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16. Roberta Rapelli Intuizione conoscitiva e sguardo veritativo L’angelo di Klee e la melanconia

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Dal 1913 al 1940 1 Klee realizza circa cinquanta opere in cui si serve di pochi tratti, di linee essenziali, per dare vita a una creatura angelica molto lontana dall’immagine dell’angelo della religione tradizionale che lo vuole bello, perfet-to, eterno, di un gradino soltanto inferiore a Dio. Quello di Klee dista di molti passi dal Paradiso, è molto più vicino alla realtà umana e a tratti assume persi-no sembianze demoniache. È dunque in parte vicino, nominalmente e poten-zialmente, al messaggero divino, e in parte è prossimo al concetto antico di da∂mwn, entità intermedia tra dei e uomini a cui manca l’accezione totalmente negativa che avrà invece il demone all’interno del Cristianesimo, dove suo si-nonimo sarà il nome di Satana. Se da un lato la malvagità diabolica non ap-partiene all’angelo di Klee, dall’altro è pur vero che in qualche modo esso è le-gato a una dimensione infera, agli abissi, da intendersi non come Regno del Male, ma come luogo di disperazione, imperfezione e oscurità, in cui costante è il desiderio di uscita e risalita.

Sul terreno di questa medianità tra Bene e Male, tra vicinanza alla perfe-zione divina e prossimità al dolore eterno degli inferi e all’impotenza propria dell’uomo, l’angelo di Klee si incontra con la melanconia.

In questa sede non sembra possibile, né sarebbe appropriato, esporre la lunga storia di questa figura, di cui si vuole dunque dare solo qualche accenno introduttivo ed esplicativo. Il termine melanconia nasce in ambito medico- ——————————

1 Il primo è Un angelo offre ciò che è desiderato, 1913; l’ultimo è Senza titolo (Natura morta), 1940.

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scientifico per indicare la bile nera, uno dei quattro umori contemplati dalla dottrina ippocratica 2. Dal piano prettamente fisico-umorale si sposta in epoca medievale 3 a indicare una certa predisposizione del carattere e dello spirito trasferendosi così su un terreno psicologico ed esistenziale, lo stesso su cui permane ai giorni nostri 4 a indicare infatti una certa “malattia dell’anima” 5

connotata da attività mentale molto intensa, deliri di onnipotenza e volontà di perfezione che convivono, o si alternano, con fasi depressive in cui il soggetto crolla sentendosi inadeguato rispetto agli obiettivi che si è preposto, si isola dal mondo e precipita nell’inazione. Tale status ambiguo, tale contrasto tra un pen-siero frenetico e un corpo immobile, è perfettamente visibile nelle raf-figurazioni che sono state date della melanconia 6; ed è proprio l’arte, il luogo intermedio del come-se in cui valgono le leggi del possibile e non quelle della necessità logica, l’ambito in cui trova consistenza e sostanza anche l’angelo di Klee.

Sono due figure che, proprio in virtù della loro medianità, possono avere una visione intuitiva capace di svelare l’essere autentico, prerogativa questa che le avvicina a Dio, al suo sguardo che è insieme visione e creazione, e che però non è in grado di preservarle dall’imperfezione. Rimangono infatti esseri corporei e limitati: da un lato sono in grado di conoscere la Verità e di elevarsi al di sopra della mediocrità, dall’altro la loro superiorità gnoseologica li condu-ce soltanto alle porte del Paradiso, per poi abbandonarli, precipitandoli a terra; rimangono in una sorta di Purgatorio, dove vivono il loro Inferno, guardando al Paradiso perfettamente visibile eppure irraggiungibile. ——————————

2 Cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la malinconia. Studi di storia della filo-sofia naturale, religione e arte, tr. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1983, pp. 7-19; per ulteriori informazioni sulla concezione antica della “melanconia” cfr. anche ivi, pp. 19-63; cfr. inol-tre J. Starobinski, Storia del trattamento della malinconia dalle origini al 1900, tr. it. di F. Parac-chini, Guerini, Milano 1990, pp. 21-46.

3 Cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, op. cit., pp. 64-115; cfr. J. Starobinski, op. cit., pp. 47-56; cfr. anche ivi, pp. 56-68 in cui sono esposte le teorie rinascimentali sul-l’argomento; cfr. inoltre A. Brilli (a c. di), La malinconia nel Medio Evo e nel Rinascimento, Quattro Venti, Urbino 1982; L. Rotondi Secchi Tarugi (a c. di), Malinconia e allegrezza nel Ri-nascimento, Nuovi Orizzonti, Milano 1999.

4 Cfr. J. Starobinski, op. cit., pp. 69-123, in cui l’autore considera le diverse posizioni prese in merito alla questione della melanconia dall’epoca moderna al Novecento.

5 Cfr. ibidem; cfr. anche L. Binswanger, Melanconia e mania, tr. it. di M. Marzotto, Bol-lati Boringhieri, Torino 1999; S. Freud, Opere. 1915/1917, Boringhieri, Torino 1978, vol. VIII; M. Klein, Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978; E. Borgna, Malinconia, Feltrinel-li, Milano 1999; L. Bottani, La malinconia e il fondamento assente, Guerini, Milano 1998.

6 Cfr. come compendio significativo, le figure contenute in R. Klibansky, E. Pa-nofsky, F. Saxl, op. cit.

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In virtù di tali riflessioni si rende ancor più manifesta la necessità di con-siderare non gli angeli cristiani, divini, eterni, perfetti, regnanti tra le schiere ce-lesti al fianco di Dio, ma quelli di Klee 7, mediani e paradossali, che “perman-gono in un’ironica ambiguità: non ammettono di proporsi se non in termini indiziari, apparendo talvolta più audaci, talvolta sinistrati e ridicolmente peri-clitanti” 8. Questo angelo in fieri, brutto, dubbioso, in ginocchio, mal riuscito, smemorato, più uccello che angelo, in cammino ancora maleducato, povero, “in crisi”, incompleto 9, che vive l’eterna tensione tra avere il nome dell’angelo, la creatura più vicino a Dio, ma il non averne le sembianze, né la forma in continua formazione, ricorda un solo angelo della Bibbia, Lucifero, colui che “portava la luce del giorno” per poi cadere negli oscuri inferi abissi. A testi-monianza di ciò vi è una raffigurazione angelica del 1939 di Klee dal titolo Ap-prossimarsi a Lucifero [Näherung Lucifer]. Alcuni aspetti avvicinano il destino e la tragedia di queste due figure, come dimostra anche il seguente passo del-l’Antico Testamento:

Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio

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7 Cfr. I. Riedel, Engel der Wandlung. Paul Klees Engelbilder, Herder, Freiburg 2000, come testo di riferimento, esaustivo e sintetico, per comprendere la figura dell’angelo in Klee; cfr. anche G. Schiff, Klee’s array of angels, in “Artforum”, maggio 1987, pp. 126-133; M. Dantini, Klee, Jaca Book, Milano 1999; W. Haftmann, Paul Klee, Prestel Verlag, München 1957.

