia la più

comune che quella speculativa nel più alto grado”73 – la quale

opera per rappresentazioni ancora ‘oscure’ alla coscienza, è

chiaro che gli strumenti da adoperare non possono essere quelli

dell’antropologia o della fisiologia ma solo quelli del pensiero.

La conseguenza è che l’unico strumento per una teoria morale

così concepita può essere solo quello che segue il modello della

logica. La novità dell’impostazione kantiana risiede così

nell’uso di strumenti logici nella filosofia morale. Ma in questo

modo non si approda proprio a quel metodo della filosofia

pratica universale con il suo concetto tautologico di perfezione?

Niente affatto, e per una ragione ben precisa. Kant distingue la

logica e la morale come due discipline separate. Proprio questa

distinzione – mai avvenuta nella Schulphilosophie – permette al

filosofo di determinare un’analogia tra la morale come

disciplina della volontà pura e la logica come disciplina in grado

di delineare un organo dell’uso della ragione. La logica pratica -

la disciplina morale che non si basa sulla distinzione suddetta - e

la filosofia pratica universale appiattiscono la morale sulla

logica e soffrono così dello stesso difetto: l’assenza di un

riferimento intrinseco all’attività pratica, ovvero come il

riconoscimento di un fac bonum possa orientare l’azione74. Da

qui l’esigenza di Kant di percorrere un’altra strada, quella

classica dell’indagine filosofica, in coerenza con il suo stesso

metodo analitico che distingue ma non oppone: legare tra loro

72 Sempre nella prefazione alla Fondazione, ibid., p. 9.73 cit. I. KANT, ibid., p. 53.74 Cfr. S. BACIN, ibid., p. 139: «Un principio come fac bonum, o l’esposizione astratta dei doveri che si ricava da una trattazione come quella dell’Ethica philosophica [di Baumgarten] non sono che parole, se non vengono sorretti da una ricerca in grado di spiegare la relazione intrinseca tra i due termini, chiarendo come il riconoscimento di un bonum orienta il fare nella forma del dovere».

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cose che non sono legate. Nasce così una nuova

“collaborazione” tra logica e morale, un legame sistematico con

un nome specifico: metafisica75.

«La logica tratta delle leggi oggettive della ragione,

cioè di come essa deve procedere. La metafisica

[tratta] di quelle soggettive della ragione pura, di

come essa procede»76.

Il legame tra logica e morale è quello tra uso oggettivo e

soggettivo della ragione.

Abbiamo visto così che questa impostazione, presa sulla base

della ‘svolta’ della Dissertazione, invece di condurre l’indagine

morale verso una dimensione astratta la rende maggiormente

efficace, sistematizzando la teoria morale ed emancipandola da

posizioni antropologiche. Ma c’è un’altra conseguenza ancora

più importante che caratterizza e specifica le finalità di un uso

logico dei concetti morali. Se in ambito teoretico quest’uso della

logica trova nella Critica della Ragion Pura la sua piena

applicazione, in ambito morale l’uso di strumenti logici per la

costruzione di una teoria etica permette la creazione di un

modello di disciplina normativa77. Non solo l’esposizione di

regole per un uso corretto della ragione in ambito morale ma

norme specifiche per la volontà pura, istruzioni necessarie per il

suo corretto uso. Tale è la razionalizzazione dell’etica kantiana.

A seguito di queste debite distinzioni. Possiamo così procedere

all’analisi approfondita della Fondazione.

Fondazione: prima sezione

Come una sorta di compendio, la prima sezione ci presenta le

posizioni, il metodo e i concetti che abbiamo colto negli scritti

75 Per l’approfondimento del legame tra morale e logica e del ruolo di quest’ultima nell’impianto sistematico kantiano si veda S. BACIN, ibid., pp. 136-140.76 cit. Reflexion 3939, XVII 356; 1769. Così come citato da S. BACIN, ibid., p. 147.77 Termine adoperato da S. BACIN, ibid., p. 137.

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precedenti: l’allontanamento dalla morale di scuola, il metodo

dell’analisi - e il suo carattere “socratico” – e infine il rifiuto

netto di fondare la teoria sul senso morale.

L’esigenza di costruire una teoria morale sulla base di un

criterio analitico-soggettivo fondato sull’agire reale universale,

senza per questo derivarlo da cognizioni empiriche, spiega

perché Kant parta, senza mediazioni o spiegazioni preliminari,

dal concetto di volontà buona. Affermare che nient’altro possa

essere ritenuto buono se non una volontà buona esclude

implicitamente tutto ciò che superficialmente viene posto alla

base di un’azione morale: intelletto, felicità, risolutezza,

coraggio, saldezza di propositi, potere, ricchezza, onore. Tutte

qualità del temperamento “buone e desiderabili”, certo, ma

soggette a «diventare anche estremamente cattive e dannose se

la volontà che deve far uso di questi doni naturali […] non è

buona»78. Una morale che si fonda sulla natura umana, sul

sentimento e sulle sue qualità non può essere incondizionata. E’

volubile, soggetta alle inclinazioni, ciò che essa presuppone è

comunque una volontà buona.

In queste pagine è in atto un confronto serrato tra la nuova

impostazione della filosofia morale di Kant - la metafisica dei

costumi – e la filosofia popolare di cui fanno parte sia gli autori

britannici che quelli tedeschi. Un confronto che si traduce in una

vera è propria autocritica delle posizioni assunte negli anni

precedenti. La “resa dei conti” definitiva con la natura umana

avviene in queste pagine quando Kant afferma:

«Se, ora, in un essere che possiede la ragione e una

volontà, il vero fine della natura fosse la sua

conservazione, il suo benessere, in una parola la sua

felicità, la natura, scegliendo la ragione di una tale

creatura come esecutrice di questo suo scopo, ne

avrebbe indovinata assai male la dotazione. Infatti

78 cit. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, ibid., p. 15.

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tutte le azioni che la creatura deve compiere a questo

scopo […] avrebbero potuto esserle indicate con

molta maggiore esattezza dall’istinto»79.

E qualche rigo dopo:

«[…] in una parola, la natura avrebbe evitato che la

ragione si fosse risolta nell’uso pratico e avesse

avuto la presunzione di elaborare da sé, con la sua

debole comprensione, il progetto della felicità e i

mezzi per raggiungerla; la natura si sarebbe

incaricata essa stessa non solo della scelta dei fini,

ma anche dei mezzi, e li avrebbe affidati entrambi,

con saggia previdenza, esclusivamente all’istinto».

E’ curioso notare come in queste osservazioni l’istinto, facoltà

con la quale opera la natura umana, si presenta con un grado di

chiarezza ed esattezza superiore alla stessa ragione che invece

possiede un “debole grado di comprensione”. L’istinto è un

impulso non mediato, la ragione deve “ritirarsi” e riflettere o, se

è pura, organizzarsi adeguatamente. Abbiamo qui tutta la

conseguenza dell’impostazione critica kantiana inaugurata dalla

Dissertazione. Se bastasse la natura umana a motivare e

spingere l’agire morale perché è ancora così difficile stabilire

cos’è un’azione buona? Che debba essere la ragione, e solo

quella, il luogo d’origine dei concetti morali è in parte

dimostrato proprio dal fatto che questi stessi concetti si

presentano in rappresentazioni “ancora oscure alla coscienza”. E

chi non è consapevole di questo, aggiunge Kant, e usa la ragione

per il “godimento della vita e della felicità” – tutti scopi in cui la

natura umana basta a se stessa per raggiungerli – compie una

sorta di corto circuito e finisce per odiare la stessa ragione80.

79 cit. I. KANT, ibid., p. 19.80 cfr. I. KANT, ibid.: «In effetti, noi vediamo che tanto più una ragione coltivata si dedica allo scopo del godimento della vita e della felicità, tanto più l’uomo s’allontana dalla vera contentezza; sicché in molti, e proprio nei più esperti nell’uso della ragione, quando siano abbastanza sinceri per riconoscerlo, nasce un certo grado di misologia, ossia di

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In queste pagine iniziali è possibile intravedere la concezione

‘socratica’ del pensiero alla base della kantiana “presa di

coscienza” dei concetti morali: se è la ragione – “sia la più

comune che quella speculativa nel più alto grado”81 - il luogo

d’origine dei concetti morali, e se essi si presentano inizialmente

in maniera oscura, è chiaro che «per sviluppare il concetto di

una volontà in se stessa sommamente degna di stima e buona

senz’altra considerazione»82 occorre che questo concetto sia

rischiarato piuttosto che insegnato. Emerge così, in tutta la sua

evidenza, un tratto autentico e originario del pensiero morale di

Kant: l’ispirazione internalistica83, ovvero la concezione

secondo cui la norma contiene o è intimamente connessa con le

ragioni della sua osservazione. Per questo motivo la vera

destinazione della ragione in campo morale è quella di produrre

«una volontà non come mezzo per altro scopo, bensì una volontà

buona in se stessa»84.

Proseguendo nel testo, Kant pone tre proposizioni che portano

gradualmente alla formulazione del primo imperativo

categorico. Se il concetto della volontà buona deve bastare a se

stesso, deve essere incondizionato, e risiede in un soggetto la cui

volontà non è pura - non si accorda necessariamente con la legge

morale ma può invece seguire anche le inclinazioni, i desideri -

allora è chiaro che esso viene avvertito in primo luogo come un

dovere.

Nella prima proposizione Kant passa in rassegna tutti quei casi

in cui il dovere sembra apparentemente conforme a se stesso in

odio per la ragione».81 cit. I. KANT, ibid., p. 53. 82 cit. I. KANT, ibid., p. 23.83 Termine coniato da S. BACIN ne Il senso dell’etica, ibid., p. 127, per contestualizzare la dialettica che si instaura tra l’approvazione e la scelta di un’azione, in pratica tra la valutazione, che comporta la preferenza di un’azione su un’altra, e la motivazione che spinge ad agire. Secondo Bacin, la dialettica di questi due termini è ciò che porta la morale kantiana ad una sorta di “stallo”, divisa com’è tra un’indagine pura e uno svolgimento effettivo-pratico: lì dove i principi/doveri bastano per se stessi, la loro applicazione richiede invece l’appoggio di quelle filosofie “popolari” che hanno il loro fondamento in concetti empirici o psicologici.84 cit. I. KANT, ibid., p. 21.

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modo immediato e distingue tra azioni conformi al dovere e

azioni compiute per il dovere85. In entrambi i casi il dovere può

essere avvertito immediatamente, ma solo quando le azioni sono

compiute per il dovere si ha a che fare con azioni morali.

Un’azione conforme al dovere può essere compiuta

apparentemente anche per dovere ma in realtà è un caso raro,

poiché quando si agisce in conformità al dovere non lo si fa

necessariamente. Un’azione conforme al dovere, infatti, può

essere in quanto tale solo imposta dall’esterno, consolidata

dall’abitudine, basata su convenzioni o sull’interesse personale

(come nel caso del bottegaio attento a non perdere i propri

clienti86). Un’azione compiuta per il dovere, invece, ha origine

nel soggetto, precisamente in un principio di ragione, ed è

quindi necessaria, incondizionata in quanto non riceve

determinazioni dall’esterno e, ovviamente, proprio per questo,

universale.

Prima di analizzare i contenuti della seconda e terza

proposizione occorre introdurre due termini relativamente nuovi

che vengono qui per la prima volta presentati con un significato

preciso: quello di massima e di rispetto della legge.

Il termine massima è sempre oscillato storicamente tra un uso

logico originario e uno retorico derivato87. Nel primo caso

massima è intesa teoreticamente come la maxima propositio di

un sillogismo fondata sul principio di identità. Nel secondo caso,

a partire dal XVI secolo, massima è un tratto caratterizzante

dell’etica laica intesa come un principio soggettivo, una verità

morale strettamente legata al lessico della prudenza. Con Wolff

il concetto viene ripreso secondo il suo uso logico e si presenta

come un assioma che consolida la visione morale del soggetto.

Con Baumgarten, invece, viene messo in luce sia il suo

85 I. KANT, ibid., pp. 23-27.86 L’esempio è riportato da Kant a p. 23-25 della Fondazione: 87 Per un approfondimento dell’argomento si vedano le indicazioni principali sul concetto di massima elaborate da R. BUBNER, Handlung, Sprache und Vernunft. Grundbegriffe praktischer Philosophie, Frankfurt/main 1982; trad. it. Bologna 1985, pp. 177-181, così come vengono sintetizzate da S. BACIN in Il senso dell’etica, ibid., pp. 181-193.

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significato logico che pratico, ovvero come una premessa

maggiore di un sillogismo pratico costituita da «regole del

comportamento libero acquisite per abitudine»88. La posizione di

Kant è invece lontana tanto da interpretazioni strettamente

logico-sillogistiche che pratiche89. Massima non è né un

sillogismo pratico, né una regola consolidata dall’abitudine,

bensì un principio soggettivo del volere - distinto dal principio

oggettivo che è la legge - in base al quale uno effettivamente

agisce. In altre parole è la forza motivante dell’azione, originaria

nel soggetto stesso, che non si acquisisce attraverso l’esperienza

né si ricava attraverso un mero calcolo del pensiero. E’ lo stesso

Kant infatti a chiarire che chi agisce in base a stimoli, e non

secondo massime, «può avere certo la regola in mente, ma non

comunque la massima nel cuore»90. Possiamo così passare alla

seconda proposizione:

«[…] un’azione compiuta per dovere possiede il suo

valore morale non nello scopo che deve attuarsi per

suo mezzo, ma nella massima in base alla quale

viene decisa; tale valore non dipende dunque dalla

realtà dell’oggetto dell’azione, ma esclusivamente

dal principio del volere in base al quale è stata

compiuta»91.

Detta in questi termini, il principio del volere quale è la

massima, presentata per la prima volta così chiaramente,

richiede di essere completata dal suo principio oggettivo, ovvero

deve essere sottoposta alla legge morale e mediata

dall’imperativo categorico. Kant amplia il concetto di massima

rispetto al suo uso storico, allarga il contesto pratico in cui farla

88 A. G. BAUMGARTEN, Ethica philosophica, § 246, così come citato da S. BACIN, ibid., p. 186.89 I primi accenni al concetto di massima in Kant è possibile trovarli negli appunti di Herder alle lezioni intorno al 1764 (Praktische Philosophie Herder, 1762-64) e nei commenti di Kant al § 246 dell’Ethica philosophica di Baumgarten.90 cit. appunti alle lezioni tenute da Kant, Praktische Philosophie Powalski, 1775-78, XXVII 207.91 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 29.

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valere domandandosi «come può una massima diventare

legge?».

Anche il concetto di rispetto della legge, come quello di

massima, si presenta immediatamente nel testo senza alcuna

introduzione preliminare nella forma della terza e ultima

proposizione, corollario delle due precedenti:

«dovere è necessità di un’azione per rispetto della

legge»92.

La determinazione del volere avviene oggettivamente con la

legge e soggettivamente nel rispetto che si prova per essa. Quel

sentimento morale come riflesso della volontà, quel “sentir la

dipendenza del volere singolo dal volere universale” che

abbiamo trovato nei Sogni di un visionario riceve qui un nome

specifico: rispetto della legge. Un sentimento avente ruolo

attivo, non legato alla sensibilità, non «ricevuto per mezzo di un

influsso», bensì prodotto per sé «per mezzo di un concetto di

ragione»93. E’, in altre parole, la coscienza della mia

subordinazione alla legge morale, è l’effetto della legge sul

soggetto.

Il concetto di rispetto della legge appare problematico perché

mette in campo una specifica qualità, il sentimento morale, mai

sufficientemente approfondita da Kant all’interno dell’impianto

sistematico della teoria etica. In realtà connotare questa qualità

sensibile di un ruolo attivo è fondamentale all’impianto

sistematico della morale al fine di legare la legge morale al

soggetto senza che gli sia estranea la forza motivante dell’agire.

Il rispetto della legge permette di fissare e rendere efficace per il

soggetto la struttura a priori del dovere. Se il rispetto non è un

sentimento ma un effetto della legge, si tratta di un effetto

interno al soggetto, non legato ad alcuno scopo. Potremmo

chiamarlo un ‘effetto di ragione’. Scrive Kant:

92 cit. I. KANT, ibid. 93 cit. I. KANT, ibid., p. 31.

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«[…] non posso provare rispetto per un’inclinazione

in generale. […] Solo ciò che è legato alla mia

volontà come fondamento, ma mai come effetto,

solo ciò che non serve la mia inclinazione bensì la

sovrasta […], può essere oggetto del rispetto e, con

ciò, un comando. Ora, se un’azione compiuta per

dovere deve interamente prescindere dall’influsso

dell’inclinazione e quindi da ogni oggetto della

volontà, non resta null’altro che possa determinare la

volontà se non, oggettivamente, la legge e,

soggettivamente, il puro rispetto per questa legge

pratica, e dunque la massima di seguire questa legge

anche a danno di tutte le mie inclinazioni»94.

Da qui per la formulazione del primo imperativo categorico non

occorre che un passo: domandarsi quale sia il contenuto di

questa legge. Se fin’ora abbiamo definito la forma con la quale

si presenta al soggetto, bisogna ora chiarirne il suo contenuto,

cosa essa dice, o meglio cosa comanda. E Kant non può che

formulare tale comando in questi termini: se non ha un

contenuto sensibile, ovvero non è retta dalle inclinazioni, allora

la legge non può che volere se stessa, «non le resta altro che la

universale conformità alla legge delle azioni in generale»95.

Un’istanza che per il soggetto non può che tradursi in un «volere

che la mia massima debba diventare una legge universale»96. In

realtà, come osserva H. J Paton in The categorical imperative, la

formula del primo imperativo categorico è duplice. Vi è una

prima che è la sua presentazione vera e propria:

94 cit. I. KANT, ibid.95 cit. ibid., p. 33.96 cit. ibid.

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«agisci unicamente secondo quella massima in forza

della quale tu possa insieme volere che essa divenga

legge universale»

E una seconda che serve a rendere più intuitiva la prima:

«agisci come se la massima della tua azione dovesse

diventare per tua volontà una legge universale della

natura»

Secondo Kant c’è “natura” quando le intuizioni empiriche sono

inquadrate e unificate in leggi universali. Allo stesso modo, c’è

moralità quando le leggi universali si attuano nella condotta

umana. Per cui se voglio sapere se un’azione è morale è

sufficiente chiedermi se essa può rientrare in un ordine retto da

leggi universali; se invece voglio sapere se una mia massima è

morale basta che guardi se essa darebbe luogo a una natura

ordinata da leggi universali97.

La legge morale, in questa sua prima formulazione, ha un forte

carattere ‘socratico’: il soggetto che agisce moralmente non è un

saggio. Per quanto sia razionale, la forza motivante dell’azione

non ha alcun carattere intellettuale. “Cosa devo fare?” è una

domanda che non richiede alcuna conoscenza preliminare, né un

riscontro empirico, è sufficiente invece domandarsi se quello

che voglio, o meglio, ciò che mi spinge ad agire – la massima –

debba valere per tutti:

«Per sapere cosa devo fare affinché il mio atto del

volere sia moralmente buono, non ho dunque affatto

bisogno di profondo acume. Inesperto

sull’andamento del mondo, incapace di trovarmi

preparato di fronte a tutti i casi che in esso

97 cfr. S: V. ROVIGHI, Introduzione allo studio di Kant, ed. La scuola, Brescia 2001, p. 239.

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avvengono, mi domando soltanto: puoi anche volere

che la tua massima divenga una legge universale?»98.

Non devo essere particolarmente intelligente, è sufficiente solo

che rischiari99 - ecco il carattere socratico - ciò che la ragione

contiene in maniera oscura. Tale processo di rischiaramento non

porta che al rispetto per ciò che si vuole se lo si vuole come

valido universalmente. Per cui - e qui sta tutta la forza socratica

della teoria morale kantiana - non c’è bisogno di alcuna

conoscenza particolare, di alcuna scienza o filosofia morale per

essere onesti e buoni poiché non c’è alcuna necessità di

comprendere il rispetto che si prova nel volere la propria

massima come valida universalmente.

Eppure di una filosofia morale c’è bisogno. Anzi essa diventa

necessaria proprio quando questo principio del volere è

costantemente messo alla prova dalle “potenti inclinazioni”, dal

desiderio e dai bisogni. Questa messa alla prova è talmente

inevitabile da determinare un gioco tra inclinazione e puro

volere, quello che Kant chiama una dialettica naturale100 tra

ragione e inclinazioni. Ora, affinché il principio del dovere

possa avere un’efficacia e una durevolezza, è necessario che

esso venga compreso, altrimenti alla lunga si rischia di mettere

in dubbio i propri precetti al fine di renderli quanto più possibile

conformi ai nostri desideri.

«L’innocenza è una cosa splendida , ma è anche un

gran peccato che essa non sappia ben difendersi e

che si lasci sedurre facilmente»101.

