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A Tu per Tu

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Bianca Brotto

Dentro le scarpe

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Prima Edizione: 2014

ISBN 9788898037810© 2014 Edizioni Psiconline - Francavilla al MarePsiconline® Srl66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/ATel. 085 817699 - Fax 085 9432764Sito web: www.edizioni-psiconline.ite-mail: [email protected]

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I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qual-siasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimen-to in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi.

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2014 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psi-conline® Srl)

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La vera causa di una cosaè nel suo scopo.1

1 *Attribuita ad Anassagora.

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INDICE

Primo giornoAdele e SamuelTornare bambiniIl legionarioPonte GaleriaLa zingaraUna visitaRubenLa provaLa confessioneIl burloneSorpresaIl segreto e la furiaL’americanoExitOcchi verdiIl ritornoIl risveglioL’ubriacoLa letteraLa sogliaIl passaggioPrimo giorno

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PRIMO GIORNO

Venerdì 20 ottobre 1950“Se mi avessero detto che un giorno avrei visto un uomo sma-

terializzarsi, li avrei presi per pazzi. Se poi avessero aggiunto che non ci avrei trovato niente di strano, avrei confermato la loro follia. Eppure è successo, davanti ai miei occhi, e forse prima o poi farò la sua stessa fi ne”, pensava Ruben Rinaldi mentre la saracinesca sferragliava arrancando lungo le guide arrugginite.

«Ciao, Ruben, cume l’è che apri ti, stamatina?», strillò la for-naia dall’altro lato della strada.

Il ragazzo fece un cenno, poi ripose l’asta di ferro e tornò fuori a ripulire la vetrina.

«Dove l’è Camillo?», gli gridò ancora la donna. Una Topolino sgangherata, con il fi nestrino giù, fi ancheggiò

il naviglio, sventolando un allegro foulard come a salutare il te-pore di quell’autunno e l’inizio del nuovo giorno pieno di sole e incertezza.

Ruben si chinò a lucidare la fascia bassa del vetro, come il Maestro gli aveva insegnato.

«Ueiii, Ruben, te senti’?».«Ciao, Anita! - disse fi ngendosi occupato a guardare una lo-

candina attaccata sul muro a fi anco del negozio - Alvise ti ha portata a vedere “Cuori senza frontiere?”», indicò il manifesto.

La fornaia continuò imperterrita: «Camillo sta minga ben?».Ruben le fece cenno che non capiva. “E ora cosa le raccon-

to?”, pensò rientrando rapidamente.

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A TU PER TU

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Il tempo di sistemare gli stracci che Anita, oltrepassato il pon-te, era già piombata in negozio.

«Ruben? Ruben?».«Un attimo, arrivo», rispose lui dalla stanza attigua. “Che fac-

cio?”, si chiese prima di raggiungerla.«Scusa, Anita, sono di fretta - le disse sperando di liquidarla -

ho fi nito il mastice e devo correre da Pino. Ci vediamo più tardi».«Gh’ho capio, bel fi ö, ma Camillo?».«È partito, poi ti spiego. Scusa, ma ho da fare», farfugliò lui,

accompagnandola verso l’uscita.«Partito? L’è no ‘ndà via da Milan nanca soto le bombe, sta

chi l’è bela, ma cùsa l’è, aria de stupidera?».«È in vacanza - tagliò corto Ruben spingendola fuori - e adesso

vai, Anita, su. A quest’ora Alvise ti aspetta a friggere. A dopo!».Attaccò il cartello “Torno subito” e corse via lungo il marcia-

piede, lasciando la donna sola a borbottare.Rientrò poco dopo, quando il forno di Anita era preso d’as-

salto dagli studenti del vicino liceo e lei era troppo occupata a servirli. Senza farsi vedere si chiuse dentro.

Qualche minuto più tardi passò Fedela, la tabaccaia dell’ango-lo: si appoggiò con le mani a cupola alla vetrina, provò a girare la maniglia, e andò via.

Mezz’ora dopo suonò il campanello Michele, il sarto mutilato.Ruben, nascosto dietro la scala, si guardò bene dall’aprirgli.

Stava cercando di riordinare le idee. Nel negozio non c’era più traccia di Camillo: gli armadi erano

vuoti così come la cantina in pietra di Moltrasio. “Che pensino quel che vogliono”. Prima o poi la polvere del tempo avrebbe fatto dimenticare la misteriosa scomparsa del Maestro. Alla fi ne non l’avrebbero più rivisto e Ruben avrebbe conservato il segre-to. A qualunque costo.

Alle undici e mezzo, sentì Anita gridare: «Mi capisci no el fi ö, dove l’è andà? G’è nanca el cartel, cribbio! E Camillo? - La fornaia picchiava sulla porta - Ruben? Sont mi, l’Anita».

“Non posso evitarla per sempre - pensò Ruben - Le ho detto

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DENTRO LE SCARPE

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che è partito, ma per dove? E se avesse voluto vedere l’India prima di morire? Potrebbe essere andato lì?”. Gli sembrò una buona idea. Decise che Camillo era in India. «Eccomi». Uscì dal laboratorio.

«Dov’eri? L’è tutta la matina che te cercum!». La fornaia sulla strada gridava così forte che la sua voce sembrava già dentro al negozio.

«Stavo battendo con il martelletto - disse Ruben - accidenti, c’era anche la porta chiusa», aggiunse aprendola, fi ngendo di es-sersene accorto solo in quel momento.

«Alura, fi ö, che te gh’eet stamatina? È tutto chiuso, ti respund minga, Camillo l’g’è no…».

«Mi spiace, ero di là a battere le suole».«Dove l’è Camillo?».«È partito. Sai che voleva viaggiare, no?».«Chi? Voleva viaggiare? Camillo? Se l’è mai andà via da Mi-

lan!», esclamò con occhi sgranati.«Ah, pensavo lo sapessi. A me ne parlava ogni giorno: voleva

vedere l’India e avendo un cugino missionario vicino a Calcut-ta...».

«Ué, fi ö, mi g’èe credi no. Camillo, a setant an, ciapa su i so bretei e va in India sensa dire nient a nisün? Ma no, ma no! Sarò anche ’na spetenfi a, come dis l’Alvise, ma sont minga sturdida».