8 M. Dantini, op. cit., p. 116. 9 Questi sono solo alcuni titoli delle opere che Klee ha dedicato alla figura del-

l’angelo. Sono circa cinquanta i quadri di cui la figura in esame è soggetto; essa è raramente mostrata in termini positivi: vi sono un solo Angelo sapiente, un solo Arcangelo, quattro “an-geli custodi”. Gli altri, si è detto, sono tutti raffigurati come entità precarie, indefinite e in-definibili; solo alcuni hanno tratti in qualche modo “neutri”, ovvero non negativi, ma nem-meno degni di quello che è l’angelo nell’immaginario tradizionale; si pensi, per fare qualche esempio, all’Angelo civettuolo coi riccioli e a quello Presto capace di volare: in questi casi l’angelo non è “brutto, mal riuscito o in cammino”, ma è comunque “frivolo”, e dunque privo di sacralità e potenza, oppure con una capacità di volare che ancora non gli appartiene, ma che lascia intendere la possibilità di una speranza. Speranza che non abbandona mai gli an-geli kleeiani: per quanto tragicomici, essi procedono su una strada che fa sempre pensare a una possibile ascesa: per questo sono in fieri, in barca, “militanti”, perché non smettono mai di combattere la loro battaglia, di andare avanti, di provare.

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innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso 10!

Entrambi gli angeli, simili, ma non identici, “pensano di poter salire in cielo”, ma questa ascesa è loro vietata; se però Lucifero diviene altro da sé, ovvero non più angelo, ma diavolo, principe delle tenebre, simbolo del Male assoluto, polo opposto di una dialettica inesistente in quanto con il Bene vi è solo lotta e non dialogo, l’angelo di Klee rimane tale, non perde, quanto meno nel nome, la speranza di un accesso al Paradiso. Dagli abissi in cui si trova vuole elevarsi facendo della sua superiorità conoscitiva la condizione di possibilità per intra-prendere questo viaggio, la cui meta definitiva permane però unicamente sul piano di questa possibilità, poiché esso è comunque una figura tragicomica. Come la melanconia, si sa perfetto solo potenzialmente, sente la libertà di uno spirito alto ingabbiata nella prigione del corpo, sa vedere la Verità, ma la sua conoscenza perfetta non porta all’essere una creatura altrettanto perfetta. Consapevoli di ciò, le figure in esame reagiscono in modo molto diverso l’una dall’altra: la melanconia si abbandona alla totale inazione, mentre l’angelo con-tinua la sua eterna e infinita tensione verso la meta della perfezione o, almeno, della perfettibilità. Sul piano dell’onnipotenza gnoseologica, tratto tipicamente divino, esse dunque si incontrano e si identificano, ma, consapevoli della loro impotenza ontologica, reagiscono a tale condizione in modi opposti: l’una con la rassegnazione, l’altro con un perenne divenire.

GUARDARE MELANCONIE E ANGELI

Melanconia e angelo vivono dunque una frattura sostanziale tra imperfezione ontologica e superiorità gnoseologica, tra l’essere informi e impotenti, e nello stesso tempo capaci di avvicinarsi a Dio, grazie a uno spirito e a uno sguardo particolari. Se il nome di cui l’angelo è portatore suggerisce in qualche modo questa sua prossimità alla divinità, alla melanconia, quest’ultima può essere ri- ——————————

10 Isaia, 14, 12-15.

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conosciuta ricordando la fondamentale questione posta da Aristotele in Pro-blemata XXX, I 11. Qui l’autore riconosce infatti al melanconico caratteristiche di superiorità rispetto agli altri uomini, affermando che “tutti gli uomini ec-cezionali, nell’attività filosofica o politica, artistica o letteraria, hanno tempe-ramento ‘melanconico’” 12. Confermata, anche se con accenti diversi, da una lunga tradizione 13, pur in modi differenti, questa affermazione, rivela che è sul piano della conoscenza che i melanconici eccellono. Una conoscenza che è in-tuitiva, distante da processi logico-deduttivi e vicina a una percezione che sve-la l’essere vero con un solo sguardo, sguardo a cui è dato un rilievo particolare nelle opere d’arte che raffigurano melanconie e angeli.

Si ritiene perciò utile guardare a tali opere e coglierne alcune, emblemati-che particolarità estetiche. Nel caso delle melanconie gli occhi sono visibil-mente concentrati, fissati su un problema della mente 14 o perduti nei deserti paesaggi che le circondano, volti a una dimensione altra 15, lontana nel tempo e nello spazio, la stessa verso cui sembra siano diretti gli occhi dell’angelo di Klee. Lo sguardo diviene dunque la metafora estetica della loro superiorità conoscitiva, di quella tensione della mente di cui sono segno anche altre scelte stilistiche, quale, per esempio, la postura assunta dalle figure. Non pare dun-que casuale il fatto che la melanconia sia solitamente raffigurata di profilo o di tre quarti. Seguendo le considerazioni di Meyer Schapiro 16, il volto di profilo è indice di movimento e dell’inserimento in un processo, “è distaccato dall’os-servatore e […] assieme al corpo in azione […] è come la forma grammaticale della terza persona, l’impersonale” 17; il viso rivolto all’esterno, e quindi fronta-le, è invece “appropriato a una figura simbolica o che porta un messaggio” 18.

Se dunque la frontalità dell’immagine allude all’affermazione di una pre-senza, il profilo rimanda invece a un’idea di assenza, a un’impossibile imposi-zione del proprio Sé che tende a mancare, a non essere, a non esserci. Ecco al-lora che attraverso tale espediente estetico appare veicolata proprio la tensione ——————————

11 L’opera è tramandata come aristotelica, anche se per alcuni potrebbe essere ipotiz-zabile un’attribuzione a Teofrasto, successore di Aristotele. Cfr. C. Angelino-E. Salvane-schi, “Note dei curatori”, in Aristotele, La “melanconia” dell’uomo di genio, a c. di C. Angelino ed E. Salvaneschi, Il Melangolo, Genova 1994, p. 35.

12 Aristotele, op. cit., p. 11. 13 Cfr. quale efficace sintesi delle diverse teorie e interpretazioni J. Starobinski, op. cit. 14 Come esempio maggiormente emblematico rimandiamo alla Melencolia I di Dürer. 15 Figg. in R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, op. cit. 16 Cfr. M. Schapiro, Per una semiotica del linguaggio visivo, tr. it. di G. Perini Meltemi,

Roma 2002, pp. 158-177. 17 Ivi, p. 162. 18 Ivi, p. 163.

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dell’anima inquieta. Le rare volte in cui la melanconia, solitamente unica pro-tagonista della scena, è affiancata da altre figure, è rappresentata frontalmente, fatto che, in linea con l’interpretazione di Schapiro, ne accentua la superiorità e distanza rispetto alla piccolezza degli altri 19, nel suo essere “figura simboli-ca” e portatrice di valori alti. Ancora una volta, dunque, duplicità d’essere e d’apparire caratterizzano questa creatura: nella sua solitudine, impersonale, va-go profilo di un’essenza indefinita; nel confronto con gli altri monumentale e superiore presenza. La riflessione di Schapiro si rivela ancor più illuminante se si osserva l’angelo kleeiano che è spesso raffigurato con la testa frontale e i piedi di profilo 20, dunque con una mente ben presente, visibile, affermativa e un corpo in cammino, “inserito in un processo”. Divino messaggero, creatura quasi sacra, eppure impersonale, privo di una identità, l’angelo, come la me-lanconia, è costretto a scoprirsi potenzialmente infinito e onnipotente, gran-diosa presenza spirituale, ma anche infinitamente piccolo, privo di compiutez-za, creatura in costante cammino verso il proprio Sé. Sublimi e tragicomiche creature destinate a vivere nel paradosso, nella dimensione intermedia dove convivono consapevolezza dell’essere come-se fossero dei e consapevolezza di un’imperfezione insanabile. In loro convivono il profilo e la frontalità,

portatori di opposte qualità: uno dei due veicola il valore più alto e l’altro, per contrasto, segna quello più basso […]. Il dualismo di frontalità e profilo può al-lora significare la distinzione tra bene e male, tra sacro e meno sacro oppure profano, tra celeste e mondano, […] attivo e passivo, impegnato e disimpegnato, vivo e morto, personaggio vero e immaginario. La corrispondenza tra queste qualità e condizioni da un lato e la frontalità o il profilo dall’altro varia a seconda delle diverse culture, ma comune a tutte è la nozione della polarità espressa at-traverso posizioni contrastanti 21.

