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In uscita il 29/2/2016 (13,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine mrzo e inizio aprile 2016

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MARIANNA SANTAGATA

OCCHI SCURI

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OCCHI SCURI Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-962-3 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Febbraio 2016 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Per M.

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Non pensare che nessuno sappia che non parli, che nessuno si preoccupi delle parole che sono rimaste incastrate dentro di te.

Ma prenditi pure il tuo tempo. Non appena potrai, mi racconterai la storia di tutto quello che hai

provato, e io farò di tutto perché le cose migliorino. L. Groff

Due cuori felici si sollevarono come aquiloni colorati in un cielo azzurrocielo.

A. Roy

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PARTE 1

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Vogliamo cominciare da quello che è accaduto, da quello che sembra sia accaduto o da ciò che avrebbe potuto essere? Perché ogni storia è tutti questi elementi insieme, incollati alle parole: immaginazione, verità indigeribili, ricordi sfocati. E anche Helle si chiede quanto sia giusto raccontarsi, sfidando il Tempo e le Memoria, soggiogandoli. Una volta disse a Jonas: «Non è questa la funzione dell'arte?» «Cosa intendi?» aveva risposto lui. «Diamo voce a tutte le possibilità irrealizzate della vita che nella realtà non ci sono state concesse. Lo facciamo attraverso le storie. Ogni storia è ricostruzione, ma anche immaginazione che attra-verso le lenti del narratore e un po' del suo cuore, si intinge nella realtà o in quello che se ne è assorbito. Ma non solo; ciò che fac-ciamo è dare spazio e tempo a ciò che non è potuto essere qui e ora, creiamo mondi paralleli, letteralmente. È questa la sopravvi-venza dell'uomo, è così che sfugge a se stesso. Attraverso l'arte, attraverso le storie dietro di essa.» Lui aveva sorriso e lei aveva guardato lontano. Oggi Helle ci pensa e ci ripensa e cerca spiegazioni, affannando in sentieri oscuri, le sicurezze di una vita intera che vacillano. Già nella sua mente, mentre si racconta in una sorta di meta narrazio-ne autolesionista, non compaiono tutti i tasselli della storia e que-sto le arreca un dolore assoluto, duro. Senza uscita. Ripensando ai tredici anni trascorsi, non ricorda i singoli minuti

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né le ore; lega a sé tranci di realtà così come la sua testa le ha as-similate. Ma così sente di non render loro giustizia, perché non è così che va davvero. Non siamo solo il riassunto di eventi impor-tanti, siamo una costruzione fatta di mattone dopo mattone, anche se uno è uguale a un altro e all'apparenza non degno di nota. Già il fatto che pensa ai fatti con l'imperfetto significa una sola cosa: tutte le azioni continue, ripetitive, monotone le si raggrup-pano nella mente fino a formare un tutt'uno, una matassa che ten-de all'unità. Una molteplicità che si fa uno. Così avviene: si dice “facevano colazione tutti i giorni e si amarono sempre più”, ma no, non si descrivono i singoli istanti di quei momenti, tutte le dannate mattine e quelle colazioni, e le frasi e i gesti di quei gior-ni, no, si concentrano in una frase soltanto come se il tempo si potesse tagliare. Come se altrimenti non si potesse spiegare come un cuore entra in un altro, come se non tutto fosse degno di men-zione. Ma non dovrebbe essere così, soprattutto quando tutto ciò di cui hai bisogno è rivivere istante per istante. Adesso Helle vor-rebbe conservarli nella memoria, uno a uno, e invece la sua mente l'ha tradita. Tradita da se stessa, che fa un riassunto della sua vita anziché riviverla per come è andata davvero. E cioè ora per ora, pensiero per pensiero, ma è un'operazione impossibile. E poi, così funziona la memoria. Non immagazziniamo certo tutto, e forse è anche meglio così. Eppure non c'è niente che Helle desideri di più. Non può ricordar-si di tutti quei giorni all'apparenza ripetitivi: non lo erano, ma non può più raccontarli come meriterebbero. Ciò le crea una tristezza indicibile. Allora fissa il mare sotto di sé, a metri di distanza, ap-pollaiata su quello strapiombo. E lei, quale storia di se stessa aveva raccontato? Quello che le era accaduto, quello che era sembrato fosse accaduto o ciò che sareb-be potuto essere? Helle non era certa di quale fosse il primo ricordo della sua vita.