98 cit. ibid., p. 37.99 «Ma, per sviluppare il concetto di una volontà buona in se stessa sommamente degna di stima e buona senz’altra considerazione […], non bisognoso di essere insegnato quanto piuttosto rischiarato […], vogliamo prendere in esame il concetto di dovere». Cit. I. KANT, ibid., p. 23.100 cfr. I. KANT, ibid., pp. 39-41.101 cit. ibid., p. 39.

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Al difetto dell’innocenza arriva in soccorso la scienza, la

sapienza. La comune ragione umana approda nel campo della

filosofia pratica: la metafisica dei costumi.

Fondazione: seconda sezione

Il passaggio dalla filosofia morale popolare (analisi della

coscienza morale comune) alla metafisica dei costumi (analisi

della struttura a priori dei principi morali) è il momento del

passaggio dal momento descrittivo a quello normativo della

teoria morale, una diretta conseguenza dell’impostazione

razionalistica della teoria morale che rispecchia tanto l’esigenza

di emancipazione dall’antropologia quanto il bisogno di rendere

efficaci e immediatamente accessibili alla coscienza i contenuti

a priori dei principi morali. Un passaggio che non denota un

cambiamento di metodo dell’indagine: Kant conserverà sempre

il carattere descrittivo della teoria morale anche all’interno

dell’esposizione degli imperativi categorici. L’indagine morale

kantiana si mantiene sempre su questo doppio registro, puro e

insieme non astratto, razionale e insieme pratico, cosa che non

darà pochi problemi alla sistematicità della teoria.

Proprio sulla base di questa esigenza Kant non rinnegherà mai la

“popolarità filosofica”, importante proprio ai fini

dell’”applicabilità” della stessa indagine a priori:

«Infatti, se si mettesse ai voti se sia da preferire la

conoscenza razionale pura, separata da ogni

elemento empirico, quindi la metafisica dei costumi,

o la filosofia pratica popolare, si indovinerebbe

subito da quale parte penderebbe la bilancia»102.

102 cit. I. KANT, ibid., p. 49.

46

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A maggior ragione, proprio per rendere valida la filosofia

pratica popolare, occorre prima di tutto fare una corretta

filosofia:

«Questa condiscendenza verso concetti popolari

sarebbe certo assai lodevole, quando prima sia

avvenuta l’ascesa ai principî della ragione pura […].

Ma è un’assurdità senza limiti voler ammettere

questa popolarità già nell’indagine prima […]. Non

solo un tale modo di procedere non può mai

pretendere il titolo, raro in sommo grado, di una vera

popolarità filosofica […], ma ciò fa nascere un

ripugnante guazzabuglio di osservazioni

raffazzonate e di principî pseudorazionali»103.

In queste pagine iniziali, poco prima dell’approfondita

presentazione degli imperativi, la metafisica dei costumi e la

filosofia morale popolare trovano il loro campo di applicazione

specifico: la prima è un’indagine preliminare sulle strutture a

priori della ragione al fine di ricavare i principi con i quali

questa comanda l’azione, la seconda l’applicazione di tali

principi a priori che ha proprio nell’antropologia il suo metodo

specifico.

E’ importante ricordare come questa oscillazione tra carattere

descrittivo e normativo della teoria morale deriva direttamente

dal bisogno di dotare la stessa teoria di un’efficacia reale

sull’agire. Un’indagine empirica non potrà mai soddisfare

questo bisogno, anche se apparentemente proprio in ciò

risiederebbe il suo punto di forza. Secondo Kant le inclinazioni,

per quanto immediate, denotano una volontà incerta,

imprevedibile e volubile che può contare solo su esempi di

condotta. Una teoria morale costruita su questi presupposti non

103 cit. I. KANT, ibid.

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può essere niente di peggiore104. Mentre un desiderio

determinato può avere un influsso imprevedibile, spingendo ad

agire prima in un modo e poi in un altro, un principio morale

come quello del dovere determina un comando univoco e

necessario che si riflette non sul freddo calcolo razionale del

soggetto ma proprio su di esso in quanto agente (ciò che Kant

chiama “cuore umano”). Allontanando ogni spettro empirico,

non resta che la ragione dotata a sua volta di un’efficacia pratica

diretta:

«Infatti, la pura rappresentazione del dovere e in

generale della legge morale, non frammista ad

alcuna aggiunta estranea di stimoli empirici, ha sul

cuore umano [corsivo mio], per il tramite della sola

ragione, un influsso tanto più potente di tutti gli altri

moventi che si possono ricavare dal campo

empirico, che la ragione […] li disprezza e può poco

a poco divenire loro padrona»105.

Di nuovo ritorna questo termine: il cuore. Cos’è questo cuore?

Pare che Kant non vi abbia mai dedicato che qualche accenno106,

limitandosi a parlare di una “massima nel cuore”107 o, come qui,

di un influsso del dovere sul cuore umano. Sembra quindi di

avere di fronte quella forma di sentimento attivo che è il rispetto

della legge, oppure l’interesse. Questo non è chiaro. Quel che è

certo però è che si tratta del soggetto agente, colui che avverte

l’effetto della legge morale su di lui senza che questo effetto

risulti essere una affetto, una passione. Di nuovo Kant dimostra

di tener ben presente l’importanza del soggetto-uomo – oltre al

soggetto-ragione – all’interno della teoria morale, fattore che

104 cfr. I. KANT, ibid., p. 47: «Non si potrebbe neppure immaginare qualcosa di peggio, per la moralità, che volerla trarre da esempi».105 Cit. I. KANT, ibid., p. 53. 106 cfr. I. KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, cap. I.107 cfr. p. 36 della tesi.

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determina la costante oscillazione dell’indagine pratica tra

esigenze descrittive e normative.

Generalmente i contenuti delle prime due sezioni della

Fondazione vengono considerati come profondamente

differenti. Se nella prima parte è il concetto di volontà buona a

essere il protagonista, nella seconda l’argomento centrale sono

gli imperativi, mai più presentati così approfonditamente come

in quest’opera. In realtà il passo in avanti dall’ambito descrittivo

a quello normativo, dalla filosofia della coscienza morale alla

metafisica dei costumi, non smuove l’indagine dal suo centro.

La ricerca non si allontana dal suo punto di partenza che è il

concetto di dovere, ora più che mai pronto per essere

ulteriormente approfondito ed esplicitato. Non c’è alcuna

discontinuità tra le due sezioni: il procedere del lavoro di analisi

nella seconda sezione dell’opera è di fatto un ulteriore momento

di sviluppo della dimensione pratica. Se la prima parte ha

spiegato che la valutazione del bene implica il riferimento a un

dovere, la seconda chiarisce quali siano le regole che stanno alla

base del dovere: gli imperativi.

Il termine imperativo era ampiamente utilizzato nel linguaggio

filosofico dell’epoca108, molto più legato però al lessico logico-

grammaticale di quanto Kant lo intenda. Se la teoria morale del

filosofo rifiuta ogni fondazione empirica e stabilisce come punto

di partenza la ragione è chiaro che gli elementi che compongono

questa facoltà, in quanto concettuali, hanno un carattere logico.

Ma al filosofo tedesco un uso prettamente logico della ragione

in campo morale, come abbiamo visto109, non soddisfa le

esigenze pratiche di una sua teorizzazione.

Come è accaduto con il concetto di obbligazione, anche qui

Kant parte dalle brevi considerazioni di Baumgarten, secondo il

108 cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., pp.103-105. L’autore, appoggiandosi all’indagine di C. SCHWAIGER, Kategorische und andere Imperative. Zur Entwicklung von Kants praktischer Philosophie bis 1785, Stuttgart-Bad Cannstatt 1999, pp. 165-167, formula un breve excursus sull’uso del concetto di imperativo nel periodo in cui Kant scriveva. 109 Per il modo in cui Kant intende la ragione e la sua “fenomenologia” rimando al mio testo, pp. 24-26.

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quale «Imperativi in disciplinis pratici significant: homine

obligari»110, una definizione che allarga l’uso dell’imperativo

all’ambito della prassi. Ma ancora non basta. Guidata

dall’ispirazione internalistica, la novità di Kant consiste nel

definire gli imperativi non come dei semplici comandi, ma come

regole dell’obbligazione. Non solo una formula del dovere,

come si limita a intenderla Baumgarten, ma anche il modo in cui

il dovere comanda un’azione sulla base di regole specifiche. Gli

imperativi sono uno degli esempi più lampanti del metodo

logico e morale111 della filosofia pratica di Kant: sono da un lato

regole con le quali la ragione – che ora possiamo chiamare

“pratica” - pensa un’azione e, dall’altro, comandi pratici effettivi

non ricavati e formulati sulla base di una deduzione ma

direttamente contenuti nella stessa regola.

Gli imperativi sono un topos della teoria morale di Kant poiché

condensano tutto l’atteggiamento critico del pensatore tedesco.

Sono l’esplicitazione del dominio della morale, distinto da

quello teoretico: se la conoscenza si esprime all’indicativo,

descrivendo ciò che l’intelletto fa per organizzare i contenuti

sensibili, i concetti morali si esprimono all’imperativo nella

forma del comando, stabilendo non ciò che è ma ciò che deve

essere.

La forza degli imperativi sta tutta nel mantenere il loro orizzonte

interpretativo all’interno del doppio ordine del discorso

descrittivo/normativo. Se ci si limitasse a descrivere il bene o la

volontà buona si avrebbe a che fare solo con uno stato di cose,

esempi di condotta, azioni post factum che, in quanto già

compiute, non rientrano in un rapporto di necessitazione con

l’agente. All’inverso, privilegiando solo l’aspetto normativo del

bene il comando si presenterebbe come una legge che sì precede

e comanda l’azione, ma nella forma di una prescrizione esterna a

110 cit. A. G. BAUMGARTEN, Initia philosophiae praticae primae, § 39, così come citato da S. BACIN, ibid., p. 105. Secondo lo studioso italiano Baumgarten rappresenta l’indizio più notevole dell’esigenza kantiana di legare l’uso logico dell’imperativo con la prassi. 111 Basti pensare a quando Kant introduce gli imperativi nella Fondazione con la frase con cui iniziava i suoi corsi di logica: «Ogni cosa della natura opera secondo leggi», cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 55.

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cui il soggetto agente deve conformarsi senza alcuna

motivazione intrinseca. L’efficacia degli imperativi kantiani sta

nel mantenimento di entrambe le esigenze: non hanno per

oggetto degli stati di cose ma modi di agire, a loro volta

formulati non sulla base di un’osservazione empirica o su una

legge esterna ma su principi della ragione pratica112.

Questo doppio registro è ancora una volta la conseguenza della

svolta critica fondata sulla distinzione tra ciò che è soggettivo e

ciò che è oggettivo. Scrive Kant:

«Ma se la ragione per sé sola non determina la

volontà in modo sufficiente, se essa continua a

sottostare a condizioni soggettive (certi moventi) che

non sempre s’accordano con quelle oggettive; in una

parola, se la volontà non è in sé interamente

conforme alla ragione (come è in effetti per gli

uomini), allora le azioni che oggettivamente

vengono riconosciute come necessarie sono

soggettivamente contingenti, e la determinazione di

una tale volontà in conformità a leggi oggettive è

costrizione»113.

Ecco spiegato perché il concetto di volontà buona implica quello

di dovere. La legge è oggettiva, ovvero è, potremmo dire, una

diretta emanazione della ragione pratica, ma la volontà del

soggetto è, appunto, soggettiva, quindi contingente. Se la

volontà fosse santa, ovvero in sé conforme alla ragione, allora

non avrebbe bisogno di alcun imperativo limitandosi

semplicemente ad agire, volendo ciò che la ragione determina.

Ma essendo la volontà dell’uomo una volontà esposta

all’inclinazione, non può che avvertire come una costrizione ciò

112 cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., pp. 108-115. Per lo studioso italiano gli imperativi hanno una valenza descrittiva.113 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 57.

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che la ragione pratica comanda. Per questo l’uomo dipende dagli

imperativi per agire moralmente.

Prima di proseguire con l’analisi del testo, occorre approfondire

la questione del doppio registro soggettivo/oggettivo della teoria

morale. Esso apre un nuovo spazio problematico mai

definitivamente risolto da Kant: quello tra valutazione e

motivazione.

Excursus: l’interesse, efficacia pratica dell’etica: il problema

della valutazione e della motivazione

Nella seconda sezione della Fondazione, in forza delle note più

che del testo vero e proprio, notiamo tutta la maturità della

riflessione raggiunta da Kant sul ruolo del sentimento morale114

all’interno dell’impianto sistematico. Esso non viene neanche

più considerato un sentimento, legato com’è ad un bisogno, ma

un interesse115.

114 cfr. ibid., p. 59: «La dipendenza della facoltà di desiderare da sentimenti si chiama inclinazione, e questa dimostra quindi sempre un bisogno. Ma la dipendenza da principî della ragione di una volontà determinabile in modo contingente si chiama interesse».115 Una facoltà attiva che non riceve impressioni dall’esterno, distinta così da quella facoltà passiva quale è la sensibilità tout-court.

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Il concetto di interesse è il risultato di un lungo processo di

emancipazione dall’antropologia mai definitivamente compiuto.

Il motivo risiede nella difficile combinazione di due momenti

differenti dell’agire: quello della valutazione e della

motivazione116. L’efficacia della teoria morale kantiana si gioca

tutta qui. La valutazione è il campo della legge oggettiva, dei

principi della ragion pratica, e il valore di una legge sta nel

rispetto che il soggetto ha per essa. La motivazione è il campo

dell’agire vero e proprio dove è in gioco il motivo, l’interesse

appunto, la massima in base alla quale si compie un’azione. La

differenza tra legge oggettiva e principio soggettivo dell’agire

obbliga a tenere distinti questi termini ma nello stesso tempo,

per non scindere la stessa ragione pratica, riconoscere a

entrambi un unico dominio. L’ispirazione internalistica della

morale di Kant si imbatte così in questo problema: come tener

distinti e insieme non distanti valutazione e motivazione?

Già dieci anni prima della stesura della Fondazione Kant

affronta in via definitiva la difficile posizione del senso morale:

«non si deve addurre il sentimento morale per la

valutazione, ma in seguito ad essa, esclusivamente

per suscitare l’inclinazione; quando il sentimento, p.

es. la compassione, anticipa la massima, allora si ha

un giudizio sbagliato»117.

Kant è chiaro: non si valuta in base al sentire, ma si sente

moralmente sulla base di una valutazione formulata da un

giudizio. Il sentimento morale è l’effetto della qualità della

valutazione. Non c’è alcun sentimento alla base di una corretta

valutazione, semmai esso sopraggiunge confermando il fatto che

stiamo valutando correttamente. Ancora Kant:

116 cfr. S. BACIN in Il senso dell’etica, ibid., pp. 119-135. Questi termini sono stati adoperati da Bacin per riassumere il problema tra quaestio diiudicationis e quaestio executionis.117 cit. I. KANT, Reflexion 6677, XIX 131 (1769?), così com’è citato da S. BACIN, ibid., p. 123.

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«quindi il sensus moralis viene denominato così

soltanto per analogiam, e non dovrebbe chiamarsi

senso, bensì disposizione [corsivo mio], in base alla

quale nel soggetto necessitano anche i motivi morali,

oltre agli stimuli. In sensu proprio quindi è

un’assurdità, un mero analogon sensus, e serve

esclusivamente a esprimere una facoltà (e non una

recettività) per cui non abbiamo un nome»118.

Rifiutando qualunque ruolo moralmente fondante al sentimento,

per Kant risulta sempre più difficile trovare un termine adatto a

ciò che spinge concretamente l’azione. E’ l’interesse, certo.

L’interesse immediato per l’azione, interesse a realizzare ciò che

la ragion pratica comanda. Non un’inclinazione ma al massimo

un desiderio di tipo superiore a quello della mera inclinazione.

Ma come si produce tale disposizione nel soggetto? Impossibile

da sapere. Si può solo constatare che c’è, non come

sopraggiunge. Gli esiti estremi della Dissertazione emergono in

tutta la loro forza. Il volto oggettivo della norma, la valutazione,

ha nel rispetto della legge il suo percorso corretto, rendendo

possibile la costruzione di una metafisica dei costumi. Il volto

soggettivo della norma, la motivazione, apre un’altro campo di

indagine, di tipo osservativo. Così Kant è costretto a compiere

una scelta: approfondire l’indagine antropologica a scapito

dell’efficacia teorica o lasciare insoluta la questione della

motivazione per proseguire sulla strada indicata dalla metafisica

dei costumi. Ma Kant opta per una terza strada: rimandare119 la

questione della motivazione per approfondire quella della

valutazione morale. Le conseguenze di questa scelta si

ritroveranno nella Critica della Ragion Pratica quando troverà

un termine specifico per giustificare la condizione di possibilità

118 cit. I. KANT, Refl. 5448, XVIII 185 (1776-1778), così come citato da S. BACIN, ibid., p. 123.119 Come vedremo più avanti, nella Critica della Ragion Pratica il capitolo terzo dell’Analitica sarà dedicato proprio ai Moventi della Ragion Pura Pratica dove il filosofo analizzerà il ruolo del sentimento.

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dell’imperativo categorico: la legge morale come un fatto della

ragione.

Dopo aver chiarito la difficile questione tra quaestio

diiudicationis e quaestio executionis, possiamo proseguire con

l’analisi della Fondazione.

---

L’oscillazione costante tra la valenza normativa e insieme

descrittiva degli imperativi giustifica la loro classificazione di

stampo “antropologico”. La triade di abilità, prudenza e moralità

rientra in un’indagine osservativa poco lecita dal punto di vista

sistematico120. Eppure non è la dimostrazione della dipendenza

della morale kantiana dall’antropologia, semmai una diretta

conseguenza del fatto che la regola con cui un dovere viene

formulato contiene implicitamente una prescrizione ed

esplicitamente la sua motivazione: non si presenta come un

comando ma è un modo di agire, e questo modo di agire viene

avvertito (nel cuore umano) come un comando, ovvero non nella

forma di un’azione possibile ma necessaria. Non a caso la

definizione più asciutta dell’imperativo la troviamo circa dieci

anni prima della Fondazione quando nelle Reflexion Kant

afferma che «gli imperativi sono regole (oggettive) delle

azioni»121 (soggettive). Ovviamente questa qualità

dell’imperativo vale nel caso in cui esso è categorico, dove il

fine non dipende dal mezzo con cui lo si realizza in vista di uno

scopo possibile (problematico) né per il conseguimento di uno

scopo reale122 (assertorio) - entrambi infatti comandano

ipoteticamente - ma in quanto esso comanda immediatamente

questo comportamento, senza alcuna rilevanza per il mezzo

utilizzato. Cosa comanda? Lo abbiamo già visto verso la fine

120 Come riferisce S. BACIN in ibid., p. 109.121 cit. Reflexion 6936, XIX 2010; 1776-1778, così come citata da S. BACIN, ibid., p. 110.122 cfr. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 63. L’imperativo teso al conseguimento della felicità, fondato su un principio assertorio, è di grado superiore rispetto a quello formulato sulla base di un principio problematico. Purtroppo non potrà mai essere categorico perché è un concetto empirico, quindi non universale, determinato in maniera diversa in ogni essere razionale.

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della prima sezione: se l’imperativo, dice Kant, comanda la

conformità della massima alla legge, allora «non resta altro che

la conformità alla legge in generale come ciò a cui la massima

dell’azione deve essere conforme»123. Eccoci approdati al primo

imperativo categorico che non occorre qui ripresentare.

Possiamo invece passare, brevemente, all’esposizione degli

ultimi due imperativi.

- Il secondo imperativo categorico

Se dunque la natura umana è tagliata fuori dal processo di

formulazione degli imperativi, il passo successivo di Kant sarà

nel dimostrare che l’imperativo categorico consiste in un

comando a priori, giungendo così alla sua seconda

formulazione. Per il filosofo la questione è la seguente: “è una

legge necessaria per tutti gli esseri razionali giudicare sempre le

proprie azioni secondo massime tali che essi possano volere

debbano servire da leggi universali?”124. La ragione è la causa

del retto comportamento, causa non di ciò che accade ma di ciò

che deve accadere, anche se non accade mai, e la volontà è la

facoltà di determinare se stessa in conformità alla

rappresentazione di certe leggi125. Il fondamento oggettivo

(universale) dell’autodeterminazione della volontà è il fine e

anch’esso dovrà essere oggettivo se è dato dalla sola ragione.

Ma questo fondamento è anche soggettivo visto che, oltre ad

avere lo stesso valore per tutti, ha lo stesso valore anche per noi.

Cos’è fine in se stesso oggettivamente e soggettivamente?

L’uomo, l’umanità, meglio ancora tutti gli esseri razionali.

Trattare l’umanità come fine, mai semplicemente come mezzo, è

il secondo imperativo categorico126.

La cosa interessante da notare in questa seconda formulazione è

ciò che Kant chiama specificamente il fine: non l’uomo, ma

123 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 74-75.124 cfr. Ibid., p. 87. 125 cfr. ibidem.126 cfr. ibid., p. 89.