Il fatto che tale polarità sussista non in un gioco dialettico tra due figure di un’opera 22, ma in una lotta interna a una sola creatura è indice ancora una vol- ——————————

19 Cfr., ad es., R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, op. cit., p. 356 e fig. 128: Melanconia di Matthias Gerung.

20 Rare sono anche le rappresentazioni di angeli totalmente frontali (ad es. l’Angelus novus, quello smemorato e quello del Vecchio Testamento); spesso invece la sola testa è frontale, pur piegata, mentre il corpo e i piedi sono di profilo (ad es. l’Angelo strapieno, quello della stel-la e quello ancora brutto); altre volte la figura è completamente di profilo (ad es. un Angelo of-fre ciò che è desiderato, Angelo in ginocchio, Angelo in barca, Angelo nell’asilo infantile, Angelo incompiu-to, Angelo brutto, Angelo povero, In cammino, ancora maleducato).

21 M. Schapiro, op. cit., pp. 168-169. 22 Cfr. ivi, p. 168.

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ta dell’ambiguità costitutiva dell’angelo, del suo essere paradossale, del contra-sto tra la mente e il corpo: teste molto grandi si impongono sulla tela, mentre corpi imperfetti, infantili, dotati di piccoli piedi in cammino si fanno segno di una tensione costante, di una fisicità mancata e destinata a mancare. Tale am-biguità appare ulteriormente messa in luce se si pensa che la frontalità, veicolo, si è detto, di un messaggio sacro, può anche corrispondere a “un personaggio immobile, passivo o soggetto a condizionamenti, uno che si ritira dall’azione. La piena frontalità è anche un attributo del demoniaco” 23 e, in certi soggetti è anche un mezzo per mostrare l’autoisolamento della figura, la sua volontà di voltare le spalle agli altri e al mondo che non ha il coraggio di vedere in fac-cia 24. Tali caratteristiche sono simili a quelle dell’“angelo demoniaco” e a quel-le della melanconia che si è “ritirata dall’azione, autoisolata”, che ha un corpo “immobile e passivo” in netto contrasto con la frenesia del suo pensiero.

LA CONOSCENZA INTUITIVA

L’essenza paradossale della melanconia e dell’angelo testimonia che esse ap-partengono a una dimensione intermedia da intendere non come “via di mez-zo”, ma come luogo in cui gli opposti convivono, dove il tempo e lo spazio sono sospesi, dove la logica è quella del come-se, dove la conoscenza si fa in-tuitiva, immediata, creativa. Il loro spirito è perduto nelle vette più alte del sa-pere, il loro corpo li trattiene a terra, la totalità del loro essere è nel-l’intermedio. Sono figure tragicomiche in cui si dà il conflitto tra il conoscere come-se fossero Dio, ma il non essere la Divinità stessa, da intendersi anche come Eternità, Perfezione, Bellezza, e ancora come l’Avere-un-Senso e l’Es-sere-Compiuti.

L’angelo di Klee incarna perfettamente questo dramma 25: da un lato è capace di cogliere un livello superiore della realtà, di accedere a una conoscen-za che non è quella tipica che si instaura davanti al mondo visibile, al sensibile, bensì quella capace di passare dalla cosa concreta all’invisibile; dall’altro lato esso è soltanto l’immagine lontana della Luce, “riman[e] confitt[o] alla so-glia” 26, impotente e disperato 27; è un “guardiano e custode caduto” 28, com- ——————————

23 Ivi, p. 169. 24 Ivi, p. 189. 25 Cfr. M. Cacciari, L’angelo necessario, Adelphi, Milano 1986, p. 47. 26 Ivi, p. 50. 27 Cfr. ivi, pp. 48-51. 28 Ivi, p. 51.

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promesso con la “transitorietà e caducità” 29 del mondo; è “più uccello che an-gelo” 30, con ali che sembrano avvicinarlo solo in teoria a Dio, perché in realtà lo fanno rassomigliare a un animale.

Questo suo essere mediano, come quello del melanconico, implica la scoperta di una verità altrettanto duplice: da un lato la condizione universale è mortale, incompiuta, vana, vacillante, effimera 31, e che dall’altro lato la visione conoscitiva superiore rivela la possibilità di essere “dettagli in cui il buon Dio alberga”, di essere un’unica cosa con il Tutto. Ad avvalorare l’affermazione se-condo cui la conoscenza intuitiva conduce a tale consapevolezza vi è l’antica teoria di Plotino per cui conoscenza intuitiva è non solo quella che l’intelletto ha di sé e degli oggetti che lo circondano, ma è anche unione dell’anima con-templante con l’Uno 32. Similmente angeli e melanconici sanno di essere uno col Tutto, ma nello stesso tempo il loro corpo li costringe a vivere nella debo-lezza e nell’imperfezione. In virtù di questa loro essenza paradossale nel mo-mento in cui si scoprono Parti del Tutto, guardano al loro essere specchi del-l’universo in duplice modo: come i frammenti di un insieme essi sono tanto i cocci di un’opera ormai rotta e non più ricomponibile, quanto le condizioni di infinite possibilità; sono rovine distrutte o in distruzione di una totalità perdu-ta, di una forma irraggiungibile e, insieme, elementi essenziali del tutto con cui si identificano.

Il senso di precarietà e la percezione di essere un unicum con l’Uno sono aspetti entrambi costitutivi di melanconia e angelicità, aspetti che possono es-sere maggiormente compresi se interpretati alla luce di quella che Goethe chiamava, appunto, “intuizione creativa”, ovvero quella particolare conoscen-za tipica degli artisti, che si ritiene sia assimilabile anche a quella delle figure in esame 33. In un epigramma, affermando che “tra la culla e la bara oscillando sospesi, […] attraversiamo la vita” 34, Goethe mostra la vanità del tutto, l’in-consistenza di sé; la vita appare come qualcosa che è impossibile cogliere e ——————————

29 Ibidem. 30 Cfr. ivi, p. 132. 31 Ivi, p. 51; J. Jimenez, L’angelo caduto. L’immagine artistica dell’angelo nel mondo contempo-

raneo, tr. it. di L. Muratori, Hestia, Milano 1999; cfr. inoltre testi citati in nota 5. 32 Cfr. L’enciclopedia della Filosofia e delle Scienze Umane, De Agostini, Novara 1996, pp.

466-467, alla voce “Intuizione”. 33 A questo proposito è particolarmente emblematica la Melencolia di Dürer, la donna

alata, con il viso in ombra a indicare l’umore melanconico, e con la guancia appoggiata alla mano, gesto in principio segno di dolore e successivamente simbolo e traccia del pensiero creativo e dell’affaticamento che ne consegue. Cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, op. cit., pp. 261-374; M. Calvesi, La malinconia di Albrecht Dürer, Einaudi, Torino 1993.