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A volte pensava di essere riuscita a intrappolarne uno, il più re-moto, ma poi si accorgeva che in realtà apparteneva a foto o rac-conti di altri. Perché perfino in questo sapeva che la Storia rap-presenta la falsa imitazione di elementi reali e irreali, speranze e manomissioni. Helle nacque in ottobre, in un giorno come un altro, piuttosto ven-tilato. Nello stesso ospedale quel giorno nacquero altri quattro bambini, ma Helle non li conobbe mai né si interrogò sul caso. Sua madre era corsa all'ospedale in piena notte, in preda alle do-glie, due settimane prima del previsto. Loredana non aveva mai avvertito un tale dolore fisico nella sua vita e maledisse ogni sin-golo istante di quella notte e di quel parto, ancor più sofferto del normale perché le sembrava che quella gravidanza indesiderata avesse raccolto, in quei nove mesi, tutti i suoi sogni distrutti da tempo e le sue aspirazioni bruciate. Credeva che, una volta avuta sua figlia tra le braccia, si sarebbe sentita come tutte: pervasa dall'amore e appagata. Quando le portarono la piccola fu esatta-mente così: sentì di amarla incondizionatamente e ruppe in un pianto isterico. Ma non si sentì appagata per niente. Anzi, tutto il veleno dei pensieri che aveva fatto in quei mesi in cui era stata immobile come una mummia, congelata dalla rabbia, sembrarono esploderle dentro. L'infermiera prese la piccola, le disse che suo marito Pietro stava arrivando – era stato fuori a pesca, la sua passione, e non era arri-vato in tempo, non potendo prevedere un arrivo prematuro. «Vuole dirci come chiamare la piccola, o aspetta suo marito?» le chiese l'infermiera, e lei ancora scossa dai singhiozzi fece di no con la testa. Quando Pietro arrivò all'ospedale tutto ciò che trovò fu la sua bambina. Si sentiva un pessimo padre ancor prima di diventarlo: si era perso la nascita, si era perso l'inizio, aveva paura che, come quando non riesci più a trovare il filo di un film già cominciato, sarebbe rimasto sempre col dubbio di essersi fatto sfuggire qual-cosa di assolutamente essenziale. Però, quando vide sua figlia, la

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prima cosa che avvertì fu un forte calore al petto che sembrò sa-lirgli alla faccia, rossa. Era la cosa più bella e indifesa che avesse mai visto in vita sua, che più lo aveva intimorito e al contempo fatto sentire eccezionalmente importante. Ed era sua, era venuta da lui. Prima era niente e adesso era. Vera. Aveva il potere di dare la vita – ed era qualcosa di incomprensibi-le e magnifico. Loredana invece era sparita, la sua stanza era vuota. Pietro pensò per un attimo che fosse in bagno. La sua mente, prontamente, ela-borò una serie di giustificazioni che però si rifiutò di ascoltare: non gli ci volle niente per capirlo, lei era andata via. L'aveva sa-puto da quel momento, quando gli aveva detto che era incinta. Era l'ultima cosa che desiderava al mondo e, qualora se ne fosse accorta prima, avrebbe provveduto a togliersi da quest'impiccio. Era inciampata in un errore irreparabile e si era sentita condanna-ta a morte, eppure aveva trovato il modo di piegare le sbarre e fuggire. Chissà quali giustificazioni aveva trovato, lei, per se stes-sa. Pietro era rimasto a fissare quel letto vuoto per un po', poi si fece portare la piccola. Aveva una catenina d'argento al collo con la lettera L. Non sorrise, non si infuriò. Era sua figlia e l'avrebbe protetta da qualunque cosa, anche da sua madre. Anche dalla sua assenza, lui sarebbe bastato per entrambi. Quando l'infermiera gli chiese dove fosse sua moglie non rispose, e quando gli chiese come l'avrebbero chiamata rispose: «Helle.» Elle. Ma di certo lei non poteva ricordarlo, né aveva poteva dire di aver visto sua madre di spalle andar via. I suoi occhi erano ancora chiusi, era appena sbarcata nel mondo, si era da poco dichiarata come essere vivente e non lo sapeva neanche. Forse quello che Helle crede sia il suo primo ricordo è all'asilo, e lo sa perché nessun altro potrebbe sapere di quando chiese alla