«Lo conoscevi meglio di me, era un tipo discreto».«“Era”? Perché dici “era”? Ué, fi ö, ‘sta storia me pias no,

adesso te me la cunted giusta».«Perché ti preoccupi tanto? Dai, Alvise ti sta chiamando, è

quasi mezzogiorno».«Cribbio, mesdì, devo andare a friggere le favette, se vedum

- si affrettò verso la porta ma, giunta sulla soglia, si voltò e ag-giunse, in tono minaccioso - non me la conti giusta, ma l’Anita l’è minga sturdida».

E fi nalmente uscì, tozza e cupa.Ruben girò la chiave e andò a rintanarsi nella stanza accanto.

Si sdraiò. Sudava. Mancavano tre ore all’apertura pomeridiana.

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Sentì l’ansia montare.“Anita non mi crede, in effetti, è strano che uno che non si al-

lontana mai dai suoi navigli nemmeno un giorno, all’improvviso a settant’anni se ne vada. Ma in fondo, perché no? L’ha detto a me! Camillo non ha parenti, il negozio è volturato, è da mesi che mi vedono bazzicare qui… Che vuole? Alvise ha buon senso, è brusco ma ragionevole, mi aiuterà a convincerla”.

Bam, bam, udì picchiare. Chi poteva essere ancora? Spiò. Al-vise.

“Che faccio? - si domandò - Ma sì, gli apro”.L’omone in grembiule da cucina irruppe nella bottega. «Cos’è

la storia dell’India?». «Ah, l’India. Non ne aveva parlato nemmeno con te? Era il

suo sogno».« Mena no el turun2! Conosco Camillo da una vita, è malato?».«Malato? Ma no! Ma no!».«Allora dov’è? E non riattaccare con la bala dell’India o ti

spacco la faccia», ringhiò Alvise, puntandogli il pugno alla ma-scella.

«Ehi, càlmati! È partito. Per dove non so bene, ma penso sia andato in India, o almeno parlava spesso di un cugino missio-nar…».

Uno spintone lo sbatté contro il muro e un ghigno paonazzo gli piombò addosso. «Adesso pensi che è andato in India, eh? Già meglio. Ora dimmi dov’è, non dove pensi che è. La verità, e subito!».

«Non lo so, io non lo so, va bene? - Ruben sgusciò dalla stretta - E ora basta! Il negozio è chiuso, ho da fare». Si diresse verso la porta e la aprì.

Alvise lo raggiunse e, fi ssandolo torvo, incalzò: «All’Anita hai detto “era”. Perché “era”?».

«È un modo di dire, non preoccuparti: è in viaggio», concluse Ruben sfi nito.

La brusca manata dell’omone lo spostò, lasciandogli la spalla 2 Non sparlare a vanvera

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infarinata. Poi Alvise si allontanò rabbioso. La scia di fritto restò pesante nell’aria e Ruben la immaginò

assumere le sembianze di Camillo. “Non posso perdere la calma! - pensò prendendo fi ato e respirando a fondo - Energia, tutto è solo energia, energia che si trasforma, si materializza e smateria-lizza, proprio come stanotte - stemperò una lacrima sulla guancia - questa incredibile, assurda ultima notte di Camillo. Ma un gior-no sarà tutto chiaro, sono solo all’inizio. Solo, in questo fl uttuare. All’inizio della mia missione”.

Scrollò il capo e stette lì a contemplare il naviglio vuoto.

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ADELE E SAMUEL

Martedì 13 aprile 1954Quattro anni dopo Ruben era nel negozio intento a servire due

clienti. Dalla strada, con le mani sporche di cioccolato incollate alla vetrina, tre bambini osservavano la misteriosa bottega. I due più grandi cicalavano allegri, il piccolo dormiva in braccio alla madre.

«Il nonno dice che questo negozio c’è da sempre», spiegava la più grande al fratellino.

«Da sempre come mamma e papà?».«Ma no, Alessandro, prima di loro e anche prima del nonno,

prima prima».«Prima di Babbo Natale?».«Lo vedi il sole?».Alessandro alzò gli occhi al cielo.«Il nonno dice che il negozio è vecchio come il sole».«Perché?».«Non so. Il nonno dice che il proprietario parla tutte le lingue

e che anche lui è vecchio come il sole».«Come fa?».«Non ho capito, il nonno dice cose strane».Scrutavano la vetrina che esponeva solo forme di legno. Sulla

cornice bordeaux c’erano le varie traduzioni della parola “scar-pa”: soulier, chaussure, Schuh, shoe, schoen, zapato, ayaqqap, παπούτσι, Këpucë, sapatos, calçat, kenkä, but. Nella parte cen-trale, chiazzata d’antico, si leggeva in bella calligrafi a:

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A TU PER TU

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Scopri la vitaCon le sue leggiAccetta la tua storiaRicorda che la puoi modifi carePer aprirtiAll’amore

«Hai visto i capelli di quella signora?», chiese la bimba indi-cando la donna all’interno del negozio.

«Zucchero fi lato rosso», rispose Alessandro.«Alla fragola, come le scarpe che ha in mano».«E il ragazzo? Hai visto il bastone?».«E lo specchio? Com’è grande! È una casetta con i piedi».«E il signore riccioluto? Guarda, Clarissa! Lo fi ssa uguale

uguale al pesce del mio libro», concluse il bimbetto biondo igna-ro di quanto stesse succedendo nella bottega.

Alta, formosa al punto giusto, il viso cosparso di lentiggini incorniciato da uno scomposto cespuglio di rovi fi ammeggianti, la donna strizzata in un tubino nero stava provando un décolleté tacco otto, rosso.

L’adolescente accanto a lei puntava con sguardo vitreo il suo-lo, picchiando a ritmo cadenzato la punta del bastone da monta-gna sul pavimento di pietra levigato dal tempo.

«Mami, Mami, pass auf, pass auf, es ist gefährlich hier, gehen wir, gehen wir!»3, esclamò il ragazzo.

«Stai tranquillo, Samuel, siamo al sicuro, non devi preoccu-parti quando ci sono io», lo rassicurò lei in tedesco.