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l’umanità, non la persona ma ogni essere razionale. Ancora una

volta il filosofo ha ben presente la conseguenza di una teoria

morale che rifiuta ogni fondamento empirico-sentimentale e

normativo-astratto. Non è la natura dell’uomo a caratterizzarlo

come fine in sé, ma la sua ragione, l’unica ad essere principio

supremo insieme soggettivo e oggettivo127.

- Il terzo imperativo categorico

«Il fondamento di ogni legislazione pratica, infatti,

sta oggettivamente nella regola e nella forma

dell’universalità che la rende in grado di essere (in

base al primo principio) una legge (nel caso, della

natura), soggettivamente, invece, sta nel fine, e il

soggetto di tutti i fini è però ogni essere razionale,

come fine in se stesso (in base al secondo

principio)»128.

Se il soggetto è fondamento oggettivo e soggettivo della

legislazione pratica allora la sua volontà non può che essere

autolegislatrice, autrice della legge a cui si sottopone129. E’ «la

suprema condizione dell’accordo di essa [la volontà] con la

ragione pratica universale»130. Eccoci così approdati al terzo

imperativo categorico.

La volontà come autolegislatrice conferma il mantenimento

degli imperativi sotto il profilo razionale, senza alcun principio

estrinseco o antropologico.

127 cfr. ibid., p. 91: «Il fondamento di questo principio è: la natura razionale esiste come fine in sé. Così, necessariamente . l’uomo si rappresenta la propria esistenza; e in tal misura questo è un principio soggettivo delle azioni umane. Così, però, anche ogni essere razionale di rappresenta la propria esistenza, in conseguenza del medesimo fondamento razionale che vale per me; dunque esso è insieme un principio oggettivo». 128 cit. ibid., p. 95.129 Qui risiede, secondo Kant, la sublimità e la dignità della persona: «[…] in una tale persona non v’è certo sublimità in quanto sia sottoposta alla legge morale, ma invece in quanto, riguardo alla legge, tale persona sia insieme legislatrice e solo per questo ad essa sottoposta». cit. ibid., p. 115. 130 cit. ibidem.

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«Quando infatti pensiamo una tale volontà, sebbene

una volontà che stia sotto leggi possa pur essere

legata a questa legge per mezzo di un interesse, è

impossibile che, in quanto essa stessa supremamente

legislatrice, dipenda da qualche interesse»131.

Si noti qui tutta la difficoltà di trovare un termine adatto per ciò

che interessa l’uomo sotto l’aspetto puramente razionale. E’

interesse dell’uomo, in quanto essere razionale, sottoporre la

volontà alle leggi che essa stessa si pone, ma questa stessa legge

non deve essere legata ad alcun…interesse. Si potrebbe

affermare che da un lato c’è l’interesse tout-court come interesse

empirico, ma anche l’interesse razionale senza alcun carattere

empirico, che quindi sarebbe più adatto definire disposizione

morale, sulla base di quanto lo stesso Kant ha affermato dieci

anni prima132. L’impossibilità di spiegare cosa sia l’interesse per

la legge morale è, potremmo dire, per quanto sia inappropriato il

termine, un dato di fatto. E’ nella qualità dello stesso interesse

l’impossibilità di poterlo comprendere. Una qualità in comune

con un altro elemento, un’idea, quella di libertà. Sarà lo stesso

Kant, nella terza sezione, a chiarire questa difficoltà:

«L’impossibilità soggettiva di spiegare la libertà

della volontà è tutt’uno con l’impossibilità di

rendere manifesto e concepibile un interesse che

l’uomo potrebbe prendere per le leggi morali; e

tuttavia realmente egli prende per queste un

interesse, il cui fondamento in noi chiamiamo

sentimento morale, falsamente considerato da alcuni

come il criterio del nostro giudicare di moralità»133.

131 cfr. ibid., p. 97.132 cfr. p. 47 della mia tesi, ovvero I. KANT, Refl. 5448, XVIII 185 (1776-1778), così come citato da S. BACIN, ibid., p. 123. 133 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., pp. 155-157.

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La preoccupazione per Kant risiede sempre nel rendere più

efficace la sua teoria morale rispetto a quelle in voga nel suo

tempo, efficacia che trova la sua strada in un fondamento

razionale, oggettivo (universale) e soggettivo (gli esseri

razionali). Questo è il motivo per cui formula tre imperativi

categorici anziché uno quando in realtà il primo è già

sufficiente134. Scrive Kant:

«Infatti, che io debba limitare la mia massima […]

alla condizione della sua validità universale, come

legge, per ogni soggetto, significa lo stesso che dire:

il soggetto dei fini […] non deve mai essere posto a

fondamento delle massime semplicemente come

mezzo, bensì come suprema condizione limitativa

nell’uso di tutti i mezzi, ossia sempre insieme come

fine.

Di qui segue allora in modo inoppugnabile che ogni

essere razionale come fine in se stesso deve potersi

considerare […], insieme come universalmente

legislatore»135.

Abbiamo affermato in precedenza136 che Kant abbandona

l’aspetto motivante della norma per concentrarsi sulla sua

valutazione. In verità l’approfondita esposizione degli imperativi

in tre formule dimostra come il filosofo non abbia mai

abbandonato questa strada e come gli risulti difficile seguire

entrambe le strade. L’aspetto motivante solleva troppi problemi,

per questo Kant sceglie di concentrarsi su quello valutativo che

gli permette di postulare gli imperativi senza che la loro

“assiomaticità” li renda incerti137. Ma resta pur viva la 134 cfr. I. KANT, Fondazione, ibid.: «I tre modi sopra indicati di rappresentare il principio della moralità sono però, in fondo, solo altrettante formule di una stessa legge».135 cit. ibid., p. 109-111.136 cfr. pp. 47-48. 137 Per Kant l’imperativo è una proposizione sintetica che per essere “sciolta” richiede una critica della ragione pratica. Spiega il filosofo nella nota a p. 73 della Fondazione: «Io, senza una presupposta tratta da una qualche inclinazione, connetto a priori con la volontà in atto, quindi in modo necessario […]. Questa è dunque una proposizione pratica, che non deduce analiticamente il volere una azione da un altro volere già presupposto». E ancora, più avanti, a p. 115: «Che

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preoccupazione di rendere accessibile il precetto morale,

compito affidato al secondo e terzo imperativo categorico. Il

principio, o meglio la legge, per cui bisogna “agire secondo la

massima che può fare di se stessa una legge universale” è

l’espressione più propria della legge morale: è universale e

attiene all’agire pratico del soggetto come essere razionale e non

come essere vivente. Eppure è fredda, lontana proprio

dall’essere umano in quanto agente. Il rischio è che quest’ultimo

lotterà sempre per anteporre i propri bisogni, facendo pendere la

dialettica naturale tra dovere e inclinazioni dalla parte di questi

ultimi. Così Kant ritiene utile far passare un’azione attraverso

tutti e tre gli imperativi ai fini dell’accessibilità della legge

morale «e con ciò avvicinarla, per quanto sia possibile,

all’intuizione»138.

Le ultime pagine139 della seconda sezione riassumono la

differenza tra la teoria morale kantiana e quelle in voga nel suo

tempo. Il supremo principio della moralità è il principio di

autonomia della volontà, ogni altra volontà che cerca “la legge

che deve determinarla in un qualsiasi altro luogo che non sia la

conformità delle sue massime alla propria legislazione

universale” è eteronoma. Kant stabilisce una volta per tutte che

né il sentimento morale né la felicità possono fondare leggi

morali, per un motivo determinante: non possono pretendere

universalità. Il motivo di ciò risiede nel fatto che senso morale e

felicità traggono il loro fondamento dalla “particolare

costituzione della natura umana”140.

E’ un punto molto importante ai fini della comprensione della

particolare piega che ha ormai preso l’etica di Kant. Il filosofo

non esclude la natura umana dal campo dell’azione, sarebbe un

questa regola pratica sia un imperativo non può essere dimostrato con una semplice analisi dei concetti che occorrono nella volontà, perché tale regola è una proposizione sintetica; si dovrebbe andare oltre la conoscenza dell’oggetto e spingersi sino ad una critica del soggetto, ossia della ragione pura pratica […] il che è un ufficio che però non appartiene alla presente sezione».138 cit. I. KANT, ibid., p. 107.139 Mi riferisco a ibid., pp. 115-125 dove Kant espone il principio dell’autonomia e dell’eteronimia della volontà. 140 cit. ibid., p. 119.

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grave errore farlo, e gli accenni al “cuore umano” e i concetti di

rispetto della legge e di interesse dimostrano che non l’ha mai

fatto. Piuttosto la natura umana non può essere il fondamento

dell’etica, non è lì che bisogna ricercare il luogo di origine di

concetti morali che spingono ad agire. Si tratta di

un’impostazione terribilmente delicata che porterà la teoria

morale a una sorta di stallo. Abbiamo già visto che i concetti

morali hanno una “consistenza” noumenica rispetto a quelli con

i quali conosciamo gli oggetti, ma nello stesso tempo, come

afferma Kant Critica della Ragion Pura141, essi sono ciò che

spingono il soggetto ad agire, per cui non possono essere

completamente puri, altrimenti non motiverebbero all’azione. E’

la difficoltà più grande: come rendere efficace una teoria morale

siffatta? Un’etica razionalistica di questo stampo richiede una

costruzione teorica dove l’indagine pura è necessaria al fine di

rendere universale ciò che è in mio dovere, ma se vuole essere

efficace deve anche contenere uno svolgimento applicativo:

cos’è che mi spinge ad agire, che mi motiva?

Le ultime pagine della seconda sezione servono da ponte per

introdurre la terza e ultima sezione. Kant chiarisce che la regola

con la quale il dovere si espleta, l’imperativo categorico, è il

frutto di un’indagine analitica di proposizioni pratiche sintetiche

a priori. Affinché sia possibile conoscere l’uso sintetico della

ragione pratica, ovvero come siano possibili tali proposizioni,

occorre una critica della ragione pura pratica, “di cui nell’ultima

parte presenteremo i lineamenti principali e sufficienti ai nostri

scopi”142.

Fondazione: terza sezione

141 «i concetti morali sono concetti della ragione non completamente puri, perché hanno alla base qualcosa di empirico (piacere e dispiacere)» così come citato da S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., p. 160.142 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 125.

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La terza sezione della Fondazione costituisce un capitolo a sé.

Mentre in precedenza Kant ha analizzato la costituzione morale

sulla base della “conoscenza razionale comune della moralità”,

in quest’ultima parte opera una deduzione trascendentale per

spiegare non come, ma se sia possibile una tale costituzione

morale che opera nella forma della legge. Si tratta di una

deduzione che verrà abbandonata nell’impianto sistematico

futuro della filosofia morale143. Nondimeno vi sono importanti

considerazioni su cui possiamo soffermarci che riguardano la

“costrizione morale” che l’uomo avverte nella forma del dovere.

Kant presenta la curiosa situazione in cui si trova un essere

razionale che si pensa libero nell’ordine delle cause efficienti e

insieme sottoposto a queste stesse leggi, contraddizione che al

livello morale si presenta in un soggetto che si sottopone alle

leggi che esso stesso si da:

«Perciò un essere razionale […] ha dunque due punti

di vista dai quali può considerare se stesso […]: un

primo, in quanto appartiene al mondo sensibile, sotto

leggi di natura (eteronomia), un secondo, in quanto

appartenente al mondo intelligibile, sotto leggi che,

indipendenti dalla natura, non sono fondate

empiricamente bensì solo sulla ragione»144.

Mai fu più chiara una presentazione così sintetica della ‘svolta

critica’. Essa spiega molte cose. La costrizione che si prova

nell’agire sulla base di un principio di ragione è il dovere, ed è

avvertito come tale nel momento in cui il soggetto smette di

pensarsi come volontà pura e agisce concretamente. Il concetto

di obbligazione riceve così una sistemazione sua propria

all’interno della coppia soggettivo/oggettivo: ci pensiamo come

obbligati perché ci consideriamo, in quanto agenti concreti,

143 L’idea della libertà come causa della legge morale sarà lasciata cadere dal filosofo tedesco tre anni più tardi nella Critica della Ragion Pratica quando affermerà che la legge morale è un “fatto della ragione”.144 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 141.

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appartenenti al mondo sensibile e tuttavia nello stesso tempo, in

quanto agenti morali – sotto l’idea della libertà - al mondo

intelligibile. Non si tratta di un paradosso, per lo stesso motivo

per cui possiamo considerare una stessa cosa nel modo in cui ci

impressiona (fenomenicamente) e nel modo in cui è in sé stessa

(noumenicamente). Si tratta di due rapporti differenti in cui è

coinvolto il soggetto:

«E’ però impossibile sfuggire a questa

contraddizione se il soggetto che si presume libero

pensa se stesso, quando si dice libero, nello stesso

senso o nello stesso rapporto secondo il quale,

riguardo la medesima azione, si assume come

sottoposto alla legge naturale145».

Eppure – riferisce Kant qualche rigo dopo - le due cose:

«Non solo possono benissimo stare l’una accanto

all’altra, ma devono anche essere pensate come

necessariamente riunite nello stesso soggetto»146.

Tradotto sul piano morale significa che:

«Il dover essere morale è dunque, in quanto è

membro di un mondo intelligibile, proprio volere

necessario, e viene da costui pensato come dover

essere solo in quanto si consideri insieme come

membro del mondo sensibile»147.

La libertà è quindi sempre un concetto negativo, come

indipendenza, e insieme un’idea positiva. Poiché la libertà si

espleta in un individuo che agisce nel mondo, che fa della sua

145 cit. ibid., p. 149146 cit. ibid.147 cit. ibid., p. 145.

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causalità indeterminata qualcosa di determinato, essa non può

che presentarsi nella forma di una legge, di un comando. Un

imperativo siffatto non può essere concepito se non in questi

termini, per cui ci resterà sempre precluso come esso sia

possibile – «come la ragione pura possa essere pratica»148 -

perché la comprensione è tale solo lì dove un’esperienza è

possibile. Essendo incomprensibile la legge morale, lo è allo

stesso modo l’interesse per essa, non avendo per oggetto niente

di sensibile ma un principio di ragione. Questo è il motivo per

cui non è l’interesse che mi spinge ad agire moralmente ma la

massima che, nel momento in cui la voglio oggettiva, suscita un

interesse per me.

«[…] allora la spiegazione del come e del perché la

universalità della massima in quanto legge, dunque

la moralità, ci interessi, è per noi uomini del tutto

impossibile. Una sola cosa sin qui è certa: che la

legge non ha validità per noi perché interessa […],

ma interessa perché vale per noi in quanto uomini, in

quanto è sorta dalla nostra volontà come

intelligenza, dunque dal nostro proprio sé; ciò che

però appartiene al puro fenomeno, viene dalla

ragione necessariamente subordinato alla

costituzione della cosa in sé»149.

Lo scioglimento effettivo del paradosso avviene quindi nel

momento in cui si considera il piano intelligibile fondamento di

quello sensibile.

Lo scoglio della motivazione morale - l’impossibilità di spiegare

cos’è che mi spinge ad agire moralmente - è così in parte

giustificato dal fatto che è un campo nel quale la conoscenza

non ha alcun potere. La valutazione non è motivata così come la

motivazione non è valutabile. Due campi distinti e insieme

148 cit. ibid., p. 153.149 cit. ibid., p. 159.

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compresenti nel dominio soggettivo. In altre parole, la

trattazione a priori della motivazione morale resta preclusa, lì

dove è invece possibile un’analisi pura per ciò che attiene le

regole con le quali la ragione organizza i principi del volere.

Kant ha chiarito a sufficienza, nell’approfondita analisi degli

imperativi svolta nella Fondazione, cosa egli intenda per ragione

pratica. Nell’ambito morale la ragione non è un semplice

strumento chiarificatore che illumina l’agire. Quest’ultimo è

piuttosto il suo uso “tecnicamente pratico” volto alla

formulazione di imperativi ipotetici: la ricerca di mezzi idonei

alla realizzazione di scopi sollecitati dall’inclinazione. Ciò

significa che la ragione pratica vera e propria non è una

semplice guida, non illumina bensì determina: ha una specifica

causalità in principi a priori che valgono come leggi per un

essere che agisce nel mondo sensibile. Per cui essa non riceve i

principi dall’esterno ma li formula in tutta autonomia. Inoltre, ed

è qui che risiede a mio avviso l’originalità e la forza del pensiero

morale kantiano, tale causalità, parafrasando la felice

espressione di S. Bacin150, è tutta interna al soggetto. Ciò

significa che nel principio a priori non si trova soltanto la regola

per agire ma anche il motivo: niente che non provenga dalla

ragione mi spinge ad agire moralmente. La ragione pratica,

quindi, non guida ma comanda e, oltre a comandare, spinge ad

agire. E’ insieme norma e motivo.

Tale ispirazione internalistica dell’indagine morale kantiana la

troviamo fin dagli anni ’70, quando il filosofo inizia a occuparsi

di teoria morale e si domanda cosa sia un’azione morale:

«la bontà di ogni azione sta nell’azione stessa […],

nel compiacimento o nel dispiacere da parte della

sola ragione per un’azione libera»151.

150 cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, p. 127. Lo studioso parla di ispirazione internalistica del pensiero morale di Kant.151 cit. Prakt. Phil. Powalski, XXV 109-110, così come citato da S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., p. 85.

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Pur essendo ancora terminologicamente ambiguo nel descrivere

l’uso pratico della ragione, in queste righe emerge già quale

debba essere il punto di partenza e di arrivo della buona azione:

la ragione e nient’altro.

L’antinomia della libertà non si può sciogliere, se così fosse la

svolta copernicana non avrebbe più senso, piuttosto essa non

rientra più nel campo dell’indagine morale. Fintanto che si

pretende di conoscere la causalità spontanea della libertà il

circolo vizioso che rimanda libertà e legge morale ritorna senza

soluzione di continuità: la conoscenza si riferisce a oggetti che

appaiono e questi ultimi non possono mostrarsi che in un

determinismo senza scampo. Ma la causalità spontanea non è un

fenomeno bensì una cosa in sé.

«Come ora la ragione pura […] possa essere per sé

pratica […] è cosa di cui ogni umana ragione è del

tutto incapace»152.

La soluzione allora sta nell’incomprensibilità della libertà,

ovvero nel fatto che quest’idea è tale per cui essa può esser

pensata ma non certo conosciuta, ed è proprio questo il senso

dell’affermazione di Kant nella nota conclusiva della

Fondazione:

«E così noi certo non concepiamo la necessità

pratica incondizionata dell’imperativo morale, ma

concepiamo la sua inconcepibilità»153

Possiamo così riassumere lo status pratico dell’uomo in questo

modo:

152 cit. I. KANT, ibid., pp. 160-161.153 cit., ibid., p. 165.

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a) E’ membro del mondo intelligibile.

b) In quanto membro di questo mondo intelligibile è

libero.

c) Se la libertà è spontaneità (indipendenza da

qualsiasi motivo determinante empirico) deve

necessariamente connotare la volontà pura come

autonoma.

d) L’autonomia è tale che, poiché l’uomo agisce nel

mondo, si espleta in una volontà soggetta alle

inclinazioni.

e) L’autonomia in un uomo soggetto alle

inclinazioni si presenta come dovere154.

Ora, se la libertà non può esser dedotta, ciò significa che la

libertà non può essere conosciuta? La risposta è ovviamente

negativa perché l’uso teoretico dell’idea della libertà è nella sola

forma di un’antinomia. Ma il suo uso pratico ha un’altra forma.

Non richiedendo un corretto uso logico del pensiero ma una

regola pratica nella forma di un imperativo che pretende validità

categorica, il fine della libertà non è la conoscenza ma il suo

“uso” da parte di una volontà determinata da un principio a

priori. In conclusione, spiegare come la ragione pura possa

essere pratica è impossibile, perché è impossibile spiegare la

realtà della libertà.

«La ragione travalicherebbe tutti i suoi limiti se essa

osasse spiegare a se stessa come la ragione pura

possa essere pratica, ciò che sarebbe tutt’uno col

compito di spiegare come la libertà sia possibile»155.

Il rischio di approdare nello scetticismo è alto, Kant lo sa bene,

ma esso è scongiurato nel momento in cui la questione viene

posta in termini diversi: se ci è preclusa la possibilità di sapere

154 cfr. M. IVALDO, Libertà e moralità a partire da Kant, ibid., p. 21.155 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. ?.

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come la ragione pura possa essere pratica, nondimeno è

possibile mostrare che vi è una ragione pura pratica. Questo è il

compito affidato alla Critica della Ragion Pratica.

Parte II: le novità della Critica della Ragion Pratica

1. La Critica della Ragion Pratica : la sua funzione aggregatrice

e il fatto della ragione (1788)

Presentare la seconda Critica come il frutto di un impulso

architettonico impedisce di cercarne le motivazioni autentiche.