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maestra di uscire per andare al bagno e lei glielo negò. «Maestra ma devo vomitare!» La maestra non le diede retta e lei si vomitò sulle mani chiuse a coppetta. «Adesso mi crede?» aggiunse allora Helle vittoriosa. Le sembra sciocco ricordare quest'episodio che in realtà non l'a-veva nemmeno scossa, eppure eccolo lì. Era corsa in bagno come un folletto trionfante, più contenta di aver mostrato alla maestra che si sbagliava che preoccupata per aver vomitato. E ricorda anche con precisione di essere stata chiamata alla lava-gna durante il primo mese della prima elementare. La maestra le aveva chiesto scrivere la parola “macchina” alla lavagna (a turno tutti erano andati a scrivere qualcosa). Helle alla fine non aveva fatto neanche un errore, aveva messo la doppia e la h al posto giu-sto e la maestra le chiese se sapesse già scrivere. Lei aveva annui-to fierissima, e sapeva che era così perché sentiva e ricordava di aver da qualche parte copiato le lettere per memorizzarle, prima dell'inizio dell'anno scolastico. Era stata la più brava di tutte ed era stata elogiata perché la sua era una delle parole più difficili. Le piaceva sentirsi la migliore e, ancor più di tutto, essere quella coraggiosa, la maestra diceva che le piaceva fare la leader e sen-tirsi al centro dell'attenzione, ma Helle non era mai stata d'accor-do. Del resto la sua maestra non era più intelligente di quella che aveva all'asilo, pensava, e la ignorava categoricamente. Che c'en-trava il coraggio con il bisogno di essere al centro dell'attenzione? Questo fraintendimento la offendeva. Si era sempre sentita una fortunata, aveva vissuto per tutta l'infan-zia in una bolla ovattata di amore che suo padre le aveva costruito attorno con tutta la cura possibile. Tutte le sere lei e il suo papà cenavano e poi si mettevano sul divano a guardare la tv. Era anda-ta così per anni. A volte la spuntava e lo convinceva a vedere dei cartoni, altre volte doveva adattarsi a vedere i film dei grandi, ma gli horror le piacevano molto e quindi spesso era lei a supplicarlo di metterli. Tanto, se avesse avuto paura sarebbe corsa nel letto di

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Pietro e si sarebbe addormentata lì. Il suo papà scacciava tutti i mostri che le pareva di vedere e poi aspettava che cadesse sconfit-ta dal sonno. A volte le raccontava delle storie che inventava lì per lì e la sua preferita era quella sulle sirene; diceva di averle viste, una volta, mentre era a pesca durante la notte. Erano bellis-sime. Quando Helle doveva lavarsi i capelli lui glieli pettinava come Biancaneve, così diceva. Glieli arricciava leggermente con una spazzola tonda e ci metteva almeno un'ora, ma Helle si sentiva davvero molto speciale e ne andava fiera. A volte canticchiavano perfino. Al mattino Pietro l'accompagnava a scuola e le preparava un panino – molto spesso era con il Philadelphia, il suo preferito. Intanto Helle mangiava i cereali. Una sola volta chiese di sua madre, ma era così piccola che a stento ne ha memoria. Pietro le disse: «Cosa vuoi sapere?» «Perché tutti hanno una mamma? A cosa serve?» Pietro rise di gusto. «Per avere un bambino servono un papà e una mamma. La tua è andata via molto tempo fa, tesoro, mi dispiace.» «E dove?» «Non ti dirò mai una bugia», le disse con la faccia seria. «La tua mamma è molto impegnata. Lei scrive sceneggiature, sai, scrive le trame dei film che noi guardiamo la sera. Per farlo non può sta-re anche qui con noi.» Helle bambina sgranò gli occhi, curiosissima. Tante cose le venne a sapere solo dopo. Che sua madre era quella Loredana – adesso la chiamavano tutti Lori – che avevano fotografato su una barca con quell'attore giovanissimo, che era quella in topless con le tette al vento. Pareva avesse un rapporto stretto con la cocaina, e se ne era andata via neanche il tempo di espellerla dal suo corpo; suo padre aveva lottato strenuamente per far sì che non si intromettes-se nelle loro vite. Il giorno in cui capì che sua madre se n'era andata di sua sponta-nea volontà, tutto ciò che sapeva sul suo conto erano solo quelle