«Sì, io con mami sempre tranquillo, sempre tranquillo».Ruben non sembrava notare l’inconsueto comportamento dei

due. Seduto sulla seggiola da regista posta all’altro lato dello specchio, ne osservava la superfi cie e, mentre la cliente si alzava per ammirare le scarpe, vide comparire un’immagine: dapprima furono solo lampi, poi una spirale, infi ne una sagoma sfuocata 3 «Mamma, mamma, attenta, attenta, è pericoloso qui, andiamo, andiamo».

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che si fece via via più nitida, fi no a rivelare una scolaretta con lentiggini e treccine rosse. Veloci presero a susseguirsi i fl ash nello specchio e Ruben si concentrò a contemplare le scene.

La bambina con le treccine indossa un grembiule nero, ha gli occhi sbarrati e porge le mani tese alla bacchetta del-la maestra. Pesanti lacrime rigano il suo volto al suono sor-do della verga che infi erisce implacabile. Nessun lamento. Silenzio opprimente della piccola e delle compagne in di-visa immobili dietro i banconi di legno.

Si sente suonare la campanella, le altre alunne si alzano e, ordinate, abbandonano l’aula. La piccola resta sola. È seduta, osserva il vuoto, le dita sono salate di dolore.

Digiuno e silenzio fi no al calar del buio.Al crepuscolo compare un sacerdote vestito di nero che

solleva il mento della scolaretta obbligandola a guardarlo; il collo grassoccio deborda dal colletto rigido immacolato. L’uomo le fa un cenno con il capo, lei lo segue a testa bassa fi ssando il pavimento di mattonelle esagonali rosse e nere, lungo il corridoio tetro, a tratti rischiarato dalla luce dei lampioni che fi ltra alta dalle fi nestre, tutte uguali. I loro passi sono l’unico rumore. Oltrepassano il refettorio, lei si ferma, l’uomo si volta e con la testa indica di procedere. La bambina tenta uno scatto per aprire la porta della men-sa, sente le voci delle compagne e il solito odore di mine-stra annacquata, ma lui la spinge davanti a sé imprecando: «Dannazione, Adele!». Escono. Attraversano il cortile e raggiungono un’abitazione dai muri scrostati. Disperata la piccola agogna una via di fuga, ed eccola scartare veloce nel vicino cespuglio. L’uomo la afferra al volo: non c’è scampo e nessuno a difenderla.

All’ingresso, la scritta “Orfanelle di San Giuseppe” sul portone di ferro a borchie simmetriche si fa sempre più sfuocata fi no a chiudersi in un punto e svanire.

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Ruben inspirò a fondo, cercando di sciogliere il peso che sen-tiva sul petto; le violenze lo facevano star male. Il suo predeces-sore gli aveva insegnato che nel corso della vita tutto ha un senso, ma un conto era capirlo, un altro accettarlo. Non ne aveva ancora la forza necessaria. Un giorno, come Camillo, anche lui sarebbe riuscito a penetrare il gioco dell’esistenza senza più prenderlo tanto sul serio. In quel momento era lui il nuovo Maestro e si fi dava degli eventi che, passo dopo passo, gli avrebbero svelato il mistero perfetto che orchestra la grande regia dell’esistenza.

Alzò lo sguardo sulla donna ancora in piedi a provare le scarpe. Le treccine dell’infanzia avevano lasciato il posto a una chioma voluminosa che conservava il colore originario, fatta eccezione per qualche rifl esso bianco disperso nel groviglio color rubino.

Il ragazzo puntava incantato una zona indefi nita del tappeto, stringendo forte il bastone.

Un’altra scena andava componendosi: Ruben tornò a concen-trarsi sullo specchio.

Un caschetto color rubino su un bimbo lentigginoso e una giovane donna, identica nei colori al fi glio: siedono a un tavolo cosparso di fogli all’angolo di un balcone di legno inondato di sole.

«Facciamo un bel pollo? Eccolo qui», dice la madre, disegnando a matita sul quaderno.

«C’è dentro anche il ripieno?».«Certo», sorride lei accarezzando la brillante chioma

ramata del bimbo, mentre lui rumoreggia con una macchi-nina di latta rossa, giocando a slalom fra i fogli.

«Adesso guarda qui: immagina di dividere il pollo in quattro con un grande coltello».

«Brum, brum, brum», continua imperterrito lui, conce-dendo al pezzo di carta solo uno sguardo sbieco.

«Ecco fatto, guarda!».«Brum, brum, mooo».«Samuel, insomma, basta con quella cosa!».

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«Brum, brum, iiii».«Samuel, se non smetti ti taglio le dita!».Il bimbo ammutolisce all’istante, cereo in viso.«Ecco, così va bene. - dice la madre scostandosi una

ciocca di capelli e sforzandosi di apparire calma - Adesso il pollo è diviso in quattro parti; si chiamano quarti. Un quar-to è questo - indica con la matita - due quarti questi due e, se aggiungo quest’altro, quanti saranno?».

Samuel, le mani sui calzoncini alla zuava, tace.«E allora?».Ancora niente.«Basta!». La donna batte furiosa il pugno sul tavolo, la

macchinina sobbalza, lei l’acciuffa e la scaglia a terra.Samuel sussulta, sempre più pallido.«In Samuel Jean Antoine! Tu adesso rispondi a mamma

Adele perché questo è un ordine e tu sai cosa signifi ca un ordine, vero?». Il tono è monocorde, gli occhi sbarrati.

«Tre quarti». La voce appena un bisbiglio.«Perfetto, bravissimo! - la madre gli sfi ora il braccio - E

se aggiungiamo questo qui, l’ultimo?».Un fi lo di fi ato esce dalle labbra immobili: «Quattro

quarti».«Bravo il mio tesoro. Hai obbedito e come premio ti

meriti un po’ di ciambella. Ecco, tieni». Adele porge al pic-colo un frammento, imboccandolo mentre si scosta i capel-li con un colpo secco del capo.

La macchinina rossa, guerriero ferito, langue capovolta sul pavimento.

Sul balcone accanto, la vicina, celata dal separé di le-gno, ha assistito alla scena. Si accosta alla balaustra al-zando il viso verso le alte vette, permette allo sguardo una vasta panoramica sulle Dolomiti prima di lasciarlo posare sulla terrazza.