34 J.W. Goethe, Tre poesie, in “Il Verri”, 22-23, 1981, p. 9.

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fermare, a cui è impossibile dare una sostanza definitiva e certa, perché essa è solo un passare, un divenire, un attraversare un fiume che scorre in continua-zione, le cui rive sono le polarità dell’infanzia e della morte, quasi, si potrebbe dire parafrasando l’epitaffio di Klee, le polarità della dimensione dei “morti e degli appena-nati”. Una tale condizione può però essere superata se ci si rende capaci di uno sguardo creativo, quello sguardo che angeli, melanconici – e arti-sti – possiedono e che solo porta a una autentica comprensione dell’essere.

La loro intuizione porta a svelare l’“irrazionale” 35, i segreti della natura, quell’invisibile che Goethe voleva conoscere e Klee rappresentare. Nel loro caso si potrebbe dire che l’“arte scaturisce immediatamente dalla sorgente dell’es-sere […] che appare come l’annunzio di leggi che il poeta ha strappato allo spi-rito del mondo, nel profondo dell’opera della natura. L’arte diviene così l’interprete dei segreti del mondo” 36. E proprio quando la conoscenza dei me-lanconici e degli angeli si avvicina maggiormente e consapevolmente a questa realtà, la medesima che li accomuna agli artisti, ai filosofi e, in qualche modo, a Dio, scoprono che le molteplici parti del mondo, e quindi loro stessi, sono nello stesso tempo uguali e diverse, tutte forme variate di invarianti archetipi. È, questa, una conoscenza sintetica 37 che “ha bisogno di un Uno e di un Altro per costruire un Uno-e-Altro” 38, per giungere alla consapevolezza che l’U-guale e il Diverso sono la stessa cosa, che nell’Uno vive e si trasforma l’Altro, che nella totalità sussistono molteplici aspetti che sono nello stesso tempo dif-ferenti e speculari. È una conoscenza consapevole della varietà dei molteplici soggetti e oggetti che popolano l’universo, ma nello stesso tempo è cosciente del fatto che i poli costitutivi del tutto, pur restando tali, sono essi stessi que-sto tutto. Tale verità è espressa in modo immediato e intuitivo dalle parole di Goethe 39: “Noi e gli oggetti / luce e oscurità / corpo e anima / due anime, spirito e materia / Dio e mondo / pensiero ed estensione / ideale e reale / sensibilità e ragione / fantasia e intelletto / essere e nostalgia / due metà di un corpo / destra e sinistra / respirazione” 40. La natura “oscilla in questo o quel senso, e sorge così un di qua e un di là, un sopra e un sotto, un prima e un

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35 H. Glockner, Goethe e il colore come fenomeno mondano, in “Il Verri”, cit., p. 37. 36 R. Steiner, Il colore e l’agire del soggetto, in “Il Verri”, cit., p. 52. 37 Ivi, p. 31. 38 Ibidem. 39 Cfr. A. Pinotti, Memorie del neutro. Morfologia dell’immagine in Aby Warburg, Mimesis,

Milano 2001, pp. 177-183; cfr. anche Premessa alla seconda parte, in “Il Verri”, cit., p. 74. 40 R. Troncon, Goethe e l’idea di teoria del colore, in “Il Verri”, cit., pp. 169-170; cfr. an-

che A. Pinotti, op. cit., p. 178.

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dopo” 41, ma al di là di queste differenze stanno i tipi invariati, le idee di tutte le forme in continuo divenire; la natura parla di esse all’uomo, ma lo fa in mo-di infiniti, ignoti, che per i più sono incomprensibili; si serve del molteplice per comunicare in realtà sempre il medesimo, per dire che nel diverso risiede l’identico 42. L’intuizione che è in grado di cogliere questa rivelazione è ap-punto quella creativa 43, capace di scoprire che soggetto e oggetto, generale e particolare, parte e tutto, sono sempre e comunque la stessa cosa. È un’in-tuizione che eleva lo sguardo veritativo delle figure in esame rispetto alla me-diocrità: laddove l’uomo comune vede soltanto meri particolari, semplici dati di fatto, esse scoprono che in quel dettaglio si nasconde l’intero universo e che “nella presenza dell’infinito nel finito non si verifica una dissoluzione del fini-to nell’infinito, ma un suo inveramento” 44.

Conoscere il generale e il singolare come manifestazioni diverse di un’identica realtà, sapere che il particolare è simbolo dell’universale, così come ogni individuo è partecipe di infinite qualità 45, è vedere con l’“occhio dello spirito”, il solo capace di cogliere le essenze nelle cose.

Parlare di visione non è procedere attraverso metafore, in quanto la par-ticolarità delle figure in esame consiste proprio nel fatto che il loro conoscere non è un intelligere, ma è un aver visione, un intuire: esse non ragionano sull’es-sere, non si interrogano su di esso, non procedono logicamente, poiché esso si offre loro in immagine. Quello dei melanconici e degli angeli è uno sguardo primitivo, primigenio, capace di vedere in ogni frammento non un pezzo insi-gnificante di mondo, non una rovina, ma l’infinità delle possibilità; di percepi-re che nel minimo si rivela il tutto, che “il buon Dio alberga nel dettaglio” 46. Non interviene dunque l’intelletto poiché non è esso a scoprire gli archetipi, il “fenomeno originario”, ma l’“intuizione creativa” 47, la facoltà di intuire cre-ando, di scoprire e mostrare il vero 48, smascherando la Creazione e i suoi meccanismi e avvicinandosi in ciò a Dio. L’arte di Klee corrisponde perfet-tamente a questa intenzionalità poiché vuole rappresentare il primitivo facen-

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41 R. Troncon, op. cit., p. 171. 42 Cfr. A. Pinotti, op. cit., p. 61. 43 Cfr. R. Troncon, op. cit., p. 174. 44 A. Pinotti, op. cit., p. 46. 45 Cfr. ivi, p. 52. 46 G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, tr. it. di M.T. Mandalari, Adelphi, Milano

1996, p. 78: l’autore ripropone qui il celebre motto di Aby Warburg. 47 Cfr. ivi, pp. 138-139. 48 Cfr. ivi, pp. 119-120.

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dosi “disciplinata riduzione del tutto a pochi tratti” 49, divenendo “nucleo at-tivo della possibilità” 50, luogo delle infinite genesi e trasformazioni, o meglio formazioni. I suoi angeli sono particolarmente emblematici di questa teoria pittorica: si pensi al fatto che linee essenziali li descrivono, “linee della co-scienza” 51 che, nella loro semplicità, dicono tutto, e cioè l’assenza e la presen-za che convivono in questa figura: l’assenza di una forma definita e la presenza della consapevolezza che proprio l’impossibile forma definitiva e perfetta è la verità che solo pochi tratti, così come punti archetipici e simbolici, possono raccontarci.

Lo sguardo di angeli e melanconici, fissato su problemi che occupano le loro menti e le loro anime, o su orizzonti lontani nel tempo e nello spazio, sembra cercare l’originario senso di sé e di tutte le cose; essi si rivolgono a quelle dimensioni che stanno “oltre e prima”, dove soltanto si riesce a com-prendere la propria essenza. Nel mondo terreno invece, osservato con lo sguardo comune di tutti i giorni, non si può trovare nulla se non la banale quotidianità, perciò solo la tensione ad altro può portare alla scoperta del pro-prio senso, che intanto si esaurisce nella ricerca di sé. Una ricerca che forse re-sterà tale, come mostrano le figure melanconiche che restano con gli arti im-mobili, inutili strumenti per uno spirito che solo è in grado di volare, e gli an-geli, creature in fieri. Il loro essere qualcosa di incompiuto e in continua tra-sformazione incarna la priorità da Klee attribuita al divenire piuttosto che al-l’essere 52, in quanto garanzia di un costante tentativo di elevazione volto a ri-scoprire e recuperare la “radice stessa della vita” 53, degli archetipi, della pro-pria infanzia e di quella del mondo, mettendo in atto un’epoché, una sospensio-ne di quelle stratificazioni di senso che ostacolano la visione del vero; nel ri-torno alle origini sta dunque “la possibilità di verifica o di riconversione delle deformazioni che occultano la natura più vera delle cose e di se stessi” 54. Il tutto è reso possibile da quei “rari sguardi” 55 di quelle creature miranti a ren-

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49 Paul Klee, Diari 1898-1918, tr. it. di A. Foelkel, Il Saggiatore, Milano 1990, p. 244. 50 Ivi, p. 181. 51 Cfr. H. Michaux, “Aventures de lignes”, in Passages, Gallimard, Paris 1963, pp.