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poche cose che gli erano state dette da Pietro. Fu un suo compa-gno di scuola, che, leggendo le riviste scandalistiche su cui com-pariva Lori, le disse in modo spicciolo che lo sapevano tutti che sua madre era una puttana e anche ricca e che non l'aveva mai voluta come figlia. Probabilmente quel bambino ripeteva le paro-le di sua madre, Renato si chiamava. Helle non si arrabbiò e non rispose, ma si impensierì. Trascorse giorni a rifletterci su, un metro di bambina e occhi scurissimi. Capì che in realtà a lei non importava un accidenti di sua madre. Né di sapere chi fosse, dove fosse, niente di niente. Lo decise con una tale forza che per il resto della sua vita restò ferma dell'idea che non ci può mancare qualcosa che non abbiamo mai avuto. Possiamo sentirne una strana nostalgia, come se viaggiassimo con la sensazione di aver scordato qualcosa – e poi è sempre una sciocchezza, tipo i fazzoletti o gli occhiali da sole. Non le poteva mancare una mamma se non sapeva neanche a cosa servisse. Per quanto ne sapeva, non serviva proprio a un bel niente perché lei aveva tutto. Che poi Jonas glielo diceva sempre che siamo tutti dei bugiardi colossali, invece Helle era una ossessionata dalla sincerità, perché ne era affascinata. E perché suo padre glielo ripeteva sempre che l'onestà è la più grande virtù, anche se a volte mentire può servire a proteggere dal dolore. Perciò Helle si arrabbiava quando Jonas parlava delle bugie. «Le bugie sono per i deboli», rispondeva Helle dura. «Siamo tutti deboli, Acca.» «Parla per te», rispondeva, ignorando il fatto che lui continuasse a chiamarla così. Le diceva che era sciocco chiamarsi come un let-tera e che tanto valeva chiamarsi Acca. «Un giorno verrai a dirmi che è così. E quel giorno saprai che ti sei mentita almeno una volta al giorno, tutti i giorni della tua vi-ta», incocciava Jonas.

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Dopo tredici anni Helle avrebbe voluto dirgli che aveva ragione. Quando Helle aveva nove anni Pietro le fece conoscere Anna. Era una donna magrolina, con capelli corti. Le sorrideva, ma a lei sembrò una nevrotica. La gentilezza di Anna le aveva fatto sentire per la prima volta di non essere capace di amare con leggerezza. Non voleva averci a che fare, non le piacevano i suoi modi ac-condiscendenti, la sua voce, il suo essere petulante. La vedeva come un'ombra fastidiosa. Questo succedeva perché la sola idea di perdere suo padre l'aveva letteralmente paralizzata. Si era co-struita una barriera con l'esterno che non le permetteva neanche di capire fino in fondo quanto una situazione potesse in effetti farle male. Forse anche questo, nel presente, non l'aiuta nello stendere la sua storia, le sue trance emotive. La sua forma di difesa più grande, quella di annullarsi completamente per non affrontare una diffi-coltà. Anziché diventare dispettosa o lamentarsi, si assentò. Non ne volle sapere niente, come era accaduto con sua madre, solo che stavolta c'era una persona in carne e ossa che voleva conoscerla meglio, così diceva. Tutte le sere a cena, una dopo l'altra, facen-dole passare l'appetito, riempendola di domande, scrutandola co-me una cavia, cercando il punto di rottura per abbattere gli argini. Voleva comprenderla per poterla gestire, forse voleva solo la sua approvazione per stare con Pietro. Helle avrebbe potuto solo as-secondarla. Allora decise che avrebbe lasciato questo compito a un'altra sé, mentre lei si sarebbe osservata da lontano. Pietro se ne accorse e la riempì di belle parole, ma le parole scor-revano su Helle come fiumi. Non le ascoltava perché temeva che fossero soltanto promesse vane e menzogne, e avrebbe dato qua-lunque cosa per non essere tradita da colui che rappresentava la sua famiglia. Papà era casa, era barba che punge, era odore di uomo, era calore sotto le coperte. E cura in ogni dettaglio della sua vita, attenzione.