«Buongiorno», dice sorridendo.«Ah, buongiorno! - risponde sorpresa la madre del bim-

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bo - Non sapevo ci stesse qualcuno - poi scuotendo il brac-cio al fi glio - Samuel, saluta».

Lui fa un cenno del capo, restando chino sul quader-no.

«Mamma! - urlano in quel mentre due ragazzine dalla collinetta di fronte alla casa - Ci sono i mirtilli! Buonissi-mi!».

«Vieni che ti do una ciotola, Beatrice».La minore corre e prende al volo il contenitore lanciato

dalla madre.«Sono tantissimi!». Le guance arrossate esplodono

d’entusiasmo mentre si pulisce le manine violacee nella camicetta di fl anella.

«Samuel, vuoi andare anche tu?» chiede Adele al fi glio-letto.

Lui fi ssa il tavolo e non risponde. «Aspetta, bambina: viene anche lui».Beatrice scruta interrogativa sua madre.«È il fi glio della nostra vicina, ne raccoglierete ancor di

più».«Samuel, vai e non farteli fregare», ordina Adele.A testa bassa, il caschetto rosso si alza, e, poco dopo, si

allontana a fi anco di Beatrice. «Che magnifi ci capelli», osserva la madre di Beatri-

ce. «Pel di carota come me», ribatte secca la donna non di-

stogliendo gli occhi dal fi glio.«Mi chiamo Anna, piacere», dice la vicina porgendo la

mano.«Adele», risponde asciutta la madre di Samuel senza ri-

cambiare il gesto e mantenendo lo sguardo teso in avanti a controllare il fi glio.

Il cespuglio in fondo alla piana freme in un animato chiacchiericcio, sui balconi incombe il silenzio.

«Si stava molto bene senza vicini. Lei quanti fi gli ha?»,

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chiede Adele.«Cinque».«Cinque fi gli? O Dio santo, e come ci state tutti in quel

buco?».«Si fa di necessità virtù… E poi i primi due non sono

qui».«Meno male! Quanti anni hanno questi?».«Beatrice otto, Silvia nove, Guido dieci. E il suo?».«In Samuel Jean Antoine ha sette anni e otto mesi».«Un nome... originale».«Trovo di pessimo gusto scegliere nomi banali».«Posso offrirle una tazza di orzo?», chiede Anna.«Oh, guardi, noi beviamo solo tazzoni di orzo».«Allora sarà un tazzone. Scaldo l’acqua e le apro: pos-

siamo berlo qui da me, sul balcone».«Va bene, ma può passarmelo da qui».«Oh, certo, se preferisce - risponde Anna esitante - vado

a prepararlo».

L’immagine dello specchio svanì e ne apparve un’altra; Ru-ben si concentrò, per non perdere nemmeno un fotogramma di quel fi lm che si andava costruendo e che gli avrebbe forse per-messo di modifi care il corso degli eventi.

Adele esce dall’appartamento e, stupefatta, trova un cartone sullo zerbino; all’interno alcuni libri. Li sfoglia, corrugando la fronte, poi batte imperiosa le nocche sull’u-scio della vicina.

«Buongiorno». Anna spalanca la porta.«Che diavolo signifi ca questo? Per chi mi ha presa,

eh?», strepita Adele sferrando un calcio allo scatolone.«Oh, questi? Sono solo libri che usavo quando facevo

la maestra, pensavo che potessero esserle utili, ora che è diffi cile trovarne. Tutto qui».

«Tutto qui un corno! - Adele allontana con rabbia i ca-

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pelli dal viso - Mi pensa un’ignorante? Ho affrontato due guerre e posso benissimo insegnare a Samuel anche senza questa roba! Cosa vuole da me? Non passo il mio tempo a fare fi gli, io, ma a istruirli!».

«Non volevo offenderla, li avevo in casa - mente Anna - ho sentito che faceva lezione al bambino ed essendo delle elementari pensavo...».

«Elementari? Ma lei proprio non capisce. Io, a mio fi -glio, voglio dare un’istruzione universitaria, altro che ele-mentari!», grida Adele e, dando ancora una pedata al carto-ne, rientra nell’appartamento sbattendo la porta.

Sul cassettone langue una lettera, la apre squarciando la busta e la scorre tutta d’un fi ato. Si gira repentina verso l’orologio a cucù e sbarra gli occhi.

«Avvoltoi, carogne, sciacalli, sempre la stessa storia! - urla - Gliela farò vedere io con i loro programmi Fran-co Lombardi, i loro esami e la loro scuola dell’obbligo. Bastardi!- schiaffeggia la stufa con la lettera - non hanno capito con chi hanno a che fare, ma se ne accorgeranno! - si batte il pugno sulla mano, poi si volta - Samuel? Samuel? Dove ti sei cacciato? Vieni subito, è un ordine».

Rannicchiato dietro il divano, le ginocchia strette al pet-to, Samuel tiene le mani schiacciate sulle orecchie.

«Che fai lì? Àlzati!».Il bambino scatta.«Ascoltami! Fra poco arriverà la solita rompiballe, tu

sai cosa dire, vero?».«Io da grande non fumerò, non berrò, non...».«No! Quello lo ripeti solo quanto te lo dico io, capito?

A lei devi dire che stai bene, che fai i compiti, che hai dei nuovi amici e, se ti chiede come si chiamano, dici solo il nome e mai il cognome, capito? Mai dire il cognome delle persone che ti conoscono. Di’ che non lo sai - lo istruisce mordendosi i polpastrelli - E ricorda: ogni cosa viene usa-ta contro di noi, sono tutti carogne, ma tu non devi aver

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paura, perché la tua mamma ti difende e nessuno ti farà male. Siamo sopravvissuti alla guerra, io e te, ci vuole ben altro!».

«E se mi chiede di papà?».«Non te lo chiederà».«E se me lo chiede? Cosa le dico?».«Che non sai niente, che non ti ho detto niente e che tu

non hai bisogno di saperlo perché sei felice con me perché sono una mamma bravissima - sibila lei con voce stridula senza prendere fi ato - Ah - continua - se vuole sapere dove dormi, dille che dormi di qua! - dice indicando il vecchio divano sfondato - Anzi, ci butto su subito una coperta».