173-180. 52 Cfr. P. Cherchi, Paul Klee teorico, De Donato, Bari 1978, p. 116. 53 Ivi, p. 45. 54 Ivi, p. 80. 55 Cfr. R. Prange, “Schrift und Bild. Von Paul Klee zu Henri Michaux”, in U.

Fleckner (a c. di), Jenseits der Grenzen. Dialog der Avantgarden, Dumont, Köln 2000, pp. 117-125.

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dere visibile l’invisibile e a farsi simili a un Kindlichem Medium 56 che può af-fermare: “Ich tue als ob” 57, “io faccio come se”. Il loro essere è infatti metafori-co, non univoco, non definito, non certo; “astrarre il reale, astrarsi dal rea-le” 58: questo è il loro imperativo esistenziale; esse tendono a “iscrivere nel sensibile determinate categorie metafisiche, quali lo stato informe e indif-ferenziato dell’Uno, la manifestazione dell’Essere nella luce primordiale, il confronto tra l’Essere e il nulla, il dispiegamento originario del molteplice” 59; sono in grado di rendere visibile la “sostanza primigenia del tutto” 60, di vede-re prima del mondo fenomenico 61 e oltre; sono in grado di cogliere “ciò che è posto prima e al di là del discorso, del dicibile: il caos vero, irriducibilmente ‘altro’” 62, l’assenza 63; a differenza del resto del mondo riescono a scoprire ciò che è nascosto, riescono a prevedere come agirà il processo della creazione 64. L’angelo di Klee corrisponde perfettamente a tale condizione: la sua modalità estetica e ontologica implica non solo la visione dell’Altro e dell’Assenza, ma anche l’essere questa stessa Assenza. Esso è forma mancante, è un non-essere-ancora, è creatura abitante l’intermedio, i non-luoghi del simbolo, del pensiero creativo, dell’immagine e dell’immaginazione. È emblema “dell’inafferrabilità, della dubbiosa esistenza, della vacuità del reale” 65, vacuità che solo l’arte può salvare, dandole consistenza, visibilità, presenza; imperfetto, è costretto a vive-re “non qui [ma] nella profondità” 66, ad ardere con i morti 67.

La superiorità conoscitiva conduce verso sfere e dimensioni superiori, ignote, ai confini della Verità, ma non esime dunque dal cadere, non riesce a salvare angeli e melanconici dalle loro umane debolezze. In ciò sono simili al-l’“anima platonica” 68 innalzata dalle proprie ali “là dove dimora la comunità degli dei; e in qualche modo essa partecipa del divino” 69; accade però che ——————————

56 Ivi, p. 111. 57 Paul Klee, Poesie, a c. di G. Manacorda, Abscondita, Milano 2000, pp. 146-147. 58 Ibidem. 59 Ibidem. 60 Ibidem. 61 Cfr. ibidem. 62 Ivi, p. 210. 63 Cfr. ivi, p. 201. 64 Cfr. ivi, pp. 170-171. 65 G.C. Argan, “Prefazione all’edizione italiana”, in P. Klee, Teoria della forma e della fi-

gurazione, tr. it. di M. Spagnol e F. Saba Sardi, Feltrinelli, Milano 1959, pp. XI-XVIII. 66 P. Klee, Poesie, cit., pp. 168-169. 67 Ibidem. 68 J. Jimenez, op. cit., p. 28. 69 Platone, Fedro, 245 D, tr. it. di A. Zadro e P. Pucci, Laterza, Roma- Bari 1982.

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molte anime hanno infrante le ali [e] stremate dallo sforzo, se ne dipartono senza aver goduto la visione dell’essere […]. La vera ragione per cui le anime si affannano tanto per scoprire dove sia la Pianura della Verità è che lì in quel prato si trova il pascolo congeniale alla parte migliore dell’anima [c] e che di questo si nutre la natura del-l’ala, onde l’anima può alzarsi […], qualunque anima […] abbia contemplato qualche verità [e divenga] impotente a seguire questo velo [perde] le ali e precipi-ta a terra 70.

Tale conoscenza contemplativa, capace di cogliere ciò che la natura cela, è ti-pica anche dei primitivi, dei bambini 71, dei pazzi, realtà tutte profondamente vicine ad angeli e melanconici; esiste infatti una “creatività originaria, quale sperimentiamo nelle collezioni etnografiche o nelle camerette dei bambini […]. I bambini hanno grandi capacità creative […]. I disegni dei malati di mente sono fenomeni paralleli: follia non è una parola di cui vergognarsi” 72. Tale forma di conoscenza contrassegna la melanconia che nasce e si sviluppa, pur definita da molteplici e differenti interpretazioni da Ippocrate ai giorni no-stri, come malattia mentale, come una pazzia che nella sua degenerazione è comunque causa o effetto di una superiorità spirituale. Impotenza fisica, im-perfezione, malattia, appunto, si accompagnano a una particolare capacità di visione, alla scoperta di ciò che la natura cela, aprendo ai misteriosi mec-canismi dell’inconscio e dell’essere. E se ciò è tipico della Follia e della Melan-conia, lo è altrettanto dell’Angelo, del Primitivo e del Bambino, capaci di sve-lare l’invisibile, di procedere secondo meccanismi mentali che non sono quelli dell’adulto o dell’uomo moderno. Il bambino procede per associazioni, gioca con le cose e con le parole, vivendo un rapporto immediato e autentico; in lui ——————————

70 Ivi, 248 B-C. 71 È significativo che P. Klee (Diari 1898-1918, cit., p. 196) affermi di sentirsi felice

quando è “assente l’intelletto”, quando si sente come un “bambino sperduto”. Lo stesso Walter Benjamin, come ricorda G. Scholem in op. cit., pp. 75-78, era affascinato da tali real-tà e infatti conservava con particolare interesse “libri di psicopatici e libri per l’infanzia” (p. 75).

72 M. Dantini, La cameretta dei bambini. Paul Klee critico d’arte (1912-13), in “Prospettiva. Rivista di storia dell’arte antica e moderna”, 81, 1996, p. 56. L’autore ha riproposto il com-mento di Paul Klee alla prima esposizione del Blaue Reiter. Dantini (ivi, p. 57) ricorda an-che che “Klee avvicina arte infantile, arte primitiva e arte psichiatrica”, che pone “at-tenzione a modelli devianti di creatività”, nella continua ricerca “delle sorgenti psichiche della creatività” e della “liberazione del segno”; cfr. anche G. C. Argan, “Introduzione”, in P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, cit., p. XXII, ove l’autore afferma che è possibile incontrare i “primordi dell’arte nella stanza dei bambini”.