Se si trattasse di un’opera spinta da un’esigenza sistematica non

si spiegherebbe il motivo per cui Kant abbia dovuto scrivere

successivamente una Metafisica dei Costumi che assolve, in

campo morale, degnamente questo compito. Invece la stesura

della Critica della Ragion Pratica156 rispecchia due esigenze. In

primo luogo quella di perseguire gli obiettivi posti a partire dalla

conclusione della terza sezione della Fondazione: sviluppare –

con una critica della ragion (pura) pratica, lì dove sette anni

prima la critica ha riguardato la ragione (speculativa) pura - e

non completare la metafisica dei costumi. In secondo luogo

156 Su questo testo mi atterrò a I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ed. Laterza, Bari 2008, abbreviato in KpV, così come la Critica della Ragion Pura, ed. Laterza, Bari 2010, sarà abbreviata in KrV.

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rispondere alle critiche dello scritto del 1785157, compito affidato

alla prefazione.

Lo sviluppo di una metafisica dei costumi doveva ovviamente

continuare sulla base dell’impostazione data dalla Fondazione,

in particolare dalle prime due sezioni, ma la Critica della

Ragion Pratica si costruisce in parte su un piano differente

rispetto allo scritto del 1785. Giunti a questo punto, il progetto

di una metafisica dei costumi non poteva partire nuovamente

dagli stessi strumenti concettuali dello scritto di tre anni

precedente altrimenti ci si sarebbe ritrovati di fronte ad una

sterile ripetizione. Kant ricerca così una base più profonda per

l’elaborazione della teoria morale. Il nuovo strumento

concettuale non è più la “coscienza morale comune” ma la

volontà concreta che si esprime nella forma del dovere.

Apparentemente l’una sembra escludere l’altro – la volontà

concreta si esprime in massime soggettive e il dovere in leggi

oggettive – ma in verità, trattandosi di una filosofia pratica

soggettiva, entrambe risiedono in un unico dominio pratico-

morale. L’ispirazione internalistica della filosofia morale

kantiana è un tratto caratteristico della sua teoria che il filosofo

porta avanti fin dagli anni ’60, da quando distinse tra principi

materiali e formali158. Per cui, come spiega S. Bacin, il rapporto

tra massima e legge non è mai stato problematico visto che la

norma morale, per poter essere valida come tale, deve avere un

rapporto costitutivo con la determinazione effettiva della

157 Si tratta delle critiche ricevute dai seguenti filosofi e studiosi: G. A. Tittel che sulla Grundlegung: Ueber Herrn Kants Moralreform, Frankfurt und Leipzing, 1786, p. 35, criticava gli imperativi come semplici formule senza alcun nuovo principio della moralità, per cui secondo lo studioso Kant “annuncia come nuove in un linguaggio incomprensibile cose del tutto note”, accusa respinta perché non critica niente ma conferma proprio ciò che Kant intende con gli imperativi, ovvero nient’altro che formule; il pastore H. A. Pistorius che nella Grundlegung, «Allgemeinen deutschen Bibliothek», Bd. 66, p. 447 e sgg., obiettava che il concetto di bene non è stabilito prima del principio morale. Kant risponde (in KpV, ibid., A105-A111, pp. 129-137) con la distinzione tra bene come gute e wohl e male come böse e uebel arrivando alla conclusione che partire dal concetto di bene anziché dalla legge significa rinnegare il suo stesso metodo che analizza prima di definire; infine J. Fr. Flatt osserva che il rimando reciproco di legge morale e libertà è un circolo vizioso. In una nota nella KpV, ibid., p. 5, Kant risponde con la famosa distinzione tra la libertà come ratio essendi della legge morale e quest’ultima come ratio cognoscendi della libertà. «Poiché, se la legge morale non fosse prima pensata chiaramente nella nostra ragione, noi non ci terremmo mai autorizzati ad a m m e t t e r e una cosa come la libertà […]. Ma se non vi fosse libertà, la legge morale non si potrebbe assolutamente t r o v a r e in noi». 158 cfr. I. KANT, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, in Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, pp. 219-236.

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volontà, che si esprime in massime159. La norma, quindi, risiede

nel soggetto che agisce sulla base di una massima. Vedremo

come nella Critica della Ragion Pratica il rapporto tra la

dimensione soggettiva della volontà e la sua determinazione

oggettiva (la legge morale) costituirà il vero nucleo tematico

innovativo apportato alla teoria morale: la legge morale come un

fatto della ragione.

La Critica della Ragion Pratica rispecchia nella sua struttura

esteriore, ma in senso inverso160, la KrV: Dottrina degli elementi,

suddivisa in Analitica e Dialettica, e Dottrina del metodo.

Mentre però nella prima Critica la sezione sull’Architettonica

della Dottrina trascendentale aveva avuto un ruolo preminente,

le parti corrispondenti della seconda Critica non avanzarono

affatto un progetto sistematico. Questo dimostra come la

seconda Critica non segue nella sostanza la prima, essendo

guidata com’è da un interesse pratico e non teoretico. La

somiglianza esteriore tra la prima e la seconda Critica riflette

quindi soltanto un’identità di strumenti concettuali piuttosto che

di contenuti: in entrambe le opere si tratta di un’analisi teorica.

La Critica della Ragion Pratica prosegue quindi il percorso di

ricerca avviato nella Fondazione anche se, come vedremo, si

distacca del tutto dai contenuti della terza sezione di

quest’ultima opera.

159 cfr. S. BACIN ne Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, p. 206: «Se deve esserci una norma morale pienamente valida come tale, essa deve avere un rapporto costitutivo con la determinazione effettiva della volontà, che si esprime in massime». 160 A confrontare l’architettura della KrV con la KpV ci pensa lo stesso Kant nella Critica della Ragion Pratica, ibid., A 161, p. 197: «Così l’analitica della ragion pura pratica divideva in modo affatto analogo all’analitica della teoretica l’intero campo delle condizioni del suo uso, ma in ordine inverso. L’analitica della ragion pura teoretica veniva divisa in estetica trascendentale e logica trascendentale; quella della ragion pura pratica, invece, in logica ed estetica della ragion pura pratica (se mi è lecito qui usar semplicemente per analogia queste denominazioni, che d’altronde non sono del tutto convenienti): la logica, a sua volta, si divideva là in analitica dei concetti e analitica dei princìpi, qui in analitica dei princìpi e analitica dei concetti. L’estetica là aveva ancora due parti […]; qui la sensibilità non viene affatto considerata come capacità d’intuizione, ma semplicemente come sentimento, e relativamente ad esso la ragion pura pratica non permette nessuna divisione ulteriore». Sul ruolo del sentimento nella KpV faremo un’analisi approfondita più avanti.

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La seconda Critica si presenta come un aggregatore161 degli

elementi di teoria morale sviluppati nei vent’anni precedenti.

Col rischio di risultare eccessivamente semplificativo, si

potrebbe affermare che la Critica della Ragion Pratica è stata

scritta in ultima analisi sulla spinta di tre fattori:

1) Rispondere alle critiche dei recensori della Fondazione.

2) Rinunciare alla deduzione trascendentale della libertà e

dimostrare la condizione di possibilità della legge morale

presentando quest’ultima come un fatto della ragione.

3) Aggregare in un’unica esposizione i concetti presentati in

vent’anni di scritti.

Le risposte ai critici della Fondazione si trovano nella

prefazione del testo, e non è necessario approfondire qui come

Kant ribatta ai recensori162. Possiamo quindi iniziare

direttamente dal punto 2: la legge morale come un fatto della

ragione, contenuto nuovo della teoria morale kantiana

Com’è noto la Critica della Ragion Pratica è stata scritta in un

periodo piuttosto breve, nel giro di pochi mesi, tra la primavera

e l’estate del 1787. Il motivo risiede in parte nello spazio

lasciato aperto dalla terza sezione della Fondazione dove Kant,

come ho mostrato nel capitolo precedente, cerca di rispondere

attraverso una deduzione trascendentale alla domanda circa la

condizione di possibilità dell’imperativo categorico, ovvero se

sia possibile una legge morale. Tale condizione è la libertà,

ovvero l’indipendenza della volontà dalla legge naturale dei

fenomeni163, indipendenza alla quale appartiene non solo l’uomo

ma - seguendo l’impostazione di metodo dell’indagine morale -

161 Termine preso dal linguaggio informatico: «[…] in linea di principio, gode lo status di aggregatore qualsiasi software o applicazione web che abbia il compito di ricercare informazioni o contenuti frammentati sul web e riproporli in "forma aggregata" per una migliore fruizione», fonte Wikipedia, link: http://it.wikipedia.org/wiki/Aggregatore. In questo caso i “contenuti frammentati” sono gli elementi di teoria morale degli scritti pre-critici e fondazionali, inclusa la Dissertazione.162 Si veda la nota alla pagina precedente.163 cfr. I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., A53, pp. 61-63.

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ogni essere razionale. Purtroppo, come osservano i recensori

della Fondazione164, la libertà rapportata alla legge morale crea

un circolo vizioso: siamo liberi perché seguiamo la legge morale

e seguiamo la legge morale perché siamo liberi. La deduzione

gira senza soluzione di continuità intorno alla domanda iniziale:

è possibile un imperativo categorico?

Già nella prefazione della Fondazione165 Kant precisa che il

problema della critica della ragione pratica non è tanto di

esonerarla dagli errori in cui la ragione speculativa si imbatte

quanto di esibirne la sua realtà, ovvero dimostrare come la

ragione pura è per se sola pratica166. Da questo presupposto si

può quindi intuire come la dialettica tra libertà e legge non può

essere un ostacolo insormontabile per la ragione. La terza

sezione della Fondazione affronta proprio questa questione ma,

pur sostenendo che il concetto della moralità si riconduce

all’idea della libertà, il filosofo deve ammettere di non aver

dimostrato la realtà della libertà. Perciò il problema della

deduzione resta e può essere riassunto in questi termini: se

dall’idea della libertà scaturisce la legge morale non si spiega

perché, come esseri ragionevoli, ci si debba sottoporre a questa

legge167. In realtà la soluzione è a portata di mano e risiede nella

svolta critica, Kant ne è consapevole, e nelle ultime pagine della

Fondazione anticipa quella che sarà la strada da percorrere per

evitare il circolo vizioso:

«Cercare se, quando ci pensiamo come cause

operanti a priori con libertà, non ci mettiamo da un

altro punto di vista da quello in cui ci mettiamo

quando ci rappresentiamo noi stessi, nelle nostre

azioni come effetti che ci stanno dinnanzi»168. 164 In particolare J. Fr. Flatt.165 cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, ibid., p. ?.166 cfr. M. IVALDO, Libertà e moralità a partire da Kant, ed. Il Prato, Saonara 2009, p. 18.167 cfr. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 135: «[…] che ci consideriamo liberi nell’agire, e dobbiamo tuttavia ritenerci sottoposti a certe leggi per trovare, semplicemente nella nostra persona, un valore che possa compensarci di ogni perdita di ciò che procura un valore al nostro stato, e come ciò sia possibile, quindi perché la legge morale ci obblighi, non possiamo in questo modo ancora comprenderlo». 168 cit. ibid., p. 151.

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Mettersi da “un altro punto di vista” non è nient’altro che la

prospettiva critica:

«Il concetto di un mondo intelligibile è dunque solo

un punto di vista che la ragione si vede costretta a

prendere al di fuori dei fenomeni, per pensarsi come

pratica»169.

L’uomo, in quanto essere razionale e insieme senziente, è

cittadino di due mondi, o meglio vede lo stesso mondo da due

prospettive differenti, intelligibile e sensibile, in forza del quale

uno stesso oggetto può essere ora pensato in se stesso, ora

intuito empiricamente come fenomeno per poter esser

conosciuto. Ma, se il concetto di fenomeno presuppone la cosa

in sé170, quando l’uomo pensa se stesso come fenomeno della

natura deve ammettere che a fondamento di tale soggetto stia il

suo io non-fenomenico. Tale soggetto “in sé” è ovviamente

libero poiché non è affetto, non appartiene al mondo sensibile

bensì a quello intelligibile dove l’indipendenza dalle leggi di

natura lo pone come pura spontaneità. La facoltà che lo

distingue da tutto ciò a cui è affetto, una facoltà spontanea

quindi, è la ragione. Perciò l’uomo grazie alla pura attività della

ragione appartiene al mondo intelligibile e, anche se il

determinismo è la legge causale della natura, la pura spontaneità

della ragione lo sottrae nel pensiero a questa causalità,

rendendolo libero.

In realtà questa non è la soluzione del problema (è possibile un

imperativo categorico?) perché non fa che ripetere la terza

antinomia della Critica della Ragion Pura: nel mondo, al

determinismo della legge di natura si affianca come una retta

parallela la causalità spontanea della ragione mediante la libertà.

169 cit., ibid., p. 153. 170 Ibid., p. 159: «ciò che appartiene al puro fenomeno, viene dalla ragione necessariamente subordinato alla costituzione della cosa in sé».

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Resta quindi incomprensibile se questa pura spontaneità possa

causare un’azione libera nel mondo sensibile. La risposta non

c’è, afferma la ragion pura, poiché avvilupperebbe il pensiero in

una contraddizione. Invece c’è, ribatte la ragion pratica, perché

il circolo vizioso teoretico tra libertà e legge non ha ragione di

esistere sul piano pratico. La causalità spontanea della libertà,

anche se risiede in un essere che non può sottrarsi al

determinismo della legge di natura, per cui non può conoscere

tale causalità, pur essa gli appartiene nella sua essenza. Vediamo

come.

Kant osserva che la ragione pratica per poter esser giustificata

nella sua realtà non deve, come abbiamo visto, conoscere ma

piuttosto esercitare il suo ufficio che consiste nel determinare la

volontà171. Ma se questa volontà non è libera, cos’è che permette

alla ragione di essere pratica, cos’è che nella coscienza

dell’uomo viene avvertito immediatamente come un prodotto di

essa? Non può essere nient’altro che la legge.

Per il filosofo è innegabile che il soggetto morale nutra un

interesse verso la legge. Una convinzione che risale fin dagli

albori della sua ricerca del principio della moralità. Ora tale

coscienza di una realtà pratica della ragione è la legge morale, la

sua realtà che, seppur problematica, ovvero indimostrabile,

nondimeno è reale. «[…] Qui la ragion pura pratica in sé è

immediatamente legislativa»172. La cosa è abbastanza singolare,

Kant ne è consapevole:

«Poiché il pensiero a priori di una legislazione

universale possibile, il quale dunque è

semplicemente problematico, vien presentato

incondizionatamente come legge, senza prendere in

171 I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., p.35: «I principi pratici sono proposizioni che contengono una determinazione della volontà»..172 cit., ibid., p. 65.

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prestito qualcosa dall’esperienza o da una volontà

esterna»173.

E se la coscienza della legge resta, mentre è preclusa la sua

conoscibilità, allora è necessario stabilire la legge morale come

un fatto, ovvero è tale non perché la si possa dedurre ma perché

si impone174. La coscienza della legge morale è la realtà della

ragion pura pratica, il fatto. In termini inversi, la realtà della

ragion pratica è la coscienza di essa, il fatto della ragione.

La teoria morale kantiana arriva così ad un traguardo

importante. Kant rinuncia definitivamente alla deduzione della

libertà perché quest’ultima non è giustificabile: la legge è un

fatto non perché si può dedurre dalla coscienza della libertà ma

perché si impone come proposizione sintetica a priori175.

L’impasse in cui si cade nel dedurre la libertà, concetto

mediante il quale una legge morale è possibile, si evita

mantenendo da un lato la funzione della libertà come condizione

di possibilità della legge (ratio essendi), dall’altro rinunciando

alla sua giustificazione per il fatto che l’interesse della ragione

pratica è solo per la legge. La libertà non è la ratio cognoscendi

della legge ma è la legge ad essere ratio cognoscendi della

libertà:

«[...] la spiegazione del come e del perché la

universalità della massima in quanto legge, dunque

la moralità, ci interessi, è per noi uomini del tutto

impossibile. Una sola cosa sin qui è certa: che la

legge non ha validità per noi perché interessa […],

ma interessa perché vale per noi come uomini, in

173 cit. ibid., pp. 65-67.174 cfr. ibid., p. 67: «La coscienza di questa legge fondamentale si può chiamare fatto della ragione, non perché si possa dedurre per ragionamento da dati precedenti della ragione, per es., dalla coscienza della libertà (perché questa coscienza non ci è data prima), ma perché essa ci s’impone per se stessa come proposizione sintetica a priori, la quale non è fondata su nessuna intuizione né pura né empirica».175 cfr. ibid supra.

75

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quanto è sorto dalla nostra volontà come

intelligenza»176.

Lo status in cui il soggetto si trova nel momento in cui si chiede

cosa debba fare è questo: egli è libero di fare ciò che deve non

semplicemente ciò che vuole. Se la sua libertà fosse tale perché

fa, la sua volontà sarebbe santa e una legge non sarebbe più

necessaria. L’esercizio della libertà non è così ulteriormente

deducibile se non a partire dal fatto che la ragione pratica è

immediatamente legislativa. Vediamo come l’impostazione della

terza sezione della Fondazione è abbandonata del tutto, ma non

la sua convinzione di fondo: la libertà, pur non essendo

deducibile, nondimeno costituisce l’essenza dell’azione morale.

Il motivo per cui ci sentiamo obbligati risiede nel fatto che la

volontà morale, anche se è libera perché determinata in tutta

autonomia dalla ragione, pur è costantemente soggetta alle

inclinazioni. Se le cose non stessero così il determinismo

sarebbe la legge che comanda l’agire morale e una filosofia

morale non sarebbe nient’altro che una filosofia della natura.

La legge è quindi il principio morale supremo che, non avendo

fondamento empirico ma a priori, ci dà la coscienza della nostra

libertà. Essa viene avvertita in noi come un fatto della ragione in

quanto si manifesta immediatamente nella nostra coscienza, e la

coscienza di tale legge permette di conoscere la libertà,

presupposto quest’ultimo della realtà della legge.

Riassumendo quindi, la legge morale non ha bisogno di una

deduzione ma si giustifica da sé. Anzi, essa, come fatto,

consente di dedurre la realtà pratica del concetto di libertà. Dal

punto di vista teoretico, infatti, l'esistenza della libertà non è

suscettibile di dimostrazione, dal momento che essa, in quanto

tesi della terza antinomia cosmologica, cade al di fuori

dell'ambito fenomenico. Dal punto di vista pratico, invece, la

libertà è una condizione sostanziale (ratio essendi) della

176 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., pp. 157-159.

76

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moralità: una moralità priva di libertà non sarebbe possibile,

perché verrebbe meno la capacità del soggetto di essere causa

prima della propria azione, e quindi dell’uomo morale di essere

legislatore di se stesso. D'altra parte, attraverso l'esperienza della

libertà l'uomo acquista la consapevolezza del "fatto" morale: la

moralità è dunque la condizione cognitiva (ratio conoscendi)

della libertà. Pur non potendo mai accertarne teoreticamente la

verità, occorre quindi ammettere la libertà umana per non

contraddire la realtà di fatto della legge morale: la libertà è un

postulato della ragion pratica. In ultima analisi, quindi, il circolo

vizioso tra libertà e legge non è aggirato né sciolto ma soltanto

posto lì dove si presenta: nello spazio teoretico del pensiero. In

tale luogo la morale non ha giurisdizione non trattandosi di

alcuna attività pratica:

«La libertà è senza dubbio la ratio essendi della

legge morale, ma la legge morale è la ratio

cognoscendi della libertà. Poiché, se la legge morale

non fosse prima pensata chiaramente nella nostra

ragione, noi non ci terremmo mai autorizzati ad

ammettere una cosa come la libertà […]. Ma se non

vi fosse la libertà, la legge morale non si potrebbe

assolutamente trovare in noi»177.

Fra libertà e legge morale vi è quindi un rimando reciproco

all’interno di una dimensione pratica e non teoretica, per cui il

rischio di un circolo vizioso speculativo è scongiurato. E’ il

rapporto tra due realtà pratiche incondizionate, con la differenza

che della libertà possiamo avere un concetto negativo

(l’indipendenza da qualsiasi motivo determinante empirico) –

per cui possiamo conoscerla indirettamente, come possibilità, a

partire dalla legge morale - mentre la legge morale la

avvertiamo immediatamente in noi nella coscienza quando

177 cit. ibid., nota a p. 5.

77

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giudichiamo di poter fare qualcosa perché siamo consci di dover

fare qualcosa. Quando noi, in virtù della libertà, pensiamo a noi

stessi quali cause efficienti a priori, assumiamo un punto di vista

diverso da quello nel quale noi ci rappresentiamo come effetti

visibili. E’ il doppio status dell’essere umano in quanto

individuo finito dotato di ragione: può pensare le cose in se

stesse e conoscerle solo come esse appaiono.