«L’altra volta le ho detto che dormivo con te».«Bastarda, lo vedi quanto è bastarda? Se ne approfi tta

perché sei piccolo, ma tu, noi, siamo troppo intelligenti e non ci fregano. Non ci frega nessuno, vero, Samuel? Sai cosa le dici? Le dici che ti sei trasferito di qua e che...». Adele si interrompe all’udire due colpi secchi alla porta.

L’immagine si chiuse per pochi secondi e Ruben lanciò uno sguardo furtivo agli ospiti del negozio: non si erano mossi.

Se lo era sentito raccontare spesso da Camillo, ma non si era ancora abituato al differente trascorrere del tempo nello specchio rispetto alla realtà: potevano essere a volte visioni fulminee, altre brani di fi lm. Comunque fosse, accadevano in un lampo. Sapeva che la scienza di certo non avrebbe saputo fornire una spiegazio-ne a un fenomeno del genere. Pensava che se la vita gli aveva donato la possibilità di vedere attraverso quella superfi cie, forse gli avrebbe anche permesso, in futuro, di penetrare il mistero di quel prodigio.

Appare un cartello di legno con la scritta “Angeln verboten”4accanto a un laghetto circondato da boschi; poco

4 “Vietato pescare”.

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distante un secondo pannello recita “Naturschutzgebiet”5.Un ragazzetto sta pescando, solo. Indossa pantaloni di

velluto a coste e una camicia a quadri. Siede sull’erba, im-mobile, baffetti radi, capelli rossi a scodella, grandi occhi verdi tagliati all’insù.

«In Samuel Jean Antoine, vieni è pronto!». Una voce femminile esce dal bosco.

Veloce il ragazzino ritira l’amo, raduna le poche cose e, correndo, sparisce fra i cespugli.

Raggiunto uno chalet nascosto fra gli alberi, apre di slancio la porta.

«Benissimo, meno di un minuto. Ora làvati le mani, il pesce è pronto e anche la polenta», dice la madre.

La donna indossa una camicetta trasparente che lascia intravedere un reggiseno di pizzo nero.

Samuel esegue veloce e si siede al tavolo apparecchia-to.

Adele si accomoda di fronte a lui: «Forza, dillo».«Io da grande non fumerò, non berrò, non dirò parolac-

ce, non bestemmierò, non sarò disubbidiente, non sposerò mai una ragazza che non piace alla mia mamma, non farò mai un lavoro lontano dalla mia mamma, non darò mai un dispiacere alla mia mamma, non chiederò mai di dormire senza la mia mamma, non mi arrabbierò mai con la mia mamma».

«Hai dimenticato quella che abbiamo aggiunto».«Non parlerò con nessuno dei giochi che faccio con la

mia mamma».«Perfetto, mio tesoro». La donna lo fi ssa e gli accarezza

il viso con l’indice: parte dal centro della fronte, sfi ora il naso, scende e lascia il dito indugiare sulla bocca. Si insi-nua lieve tra le labbra, il ragazzo le dischiude, il dito umido entra appena nella bocca a percorrerla tutt’intorno, senza fretta. Attende che la lingua faccia capolino, vi disegna pic-

5 “Ambiente naturale protetto”.

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coli cerchi sulla punta. Samuel deglutisce. Il piede nudo di Adele raggiunge la cerniera dei pantaloni del giovane e vi preme contro. Intanto il dito scende sul mento per fermarsi alla base del collo. «Proprio bravo, Samuel. Continuiamo più tardi, adesso puoi mangiare. - Lei non allenta la pres-sione del piede - Sono spuntati i radicchi, ne avremo per tutta l’estate. Ecco, prendi una fetta di pane di segale, sono diventata un’esperta fornaia, assaggia!». Ne offre un pezzo a Samuel, imboccandolo. Lo sguardo di Adele indugia sulle labbra, mentre lei morde le proprie, inghiottendo saliva.

«Mi scusi? Mi sente? Signore?».La voce della donna fu un cuneo affi lato che perforò l’orec-

chio di Ruben, strappandolo dallo specchio e risucchiandolo nel negozio.

Il Maestro fu turbato dall’udire la stessa voce della visione, stavolta in italiano, e impiegò qualche secondo per riordinare i pezzi del puzzle.

I dialoghi fra madre e fi glio questa volta si erano svolti in tedesco, il Maestro li aveva tuttavia uditi come fossero stati in italiano grazie al dono che, fi n da bambino, gli aveva permesso la comprensione di tutti gli idiomi.

«Mi scusi?», ripeté lei, alzando il tono.«Ah sì, mi perdoni, ero sovrappensiero», rispose Ruben. Pre-

so da un senso di vertigine, si portò le mani alle tempie.«Sta bene?».«Sì, sì, tutto a posto, grazie».«Che pelle è?», chiese la donna toccando la punta delle scar-

pe.«Vitello».Ruben aveva un magone che gli bloccava la salivazione, la te-

sta gli doleva. Succedeva sempre quando veniva distolto all’im-provviso dallo specchio, ma cercò di non darlo a vedere. Osservò il ragazzo: aveva forse un paio d’anni in più rispetto alla scena appena vista.

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A lui era sembrato naturale avere genitori che l’avevano la-sciato libero, in quel momento capiva come la normalità sia tale solo quando se ne ignora il contrario; a quel punto diventa un lusso non scontato, e lui in quella ricchezza era cresciuto senza mai vederla come un dono.

Alcuni lampi ed ecco apparire un altro lago.

La piana ammantata di candore è circondata da boschi che si inerpicano sulle montagne circostanti; al centro, lo specchio d’acqua ghiacciato. Sulle sponde, un rifugio chiu-so e l’insegna “Lago Nambino”.

Il paesaggio immacolato e silenzioso infonde pace.Ai piedi di un grande albero ricurvo sotto il peso della

neve si stagliano due fi gure solitarie. Altre due sagome scollinano in quel momento e rag-

giungono la piana; si ode il loro chiacchierare pacato, nel lento incedere che le fa sprofondare a ogni passo.

«Beatrice, guarda quei due laggiù! Sembrano Adele e Samuel».