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non vi sono né censura né razionalità a creare griglie concettuali che separano l’essere dal dire e dal pensare. Nello stesso modo agisce il primitivo: la magia e il mito sono le categorie entro cui vive e pensa, e non il logos né la tecnica; il suo dire si fa immediatamente realtà: in ogni parola si dà l’essere della cosa, in ogni gesto si dà il suo significato. Immediatezza, originarietà, originalità, intui-zione sono le modalità gnoseologiche e ontologiche secondo le quali riflettono ed esistono. Ai loro occhi e alla loro contemplazione si manifestano gli arche-tipi, il mondo spoglio, vero e autentico, semplice, non complicato da fratture concettuali, ma puro, essenziale, ma anche possibile e deformabile. È questo il mondo dove giocano i bambini e gli angeli di Klee, creature estremamente si-mili, come è possibile dedurre non solo da una riflessione teorica e metaforica, ma anche osservando direttamente le loro rappresentazioni: semplici linee trat-teggiano una figura che appare come-se fosse un bambino e come-se un bam-bino l’avesse disegnata. Come un bambino è in formazione, non è ancora qualcuno di compiuto, dovrà diventare altro, e perciò i suoi piccoli piedi sono in cammino, perciò le sue azioni sono legate a “giardini di infanzia”, perciò è in fieri; in un altro senso è infantile perché disegnato come disegnerebbe un bambino, ovvero servendosi di pochi tratti essenziali per mostrare l’essenza delle cose, senza usare una tecnica che ne raffiguri perfettamente le sfumature, le sembianze. Al bambino appare immediatamente l’oggetto e lo rappresenta; non si pone il problema di seguire regole geometriche e pittoriche, ma disegna quello che vede, l’oggetto per come gli appare, per quello che è e per quello che rappresenta. Le proporzioni stesse non sono per lui un canone geometri-co-oggettivo, ma sono rivestite di sensi altri, come avviene anche per gli ange-li: le grandi teste e i corpi ancora immaturi mostrano ancora una volta il con-trasto mente e corpo, quella contraddizione che Klee ritrova, emblematica-mente, nella tragicità dell’artista che sente il mondo fenomenico come spazio-temporalmente limitato “in contrasto con la profondità della sua visione e la mobilità del suo sentire” 73.

Tali riflessioni hanno avuto lo scopo di testimoniare ancora una volta come le figure in esame in quanto tali, in quanto oggetti iconografici, in quan-to metafore, in quanto avvicinabili a realtà altre quali quelle dell’infanzia, della follia, della primitività, hanno sempre e comunque la prerogativa costitutiva di avere una modalità conoscitiva superiore e particolare. Superiore in quanto si eleva oltre la mediocrità, oltre la banalità dell’osservazione quotidiana; “con-templa le cose […] e quanto più a fondo […] penetra […] tanto più […] si ——————————

73 P. Klee, “Conferenza di Jena”, in C. Fontana (a c. di), Paul Klee. Preistoria del visibile, Silvana, Milano 1996, p. 34.

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imprime nella mente, al posto di un’immagine naturale definita, l’unica es-senziale immagine, quella della creazione come genesi” 74; particolare perché attua la “sintesi di visione esterna e contemplazione interiore”, ovvero dalla sola osservazione della natura ne intuisce immediatamente i segreti nascosti, scoprendo nel dettaglio la totalità del mondo e le sue forme originarie. Simbo-lo perfetto di ciò è il punto grigio 75, che tanta importanza ebbe nell’arte di Klee, in quanto elemento che si rivela come carico di sensi, nel suo apparente non averne alcuno: la sua assenza di specificazioni e di individuazioni è condi-zione di infinite possibilità. Adimensionale e dunque privo di spazio, grigio, e dunque mediano tra il bianco e il nero, è il simbolo della scoperta veritativa che ai “rari sguardi” appare, ovvero la constatazione che ogni elemento, anche quello che ai più appare come nulla, come insignificante, è in realtà una totalità che possiede in potenza infinite dimensioni, possibilità, significati. Solo un cer-to atteggiamento conoscitivo riesce a far diventare qualsiasi cosa portatrice di nuovi valori, senza lasciare che il mondo intero e ogni suo più piccolo fram-mento si annullino nel quotidiano pensare, che ormai usa parole letteralmente svuotate di senso, poiché tolgono ogni significato alle cose, non essendo più, o non essendo mai state, in grado di cogliere il vero che, si è detto, si nasconde in ogni più piccola cosa. Ancora una volta, sono le parole di Goethe a dar vo-ce e consistenza a tali affermazioni; in Gingo biloba egli afferma 76 la possibilità di scoprire, dopo una “sapiente meditazione”, “un senso edificante” 77 svelato dalle “linee della foglia” e, a proposito di essa si chiede: “È forse un essere / vivente, unico sì, ma in sé sdoppiato? / o forse in essa da due opposti esseri, / elettisi, un sol essere si è formato?” 78, e trova risposta constatando di essere egli stesso una creatura insieme “unica e bina” 79.

Questa riflessione si rivela significativa innanzitutto perché pone come condizione di possibilità di una rivelazione la “sapiente meditazione”: non so-no la logica e la ragione a scoprire il vero, ma un meditare sapiente che rivela allo spirito l’essere. La poesia si fa inoltre messaggio della sostanziale unità del tutto, del fatto che tutte le creature sono tante varianti di una sola unità. Goe-the intuisce infatti di essere della stessa natura della foglia: che sia un “Uno che si sdoppia” o un “Uno formato da diversi esseri”, rimane il fatto che esiste ——————————

74 Ibidem. 75 Cfr. P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, cit., p. 9 e pp. 19-26. 76 J.W. Goethe, Tre poesie, in “Il Verri”, cit., pp. 8-10. 77 Ivi, p. 8. 78 Ibidem. 79 Ibidem; cfr. anche A. Pinotti, op. cit., p. 177.

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una sola totalità, come sintesi di differenze in cui ciascuna rimanda all’altra. Viene inoltre richiamato il tema della duplicità, di quello sdoppiamento

che caratterizza angeli e melanconici in cui vi è lotta e contrasto tra sentimenti di onnipotenza e di assoluta impotenza. La consapevolezza raggiunta di essere una parte del tutto e quindi totalità essa stessa, come sua manifestazione es-senziale e sostanziale, li eleva verso gradi superiori dell’essere; sono infatti ca-paci di cogliere il “nucleo possibile (e possibilizzante) che sfugge alla quotidia-nità dello sguardo” 80, ma non al loro sguardo che possiede “energia estetica, precategoriale e fungente” 81. Nello stesso tempo però permane la consapevo-lezza di essere un minuscolo corpo mortale da cui non riescono a distaccarsi, causa questa dei deliri melanconici e della perenne tensione dell’angelo. Una tale debolezza non permette loro di raggiungere la perfezione e li mantiene nel regno tragicomico dell’intermedio, ma ciò non toglie il fatto che siano comun-que creature eccellenti, come testimonia significativamente la riflessione rina-scimentale di Marsilio Ficino per cui la melanconia “conferisce facoltà di gran lunga superiori a quelle degli altri comuni mortali” 82; è infatti una condizione spirituale elevata in cui si dà eccesso di pensiero 83 e che consente di vedere le contraddizioni della vita 84, per poi sapersi distaccare da esse, da ciò che è me-ramente terreno e mortale, raggiungendo il mondo spirituale e la purezza; “ap-pare come una prerogativa quasi esclusiva del poeta, dell’artista, del grande principe e soprattutto del vero filosofo” 85.