Ricapitolando, la libertà è quindi inconoscibile sul piano

teoretico, pensabile com’è nella sola forma di un’antinomia, (è

quindi pensabile solo in senso logico, nel senso di non

contraddittorio); non è conoscibile neanche sul piano morale

(non siamo assolutamente liberi), ma la sua possibilità pratica è

invece assolutamente reale, essendo ancorata alla coscienza

immediata della legge, al fatto che la ragion pratica non può che

esercitarsi nella forma di una costrizione, di uno schiacciamento

delle inclinazioni, di un comando. In altre parole noi ri-

conosciamo a priori la possibilità della libertà ma a questo tipo

di conoscenza178 non arriviamo mai realmente se non a partire

dalla legge morale.

Abbiamo in questo modo un soggetto morale che, nel momento

in cui agisce, lo fa in tutta autonomia. A mio avviso M. Ivaldo

descrive efficacemente la particolare condizione di un soggetto

morale autonomo posto in questi termini allorché definisce

l’autonomia kantiana come il progetto della volontà pura179. Una

volontà santa è una volontà esente dalle inclinazioni che agisce

immediatamente in conformità ai principi razionali. Invece la

volontà umana, che in quanto finita è costantemente sotto il

gioco degli appetiti, si pone immediatamente come un progetto.

178 Sembrerebbe sconsiderato utilizzare il termine “conoscere” dal momento che si è affermato poc’anzi l’assenza di un uso teoretico della ragion pratica. In realtà l’uso del termine “possibilità” affranca il concetto di libertà da ogni contenuto sensibile: esso si presenta come una forma di conoscenza a priori. E’ il duplice uso delle categorie: da un lato sono concetti vuoti “riempiti” dall’intuizione empirica, dall’altro possono estendersi «più in là dell’intuizione sensibile, poiché pensano oggetti in generale, senza ancora guardare alla speciale maniera (di sensibilità) nella quale gli oggetti possono esserci dati», cit. I. KANT, Critica della Ragion Pura, ibid., Analitica, lib. II, Cap. III, p. 209. 179 «L’autonomia è, verrebbe da dire, un’idea pratica - un progetto della volontà pura non un possesso già concluso dell’io volente – e l’azione a essa conforme si presenta come dovere» in.M. IVALDO, Libertà e moralità a partire da Kant, ed. Il Prato, Saonara 2009, p. 21.

78

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Occorre però spiegare come Kant inquadri il termine “fatto”

all’interno di una teoria morale che fa del formalismo il suo

punto di partenza. L’uso di questa parola, insomma, sembra

inappropriato.

L’obiezione alla “fattualità” della legge è prima di tutto

terminologica, poiché “fatto” rientra nel campo di ciò di cui si fa

esperienza. Può risultare fuorviante quindi usare l’espressione

“dato di fatto” per ciò riguarda l’uso, seppur pratico, della

ragione pura. D. Henrich sintetizza così il dubbio circa l’uso di

questi termini:

«Un concetto del genere contiene apparentemente un

controsenso. Se la ragione viene definita come

facoltà di conoscenze a priori, non si vede come essa

possa contenere qualcosa di meramente fattuale. Il

fattuale sembra appartenere all’ambito

dell’esperienza, mentre la ragione deve esigere la

pura trasparenza propria del capire»180.

Sembra quindi di trovarsi di fronte a uno sconfinamento dei

limiti tracciati dalla metafisica, riassumibile in questo problema:

com’è possibile un’esperienza - seppure interna – di qualcosa di

dato a priori? A ben vedere in ambito morale la questione è

facilmente risolvibile. Se “fatto” fosse ciò che accade, allora ad

esso si applicherebbe un giudizio. Il fatto della ragione invece

non è affatto un giudizio ma ciò che la ragione pratica fa quando

esercita se stessa. Come spiega chiaramente M. Ivaldo181, il

termine factum, sia nel suo uso latino che nella traslitterazione

tedesca, deve essere inteso come una Tat, un’azione, e non come

un tatsache, uno stato di fatto. «Il factum – spiega Ivaldo – è un

atto della ragione, ovvero […] la ragione è pratica in quanto fa

180 D. HENRICH, Der Begriff der sittlichen Einsicht und Kants Lehre vom Faktum der Vernuft, 93; così come riportato da G. B. SALA, Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, un commento, cit., pp. 128-129. 181 cfr. M. IVALDO, Libertà e moralità a partire da Kant, cit., pp. 23-25.

79

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qualcosa»182. La ragione pratica non produce conoscenza ma

determina la volontà esercitando un comando in un essere finito.

La coscienza immediata di questa obbligazione è l’esperienza

interna che ogni adulto fa quando si pone la domanda: “Che

cosa devo fare?”. E’ l’esperienza inesplicabile e incomprensibile

di poter scegliere tra i molteplici corsi di azione fisicamente

possibili183, non importa se su tale scelta pesa l’incognita della

sua realizzazione.

Nella Critica della Ragion Pratica il fatto della ragione viene

presentato in una serie di termini diversi: coscienza della legge

morale184, autonomia del principio di moralità185, legge

morale186. Tutti sinonimi che insieme indicano una ragione

pratica, che agisce. La norma come attività, il fatto della legge

come un dover essere per il volere. “Fatto della ragione”, allora,

non è un oggetto posto di fronte a un soggetto ma la volontà del

soggetto come presenza attiva187 di un presupposto normativo

oggettivo. Per questo si tratta di un concetto che rientra nel

dominio pratico e non teoretico.

La fattualità della legge come la presenza attiva di un

presupposto normativo significa, in ultima analisi, che non si

può argomentare la legge morale ma solo riscontrarne

l’esercizio, il suo fatto appunto. Questo è il motivo per cui la

legge morale non accade, è bensì la ragione pura che si fa

pratica. Come riassume S. V. Rovighi:

«il termine “fatto” indica un dato, una realtà che si

trova, si scopre, non si deduce; il termine “della

182 cit. ibid., p. 24.183 cfr. G.B. SALA, ibid.184 cfr. I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., p. 67.185 cfr. ibid. p. 42; ibid. p. 91.186 Cfr. ibid. p. 43; ibid. p. 93.187 S. BACIN, Il senso dell’etica, cit., p. 212: «E’ stato notato che spesso Kant chiamò “fatto” tanto la legge morale, quanto la consapevolezza di essa; questo si spiega appunto perché non si tratta di un oggetto posto di fronte a un soggetto […]. Nel “fatto” emerge il momento portante dell’operare della volontà, come presenza attiva di un presupposto normativo, e proprio questo non potrebbe emergere in una dimostrazione teoretica».

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ragione” indica che quella realtà che è la legge

morale non è una realtà sensibile»188.

Non essendo la legge morale alcunché di intuibile (per Kant

l’intuizione è la rappresentazione di un oggetto sensibile), essa è

ciò che si impone alla coscienza nell’atto di formarci una

massima per l’agire189. Norma e volontà, legge e massima o, per

usare i vecchi termini, principio formale e materiale dell’agire,

trovano ora una corrispondenza reciproca nell’io volente che

sceglie cosa fare sulla base di una massima che sia preminente

sulle altre.

La “domanda morale” ha una sola risposta, secondo questa

forma: la massima in base alla quale compio un’azione deve

valere per tutti gli esseri razionali come fosse una legge

universale di natura. Ed è questa legge, nella sua pura forma, a

presentarsi come un fatto. Scrive Kant:

«[…] Per riguardare senza falsa interpretazione

questa legge come d a t a, si deve bene notare che

essa non è empirica, ma è il fatto particolare della

ragion pura, la quale per esso si manifesta come

originariamente legislatrice»190.

E qualche pagina più avanti:

«[…] la legge morale […], pure presenta un fatto

assolutamente inesplicabile con tutti i dati del

mondo sensibile e con tutto l’ambito teoretico della

nostra ragione, un fatto che ci indica un mondo

dell’intelletto puro, anzi lo d e t e r m i n a in modo

affatto p o s i t i v o e ce ne fa conoscere qualcosa, e

cioè una legge»191.

188 cit. S. V. ROVIGHI, Introduzione allo studio di Kant, ed. La Scuola, Brescia 2001, pp. 259-260. 189 cfr. M. IVALDO, ibid., p. 26.190 cit. I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., A56, p. 67.191 cit. ibid., A74, p. 93.

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La conoscenza che l’uomo fa della sua libertà è il frutto

dell’esperienza della manifestazione della legge morale in lui

come di una legge avvertita immediatamente nella coscienza. La

metafisica non è violata; lo sarebbe stata se avesse confermato la

deduzione trascendentale della libertà, mentre invece il principio

supremo della ragion pratica si può esporre ma non dedurre:

«come sia possibile questa coscienza delle leggi

morali, o, che è lo stesso, quella della libertà, non si

può spiegare di più»192.

Se ne può solo prendere atto quindi, come un fatto. L’oggetto

della ragion pratica è ora uno solo, la legge, con due qualità

specifiche fondamentali: un universale concetto della ragione

prodotto in tutta autonomia.

L’indagine morale si è mossa fin qui nel campo sicuro della

valutazione, dove il formalismo dell’etica kantiana ha il suo

approdo sicuro. Ma il filosofo sa bene che l’altro campo, quello

della motivazione, non può esser lasciato in sospeso. Nella KpV

al carattere motivante dell’agire morale Kant dedica un capitolo

intero, il terzo dell’Analitica, pur senza andare al di là di quanto

già affermato nei Sogni di un visionario, nelle Reflexion e nella

Fondazione.

192 cit., ibid., A79, p. 99.

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Excursus: i presupposti teorici del “fatto della ragione” nelle

riflessioni degli anni ’70

Nella seconda Critica la qualità attiva della norma - la volontà

come presupposto normativo – connota la legge morale come un

fatto della ragione. Ma già negli anni ’70, durante i corsi svolti

all’Università di Königsberg, Kant sottolineava questa qualità

specifica della legge morale:

«Ogni obbligazione implica non solo una necessità

dell’azione, ma anche una costrizione, un rendere

necessaria l’azione; perciò l’obligatio è una

necessitatio e non una necessitas»193.

193 cit. I. KANT, Lezioni di etica, ed. Laterza, Bari 1984, p. 18.

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In questi elementi di teoria dell’obbligazione kantiana,

presentati sulla base dei manuali di Baumgarten, possiamo

notare l’impostazione teorica del primo capitolo dell’Analitica

della ragion pura pratica. Se l’obbligazione morale, che non è

ipotetica ma categorica, fosse semplicemente ciò che è

necessario, non avrebbe importanza sapere se ciò che mi obbliga

sia la mia ragione, la ragione di altri o, peggio, un’inclinazione,

e la filosofia morale non avrebbe più come postulato la libertà,

né il presupposto dell’universalità, trasformandosi di

conseguenza in un’antropologia. Ma se si definisce

l’obbligazione come un rendere necessario (necessitatio), un

volere un’azione come necessaria, l’azione morale diventa

l’attività razionale propria di un essere libero, seppur finito.

Sentirsi moralmente obbligati, quindi, non è un esser costretti,

quella è solo la curiosa situazione in cui si trova un soggetto

morale che guarda se stesso dal punto di vista delle inclinazioni.

Obbligare è invece un obbligarsi, volere ciò che deve essere.

Il presupposto della legge è quindi la libertà come ciò che è in

mio potere. Kant lo afferma già negli anni ’70:

«Quando le azioni non sono libere e la personalità

non vi è coinvolta, neppure si produce alcun

obbligo. Così un uomo non ha alcun obbligo di

trattenersi dal singhiozzo, perché non è cosa che sia

in suo potere. Un obbligo presuppone, dunque,

l’esercizio della libertà»194.

Dieci anni dopo, nella seconda Critica, tale presupposto attivo di

un’esigenza normativa riceve un nome e una funzione: fatto

della ragione.

194 cit., ibid., p. 25.

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1.1 Il movente

La legge morale è un fatto, l’unico fatto per la ragion pratica.

Nel dominio di tale legge entrano in gioco tanto la valutazione

che la motivazione di un’azione. Kant ne è ben consapevole,

infatti scrive [corsivo mio]:

«Dunque, la legge morale, com’è il motivo

determinante formale dell’azione mediante la ragion

pura pratica; com’è anche il motivo determinante

materiale, ma soltanto oggettivo, degli oggetti

dell’azione chiamati bene e male; così è anche il

motivo determinante soggettivo, cioè il movente di

quest’azione»195.

195 cit. I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., A124, p. 165.

85

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Come abbiamo visto, nei Sogni di un visionario Kant parla del

sentimento morale come di un riflesso della volontà e, in un

appunto delle Reflexionen196, come di un’ipotesi per spiegare “il

fenomeno dell’approvazione che accordiamo ad alcuni tipi di

azioni, piuttosto che una dottrina che debba stabilire massime e

principi primi che valgano oggettivamente”. Tutte definizioni

negative del sentimento morale. Ora, forte del ruolo definitivo

dato alla legge morale attraverso il “fatto”, il filosofo è ora

pronto ad andare più al fondo della questione: dare al sentimento

morale una connotazione affermativa.

In questo terzo capitolo della seconda Critica Kant aggrega le

riflessioni sparse sul sentimento morale fatte negli scritti

precedenti, rendendo questo concetto - così inevitabilmente

legato al campo delle inclinazioni - meno ambiguo per la teoria

morale.

Se, afferma il filosofo, ciò che determina la volontà è la legge

morale che esclude ogni impulso sensibile, allora:

«In questo senso, dunque, l’effetto della legge

morale come movente è soltanto negativo, e come

tale può essere conosciuto a priori […]. Quindi

possiamo vedere a priori che la legge morale, come

motivo determinante della volontà, perché reca

danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un

sentimento che può esser chiamato dolore»197.

Questo dolore è frutto, afferma Kant, di un indebolimento della

presunzione, ovvero della compiacenza verso se stessi. Eppure

questo schiacciamento del proprio ego, essendo causato dal

proprio intelletto in forza del concetto della causalità

intellettuale198 (libertà) - e non da qualcosa di esterno ad esso -

196 cfr. p. 20 della tesi.197 cit. I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., A129, p. 159.198 cfr. ibid., A130-131, p. 161.

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eleva il soggetto in quanto essere dotato di ragione. Per cui il

dolore è tale solo se considerato sotto l’aspetto di un soggetto

che agisce per impulsi, ma è insieme rispetto della legge per

quello stesso soggetto consapevole di agire in base a principi di

ragione, ovvero in tutta autonomia. Così questa legge:

«[…] quando in opposizione al contrario soggettivo,

cioè alle inclinazioni in noi, indebolisce la

presunzione, essa è nello stesso tempo un oggetto di

rispetto»199.

Dunque il sentimento morale non è tale per cui sentiamo

qualcosa come oggetto dei sensi, ma perché avvertiamo il peso

della legge, in opposizione ad ogni impulso dei sensi, come un

principio di ragione, per cui esso si presenta come dato a priori.

Così qualche rigo dopo Kant afferma:

«[…] il rispetto alla legge morale è un sentimento

che vien prodotto mediante un principio

intellettuale; e questo sentimento è il solo che noi

conosciamo affatto a priori».

Il sentimento morale si presenta esclusivamente sul piano

razionale. Ma resta pur sempre un sentimento. Ragion per cui la

condizione del sentimento morale è la sensibilità, le nostre

inclinazioni, ma il suo fondamento è la legge. Così esso

presuppone, per essere avvertito, non la sensazione ma la

ragione nel suo essere pratica, ovvero la legge morale stessa:

«[La legge morale] non precede nessun sentimento

nel soggetto […]. Invero ciò è impossibile, perché

ogni sentimento è sensibile […]. Piuttosto, il

sentimento sensibile, che è fondamento di tutte le

199 cit. ibid.

87

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nostre inclinazioni, è bensì la condizione di quella

sensazione che chiamiamo rispetto, ma la causa

della determinazione di quel sentimento risiede nella

ragion pratica»200.

La terminologia usata da Kant non è delle più efficaci visto che

il sentimento come tale presuppone insieme la sensibilità e nello

stesso tempo, come sentimento morale, la ragione pratica. Ma

quello che intende è chiaro: il sentimento sensibile è la

condizione del sentimento del rispetto, ma tale sentimento ha la

sua causalità in uno schiacciamento delle inclinazioni. In altri

termini il sentimento morale è il gioco tra legge morale è

inclinazione, gioco in cui ad avere la meglio è la legge che

determina la sensazione di sentirsi costretti da qualcosa che non

è ma deve essere. Quel “riflesso della volontà” descritto nei

Sogni di un Visionario è ora ulteriormente specificato come una

“condizione causata a priori di quella sensazione che chiamiamo

rispetto”. Ma, se tale sentimento è scatenato dall’assenza di ogni

inclinazione, poiché è causato dalla legge morale, quindi in una

pura forma, che senso ha continuare a usare il termine

“sentimento”, così legato a ciò che si patisce, tenendo anche

presente, come precisa Kant, che non si tratta di una sensazione

patologica ma prodotta praticamente?201. Ed ecco infatti che

Kant affronta la questione terminologica del sentimento morale

con una chiarezza espressiva mai raggiunta in precedenza:

«E così il rispetto della legge non è un movente alla

moralità, ma è la moralità stessa considerata

soggettivamente come movente»202.

Eccoci alla chiave di volta, la formula che a Kant mancava. Se il

sentimento fosse il movente l’azione morale non sarebbe niente

200 Ibid., A134, p. 165.201 cfr. ibid.: «[…] e perciò questa sensazione, per la sua origine, non si deve chiamare patologica, ma p r o d o t t a p r a t i c a m e n t e».202 cit., ibid. pp.165-166.

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di più che un’agire motivato dal senso morale. Invece il movente

in sé, oggettivo, dell’azione è solo la legge morale, il suo essere

un fatto. Mentre è il movente soggettivo ad essere il rispetto

della legge. Solo quando consideriamo soggettivamente la legge

avvertiamo in noi un sentimento morale, e tale sentimento è

motivante solo quando valutiamo soggettivamente la necessità

oggettiva di un’azione.

Excursus: il movente come disposizione soggettiva. La questione

terminologica del sentimento morale in alcuni scritti degli anni

’60 e ‘70

Abbiamo visto come i contenuti del terzo capitolo dell’Analitica

della Critica della ragion pratica non apportano nessuna novità

di rilievo alla teoria morale, semmai chiariscono con termini più

appropriati quale ruolo abbia quel sentimento che sorge quando

l’uomo-essere-finito-dotato-di-ragione avverte il prodotto

pratico della sua ragione: la legge. A questo punto sarebbe allora

più appropriato definire il sentimento morale come una

disposizione soggettiva piuttosto che un sentimento, ovvero,

proprio come afferma Kant nell’Analitica, la “moralità

considerata soggettivamente come movente”.

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L’autore si è sempre reso conto del ruolo terminologico

“scomodo” del sentimento morale in un’etica con un impianto

teorico formale. Ma nello stesso tempo sa bene che ignorarlo

non avrebbe reso la sua teoria morale così diversa dalla morale

di scuola tedesca. Trascurare questo aspetto avrebbe indebolito a

tal punto il suo costrutto teorico da farlo ricadere negli stessi

errori dei suoi predecessori. Egli è consapevole della difficoltà

di descrivere in termini adeguati la condizione di un uomo che

subisce la legge quasi come se ne fosse affetto. Infatti,

l’inadeguatezza del termine “sentimento” è stata sottolineata fin

dagli ’70, a partire dagli appunti delle Reflexionen. E proprio qui

la questione non solo terminologica ma sistematica del

sentimento morale viene definita in termini ancora più chiari di

quelli adoperati nella seconda Critica203. Così Kant, nell’appunto

5448 delle Reflexion, afferma:

«il sensus moralis viene denominato così soltanto

per analogiam, e non dovrebbe chiamarsi senso,

bensì disposizione [corsivo mio], in base alla quale

nel soggetto necessitano anche i motivi morali, oltre

agli stimuli. In sensu proprio quindi è un’assurdità,

un mero analogon sensus, e serve esclusivamente a

esprimere una facoltà (e non una recettività) per cui

non abbiamo un nome»204.

Il sentimento morale è un’assurdità se la morale ha un

fondamento a priori. Ma se nutriamo un interesse per la legge,

quindi in un certo modo la patiamo, allora tale passione sarà

esclusivamente sulla base di un’attività propria della ragione,

per cui tale interesse è una facoltà e non una recettività. Se nella

Fondazione questa “facoltà senza nome” è stata definita come

203 In particolare in I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ed. Laterza, Bari 2008, A134, p. 165: [La legge morale] non precede nessun sentimento nel soggetto […]. Invero ciò è impossibile, perché ogni sentimento è sensibile […]. Piuttosto, il sentimento sensibile, che è fondamento di tutte le nostre inclinazioni, è bensì la condizione di quella sensazione che chiamiamo rispetto, ma la causa della determinazione di quel sentimento risiede nella ragion pratica».204 cit. I. KANT, Reflexion 5448, XVIII 185 (1776-1778), così come citato da S. BACIN, ibid., p. 123.

90

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rispetto della legge, ora nella seconda critica tale sentimento del

rispetto viene analizzato sotto l’aspetto motivante, richiamando

indirettamente i contenuti degli appunti delle Reflexionen e dei

Sogni di un visionario205.