«Chi sono?», chiede la ragazzina.«Non ricordi? Qui a Campiglio, abbiamo abitato vici-

no a loro per due anni, durante la guerra. Lei era una tipa strana».

«Ma sì! Io con Samuel ci giocavo; la mamma era anche riuscita a farlo battezzare».

Raggiungono i due. Sono proprio loro.«Buongiorno, Adele, ciao, Samuel!» esclama la mag-

giore. «Ciao, ragazze, che sorpresa! Come state?».«Bene, e voi?».«Stiamo bene. Tu, Gianna, sei invecchiata, hai le rughe.

Beatrice è molto più giovane».«Vorrei anche vedere, con undici anni di differenza! -

ribatte secca la ragazza per poi chiedere - State sempre a Campiglio?».

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«Facciamo gite bellissime scalando le Dolomiti; la scor-sa estate c’è stato un temporale e ci siamo rifugiati in un crepaccio a tremila metri, per una notte intera», risponde la donna.

Samuel, gli occhi bassi, scalfi sce con un bastone da montagna il suolo, in un gesto automatico. Sbotta: «Mami, Mami, pass auf, pass auf, sie sind gefährlich, gehen wir, gehen wir».6

«Loro non sono pericolose, e oltretutto ci capiscono. Stai calmo», dice in tedesco mentre lui colpisce imperterri-to, a cadenza regolare, la superfi cie gelata.

«Parla tedesco alla perfezione», commenta Gianna.«Sì, scrive anche poesie».La ragazza si rivolge a Samuel: «Ti piace fare passeg-

giate in montagna?».«Mami, Mami, pass auf, pass auf, sie sind gefährlich,

gehen wir, gehen wir».7

«Stai tranquillo, ti ha chiesto se ti piace la montagna. Rispondi!».

«Sì, Cima Tosa, Presanella…», scandisce lui, per poi infervorarsi in un’animata descrizione delle avventure vis-sute con la madre sulle montagne.

Adele beve ogni sua parola con il sorriso stampato in volto; il ragazzo termina il racconto e torna con lo sguardo al suolo. A quel punto la donna si fa seria e fi ssa le fi glie dell’ex vicina: «Vi ho viste volentieri perché siete voi, ma vostra madre mi ha rovinata! Ci hanno perseguitati, abbia-mo subito lavaggi del cervello e torture psicologiche da parte dei servizi segreti sociali. Siamo scappati in Germa-nia, volevano portarmelo via, e tutto per colpa di quella maledetta!», inveisce gesticolando furiosa.

Gianna e Beatrice ammutoliscono, Samuel continua a percuotere il suolo con la punta metallica del bastone.

6 “Mamma, mamma, attenta, attenta, loro sono pericolose, andiamo, andiamo.”7 “Mamma, mamma, attenta, attenta, loro sono pericolose, andiamo, andiamo.”

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«Dovete dirle che l’inferno esiste, che lei andrà all’in-ferno, e anche vostro padre, ditelo anche a lui!», riprende Adele mentre il giovane trafi gge il ghiaccio ripetendo os-sessivo: «Mami, Mami, pass auf, pass auf».8

Immobili, le ragazze osservano allibite, fi nché il silen-zio non torna a riempire la piana.

«Noi andiamo - conclude infi ne la donna scostandosi una ciocca di capelli rossi - addio». Così dicendo, scura in viso, si incammina lasciandosi precedere dal fi glio.

I due si allontanano nella piana immobile; giunti al limi-tare del lago, Adele si volta e, mentre Samuel è già oltre, lei agita la mano prima di scomparire.

La scena rifl essa nello specchio si chiuse. Quell’episodio po-teva risalire all’inverno appena trascorso.

Si sentiva inquieto, avrebbe voluto alzarsi, ma fu richiamato da un forte bagliore che comparve come un lampo a tutto campo.

Milano. Adele indossa un tubino nero e i fi amman-ti décolleté rossi appena acquistati al negozio di Ruben. Raggiunge con il fi glio l’appartamento al quinto piano del condominio di via Spartaco.

Poco dopo, l’ambulanza sfreccia con le sirene spiegate, nel tentativo di salvare la vita al ragazzo schiantatosi sul marciapiede; la madre, sconvolta, inveisce contro presunti autori di torture psicologiche e farnetica su persecuzioni ad opera dei servizi sociali.

Il Maestro trattenne il respiro.

La bara viene accolta dalla terra.La cucina con il gas aperto. Ai piedi della donna esani-

me, i décolleté, rossi di sangue e follia.

8 “Mamma, mamma, attenta, attenta”.

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L’immagine sfuocò e svanì. Ruben espirò a fondo prima di rivolgersi a Samuel:

«Che bel bastone, è da montagna?».Il ragazzo gettò una rapida occhiata all’uomo, quindi distolse

lo sguardo riportandolo al pavimento.«Posso vederlo?». Ruben gli porse la mano con il palmo

all’insù.«Daglielo! Te lo restituisce», disse la madre.«Certo, voglio solo guardarlo».Il giovane glielo porse di scatto.«È magnifi co, l’hai fatto tu?».«Ti ha chiesto se...».«Sì», rispose Samuel interrompendola. «Guarda, qui c’è una crepa, se vuoi posso sistemarlo con il

mastice mentre la mamma prova le scarpe. Gratis», propose cor-tese Ruben, dondolandosi sulla gamba.

«È gentile da parte sua, grazie», rispose lei spostandosi la ciocca dal viso.

Il Maestro si rivolse a Samuel: «Vieni, ti mostro come fac-cio», disse avviandosi verso il laboratorio nella stanza adiacente.

Adele fece cenno al fi glio di attendere; si alzò e seguì Ruben, ondeggiando sinuosa.

«Mami, Mami, pass auf, pass auf».9

La donna ricomparve dicendo: «Puoi andare, è tutto a po-sto. Non ti preoccupare se non capisci. Il mastice è una colla. Ti aspetto qui. Se hai problemi, mi chiami e arrivo subito».