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L'idea di un abbandono le gelava le viscere e le appesantiva il re-spiro. La notte, quando si metteva a letto nella sua stanza, non riusciva a capire come fosse stato possibile che suo padre l'avesse permesso. Sentiva la presenza di Anna, l'estranea, filtrare sotto le porte. Spifferi invasori. In realtà non credeva dentro di sé che suo padre l'avesse sostituita, questo non lo pensò mai. Ma c'era qualcosa sicuramente in quella donna che aveva catturato la mente di suo padre in un modo a lei sconosciuto. Ne avvertiva il potere e, pur non sapendoselo ancora spiegare, ne provò avversione. Sembrava che lui avesse un dispe-rato bisogno di lei, che su di lei rigettasse tutte le sue speranze di salvezza. Quando era successo che Pietro aveva cominciato ad aver bisogno di un salvagente? Detestò con tutta se stessa il potere che quella donna esercitava e si estraniò. Perché d'un tratto si sentì infelice, ma non riusciva ad accettarlo, e associò questa sua tristezza all'unico cambiamento che nella nebbia dei suoi ricordi avesse contorni limpidi. L'intru-sa. Durante quelle trance le sembrava di vagare al di fuori del suo corpo e fissarsi dall'alto. Si vedeva seduta a tavola con suo padre e Anna, si vedeva mangiare senza sentire la fame. Si vedeva anda-re a scuola e fare i compiti, e intanto si guardava dall'esterno co-me se fosse stata la vita di un'altra. Fu la prima volta in cui quest'episodio le accadde che conobbe Jonas. Anna e Pietro l'avevano portata sulla spiaggia, ma l'avevano la-sciata a giocare e si erano incamminati mano nella mano sul ba-gnasciuga. Era un giorno di fine settembre che si era succhiato via l'estate con impetuosità. Suo padre era diventato un puntino lon-tano, un granello di sabbia attaccato a un altro, portato via dal vento. Helle allora aveva costruito un aquilone e aveva deciso che sa-rebbe riuscita a farlo volare. Aveva preso un foglio di carta, l'ave-

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va tagliato a rombo e ci aveva attaccato due pennarelli con lo scotch a forma di croce. E infine l'aveva colorato sul davanti e ci aveva incollato un lungo filo di cotone. Dopo diversi tentativi, però, lo vide solo strisciare nella sabbia senza neanche alzarsi di cinque centimetri da terra. Dopo un po’ il filo di cotone si staccò perfino. Helle andò a raccoglierlo e poi si sedette, cercando un modo rapido per ripararlo, spremendosi le meningi per capire cosa non fosse andato per il verso giusto. «Non può volare», disse una voce dietro di lei facendola sobbal-zare. Si trovò di fronte un bambinetto con occhi scuri che la fissava intensamente. «Lasciami in pace», rispose d’impeto. Sentì come se qualcuno avesse invaso il suo spazio deserto e personale e d’istinto volle scacciare l’intruso. Poi, vedendo la sua faccia sgomenta, se ne vergognò. Allora mentre lui si allontanava lo richiamò. «Tu, aspetta!» Il bambino aveva uno di quei cappelli che coprono anche le orec-chie e uno strano cappotto, troppo colorato. «Cosa c’è che non va nel mio aquilone?» Quello non rispose e rimase a fissarla. Helle, inquieta, gli chiese: «Mi aiuti a farne uno?» Solo dopo un po’ il bambino si avvicinò a lei, con un sorriso trat-tenuto e sincero. «Così non va bene. C’è bisogno di carta velina, per iniziare, per-ché è più leggera: anche i pastelli sono troppo pesanti, meglio de-gli stuzzicadenti lunghi o dei rametti. Poi bisogna fargli la coda, è importante per dargli equilibrio, il cotone è troppo sottile, ci serve dello spago.» Helle lo ascoltò attentissima, guardandolo con interesse. Non ne aveva azzeccata una. Rimasero a discutere per un po’ sui materia-li, entrambi con le guance arrossate adesso per il freddo. «Aiutami a farne uno, ti prego», gli chiese infine Helle. Lui si ritrasse spaventato, come una tartaruga che rientra nel gu-