Ancora una volta le figure in esame si incontrano con gli uomini di ge-nio, quindi sempre sul piano della superiorità gnoseologica, della creatività e dell’intuizione, caratteristiche che nello stesso tempo le avvicinano anche a Dio; e come gli uomini di genio, “melanconici per natura” 86, sanno “cogliere e afferrare concettualmente la realtà tutta e infine l’essere stesso” 87, sol-levando i veli di cui è stato rivestito dal dire e dal pensare quotidiani. Una dif- ——————————

80 E. Franzini, Arte e mondi possibili. Estetica e interpretazione da Leibniz a Klee, Guerini, Milano 1999, p. 208.

81 Ivi, p. 223. 82 L. Babb, Malinconia e scienza dal Medioevo al Rinascimento, in A. Brilli (a c. di), op. cit.,

pp. 53-98, qui, p. 84. 83 Cfr. K. Perlow, The image of melancholy and the evolution of baroque idiom, 1995-1997 in

<http://vdgsa.org / hermes / image1.html>. 84 Cfr. J. Starobinski, op. cit., p. 101. 85 L. Babb, op. cit., in A. Brilli (a c. di), op. cit., p. 56; cfr. anche C. Angelino e E. Sal-

vaneschi, “Note dei curatori”, in Aristotele, op. cit., p. 42. 86 Cfr. C. Angelino e E. Salvaneschi, “Note dei curatori”, in Aristotele, op. cit., p. 44,

nota 2: ivi si accenna alla teoria di W. Szilasi. 87 Ibidem.

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ferenza però li separa: melanconici e angeli “colgono la realtà tutta e l’essere stesso” non concettualmente, ma intuitivamente, per questo i filosofi cono-scono l’essere, mentre melanconici e angeli lo intuiscono soltanto, senza riu-scire a possedere fino in fondo la verità percepita.

Da un lato il sentimento di sé li eleva facendoli sentire potenti e superiori per il solo fatto di essere in grado di “cogliere e afferrare l’essere”; dall’altro la-to ne segue però un senso di impotenza, perché in questa verità è implicito il fatto che non possono superare ulteriormente la loro condizione eccezionale per accedere alla dimensione della totale perfezione: a essi non è dato superare il confine dell’intermondo, non è dato elevarsi fino a Dio. La loro conoscenza, che procede come wahrnehmende Vernunft, ovvero come “ragione percipiente”, e non come “ragione-logos”, “coglie essenzialmente attraverso la percezione il proprio oggetto” 88, e forse la mente di queste creature non potrebbe procede-re in modo differente, poiché “nel grado più alto un segreto domina l’ambiguità – e la luce dell’intelletto si spegne miseramente” 89. Si avvicinano a livelli elevati, ma a quel punto l’intelletto non può più agire e può solo lasciare spazio all’immaginazione, all’intuizione. Rimangono dunque costrette nel mondo del come-se, nell’intramondo della consapevolezza e della disperazio-ne, come esseri simbolici che sono solo capaci di alludere ad altro, ma non so-no in grado di diventare questo altro o di abitarlo. Questa duplicità, questo contrasto tra sentimenti opposti, è osservata anche dalle Osservazioni sul senti-mento del bello e del sublime 90 in cui Kant sostiene che l’inclinazione alla melan-conia [Schwermut] è dovuta all’atteggiamento morale dell’uomo dedito all’“ap-prezzamento costante per ciò che gli appare elevato” 91 e che nello stesso tem-po si sente impari rispetto a un tale penoso dovere. In questa interpretazione estetica ed etica 92, il melanconico risulta un essere “sublime”, il vero virtuoso, colui che ha una grande consapevolezza morale, che possiede il vero ideale di libertà ed è contemporaneamente accompagnato da tristezza, dolore, sog-gezione, timore. È questa la diretta conseguenza della rivelazione che egli ha avuto: la verità che si apre ai suoi occhi, in virtù della superiorità che lo carat-terizza, gli ha manifestato la propria e altrui indegnità.

Ecco allora che l’altra faccia dell’eccellenza sul piano gnoseologico è l’es- ——————————

88 Cfr. F. Moiso, “Paul Klee e l’eredità goethiana”, in C. Fontana (a c. di), op. cit., p. 63.

89 P. Klee, “Aforisma”, ivi, p. 59. 90 Cfr. I. Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, tr. it. di L. Novati, Fab-

bri, Milano 1998, p. 32. 91 Ivi, pp. 31-33. 92 Cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, op. cit., pp. 114-115.

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sere costretti a vivere nel luogo dell’instabilità, dell’esistenza effimera cosciente della caducità di ogni cosa, delle rovine del mondo, di un tempo che “spro-fonda nel nulla, precipita, si dissolve” 93, dello “svuotamento del mondo” 94 e del soggetto 95 . Scoprire che nell’invariante si danno tutte le varianti e nelle va-rianti il tipo, e che esiste un fenomeno originario, fuori da ogni tempo e da ogni spazio, non rende dunque immuni dall’essere comunque frammenti, mor-tali e vacillanti. La superiorità conoscitiva non salva infatti le figure in esame dalla paura, dal quotidiano, dall’effimero: sapersi uno col tutto non può co-munque trasformare l’essere corporeo mortale in qualcosa di forte, perfetto, immutabile, permanente. Solo elevando la propria coscienza individuale a co-scienza universale si può guardare a se stessi come perfetti, ma l’essere creatu-re anche fisiche attrae e trattiene inevitabilmente a terra, costringe a vivere spazio-temporalmente determinati. L’unica salvezza è forse data dal vivere nel-l’“Aperto”, il luogo cantato da Rilke nelle Elegie Duinesi come “area mitica in cui si collocano angeli e morti […], lo spazio interiore psicologico del poeta (o dell’uomo in generale?), della sensibilità rilkianamente libera da determinazioni (corrispondenze, analogie) realistiche con il mondo esterno e simbolisticamen-te disponibile a tutte le libere manipolazioni dei dati esperienziali operate dalla fantasia” 96; nell’Aperto si dà l’“indistinzione tra soggetto e ambiente, […] su-peramento del principium individuationis […], indifferente (nichilistica) sereni-tà” 97; è il luogo interiore 98, sottratto al “tempo degli orologi” e alla sua rovina, che si traduce in creazione e fruizione estetica; luogo in cui la percezione non è assuefatta dall’abitudine e può così condurre nell’invisibile 99.

DOVE MELANCONIE E ANGELI PRENDONO STRADE DIVERSE

Verso questo mondo, o comunque verso dimensioni altre, l’angelo di Klee co-stantemente tende, a differenza della melanconia, che si ferma su fredde rocce, tra le rovine del mondo e della propria anima a piangere la sua mortalità. Que- ——————————

93 F. Desideri, Walter Benjamin, il tempo e le forme, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 165. 94 Ivi, p. 166. 95 Cfr. ivi, pp. 278-281. 96 A. Destro, “Note”, in R.M. Rilke, Elegie Duinesi, tr. it. di E. e I. De Portu, Einaudi,

Torino 2002, p. 94. 97 Ivi, p. 96. 98 Cfr. ivi, pp. 92-93. 99 Cfr. ivi, p. 93.