Il ragazzo fi ssava il suolo, immobile.«Ho detto vai!», impartì secca lei.Samuel seguì il Maestro nel laboratorio; a bocca aperta, pian-

tato vicino alla porta, scrutò ogni dettaglio del locale. Osservava incantato quel mondo a lui nuovo mentre il Maestro si avvicina-va alla morsa.

Il laboratorio era un locale dal soffi tto alto, un rettangolo lun-9 “Mamma, mamma, attenta, attenta.”

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go e stretto, illuminato in fondo da una fi nestra che, come la ve-trina, si affacciava sulla strada; la parete di fronte all’ingresso era tappezzata da scaffalature sulle quali giacevano silenti muc-chi scomposti di forme. Spiavano i movimenti dei maestri che, dall’eternità, si erano succeduti e conservavano intatta la memo-ria delle vite plasmate in quella fucina. A turno venivano riprese, talvolta per onorare lo stesso padrone, altre per essere rimodel-late e offrirsi a nuovi piedi. Nel frattempo stavano ammassate, punte di carpino incrociate a tacchi di faggio in un litigio che, lassù, era pura armonia, ammantata di polvere.

Più in basso, chiodi, ferretti, bobine di fi lo, spago, sughero, barattoli di colla, pennelli, lime, sgorbie, scalpelli, pezzi di legno, rotoli di pellame di diversi colori avvolti da carta fermata con un nastrino da pacco e, a seguire, alcuni fogli accatastati di cuoio, brandelli di bestie al servizio dell’uomo.

Sul lato opposto della stanza, sotto una pelle di anaconda ar-gentina distesa e inchiodata al muro, una macchina da cucire Sin-ger a pedale, alcuni contenitori con aghi e, più avanti, all’altezza del vecchio tavolo da lavoro con la morsa, un pannello traforato, irto di chiodi dai quali pendevano martelli, pinze, tenaglie, bus-setti, lesine, tirasuole, punzoni, trincetti e fustellatrici.

Accanto, una libreria con, in ordine alfabetico, vari faldoni che contenevano misure e disegni.

Schizzi matematici erano appesi al muro; fra loro, sotto una lunga teca, il vecchio libro dei modelli, scritto in greco.

Un pezzo solitario di pelle pendeva da un gancio vicino alla fi nestra; era uno scampolo di capretto del Venezuela, regalato a Ruben dal fratello, sul retro del quale campeggiava in pennarello una frase:

“Se racchiudessi il mio amato mare in uno dei tuoi ca-polavori, ci starebbe tutto, ma quella scarpa diventerebbe la sua tomba e quindi la mia. Gino”.

Ruben, raggiunto il banco da lavoro, vi posò il bastone. «Ecco, vieni, ti faccio vedere; questo è il mastice».

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Il ragazzo si avvicinò: «Mastice, sì».«Pulisco la superfi cie, ne metto poco e fi sso il bastone nella

morsa per qualche minuto…Ecco fatto», spiegò paziente, ben sa-pendo che, nonostante il giovane parlasse ormai solo tedesco, po-teva intenderlo. Ringraziò mentalmente la vita per il dono che gli permetteva di esser compreso e di comprendere tutte le lingue. L’aveva scoperto a cinque anni giocando proprio con due bam-bini tedeschi; lui li capiva come se avessero parlato in italiano e loro capivano lui.

Si grattò la nuca, piegando il capo, e proseguì. «Anche noi siamo un po’ come questo bastone: ogni botta è una prova che abbiamo superato. Le crepe si formano quando succede qualcosa di grave. Per guarirle, serve una morsa come questa, cioè un vero amico, qualcuno che ci indichi la strada e del quale ci possiamo fi dare. Ora ti rivelo un segreto per riconoscere se un amico è autentico: non ti ordinerà mai cosa fare e sarà felice quando re-alizzerai il tuo sogno. Non ti dirà, ad esempio: “Apri la fi nestra e vola nel cielo”, perché saprà di mentire, saprà che non volerai, ma precipiterai, schiantandoti. Se oggi dovessi sentire una frase come questa, vòltati e scappa! Scappa! La morte deve arrivare quando è giunto il suo momento, non quando altri la decidono per noi».

Samuel beveva ogni parola, fi ssandolo incantato.Adele si affacciò alla porta: «Ha fi nito?».«Sì, eccolo, come nuovo». Ruben sorrise, porgendo il bastone

al ragazzo.Tornarono nel negozio, Adele trattenne il fi glio per il braccio

e i due si parlarono in tedesco.«Non hai capito nulla?», affermò la donna.«Ho capito tutto», rispose Samuel.«Com’è possibile? Sapeva il tedesco?».«Non so, io lo capivo».«Ti avrà parlato in modo semplice».Lui abbassò la testa.«Cosa ti ha raccontato?».

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«Niente di importante».«Va bene, ma cosa diceva? Dimmelo!».«Diceva che lavora qui da tanto tempo e che ha imparato a

fare le scarpe. Non so bene… si spiegava a gesti».«E cosa a proposito del volare?».«Ha detto che ogni giorno c’è un uccello che viene qui a man-

giare e vola via, lui gli dà da mangiare e poi l’uccello scappa».«Va bene - annuì Adele - tutto a posto. Stai tranquillo, sei al

sicuro. Con me - Alzò quindi la voce - Hai ringraziato il signore, Samuel? Di’ grazie».

«Grazie, Signore».«L’ho fatto volentieri, una cortesia da amico», rispose Ruben

strizzando l’occhio al ragazzo da sotto i boccoli, mentre la madre frugava nella borsetta.

Samuel nascose il sorriso, chinando il capo in un gesto di ap-parente timidezza.

Il Maestro si rivolse alla donna: «Allora, queste scarpe calza-no bene?».

«Sono perfette».«È sicura del colore?».«Sì».«Lo stesso modello c’è anche nero o tinta cuoio, sempre con-

fezionato a mano».«È rosso che mi serve: vestito nero, scarpe rosse».«Oppure vestito rosso e scarpe nere. Questo non è… un col-

legio», disse d’impulso Ruben pensando alla scena vista nello specchio.

Adele sussultò, chinò il capo, fi ssando il pavimento, deglutì, poi si ricompose.

Ruben prese la scatola vuota e proseguì apparentemente di-stratto: «E non ci sono nemmeno gli uomini neri, come può suc-cedere nei collegi».