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scio. «Io… Io n-n so…» balbettò incerto. «Per favore!» lo supplicò Helle. «Domani, ci rivediamo alla stessa ora, portiamo tutto l’occorrente», esclamò Helle allora eccitata, battendo le mani. Lui per tutta risposta, avvampando, lasciò le sue mani e corse via dicendo: «Devo andare, a domani!» Lei rimase lì imbambolata a guardarlo andare via tra le folate di sabbia alzate dal vento. «Aspetta!» gli gridò. «Non mi hai neanche detto il tuo nome!» E lui senza girarsi nemmeno le gridò di rimando: «Jonas! Mi chiamo Jonas!» La loro amicizia nacque così. Ci sono quelle cose inaspettate, colpi di vento, inciampi improvvisi. Movimento del cosmo, dei microcosmi. Due microcosmi che vengono in contatto, la rottura della norma. Due mani che si uni-formano, una un po' più grande di un'altra, forse di una falange. Si stendevano perché credevano che il cielo potesse dare molte più risposte della terra. «Pensi che siamo come tutti gli altri?» le chiese Jonas una volta, quando avevano dieci anni. Lei faticò a trovare la giusta risposta, sempre spiazzata dalle sue domande troppo pretenziose per la sua età. «Non lo so», disse solo. «Ho così tante domande nella testa», continuò Jonas. «Hai mai parlato di questo con le persone grandi?» chiese Helle. «No, mai. Tu?» «No. Prima con il mio papà potevo parlare di tutto, ma adesso non mi pensa più come una volta. Non so con chi parlare.» «E la tua mamma?» «Io la mamma non ce l'ho», rispose Helle e, come al solito, di-cendolo non provò alcunché. Sua madre non gli era mai mancata e spesso si era sentita strana per questo, ma era abituata a sguardi

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compassionevoli e frasi fatte sugli angeli e via dicendo. Ma Helle non credeva che gli angeli si facessero fotografare sulle barche seminudi e se ne restava zitta ad ascoltare qualche storiella sulle grazie del Signore raccontate da chi credeva che Lori fosse morta e parlava a vanvera. «Non c'è mai stata e a me non importa niente di lei», disse invece decisa ma pacata e Jonas sembrò capire. «I miei genitori non mi hanno mai voluto, forse. Non ne sono poi così sicuro, ma ormai è troppo tardi, non trovi?» Degli uccelli volarono sopra le loro teste. I loro aquiloni erano lì per terra, colorati e imprecisi. Helle non seppe cosa dire, schiac-ciata da quelle semplici parole, allora gli prese l'indice della mano e lo strinse forte. Helle e Jonas passavano le ore a parlarne, della loro mediocrità. Lo fecero per buona parte della loro adolescenza. Nessuno dei due tentava di incoraggiare l'altro a credersi qualcosa di più di un essere umano qualunque destinato alla morte. «Perché allora nei film si dicono sempre “sei destinato a cambiare il mondo” oppure “tu vali davvero” e cose di questo genere?» chiedeva Helle. «Siamo forse dei pessimi amici?» «Forse lo siamo.» Jonas si aggiustava sempre quel ciuffo di capelli che gli ricadeva in continuazione davanti agli occhi, era un’abitudine che aveva ogni volta che rifletteva su qualcosa, e Helle lo prendeva in giro. E allora l’aria si riempiva delle loro risate. A denti scoperti, quelli di lui con un piccolo spazio al centro, e il neo di lei sotto il lab-bro, proprio a destra. Dettagli così minuscoli che sarebbero andati via con loro. Niente rattristava Helle più dell'idea di essere solo un transito in un mare di transiti. Di transiti umani alla ricerca di appigli. «Ecco cosa siamo», diceva. «Siamo dei corpi. Solo dei corpi. Sappiamo tutti dove andremo a finire eppure ci comportiamo co-

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me se così non fosse.» Helle e Jonas adolescenti distesi sullo strapiombo, mano nella mano a fissare il cielo. Le stelle, da lì, sembravano distanti solo un palmo di naso. Helle adesso avrebbe voluto dirglielo. Hei Jonas, in un mare di transiti sei tu il mio appiglio. Fine anteprima.Continua...


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