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sto differente atteggiamento dipende dal fatto che la conoscenza intuitiva che caratterizza tali creature apre ai loro sguardi, come si è detto, una duplice veri-tà: da un lato mostra la realtà corporea e terrena come mortale, effimera, dal-l’altro lato rivela l’identità di ogni più piccola parte con l’universo. Davanti a questa scoperta antitetica, la melanconia tende a riconoscersi come coccio spezzato, in un mondo interiore crollato, e quindi si arrende, si ferma; non si serve della propria superiorità conoscitiva per sentirsi parte essenziale della to-talità, ma si abbandona alla disperazione di un pensiero creativo che sa elevarla solo a livello spirituale, ma che non sa fare del suo debole corpo un’entità for-te ed eterna. L’angelo di Klee invece non si rassegna mai, considera il suo es-sere frammentario e incompiuto la condizione di possibilità di una tensione verso la forma, di un cammino verso l’acquisizione di un senso, di un “costan-te tentativo di rappresentare ciò che non può essere rappresentato, l’assenza, il vuoto della fine e del distacco” 100. È infatti un angelo mancante, la cui catego-ria esistenziale è la privazione, la negazione: non è bello, non è completo, non è riuscito, non è arrivato, è sempre in cammino; eppure questo non è motivo di disperazione, eppure “sgraziata e perduta, l’anima non abbandona la sua a-spirazione verso l’alto, che si attua nella ricerca del vero angelo, nella speranza della sua meditazione” 101. L’imperfezione è per l’angelo motivo e possibilità di crescita, miglioramento, perfettibilità, e non ragione per fermarsi, arrendersi, piegarsi al destino; il “brutto” 102 indica l’accettazione delle proprie alterazioni fisiche, è l’attitudine alla trasformazione, al passaggio dalla vita alla morte; e gli angeli sono infatti creature di passaggio: non rappresentano una completa e ideale essenza trascendente, ma sono “nella fase di processo per diventarlo, sulla strada dell’angelicità” 103; sono dunque di passaggio nel senso che sono ponti che rendono possibile un trasferimento, logico e ontologico, tra due di-mensioni differenti, tra un al di qua ed un aldilà verso cui costantemente ten-dono. La melanconia invece permette solo al suo spirito e al suo sguardo di di-rigersi oltre, mentre il suo corpo la lascia, crollando nella malattia e nella totale impotenza e inattività.

Creature intermedie, superiori nello spirito e nella conoscenza, impotenti sul piano fisico, angelicità kleeiana e melanconia sono dunque discordanti sot-to alcuni aspetti che possono essere rivelati tramite una riflessione concentrata ——————————

100 E. Franzini, op. cit., p. 223. 101 I. Riedel, op. cit., p. 18. 102 M. Luprecht, Of angels, things, and death: Paul Klee’s last painting in context, Lang, New

York 1999, p. 85. 103 Ivi, p. 87.

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semplicemente sul loro nome, e quindi sul significato che in esso si cela. La melanconia nasce come bile nera e sarà sempre legata a un quadro sintomato-logico caratterizzato, in linea molto generale, da depressione, solitudine, ina-zione, paura. E sono proprio questi i tratti che l’allontanano dall’angelo di Klee. Per quanto esso sia lontano da quello tradizionale, esso è comunque an-gelo e al suo nome appartiene l’essere una creatura che, almeno potenzialmen-te, dista d’un sol passo dal Paradiso. In nomen omen, pensavano gli antichi: e se nel nome dell’angelo è contenuto un destino di speranza, in quello della me-lanconia vi è un Fato piuttosto avverso, in quanto eternamente legato a un umore fisiologico, a una malattia. L’una è intrappolata nell’imperfezione fisica, l’altro, per quanto Klee costantemente lo connoti umanamente, è in potenza maggiormente libero da limitazioni corporee, e quindi dall’essere effimero e mortale. Seguono da ciò la sostanziale immobilità della prima e l’atteggiamento attivo del secondo: la prima è incapace di servirsi della propria superiorità spi-rituale per forzare se stessa e gli eventi, il secondo continua la ricerca della per-fezione; la prima degenera nell’inazione causata dal dolore dovuto al suo es-sere impotente e per l’aver mirato a obiettivi troppo alti; il secondo fa della sua incompletezza la condizione di partenza per raggiungere il Paradiso.

La staticità della melanconia è ricavabile da qualsiasi descrizione psicopa-tologica o raffigurazione a essa riferita: il suo corpo, i suoi arti sono sempre immobili, solo la sua mente è in movimento, solo il suo pensiero è attivo; que-sta è la conseguenza del suo essersi riconosciuta impotente in un mondo in cui tutto, cose e significati, vacillano, in cui tutto è vanità e precarietà. L’angelo di Klee parte invece dalla propria imperfezione e da quella del mondo per incam-minarsi verso l’autenticità; la sua consapevolezza si avvicina maggiormente dunque all’intuizione creativa goethiana in cui è dato riconoscersi come uno con il tutto, in cui si scopre che anche la parte di mondo più piccola e sempli-ce è in realtà un nucleo di infiniti sensi e possibilità. La melanconia si isola e volta le spalle al mondo, ma in realtà ne rimane intrappolata, poiché costretta dalle sue regole, dalle sue leggi; per quanto tenti di crearsi una propria dimen-sione parallela, resta a vivere la sua follia su questa terra, effimera e mortale. L’angelo invece volta sì le spalle al mondo, ma per superarne il principium indi-viduationis, per superare la propria imperfezione. È per questo che la sua natura incarna fedelmente la poetica di Klee che scopre il divenire superiore all’es-sere: esso non è ancora un angelo vero e proprio e non lo sarà mai, ma ciò non lo distoglie dalla continua tensione a perseguire la ricerca dell’autenticità; non si ferma come la malinconia in qualche terra desolata, ma prosegue la sua eterna peregrinazione, quasi a non voler tradire totalmente la propria essenza di angelo, il suo essere garante almeno della possibilità, se non della effet-

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tualità, di passare oltre, lontano, aldilà. In questo cammino comunque qualco-sa riuscirà a raggiungere, come lasciano intendere alcuni angeli quali i “custo-di”, quello del “Vecchio Testamento” e, su tutti, l’“arcangelo”, l’unico ad aver perso sembianze umane per essersi fatto pura linea 104, offrendo la speranza che, forse, la realtà effimera e imperfetta sia superabile. L’angelo è così il sim-bolo della condizione di possibilità: tutto è in un modo, ma potrebbe essere in un altro se solo ci si rende capaci di uno sguardo particolare e lo si usa per in-traprendere un viaggio arduo, per incamminarsi su una strada impervia, ma comunque percorribile. La melanconia, con il suo corpo abbandonato, gli strumenti di lavoro a terra, lo sguardo perduto, diviene invece il simbolo di una superiorità gnoseologica introspettiva e distruttiva, incapace di servirsi di se stessa per elevarsi sul piano ontologico.

Solo il desiderio e la tensione sono le chiavi di risoluzione: solo agognan-do si migliora, solo sperando la perfezione, la si avvicina, in qualche modo.

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104 Vedi fig. in I. Riedel, op. cit., p. 23.

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MATERIALE ICONOGRAFICO

a. MELANCONIE

Malinconia, in C. Ripa-J.Baudoin, Iconologie, ov.explication nouvelle de plusieurs images,

emblemes, et autres figures, s.e., Paris 1643

Christian Friedrich, Melanconia, 1818

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Arnold Böcklin, Melancholia, 1900

b. RITRATTI DI PAUL KLEE

Paul Klee, Autoritratto, 1911

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Felix Klee, Paul Klee, 1925

c. ANGELI DI PAUL KLEE

Approssimarsi a Lucifero, 1939

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289

Crisi di un angelo, 1939

Angelo brutto, 1939

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290

Angelo povero, 1939

In cammino, ancora maleducato, 1940


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