La donna, ancora ferma dov’era, alzò lo sguardo a lui, muta.«Siamo a Milano, è primavera, ci sono ancora le macerie, ma

la guerra è fi nita, la vita rinasce, quel che è stato è stato e il pre-

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sente è oggi, oltre le mura che circondano quel cortile, che non esiste più», borbottò Ruben, facendosi udire mentre prendeva le vecchie scarpe ancora davanti allo specchio.

«Ma che diavolo dice? - bisbigliò lei stravolta nella voce - Che diavolo dice?».

Ruben si grattò la nuca, fi ngendo di riordinare uno scaffale: «È tutto passato: la bambina dalle trecce rosse ce l’ha fatta ed è qui, ora».

Poi si spostò verso il ripiano a fi anco e continuò: «Ci sono mo-menti che sembrano di non ritorno, ma a tutto c’è una soluzione, a tutto tranne che alla morte».

«Forse perché la morte è la soluzione», si riebbe Adele mor-dendosi le nocche.

«È una possibile scelta, ma non risolve nulla; ciò che è incom-piuto resta tale e lo si ritrova identico al prossimo giro», ribatté lui, sorridendo benevolo.

Adele abbassò gli occhi e, indossando i décolleté, si diresse alla cassa.

Ruben le indicò sul bancone la boccia di cristallo trasparente con le pergamene arrotolate: «In questa sfera c’è un omaggio della casa: ne prenda uno, la prego».

«Cos’è? I regali sono sempre fregature».«Questa è solo una consuetudine del negozio: per ogni acqui-

sto si pesca un rotolino, tutto qui. È libera di non prenderlo».Adele infi lò distratta la mano nella sfera; dall’esterno appari-

va piena di foglietti ma, una volta dentro, ne avvertì solo uno. Lo mise nella borsetta, pagò, e, mentre usciva, nell’estrarre un faz-zoletto, le cadde a terra. Lo vide ma non si fermò a raccoglierlo. Il fi glio la seguì, in silenzio.

Ruben li accompagnò. Samuel sulla porta si girò. L’uomo strizzò l’occhio, il ragazzo lo imitò fulmineo, poi si voltò di scat-to e si allontanò.

«Gioiosa vita!», lo salutò Ruben, chiedendosi se gli avesse davvero ammiccato o se il suo fosse stato un sogno abitato da un profondo desiderio. No, era successo davvero. Si trattenne

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sorridente sull’uscio, poi stemperò fra le dita il pezzetto di vela di canapa che gli faceva capolino dal taschino della camicia; il pensiero corse alla traversata atlantica con il fratello Gino e alla libertà che aveva caratterizzato la sua vita.

“Samuel non ha avuto nulla di tutto ciò - pensò - chissà come andrà a fi nire, chissà se si salveranno. Mi sa che dovrò rassegnar-mi alla domanda, nell’ultima notte”.

Raccolse il messaggio e lo lesse:

“Ricorda che i pensieri sono cose e, a seconda del movimento delle loro correnti, possono diventare crimini o miracoli” Edgar Cayce

Giunta la sera, Ruben abbassò la saracinesca, assicurandola al gancio di ferro; quel fragore segnava la fi ne della giornata e l’inizio del suo spazio.

Non se la sentiva di lavorare in laboratorio.Abbassò la serranda della bottega e, passando accanto alla

cassa, entrò nel monolocale. Profumava di miele e legno alla luce soffusa e calda delle antiche lanterne, ormai dotate di lampadi-ne elettriche: un letto, un comodino, un armadio, una libreria, un tavolo, due sedie, una piccola cucina a parete, una vecchia stufa economica e, in fondo, una porta che conduceva in bagno e un’altra che si apriva sulla scala che scendeva in cantina. Il pavimento era di pietra, la stessa lisciata dal tempo della bottega.

Ruben si lasciò cadere sul letto, sfi lò le scarpe e incrociò le mani sotto la nuca. Di lì a poco distese le braccia lungo i fi anchi e si rilassò: percepì la tensione sciogliersi e permise ai pensie-ri di attraversare la mente come nuvole, fi nché il cielo non fu sgombro. Seguì il ritmo lento del respiro e presto raggiunse, in profondità, quel luogo tranquillo che ben conosceva.

Quando si alzò era già buio. Affettò una cipolla e sbatté due uova, stese la tovaglia di lino grezzo e apparecchiò con cura la tavola: arrotolò un tovagliolo pulito in un cerchio di rame con

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le iniziali AA, accese una candela, riempì un calice di vino ros-so e tagliò due spesse fette di pagnotta. Poi preparò la frittata, abbrustolì il pane sui cerchi di ferro e assaporò ogni boccone, lentamente.

Dopo aver rassettato la cucina, prese l’acqua bollente dalla stufa, aprì il cassetto delle spezie che il fratello Gino gli portava dai suoi viaggi e cercò la radice di liquirizia per la tisana; poi si sedette e, preso il blocco, fece scorrere le pagine fi no al primo foglio bianco, come faceva ogni sera da quattro anni. Sorseggiò l’infuso prima di lasciare che il pennino intinto nel calamaio si abbandonasse ai ricordi della giornata colorati di un groviglio scomposto di rovi rossi trafi tti da un vecchio bastone da monta-gna. Senza più crepe.

Martedì 13 aprile 1954FOLLIAPrendi un pezzo di tee dilatalo all’infi nito.

Prendi un pezzo della tua giornatae strizzalo come un cencio bianco,torcilo forte e, se non esce nulla,legalo al polso, potrai morderlo.

Prendi un pensiero mentre si scaglia sulla tua mente,e sputalo via.

Prendi il tuo corpo,intero,e portalo in giro:penseranno cose strane di teperché li fi ssi negli occhie la gente non è abituata a essere fi ssata,ma tu nemmeno li vedraidagli abissi del tuo infi nito,

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dove affondi ogni giorno di piùe ti allontani.

Ti allontani dagli sguardi insulsi,dalle parole dementidalle etichette malvagie.

Prendi un pezzo di tee dilatalo all’infi nito.

Loro lo osserveranno,e gli daranno un nome: follia.

Ma quel nome saranno loro,non tu.

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