In conclusione quindi, se tra il 1766 e il 1785 il sentimento

morale era inteso in rapporto alle inclinazioni nella forma di una

costrizione e in rapporto ai principi nella forma di un fenomeno

che vi sopraggiunge, ora nella Critica della Ragion Pratica la

sua accezione negativa e affermativa riceve una

sistematizzazione unitaria.

Se confrontiamo la definizione del sentimento morale data nella

seconda Critica con le espressioni utilizzate negli scritti

precritici notiamo che la sostanza non cambia. Nei Sogni di un

visionario il sentimento morale era definito solo nella sua

accezione negativa, quella “costrizione del volere universale sul

volere del singolo”; in alcuni appunti delle Reflexionen viene

definita la sua attività, ma in maniera piuttosto vaga, come

un’ipotesi per spiegare “il fenomeno dell’approvazione che

accordiamo ad alcuni tipi di azioni”; infine nella Fondazione

viene specificata la sua causalità come ciò che è generato “per

mezzo di un concetto di ragione”. Tutti questi spunti vengono

così raccolti nel terzo capitolo della seconda Critica dove viene

stabilito definitivamente il suo ruolo motivante: non è neanche

più il movente in senso proprio, oggettivo, ma la considerazione

soggettiva della legge in un uomo che, in quanto essere finito,

anche quando agisce moralmente non può non escludere del

tutto le inclinazioni. E’ in quanto esseri finiti che, quando ci

pensiamo come spinti da un movente, non possiamo che patire il

peso della legge morale ma, dal momento che questa legge ci

vien data da noi stessi come un fatto della nostra ragione, quindi

205 I. KANT, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, in Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica, p. 367: «Se questa costrizione del volere universale […] la si vuol chiamare sentimento morale, si parla di essa soltanto come fenomeno di ciò che in noi avviene, senza stabilirne le cause […]. Non dovrebbe esser possibile rappresentarsi tal fenomeno in modo che il sentimento morale sia questo sentir la dipendenza del volere singolo dal volere universale?».

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non ci vien data ma la poniamo, il dolore si trasforma in rispetto

e lo schiacciamento ci eleva.

Ma c’è un altro testo precedente alla seconda Critica in cui Kant

affronta con sufficiente ampiezza il posto che spetta al movente

nella teoria morale. Si tratta dei corsi di lezioni tenuti

all’Università di Königsberg tra il 1770 e il 1780 circa e raccolte

successivamente da Paul Menzer sotto il titolo Lezioni di etica.

Nel capitolo Del principio supremo della moralità l’autore

distingue con chiarezza la norma dal movente. La prima è il

principio di discriminazione dell’obbligo, la seconda quello del

suo adempimento206. Il filosofo è consapevole della delicatezza

di questi due momenti, tanto che avverte subito dopo: «andata

perduta questa distinzione tutto si è corrotto nella morale», «il

principio che regge l’impulso non va confuso con il principio

che guida il giudizio. Questo è la norma, l’altro il movente. Il

movente non può far le veci della norma»207. E’ chiaro fin da

subito che, in generale, norma e movente fanno capo a due

campi distinti, il primo teoretico e l’altro pratico: la norma è un

giudizio, il movente è l’adempimento di un giudizio, l’uno è il

principio della valutazione, l’altro il principio dell’esecuzione.

Ma la natura del giudizio normativo è pur sempre pratica, la sua

funzione non è quella di produrre conoscenza ma dare alla

ragione una regola dell’agire. Sicché se i campi di riferimento

della norma e del movente sono differenti, entrambi cadono

nello stesso dominio: pratico.

La lezione sul “principio supremo della moralità” prosegue in

questo modo: mostrare prima cosa non è il principio di moralità

e poi cosa è. In queste pagine viene così anticipato il progetto di

ricerca della Fondazione che, come sappiamo, si propone di

mostrare proprio quel “supremo principio della moralità”208.

Per quanto riguarda la definizione di cosa non sia un principio di

moralità, occorre soffermarsi su un aspetto in particolare.

206 cfr. I. KANT, Lezioni di etica, ed. Laterza, Bari 1984, p. 42.207 cit. ibid.208 cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, ed. Laterza, Bari 2009, p. 13.

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Abbiamo visto come la critica di Kant al razionalismo etico di

scuola tedesca è rivolto contro i suoi principi morali, giudicati

dal filosofo come comandi vuoti, tautologici. Così anche qui

l’autore ritorna a soffermarsi sul principio del fac bonum

ribadendo le stesse considerazioni fatte nei testi precedenti209.

Ebbene è curioso notare come questa critica coinvolga qui non

solo Wolff e i suoi seguaci ma allo stesso modo anche i teorici

del moral sense. Secondo l’autore, infatti, anche i principi

dell’etica del sentimento sono in un certo senso tautologici. La

legge morale, spiega Kant, comanda categoricamente, per cui

non può richiamarsi al sentimento fisico o morale. Così:

«Ogni sentimento ha soltanto una validità personale

e riesce incomprensibile per un altro. Tutto questo è

anche intrinsecamente tautologico: se qualcuno

afferma di avvertire qualcosa in un certo modo,

questo tuttavia non può valere per altri, ai quali

rimane ancora ignoto come egli lo avverta, sicché

chi si richiama una volta al sentimento rinunzia ad

ogni principio razionale»210.

Pare che qui “tautologico” non sia ciò che nel predicato ripete il

contenuto del soggetto, ma ciò che non può valere per tutti.

Credo che ciò che Kant vuole dire consista nell’affermare che se

fac bonum et omitte malum è una proposizione tautologica nel

senso proprio del termine (fare il bene è fare il bene e omettere il

male), agire sulla base di un principio sentimentale non produce

certo una tautologia, ma l’effetto è lo stesso: l’incomprensibilità

dello stesso principio e, trattandosi di morale, la sua

inapplicabilità.

209 Si veda, ad esempio, nell’Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale in I. KANT, Scritti precritici, cit., p.245, la necessità di porre accanto ai principi formali dell’azione dei principi materiali che permettano ai primi di non essere formule vuote.210 cit. ibid., p. 43-44.

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Dopo aver distinto tra principio patologico e principio

intellettuale211 - quest’ultimo a sua volta suddiviso in principio

intellettuale mediato dalle inclinazioni e principio puro – Kant

giunge così a mostrare cosa sia il principio supremo della

moralità. Egli si domanda: in cosa consiste questo principio?

«La moralità è l’accordo delle azioni con la legge

universalmente valida del libero arbitrio […].

L’essenza della moralità sta in questo, che le azioni

vengono compiute secondo motivi dettati dalla

regola universale»212.

Come ha già ribadito nel 1766 nei Sogni213, e come ribadirà

costantemente nella seconda sezione della Fondazione, se voglio

agire moralmente è sufficiente che mi domandi se voglio che la

mia massima valga come legge universale.

2. La rinuncia alla deduzione trascendentale. Un ritorno di

metodo nel solco della continuità

La scelta di fare della legge morale e non l’idea della libertà il

momento primo della volontà buona rappresenta il punto di

arresto del progetto di ricerca della terza sezione della

Fondazione che si proponeva di ricercare il fondamento della

morale sulla base di una deduzione trascendentale. Ma in realtà

se con il fatto della ragione la teoria morale non va più nella

direzione tracciata nella parte finale della Fondazione, la ricerca

del principio primo non subisce alcun arresto, semmai un ritorno

di metodo, la ripresa di un’indagine iniziata a partire dagli anni

’60, proseguita negli anni ’70, come abbiamo visto in

precedenza analizzando gli appunti delle Reflexionen e le

211 Per approfondire l’argomento si vedano le pagine 42-48 in ibid.212 cit. I. KANT, Lezioni di etica, ibid., p. 48.213 cfr. Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica, , in I. Kant, Scritti precritici, cit., p. 366: «Non è adunque soltanto in noi il punto in cui concorrono le linee direttive dei nostri impulsi, ma vi sono anche, fuori di noi, nell’altrui volere, forze che muovono noi. Da ciò nascono gli stimoli morali che spesso ci trascinano contro quanto richiede l’interesse personale in modo che manifestano la loro realtà la forte legge del dovere».

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Lezioni di etica, e ripresa negli anni ’80. Ragion per cui la terza

sezione della Fondazione rappresenta più un tentativo, un

progetto di ricerca a sé stante rispetto a quello tracciato nelle due

sezioni precedenti. Questo è uno dei motivi per cui l’evoluzione

della teoria morale kantiana non può ammettere una distinzione

tra un momento precritico e uno critico. La teoria morale di

Kant è fin dagli inizi già critica - si vedano alcuni passi delle

Annotazioni214 e dei Sogni 215 dove la volontà morale è tale per

cui esclude ogni impulso sensibile. La sua ricerca morale è

sempre proseguita con continuità lungo un arco temporale che

va dalla prima metà degli anni ’60 fino alla Critica della Ragion

Pratica. Un percorso senza salti, cambiamenti radicali o

revisioni sostanziali. Il cammino del filosofo nella sua indagine

sui principi etici si basa su di un assunto fondamentale e

caratteristico, che ritroviamo fin nell’Indagine, dove la volontà

si esprime nella forma di un dovere (quindi in un rapporto di

obbligazione); e nei Sogni dove i principi oggettivi (universali)

della ragione pratica, che non trovano fondamento

nell’esperienza, si presentano in un essere razionale soggetto

costantemente alle inclinazioni. Concludendo, la rinuncia alla

deduzione è la conferma che la strada battuta fin dagli spunti

formulati nell’Indagine va nella giusta direzione.

214I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena, p. 167-168: «La bontà oggettiva di un’azione libera […] o, detto in altri termini, la sua necessità oggettiva, può essere sia condizionata sia categorica. La prima è la bontà di un’azione come mezzo, la seconda, come fine […]. Una buona azione libera condizionata non è pertanto categoricamente necessaria: ad esempio, la mia generosità è utile ad altri bisognosi, si deve quindi essere generosi. Per niente. Ma se qualcuno vuole essere utile agli altri, allora, che sia generoso! Se invece l’azione nata da una generosità sincera, è non solamente utile agli altri, ma buona in sé, allora è un dovere».215I. KANT, Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica, in Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 366: «Non è adunque soltanto in noi il punto in cui concorrono le linee direttive dei nostri impulsi, ma vi sono anche, fuori di noi, nell’altrui volere, forze che muovono noi. Da ciò nascono gli stimoli morali che spesso ci trascinano contro quanto richiede l’interesse personale in modo che manifestano la loro realtà la forte legge del dovere».

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Parte III: lo statuto della filosofia morale di Kant

1. Obbligazione: l’eredità di Baumgarten nella teoria morale

kantiana e la critica alle sue leggi morali

Se c’è un filosofo a cui Kant si è ispirato maggiormente per la

sua etica del dovere questo è sicuramente Baumgarten,

pensatore che per primo ha contribuito in maniera determinante

a far ruotare l’etica intorno al concetto di obbligazione. Non a

caso al tempo di Kant questo concetto inizia a subire, in ambito

morale, una significativa trasformazione.

Nel XVIII secolo il termine obbligazione oscillava tra un

significato giuridico-religioso, come ciò che si presenta nella

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forma di un dovere imposto dall’esterno, ed etico, come ciò che

è in mio dovere. Prima di Baumgarten, un altro filosofo che dà

all’obbligazione un significato primariamente etico è Christian

Wolff. Anche quest’ultimo denota inizialmente l’obbligazione

come un dovere imposto dall’esterno ma, dopo la critica di

Leibniz216, riformula il concetto in termini etici. Così, secondo

Wolff, nella fase matura del suo pensiero il dovere è una

necessità morale che integra movente e azione; la prima è

caratterizzata da un obbligo passivo, la seconda da un obbligo

attivo e, se un passivo essere obbligati presuppone un attivo

venire obbligati, la nuova formula per l’azione buona sarà

quindi: obbligazione è uguale a motivazione217. Wolff però, che

concepisce la filosofia morale come la conoscenza intellettuale

della propria perfezione, relega l’obligatio ad una posizione

marginale che occupa solo una sezione di un capitolo della sua

Philosophia practica universalis. Baumgarten invece va più a

fondo e, distinguendo tra obligatio passiva e obligatio activa - la

prima è l’obbligazione nella sua accezione giuridica, la seconda

nel suo significato autenticamente etico218 - fa dell’obbligazione

il fondamento della morale, articolando tutta la Initia

philosophiae practicae sulla base del dovere. Si tratta di una

novità importante poiché grazie a questa impostazione teorica

l’etica viene intesa per la prima volta come la scienza delle

obbligazioni dell’uomo, lì dove per Wolff, invece, l’etica è la

scienza della guida delle azioni libere mediante regole. Il

concetto di obbligazione in Baumgarten, colonna portante della

sua teoria morale, non poteva quindi essere ignorato da Kant.

216 Influenzato da Hobbes, Wolff intende inizialmente l’obbligazione come il timore di una sanzione da parte dell’obbligato, riconducendo quindi il concetto ad un significato giuridico-religioso, per approdare poi ad una posizione etica dopo la critica diretta di Leibniz con la famosa affermazione “anche per gli atei sussiste un’obbligazione”. Su questa breve storia del concetto di obbligazione da parte di Leibniz, Wolff e Baumgarten cfr. C. SCHWAIGER, La teoria dell’obbligazione in Wolff, Baumgarten e nel primo Kant, in La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico, cit., pp. 323-340. 217 cfr. ibid., p. 334. 218 Si veda la descrizione dell’obbligazione baumgarteniana che Kant compie nei corsi tenuti all’Università di Königsberg tra il 1775 e il 1780-1 raccolti in I. KANT, Lezioni di etica, ed. Laterza, Bari 1984, in De obligatione active et passiva, pp. 23-32.

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Il filosofo di Königsberg ha sempre avuto Baumgarten come

punto di riferimento nelle sue lezioni di filosofia morale. Un

interesse che lo ha spinto sempre più a preferirlo al “classico”

Wolff. Kant era obbligato dai regolamenti delle Università ad

adottare un testo, ma la scelta su quale utilizzare spettava al

professore219. Così col tempo la sua scelta cadde sui testi di

Baumgarten220. Come afferma Clemens Schwaiger, «Kant

all’inizio della sua attività di insegnamento deve aver studiato

anche Wolff, ma più tardi il suo uso costante dei manuali di

Baumgarten si è più o meno sovrapposto a quello che era

l’insegnamento proprio di Wolff»221.

Un’approfondita analisi compiuta dallo stesso Kant

dell’obbligazione baumgarteniana la troviamo in una serie di

lezioni svolte presso l’Università di Königsberg in un periodo

che va dal 1775 al 1780 circa, raccolte nelle menzionate Lezioni

di etica222. In questi testi, oltre all’attenta analisi del dovere in

Baumgarten, troviamo un’anticipazione significativa degli

elementi fondamentali della teoria morale kantiana, con un

linguaggio e un uso di alcuni termini specifici che saranno però

successivamente abbandonati perché troppo vicini

all’antropologia. Osserviamo da vicino di cosa si tratta

analizzando in particolare il capitolo “De obligatione activa et

passiva”223.

Kant, sulla base dei manuali di Baumgarten, distingue tra

obbligazione activa e passiva. La differenza tra i due tipi sta nel

principio di autonomia: nella prima si resta padroni di ciò che è

necessario fare, trattandosi di un comando della ragione, nella

seconda l’obbligazione si produce “mediante l’intervento di un

altro”224. E’ chiaro quindi che solo l’obligatio activa è

219 Come riporta S.V. ROVIGHI in Introduzione allo studio di Kant, ed. La Scuola, Brescia 2004, p. 223.220 Ovvero gli Initia philosophiae practicae primae e l’Ethica philosophica.221 CL. SCHWAIGER, Kategorische und andere Imperative. Zur Entwicklung von Kants praktischer Philosophie, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1999, 33 s; la citazione è presa così come tradotta da G. B. SALA in Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, un commento, cit., p. 32.222 Si tratta, come ho già detto, del corso di lezioni raccolte da Paul Menzer e pubblicate in italiano con il titolo Lezioni di etica, Laterza, Bari 1984.223 Pagina 23 del testo.224 cit. ibid., p. 24. Un tipico esempio di obligatio passiva è il contratto, che Baumgarten definisce actus obligatorius.

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l’obbligazione propriamente morale. Questa qualità è data dal

fatto che, trattandosi di un principio razionale, comanda

all’agente ciò che deve fare e non, contrariamente a ciò che ci

direbbe il senso comune, comanda ciò che non gli lascia altra

scelta. E’ una differenza importante, fondamentale per il

significato moderno di questo concetto. Ciò che è in nostro

dovere non costituisce un ordine che siamo obbligati ad eseguire

per coazione225. Se così fosse l’obbligazione rientrerebbe in ciò

che ci accade – quindi come ciò che è - senza che ad esso

possiamo anteporre una scelta – ciò che deve essere – con la

conseguenza che il presupposto dell’autonomia e della libertà

svanirebbe del tutto. Se singhiozzo, afferma Kant226, non sono

obbligato (in senso morale) a singhiozzare, piuttosto l’astenermi

dal farlo è per me impossibile. Se invece agisco moralmente in

un certo modo è perché non solo voglio, ma perché il mio volere

si impone come un dovere. E’ il volere a presentarsi nella forma

del dovere, non il contrario: devo perché voglio non voglio

perché devo. La chiave per distinguere l’obbligazione morale da

un semplice comando è, come ribadisce Kant227, questa: l’azione

morale non è necessaria ma necessitata, un rendere necessario.

In questo modo il dovere si presenta a tutti gli effetti come

l’esercizio della libertà228. Possiamo qui vedere nuovamente,

come abbiamo analizzato in precedenza229, l’anticipazione di

quello che circa quindici anni dopo costituirà il fatto della

ragione: la legge morale come ciò che la ragione pura fa quando

è pratica.

Secondo Kant, seguendo l’impostazione data nella sua lezione

precedente in cui l’autore enuclea en passant gli imperativi230,

225 cfr. ibid., p. 18: «L’obbligo è un obbligo pratico, e precisamente morale. Ogni obbligo è o per dovere o per coazione».226 cfr. ibid.: «Così un uomo non ha alcun obbligo di trattenersi dal singhiozzo, perché non è cosa che sia in suo potere».227 cfr. ibid., p. 18: «[…] perciò l’obligatio è una necessitatio e non una necessitas».228 cfr., ibid., p. 25: «Quando le azioni sono libere e la personalità non è coinvolta, neppure si produce alcun obbligo. Così un uomo non ha alcun obbligo di trattenersi dal singhiozzo, perché non è cosa che sia in suo potere. Un obbligo presuppone, dunque, l’esercizio della libertà». 229 Nell’excursus: Excursus: i presupposti teorici del “fatto della ragione” nelle riflessioni degli anni ’70, p. 82.230 Lezione intitolata Del principio della moralità, in ibid., pp. 14-23. Cfr. ibid., p. 18. Qui Kant pone tre specie di imperativi: problematico, ciò che è buono come mezzo; pragmatico, conforme alla prudenza come fine; infine morale, che enuncia la bontà di un’azione in sé e per sé.

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l’obbligazione morale comanda l’azione e nient’altro,

indipendentemente dal mezzo con cui la si compie o dal fine che

si è posto. Non solo. La sua qualità morale non è data

dall’azione - altrimenti non sarebbe razionale ma empirica - ma

solo dal fatto che comanda incondizionatamente:

«L’obbligazione si distingue in positiva e naturalis.

La obligatio positiva è un prodotto positivo della

volontà, la obligatio naturalis proviene invece dalla

natura delle azioni»231.

In questa distinzione è possibile notare il formalismo in atto

della teoria morale kantiana. Un formalismo ancora in fieri

poiché utilizza due termini – “natura” e “intenzione” - che in

seguito saranno ritenuti inadeguati all’impianto teorico della

morale:

«Ogni moralità consiste in questo, che le azioni sono

compiute in virtù della loro intrinseca natura; non

dunque l’azione costituisce la moralità, ma

l’intenzione secondo cui io la eseguo»232.

Nell’epoca in cui il filosofo scriveva, l’appello alla natura

umana era la principale via percorribile per chi cercasse una

teoria morale applicabile concretamente, che soddisfacesse in

pratica quei requisiti che Kant ha stabilito fin dall’inizio delle

sue ricerche sull’etica: una teoria morale formale ma non

astratta, concreta ma non empirica. L’uso di due termini così

vicini all’antropologia non deve quindi far ritenere che

l’impostazione iniziale della teoria morale kantiana sia

antropologica. Piuttosto riflette l’esigenza di costruire una

morale adeguata alle capacità umane, raggiungibile233 e,

231 cit. ibid, p. 25. 232 cit. ibid., p. 26. 233 Sull’uso del termine “natura” nella morale kantiana, cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, pp. 25-30.

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soprattutto, universale. Mancano ancora, insomma, i termini più

appropriati per descrivere una morale siffatta. “Intenzione” e

“natura”, infatti, non saranno più ritenuti in futuro gli strumenti

concettuali più adeguati per la costruzione di una teoria morale

fondata sulla ragione: come un filosofo-esploratore, Kant

scoprirà che l’intenzione di un’azione è il suo fondarsi su

principi razionali e la natura dell’uomo, la sua essenza morale in

questo caso, non è nient’altro che la sua destinazione morale,

l’interesse per la legge morale da parte di un uomo soggetto alle

inclinazioni. Infatti nella prima Critica (A840=B868), quando

ogni riferimento alla natura era stato bandito dalla sfera della

fondazione dell’etica, la morale viene indicata come la

disciplina filosofica che tratta della destinazione dell’uomo234.

Scopriamo così che la ricerca sulla natura dell’uomo riflette le

stesse intenzioni di fondo della ricerca metafisica delineata a

partire dai Sogni di un visionario235: la scienza dei limiti della

ragione umana. La caratteristica prima della teoria morale

kantiana, fin dalle sue origini quindi – come la ricerca di un

principio razionale universale che mi spinge ad agire bene -

resta intatta, a prescindere dall’uso di termini come “natura” o

“intenzione”.

Così, dopo aver definito cos’è l’obligatio naturalis, Kant

afferma:

«Se io faccio qualcosa perché è comandato o perché

reca vantaggio e tralascio qualche altra cosa perché è

proibito o procura danno, in ciò non è ravvisabile

alcuna intenzione morale. Se io faccio qualcosa

perché è in se stessa assolutamente buona [corsivo

mio], allora ciò rivela un’intenzione morale»236.

234 cfr. ibid.235 cfr. I. KANT, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 399: «In quanto la metafisica è scienza dei limiti della ragione umana».236 cit., Lezioni di etica, ibid., p. 26.

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Un’azione “in se stessa assolutamente buona” è un’azione che

vale categoricamente per tutti poiché non è causata dai sensi ma

dall’intelletto, pur rimanendo un’azione compiuta in forza di ciò

che il soggetto vuole per se stesso. Infatti due pagine dopo Kant

afferma:

«Per distinguere ciò che è moralmente buono o

cattivo si deve giudicare rimettendosi all’intelletto, e

dunque oggettivamente, ma per compiere un’azione

vi possono essere nondimeno anche ragioni

soggettive […]. Tutte le leggi soggettive sono tratte

dalla natura di questo o quel soggetto […]. Le leggi

morali, invece, devono valere universalmente e in

genere per tutte le azioni libere senza riguardo alla

diversità dei soggetti»237.

L’azione morale è tale perché è incondizionata, ovvero è

assolutamente buona senza alcun criterio di valutazione

empirico. La ragione di ciò risiede nel fatto che tale azione è

giudicata dall’intelletto e la sua qualità normativa è oggettiva,

ovvero universale. Possiamo così ritrovare in queste pagine

degli importanti elementi costitutivi della filosofia pratica

soggettiva di Kant, riassumibili all’estremo quando il filosofo

afferma:

«Distinguere la moralità in oggettiva e soggettiva è

assurdo. La moralità è oggettiva, sebbene le

condizioni per l’applicazione di essa possano essere

soggettive»238.

Ad agire, quindi, è sempre il soggetto, ma il suo criterio di

valutazione è quello fornito dalla ragione e dalle sue leggi, tale e

quali si trovano in tutti gli esseri dotati di questa facoltà.

237 cit., ibid., p. 28.238 cit., ibid.

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Purtroppo però, secondo Kant, è proprio la legge a costituire il

punto debole della teoria morale baumgarteniana. Le riserve di

Kant alla teoria dell’obbligazione di Baumgarten iniziano

proprio qui, nel momento in cui vengono presentate le sue leggi

morali.

Se per Baumgarten l’obbligazione è la moralità – distinguendo

così nettamente la sua etica da quella di Wolff - e la sua essenza

consiste in un comando necessitato e non necessario, proprio

nella formulazione dei contenuti del comando Baumgarten non

si differenzia molto dalla morale di scuola tedesca, ereditandone

gli stessi difetti. La prima legge morale di Baumgarten suona

infatti così: «Fac bonum et omitte malum», nella stessa formula

adoperata da Wolff. E il principio del fac bonum viene da Kant

inteso in questi termini: «Fa ciò che il tuo intelletto ti presenta

come bene e non ciò che riesce gradevole ai tuoi sensi». In

questo modo, in opposizione all’etica fondata sul senso morale,

ciò che è buono è distinto da ciò che è piacevole e il concetto di

bene rinvia ad un oggetto che piaccia a tutti, ovvero valutato dal

solo intelletto. Ma, prosegue Kant, un contenuto siffatto della

legge non tiene più conto proprio del principio morale alla base

di essa, l’obbligazione, poiché l’autentica formula per agire bene

non è una semplice regola - una regola per l’agire è

generalmente ogni regola, sia essa empirica o razionale – ma ciò

che si presenta nella forma di un dovere. Per cui la regola del fac

bonum non è nient’altro che una tautologia con la conseguenza

che la distinzione tra i diversi tipi di azione (secondo il mezzo, il

fine e in sé e per sé), quindi tra i diversi tipi di imperativi, non

sussiste più. Questo è il motivo per cui secondo Kant una legge

morale così formulata è un principium vagum e tautologicum239.

«[…] la massima Fac bonum et omitte malum non

può costituire alcun principio morale di

obbligazione, perché il bene può essere tale a più

239 cfr. ibid., p. 29.

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titoli, per i fini più diversi. Esso, dunque, è un

principio di abilità o di prudenza; se però si

richiamasse al bene in vista di azioni morali, esso

sarebbe allora un principio morale»240.

Oltre al fac bonum, Kant espone altre tre proposizioni, tre leggi,

che Baumgarten adotta come principio di obbligazione: vive

convenienter naturae, ama optimum quantum potes e quaere

perfectionem quantum potes. Tutti giudicati insufficienti e

incompleti per una ragione molto semplice: il principio primo

dell’etica è uno e, quando in essa «vi sono diversi principi primi,

di fatto esso non ne contiene alcuno»241. Ma di questi tre,

l’ultimo in particolare permette a Kant di criticare con un solo

gesto tanto i contenuti della legge morale baumgateniana quanto

la filosofia morale di scuola tedesca. I primi due principi –

quello del vive convenienter naturae e del ama optimum

quantum potes - sono dal filosofo giudicati come imperativi

della prudenza e non morali, mentre l’ultimo rappresenta un

passo in più rispetto al principio del fac bonum di Wolff: «è se

non altro una formulazione più determinata, essa non è

completamente tautologica e pertanto possiede un certo grado di

utilizzabilità»242 afferma Kant. Ma, se non è astratta,

quantomeno denota, insieme al principio del fac bonum, un

cattivo uso del concetto di perfezione:

«Perfezione e bontà morale sono cose differenti»243.

Con una sola, perentoria affermazione Kant distingue così la sua

teoria morale da quelle in voga nel suo tempo. Secondo il

filosofo, i principi intellettuali fondamentali sono due: il

principio della perfezione (principium intellectuale internum) e

il principio di obbedienza a Dio (principium intellectuale

240 cit. ibid.241 cit. ibid., p. 31.242 Cit., ibid., p. 30.243 cit. ibid., p. 31.

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externum). Tralasciando il giudizio di Kant in merito al

principio intellettuale esterno – l’obbedienza a Dio oltre ad

essere un principio esterno vale solamente come principium

executionis: induce gli uomini ad operare bene ma non spiega

perché un’azione sia buona – secondo l’autore perfetto è in

generale l’uomo completo in tutte le sue facoltà. Ora un

individuo siffatto non rientra ancora nel campo della moralità,

poiché non è detto che egli farà un uso appropriato - quindi

giusto, morale - di queste facoltà. In ultima analisi, la perfezione

morale consiste quindi nella perfezione del nostro volere e non

delle nostre facoltà244: l’uomo è un essere dotato di ragione, ma

può anche agire tutta la vita non tenendo conto dei suoi principi.

Allora ciò che bisogna tener conto nell’analisi dell’agire morale

non è tanto l’azione perfetta quanto l’azione che l’uomo può

compiere in virtù di come essa viene descritta dalla ragione,

ovvero nella forma di una norma. Questa distinzione tra l’azione

perfetta di un santo e l’azione morale propria di un essere finito

costituisce uno degli aspetti fondamentali della teoria morale di

Kant, dove la relazione tra l’azione soggettiva, la norma e la

perfezione del proprio stato – inteso qui come la capacità di

usare appieno le proprie facoltà – dunque in sintesi tra il

soggetto agente e la perfezione245, sta alla base del suo progetto

di ricerca che si distingue così, fin dai suoi momenti iniziali,

tanto dalla filosofia di scuola tedesca che scozzese.

L’obiezione di Kant al concetto di perfezione in queste Lezioni

di etica, quindi, mette in scena il suo sforzo di emancipare la sua

teoria morale tanto dalle etiche del sentimento scozzesi quanto

da quelle “intellettuali” tedesche. Il filosofo critica le leggi

morali di Baumgarten e indirettamente la filosofia pratica di

scuola capeggiata da Wolff. Ad entrambi imputava un concetto

di perfezione troppo generico che non può essere usato allo

stesso modo tanto in un contesto morale quanto metafisico. In

realtà Baumgarten, rispetto a Wolff, distingue due aspetti della

244 cfr. ibid.245 Come ha mostrato S. BACIN in Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, cfr. p. 20.

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perfezione: come mezzo o come scopo. Ma è ovvio che per Kant

si tratta di una distinzione che non denota alcuna qualifica

morale visto che sia nel mezzo che nello scopo rientrano solo gli

imperativi ipotetici.

Già nello scritto sull’Indagine Kant distingueva tra necessità

morale legalis e problematica246 appoggiandosi proprio a

Baumgarten. Il fatto che aggiunga subito dopo come ancora

troppo poco si sia indagato sul concetto di obbligazione247 mette

in luce le sue perplessità sui contributi dei maggiori autori

filosofici contemporanei della moralità, per il fatto che hanno

formulato principi fondati su un concetto di perfezione

indistinguibile nel suo uso morale e logico. Proprio dieci anni

prima, infatti, all’inizio degli anni ’60, Kant appuntava i suoi

dubbi sul comando perfice te:

«Cerca la perfezione in forza del sentimento di

piacere che si prova per l’azione. / incertezza nello

stabilire, senza sentimento morale, dove stia la

perfezione massima»248.

E’ ancora forte qui la distinzione tra principi formali e materiali,

ma il fatto che l’autore si preoccupi di rendere la perfezione in

campo morale qualcosa che valga in primo luogo per la volontà

del soggetto denota già da qui la sua filosofia morale come una

filosofia pratica soggettiva, quella che nella Critica della ragion

pratica trova la sua maturità.

Il debito di Kant al principio di obbligazione di Baumgarten può

essere quindi riassunto in questi termini: per entrambi dovere è

ciò che rende una determinazione libera moralmente necessaria,

che l’uomo avverte come una costrizione249 dal punto di vista del

246 cfr. I. KANT, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 245. 247 cfr. ibid., p. 246: «i concetti fondamentali supremi della normatività devono ancora esser determinati con maggior sicurezza».248 cit. Reflexion 6588, XIX 25-26; 1762-64. Così come tradotto da S. Bacin in Il senso dell’etica, ibid., p. 21. 249 cfr. BAUMGARTEN, Metaphysica, § 701, p. 271 (XVII, 131 5): «Necessitatio (coactio) est mutatio alicuius ex contingenti in necessarium», così com’è citato da C. SCHWAIGER in La filosofia pratica tra metafisica e antropologia

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soggetto empirico, e come un farsi necessario dal punto di vista

del soggetto in sé e per sé morale. Nel suo significato

autenticamente kantiano invece, per usare le parole di S. Bacin,

il dovere si pone come una volontà nella forma di una presenza

attiva di un presupposto normativo250. Per Kant l’obbligazione

morale non è tale per cui impone di agire necessariamente in un

certo modo, ma è la condizione non casuale (necessitata) ad

agire in un certo modo perché, dal punto di vista soggettivo, si è

costretti.

A Kant, pensatore di una filosofia pratica come etica non-

teoretica, le considerazioni di Baumgarten non potevano

sfuggire. L’etica del filosofo di Königsberg si rivolge ad un

soggetto finito nel mondo e infinito nel pensiero, soggetto alle

inclinazioni ma libero grazie ad un uso specifico della ragione, e

l’obbligazione come costrizione rappresenta il punto di

intersezione tra desiderio e volontà pura, nodo che rafforza in

concreto, anziché indebolire, una teoria morale costruita con gli

strumenti della metafisica.

Nell’etica del dovere di Kant l’obbligazione come costrizione e

volere necessitato è un concetto chiave, perché la volontà umana

non è pienamente conforme alla ragione ma soggetta

costantemente alle inclinazioni, e la necessità pratica di

un’azione morale non può essere avvertita che come un dovere

necessitato, un auto-schiacciamento delle inclinazioni. Se c’è

quindi nell’etica di Kant un’eredità dei pensatori del suo tempo,

questa non risiede certamente nella teoria del sentimento morale

di Hutcheson, né tantomeno nella perfezione morale di Wolff,

ma in maniera determinante nella teoria dell’obbligazione di

Baumgarten.

nell’età di Wolff e Vico, ibid., p. 336. 250 cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, p. 212: «Nel “fatto” emerge il momento portante dell’operare della volontà, come presenza attiva di un presupposto normativo».

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2. L’insostenibilità di un’etica pre-critica . La filosofia morale

kantiana non è un figliol prodigo

Sulla base del percorso filologico che abbiamo tracciato nella

parte I del lavoro di tesi, la ricerca morale di Kant si presenta

come ciò che non è: un’indagine che fonda l’etica sul senso

morale. Un approccio che ritroviamo a partire dall’Indagine

sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della

morale dove l’obbligazione è giudicata come un concetto primo

per l’etica, pur presupponendo ancora un principio materiale.

Gli studi di Henrich e Schmucker ci restituiscono un Kant

attento alle importanti riflessioni delle due scuole di pensiero

morale in voga nel suo tempo - Schulphilosophie e moralisti

scozzesi - ma insieme consapevole che né l’una né l’altra

possano essere sufficienti alla costruzione di una teoria morale

fondata sulla realtà concreta, autonoma e razionale della

volontà.

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La filosofia pratica soggettiva di Kant è fin dai primi anni ‘60 il

volto dell’indagine morale. Anche se il formalismo della teoria

viene maturato successivamente, l’assunto, formulato

nell’Indagine, secondo il quale i principi etici materiali

corrispondono ad un “sentimento del bene non riducibile ad

altro”251, indimostrabile, rende noto fin da subito che il percorso

morale è già indirizzato verso quella direzione: l’assenza di ogni

carattere empirico nei principi etici, siano essi formali o

materiali. Sotto questo punto di vista, l’interpretazione

neokantiana dell’evoluzione della teoria morale del filosofo di

Königsberg si mostra quantomeno problematica252.

Con la rinuncia alla deduzione trascendentale della legge morale

Kant ritorna sui suoi passi, quelli iniziati a partire dall’Indagine

fino alla Dissertazione. In questo modo il filosofo riprende la

traccia di un lungo cammino nel quale i principi etici vengono a

poco a poco smussati e focalizzati, alla ricerca di una teoria

morale non fondata su semplici regole pratiche ma su regole tali

che si formino sulla base di principi razionali formali e

universali. Nella sua indagine morale a partire dalla metà degli

anni ’60, Kant non perde mai di vista il soggetto morale, suo

referente primario, e la dimensione a priori che determina il suo

agire. Come osserva A. Guerra nella prefazione alle Lezioni di

etica253:

«L’esame della formazione del suo pensiero rileva

un ricchezza di movimento, una tensione interna di

istanze formali e reali (e non un semplice susseguirsi

di filosofie adottate come abitacoli provvisori), una

capacità di procedere in ordine sparso, con posizioni

prese quasi d’assalto e altre invece lungamente

esplorate e tentate, da consentire di escludere (di ciò

251 Cit. Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, in Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 245.252 Estendendo la divisione tra un periodo precritico e uno critico a tutta la filosofia di Kant, il neokantismo vede l’evoluzione della teoria morale kantiana influenzata inizialmente dalle posizioni sensiste dei moralisti scozzesi, specialmente Hutcheson, per poi avvicinarsi successivamente a quelle razionaliste di Wolff. 253 L’edizione di riferimento è sempre Laterza, Bari 1984.

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beneficiando, innanzitutto, l’ermeneutica delle

Critiche) che esso si fosse disvolto secondo fasi

bene segnate e ravvisabili, lungo un itinerario

obbligato di criticismo triumphans, Anche se, nella

dotta discussione dello Schmucker, si potesse poi

venire spinti, in qualche modo, a sottovalutare lo

sforzo critico innovativo, oltre che conclusivo, del

Kant maggiore anche sul piano etico-giuridico,

politico e religioso»254.

Il criticismo fa dell’indagine morale un campo vuoto per la

conoscenza e questo è stabilito indirettamente già molto prima

della Dissertazione quando, dall’Indagine fino ai Sogni di un

visionario, Kant stabilisce che i principi morali sono formali,

universali e non derivabili dall’osservazione empirica. Il

principio di obbligazione esposto nell’Indagine per cui “si deve

fare questa o quella cosa ed ometterne un’altra”255; il sentimento

morale delle Osservazioni come quel sentire non empirico in

quanto “sentimento della bellezza e della dignità della natura

umana” 256; la “regola della volontà universale” dei Sogni di un

Visionario257; il confine della conoscenza stabilito nella

Dissertazione e infine – nella seconda Critica - la legge morale

come un fatto della ragione. Tutti questi spunti mettono in luce

le tappe di un unico percorso. L’eccezione a un’interpretazione

progressiva dell’evoluzione della teoria etica kantiana si trova

invece nella terza sezione della Fondazione, dov’è in atto una

speculazione dell’etica. Pare che qui il filosofo abbia violato i

254 cit. ibid., p. XVII.255 cit. I. KANT, Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale in Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 264. 256 cit. I. KANT, Ossservazioni sul sentimento del bello e del sublime in ibid., p. 303: «La vera virtù […] può essere inculcata solo in base a principi i quali, quanto più sono generali, tanto più la rendono sublime e nobile. Tali principi non sono regole speculative, ma consistono nella consapevolezza di un sentimento che abita in ogni cuore umano […]. Credo di riassumere tutto quanto, se dico che si tratta del sentimento della bellezza e dignità della natura umana».257 cit. I. KANT, Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica in ibid., p. 366: «Non è adunque soltanto in noi il punto in cui concorrono le linee direttive dei nostri impulsi, ma vi sono anche, fuori di noi, nell’altrui volere, forze che muovono noi. Da ciò nascono gli stimoli morali che spesso ci trascinano contro quanto richiede l’interesse personale in modo che manifestano la loro realtà la forte legge del dovere».

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confini tracciati dalla metafisica volendo fare della libertà un

concetto deducibile, ovvero conoscibile.

Se quindi dall’Indagine fino alla seconda Critica la teoria

morale prosegue lungo un percorso lineare, ciò vuol dire che

nell’etica kantiana, ora possiamo affermarlo, non vi è distinzione

tra un periodo pre-critico e uno critico. Se questa divisione è

necessaria riguardo la teoria della conoscenza - di cui la

Dissertazione rappresenta lo spartiacque tra una posizione

empirista e una trascendentale – una differenza analoga per la

teoria morale sarebbe fuorviante.

La tesi secondo la quale un’etica precritica è un nonsense si

riallaccia agli studi sull’evoluzione dell’etica kantiana iniziati

negli anni ‘50 del secolo scorso a partire da Dieter Henrich, con

il suo saggio su Hutcheson e Kant, e culminati nel lavoro di

Josef Schmucker. Lo studio di questi due autori ci offre una

visione d’insieme più autentica di quanto non abbia fatto il

neokantismo dell’ultimo decennio del XIX secolo. Secondo

quest’ultimo la rigida distinzione tra un periodo pre-critico e un

periodo critico investe tutta la filosofia kantiana, portando

logicamente a supporre che gli scritti degli anni ’80 fossero

essenzialmente altra cosa rispetto a quelli precedenti. In questa

linea interpretativa l’etica di Kant somiglia alla parabola del

figliol prodigo: nel suo momento iniziale si distacca più o meno

totalmente dalla morale razionale della Schulphilosophie,

avvicinandosi alle posizioni etiche scozzesi, per poi ritornarvi a

partire dalla Dissertazione, in coincidenza quindi con l’inizio

della filosofia critica.

Gli elementi a sostegno dell’esistenza di un’etica precritica non

mancano. In primo luogo a partire dall’Indagine, dove Kant

rimanda a “Hutcheson e altri” i quali avevano visto nel

sentimento morale la fonte dei principi materiali; in secondo

luogo nel suo stretto rapporto con Rousseau. Ma a ben vedere in

entrambi i casi si tratta di uno sguardo superficiale. Vediamo

perché.

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Ridurre gli spunti morali dell’Indagine ai soli principi materiali

significa trascurare in maniera significativa quanto il filosofo

affermi subito prima nell’incipit dello stesso paragrafo per

spiegarne il titolo (“I principi della morale nella loro

costituzione attuale non sono ancora capaci di tutta l’evidenza

richiesta”):

«Per chiarire questa affermazione voglio mostrare

soltanto quanto sia ancor poco noto il primo

concetto stesso della normatività»258.

E’ l’obbligazione il concetto primo, non certo il sentimento

morale come principio materiale, anzi quest’ultimo è la materia

del principio formale dell’obbligazione. Infatti, a proposito del

sentimento come la facoltà di sentire il bene, Kant chiarisce più

avanti che:

«Quando perciò un’azione viene rappresentata

immediatamente come buona, senza però contenere

nascostamente un certo altro bene che vi si può

ritrovare per suddivisione, e che le conferisce la

perfezione, la necessità di quest’azione è un

indimostrabile principio materiale della

normatività»259.

Certo, più avanti sosterrà una tesi che in seguito, almeno in

parte, sarà lasciata cadere: quella per cui non si possa «fare a

meno di questi principi [materiali] che, come postulati,

contengono il fondamento di tutte le altre proposizioni

pratiche»260. Ma resta pur vero che di tali principi materiali non

si possa fare a meno, anche se in futuro non avranno più la

qualifica di “principi”. Inoltre non dimentichiamoci che i

258 cit. I. KANT, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 244. In questo caso, normatività e obbligazione sono sinonimi.259 cit. I. KANT, ibid., pp. 245-246.260 cit., ibid., p. 246

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principi materiali dell’azione sono la materia del concetto primo

di obbligazione, assunto formale primo. Appena un anno dopo,

infatti, nelle Osservazioni, Kant non considererà più il

sentimento morale come un principio, allontanando

definitivamente la sua accezione da una connotazione empirica,

preambolo del secondo imperativo categorico: il “sentimento

della bellezza e della dignità della natura umana”261. In ultima

analisi, quindi, queste riflessioni appena abbozzate mettono

chiaramente in scena un razionalismo in atto.

Per quanto riguarda il suo rapporto con Rousseau, bisogna

sottolineare due aspetti importanti. In primo luogo che è lo

stesso Kant a rimarcare la differenza tra sé e il filosofo

francese262; in secondo luogo che è proprio la visione dell’uomo

in Rousseau a essere decisamente più vicina a un punto di vista

razionalistico di quanto generalmente si creda, o almeno è così

che Kant intende la posizione dell’autore francese:

«Prendendo sempre in considerazione dal punto di

vista storico-filosofico nella dottrina della virtù ciò

che accade prima di indicare ciò che deve accadere,

chiarirò il metodo con il quale si deve studiare

l’uomo, non solo quello che cambia attraverso la

diversa forma che gli imprime il suo stato

accidentale […], ma la natura dell’uomo che sempre

rimane e la sua propria posizione nella creazione»263.

Pur essendo “natura” un termine che verrà abbandonato in

seguito, non bisogna dimenticare che in questo contesto tale

termine non ha alcun significato antropologico. Per “natura” si

deve qui intendere ciò che è essenziale e permanente264. Per 261 cit. I. KANT, ibid., p. 303.262 «Rousseau. Procede sinteticamente e comincia dall’uomo allo stato di natura; io procedo analiticamente e comincio dall’uomo costumato», cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena. 263 cit. I. KANT, Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbenjahre von 1765-1766, II, p. 326 [KGS, 2, p. 311]. Testo citato così come riportato da E. CASSIRER in Rousseau, Kant, Goethe, ed. Donzelli, Roma 1999, p. 19.264 Così come afferma E. CASSIRER in Kant, Rousseau, Goethe, ed. Donzelli, Roma 1999, p. 19.

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Kant, quindi, come afferma Cassirer, Rousseau colma proprio la

lacuna degli empiristi che videro nell’uomo solo il mutevole e

l’accidentale.

«Per questo “essenziale”, che secondo Kant consiste

nella natura etica, non fisica, dell’uomo, Rousseau

gli ha aguzzato lo sguardo»265.

Il termine “natura”, così equivoco e vicino all’antropologia tout-

court, sarà abbandonato da Kant all’interno dell’impianto

sistematico dell’etica, come abbiamo accennato poc’anzi e

affermato in precedenza266. Ma ciò non toglie che la scelta di

questo termine – che come sottolinea Cassirer ha un significato

etico e non fisico – rimarca l’attenzione di Kant per una teoria

morale che sia formale ma insieme accessibile in primo luogo ad

“ogni essere razionale”, quindi all’uomo.

E’ pur vero che Kant non formula pienamente i suoi concetti

etici fondamentali già all’inizio delle sue riflessioni - mi

domando quale filosofo morale lo abbia mai fatto - ma è

sicuramente falsa l’interpretazione che vuole l’etica kantiana

inizialmente influenzata dai moralisti scozzesi e poi

successivamente approdata ad una fondazione razionale. La sua

concezione dell’etica è razionalistica fin dai primi anni ’60. Ne

sono un esempio gli appunti delle Reflexionen dove, oltre a

contenere le già citate considerazioni sul sentimento morale

come l’”ipotesi per spiegare il fenomeno dell’approvazione”,

troviamo delle critiche dirette alla morale di Hutcheson:

«Il principio di Hutcheson non è filosofico perché

adduce un nuovo sentimento come spiegazione: in

265 cit., ibid., p. 19.266 Nel paragrafo 1 parte III della tesi.

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secondo luogo perché cerca principî oggettivi nelle

leggi della sensibilità»267.

Non c’è critica più diretta all’etica del moral sense, e, badiamo,

siamo ancora negli anni ’60. Ancora, in un appunto dello stesso

periodo:

«Il sentimento morale non è un sentimento

originario. Esso si basa su una legge necessaria

interiore (che comanda) di considerare e di sentire se

stessi da un punto di vista esteriore (cioè

oggettivamente). (Ci comanda cioè) di metterci

quasi nella persona della ragione, dove ci si sente in

universale e si considera la propria individualità

come qualcosa di contingente, come un acciens

dell’universale»268.

Come può sussistere l’ipotesi che vuole un Kant inizialmente

vicino alle etiche del sentimento se già circa quindici anni prima

della Fondazione e vent’anni prima della seconda Critica

affermava che il bene morale non è primariamente sentito ma è

la conformità alla ragione?

«Abbiamo un’attività fondamentale della ragione,

per la quale non possiamo fare a meno di esercitare

le nostre attività conformemente alla ragione, e

perciò proviamo un senso di disapprovazione appena

essa viene da quelle contraddetta»269.

267 cit. Reflexion 6634, XIX, 1764-1770, così come riportare da Sofia Vanni Rovighi in Introduzione allo studio di Kant, Brescia 2001, p. 221.268 cit., Refl. 6598, XIX, 1764-1770, sempre così come riportare da S.V. Rovighi in ibid., p. 221.269 cit. Refl. 6591, XIX, 1764-1770, sempre così come riportare da S.V. Rovighi in ibid., p. 222.

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Conclusione

Il difficile statuto dell’etica di Kant e l’ironia di una morale

non-teoretica: il punto cieco della motivazione e

l’emancipazione dall’antropologia

Abbiamo visto quindi come tra quaestio diiudicationis e

quaestio executionis si condensano efficacia, difficoltà e

incompletezza della teoria morale kantiana. Per la

Schulphilosophie valutazione e motivazione erano debitamente

distinti come due domini differenti. Il concetto di obbligazione

in Baumgarten, per esempio, include solo l’elemento valutativo

mentre quello motivante veniva ricondotto al timore di una

punizione o all’esortazione a meritare un premio, cosa che ha

portato Kant a considerare la morale di scuola inoperabile

perché estrinseca. Invece i filosofi morali ‘del sentimento’,

quelli appartenenti alla classe degli “scozzesi”, fanno l’esatto

contrario. Hutcheson, per esempio, ritiene il sentimento morale

principio di valutazione vero e proprio, per cui la distinzione tra

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diiudicatio ed executio non ha alcuna importanza, essendo

entrambi derivabili dal sentimento di piacere o dispiacere che

fonda una buona azione.

La novità dell’indagine morale del filosofo di Königsberg

rispetto alle teorie del suo tempo risiede nella consapevolezza di

dover portare in un unico dominio tanto la valutazione che la

motivazione, affinché l’etica sia insieme razionale ed efficace:

una filosofia pratica soggettiva, ovvero una dottrina razionale

sull’agire reale. L’insistenza “socratica” del filosofo, con i suoi

richiami alla “natura umana” e ad un soggetto che deve

“rischiarare” concetti che la ragione già possiede, va proprio in

questa direzione, coadiuvata dall’esigenza di lasciare spazio al

sentimento morale affinché la teoria stessa non si riduca ad un

tautologico costrutto logico.

La scelta dell’obbligazione quale forma con la quale la volontà

morale si presenta nel soggetto; l’interesse per la legge nella

forma del rispetto con il quale l’uomo avverte la buona condotta

e, infine, il fatto della ragione, in base al quale la buona condotta

riflette la presenza attiva della volontà nella forma del comando,

sono tutti aspetti che insieme connotano una morale che sia etica

della vita morale, ovvero una filosofia pratica soggettiva: non

una semplice etica del dovere dove si impongono prescrizioni,

né un insieme di regole dell’agire, bensì la formazione della

morale nel soggetto da parte del soggetto stesso, in forza della

sua facoltà di volere.

L’esigenza di rendere l’etica vicina all’uomo era, del resto, la

prerogativa di tutti i pensatori morali di quel periodo. Così, in un

appunto di Kant si legge che i filosofi morali devono fornire,

oltre che «teorie della valutazione morale, per conoscere che

cosa sia buono o cattivo», anche «ragioni dell’esecuzione,

causae subiective moventes, affinché si ami effettivamente ciò

che si approva», e dunque «precetti su come l’inclinazione possa

essere armonizzata con i principi o sottomessa loro»270. Sulla

270 cit. Reflexion 6988, XIX 220; 1776-78?, così come tradotto da S. Bacin in Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Bari 2006, p. 243.

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base di questo appunto possiamo stabilire due cose importanti.

In primo luogo che tanto la valutazione quanto la motivazione

devono rientrare in una teoria morale che voglia essere efficace,

in secondo luogo che entrambi vanno armonizzati nel soggetto

sulla base di un’esigenza internalistica della teoria morale.

----

Ricapitolando, la valutazione attiene a ciò che deve essere fatto,

la motivazione a ciò in forza del quale si compie un’azione,

l’una include la ragione per cui si dovrebbe agire, l’altra la

ragione per cui si agisce. Entrambe hanno il proprio dominio

nella legge morale, espressione della spontaneità della ragione.

Il motivo per cui si compie un’azione risiede nel modo in cui

l’ho valutata, e il modo in cui l’ho valutata nella regola con la

quale la volontà pura si organizza nella forma del

dovere/comando.

Ma una teoria morale siffatta per essere realmente efficace –

universale – deve rifiutare ogni fondamento empirico. Ora la

spinta (il motivo) ad agire non deve accompagnare il comando

della norma ma deve essere essa stessa contenuta nella legge

morale. Tale è l’ispirazione internalistica kantiana. Così facendo

però la motivazione diventa un punto cieco: per quanto il

principium executionis non risieda nel sentimento di piacere o

dispiacere, in un premio/punizione, nel timore di Dio, ma nel

rispetto della pura legge, l’inesplicabilità/incomprensibilità della

legge morale, il suo essere un fatto, rende “invisibile” dal punto

di vista formale la forza motivante. Infatti, per quanto l’agire sia

razionale, l’agente che sceglie ciò che lo comanda in forza di un

motivo deve necessariamente farlo sulla base di un oggetto,

altrimenti non agirebbe mai. G. B. Sala ha riassunto questo

problema in questi termini:

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«La forma dell’universalità non rappresenta nessuna

condizione sufficiente per un comando o una

proibizione moralmente giusti […]. Di fatti tutte le

massime si possono, da un punto di vista puramente

formale, universalizzare […]. La vera questione è

quindi se le conseguenze di una massima

universalizzata vengano ritenute desiderabili o

invece disastrose. Per questo giudizio […] si

abbandona inevitabilmente il principio meramente

formale dell’universalità. Infatti il test

dell’universalità consiste nel mettere l’azione in

questione in rapporto con l’uomo in quanto uomo e

nel domandarsi se questa azione conduca al bene

dell’uomo. […] Il bene che deve essere fatto è

sempre concreto, per cui per sapere che cosa è

confacente all’uomo in quanto questo uomo

concreto, occorre tener presente la sua situazione

concreta»271.

L’inevitabile referente del concreto – che qui non significa

sensibile ma reale – mette in difficoltà l’universalità del

principio morale. Certo, nella morale kantiana universale e

formale appaiono quasi come sinonimi, ma non

dimentichiamoci che il primo significa “valido per tutti (gli

esseri razionali)” e il secondo “non determinato empiricamente

ma razionalmente”. L’universalità della legge è quindi

insufficiente per il comando, ma non nel senso che necessita di

un contenuto empirico, piuttosto che richiede condizioni

concrete - e non casi, altrimenti non sarebbe formale - per

confermare la legge morale nella sua formalità. Su questo è lo

stesso Kant ad indicare, involontariamente, questa situazione.

Basta riportare il passo delle Annotazioni dove afferma:

271 G. B. SALA, Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, un commento, ed. Vita e Pensiero, Milano 2009, pp. 133-134.

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«la mia generosità è utile ad altri bisognosi, si deve

quindi essere generosi. Per niente. Ma se qualcuno

vuole essere utile agli altri, allora, che sia

generoso!»272.

Se la legge morale si manifesta sempre alla coscienza di ogni

essere razionale come un’esperienza a priori, è sufficiente che

mi domandi se voglio che la mia azione sia universalmente

valida. Purtroppo il criterio con cui si applica questo giudizio,

pur essendo a priori, non può fare a meno di considerare le

condizioni concrete.

Nel momento in cui si compie un’azione l’agente smette di

giudicare – il giudizio pratico attiene al valore – e sulla base di

tale giudizio si pone un massima con cui agisce concretamente.

Il carattere ‘sentimentale’ della motivazione sarà allora di natura

particolare: a priori (causato dalla legge morale), attivo (nella

forma del rispetto della legge morale) e legato esclusivamente

all’interesse che la mia massima valga universalmente. Se

quindi è chiaro come obbligazione e motivazione siano

compresenti nel soggetto in forza del fatto che la legge morale

contiene anche il motivo per cui debba essere seguita (il rispetto

per essa), rimane, d’altra parte, tutta la difficoltà di descrivere

dal punto di vista della ragion pratica il momento in cui si agisce

effettivamente.

S. Bacin ha riassunto questa problematica come il difficile

statuto della teoria morale tra metafisica e antropologia273.

L’autore spiega come intorno alla fine degli anni ’60

l’insoddisfazione di Kant nei confronti delle riflessioni etiche

della filosofia popolare lo abbiano portato verso lo schematismo

della logica. Grazie a questo solido strumento il filosofo ha

potuto analizzare con sicurezza il modo in cui l’intelletto

organizza le categorie. Dell’altra facoltà fondamentale

272 cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ibid., p. 167-168.273 cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, Kant e la costruzione di una teoria morale, ed. Il Mulino, Napoli 2006, pp. 135-164.

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dell’animo, la volontà, se ne sarebbe invece occupata la morale

vera e propria. Come abbiamo affermato in precedenza274, la

“collaborazione” tra logica e morale, senza l’appiattimento

dell’una sull’altra, permette di correggere i difetti di entrambe:

una morale senza logica rischia di diventare mera antropologia

tout-court o, peggio, una filosofia popolare; la logica senza la

morale in comandi vuoti e tautologici senza efficacia. Sono state

queste premesse concettuali e l’ispirazione internalistica della

teoria a dare a Kant la possibilità di costruire una metafisica dei

costumi, una teoria morale alternativa alla Schulphilosophie e

alle etiche del sentimento. Un percorso teorico che mostra i suoi

primi “segni” nelle osservazioni dell’Indagine fino alla

Dissertazione e alla Fondazione. Tale metafisica però stabilisce

soltanto un punto di partenza (una fondazione appunto) ad un

sistema dei doveri. Le norme concrete da ricavare in seguito non

appartengono più al campo della metafisica, ma

all’antropologia.

L’antropologia morale viene da Kant definita “pratica”: una

trattazione dei doveri e della loro configurazione per l’uomo.

Questa si distingue dalla mera descrizione dell’uomo sulla base

dell’osservazione empirica, a cui Kant dà il nome di

pragmatica275. Il problema di esaurire una trattazione formale

sull’etica che accontentasse “metafisicamente” tanto il momento

valutativo che motivazionale, risulta quindi impossibile. Il

momento fondazionale e metafisico della teoria si sarebbe

potuto occupare solo dell’aspetto normativo riconducibile a

concetti, mentre la realizzazione concreta di questi comandi non

rientra più in un’indagine a priori276. E’, si potrebbe dire,

274 pp. 32-35 della tesi.275 Tale distinzione sarà destinata a cadere nel momento in cui Kant sostituisce pratico a pragmatico per distinguere la sua antropologia da quella della morale di scuola. Cfr. Anthropologie Matuszewski (in Königsberg Kantiana. Imanuel Kant, Werke. Volksausgabe, vol. I, hrsg. V. A. KOWALEWSKI, neu hrsg. V. S. L. KOWALEWSKI u. W. STARK, Hamburg 2000), p. 185: «certo, diversi uomini, tra i quali Platner, Home e Tetens, ci hanno fornito delle antropologie. Tuttavia, in tutti questi scritti l’antropologia viene trattata soltanto come una disciplina teoretica, come una psicologia, senza che venga determinata la sua influenza sulla vita comune. Noi vogliamo, invece, esporre questa disciplina in termini pragmatici, ossia essa deve insegnarci a riflettere sugli esseri umani, ad acquisire un’influenza su di esse, per poterli guidare secondo i nostri intenti». Riporto tale citazione così come è stata tradotta da S. BACIN, ibid., p. 157. 276 cfr. ibid., p. 163.

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l’”ironia” del carattere non-teoretico della dimensione pratica:

proprio perché l’uso pratico della ragione non produce una

conoscenza, risulta impossibile sapere a priori quale azione sia

buona visto che la morale non si fonda sull’azione ma sul

principio razionale che lo pone come un dovere.

In conclusione, quindi, Kant emancipa a tutti gli effetti l’etica

dall’antropologia, riuscendo nell’impresa di costruire

formalmente una teoria morale fondata su principi razionali, ma

questo non significa che l’etica kantiana possa fare a meno di

essa. Sicuramente la filosofia pratica soggettiva di Kant non ha

bisogno dell’antropologia per formulare quel “supremo

principio della moralità” che sta alla base delle buone azioni,

quindi non ha bisogno di essa lì dove la moralità ha un inizio:

nella legge morale con i suoi comandi razionali, formali,

autonomi e universali. Però l’applicabilità di tali principi, come

abbiamo affermato in precedenza con G. B. Sala, richiedono

condizioni concrete, reali, che una teoria morale di questo tipo

non può anticipare. Un criterio puramente formale per giudicare

la moralità di un’azione è difficile da trovare, se non

impossibile. Si tratta della domanda: quali massime possono

essere leggi universali?

122

Page 123: Tesi Di Laurea - Paolo Bosso - Matr. 263-126

Riferimenti bibliografici

Scritti di Kant consultati

(in ordine di apparizione)

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conseguenze rispetto ai primi princìpi della scienza

naturale, in I. Kant, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000,

pp. 77-89.

- L’unico argomento possibile per una dimostrazione

dell’esistenza di Dio, in I. Kant, Scritti precritici, ed.

Laterza, Bari 2000, pp. 103-213.

- Indagine sulla distinzione dei princìpi della teologia

naturale e della morale (in risposta al quesito proposto

dalla Reale Accademia di Scienze di Berlino per l’anno

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pp. 215-248.

- Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle

quantità negative, in I. Kant, Scritti precritici, ed. Laterza,

Bari 2000, pp. 249-290.

- Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, in I.

Kant, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, pp. 291-346.

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- Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem

Winterhalbenjahre von 1765-1766, II, p. 326 [AA, 2, p.

311].

- Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica, in

I. Kant, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, pp. 347-

407.

- Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello

spazio, in I. Kant, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000,

pp. 409- 418.

- La forma e i princìpi del mondo sensibile e intelligibile, in I.

Kant, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, pp. 419-461.

- Critica della ragion pura, ed. Laterza, Bari 2010.

- Fondazione della metafisica dei costumi, ed. Laterza, Bari

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- Reflexionen, edizione dell’Accademia delle scienze di

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Metaphysik Herder, 1762-64, AA, vol. XXVII, 79-80.

Anthropologie Collins, semestre invernale 1772-73, AA, XXV.

Anthropologie Parow, semestre invernale 1772-73, AA, vol.

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Moralphilosophie Collins, 1777-78, AA, vol. IV.

Praktische Philosophie Powalski, 1775-78, AA, vol. IV.

Moral Mrongovius 1782-83, AA, vol. IV.

Metaphysik Mrongovius, 1782-83, AA, vol. XXIX.

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